«Ma la sinistra non c'è» titolava mestamente un suo editoriale Valentino Parlato sul manifesto del 4 agosto, a proposito della risposta del PD alla prima manovra del governo. E' inevitabile, tutte le proposte moderate mostrano la corda, quando le contraddizioni della realtà si fanno estreme. Ma l'espressione di Parlato oggi dovrebbe assumere un significato più largo e in parte diverso. Ci sono altre assenze non volute e non meno importanti. Non c'è la sinistra cosiddetta radicale in Parlamento, che pure esiste nel Paese e nelle amministrazioni locali, e tuttavia non può fare sentire la sua voce in sede legislativa. Ma soprattutto non è rappresentata e non ha voce unitaria la sinistra dei movimenti, dei comitati per i referendum, delle migliaia di organizzazioni territoriali, dei blog, dei comitati studenteschi, delle donne, e insomma di tutto quel vasto arcipelago che non solo è stato protagonista delle lotte negli ultimi anni, ma è emerso come volontà politica unitaria alle recenti elezioni amministrative e ai referendum. La contraddizione qui è ancora più marcata, perché questo soggetto plurimo e frammentato ha immesso nello stanco dibattito pubblico i temi di una nuova cultura politica, coinvolgendo in una critica radicale non solo il berlusconismo, ma la strategia trentennale del capitalismo mondiale che va sotto il nome di neoliberismo.
Ora il problema è quale risposta organizzare di fronte a quella vera e propria “vendetta di classe” che è la manovra governativa nella sua pur non definitiva architettura. Come rendere di nuovo protagonisti le donne e gli uomini che hanno mostrato una capacità di far politica anche al di fuori dei partiti e che oggi sono fuori dai luoghi in cui si prendono decisioni rilevanti. E non c'è dubbio che una prima trincea su cui mobilitarsi riguarda la difesa dei risultati referendari, su cui più volte ha richiamato l'attenzione Ugo Mattei. Ma proprio tale urgenza mi spinge a riflettere su almeno due rischi che incombono sui nostri tentativi. Il primo di questi è senza dubbio di farsi logorare in una lotta di semplice difesa dei risultativi legislativi raggiunti. Il secondo è il pericolo di disperdersi in una infinità di rivendicazioni diverse, non unificate da un obiettivo di ampia portata e mobilitante. La politica dei movimenti si fa sempre con l'energia di un qualche potente motore autonomo.
A me pare evidente che oggi il problema dei problemi, in Italia come in gran parte del mondo, sia il lavoro: la sua mancanza, la sua precarietà, i sui diritti violati. Nel 2010 nel nostro Paese si contavano 2,2 milioni di disoccupati e almeno 7-8 milioni di precari. Non c'è, si può dire, famiglia con prole adulta, di qualunque ceto, dalle Alpi alla Sicilia, in cui non si ponga il problema lavoro, soprattutto per i giovani. Su tale terreno la sinistra tradizionale e la CGIL si mobiliteranno. Ci sarà probabilmente uno sciopero generale, si svolgeranno grandi manifestazioni negli spazi simbolici consueti. Sforzi organizzativi e politici importanti, certamente. Io credo, tuttavia, che oggi occorra inoltrarsi in una nuova frontiera di mobilitazione, capace di trascinare i cittadini più durevolmente nell'agorà della discussione partecipata. Non possiamo riempire per un giorno le piazze d'Italia e poi tutti a casa. Non basta più, sia come forma di lotta, che come modalità di elaborazione dei contenuti. Né è più sufficiente limitarsi a denunciare la precarietà di vita che angoscia i nostri ragazzi. Benché tale denuncia acquisti oggi, dopo i fallimenti che «il lavoro flessibile» in Italia ha dovuto registrare anche in termini di sviluppo, una forza dirompente. Essa mostra senza più schermi la vergogna di una classe dirigente che ha puntato sull'immiserimento della nostra gioventù per tenere in moto il processo di accumulazione capitalistica. Il profitto di oggi a tutti i costi, anche a costo di compromettere il futuro dei propri figli.
E tuttavia è necessario mostrare idee alternative. Occorre dunque fare tesoro della esperienza stessa dei tanti comitati di lotta, che discutono e si mobilitano periodicamente sul territorio – un modello di partecipazione che ha trovato un' estensione e una applicazione simbolicamente efficace nel movimento M-15 in Spagna – ma che ora progettino nuove possibilità di lavoro. Io credo infatti che sia possibile offrire occupazione a centinaia di migliaia di ragazzi valorizzando le aree interne della Penisola, sviluppando l'agricoltura biologica di piccola scala, sfruttando produttivamente la forestazione , tramite i lavori di manutenzione urbana, curando i beni culturali e il paesaggio, ecc. Guido Viale ne ha fatto un ricco elenco sul manifesto (17/8) intorno a un ragionamento molto condivisibile. La finalità di simili iniziative non è solo creare occupazione promuovendo economie e servizi di elevata qualità sociale, ma fare emergere nuovi gruppi dirigenti, specie fra i giovani, che debbono al più presto sostituire una generazione di politici palesemente inadeguata.
Ebbene, sono convinto che simili iniziative conseguirebbero più vantaggi . Innanzi tutto, possono raccordare una varietà ampia di tematiche (dalle energie pulite all'Università) e di rivendicazioni attorno al tema centrale del lavoro. Possono inoltre mettere insieme, nel territorio, forze importanti e spesso inerti per assenza di progetto: sindacati, associazioni, amministratori locali, ricercatori, presidenti di parchi, le forze politiche interessate e sopratutto i giovani. Il loro protagonismo è essenziale e la rete, come è noto, offre uno strumento attivo di partecipazione. Per i giovani coinvolti la riflessione sulla disoccupazione deve trasformarsi in occasione di creatività sociale, una opportunità di formazione civile e politica. Io penso che tale sforzo di concertazione su obiettivi mirati debba metter capo a quelle che chiamerei – con una vecchia espressione del movimento contadino – le Assisi del lavoro. Assemblee in cui si delineano alcune linee generali di azione. Iniziative a scala regionale, che possono magari unificarsi in seguito, ma che devono muoversi entro spazi territoriali definiti. In Calabria, in autunno, alcuni gruppi politici, sindacalisti, intellettuali proveranno a progettare qualcosa del genere. In questa regione, la sinistra a cui allude Parlato, si è disintegrata. E i problemi sociali sono enormi-
Ora, è evidente che non tutti gli obiettivi occupazionali individuabili nelle Assisi sono a portata di mano. Alcune attività sono produttive e si autofinanziano, altre necessitano di un minimo sostegno pubblico. Inoltre richiedono tempo e le condizioni in cui si verranno a trovare milioni di persone nei prossimi mesi saranno, com'è prevedibile, drammatiche. Le restrizioni della manovra costringeranno i comuni a sopprimere servizi e iniziative, chiudendo i già angusti spazi in cui tanto lavoro precario trovava qualche occasione di reddito. Ebbene, io credo che le Assisi, perché abbiano anche un forza politica immediata, debbano porre al centro delle loro rivendicazioni un obiettivo unico ben definito. Un obiettivo semplice, comprensibile a tutti, in grado di caricare l'intera gioventù italiana di una forza politica dirompente.
Questo obiettivo è il reddito universale di cittadinanza. Tema com'è noto assai dibattuto e controverso. A mio avviso si tratta di una rivendicazione storicamente ormai necessaria. La nostra società ha sempre meno bisogno di lavoro per produrre merci e servizi, e tuttavia, mentre pone nel reddito la base della cittadinanza e della stessa vita delle persone, condanna chi ne è privo all'angoscia quotidiana. E questi condannati sono ormai tanti, crescono di giorno in giorno. Occorre cominciare a separare la percezione del reddito dalle attività produttive. Non possiamo più attendere lo sviluppo che creerà finalmente la piena occupazione. Questa è una nostalgia utopica dei vecchi sviluppisti. Oggi saremmo in una diversa condizione se l'opposizione organizzata del movimento operaio avesse potuto utilizzare l'enorme incremento della produttività del lavoro dell'ultimo mezzo secolo per un dimezzamento della giornata lavorativa. Meno lavoro per ognuno, più occupazione per tutti. Ma così non è stato e i rapporti di forza attuali, la cultura dominante, non rendono praticabile il progetto.
Ma il reddito di cittadinanza sì, è un obiettivo alla portata, un grimaldello potente in grado di sollevare una forza d'urto formidabile contro le attuali classi dirigenti. Non solo perché in alcuni Paesi d'Europa è attivo da tempo. E' probabile che diventi una condizione di sopravvivenza dello stesso sistema, che ne cambi strutturalmente la natura. Il capitale è un mostro dalle mille vite. Ma ha un punto di fragilità insormontabile: per realizzare profitti, le merci sempre più abbondanti che produce in ogni angolo del mondo, deve venderle. Altrimenti anche il rutilante sopramondo finanziario che lo sovrasta si sgonfia. Come una bolla, per l'appunto. Nel suo Finanzcapitalism, Luciano Gallino ha ricordato che nel 2009, in piena crisi, sono stati spesi in pubblicità, nel mondo, poco meno di 550 miliardi di dollari. Consigliamo sommessamente di passare il danaro direttamente ai consumatori. D'altra parte, restando all'Italia, il gruppo di Sbilanciamo.info ha mostrato, conla sua contromanovra quante risorse si possono ricavare, in una società opulenta, qual è l'Italia, nonostante tutto. La ricchezza trabocca, ma dalle mani di pochi. E tuttavia sarà sempre più difficile per chiunque, se si abbraccia un tale obiettivo, replicare che «non ci sono i soldi», mentre lo Stato centrale, tanto per fare un esempio, sperpera ingenti risorse per una guerra lontana e da gran tempo perduta.
www.amigi.org. Quest'articolo è stato inviato contemporaneamente a il manifesto
All´epoca dell´Illuminismo, di Bacone, Cartesio o Hegel, in nessun luogo della terra il livello di vita era più che doppio rispetto a quello delle aree più povere. Oggi il paese più ricco, il Qatar, vanta un reddito pro capite 428 volte maggiore di quello del paese più povero, lo Zimbabwe. E si tratta, non dimentichiamolo, di paragoni tra valori medi, che ricordano la proverbiale statistica dei due polli. Il tenace persistere della povertà su un pianeta travagliato dal fondamentalismo della crescita economica è più che sufficiente a costringere le persone ragionevoli a fare una pausa di riflessione sulle vittime collaterali dell´«andamento delle operazioni».
L´abisso sempre più profondo che separa chi è povero e senza prospettive dal mondo opulento, ottimista e rumoroso – un abisso già oggi superabile solo dagli arrampicatori più energici e privi di scrupoli – è un´altra evidente ragione di grande preoccupazione. Come avvertono gli autori dell´articolo citato, se l´armamentario sempre più raro, scarso e inaccessibile che occorre per sopravvivere e condurre una vita accettabile diverrà oggetto di uno scontro all´ultimo sangue tra chi ne è abbondantemente provvisto e gli indigenti abbandonati a se stessi, la principale vittima della crescente disuguaglianza sarà la democrazia. Ma c´è anche un´altra ragione di allarme, non meno grave. I crescenti livelli di opulenza si traducono in crescenti livelli di consumo; del resto, arricchirsi è un valore tanto desiderato solo in quanto aiuta a migliorare la qualità della vita, e «migliorare la vita» (o almeno renderla un po´ meno insoddisfacente) significa, nel gergo degli adepti della chiesa della crescita economica, ormai diffusa su tutto il pianeta, «consumare di più». I seguaci di questo credo fondamentalista sono convinti che tutte le strade della redenzione, della salvezza, della grazia divina e secolare e della felicità (sia immediata che eterna) passino per i negozi. E più si riempiono gli scaffali dei negozi che attendono di essere svuotati dai cercatori di felicità, più si svuota la Terra, l´unico contenitore/produttore delle risorse (materie prime ed energia) che occorrono per riempire nuovamente i negozi: una verità confermata e ribadita quotidianamente dalla scienza, ma (secondo uno studio recente) recisamente negata nel 53 per cento degli spazi dedicati al tema della «sostenibilità» dalla stampa americana, e trascurata o taciuta negli altri casi.
Quello che viene ignorato, in questo silenzio assordante che ottenebra e deresponsabilizza, è l´avvertimento lanciato due anni fa da Tim Jackson nel libro Prosperità senza crescita: entro la fine di questo secolo «i nostri figli e nipoti dovranno sopravvivere in un ambiente dal clima ostile e povero di risorse, tra distruzione degli habitat, decimazione delle specie, scarsità di cibo, migrazioni di massa e inevitabili guerre». Il nostro consumo, alimentato dal debito e alacremente istigato/ assistito/amplificato dalle autorità costituite, «è insostenibile dal punto di vista ecologico, problematico da quello sociale e instabile da quello economico». Un´altra delle osservazioni raggelanti di Jackson è che in uno scenario sociale come il nostro, in cui un quinto della popolazione mondiale gode del 74 per cento del reddito annuale di tutto il pianeta, mentre il quinto più povero del mondo deve accontentarsi del 2 per cento, la diffusa tendenza a giustificare le devastazioni provocate dalle politiche di sviluppo economico richiamandosi alla nobile esigenza di superare la povertà non è altro che un atto di ipocrisia e un´offesa alla ragione: e anche questa osservazione è stata pressoché universalmente ignorata dai canali d´informazione più popolari (ed efficaci), o nel migliore dei casi è stata relegata alle pagine, e fasce orarie, notoriamente dedicate a ospitare e dare spazio a voci abituate e rassegnate a predicare nel deserto.
Già nel 1990, una ventina d´anni prima del volume di Jackson, in Governare i beni collettivi Elinor Ostrom aveva avvertito che la convinzione propagandata senza sosta secondo cui le persone sono naturalmente portate a ricercare profitti di breve termine e ad agire in base al principio «ognun per sé e Dio per tutti»non regge alla prova dei fatti. La conclusione dello studio di Ostrom sulle imprese locali che operano su piccola scala è molto diversa: nell´ambito di una comunità le persone tendono a prendere decisioni che non mirano solo al profitto. È tempo di chiedersi: quelle forme di «vita in comunità» che la maggior parte di noi conosce unicamente attraverso le ricerche etnografiche sulle poche nicchie oggi rimaste da epoche passate, «superate e arretrate», sono davvero qualcosa di irrevocabilmente concluso? O, forse, sta per emergere la verità di una visione alternativa della storia (e con essa di una concezione alternativa del "progresso"): che cioè la rincorsa alla felicità è solo un episodio, e non un balzo in avanti irreversibile e irrevocabile, ed è stata/è/si rivelerà, sul piano pratico, una semplice deviazione una tantum, intrinsecamente e inevitabilmente temporanea?
Questo brano è un estratto dalla nuova prefazione di Bauman alla nuova edizione di Modernità liquidità in uscita per Laterza.
La socialdemocrazia conosce il suo apogeo nel periodo che va dal 1945 alla fine degli anni '60. Quando rappresentava un'ideologia e un movimento che si battevano per l'uso delle risorse dello stato volto alla ridistribuzione alla maggioranza della popolazione in varie forme concrete: allargamento dei servizi educativi e sanitari; garanzia di livelli di reddito permanenti attraverso programmi per sostenere i gruppi non salariati, in particolare bambini e vecchi, e programmi per ridurre la disoccupazione. La socialdemocrazia prometteva un futuro sempre migliore alle generazioni future, una specie di incremento continuo del reddito nazionale e familiare. Quello che si chiamava il welfare state. Un'ideologia che rifletteva la convinzione che il capitalismo si potesse riformare, che potesse assumere un volto più umano.
I socialdemocratici erano forti nell'Europa occidentale, in Gran Bretagna, Australia e Nuova Zelanda, in Canada, e negli Stati Uniti (dove erano definiti Democratici del New Deal) - in breve nei paesi ricchi del sistema-mondo, che costituivano quello che si sarebbe potuto chiamare il mondo pan-europeo. Tale fu il loro successo che anche gli oppositori di centrodestra sottoscrissero l'idea del welfare state, cercando solo di ridurne costi ed ampiezza. Nel resto del mondo gli Stati cercarono di saltare sul carro del vincitore con progetti di sviluppo nazionale.
Quello della socialdemocrazia era allora un programma di grande successo. Sostenuto da due realtà dei tempi: l'incredibile espansione dell'economia-mondo, che creò le risorse che resero possibile la ridistribuzione; e l'egemonia degli Stati Uniti nel sistema-mondo, che ne assicurava la relativa stabilità, e soprattutto l'assenza di violenza grave all'interno di quella ricca zona.
Ma il quadro roseo non doveva durare. Le due realtà vennero meno. L'economia-mondo smise di espandersi ed entrò in un lungo periodo di stagnazione, nel quale ancora viviamo; e gli Stati Uniti cominciarono il loro lungo, seppur lento, declino da potenza egemonica. E tutte e due queste nuove realtà hanno subito una considerevole accelerazione nel XXI secolo.
L'inizio della nuova era, negli anni '70, vide la fine del consensus centrista in merito alle virtù del welfare state e dello sviluppo diretto dallo Stato. Sostituito da una nuova ideologia più di destra, variamente definita come neoliberista o Washington Consensus, che predicava la fiducia nei mercati anziché nei governi. Questo programma si diceva basato sulla presunta realtà nuova della globalizzazione rispetto alla quale non c'era alternativa.
Implementare i programmi neoliberisti sembrava preservare l'incremento dei livelli di crescita sui mercati azionari ma al tempo stesso conduceva anche a un incremento di debito, disoccupazione e minore reddito reale per la grande maggioranza della popolazione mondiale. E nondimeno i partiti che erano stati le colonne dei programmi socialdemocratici di centrosinistra si andavano a spostando progressivamente a destra, negando o riducendo il sostegno al welfare state ed accettando la necessità di ridurre drasticamente il ruolo dei governi riformisti.
Gli effetti negativi sulla maggioranza della popolazione si fecero sentire perfino nei paesi del ricco mondo pan-europeo, e tanto più acutamente furono avvertiti nel resto del mondo. Cosa potevano fare i loro governi? Cominciarono ad approfittare del relativo declino economico e geopolitico degli Stati Uniti (e più in generale del mondo pan-europeo) concentrandosi sul proprio sviluppo nazionale. Usarono il potere degli apparati di Stato e dei costi di produzione generalmente più bassi per divenire nazioni emergenti. Più erano a sinistra i loro slogan e anche il loro impegno politico e più fortemente sembravano intenzionati a svilupparsi.
Ma potrà funzionare per loro come un tempo aveva funzionato per il mondo pan-europeo dopo il 1945? Questo è tutt'altro che scontato, nonostante i notevoli tassi di crescita fatti registrare da alcuni di questi paesi, in particolare i cosiddetti Bric (Brasile, Russia, India, Cina) negli ultimi cinque o dieci anni. Perché sono troppe le differenze importanti tra lo stato attuale del sistema-mondo e quello del periodo immediatamente successivo al 1945.
Uno: i veri livelli dei costi di produzione, nonostante gli sforzi neoliberisti per ridurli, oggi sono di fatto notevolmente più alti di come erano dopo il 1945, e minacciano le reali possibilità di accumulazione di capitale. Questo rende il capitalismo come sistema meno attraente per i capitalisti, i più attenti dei quali cercano modi alternativi di assicurare i loro privilegi.
Due: la capacità delle nazioni emergenti di incrementare l'acquisizione di ricchezza nel breve periodo ha messo a dura prova la disponibilità delle risorse per provvedere ai loro bisogni, creando così una corsa frenetica all'acquisizione di terra, acqua, risorse alimentari ed energetiche che non solo porta a lotte senza quartiere ma che a sua volta sta riducendo la capacità mondiale dei capitalisti di accumulare capitale. Tre: l'enorme espansione della produzione capitalistica ha affaticato seriamente l'ecosistema, tanto che il pianeta è entrato in una crisi climatica le cui conseguenze minacciano la qualità della vita nel mondo. Ha anche dato luogo alla nascita di un movimento di riconsiderazione di crescita e sviluppo come obiettivi economici. Questa domanda crescente di una prospettiva di civilizzazione è quello che in America Latina chiamano il movimento per il buen vivir.
Quattro: le richieste dei gruppi subordinati di partecipare ai processi decisionali mondiali hanno cominciato ad essere rivolte non solo ai capitalisti ma anche ai governi di sinistra che promuovono lo sviluppo nazionale.
Quinto: la combinazione di tutti questi fattori, unita al declino visibile della potenza un tempo egemonica, ha creato un clima di fluttuazioni costanti e violente nell'economia-mondo e nel sistema geopolitico, cosa che ha finito per paralizzare gli imprenditori come i governi del mondo. Il livello di incertezza non solo sul lungo periodo ma anche su quello brevissimo ha subito un'escalation impressionante e con esso è salito anche il livello di violenza. La soluzione socialdemocratica è diventata un'illusione. La questione è da cosa sarà sostituita per la maggioranza delle popolazioni mondiali.
(Traduzione di Maria Baiocchi)
Sarà un governo della Bce impersonato da un banchiere o da un confindustriale osannato dai legalitari a distruggere la società italiana, e i prossimi anni saranno peggiori dei venti che abbiamo alle spalle. È meglio saperlo.
«L'operaio tedesco non vuol pagare il conto del pescatore greco», dicono i pasdaran dell'integralismo economicista. Mettendo lavoratori contro lavoratori la classe dirigente finanziaria ha portato l'Europa sull'orlo della guerra civile. Le dimissioni di Stark segnano un punto di svolta: un alto funzionario dello stato tedesco alimenta l'idea (falsa) che i laboriosi nordici stiano sostenendo i pigri mediterranei, mentre la verità è che le banche hanno favorito l'indebitamento per sostenere le esportazioni tedesche. Per spostare risorse e reddito dalla società verso le casse del grande capitale, gli ideologi neoliberisti hanno ripetuto un milione di volte una serie di panzane, che grazie al bombardamento mediatico e alla subalternità culturale della sinistra sono diventati luoghi comuni, ovvietà indiscutibili, anche se sono pure e semplici contraffazioni. Elenchiamo alcune di queste manipolazioni che sono l'alfa e l'omega dell'ideologia che ha portato il mondo e l'Europa alla catastrofe.
Cinque manipolazioni
Prima manipolazione: riducendo le tasse ai possessori di grandi capitali si favorisce l'occupazione. Perché? Non l'ha mai capito nessuno. I possessori di grandi capitali non investono quando lo stato si astiene dall'intaccare i loro patrimoni, ma solo quando pensano di poter far fruttare i loro soldi. Perciò lo stato dovrebbe tassare progressivamente i ricchi per poter investire risorse e creare occupazione. La curva di Laffer che sta alla base della Reaganomics è una patacca trasformata in fondamento indiscutibile dell'azione legislativa della destra come della sinistra negli ultimi tre decenni.
Seconda manipolazione: prolungando il tempo di lavoro degli anziani, posponendo l'età della pensione si favorisce l'occupazione giovanile. Si tratta di un'affermazione evidentemente assurda. Se un lavoratore va in pensione si libera un posto che può essere occupato da un giovane, no? E se invece l'anziano lavoratore è costretto a lavorare cinque, sei, sette anni di più di quello che era scritto nel suo contratto di assunzione, i giovani non potranno avere i posti di lavoro che restano occupati. Non è evidente? Eppure le politiche della destra come della sinistra da tre decenni a questa parte sono fondate sul misterioso principio che bisogna far lavorare di più gli anziani per favorire l'occupazione giovanile. Risultato effettivo: i detentori di capitale, che dovrebbero pagare una pensione al vecchietto e un salario al giovane assunto, pagano invece solo un salario allo stanco non pensionato, e ricattano il giovane disoccupato costringendolo ad accettare ogni condizione di precariato.
Terza manipolazione: occorre privatizzare la scuola e i servizi sociali per migliorarne la qualità grazie alla concorrenza. L'esperienza trentennale mostra che la privatizzazione comporta un peggioramento della qualità, perché lo scopo del servizio non è più soddisfare un bisogno pubblico ma aumentare il profitto privato. E quando le cose cominciano a funzionare male, come spesso accade, allora le perdite si socializzano perché non si può rinunciare a quel servizio, mentre i profitti continuano a essere privati. Quarta manipolazione: i salari sono troppo alti, abbiamo vissuto al disopra dei nostri mezzi dobbiamo stringere la cinghia per essere competitivi. Negli ultimi decenni il valore reale dei salari si è ridotto drasticamente, mentre i profitti si sono dovunque ingigantiti. Riducendo i salari degli operai occidentali grazie alla minaccia di trasferire il lavoro nei paesi di nuova industrializzazione dove il costo del lavoro era e rimane a livelli schiavistici, il capitale ha ridotto la capacità di spesa. Perché la gente possa comprare le merci che altrimenti rimangono invendute, si è allora favorito l'indebitamento in tutte le sue forme. Questo ha indotto dipendenza culturale e politica negli attori sociali (il debito agisce nella sfera dell'inconscio collettivo come colpa da espiare), e al tempo stesso ha fragilizzato il sistema esponendolo come ora vediamo al collasso provocato dall'esplodere della bolla. Quinta manipolazione: l'inflazione è il pericolo principale, al punto che la Banca centrale europea ha un unico obiettivo dichiarato nel suo statuto, quello di contrastare l'inflazione costi quel che costi. Cos'è l'inflazione? È una riduzione del valore del denaro o piuttosto un aumento dei prezzi delle merci.
È chiaro che l'inflazione può diventare pericolosa per la società, ma si possono creare dei dispositivi di compensazione (come era la scala mobile che in Italia venne cancellata nel 1984, all'inizio della gloriosa "riforma" neoliberista). Il vero pericolo per la società è la deflazione, strettamente collegata alla recessione, riduzione della potenza produttiva della macchina collettiva. Ma chi detiene grandi capitali, piuttosto che vederne ridotto il valore dall'inflazione, preferisce mettere alla fame l'intera società, come sta accadendo adesso. La Banca europea preferisce provocare recessione, miseria, disoccupazione, impoverimento, barbarie, violenza, piuttosto che rinunciare ai criteri restrittivi di Maastricht, stampare moneta, dando così fiato all'economia sociale, e cominciando a redistribuire ricchezza. Per creare l'artificiale terrore dell'inflazione si agita lo spettro (comprensibilmente temuto dai tedeschi) degli anni '20 in Germania, come se causa del nazismo fosse stata l'inflazione, e non la gestione che dell'inflazione fece il grande capitale tedesco e internazionale.
Moltiplicazione del disastro
Ora tutto sta crollando, è chiaro come il sole. Le misure che la classe finanziaria sta imponendo agli stati europei sono il contrario di una soluzione: sono un fattore di moltiplicazione del disastro. Il salvataggio finanziario viene infatti accompagnato da misure che colpiscono il salario (riducendo la domanda futura), e colpiscono gli investimenti nella istruzione e nella ricerca (riducendo la capacità produttiva futura), quindi immediatamente inducono recessione. La Grecia ormai lo dimostra. Il salvataggio europeo ne ha distrutto le capacità produttive, privatizzato le strutture pubbliche, demoralizzato la popolazione. Il prodotto interno lordo è diminuito del 7% e non smette di crollare. I prestiti vengono erogati con interessi talmente alti che anno dopo anno la Grecia sprofonda sempre più nel debito, nella colpa, nella miseria e nell'odio antieuropeo. La cura greca viene ora estesa al Portogallo, alla Spagna, all'Irlanda, all'Italia. Il suo unico effetto è quello di provocare uno spostamento di risorse dalla società di questi paesi verso la classe finanziaria. L'austerità non serve affatto a ridurre il debito, al contrario, provoca deflazione, riduce la massa di ricchezza prodotta e di conseguenza provocherà un ulteriore indebitamento, fin quando l'intero castello crollerà.
A questo i movimenti debbono essere preparati. La rivolta serpeggia nelle città europee. In qualche momento, nel corso dell'ultimo anno, ha preso forma in modo visibile, dal 14 dicembre di Roma, Atene e Londra, all'acampada del maggio-giugno di Spagna, fino alle quattro notti di rabbia dei sobborghi d'Inghilterra. È chiaro che nei prossimi mesi l'insurrezione è destinata a espandersi, a proliferare. Non sarà un'avventura felice, non sarà un processo lineare di emancipazione sociale.
La società dei paesi è stata disgregata, fragilizzata, frammentata da trent'anni di precarizzazione, di competizione selvaggia nel campo del lavoro, e da trent'anni di avvelenamento psicosferico prodotto dalle mafie mediatiche, gestite da gente come Berlusconi e Murdoch.
Effetti della desolidarizzazione
L'insurrezione che viene sarà un processo non sempre allegro, spesso venato da fenomeni di razzismo, di violenza autolesionista. Questo è l'effetto della desolidarizzazione che il neoliberismo e la politica criminale della sinistra hanno prodotto nell'esercito proliferante e frammentato del lavoro. Nei prossimi cinque anni possiamo attenderci un diffondersi di fenomeni di guerra civile interetnica, come già si è intravisto nei fumi della rivolta inglese, ad esempio negli episodi violenti di Birmingham. Nessuno potrà evitarlo, e nessuno potrà dirigere quell'insurrezione, che sarà un caotico riattivarsi delle energie del corpo della società europea troppo a lungo compresso, frammentato e decerebrato.
Il compito che i movimenti debbono svolgere non è provocare l'insurrezione, dato che questa seguirà una dinamica spontanea e ingovernabile, ma creare (dentro l'insurrezione o piuttosto accanto, in parallelo) le strutture conoscitive, didattiche, esistenziali, psicoterapeutiche, estetiche, tecnologiche e produttive che potranno dare senso e autonomia a un processo in larga parte insensato e reattivo.
Nell'insurrezione ma anche fuori di essa dovrà crescere il movimento di reinvenzione d'Europa, ponendosi come primo obiettivo l'abbattimento dell'Europa di Maastricht, il disconoscimento del debito e delle regole che l'hanno generato e lo alimentano, e lavorando alla creazione di luoghi di bellezza e di intelligenza, di sperimentazione tecnica e politica. La caduta d'Europa (inevitabile) non sarà un fatto da salutare con gioia, perché aprirà la porta a processi di violenza nazionalista e razzista. Ma l'Europa di Maastricht non può essere difesa.
Compito del movimento sarà proprio riarticolare un discorso europeo basato sulla solidarietà sociale, sull'egualitarismo, sulla riduzione del tempo di lavoro, sulla redistribuzione della ricchezza, sull'esproprio dei grandi capitali, sulla cancellazione del debito, e sulla nozione di sconfinamento, di superamento della territorialità della politica. Abolire Maastricht, abolire Schengen, per ripensare l'Europa come forma futura dell'internazionale, dell'uguaglianza e della libertà (dagli stati, dai padroni e dai dogmi).
Lo scenario Italia
È probabile che il prossimo passaggio dell'insurrezione europea abbia come scenario l'Italia. Mentre Berlusconi ci ipnotizza con i suoi funambolismi da vecchio mafioso, eccitando l'indignazione legalitaria, Napolitano ci frega il portafoglio. La divisione del lavoro è perfetta. Gli indignati d'Italia credono che basti ristabilire la legalità perché le cose si rimettano a funzionare decentemente, e credono che i diktat europei siano la soluzione per le malefatte della casta mafiosa italiana. Dopo trent'anni di Minzolini e Ferrara non ci dobbiamo meravigliare che si possa credere a favole di questo genere. Il Purgatorio che ci aspetta è invece più complicato e lungo. Dovremo forse passare attraverso un'insurrezione legalitaria che porterà al disastro di un governo della Banca centrale europea impersonato da un banchiere o da un confindustriale osannato dai legalitari.
Sarà quel governo a distruggere definitivamente la società italiana, e i prossimi anni italiani saranno peggiori dei venti che abbiamo alle spalle. È meglio saperlo. Ed è anche meglio sapere che una soluzione al problema italiano non si trova in Italia, ma forse (e sottolineo forse) si troverà nell'insurrezione europea.
La trasmissione l'Infedele di lunedì, dedicata da Gad Lerner alla manovra economica e al problema del debito pubblico, induce ad alcune riflessioni. Tralascio gli interventi di apologia dell'evasore-imprenditore (a cui Arzignano ha dedicato un monumento) e quello sul suo ispiratore - il governo Berlusconi - affidata a un sottosegretario addestrato a schivare le domande. Tralascio anche quello di Maurizio Landini che ha spiegato che se siamo a questo punto è il meccanismo che ci ha portato fin qui a dover essere cambiato.
Oltre a loro erano presenti un (ex) banchiere, autore di una proposta sensata di imposta patrimoniale, un giornalista economico che sa radiografare con cura i bilanci aziendali e un economista che è una delle migliori voci nel campo dell'analisi finanziaria a livello internazionale: tutti e tre fortemente critici non solo nei confronti del governo Berlusconi e delle sue manovre, ma anche - in parte - delle politiche dell'Unione Europea.
La prima riflessione è questa: il tratto caratteristico della nostra epoca è non solo il fatto che i governi dell'Occidente hanno lasciato - anzi, affidato - alle banche e all'alta finanza il governo dell'economia e, con esso, quello della vita di miliardi di persone, ritrovandosi poi del tutto impotenti di fronte al loro strapotere; ma anche il fatto che l'interpretazione e - direbbe Vendola - la "narrazione" di quel che succede è stata affidata, in forma pressoché monopolistica, agli economisti; che sono tutti, keynesiani o liberisti, adepti di un'unica scuola, di un'unica religione, di un'unica ossessione: la "crescita". Arte, storia, letteratura, filosofia, scienze della natura e della terra possono essere piacevoli diversivi. Ma quando si giunge al dunque - che fare? - l'unica verità che conta è la loro.
Un banchiere, anche se "ex" e "democratico", vede il mondo dalla scrivania di una banca: se la banca non va il mondo si ferma; e non c'è altro modo per rimetterlo in moto che quello di far ripartire la banca. Il che è certo vero nella "normalità": finché il "sistema" funziona. Ma se si inceppa, il banchiere perde la bussola. Persino Mario Draghi, messo al vertice di due delle massime istituzioni finanziarie del mondo - Bce e Financial Stability Board - per l'esperienza acquisita nella banca Goldman & Sachs, alla domanda che cosa fare se uno Stato fallisce ha risposto più o meno: «non lo so, non ci sono precedenti». Intanto non è vero: guardando intorno e indietro nella storia i fallimenti di uno Stato sono caterve. Ma non va dimenticato che Goldman & Sachs è sotto accusa - tra l'altro - per aver piazzato in giro mutui subprime da una parte mentre giocava al ribasso contro di essi dall'altra; e per aver aiutato il governo della Grecia pre-Papadopulos prima a indebitarsi fino al collo, poi a falsificare i conti presentati all'Unione Europea. Infine, vista la situazione in cui ci troviamo - non solo in Italia, ma in buona parte dell'Europa - varrebbe comunque la pena approfondire, nella misura del possibile, la materia.
Anche per gli economisti sembra che il cono di luce della loro disciplina si fermi alle "leggi" di funzionamento - ordinato o meno - del sistema. Al di là di quel cono non c'è che il caos. Eppure quelle non sono leggi divine o "di natura", bensì il prodotto di un agire umano complesso e variabile. Ma un non-economista che si sente ripetere tutti i giorni che bisogna fare questo e quello; e poi ancora quello e questo (tutte cose, comunque, a suo danno: per lo meno nell'immediato. E non si tratta solo delle grottesche "manovre" del governo Berlusconi, ma anche e soprattutto delle scelte della Bce e dei governi dell'Unione Europea), altrimenti si precipita nel caos, potrà pur chiedersi che cosa gli può succedere se questo e quello non vengono fatti, o se una volta fatti non funzionano. Tanto più che tutto viene deciso nelle "alte sfere"; tanto alte che non si sa nemmeno dove siano. Chi conosce veramente i soggetti, uomini e istituzioni, che tengono in mano, insieme al debito pubblico, il destino di milioni di persone?
In queste condizioni il meno che si possa pensare è che al default, cioè al disastro, ci si arriverà - o ci si può arrivare - in ogni caso: anche perché non è una cosa che possa turbare più di tanto quelle "alte sfere" da cui dipende il futuro del mondo. Loro se la caveranno bene comunque, come se la sono cavata benissimo finora. Ma è inevitabile pensare che prima di arrivare al disastro, proprio loro stanno provvedendo - e in che modo lo capiamo bene tutti, perché tutto avviene sotto i nostri occhi e a nostre spese - a spennare tutti quelli che si possono spennare e a razziare tutto quello che si può razziare.
Insomma, che cosa passa per la mente dei non-economisti, e in quali comportamenti - certamente "irrazionali" dal punto di vista delle discipline economiche - ciò si possa tradurre, questo la scienza economica non lo sa; e con lei non lo sanno gli economisti. Per cercare di capirlo - e magari per cercare di orientarlo - ci vuole un altro tipo di sapere, che ha poco a che fare con le "leggi", i numeri e i diagrammi dell'economia. E che non è la sociologia o la psicologia, per lo meno quelle attuali, che da anni scimmiottano l'economia, che a sua volta scimmiotta la fisica; proprio quando quest'ultima sta abbandonando gran parte delle sue certezze. Un passo avanti sarebbe il recupero di quello che il pensiero di un secolo fa aveva chiamato "sociologia comprendente" e che un altro secolo prima, e ancor prima di scrivere La ricchezza delle nazioni, Adam Smith aveva cercato di definire con una Teoria dei sentimenti morali.
In termini meno dotti, per capire che cosa ci succede intorno, soprattutto quando il trantran di un mondo ordinato si spezza, bisogna in qualche modo partecipare del sentire degli altri; perché è questo il fondamento ultimo della vita associata: la capacità di "mettersi nei panni" altrui. Un banchiere dovrebbe provare a mettersi nei panni di un cittadino qualunque (un non-economista); un imprenditore (o padrone) in quelli dei suoi operai; un governante in quelli dei governati; ma anche un lavoratore a tempo indeterminato in quelli di un precario (e tutti quanti in quelli di un disoccupato); gli italiani in quelli di un migrante e un uomo in quelli di una donna. E viceversa. Non è così facile. Ed è sicuramente più facile farlo dall'alto verso il basso che viceversa, essendo noto che la piramide sociale è molto più trasparente vista dal vertice che dalla base (mentre quello che giace e da tempo si accumula ai suoi margini è oscuro per tutti; o quasi). Ci abbiamo messo vent'anni a capire di che pasta è fatta la vita quotidiana di Berlusconi. Perché il denaro arriva là dove neppure l'immaginazione riesce ad arrivare. Ed altri venti per capire i mezzi e i modi dell'irresistibile ascesa di Murdoch.
Provando a mettersi nei panni altrui gli economisti - e i banchieri, ma questi per lo più lo sanno già - comincerebbero a capire come mai i loro numeri e le loro leggi non possono che porli in un rapporto di contrapposizione frontale con il sentire di chi è alle prese con le conseguenze delle loro visioni economiche. E che i loro diagrammi sono dei coltelli piantati nelle carni di chi vive le difficoltà di una vita sempre più precaria. E tanto più quanto più quel loro "cono di luce" gli impedisce di vedere - e di aiutare a guardare - oltre. La loro scienza è peraltro molto effimera: basta pensare alla cosiddetta curva di Laffer - uno scarabocchio disegnato su un fazzoletto di carta da un oscuro economista durante una cena con Reagan - con la quale si dimostra che abbassando le tasse ai ricchi aumenta l'occupazione e il benessere dei poveri. Eppure essa ha ispirato trent'anni di politiche economiche a livello planetario, senza che nessuno abbia trovato la maniera di urlare contro un'infamia del genere, che, anzi, ispira ancora gli editoriali del Corriere di Alberto Alesina.
La complicità della comunità degli economisti si manifesta in questo: che il cono di luce della loro disciplina finisce là dove si ferma la "crescita" o la possibilità di farla "riprendere". Al di là di questo confine la disciplina non è più operativa.
Tutti sanno che la Grecia non ce la può fare e non ce la farà mai a risalire la china in cui l'hanno precipitata gli imbrogli della Goldman & Sachs. Forse la sua povera economia verrà tenuta a balia dall'Unione Europea per i prossimi decenni (la Grecia è così piccola!). Ma è già di fatto in default e nessuno osa dirlo. Ma se il cerchio si allarga - e si allarga, anche e soprattutto grazie al governo Berlusconi: ai suoi traffici, alle sue cricche, alle sue menzogne, alla ragnatela delle sue complicità, ma questo si poteva capire già anni fa - il default dell'Italia, e forse dell'euro, si fa sempre più probabile. E allora, perché non parlarne? Forse adesso si capisce perché i lavoratori che sono scesi in piazza il 6 settembre ne sanno, o ne immaginano, più di quello che gli economisti ne pensano o ne dicono.
Nel medioevo la terapia più accreditata per guarire i malati gravi era il salasso, che i cerusici praticavano con entusiasmo. La cura riusciva anche se di solito il paziente moriva. Che i politici di Europa e Stati uniti si comportino come medici di Molière è da tempo sotto gli occhi di tutti. E tutti possono constatare quali rovinose conseguenze hanno le misure di austerità imposte con la forza (del credito) a Grecia, Portogallo, Spagna, Irlanda e Italia dai banchieri, da Angela Merkel e Nicholas Sarkozy. Questi tagli decurtano la capacità di spendere nei popoli cui sono inflitti. Minore spesa significa meno beni prodotti o in commercio. Quindi meno posti di lavoro. Quindi ancora minore domanda in una spirale recessiva. E per di più, minori redditi generano meno entrate fiscali, quindi in fin dei conti il rigore accresce il disavanzo pubblico invece di sanarlo: più sono austeri, più gli stati devono ricorrere all'indebitamento. L'austerità funziona esattamente da salasso sul corpo economico delle nazioni. Se ne è accorto ieri anche il New York Times che in un editoriale ha giudicato controproducente il rigore fiscale che infiamma i dirigenti politici europei e statunitensi definendo «punitive» le misure imposte ai paesi debitori.
A preoccupare di più è l'arrestarsi della locomotiva tedesca, la cui economia aveva finora trainato l'Europa: nel secondo trimestre è cresciuta solo dello 0,1% . Nell'economia tedesca la voce più importante dell'export è costituita dalle macchine utensili: non solo o non tanto Mercedes, quanto robot per le catene di montaggio. La Germania frena non solo perché il mercato europeo delle auto tedesche si è ridotto proprio a causa delle politiche di austerità imposte da Francoforte e Berlino, ma perché la «fabbrica del mondo», la Cina, ha ordinato meno macchinari per la produzione industriale.
Si sta sgretolando l'assunto implicito in tutte le politiche di austerità occidentali, e cioè che la Cina da sola (o i paesi cosiddetti Bric nel loro insieme: Brasile, Russia e India, oltre alla Cina) possano da soli trainare la ripresa mondiale. La Cina potrebbe farlo solo a patto di una straordinaria espansione dei consumi interni, che però non può permettersi perché la sua economia è già a forte rischio inflazione e già soffre di una sovrapproduzione edilizia che può far scoppiare una gigantesca bolla immobiliare. Infatti la Banca centrale cinese continua a rialzare i suoi tassi d'interesse nel tentativo finora vano di rallentare la crescita della massa monetaria.
E comunque, persino la Cina non avrebbe mai la dimensione sufficiente a far ripartire da sola l'economia mondiale. Troppo spesso si dimenticano alcuni numeri chiave. Per quanto sia «la seconda potenza economica mondiale», nel 2010 la Cina ha generato un Prodotto interno lordo (5.900 miliardi di dollari) pari a circa un terzo del Pil dell'Unione europea (16.300 miliardi), mentre la sua popolazione (1,340 miliardi di abitanti) è più di due volte e mezzo quella dell'Ue (502 milioni). Detta in altro modo: la Germania ha un Pil (3.300 miliardi) che è più della metà di quello cinese, con una popolazione 16 volte più piccola.
Se si amplia lo sguardo a tutti i Bric, si osserva che, pur messi insieme, hanno un Pil (12.500 miliardi di dollari) inferiore a quello degli Usa (14.700), pur avendo una popolazione complessiva 9 volte superiore. CONTINUA|PAGINA3 Non solo, ma Unione europea e Stati uniti messi insieme continuano a fare la metà del Pil di tutto il pianeta (31.000 miliardi su 62.900). E se a Europa e Usa si somma il Giappone (5.500 miliardi), allora questi tre poli fanno da soli il 60% del pianeta Terra. È evidente che, almeno per qualche anno ancora (ma forse per più di un decennio), né la Cina né i Bric possono raccogliere da soli il testimone della crescita: e lo si vede proprio in questi mesi. La crescita del Brasile è rallentata. E ad aprile, per la prima volta da più di 10 anni, la vendita di automobili è calata in Cina: è ovvio che i paesi esportatori vengono colpiti quando i loro clienti mettono a dieta le proprie economie.
Non ci sono soluzioni indolori a questa situazione, che però si è profilata come esito finale di un quarantennale processo mondiale di dislocazione industriale. La logica di questa dislocazione è stata quella di rompere il «circolo virtuoso» di Henry Ford che nel 1910 introdusse la prima catena di montaggio moderna (cioè accrebbe a dismisura la produttività del lavoro) e insieme aumentò di botto i salari ai suoi operai perché potessero con il loro reddito permettersi di comprarsi le utilitarie modello T che producevano. Nel processo di delocalizzazione, spostare una fabbrica da Flint (Michigan) a Nuevo Laredo, ha il vantaggio che che gli operai messicani vengono pagati così poco che non potranno mai permettersi di comprare le auto che producono.
Perciò nel «mondo nuovo» globalizzato, si produce dove non si spende, e si spende dove non si produce: situazione che alla lunga diventa insostenibile, perché di solo terziario e di sola intermediazione finanziaria può vivere una città-stato, una polis come Singapore, Hong Kong, Londra o New York, ma non uno stato nazione, anzi un continente-nazione, come sono ormai Europa e Usa. Ecco quindi i «vecchi» paesi ricchi indebitarsi sia a livello privato per sostenere il consumo (crisi dei mutui subprime), sia a livello pubblico per supplire al mancato gettito delle produzioni che sono state delocalizzate (debiti sovrani).
Una vera soluzione esige quindi l'equivalente di Bretton Woods (l'accordo del 1944 che per i successivi 27 anni garantì la stabilità finanziaria planetaria), anzi qualcosa di ancora più impegnativo, e cioè un riassetto della divisione internazionale del lavoro. Ma riordini di questa portata avvengono solo grazie a guerre (come accadde per Bretton Woods). Sembra evaporato tutto l'afflato di un «governo mondiale della crisi» che a fine del 2008 aveva animato i G20: da allora tutto è tornato come prima, business as usual, in attesa del prossimo disastro.
Nel frattempo, aspettando un'improbabile palingenesi capitalistica mondiale, sarebbe bene che le due economie che da sole generano più della metà del Prodotto lordo della Terra, e cioè Europa e Stati uniti, adottassero politiche per rilanciare l'economia senza far esplodere il debito: e cioè investire in opere di pubblica utilità grazie a entrate fiscali rimpolpate da maggiori imposte sui ceti privilegiati. È un segreto di Pulcinella che la rete fognaria italiana è catastrofica o che buona parte dei ponti statunitensi sono pericolanti. E gli esempi si potrebbero moltiplicare. Ma è vano sperare che i governi da soli siano in grado di cambiare le loro politiche: la Grande Crisi degli anni '30 insegna che la crisi economica porta a una crisi della democrazia - spesso brutale e drastica -, se i popoli non si sollevano a rivendicarla: è tutta qui la differenza tra la Francia del 1936 che vide il Fronte popolare salire al governo dopo una impressionante ondata di scioperi, e invece Italia e Germania che sprofondarono sempre più nelle dittature.
Causati anche dall'esproprio di ricchezza verso banche e enti sovranazionali, i riots inglesi segnano il limite delle democrazie liberali, qualcosa di simile al passaggio storico dal Medioevo alla modernità: che cosa resterà in piedi?
Non si sottrae alle domande. Precisa più volte il suo pensiero. Anche se vive divisa tra New York e Londra, legge attentamente i giornali per capire cosa sta accadendo nella vecchia Europa, dove ha avuto la sua educazione sentimentale alle scienze sociali, prima di spostarsi in America Latina e successivamente negli Stati Uniti. Saskia Sassen è nota per il suo libro sulle Città globali (Utet), anche se i suoi ultimi libri su Territori, autorità, diritti (Bruno Mondatori) e Sociologia della globalizzazione (Einaudi) ne hanno fatto una delle più acute studiose su come stia cambiando i rapporti tra potere esecutivo, legislativo e giuridico sotto l'incalzare di una globalizzazione economica che sta mettendo in discussione anche la sovranità nazionale. Per Saskia Sassen, il capitalismo non può che essere globale. E per questo ha bisogno di istituzioni politiche e organismi internazionali che garantiscono la libera circolazione dei capitali e le condizioni del suo regime di accumulazione della ricchezza. Per questo ha sempre guardato con sospetto le posizioni di chi considerava finito lo stato-nazione. Come ha più volte sottolineato, lo stato-nazione non scompare, ma cambia le sue forme istituzionali affinché la globalizzazione prosegua, industriata, il suo corso. E allo stesso tempo ha sempre sottolineato come le disuguaglianze sociali siano immanenti al capitalismo contemporaneo. Ma l'intervista prende avvio dalle rivolte inglesi, a cui ha dedicato un articolo, scritto con Richard Sennet, e apparso sul New York Times. Articolo nel quale, fatto abbastanza inusuale per gli Stati Uniti, i due studiosi pongono la centralità della «questione sociale» per comprendere cosa stia accadendo nel Regno Unito, ma anche negli Stati Uniti e nel resto d'Europa.
La rivolta come reazione violenta alla disoccupazione; oppure come effetto del perverso fascino che esercitano le merci. Sono le due spiegazioni dominanti sulle sommosse che hanno investito Londra e altre città inglese. Qual è, invece, il suo punto di vista?
In ogni sommossa c'è uno specifico insieme di elementi che consentono allo scontento generale di convergere e prendere forma nelle azioni di strada. In Gran Bretagna ci sono tre grandi componenti che hanno provocato la rivolta a Londra, Birmingham, Liverpool, Manchester e altra città del Regno unito.
La prima componente è la strada, cioè lo spazio privilegiato da chi non ha accesso ai consolidati e codificati strumenti politici per la propria azione politica. Nelle rivolte inglesi è emersa una forte ostilità verso la polizia, incendi, distruzione della proprietà privata. Ad essere colpiti sono stati negozi o edifici gestiti, abitati da persone che vivono la stessa condizione sociale dei rivoltosi.
Il secondo elemento che ha funzionato come detonatore è la situazione economica, che vede la perdita del lavoro, di reddito, la riduzione dei servizi sociali per una parte rilevante della popolazione. Per me questo aspetto ha influito molto di più nello scatenare la rivolta più che l'uccisione di un giovane uomo di colore da parte della polizia. La disoccupazione giovanile è, nel Regno Unito, al 19 per cento. Una percentuale che raddoppia in alcune aree urbane, come quella del quartiere dove viveva il giovane ucciso..
Il terzo fattore sono i social media, che possono diventare uno strumento davvero efficace per far crescere una mobilitazione. E in Inghilterra c'è stata una successione davvero interessante nell'uso dei social media. Inizialmente Twitter e Facebook sono stati usati per informare su ciò che stava accadendo e per invitare la popolazione a scendere nelle strade. Ma la seconda notte, la parte del leone l'hanno fatta gli smartphone Blackberry, perché usano un servizio di messaggistica che non può essere intercettato dalle forze di polizia. La grande capacità dei social media di funzionare come strumento di coordinamento della rivolta è data dal fatto che la successione degli scontri appare come scandita da un preciso piano. I focolai della rivolta sono stati più di trenta, quasi che tutto sia stato pianificato e coordinato, appunto, con i social media.
Uno solo di questi fattori non spiegherebbe quattro notti di scontri, incendi, saccheggi. Presi insieme, ogni fattore ha alimentato l'altro. Inoltre, sono convinta che se usciamo da una espressione asettica come disagio sociale il disagio sociale ci troviamo di fronte a storie dove il dolore, la collera delle proprio condizioni di vita non cancellano la speranza per un futuro diverso. Queste sommosse rendono evidente una questione sociale che non può essere affrontata, come ha fatto David Cameron, come un fatto criminale.
Londra è una delle città globali da lei studiata. Una metropoli che vede una stratificazione sociale molto articolata. Città globale vuol dire povertà, precarietà nei rapporti di lavoro. Inoltre la crisi economica sta provando un impoverimento che non risparmia nessuno dei gruppi e classi sociali della popolazione, eccetto solo per quei top professional che non sanno bene cosa significa la parola crisi. Non potremmo dire che le rivolte inglese sono figlie del neoliberismo?
In tutte le città globali la povertà è una costante. Inoltre, ho spesso scritto che le dinamiche economiche, sociali e politiche insite nella globalizzazione hanno come esito una crescita di lavori sottopagati e dei cosiddetti working poors, i lavoratori poveri. Ci troviamo di fronte a una situazione dove il passaggio dalla disoccupazione a lavori sottopagati e dequalificati è continuo. Uno degli aspetti, invece, meno indagati delle global cities, e su cui sto lavorando all'interno del progetto di ricerca The Global Street, Beyond the Piazza, è il ruolo sempre più rilevante assunto dalla cosiddetta cultura di strada nel condizionare le forme di azione politica tanto a Nord che a Sud del pianeta.
I conflitti di strada sono parte integrante della storia moderna, ma erano sempre complementari alle forme politiche consolidate. Recentemente, invece, hanno assunto un ruolo più rilevante, perché l'occupazione dello spazio è espressione del potere dei movimenti sociali. Le sollevazioni dei popoli arabi, le proteste nella maggiori città cinesi, le manifestazioni in America Latina, le mobilitazioni dei poveri in altri paesi, le lotte urbane negli Stati Uniti contro la gentrification o le rivolte americane contro la brutalità della polizia sono tutti esempi di come la strada sia il veicolo del cambiamento sociale e politico.. Ma se questo appartiene al recente passato, possiamo citare anche le recenti mobilitazioni a Tel Aviv. In Europa parlate degli indignados, riferendovi alla Spagna. Ma tanto a Madrid che Tel Aviv abbiamo assistito a vere e proprie occupazioni delle piazze che sono durate giorni, settimane, sperimentando forme di organizzazioni e di decisione politica distanti da quelle dominanti nelle società. Quello che voglio sottolineare è che ci troviamo di fronte a forme di protesta che coinvolgono una composizione sociale eterogenea, dove ci sono disoccupati, ma anche lavoratori manuali di imprese che hanno conosciuto processi di downsizing e delocalizzazione, colletti bianchi, ceto medio impoverito. E sono forme di protesta che nascono e si consolidano al di fuori degli attori politici tradizionali (partiti, sindacati). Gli indignados di Madrid chiedono certo lavoro, servizi sociali, ma anche una profonda trasformazione del rapporto tra governo e governati. La piazza, la strada non sono dunque solo il luogo dove si avanzano rivendicazioni, ma anche lo spazio per rendere manifesto il potere dei movimenti sociali.
La crisi del neoliberismo ha caratteristiche drammatiche. Alcuni paesi hanno dichiarato bancarotta, altri sono arrivati sul punto di fallire (la Grecia); altri sono diventati sorvegliati speciali della Banca centrale europea che di fatto ha sospeso la loro sovranità nazionale. E le proposte per uscire alla crisi è un insieme di misure di politica economica e sociale che potremmo definire di liberismo radicale. Lei che ne pensa?
Nel mio lavoro di ricercatrice ho difficoltà ad usare il concetto di crisi per spiegare cosa sta accadendo in molti paesi, dagli Stati Uniti all'Europa. Ci troviamo in una situazione inedita, sotto molto aspetti. Ci sono certo paesi in forte difficoltà economica; altri però hanno tassi di crescita e di sviluppo impressionanti. Detto più semplicemente, stiamo assistendo a un imponente spostamento della ricchezza da una parte della società verso un'altra. E questo coinvolge le risorse finanziarie dello stato, del piccolo risparmio, delle piccole attività imprenditoriali. Una sorta di concentrazione della ricchezza nelle mani di una esigua e tuttavia ricchissima minoranza. E tutto ciò senza che tale concentrazione della ricchezza possa essere recuperata attraverso il sistema della tassazione. È questo il dramma che stanno vivendo alcuni paesi.
Non ci troviamo cioè di fronte a una realtà oscura, difficile da comprendere o al risultato di una cospirazione o di un fenomeno che per interpretare serve la cabala. La tragedia che ci troviamo a fronteggiare è che questa situazione è l'esito non di un evento naturale, ma di un processo politico dove il potere esecutivo, anche quando composto da persone oneste e integerrime, ha favorito, con leggi e decisioni, la concentrazione e l'espropriazione della ricchezza da parte di una minoranza. La Citibank negli Stati Uniti è stata salvata dal fallimento dal governo con 7 miliardi di dollari. Soldi provenienti dal prelievo fiscale, che negli Usa è molto generoso verso i ricchi. Dunque è stata salvato con i soldi della working class e del ceto medio. Se ci spostiamo in Europa, la premier tedesca Angela Merkel ha deciso di spostare una parte delle finanza statale per salvare alcune banche. In altri termini è lo stato, o alcuni organismi sopranazionali, che hanno favorito questo spostamento della ricchezza nelle mani di banche, imprese finanziarie. L'Unione europea è sì intervenuta per salvare la Grecia, ma solo perché il suo fallimento avrebbe messo in ginocchio banche e imprese finanziarie, che hanno fatto profitti attraverso il meccanismo del cosiddetto «debito sovrano». Non so se per queste imprese sia corretto parlare di crisi. Godono, tutto sommato, buona salute, visto che il potere esecutivo corre sempre in loro soccorso. Il risultato è l'impoverimento di buona parte della popolazione, che vede tagliati i servizi sociali e le pensioni.
Tutto ciò mostra i profondi limiti delle democrazie liberali. Siamo cioè di fronte a un profondo cambiamento nei rapporti tra potere esecutivo, legislativo e giudiziario. E tra questi e l'economia. Qualcosa di simile, nella sua profondità, è accaduto nel passaggio dal Medioevo alla modernità, quando si formarono gli stati nazionali e furono gettate le basi dello stato moderno. Quello che serve è una adeguata prospettiva storica per analizzare la realtà contemporanea. Nel libro Territori, autorità, diritti sottolineo le analogie tra quel passaggio d'epoca e la situazione attuale. Oggi, come allora, è la forma stato che viene investita da un terremoto. Capire cosa resterà in piedi, e cosa diverrà macerie serve anche a intervenire politicamente affinché tale espropriazione di ricchezza possa essere fermata.
SASKIA SASSEN
Quando le città divennero globali
I rapporti tra potere ed economia
Nata in Olanda, Saskia Sassen ha vissuto la sua adolescenza in Argentina. Gli studi, però, li ha svolti tra la Francia, l'Italia, gli Stati Uniti. Tra le sue pubblicazioni vanno ricordati: "Fuori controllo" (Il Saggiatore), "Le città globali" (Utet), "Migranti, coloni, rifugiati. Dall'emigrazione di massa alla fortezza Europa" (Feltrinelli) , "Le città nell'economia globale" (Il Mulino), "Globalizzati e scontenti" (Il Saggiatore), Territorio, autorità, diritti" (Bruno Mondatori) e "Una sociologia della globalizzazione" (Einaudi). Attualmente è docente alla Columbia University di New York.
Gli alti e bassi, ma sostanzialmente bassi, dei cosiddetti mercati, ci fanno capire che nei prossimi anni, e per molto tempo ancora, non ci sarà alcune «crescita»: né in Italia (dove la manovra ha messo una pietra tombale su qualsiasi velleità di rilancio economico), né in Europa, Germania compresa: che sconterà presto il disastro a cui sta condannando metà dei suoi partner commerciali. Meno che mai negli Stati Uniti; di conseguenza soffrirà anche l'economia cinese, dovesostituire la domanda estera con quella interna non è così facile. Nemmeno il Brasile se la passerà più molto bene, mentre l'economia giapponese è scomparsa dai radar.
In Italia, e in molti altri paesi senza «crescita», il pareggio di bilancio diventerà irraggiungibile: anche ridurre la spesa pubblica non basta per colmare i deficit. Così gli interessi si accumulano, anno dopo anno, e il debito cresce, facendo aumentare a sua volta i tassi, e con essi il deficit. Anche se prescritto dalla Costituzione (con una norma che seppellisce tutto il pensiero economico originale del Novecento) il pareggio di bilancio diventa una chimera.
Per anni i titoli di Stato avevano offerto ai cosiddetti risparmiatori - cittadini che avevano un avanzo di reddito a disposizione - una specie di cassaforte dove mettere al sicuro il loro denaro. Ma da tempo, e soprattutto con la liberalizzazione dei mercati finanziari, quei titoli, ormai nelle mani di grandi operatori internazionali (compresi quelli che oggi gestiscono i fondi dei risparmiatori), sono stati trasformati in assets su cui lucrare, giorno per giorno, in base a variazioni dei rendimenti che chi quei titoli li ha emessi non può più controllare. Non è vero, come ci raccontano, che la spesa pubblica supera le entrate fiscali: in Italia non lo fa da tempo. Sono gli interessi accumulati ad aver portato il bilancio fuori controllo: è il meccanismo tipico dell'usura (quello dei famigerati cravattari); a cui gli Stati di quasi tutto il mondo si sono sottomessi: non per salvare se stessi, ma le banche e i fondi che detengono i loro titoli.
Tuttavia la crisi finanziaria non è che un risvolto di un meccanismo economico, quello dello sviluppo - che è poi l'accumulazione del capitale - che si è inceppato; perché è anch'esso a sua volta un risvolto della crisi ambientale: il pianeta Terra non è più in grado di sostenere con le sue risorse gli attuali flussi della produzione; e meno che mai i flussi di scarti e residui - a partire dalle emissioni che alterano il clima - che accompagnano inevitabilmente uno sviluppo guidato dal profitto. «L'età della pietra - diceva lo sceicco Yamani, già ministro del petrolio dell'Arabia Saudita - non è terminata per mancanza di pietre. Nemmeno l'era del petrolio terminerà per l'esaurimento del petrolio». Non lo farà, anche se le riserve tradizionali di petrolio sono agli sgoccioli: finirà perché il petrolio, e gli altri idrocarburi, saranno sostituiti da fonti rinnovabili ed efficienza energetica; oppure perché le loro emissioni avranno provocato disastri tali da rendere il pianeta inagibile e ogni ulteriore estrazione di idrocarburi impossibile o superflua.
Con il procedere della crisi, l'esito ineluttabile di uno Stato preso nella spirale di un debito insanabile come quello italiano è ciò che tutti dicono di voler evitare, ma che nessuno vuole prepararsi ad affrontare: il fallimento (default). Il problema non è il se, ma è solo il quando; e chi sarà a subirlo e chi a imporlo; e in che modo gestirlo. Il dibattito politico, se ci fosse, dovrebbe vertere su questo. Invece tutti parlano di rilanciare una crescita che non tornerà più; o che, se anche tornasse, sarà talmente stentata da non poter interrompere quella spirale infernale. Mentre si parla di "crescita" (ma di che cosa? dei saldi contabili per fare fronte al debito) qualcuno, anzi molti, si affrettano ad arraffare tutto, prima che non ci sia più niente da prendere. Proprio come i deprecati protagonisti delle rivolte inglesi; che sono al tempo stesso il prodotto di quel saccheggio e della cultura che la civiltà dei consumi e la pubblicità promuovono ogni giorno. Ma là non si tratta di rubare uno smartphone o un paio di sniker, ma di privatizzazioni, di questi tempi vere e proprie svendite; e dopo le pessime prove - in termini di tariffe e di efficienza - di tutte le privatizzazioni realizzate negli ultimi anni. E dopo che l'Italia, ma anche Berlino, ma anche Parigi, ma anche Bolivia ed Equador, si sono pronunciati contro le privatizzazioni: non solo dell'acqua, ma di tutti i servizi pubblici e i beni comuni.
Ma la democrazia è da tempo incompatibile con le esigenze dei mercati. Oggi più che mai. Poi tocca alle pensioni (quelle dei poveri), ai salari, al welfare, alla sanità, alla scuola all'occupazione, al posto fisso, alle finanze dei Comuni: gli unici enti che sono, o potrebbero essere, vicini ai governati. Ovviamente è un saccheggio pericoloso: in Grecia, in Spagna, in Portogallo, in Medio Oriente - per non parlare dell'Islanda: infatti nessuno ne parla perché la strada del default è stata imboccata per scelta; e senza grandi danni, se non per i banchieri finiti in galera - domani in Italia, lavoratori e cittadini sfruttati e taglieggiati potrebbero ribellarsi. E non è detto che lo facciano in forme gentili. Londra insegna.
Per fare fronte a questa eventualità - scrivono i corifei del saccheggio di Stato - ci vuole una vera leadership. Quella attuale non è all'altezza: tanto è vero che quella italiana - ma non solo quella - è stata commissariata. Ma anche quella europea, che ne ha assunto la tutela, lascia a desiderare. E nemmeno Obama naviga in buone acque. Mancano le idee e mancano gli uomini, scrive sul Corriere della Sera un alfiere del liberismo, Alberto Alesina, subito rincalzato dal suo gemello, Francesco Giavazzi, che solo tre giorni prima si era invece accontentato - su input del suo direttore - dell'«inventiva imprenditoriale» di Berlusconi. Ma di idee intanto non ne tirano fuori nemmeno una, se non la solita solfa: privatizzazioni, liberalizzazioni, tagli alla politica e alla spesa pubblica (continuano a pensare che la "crescita" sia una molla che scatta da sé); e di come e dove farle nascere non parlano nemmeno (non sarà certo la riforma Gelmini a produrre nuove idee; nemmeno quei due, che pure la esaltano, osano sostenerlo). In queste condizioni la leadership tanto invocata ha sempre di più l'aspetto di un "Uomo della Provvidenza". Una débacle più sonora del pensiero unico liberista, che ha dominato un trentennio di disastri, e che ancora pretende di interpretare i tempi senza riuscire a comprenderli, non potrebbe esserci. Ma in questo vuoto di conoscenze (ambientali e sociali) e di pensiero strategico i rischi autoritari si moltiplicano.
Davanti a noi c'è un'altra strada; perché sedi dove si producono idee le abbiamo, anche se ancora gracili: sono i mille comitati di lotta, i centri sociali, i circoli culturali, le associazioni civiche, alcune riviste, molti blog, le associazioni studentesche, le pratiche alternative dei GAS, dei DES, delle reti di insegnati, molte imprese sociali, alcune rappresentanze sindacali. Anche alcune idee importanti e condivise, nuove rispetto ai termini di un dibattito politico ormai sclerotizzato, ci sono. Sono quella dei "beni comuni": da difendere dall'accaparramento privato e dalla gestione burocratica e corrotta degli organismi statuali attraverso forme di trasparenza integrale, di controllo dal basso e di gestione partecipata; e da estendere a tutte le risorse naturali indivisibili, ai servizi pubblici, ai saperi. E poi l'idea della territorializzazione dei rapporti economici: mercati agricoli e alimentari a chilometri zero; rapporti diretti con i fornitori che garantiscono qualità dei prodotti, dei processi e delle condizioni di lavoro; coinvolgimento di tutti gli stakeholder (lavoratori, utenti, amministrazioni locali, associazioni, centri di ricerca, imprese fornitrici e utilizzatrici) nella riconversione di produzioni in crisi, obsolete o dannose (a partire dalle armi: meno spese, meno consumo di risorse, meno guerre); e impegno in tutte le attività di salvaguardia dei territori e della loro vivibilità.
Di qui la convinzione che la salvezza non verrà dalla "crescita", che significa ogni giorno di più devastazione del pianeta, delle condizioni di vita e dei rapporti sociali; e che i vincoli imposti dai mercati - dalle parità di bilancio agli aumenti di fatturato, dal rendimento dei bot agli andamenti delle borse - non sono totem a cui ci si debba piegare. Lungo questi filoni di pensiero, e dentro queste pratiche e questi organismi, può rendere forma e formarsi una nuova classe dirigente: una cittadinanza attiva che si metta in grado di esautorare e sostituire gli uomini che oggi sono al potere, in tutti gli ambiti e a tutti i livelli, sia negli organismi statali e amministrativi, che nelle imprese: quelle che hanno sostenuto per anni Berlusconi e che oggi vogliono far pagare il costo dei loro disastri a chi non ne ha mai condiviso le responsabilità, né avrebbe potuto farlo.
Ma può un movimento dal basso, fatto di organismi dispersi e pratiche differenti, governare e dirigere un processo di transizione di questa portata? Che per di più sta andando e andrà incontro a resistenze pesanti e reazioni violente? Certamente no. Nessuno, credo, prospetta una cosa simile. Ma le forze, le idee e la determinazione per intraprendere un percorso del genere non possono nascere in nessuna altra sede e in nessun altro modo. D'altronde non si tratta di processi isolati: le donne e gli uomini alla ricerca di un mondo diverso, che lo ritengono possibile, sono milioni in ogni parte della Terra. E se il processo avrà un seguito, anche molti spezzoni delle attuali classi dirigenti potranno separarsi dalla matrice in cui sono cresciute e forgiate; ma è un processo che può svilupparsi intorno a idee e sedi che oggi occorre ancora diffondere e consolidare.
La sudditanza della politica ai mercati: le opinioni sembrano convergere su questa diagnosi al di là degli schieramenti partitici in questi giorni di angoscia per temuti default e manovre finanziarie "lacrime e sangue".
Il mercato finanziario, non il mercato semplicemente, sembra essere la nuova sorgente di sovranità, una sorgente che per di piú è insindacabile anche perché impossibile da localizzare, impersonale e soggetta a leggi che vengono concepite e applicate come se fossero naturali.
Di fronte a questa quasi divinità o naturalità la decisione politica sembra impotente: incapace di imporre le sue ragioni che dovrebbero essere quelle di una vita decente e liberamente progettata da parte degli uomini e delle donne che vivono in società. Eppure la politica non è un terreno neutro e, diciamo pure, non è incolore rispetto al sovrano mercato.
Evidentemente esiste una politica organica o funzionale a questa fase del dominio dei mercati finanziari che è disposta a ordinare le scelte secondo la logica della rendita.
La politica neoliberale (ciò che da noi si chiama liberismo) è l’ideologia che caratterizza questo tempo e le manovre dei governi - con più o meno resistenza – ne sono il segno. La lotta negli Stati Uniti tra due modelli di intervento statale sono il segno forse più esplicito che non è la politica in sé a soccombere ma una visione dello Stato e quindi dell’economica: o come scienza che si dovrebbe occupare del benessere della società o al contrario come una tecnica di rastrellamento delle fonti di rendita finanziaria.
Il dominio del denaro, più che il dominio del mercato, è il centro del problema, e la trasformazione della scienza economica in scienza del business e applicazione del calcolo matematico ai fattori numerici dei movimenti di borsa ne è il segno distintivo. È sufficiente affacciarsi alla porta dei dipartimenti di economia di tutte le università del pianeta per comprendere la dimensione di questa trasformazione; la trasformazione di questa scienza da scienza umana a scienza matematica è il riflesso del potere insindacabile del mercato finanziario sulla società.
E la politica, una parte di essa, si sente a suo agio con questa trasformazione. Si tratta di quella particolare coniugazione del liberalismo che, soprattutto a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo, ha creato il "fatto semplice" dell’interesse individuale (self-interest), facendone un attributo che appartiene a ciascuno di noi come una qualità sostanziale che determina la nostra razionalità e il calcolo dei costi e dei benefici che in ogni momento della giornata guida le nostre azioni, siano esse di tipo sentimentale o economico appunto.
La concezione dottrinaria dell’interesse sulla quale il pensiero neo-liberale (in gergo liberista) si è posizionato nel corso dei decenni ha avuto di mira un obiettivo centrale: quello di tenere la legge fuori dalla sfera dei beni e la formazione della ricchezza. La legge, ovvero lo Stato, è chiamato a intervenire quando l’irrazionalità delle passioni o dell’errore di conoscenza interrompono il fluire delle scelte: quindi Stato gendarme e regolatore delle relazioni sociali per contenere i conflitti e sostenere al massimo chi è sconfitto nella lotta per la vita.
Quello a cui stiamo assistendo in questi mesi (anni) è più o meno la vittoria di questo paradigma, una vittoria che è andata insieme alla sconfitta di altri modelli di ordine sociale e che ha stravinto su tutti i potenziali rivali. È questa la fine della storia di cui ha scritto Francis Fukuyama.
È la fine, ovviamente, non della storia ma certo della storia della lotta contro un modello economico, quello per difendere il quale oggi le nostre società democratiche stanno soccombendo.
Il liberalismo conservatore del nostro tempo è nato all’interno della società democratica come una gemmazione del liberalismo economico; si è manifestato come una reazione a ogni forma di società che vuole programmare le sue scelte economiche per poter distribuire oneri e beni più equamente; non è un caso se insieme alla stretta sulla spesa dello Stato i mercati finanziari chiedano di lasciare a loro tutti i servizi che in questi ultimi sessant’anni sono stati finanziati, regolati e gestiti dai governi. Il neo-liberalismo è la politica di oggi.
Ma è politica. È comunque un uso del potere dello Stato per attuare piani e progetti che hanno committenti e scopi specifici e razionali. E la sua dottrina è la seguente: tutti i beni che le società producono e dai quali si può estrarre un profitto devono essere lasciati al mercato - se necessario anche la coercizione (in alcuni stati degli Stati Uniti anche i servizi carcerari sono gestiti da società private).
Ciò che si chiama declino della sovranità degli Stati sembra dunque rassomigliare più a un riassestamento del rapporto tra Stato e sfera economica in una direzione che va verso uno Stato socialmente irrilevante e coercitivamente forte. Lo Stato non scompare, né la sua sovranità si erode, si ridefinisce invece in funzione di un ruolo solo che è essenzialmente quello di gestire l’uso della violenza.
Come aveva ben visto Norberto Bobbio, la sfera del diritto penale si espanderà in proporzione diretta al restringimento delle politiche sociali. È lo stato minimo del quale parlavano liberali antichi come Herbert Spencer o il Barone von Hayek; uno Stato al servizio di una società che è libera nella misura in cui capace di autoregolarsi con minimo dispendio di potere coercitivo, ma il cui potere coercitivo è ben funzionate e arcigno e duro se necessario.
La vicenda Marchionne-Pomigliano è stata analizzata da par suo, fin dal suo primo manifestarsi, da Eugenio Scalfari, in due articoli su la Repubblica (20 giugno e 29 agosto 2010). La sua tesi di fondo è che, per la teoria dei vasi comunicanti, la globalizzazione impone all'industria una linea di condotta non molto dissimile da quella di Marchionne, con la quale perciò è inutile polemizzare. Scalfari cita anche direttamente Marchionne, con una frase diventata da allora famosa: «Io vivo nell'epoca dopo Cristo; tutto ciò che è avvenuto prima di Cristo non mi riguarda e non mi interessa» (ci tornerò sopra più avanti).
E però Scalfari aggiunge che la teoria dei vasi comunicanti, per funzionare senza sfracelli, dovrebbe valere in qualsiasi caso. E cioè: onde evitare che si creino nell'area dell'ex-benessere mondiale insostenibili perdite di diritti (libertà ed eguaglianza), bisognerebbe provocare pressoché contestualmente «analoghi trasferimenti di benessere sociale all'interno dell'area opulenta tra ceti ricchi e ceti poveri», questi ultimi, oggi, già di per sé fortemente svantaggiati, e per giunta molto, molto più esposti ai rischi della ventilata trasformazione marchionniana. Potremmo definire, quella di Scalfari, la risposta solidaristica e riformistica alla perdita di potere delle classi subalterne. Comporterebbe, per realizzarsi, un ampio e solido schieramento di forze politiche nazionali e sopranazionali a suo favore. Ci sono? Dove sono? Per restare ai casi nostri, ci sono in Italia? Qualcuno ha risposto, pubblicamente consentendo, al saggio appello di Scalfari? E nel frattempo?
In questi mesi ha pubblicato una serie di articoli sul manifesto (per quanto mi consta, ma potrebbero essercene degli altri, il 16 giugno, il 1 luglio e il 15 settembre) Guido Viale, con il quale è difficile non consentire pressoché integralmente. Anche secondo lui al piano A di Marchionne, preso in sé, non c'è alternativa: perché l'alternativa va cercata altrove. L'alternativa, infatti, per essere efficace, non può essere parziale: dev'essere globale e radicale, almeno quanto la linea cui si oppone. Essa consiste nella «conversione ambientale del sistema produttivo - e dei nostri consumi - a partire dagli stabilimenti in crisi e dalle fabbriche di prodotti obsoleti e nocivi, tra i quali l'automobile occupa il secondo posto, dopo gli armamenti...». Come potrei non essere d'accordo con questa limpida prospettiva strategica (la quale anch'essa, peraltro, gode per ora di adesioni e perfino entusiasmi assai limitati nelle popolazioni interessate, e quasi nessuno nei ceti politici conseguenti)? Sì, va bene, anzi benissimo, ma nel frattempo?
Riprendo ora il ragionamento, imboccando però tutt'altra strada. Uno degli aspetti più immediatamente positivi delle scelte operate recentemente dal dottor Marchionne è di aver consentito nella maniera più facile e rapida un ritorno (persino estremizzato) all'obliato Marx (altro che Machiavelli, altro che Hegel).
Ricordate? «Se occorre soltanto mezza giornata lavorativa per mantenere in vita un operaio per un'intera giornata lavorativa, allora il plusvalore del prodotto risulta automaticamente, perché il capitalista ha pagato soltanto il prezzo di mezza giornata lavorativa, mentre ne ottiene una intera oggettiva nel prodotto; dunque, per la seconda metà della giornata lavorativa egli non ha scambiato nulla. Ciò che solo può fare di lui un capitalista non è dunque lo scambio, ma un processo in cui egli senza scambio riceve tempo di lavoro oggettivato, ossia valore» (Grundrisse, III, 1). Solo che, andando in estrema sintesi, e quindi rischiando mostruose (ma anche, forse, utilmente semplificanti) approssimazioni, il dottor Marchionne vorrebbe oggi ridurre il prezzo dell'intera giornata lavorativa, che paga all'operaio, non più alla mezza giornata dell'esempio marxiano, ma a due ore, un'ora e mezza, un'ora, forse in prospettiva dieci minuti. E cioè: in cambio della promessa della conservazione del posto di lavoro (tutt'altro che certa, Viale), la riduzione dell'operaio italiano, anzi in prospettiva occidentale, al paria indiano, al coolie cinese.
Non è polemica, anche questo è un dato di fatto. Si riscopre cioè oggi - e anche questo è un dato storico ricorrente - che in tutti quei momenti in cui si tratta di superare un passaggio epocale (e questo, certo è uno di essi), sotto la maglietta negligentemente sbottonata del padrone più disinvolto e à la page, batte il cuore eterno dell'accumulazione primitiva, quella che, quando non se la può più prendere con nessun altro, se la prende con il lavoro. Si sa che il sogno del capitalista moderno, da che mondo è mondo, e finché esisterà il mondo, è: macchine che producono macchine, la soppressione della fastidiosa, intollerabile, ribelle riluttante, forza lavoro umana (non mi soffermo, ma si potrebbe, sugli effetti sistemici castrofici che tale prospettiva comunque produrrebbe, magari ne parliamo un'altra volta). Fin quando, però, sussiste forza lavoro umana, la compressione finale avviene lì, è lì che deve avvenire.
Uno potrebbe dire e/o pensare (e molti, oggi, moltissimi dicono e/o pensano): ma in fondo chi se ne frega degli operai, se, purché il sistema regga? Dubito che il sistema regga, se ce ne freghiamo degli operai. Alcune considerazioni nel merito del valore generale di tali ragionamenti.
Checché se ne dica, e checché se ne pensi, è proprio la leggendaria «condizione operaia» che è tornata in questi mesi (pur sempre faticosamente, e in mezzo a clamori assordanti d'interdizione) al centro dell'attenzione. La domanda è: è proprio vero che la «condizione operaia», il modo d'essere operaio, il «punto di vista» di classe, il suo rapporto non solo economico ma anche «sociale» con il resto del mondo, sono estranei alla «condizione generale», «sociale» e «civile», «politica» e «istituzionale», del nostro paese, dell'Europa, del mondo? Si direbbe, - anzi, questo con sicurezza si può dire, - che, per stare al gioco, gli operai dovrebbero rinunciare alla contrattazione; al diritto di sciopero; ai diritti di cittadinanza; al diritto di mangiare, cagare e pisciare in fabbrica. Più che di un'«epoca dopo Cristo», come dice Marchionne, sarebbe giusto parlare di «un'era senza Cristo»: un'era in cui l'unica legge torna ad essere, appunto, quella feroce dell'accumulazione primitiva, e le altre leggi, giuridiche, politiche e civili, e persino, sullo sfondo, quelle religiose, si dissolvono come neve al sole.
(Domanda: e gli Stati uniti? Non me ne intendo per parlarne, ma a naso mi pare che Ron Getterlfinger non abbia la stoffa dei nostri Giuda e Barabba: in ogni caso la Uaw lì possiede la maggioranza delle azioni Chrysler e due colossi finanziari come i fondi pensione e quello sanitario, e dunque, comunque la si voglia giudicare strategicamente, forse la situazione è diversa. Se mai sarebbe interessante approfondire in questo contesto quel che scrive Giulio Sapelli sul Corriere della sera, 18 giugno u.s., in un articolo rimasto anch'esso ingiustamente defilato. L'operaio cinese alza (finalmente) la testa: descrivendo il movimento esattamente opposto a quello che Marchionne vorrebbe imprimere agli operai italiani, e cioè i coolies cinesi che diventano operai coscienti, operai all'occidentale, e dunque, anche, cittadini diversi da come il regime vorrebbe che fossero. Questa è la terza strada da battere, l'Internazionale operaia, che risorge proprio dalle ceneri infeconde e avvelenate del comunismo-capitalismo di Stato, più utopica, certo, delle altre due, ma in compenso più seducente).
Facciamo a questo punto, e una volta tanto, «mente locale». La contrattazione significa che due soggetti siedono al medesimo tavolo con le medesime, potenziali opzioni (e possibilità) di partenza (almeno fino a quando, cosa di cui per ora, giustamente, non c'è quaestio, non si potrà pensare ad un capitale senza lavoro o a un lavoro senza capitale). La civiltà giuridica europea, la civiltà europea tout court sono fondate su questo presupposto (non a caso garantito esplicitamente dalla nostra Costituzione). La mia tesi è che se si mette in discussione questo caposaldo, vien giù tutto il resto. Forse è ancora vero (M. Tronti, La fabbrica e la società: 1962, ahimé) che quel che si verifica e si modella nel lavoro produttivo allargato (forse oggi più allargato e differenziato che allora: diciamo più genericamente, e provvisoriamente, il mondo del lavoro oggi, all'interno del quale, tuttavia, il lavoro operaio continua a occupare una posizione centrale e decisiva), il giorno dopo lo ritrovi nei rapporti sociali, nelle forme e nei programmi della politica, nei valori da perseguire o da rigettare e, alla fine, nelle nuove regolamentazioni giuridiche del sociale. Ci vorrebbe, insomma, una società diversa, e molto, molto peggiore, nonostante tutto, di questa, una società di due o tre secoli fa (e infatti c'è già chi ci pensa), perché il dottor Marchionne possa fare tranquillamente il suo lavoro.
Tutto, insomma, alla fine si tiene (come sempre, nei momenti decisivi). Se passa la prospettiva Marchionne, non sola la «condizione operaia» peggiorerà intollerabilmente, - il che, forse, qualche considerazione «umanitaria» dovrebbe sollevarla, o no?, - ma scompariranno dalla scena sia l'ipotesi solidaristica e riformistica (la ridistribuzione politico-sociale della ricchezza) sia l'ipotesi ecologista (la conversione ambientale del sistema produttivo), per non parlare, ovviamente, di quella internazionalistico-operaia (quella, cioè, dell'operaio cinese che comincia a ragionare e comportarsi come l'operaio occidentale a patto che intanto l'operaio occidentale non sia stato ridotto nelle condizioni dell'operaio cinese).
Nel frattempo,dunque, difendere i diritti operai, impedire la loro completa mortificazione, sforzarsi al contrario di fare della loro lotta una battaglia generale, significa difendere i diritti di tutti, i nostri diritti, la prospettiva di una società sostanzialmente (e non solo formalmente) più libera ed eguale. Per una volta tanto diciamo, rischiando l'enfasi, che la «condizione operaia» è anche la nostra condizione, ne è anzi il presupposto, politico e civile. Dopo si potrà ragionare più ordinatamente sul «che fare». Ora si tratta di dire con chiarezza e con forza ciò che non si può fare, e che dunque non si deve fare.
Secoli fa, a 14 o 15 anni, io e la mia vecchia banda bramavamo l'immortalità nel catorcio fumante di una brontolante Ford 40 o di una Chevy 57. Il nostro J.K. Rowling era Henry Felsen, l'ex-marine autore dei best-seller Hot Rod (1950), Street Rod (1953) e Crush Club (1958). Felsen era il nostro Omero dell'asfalto, che esaltando giovani eroi destinati alla morte ci invitava a emulare la loro leggenda. Uno dei suoi libri si conclude con uno scontro apocalittico presso un incrocio, che stermina l'intera classe di laureandi di una piccola città dello Stato dell'Iowa. Amavamo così tanto questo passaggio che eravamo soliti rileggerlo a voce alta l'un l'altro.
Difficile non pensare al grande Felsen, morto nel 1995, quando si sfogliano le pagine economiche di questi tempi. Dopo tutto, ci sono i repubblicani del Tea Party, con l'acceleratore spinto violentemente, che ghignano come demoni mentre si avvicinano alla Deadman's Curve (John Boehner e David Brooks, nei posti posteriori, muoiono di paura.) L'analogia con Felsen sembra ancora più forte quando si prospetta una visione globale. Dall'alto la situazione economica mondiale si profila chiaramente come uno schianto in attesa di accadere. E da tre direzioni distinte Stati uniti, Unione europea e Cina stanno accelerando alla cieca verso lo stesso incrocio. La domanda è: qualcuno sopravviverà per partecipare al ballo di fine anno?
Tremano i tre pilastri del McWorld
Riprendiamo dall'ovvio, tuttavia raramente discusso. Sebbene il giorno del giudizio per il limite di indebitamento sia scongiurato, Obama ha già impegnato la fattoria e venduto i capretti. Con una straordinaria noncuranza per l'ala liberal del suo partito, si è offerto di mettere i sacrosanti resti di quella che era la rete di sicurezza del New Deal sul podio del banditore, per placare un ipotetico «centro» e vincere di nuovo le elezioni a ogni costo (Dick Nixon, vecchio socialista, dove sei ora che abbiamo bisogno di te?).
Risultato: come i Fenici nella Bibbia, sacrificheremo i nostri figli (e i loro insegnanti) a Moloch, che oggi si chiama Deficit. La strage nel settore pubblico, insieme a un brusco taglio delle indennità di disoccupazione, andrà a propagarsi sull'intero lato della domanda dell'economia, fino a quando la disoccupazione avrà raggiunto la doppia cifra percentuale e Lady Gaga canterà: «Fratello, avresti dieci centesimi?».
Non dimentichiamo: viviamo in un'economia globalizzata, in cui gli americani sono i consumatori di ultima istanza e il dollaro è ancora il porto sicuro per il plusvalore accumulato dall'intero pianeta. La nuova recessione che i repubblicani stanno impunemente architettando metterà in dubbio di colpo tutti tre i pilastri del McWorld, già assai più traballanti di quanto si pensi: consumo americano, stabilità europea e crescita cinese.
Dall'altra parte dell'Atlantico, l'Unione europea si dimostra per quello che è: un sindacato di grandi banche e mega creditori, accanitamente determinato a far sì che i greci svendano il Partenone e che gli irlandesi emigrino in Australia. Non c'è bisogno di essere keynesiani per capire che, se ciò dovesse accadere, la situazione non farà altro che precipitare in futuro (se i posti di lavoro tedeschi sono ancora salvi è solo perché la Cina e gli altri BRICs - Brasile, Russia e India - hanno acquistato tante macchine utensili e Mercedes).
Ovvio, oggi la Cina sostiene il mondo, ma la domanda è: per quanto tempo ancora? Ufficialmente, la Repubblica popolare cinese è nel bel mezzo di una transizione epocale da un'economia basata sulle esportazioni a una basata sui consumi. Il fine ultimo di un simile passaggio non è solo trasformare il cinese medio in un automobilista di periferia, ma anche spezzare la dipendenza perversa che lega la crescita cinese al deficit commerciale americano che Pechino è obbligato, a sua volta, a finanziare per evitare che lo Yen si apprezzi. Ma sfortunatamente per i cinesi, e forse per il mondo intero, il previsto boom dei consumatori si sta rapidamente trasformando in una pericolosa bolla immobiliare. La Cina ha contratto il virus Dubai, e ora ogni città con più di 100 milioni di abitanti (sono almeno 160, all'ultimo conteggio) aspira a differenziarsi con un grattacielo di Rem Koolhaas o un mega centro commerciale, prossima meta dello shopping mondiale. Il risultato è stato un'orgia di edilizia. E nonostante l'immagine rassicurante dei saggi mandarini di Pechino che controllano a sangue freddo il sistema finanziario, la Cina oggi sembra funzionare come 160 ripetizioni della serie Boardwalk Empire, dove i grandi capi politici della città e gli speculatori immobiliari privati stipulano i loro patti segreti con le gigantesche banche di stato. In effetti, si è sviluppato un vero e proprio sistema bancario ombra grazie alle grandi banche che spostano i prestiti dal loro bilancio verso società fiduciarie fasulle, evadendo i tappi ufficiali sul prestito totale. La scorsa settimana l'agenzia di rating Moody ha riferito che il sistema bancario cinese nasconde un trilione e mezzo di dollari in prestiti sospetti, soprattutto per mastodontici progetti municipali. Un altro servizio di rating ha avvertito che i «cattivi crediti» potrebbero costituire fino al 30% dei portafogli bancari cinesi.
Nel frattempo la speculazione immobiliare sta asciugando i risparmi domestici via via che le famiglie urbane, di fronte ai prezzi delle case alle stelle, si precipitano a investire negli immobili prima che questi siano spazzati via dal mercato (ricorda nulla?). Secondo Business Week, gli investimenti nell'edilizia residenziale costituiscono ormai il 9% del Pil, contro il 3,4% del 2003.
Una Lehman Brothers cinese?
Chengdu diverrà la nuova Orlando, e la China Construction Bank la prossima Lehman Brothers? Strana la credulità di così tanti «esperti» peraltro conservatori, convinti che la leadership comunista cinese abbia scoperto la legge del moto perpetuo creando un'economia di mercato immune dai cicli economici o dalle manie speculative.
Se la Cina avrà un atterraggio a dir poco duro, lo stesso sarà per i principali fornitori come Brasile, Indonesia o Australia. Il Giappone, già impantanato in una recessione in seguito a tre mega catastrofi, è estremamente sensibile a ulteriori shock provenienti dai suoi principali mercati. E la primavera araba rischia di trasformarsi in inverno se i nuovi governi non riusciranno ad aumentare l'occupazione o a contenere l'inflazione dei prezzi alimentari.
Mentre i tre grandi blocchi economici mondiali accelerano verso una depressione sincronizzata, devo dire che non sono più tanto entusiasta, come lo ero a 14 anni, dalla prospettiva di un classico finale alla Felsen - metallo aggrovigliato e giovani corpi dilaniati.
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Forse il «crash letale» non è dietro l'angolo. Come Proteo, il capitalismo si trasforma sempre in nuovi mostri. Ma il prezzo è sempre più alto. Fino a quando l'umanità e il pianeta potranno sopportarlo?
Il primitivo progetto di unione economica, monetaria, sociale e politica dell’Europa è subito incorso nella trappola del neoliberismo. Ben presto si è capito che l’obiettivo dei poteri forti era quello di far arretrare il lavoro e aumentare profitti e rendite finanziarie
La mitologia ci racconta di una giovinetta, Europa. Zeus la vede, si trasforma in toro, la fa salire sul dorso, la porta oltre il mare a Creta, la possiede. Ai giorni nostri il toro è il simbolo dei mercati finanziari, e il ratto e la violenza d’Europa sono un’efficace metafora di quanto sta accadendo. La nostra Europa non è una giovinetta, è l’economia più grande del mondo, con 27 paesi nell’Unione e 17 nell’area dell’euro, una complessa costruzione politica, una potenza mondiale. Come è potuto succedere che il toro della finanza la trascini sulle onde della speculazione, la pieghi alla sua volontà, la getti nella depressione?
Le domande che pone Rossana Rossanda – aprendo la discussione del manifesto e sbilanciamoci.info sulla “rotta d’Europa” – interrogano la crisi europea, il collasso di un progetto nato per rafforzare le economie del continente, allargarne l’autonomia politica, difenderne il modello sociale. Vediamo alcuni meccanismi che in vent’anni hanno portato la costruzione europea all’ impasse di oggi.
1. L’integrazione europea.Il 7 febbraio 1992 i governi europei hanno firmato a Maastricht il Trattato sull’Unione europea che apriva la strada all’Unione economica e monetaria e alla creazione dell’euro. Era appena stato introdotto il mercato unico – un’integrazione commerciale più stretta del passato – e liberalizzati del tutto, per la prima volta, i movimenti di capitale. Era finita la guerra fredda, caduti i regimi dell’est europeo, riunificata la Germania. Neoliberismo e finanza erano diventate le stelle polari dell’integrazione europea. L’orizzonte era quello di far arretrare il lavoro e aumentare profitti e rendite finanziarie. Il progetto europeo puntava sulle capacità del mercato di trainare la crescita attraverso più efficienza e investimenti favoriti da capitali mobili. La condizione necessaria era abbassare inflazione e tassi d’interesse, stabilizzare i cambi, ridurre deficit e debito pubblico, in modo da avvicinare tra loro – in termini finanziari – le economie interessate all’Unione monetaria. In altre parole, i governi europei rinunciavano agli strumenti “keynesiani” che avevano sorretto la crescita del dopoguerra (spesa pubblica e svalutazione del cambio) e confidavano nelle potenzialità della domanda privata per investimenti ed esportazioni in un’economia in via di globalizzazione.
Quel progetto inciampò subito nella trappola della finanza. Sei mesi dopo la firma del Trattato scoppiò una crisi che portò all’uscita dal sistema monetario europeo di lira (svalutata del 30%), sterlina e peseta. L’Italia di fine prima repubblica, con il governo di Giuliano Amato, prese misure draconiane – prelievo sui depositi bancari, privatizzazioni, tagli alla spesa – per mettere i conti in ordine, ridurre l’inflazione, fermare la speculazione. Da quella crisi inizia la fase più evidente del declino economico italiano. E in Europa nasce un’Unione monetaria subalterna alla finanza.
A vent’anni di distanza si può vedere con chiarezza quello che è successo: l’Europa non ha trovato una fonte alternativa di domanda (le esportazioni verso Usa e Asia hanno funzionato solo per la Germania e pochi altri), gli investimenti sono cresciuti poco e sono andati soprattutto verso gli alti rendimenti della finanza, i consumi sono rimasti fermi per i salari bassi e la disuguaglianza crescente, la spesa pubblica è stata bloccata dai vincoli del Patto di stabilità. È vero che i paesi dell’euro restano lontani dall’“iperfinanziarizzazione” di Usa e Gran Bretagna, è vero che l’affermazione dell’euro come moneta mondiale – la prima moneta che dietro di sé non ha oro e riserve – è stata un successo, è vero che l’Unione è la più grande area economica del mondo. Ma il nuovo spazio per la politica europea non è stato utilizzato perché è mancata l’altra metà delle politiche, quelle fiscali, sia sul fronte delle entrate (niente armonizzazione delle tasse, restano ancora paradisi fiscali dentro la Ue), sia sul fronte delle spese: niente spesa pubblica a scala europea che compensi i tagli a scala nazionale. Il risultato è che la crescita non c’è stata, ma c’è stato il passaggio di almeno dieci punti percentuali del Pil europeo dai salari a profitti e rendite finanziarie. L’Europa è rimasta subalterna al modello americano di capitalismo finanziario e ha perduto occupazione, diritti sociali e welfare state.
2. Centro e periferia.All’interno dell’Europa, quel modello di integrazione neoliberista non ha fatto i conti con l’economia reale e le forti differenze tra paesi in termini di capacità produttive e di export, tecnologie, specializzazioni, potere di mercato delle grandi imprese, produttività, occupazione, salari. Si diceva che mercati aperti ed efficienti avrebbero portato crescita e occupazione per tutti allo stesso modo. Così la politica dell’Europa per l’economia reale si è ridotta a imporre, dopo il libero mercato dei capitali, analoghe liberalizzazioni sui mercati dei prodotti – che spesso hanno distrutto i piccoli produttori nazionali dei paesi della periferia – e sul mercato del lavoro, con politiche antisindacali, di “flessibilità” e misure che hanno generalizzato la precarietà e abbassato i salari. È stata cancellata l’idea che siano necessarie (o anche solo possibili) politiche industriali che guidino il cambiamento di che cosa e come si produce, un cambiamento reso più importante dall’arrivo delle tecnologie dell’informazione e comunicazione e dall’evidente insostenibilità ambientale del nostro sviluppo.
In un contesto di bassa crescita, l’integrazione dei mercati e della moneta ha reso più forti le economie già forti. Le esportazioni tedesche, sostenute da tecnologia e produttività, hanno invaso il resto dell’Europa. Il risultato è stata una concentrazione del potere economico e politico, generando una dinamica centro-periferia: Germania, Francia (a fatica) e Nord Europa nel centro. Sud Europa – Italia compresa –, Irlanda ed Est nella periferia. Gran Bretagna più fuori (vicina al modello di finanziarizzazione Usa) che dentro l’Europa.
3. Le strade della periferia.All’avvio dell’Unione monetaria, i paesi della periferia hanno cercato di “arrangiarsi” prendendo direzioni diverse. Grecia e Portogallo hanno usato la spesa pubblica finanziata dal debito – approfittando dei bassi tassi d’interesse iniziali consentiti dall’euro e aggirando il Patto di stabilità – per distribuire occupazione e salari; la perdita di capacità produttive ha peggiorato i conti con l’estero e il debito pubblico è stato finanziato sempre più da banche estere, che ora temono l’insolvenza e hanno scatenato la crisi.
L’Irlanda, un vero paradiso fiscale per le imprese mondiali, è cresciuta in modo accelerato per l’afflusso di capitali esteri sempre più destinati ad alimentare speculazioni finanziarie e bolla immobiliare; la crisi del 2008 ha azzerato questo modello e lasciato disoccupazione di massa e povertà diffusa.
La Spagna ha avuto una crescita legata agli ultimi sussulti della modernizzazione (in Catalogna in particolare), a un’espansione della spesa pubblica e alla bolla immobiliare, con forti afflussi di capitali esteri e ora è esposta sul fronte finanziario.
L’Italia della “seconda repubblica” ha visto affermarsi con i governi Berlusconi un’economia del privilegio fatta di declino industriale e qualche nicchia di export, saccheggio del settore pubblico e dei beni comuni, evasione fiscale e condoni, consumi opulenti dei ricchi e precarizzazione del lavoro. I governi di centro-sinistra hanno tentato qualche correzione, ma non hanno messo in discussione l’agenda neoliberista: privatizzazioni (acqua compresa) e rigore nei conti pubblici, tassazione agevolata della finanza, nessuna politica industriale e nessun freno alle disuguaglianze. Il risultato è stato un decennio di ristagno economico – oggi in termini reali il Pil italiano è al livello del 2001 – che nasconde un forte spostamento di reddito, ricchezza e prospettive di vita dal 90% degli italiani – lavoratori dipendenti, giovani, Mezzogiorno – al 10% di italiani più ricchi. Senza crescita, anche se la spesa pubblica è stata tenuta stretta, era inevitabile che il rapporto debito-Pil del paese tornasse al 125% non appena è arrivata la recessione post-2008. In Italia, tuttavia, circa metà del debito pubblico è finanziato dai risparmi interni e rappresenta quindi una ricchezza privata nazionale; questo limita un po’ il potere di ricatto che hanno i capitali esteri, ma l’attacco speculativo di inizio luglio ha portato comunque le nuove enmissioni di titoli italiani a differenziali record dei tassi d’interesse rispetto a quelli tedeschi. In generale il livello di finanziarizzazione dell’Italia è rimasto limitato, borsa e fondi pensione hanno un ruolo modesto, e questo ha ridotto gli effetti negativi della crisi del 2008 sull’Italia.
Con le diverse specificità nazionali, la crisi della periferia europea si può leggere come un rimbalzo perverso del crollo finanziario del 2008, con la speculazione che attacca (come sempre) le economie più fragili. È stata resa più grave dal ritardo della reazione europea, che avrebbe dovuto mettere subito – nel maggio del 2010 – il debito pubblico dei paesi membri al riparo dietro la potenza economica dell’Unione monetaria, sottraendolo alla speculazione.
4. Le disavventure dell’Unione monetaria.L’Unione monetaria europea si è infilata in un’ impasse da cui non sa uscire. Non aveva previsto le possibilità di crisi e ha dovuto mettere frettolosamente in piedi i fondi d’intervento, coinvolgendo senza motivo anche il Fondo monetario. Non trova l’accordo dei governi, divisi tra paesi forti e deboli, tra tutela delle banche creditrici e tutela dell’euro. Si trova con una Banca centrale europea la cui rigida “autonomia” rende impossibili gli interventi anche quando si trovano d’accordo tutti i governi. Le misure di austerità imposte ai paesi in crisi – Atene, Dublino, Lisbona e ora Roma – possono “accontentare” nell’immediato la finanza – tutelando i creditori, aumentando i rendimenti finanziari, costringendo a privatizzare beni e imprese pubbliche. Ma rendono impossibile l’uscita dalla crisi: drastici tagli a spesa e consumi aggravano la recessione, gli investimenti si fermano, le entrate dei governi crollano, il servizio del debito estero diventa impossibile.
L’insolvenza – concordata o meno – diventa più probabile; in questo caso le banche esposte potrebbero rischiare il fallimento (con un avvitamento della crisi finanziaria), i capitali internazionali smetterebbero di finanziare i paesi a rischio, l’euro ne sarebbe travolto. Per i paesi in crisi, l’esperienza argentina mostra che l’insolvenza offre un po’ di ossigeno – non si devono più usare le tasse per pagare il debito alle banche straniere –, l’economia si può riprendere, ma senza la possibilità di svalutare la moneta, Grecia, Portogallo e Italia non possono puntare sulle esportazioni. Le ipotesi di “uscita dall’euro” sono poi del tutto fantasiose; non ci sono procedure previste e il costo sarebbe insostenibile: il debito estero resterebbe denominato in euro e si rivaluterebbe dello stesso importo della svalutazione.
I paesi in crisi sono senza via d’uscita, ma lo stesso vale per l’insieme dell’Europa. Una recessione provocata dall’austerità che investe un terzo dell’economia europea trascinerebbe tutto il continente in una lunga depressione (dove esporterebbero a questo punto i tedeschi?).
Di fronte a questa emergenza si pone – grandissima – la questione della democrazia. Per quanto tempo è possibile negare, insieme alle prospettive di crescita, anche la pratica della democrazia ai paesi della periferia europea? Una politica d’austerità senza futuro, imposta da Bruxelles ai partiti di ogni colore è una ricetta per trasformare le ondate di populismo anti-europeo in un violento rigetto della politica e dell’Europa. Le somiglianze con gli anni trenta sono davvero troppe.
La crisi di luglio ha fatto sciogliere l’illusione che un’Unione europea fondata su neoliberismo e finanza potesse funzionare. Le regole ora devono cambiare, stanno già cambiando in ogni caso: è l’occasione per far mutare rotta alla costruzione dell’Europa.
Le direzioni da seguire sono innanzi tutto il ridimensionamento della finanza: non è possibile assicurare agli investimenti finanziari rendimenti reali del 5-10% che l’economia reale non può dare. Servono una regolamentazione più stretta, la tassa sulle transazioni finanziarie e un’agenzia di rating pubblica europea (altre proposte sono nel libro Dopo la crisi. Proposte per un’economia sostenibile, Edizioni dell’Asino, scaricabile da www.sbilanciamoci.info).
È necessaria la revisione del Patto di stabilità, che ora funziona solo come freno, e che dev’essere affiancato da un acceleratore che sostenga la domanda e porti a uno sviluppo sostenibile, attraverso una spesa europea finanziata da eurobond, o la possibilità di spese pubbliche nazionali fuori dai vincoli se dirette, ad esempio, alla riconvensione ecologica dell’economia. I conti pubblici – è vero – vanno rimessi un po’ in ordine, ma le risorse vanno prese – con imposte sui patrimoni, sulle rendite, sulle successioni – da quel 10% più ricco di europei che in questo decennio ha messo le mani su tutto l’aumento di ricchezza. È all’economia reale, a produzioni sostenibili e a lavori di qualità che devono essere ora destinate le politiche e le risorse dell’Europa. Tutto questo va discusso e deciso, nelle città come a Bruxelles, con un dibattito democratico che l’Europa non ha mai avuto. Meno disuguaglianze, più lavoro, sostenibilità e democrazia potrebbero essere le stelle polari per una rotta d’Europa che meriti di essere percorsa.
L’articolo, pubblicato in forma ridotta dal manifesto del 23 luglio 2011, è tratto dal sito Sbilanciamoci.info dove è stato postato il 19 luglio. L’articolo di Rossana Rossanda è anche in eddyburg, qui
L'icona rappresenta il ratto d'Europa, raffigurata in un cratere di fabbricazione pestana, ed è tratto dal sito www.issirfa.cnr.it
«A votare sono stati i mercati». Credo di aver letto per la prima volta questa espressione, o qualcosa di simile, sul quotidiano La Repubblica nella prima metà degli anni '90. Meno di un anno dopo il fallimento della banca d'affari Barings - una delle più antiche e "rispettabili" del Regno Unito - aveva aperto uno squarcio sul mistero dei mercati che «votano». Lì per lì la colpa era stata data a un giovane e intraprendente impiegato della filiale di Singapore che, all'insaputa dei suoi dirigenti, aveva perso l'equivalente di un miliardo di euro operando allo scoperto sulla borsa di Tokyo. Poi, poco a poco, si era venuto a sapere che di quei "giochi" era al corrente tutto lo staff dirigente della banca. E quelli di molte altre banche, che facevano esattamente la stessa cosa, su altri titoli o su altre piazze.
Già allora c'erano dunque tutti gli elementi per capire alcune cose: primo, che quelle operazioni, e altre consimili, si dovevano impedire; ma nessuna delle maggioranze al governo dei principali paesi dell'Occidente lo volle fare. E nessuna delle forze di opposizione - politica, o sociale, o associativa, o culturale - ne aveva fatto, né ne avrebbe fatto in seguito, la sua bandiera. Eppure - secondo punto - la questione era della massima importanza; perché se a votare sono «i mercati» (e che mercati!), è chiaro che il voto dei cittadini non conta più; e alla democrazia si sostituisce la dittatura della finanza.
Oggi siamo a una resa dei conti. La finanza globale, con il suo «voto», controlla ormai il mondo intero. Ma non controlla se stessa. Quello che succede non è il risultato di un lucido piano concordato a tavolino, ma l'effetto di un meccanismo cieco che si chiama accumulazione del capitale. L'accumulazione del capitale non ha paura delle crisi, anche di quelle che provocano gigantesche distruzioni di ricchezza, comprese le guerre. E infatti, le conseguenze delle misure prese per fare fronte alla crisi finanziaria sono l'equivalente di un bombardamento sulla popolazione, sui posti di lavoro, sui redditi, sulle strutture produttive, sulla residua integrità del territorio di un paese. L'importante è che dopo la crisi o la distruzione si ricominci; perché è il meccanismo, e non il risultato, quello che va salvato.
Questo è il modo in cui procede la "crescita"; invocarla per porre rimedio all'impasse attuale vuol dire sostenere una continua riproposizione di quel meccanismo. La crisi attuale ci insegna dunque che la politica italiana - come quella di molti altri paesi europei - si fa in sede Ue; e che a farla è il «voto» dei mercati, cioè il capitale finanziario. Poi, che il voto dei cittadini non conta niente; i referendum hanno detto chiaramente che i cittadini italiani non vogliono le privatizzazioni: né dell'acqua né dei servizi pubblici locali; mentre la manovra appena approvata si regge su privatizzazioni destinate ad azzerare per sempre qualsiasi forma di federalismo (alla faccia della Lega), mettendo i servizi pubblici in mano alla finanza e relegando i sindaci al compito di gestire l'anagrafe e dare la caccia agli extracomunitari.
Ma non esistono neanche più i partiti. Quando sono in gioco questioni cruciali, la cosiddetta opposizione si rivela per quello che è: un mero puntello del Governo. Perché per loro, alle scelte del Governo - che non sono una «politica», essendo l'esatto contrario di quello che il Governo era andato sostenendo e promettendo fino a tre giorni fa - come alle scelte dell'Unione Europea - quali che siano; perché nessuno sa quali saranno - cioè ai diktat della finanza internazionale non c'è alternativa.
Nessuno prova più a proporre qualcosa, se non invocare generiche misure per la «crescita»; senza neanche più elencarle - tranne minuzie come l'abolizione degli Ordini professionali o quella delle Province, senza spiegare con che cosa sostituirle - perché ogni proposta potrebbe venir vanificata, da un giorno all'altro, da un nuovo sobbalzo dei mercati finanziari. Così Berlusconi e il suo Governo, tenuto in sella dai nuovi «responsabili», che si guardano bene dal chiamare alla mobilitazione contro queste misure - e se ne vantano - possono perpetuare le loro truffe e i loro imbrogli (da Bertolaso a Milanese, passando per Bisignani e compagnia - senza nemmeno intaccare il costo stratosferico dei propri e degli altrui parlamentari. Per non parlare di una vera patrimoniale: quella che Tremonti ha fatto per anni, al contrario, con i condoni e gli scudi fiscali.
La Grecia, come Stato, è già fallita; ormai lo riconoscono tutti. Non ha né avrà mai più la possibilità di fare fronte ai suoi debiti. Ma prima di dichiararla tale si vuole raschiare il barile fino al fondo: succhiare tutto quello che si può ancora estrarre dai redditi dei suoi cittadini e impadronirsi di tutti i servizi pubblici e i beni comuni di cui è ancora in possesso. Quello che l'Ue deve decidere è che cosa caricare sui redditi dei contribuenti, soprattutto tedeschi, ma non solo: se i costi dell'insolvenza della Grecia, per salvare le banche cariche di bond greci, oppure l'insolvenza delle banche che hanno quei bond. Ma il problema potrebbe ripresentarsi altrove; perché nel bel mezzo di questo dilemma il «contagio» si è trasmesso ad altri paesi già in bilico; e fermarlo adesso è molto più difficile e costoso: naturalmente per chi dovrà farsene carico, cioè i lavoratori e i disoccupati europei. Per di più in un contesto assai turbolento. Anche gli Stati Uniti sono sull'orlo del default. E neanche il governo cinese, loro principale creditore, se la passa più tanto bene; e potrebbe cominciare a presentargli il conto. Insomma, tutto lascia credere - ma ben pochi lo dicono, perché il problema è per ora quello di passare all'incasso di quanto si è già estorto - che questa manovra mostruosa non metterà affatto «al sicuro» i conti dello Stato italiano, come non erano «al sicuro» quando Tremonti ce lo assicurava una settimana, un mese, un anno o dieci anni fa. E che è sempre più probabile che il punto di approdo di questa deriva sia comunque il default; in un contesto internazionale in cui non saremmo certo i soli. Allora tanto vale arrivarci subito.
Sicuramente la minaccia di farlo potrebbe costringere l'Unione Europea a cambiare rotta, almeno per un po': assumendo o garantendo il debito di tutti i paesi membri e dando loro un po' di respiro. Ma per fare che? Il problema vero non è il debito, ma un meccanismo di «crescita» bloccato; che non riprenderà certo se banche e Stati europei avranno la possibilità di mettere sul mercato qualche decina di miliardi in più. Perché quei mercati sono in gran parte saturi e quelle produzioni e quegli investimenti non fanno «sviluppo» né occupazione, ma solo danni e violenza.
Valga per tutti il Tav Torino-Lione, che ormai si configura come niente altro che una truffa all'Unione Europea: tutti sanno che non verrà mai portato a termine; ma potrebbe tenere in vita per qualche anno i costruttori a cui il Sindaco di Torino e il Presidente del Piemonte hanno legato le loro fortune: a spese della popolazione della valle, che è un esempio vivente di democrazia partecipata; e dell'intero popolo italiano, ingannato (ma fino a quando?) con la favola della «modernizzazione» delle infrastrutture. Ma sono forse diversi il piano «Fabbrica Italia» di Marchionne, o il programma di incenerimento dei rifiuti in tutta Italia (proprio mentre si dimostra che la raccolta differenziata può arrivare all'80 per cento; e la riduzione fare anche di più), o i progetti edilizi sull'area dell'Expò milanese?
Certo, le cose giuste da fare non mancherebbero: dalla conversione energetica (efficienza e fonti rinnovabili) a quella agricola e alimentare; dalla mobilità sostenibile di persone e merci alla salvaguardia del territorio; dal potenziamento della ricerca - mirata ai temi della conversione ecologica - e dell'istruzione, di base e permanente, al potenziamento dei servizi pubblici locali come volano di un'economia centrata sui territori (cioè con rapporti più diretti tra produzione e mercati locali, in modo da sottrarsi - senza impossibili protezionismi - alla morsa di una concorrenza globale che distrugge le economie locali, crea disoccupazione e impone condizioni di lavoro inaccettabili); da una riforma della Pubblica amministrazione che metta in mano a chi ci lavora e chi la utilizza il compito di individuare le sacche di inefficienza e nuovi modi per assolvere ai propri compiti (l'opposto di quello che fa Brunetta, con i risultati che tutti vedono) a un reddito garantito che metta tutti in grado di trovare il modo di valorizzare al meglio le proprie capacità e i propri saperi.
Ma chi può fare tutto ciò, e altro ancora? Per ora nessuno. Ma è nella risposta di massa di tutti gli indignati d'Europa, se e nella misura in cui si svilupperà e riuscirà a imporsi, che si potranno creare gli embrioni di organizzazioni e di strutture di gestione alternative a quelle esistenti; in grado di imporre anche all'agenda politica dell'Unione Europea gli obiettivi di una politica che ci risollevi dal mondo di macerie in cui la sua governance ci sta precipitando.
13 luglio 2011
PIÙ CONFLITTO DI CLASSE, MENO MOVIMENTISMO
di Riccardo Bellofiore, Joseph Halevi,
Massimiliano Tomba, Giovanna Vertova
Compriamo (o scarichiamo on-line) il manifesto tutti i giorni, alcuni di noi ormai da 40 anni. Lo leggiamo però sempre di meno, senza sapere bene il perché. C'è di peggio. Ogni tanto lo leggiamo. Come l'8 luglio scorso, attirati da due firme che stimiamo: Guido Viale e Loris Campetti. Il primo dice, molto spesso, cose giuste. Tuttavia, nel suo articolo dell'8 luglio deraglia, quando infila, quasi fosse una ovvietà, una frase secondo cui l'intervento dello stato sarebbe impedito dal fatto che «mancano i soldi e si ha paura di rompere il tabù dei bilanci, che sono fatti di debiti e quindi in mano alle società di rating». Il secondo parla della necessità di superare una «vecchia certezza», quella secondo cui sarebbe «imprescindibile» il legame reddito-lavoro.
Sarebbe interessante sapere che teoria economica ha in mente Viale, e su cosa Campetti basi la sua affermazione. Vero è che una tesi come la sua è stata attribuita tempo fa dalla stampa a Maurizio Landini. È anche stato riportato con sussiego che Landini non avrebbe letto Marx. Certo, viene da pensare, leggersi il Capitale non è un obbligo. In qualche caso aiuterebbe: basti il riferimento al salario di sussistenza per la classe dei lavoratori, dunque per il proletariato nella sua interezza, del tutto indipendentemente dalla produttività.
Aiuterebbe anche avere una idea di economia meno corrotta dalla teoria dominante, in tutti i suoi diversi filoni, che è ciò che sta dietro l'idea di Viale, secondo cui la politica economica di oggi patirebbe una «mancanza di soldi» e «si avrebbe paura di rompere i tabù», ostaggio delle agenzie di rating. Non c'è nessuna «oggettiva» mancanza di soldi, né si tratta di cose separate. La «mancanza di soldi» è una costrizione politica, applicata con il braccio armato delle agenzie di rating. Una legge dura come il marmo, ma tutto meno che naturale.
I denari pubblici non difettano, ma vengono resi scarsi dall'imposizione di portare il bilancio pubblico in pareggio. È una scelta precisa di classe che in Europa lega la deflazione salariale, perseguita dalla politica monetaria e dalla flessibilizzazione del lavoro, alla decurtazione del reddito sociale tramite i tagli alla spesa pubblica. È questa una scelta che Alain Parguez chiama una rareté désirée, una «scarsità» voluta e prodotta, per i rapporti di classe e di potere, anche geopolitici. Sennò ci si illude che basti ingabbiare le agenzie di rating, o uscire dall'euro, per far scomparire il problema. Che è politico e sociale, non «tecnico».
Contro ogni apparenza, il manifesto sovente riproduce una visione caricaturale della sinistra e del movimento dei lavoratori («produttivisti» e «lavoristi»), in una sorta di desiderante auspicio di una ripetizione dell'esperienza del «movimento dei movimenti». Fallito, e non a caso, nonostante la sua ricchezza. Bisognerebbe chiedersi il perché. Noi crediamo ancora che il problema sia il capitalismo, e i rapporti di classe, e rapporti di classe centrati sul lavoro - che tutto è meno che un bene comune. Checché se ne dica, la classe non è acqua.
Senza stare su questo terreno, non si capisce nulla della crisi globale, della crisi europea, della devastazione del lavoro, dell'attacco alla riproduzione. La questione è l'appropriazione dei beni comuni solo in conseguenza delle modalità della produzione e riproduzione capitalistica. Se qualcuno crede che il primo piano di discorso «spiazzi» il secondo, è fuori strada: si sveglino i sognatori. Ed è su questo terreno che la questione del genere e la questione della natura possono essere affrontate, incrociando naturalmente la questione del lavoro.
È impossibile prescindere dal lungo e paziente lavoro della critica e della lotta che ci attendono. Una critica e una lotta che nascono in un momento e in un luogo precisi: la messa in questione, nelle lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta, di «cosa», come» e «quanto», e «dove» produrre. Una «tradizione» che forse a tutt'oggi è più ricca di molte delle «novità» che insegue il manifesto. Certo non se ne esce se non con una riattivazione del conflitto di classe in senso stretto, non affogandolo in un generico movimentismo; e con un intervento politico forte sulla composizione della produzione, non rimuovendo la questione con i giochi di prestigio. È di questo che si dovrebbe ragionare. Non dei «soldi che mancano» o delle ennesime confusioni sul reddito e il lavoro. Il manifesto dovrebbe aprire una discussione vera, per andare avanti, non indietro: riproponendo stili di ragionamento «forte», su una scala almeno europea. E a quella discussione siamo disponibili.
14 luglio 2011
BOCCIATE UN IRREGOLARE
Loris Campetti
Non so se sarei in grado di superare un esame di marxismo al cospetto di una commissione giudicante preparata e severa composta da Riccardo Bellofiore, Joseph Halevi, Massimiliano Tomba e Giovanna Vertova (il manifesto, 13 luglio). Quasi sicuramente sarei bocciato, e sarebbe giusto così: troppo tempo è passato dalle mie letture del Capitale e altri testi su cui credevo di essermi formato. In più, queste letture sono state da me contaminate dallo studio di troppi irregolari del marxismo, alcuni/e addirittura consiliari (consiliari, non conciliari). Certo mi sono perso per strada "affogando" il «conflitto di classe in senso stretto» in un «generico movimentismo» che ha confuso il mio cervello a proposito del rapporto tra reddito e lavoro. Il fatto più grave, però, è che con questo deviazionismo avrei contaminato la testata su cui mi onoro di scrivere. Se dico che è entrata in crisi una certezza novecentesca che è stata prevalente nella sinistra e nel sindacato - la inseparabilità del reddito dal lavoro - mento, perché Marx e i sani marxisti avevano fatto un ragionamento molto più avanzato. Faccio ammenda per non aver basato la mia riflessione sui fondamentali. Faccio anche ammenda per aver tentato di mettere in comunicazione la lotta di classe «in senso stretto» con i movimenti invece di considerarli fumose (spero non maleodoranti) insorgenze sociali.
Alcuni, non so i quattro amici scriventi al manifesto, ritengono addirittura colpevole la mancata battaglia del giornale per dissuadere gli amici della Fiom dall'intrattenere relazioni pericolose e inquinanti con precari, studenti, ambientalisti, attivisti dei beni comuni. E poi, ha poco da vantarsi Landini per aver messo al centro della sua piattaforma il nodo del cosa, come, quanto e dove produrre: non solo forse non ha letto Marx, ma neanche ha riflettuto sulle lotte "operaie" degli anni Sessanta e Settanta, «una tradizione che forse a tutt'oggi è più ricca delle 'novità' che insegue il manifesto».
Eccoci serviti. Non essendo all'altezza di competere sul piano teorico con compagni più preparati di me (lo dico con convinzione, senza sfottere), mi limito ad invitare, con affetto, i nostri amici collaboratori Riccardo e Joseph e con rispetto Massimiliano Tomba e Giovanna Vertova, a darsi una calmata, per evitare ai lettori di pensare che il duro conflitto oggi in atto in Italia, in Europa e nel mondo sia determinato da uno scontro di posizioni tra marxisti linea rossa e marxisti linea nera. E li invito a mettere a disposizione il loro sapere per aiutare chi quotidianamente combatte sotto l'incalzare dell'attacco avversario. Dove l'avversario forse ha letto Marx e forse no, ma certamente è orientato da un pensiero diverso: il pensiero unico.
14 luglio 2011
NON SOLO LOTTA DI CLASSE
di Guido Viale
Gentili accademici, mi dispiace essere incorso nelle vostre critiche, dato che di alcuni di voi nutro la massima stima (di altri non posso, perché, nella mia insipienza, non ho mai letto nemmeno uno scritto). La cosa che più mi dispiacerebbe è però che voi smetteste di comprare o di leggere il manifesto per colpa mia. Per questo cerco di spiegarmi.
Premetto che io Il Capitale l'ho letto e, in gioventù, anche studiato. Però le vostre critiche mi fanno pensare - e solo ora - di non averne capito abbastanza. Un'altra cosa che non capisco - e non lo dico certo per dissociarmi, è che cosa accomuni il mio articolo, oggetto delle vostre critiche, a quello di Loris Campetti. Per cui rispondo solo a ciò che rinfacciate direttamente a me.
Altra premessa: mi considero un divulgatore e non un teorico e faccio grandi sforzi per rinchiudere quello che cerco di comunicare nello spazio ristretto del numero delle battute concesso in un quotidiano, per di più di ristretta foliazione. Se scrivessi un testo accademico - cosa che non ho mai fatto né mai farò - o un rapporto di lavoro - che è stato ciò che mi ha impegnato maggiormente nella mia vita professionale - in cui la precisione fa aggio sulla lunghezza, avrei forse aggiunto qualche inciso in più. Se però le espressioni che ho usato lasciassero adito a errori che potrebbero portare i lettori su un cammino sviante, dovrei riconoscere di essere venuto meno ai miei doveri di divulgatore. In tal caso ne farei sicuramente ammenda.
Le vostre critiche sembrano appuntarsi su due frasi che ho usato: «mancano i soldi e si ha paura di rompere il tabù dei bilanci, che sono fatti di debiti e quindi in mano alle società di rating». Ok. Non ho mai detto però che la «mancanza di soldi» o che «il tabù del pareggio di bilancio» siano fatti naturali. Anzi, ho scritto che, di fronte a una sollevazione della Grecia - e a maggior ragione di tutti i paesi sotto scacco - soprattutto se appoggiati, volenti o nolenti, dai rispettivi governi, i soldi si troverebbero: «Basterebbe quindi che Papandreu...si schierasse dalla parte dei suoi concittadini che si oppongono alla svendita del paese. L'Unione Europea sarebbe allora costretta ad aprire la borsa, non solo per la Grecia, ma per tutti gli Stati membri in difficoltà». Addirittura ho precisato che «per un'operazione del genere (cioè «trovare i soldi») non mancano proposte operative di ingegneria finanziaria». Non ho neanche mai scritto, come si evince invece dalle vostre critiche, che il problema sia «ingabbiare le agenzie di rating». Anzi, ho scritto, anche se in un precedente articolo: «le società di rating, interamente controllate dai big della finanza internazionale...che sta ora scommettendo sul fallimento di quegli Stati che si sono svenati per salvarla, svenando a loro volta i propri cittadini». Il problema sarebbe quindi quello di «ingabbiare», per usare la vostra espressione, non le società di rating, ma la finanza internazionale; che è come a dire «ingabbiare» il capitale. Obiettivo che credo ci accomuni, magari in una formulazione più appropriata. Ma non son certo io ad aver parlato di «ingabbiare».
La sostanza delle nostre divergenze - se ci sono - e della vostra irritazione - che sicuramente c'è - rimanda forse, se ho capito bene, alla vostra tesi secondo cui «l'appropriazione dei beni comuni (si verifica) solo in conseguenza delle modalità della produzione e della riproduzione capitalistica». Ma chi ha mai scritto il contrario? Certo non io. Quello che penso io è che una politica di riappropriazione dei beni comuni - che vuole dire lotta per il loro controllo diffuso e condiviso - mina le basi «territoriali» del potere del capitale: quelle che più direttamente coinvolgono il lavoro vivo; il quale «vive» sempre in un qualche territorio. La lotta per i beni comuni, e per far diventare «comuni», o più comuni, certi beni è lotta di classe? Anche, ma non solo. Forse è di qui in poi che non andiamo più d'accordo.
Con immutata stima.
Le drastiche misure di austerità che i governi europei, incluso il nostro, stanno infliggendo ai loro cittadini non riguardano soltanto l´economia. Pongono questioni cruciali per il futuro della democrazia nella Ue. Prima questione: le organizzazioni cui i governi mostrano di avere ceduto la sovranità economica, quali il Fmi, la Bce, la Commissione europea e le agenzie di valutazione, non godono di alcuna legittimazione politica. Inoltre si sono mostrate incapaci sia di capire le cause reali della crisi, sia di predisporre interventi efficaci per rimediarvi. Come si spiega allora l´atteggiamento di supina deferenza che verso di loro mostrano i governi? Dopodiché occorre chiedersi quale sbocco politico le misure di austerità potrebbero avere nel medio periodo. Sia la storia del Novecento che molti segni recenti attestano che lo sbocco più probabile potrebbero essere regimi autoritari di destra.
Il Fmi per primo non ha saputo cogliere, fino all´estate 2008, elementi chiave sottesi alla crisi. Non ha dato peso al degrado dei bilanci del settore finanziario, ai rischi di un effetto leva troppo alto, alla bolla del mercato immobiliare, alla rapida espansione del sistema bancario ombra. Ha sottovalutato i rischi di contagio insiti nel sistema finanziario internazionale. Questa serie di giudizi negativi sulle capacità previsionali e terapeutiche del Fmi è stata formulata da un ufficio di valutazione interno al Fondo stesso, in un rapporto del febbraio 2011, non da avversari prevenuti. Sarebbero queste le credenziali con cui il Fmi vuole adesso imporre ai nostri paesi tagli ai bilanci pubblici e privatizzazioni a raffica che da un lato privano i cittadini di diritti fondamentali, dall´altro finiranno per peggiorare la stato dell´economia anziché migliorarlo?
Quanto alla Bce, si sa che i trattati di Maastricht le impongono un unico scopo: deve contenere l´inflazione sotto il 2 per cento. Sui computer lampeggiano indicatori drammatici: disoccupazione in rialzo, proliferazione dei lavori precari, crescita delle disuguaglianze, smantellamento dell´apparato pubblico, salari stagnanti, pensioni indecenti. Mentre il sistema finanziario che ha causato la crisi è apparso finora inattaccabile da ogni seria riforma. Tutto ciò cade al di fuori degli orizzonti della Bce. L´essenziale è la stabilità dei prezzi. L´idea che un punto di inflazione in più avrebbe di sicuro i suoi costi, ma potrebbe forse rendere meno stolidamente aggressive le misure di austerità a carico dei cittadini Ue, per la Bce appare irricevibile. Né gli orizzonti della Ce appaiono più ampi, come provano i documenti provenienti ogni mese da Bruxelles.
L´influenza che hanno sulle misure di austerità le agenzie di valutazione, alle quali i governi Ue sembrano guardare come a un giudizio di Dio, è ben rappresentato da una dichiarazione del primo ministro francese François Fillon. In vista delle presidenziali 2012, ha detto che per prima cosa «bisogna difendere la tripla A della Francia». A ben vedere la battuta suona grottesca. Ma altri governi Ue paiono condividere lo stesso intento, anche se quello tedesco a inizio luglio ha espresso critiche sul declassamento del debito portoghese. Al riguardo i media in genere fungono da diligenti amplificatori. Se una delle maggiori agenzie ci declassa il rating, ripetono ogni giorno, siamo rovinati. Nessuno comprerà più i titoli di stato, oppure gli interessi sui medesimi saliranno talmente da diventare insostenibili per il bilancio pubblico. Quindi i mega-tagli alla spesa sono privi di alternative. In realtà non è affatto vero, ma per chi è vittima della "cattura cognitiva" per mano delle dottrine economiche neo-liberali esse sono invisibili.
Un paio di cose dovrebbero considerare i governi Ue e i media, prima di genuflettersi dinanzi ai giudizi delle agenzie di valutazione. Anzitutto, come proprio esse si affannano a spiegare ogni volta che qualcuno vuol fargli causa perché grazie alle loro valutazioni ha perso molti soldi, i loro cocktail di lettere e segni sono semplici opinioni. Perciò possono essere giuste o sbagliate - lo dicono loro - e in forza del Primo Emendamento della Costituzione americana che tutela la libertà di parola, nessuno può prendersela se un´agenzia esprime un´opinione rivelatasi sbagliata. In secondo luogo, le agenzie di valutazione sono state - cito da una poderosa indagine sulla crisi presentata al Congresso Usa a gennaio 2011 - «ingranaggi essenziali nella ruota della distruzione finanziaria… I titoli connessi a un´ipoteca che furono al cuore della crisi non avrebbero potuto venire commercializzati e venduti senza il sigillo della loro approvazione». Sigillo consistente nella tripla A, il voto più alto che si possa dare alla solvibilità di un debitore. Prima della crisi tale voto veniva distribuito dalle agenzie a velocità supersonica. In sette anni, si legge nello stesso rapporto, la sola Moody´s lo attribuì a quasi 45.000 titoli ipotecari, in seguito malamente svalutati. Con i suddetti limiti autoconclamati, e un simile precedente storico, il tremore dei governi Ue dinanzi a dette agenzie appare o ingenuo, o politicamente sospetto.
Giorni fa il capo dell´eurogruppo Jean-Claude Juncker ha tranquillamente affermato che a causa delle misure di austerità «la sovranità dei greci verrà massicciamente limitata». Poiché l´austerità ha ovunque la stessa faccia, ne segue che dopo verrà limitata anche la sovranità dei portoghesi, degli spagnoli, degli italiani. Chissà se Juncker ha un´idea di dove possa condurre tale strada. Nel 1920 il giovane Keynes un´idea ce l´aveva. In merito alle riparazioni follemente punitive imposte alla Germania con il trattato di Versailles del 1919, scriveva in Le conseguenze economiche della pace: "La politica di ridurre la Germania alla servitù per una generazione, di degradare la vita di milioni di esseri umani, e di privare della felicità un´intera nazione dovrebbe essere considerata ripugnante e detestabile… anche se non fosse il seme dello sfacelo dell´intera vita civile dell´Europa" (enfasi di chi scrive). Keynes era rimasto colpito durante le trattative, cui aveva partecipato, dall´ottusa incapacità dei governanti delle potenze vincitrici di ragionare sulle conseguenze di misure che strappavano la sovranità economica a intere nazioni. I governanti di oggi non sembrano mostrare una maggiore lungimiranza di quelli di ieri, permettendo alle destre di guadagnare un crescente favore popolare al grido di "l´austerità uccide l´economia" (lanciato tra gli altri da Antonis Samara, leader della destra greca). Un grido destinato a far presa, perché coglie il nocciolo della questione, sebbene provenga paradossalmente dalla parte politica che reca le maggiori responsabilità della crisi.
Prove tecniche del cantiere alternativo
di Loris Campetti
Se non incrocia la politica e la rappresentanza politica, il vento del cambiamento può rovesciarsi e soffiare contro chi l'ha sollevato, dentro una svolta reazionaria di massa. Senza i movimenti che costruiscono e provano a praticare un modello sociale e di relazioni alternativo a quello dominante non si va da nessuna parte. Ma i movimenti non vivono senza mettersi in rete e rifluiscono dentro un meccanismo di delega della politica o di disinteresse alla politica presente, quella che usa la forza pubblica contro la pubblica opinione. Costruire una democrazia intesa come diritto non di delega ma di ingerenza è compito lungo e difficile ma il tempo per provarci è ora, prima che cambi il vento.
Costruire il cantiere dell'alternativa è il macigno messo sul tavolo di uno dei tanti dibattiti che si animano a «Sherwood festival», più di un mese di confronti e affondi che fanno il punto su un anno vissuto pericolosamente nelle fabbriche, nelle scuole, nelle valli, nei rifiuti, tra conflitti di classe, di genere, nel rifiuto delle guerre tra poveri di una società dominata dalla precarietà di massa. Dibattiti che preparano le giornate del decennale di Genova e un autunno infuocato. Dunque, il cantiere. Ne hanno discusso con Vilma Mazza e Luca Casarini il segretario della Fiom Landini e il presidente della Puglia Vendola.
Legato alla concretezza del lavoro, Landini sa però che una lotta di resistenza, per quanto straordinaria, o diventa lotta generale in una prospettiva di cambiamento o non potrà vincere. Per farlo bisogna rimettere in discussione antiche certezze come quella che in un tempo diverso riteneva imprescindibile il reddito dal lavoro. Così come, per salvare gli operai della Fiat bisogna discutere non di automobili ma di mobilità: vogliono treni superveloci in Val di Susa ma non c'è la merce che dovrebbero trasportare, così come gli operai di Mirafiori dovrebbero lavorare più ore, più velocemente e con meno diritti per riempire i piazzali di automobili invendute, o per restare a casa in cassa integrazione.
Costruire il cantiere dell'alternativa con i soggetti e i movimenti che le producono. E' come camminare contromano dentro un antiberlusconismo che rivendica il diritto dei cittadini di scegliersi i parlamentari oggi nominati dalle caste politiche e poi arresta la democrazia davanti alle fabbriche. Come a dire che per uscire dal berlusconismo non bisogna costruire un programma e dunque un modello alternativo ma semplicemente allearsi con Marchionne.
Le amministrative e i referendum non sono stati vinti ma subiti dal centrosinistra, ricorda Vendola. Conviene appendere al chiodo presunte certezze e appartenenze, insiste Luca Casarini: il problema è scegliere il leader e le alleanze o costruire il programma di alternativa? La palla torna inevitabilmente a Vendola e Landini. Il segretario della Fiom si avventura anche in un primo elenco dei pilastri dell'alternativa: è di sinistra, dice per esempio, un governo che fa votare i lavoratori. Se si salta la democrazia e ci si accomoda dentro o nei meandri del patto di stabilità non ci sono più destra né sinistra, né diritti né contratti. Al massimo restano il Fondo monetario, la Banca centrale, Marchionne e un'ingiustizia crescente. Casarini alza la palla a Vendola: primarie non come esercizio di propaganda sul leader con programmi già scritti ai tavoli delle mediazioni partitiche ma primarie di un programma scritto con le idee e le esperienze: «convocalo tu in Puglia, Nichi, questo cantiere».
Vendola non ci sta a farsi rinchiudere dentro il recinto della sinistra radicale, una sorta di grande rifondazione comunista che farebbe comodo ai cosiddetti alternativi e ai cosiddetti riformisti. Non ci sto, dice, a fare il ministro del dolore sociale per tamponare i guasti della macelleria. Bisogna incidere nel cuore di un programma alternativo costruendo un cantiere largo fatto di forum, piazze virtuali e piazze sociali. «Altro che mediare un decalogo tra me, Bersani e Di Pietro». Tutti maschi peraltro, privi di una lente fondamentale per guardare la realtà, figuriamoci per cambiarla. E' fuori dal tempo l'idea del partito come grande pedagogo, e come grande ingegnere che disegna il letto su cui far scorrere i movimenti. Così come marca il passo l'idea di sciogliersi in acque magari scure e torbide che scorrono in un letto tracciato da chissà chi. Invece la politica va intesa come fuoriuscita dal ceto separato, e il programma dev'essere scritto dai soggetti collettivi che hanno alzato il vento nell'ultimo anno. Con il principio dell'ingerenza, che non è baciare le mani al tiranno né bombardare il suo popolo.
Ma il cantiere delle primarie in Puglia, a settembre? Non so se a settembre o a ottobre, non so se a Bari o in un'altra città, conclude Vendola, ma è la scelta giusta con la volontà di essere radicali e maggioritari. Come fa la Fiom che da Pomigliano parla all'intero paese e lo smove. Ricordando, come ribadisce Landini insieme a tutti gli attori nella commedia sociale di Sherwood Festival a Padova, che nessuno è autosufficiente. Le mille persone presenti al dibattito padovano sono già un embrione del cantiere futuro.
La frontiera dei beni comuni
di Guido Viale
La crisi della Grecia dimostra che l'alternativa non è più tra stato e mercato. E la decrescita è frutto della globalizzazione
La Grecia ha imboccato - a precipizio - la strada della decrescita. Lo ha fatto per imposizione della cosiddetta troika (Fmi, Bce e Commissione Europea) di cui Papandreu si è fatto interprete ed esecutore a spese dei cittadini e dei lavoratori del suo paese. Nessun economista al mondo pensa più che l'economia della Grecia possa tornare a crescere in un numero ragionevole di anni. Né che possa mai più ripagare il debito che la opprime, neanche mettendo alla fame i propri sudditi e svendendo tutto quello che possiede (cioè i servizi pubblici e i beni comuni del popolo greco). Per anni ci hanno detto che le privatizzazioni sono necessarie per rendere efficienti i servizi pubblici. Adesso è chiaro che servono soltanto a far cassa, per pagare debiti contratti a copertura dei costi della corruzione, dell'evasione fiscale, degli armamenti, delle grandi opere e dei grandi eventi inutili. Dopodiché il diluvio; che l'Europa e mezzo mondo stanno aspettando senza sapere che fare.
Ma la Grecia non è sola: non perché il resto dell'Europa la voglia aiutare (pensa solo a spennarla); ma perché nella sua identica situazione entreranno presto anche Portogallo, Spagna, Irlanda e altri ancora, tra cui l'Italia. Che è anche lei ben avviata sulla strada della decrescita: si tagliano welfare, investimenti (tranne quelli inutili, come il TAV Torino-Lione) e servizi, senza nessuna politica industriale e nessuna prospettiva di riconversione produttiva o di rilancio dell'occupazione. Certo la decrescita imposta da Tremonti non è quella predicata da Latouche e dal movimento per la decrescita felice. Latouche ha sempre ribadito (ma è una cosa assai difficile da spiegare in giro!) che non c'è peggior male di una decrescita in una società votata alla crescita.
Infatti i fautori della crescita "senza se e senza ma" (la totalità o quasi degli economisti) considerano la decrescita un precipizio senza ritorno. Ma le ricette per una ripresa scarseggiano. Il liberismo ha fatto fallimento, anche se nessuno lo dice apertamente e alcuni lo ripropongono come ricetta salvifica, tetragoni a ogni evidenza. Lo statalismo, nelle sue varie forme (forti: programmazione; flessibili: keynesismo; la pianificazione di tipo sovietico non la propone più nessuno), è disarmato: perché mancano i soldi e si ha paura di rompere il tabù dei bilanci, che sono fatti di debiti e quindi in mano alle società di rating. Ma soprattutto, perché bisognerebbe ammettere che per salvare il salvabile è necessaria una riconversione radicale dell'apparato produttivo e della distribuzione del reddito, invece di delegare a ciò - e a modo loro - i mercati.
La Grecia è un piccolo paese, ma potrebbe avere un grande potere di ricatto: il suo default trascinerebbe con sé le finanze di mezza Europa (e di molte banche Usa) e con esse l'euro; e isolarla, escludendola dall'euro, posto che sia fattibile, sortirebbe lo stesso effetto. Basterebbe quindi che Papandreu, che a differenza di Zapatero, non ha alcuna responsabilità per l'allegra gestione della finanza da parte del precedente governo (con avallo, e conseguenti benefici, di Goldman&Sachs, allora diretta in Europa da Mario Draghi), si schierasse dalla parte dei suoi concittadini che si oppongono alla svendita del paese. L'Unione Europea sarebbe allora costretta ad aprire la borsa, non solo per la Grecia, ma per tutti gli Stati membri in difficoltà. Ma un'operazione del genere - per la quale non mancano proposte operative di ingegneria finanziaria - avrebbe forse senso per finanziare un programma di riconversione produttiva, che oggi non c'è e a cui nessuno pensa. Mentre non serve a niente se da essa si aspetta che rianimi mercati e produzioni in sofferenza, risospingendoli verso una crescita di cui, per lo meno in Occidente, non ci sono più le condizioni.
Liberismo e statalismo si stanno dimostrando entrambi fallimentari perché sono ormai una stessa cosa. Ogni giorno constatiamo che la libertà d'impresa - soprattutto nei confronti dei lavoratori, più che nella concorrenza - ha bisogno, per potersi esercitare, dell'intervento statale, e di fondi pubblici "a perdere". Ma quei fondi non servono più a dirigere l'apparato economico verso obiettivi specifici e in qualche modo condivisi (in fin dei conti siamo in democrazia). Servono solo per tenere in piedi le imprese e le loro libertà. I casi recenti della svendita della Grecia, o quello del TAV Torino-Lione, o l'accordo interconfederale siglato anche dalla Cgil che trasforma i sindacati in strutture aziendali - solo per ricordare le notizie più recenti - pur nella loro estrema eterogeneità, sono lì a dimostrarlo.
L'alternativa non è dunque tra statalismo (o dirigismo) e liberismo, tra più Stato o più mercato; è tra il connubio inestricabile di liberismo e statalismo che contraddistingue il processo di globalizzazione in corso e politica dei beni comuni: una politica mirata a sottrarre la gestione di una serie di beni, di servizi e di attività tanto alle regole del mercato, che sono quelle della finanza internazionale che governa ormai anche gli Stati, quanto alla gestione degli Stati, che di quel governo, esterno e contrapposto a qualsiasi forma di controllo democratico, sono ormai solo le cinghie di trasmissione.
Se c'è un tema unificante tra le diverse forme di conflittualità che animano la scena sociale in questo inizio di secolo (e di millennio), dalla Grecia alla Spagna, dal Medio oriente all'Islanda, ma anche, tornando a noi, dalla crescita dei GAS alla campagna referendaria per l'acqua, dalla resistenza operaia alla Fiat al movimento degli studenti o al ritorno in piazza delle donne, dalla Valle di Susa al riscatto di Napoli dalle montagne di rifiuti sotto cui la hanno seppellita sedici anni di gestione commissariale, quel tema è la lotta, in nome di una gestione condivisa e partecipata, senza deleghe, contro l'appropriazione pubblica o privata di una gamma più o meno ampia e più o meno definita di beni, di servizi e di attività. Lo ha spiegato molto bene Piero Bevilacqua sul manifesto del 3 luglio scorso. E' cioè la politica dei beni comuni.
Beni comuni e non Bene comune. E' una distinzione importante: la dizione beni comuni fa riferimento a forme di gestione diverse tanto dall'appropriazione privata che dalla proprietà pubblica. Cioè a forme di gestione partecipata, le cui modalità si stanno delineando - e non potrebbero farlo in nessun altro modo - nel corso di mobilitazioni, di lotte, ma anche di iniziative molecolari e di incontri di studio, indipendentemente non solo dalle divergenze lessicali, ma anche da quelle ideologiche e dottrinarie, che sono per molti versi altrettanto irrilevanti; o quasi. Bene comune (con la maiuscola) fa invece riferimento a una coincidenza di interessi che, se può essere ipotizzata in via teorica nei confronti della sopravvivenza della vita umana su questo pianeta (a cui tutti, chi più e chi meno - o anche molto meno - prestiamo un'attenzione insufficiente), non esiste - e può essere ricercata, ma non necessariamente trovata - negli ambiti in cui si sviluppa il conflitto. Che è il motore di ogni possibile riconversione: dalla Valle di Susa alla gestione di ogni altro territorio; dalle politiche energetiche all'agricoltura e all'alimentazione; dal rifiuto della guerra alla difesa della dignità di chi lavora (e di chi è senza lavoro); dall'accoglienza degli immigrati alla valorizzazione dei saperi; e così via.
Nel mondo di oggi un bene è comune non per natura, ma se, e solo se, è sottoposto a modalità di gestione che lo sottraggono a qualsiasi forma di appropriazione: tanto da parte di un'impresa (privata o pubblica), la cui logica è comunque il profitto, l'accumulazione del capitale, la crescita fine a se stessa; quanto da parte di una struttura pubblica, se questa esclude qualsiasi forma di condivisione della gestione - o per lo meno di controllo, a partire dalle regole elementari della trasparenza - o di coinvolgimento dei diversi destinatari dei suoi benefici (quello che economia e diritto chiamano "utilità") e dei suoi costi (sociali, sanitari, ambientali: quelli che l'economia chiama "esternalità").
Per questo i "beni comuni" non saranno mai del tutto tali; saranno sempre attraversati da una frontiera mobile che si sposta in avanti o all'indietro a seconda del grado di controllo che i territori e le comunità di riferimento riusciranno a esercitare su di essi. La politica dei beni comuni è, e resterà a lungo, un work in progress. Ciò apre il terreno a un dibattito pubblico sul come dare attuazione ai risultati del referendum contro la privatizzazione dell'acqua; risultati che i signori delle utilities stanno già cercando di mettere in discussione. Ma anche a un dibattito sulle forme - che sono differenti - di controllo dal basso e di condivisione della gestione di tutti gli altri servizi pubblici locali che, in linea di principio, l'esito del referendum ha reso possibile sottrarre a una gestione privata o finalizzata al profitto. La stessa cosa vale per molti beni immateriali: dalla conoscenza all'arte, dall'educazione (permanente) all'informazione. Forse sono cose come queste quelle che Marx intendeva come controllo del genere umano sulle condizioni della propria riproduzione; quelle che per più di cent'anni il movimento operaio, socialista e comunista, ha interpretato invece, e cercato di realizzare, come gestione statuale dei processi produttivi.
(guidoviale@blogspot.com)
Cultura equivalente universale
Medio Evo contemporaneo
di Giacomo Todeschini
Nel suo ultimo saggio, «L'enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza», il geografo David Harvey spiega limpidamente come i flussi del capitale continuino a produrre forme di servaggio che siamo abituati ad attribuire a età remote
L'enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza (Feltrinelli, 2011, nell'originale, The Enigma of Capital: And the Crises of Capitalism, Profile Books, 2010) di David Harvey, attualmente distinguished professor di antropologia al Graduate Center della City University a New York, è un libro da leggere per capire come mai la fase di estremo disfacimento e onnipotenza del capitalismo occidentale ormai globalizzato determina per le persone, la stragrande maggioranza delle popolazioni dei cinque canti del globo, condizioni di vita perfettamente umilianti, al limite della schiavitù, e spesso ben oltre questa soglia che si pretenderebbe bandita dalla «modernità».
Dipendenza assoluta
È anche, questo libro, utile da leggere per prendere atto del fatto che i marxisti anglo-statunitensi (Harvey ha fatto il suo PhD a Cambridge negli anni Sessanta, e ha poi insegnato alle Università di Bristol e di Oxford) riescono a scrivere di capitalismo e disastri connessi, in una chiave né da addetti ai lavori un po' arroganti, né spensieratamente demagogica, ma concreta, colta e combattiva allo stesso tempo. Senza aver paura di insegnare quello che spesso non si sa.
Già in un suo libro precedente ( La crisi della modernità. Riflessioni sulle origini del presente, il Saggiatore 1993, Net 2002) Harvey aveva ben mostrato che nella fase attuale della cultura neoliberista e delle logiche di uno sviluppo economico mirante allo sfruttamento indiscriminato e selvaggio dei più deboli, si riaffacciano sulla scena del mondo ogni sorta di servaggi e di precarietà, ossia si moltiplicano, diventando leve fondamentali dello «sviluppo», forme antiche e medievali di dipendenza assoluta e di distruzione dei diritti degli uomini e delle donne di esistere come persone, demolite da tempo le fantasticate libertà di individui abitualmente liberi soltanto, come diceva una canzone degli anni Sessanta, «di esporre i panni al vento».
Analogamente ora in questo libro il geografo ed economista statunitense fa vedere al lettore, con una chiarezza che i pontefici della sinistra italiana per lo più ignorano, quanto la realtà abbia superato i più foschi presagi dell'ultimo Marx. Il libro conquista il lettore dalla prima riga ricordandogli che il «flusso del capitale» è un fenomeno organico e impersonale, una forma di fisiologia culturale che nessuno in realtà controlla, benché da un'epoca all'altra abbondino quelli che, da ricchi al comando, se ne sono avvalsi per arricchirsi di più, indirizzando e guidando opportunamente il «flusso». Harvey, del resto, non usa a vuoto la parola «flusso»: al fondo del suo ragionare sta una metafora molto antica del denaro, quella della circolazione sanguigna.
Come Bernardino da Siena nel Quattrocento, Bernardo Davanzati nel Cinquecento, e poi John Toland e Ferdinando Galiani, fra Sei e Settecento, Harvey coglie in effetti con questa metafora, dipendente da una rappresentazione castale e poi classista delle società umane rappresentate come organismi gerarchici (anche se la divisione in caste e in classi, di cui Harvey mostra la perversa disumanizzazione, piaceva invece alquanto a Bernardino, Davanzati, Toland e Galiani) quanto di profondo e inesorabile vi sia in un processo di accumulazione che nel corso del tempo ha fatto del denaro circolante non soltanto un equivalente universale, ma anche un oggetto perfettamente astratto, maneggiabile e raccontabile con le parole, apprendibile con la mente prima che con le mani, una matematica concreta in grado di numerare il valore e la dignità delle vite. La cosa, nell'aspra realtà di tutti i giorni, più vicina ad un puro Spirito. Uno Spirito, però, come tutti gli Spiriti evocati dalle culture che hanno padroni e signori, estremamente duttile e servizievole nei confronti di chi ne conosca i segreti e le magie, e dunque sappia spiegarne, a chi non li sa, i fascini e le promesse.
Harvey fa capire molto bene, a chi legge, sino a che punto il denaro come oggetto «dematerializzato» funziona al servizio di chi ha potere sociale in una logica che, mentre accresce la ricchezza dei più ricchi a spese dei meno forti e dei più poveri, coincide con una volontà di potenza e di conquista molto tipica di un Occidente cristiano caratterizzato dalla tensione a universalizzarsi, o, come oggi usa dire, a globalizzare i propri valori e a invadere ogni spazio geografico e mentale possibile.
Gli «spiriti animali»
La faccenda ha a che fare, osserva limpidamente Harvey, con una impostazione economica che si realizza in termini di conquista maschile del mondo: «La conquista dello spazio e del tempo e la supremazia sul mondo (sia sulla "madre Terra" sia sul mercato mondiale) appaiono, in molte fantasie capitaliste, come espressioni rimosse ma sublimi del desiderio sessuale mascolino e della fede carismatica e millenaristica. È questa la fede ossessiva che incita gli "spiriti animali" dei finanzieri in un crescendo di euforia? È questo il motivo per cui così tanti maghi della finanza e gestori di hedge fund sono maschi? È così che ci si sente quando si specula sull'intero valore di moneta neozelandese in un'unica operazione? Che potere straordinario di cavalcare il mondo e di piegarlo al proprio volere!».
Che la questione non sia un fuoco di artificio degli ultimi trent'anni, e che nemmeno sia tutta determinata dalla rivoluzione industriale, che insomma la megalomania capitalista oggi esplosiva e distruttiva («quella che oggi chiamiamo globalizzazione è da sempre nelle mire della classe capitalista» ci dice francamente Harvey, dopo una fulminante citazione dal Manifesto del partito comunista di Marx e Engels) affondi le sue radici in antichi e a volte dimenticati deliri di onnipotenza religiosa ed economica prodotti in quella che fu la piccola Europa preindustriale non è un mistero per Harvey. Una cultura economica che ha come obiettivo indiscutibile di «conquistare la terra intera come suo mercato» (come scriveva Marx nei Lineamenti fondamentali dell'economia politica, e Harvey riprende) non è forse intrisa di teologia, seppure lo neghi rivestendosi di statistiche e di elucubrazioni sulla «felicità» dei consumatori?
Economia iniziatica
È tuttavia consapevole, il nostro economista-geografo, del fatto che questo discorso è un po' tabù, anche a sinistra, dato che il dogma storiografico-economico oggi ancora imperante recita che tutto è cominciato al massimo l'altro ieri. Ma proprio la tarda fase dello sviluppo capitalista, con i suoi enigmi riguardo alla produttività infinita eternamente ricreabile, e le sue mitologie di ricchezza senza fine, con lo stuolo di vittime che trita nei suoi ingranaggi (vittime e poveri da sempre necessari come serbatoi di manodopera, ma oggi sempre più indispensabili a un capitale che si riproduce a ritmi vertiginosi e al prezzo di disoccupazioni e sottoccupazioni di massa), proprio la fase nella quale viviamo, di desertificazione di continenti, monoculture devastanti, truffe orchestrate da una finanza planetaria che gli Stati spalleggiano per mezzo delle istituzioni bancarie e di cui la massa anonima dei consumatori affogati nei debiti paga il prezzo: tutto questo, al di là dell'economia degli economisti, neo-liberal o no, ha bisogno di storia, e cioè di spiegazioni.
Per fare e per cambiare, in definitiva bisogna capire perché siamo arrivati fino a qui. E Harvey, coraggiosamente, poiché il suo fine è prospettare una via che possa essere percorsa dalla maggioranza, finalmente alleata, «degli insoddisfatti, degli alienati, degli indigenti e degli espropriati» («Che fare? E chi lo farà?»), indica chiavi e ragioni che sciolgano gli enigmi di un'economia iniziatica fondata sul consenso devoto delle sue vittime e illuminino i misteri della religione del capitale. «Man mano che si affermava, il capitalismo portava al suo interno molteplici tracce delle diverse condizioni in cui si era compiuta la trasformazione verso il nuovo assetto. Forse si è attribuita troppa importanza al ruolo svolto dal protestantesimo, dal cattolicesimo e dal confucianesimo, con le loro diverse tradizioni, nel determinare le diverse configurazioni del capitalismo in varie parti del mondo; ma sarebbe sconsiderato suggerire che tali influenze siano irrilevanti o persino trascurabili». Il tono è piacevolmente timido e garbato, ma il concetto è chiaro.
Pulpiti e accademie
Per approfondire il dramma delle povertà mondiali, dell'indebitamento cronico di milioni di persone ipnotizzate da una logica dei consumi il cui obiettivo finale è far pagare alla folla dei consumatori-sudditi il prezzo delle speculazioni dei signori della finanza, bisogna cominciare a domandarsi da quale dimensione del tempo e dello spazio arriva l'odierno modo di vivere il denaro: e quali ferrei collegamenti connettono il capitale post-moderno e il «connubio Stato-finanza» che lo caratterizza, al lungo passato europeo di un'economia signorile e teologica fondata sul diritto supremo e divino dei «felici pochi» di arricchirsi a scapito della maggioranza dei fedeli/subalterni. Presentandosi, in più, come garanti carismatici di un «bene comune» descritto dai pulpiti e dalle accademie come la prima tappa verso una Salvezza eterna e luminosa.
Il flusso interrotto della ricchezza
La moneta sonante di una crisi
sull'orlo di un'apocalisse culturale
di Benedetto Vecchi
La figura dello «Stato-finanza», lo sviluppo fondato sul debito, l'accumulazione per esproprio. Un percorso di ricerca tra innovazione e continuità
La globalizzazione non è un mostro senza testa, come spesso è descritta da chi l'avversa. Presenta una logica ferrea, talvolta spietata nel distruggere legami sociali, costituzioni materiali consolidate, ma tuttavia fin troppo evidente nel perseguire l'obiettivo di garantire un «flusso» di merci, denaro, capitali. Sia ben chiaro, siamo distanti anni luce da qualche «piano del capitale» definito a tavolino in qualche stanza del potere mondiale, sia esso incarnato dal Wto, la Casa Bianca, il Fondo monetario internazionale o la sempiterna Trilateral, perché se l'obiettivo è chiara, diverse sono le strade per raggiungerlo. Il Capitale procede un po' a tentoni, sperimenta, corregge, cambia direzione. Ultimamente ha anche uno straordinario strumento nelle sue mani per riuscire nel suo intento, la finanza, luogo di governo e di innovazione negli strumenti di governo della globalizzazione.
Chi scrive ciò non è un suo apologeta, bensì un critico, che non è un economista, né un filosofo, bensì un geografo che molto ha fatto nel porre il problema dello spazio altrettanto importante di quello del tempo nella critica dell'economia politica. David Harvey è infatti un marxista atipico rispetto al panorama anglosassone. Lo si potrebbe definire un innovatore in ferrea continuità con la tradizione marxista. Esempio di questa tensione ad adeguare una cassetta degli attrezzi, ritenuta da gran parte dei suoi contemporanei talmente corrosa dal tempo da essere inservibile, sono i suoi precedenti libri. Da La crisi della modernità a L'esperienza urbana (entrambi pubblicati da Il saggiatore), da Neoliberismo e potere di classe (Allemandi) a Breve storia del neoliberismo (Il Saggiatore), il suo percorso di ricerca si è sempre misurato con la tendenza «globale» del capitalismo. A riprova di ciò, il concetto di accumulazione per espropriazione introdotto da Hervey aiuta a comprendere il perché il capitalismo, nel plasmare l'intero pianeta a sua immagine, deve continuamente valorizzare capitalisticamente ambiti della vita (la salute, la conoscenza, il desiderio) e della natura (l'acqua, la Terra) per plasmare a sua immagine l'intero pianeta. Tema ben presente nelle sue lezioni su Il capitale di Marx postate su YouTube e diventate un vero best-seller della Rete.
L'enigma del capitale, attraverso il concetto di flusso, interpreta il regime di accumulazione capitalista come un processo che deve mantenere sempre alta la domanda, attraverso il credito al consumo e sofisticati strumenti finanziari messi in campo allorquando c'è contrazione della domanda. È questa la parte più importante del libro, ma anche la più problematica. Anche qui non ci troviamo di fronte alla solita riproposizione della figura del finanza-parassita, ma al dispositivo che garantisce il flusso di capitale senza di quale la crisi assumerebbe le vesti di una apocalisse social, culturale e politica. Harvey, tuttavia, pensa alla finanza in quanto mero strumento tecnico, per quanto sofisticato, come ad esempio quello della «cartolarizzazione del debito, che non entra mai in relazione con quanto accade nella realtà sociale. Da questo punto di vista l'introduzione della nozione di «Stato-finanza» non scioglie l'Enigma del Capitale, bensì lo rende più oscuro.
Infatti, la finanza, proprio in quanto strumento di governance del regime di accumulazione capitalistica, trova alimento proprio in quanto avviene nella società e nelle dinamiche attinenti al riproduzione del regime di accumulazione. L'indebitamento individuale, l'investimento di fondi pensione (cioè salario differito) nella finanza attiene cioè a due aspetti sempre più rilevantinell'economia globale: garantire un standard di vita convenzionalmente definito dai rapporti sociali che verrebbe meno a causa del mancati aumenti salariale; e allo stesso tempo accedere a beni e servizi - la casa, la salute, la formazione - negati dalla dismissione del welfare state.
Ha frecce nel suo arco Harvey quando sostiene che la finanza è anche il modo usato per trovare sbocco ai profitti accumulato nel processo produttivo (la cosiddetta economia reale). Ma il flusso di capitale si interrompe perché entrano in campo domande sociali che vogliono essere soddisfatte attraverso la leva finanziaria. È questo il vero enigma del capitale che lo Stato, così come la finanza, tendono a farlo rimanere tale e preservarlo dalla dinamiche sociali maturate dentro e contro il regime di accumulazione capitalista.
David Harvey sale in cattedra
Le lezioni del «Capitale» di Marx
sono diventate un bestseller della Rete
Tra il 2004 e il 2006 David Harvey tenne lezioni sul «Capitale» di Marx. Per tredici volte lo studioso e si presentò di fronte a una platea di giovani studenti e spiegò l'opera di un autore non amato dall'accademia statunitense. A ogni lezione il numero dei partecipanti aumentava e molti rimasero fuori dall'aula. Harvey, che era stato ripreso, decise di mettere on-line le lezioni nel suo sito (davidharvey.org). Le lezioni sono state viste da oltre 250mila visitatori del sito. Altrettanto numeroso è il numero di chi reperì le video-lezioni su YouTube, scaricandole. Da quell'esperienza è nato anche un cartone animato, elaborato dopo il 2008 per raccontare come Marx spiega la crisi del capitalismo. Anche in questo caso il successo è stato ben al di là delle più rosee previsioni.
Tanto tuonò che piovve. Messa a confronto con la potenza della finanza internazionale, la situazione dell'Italia si rivela ormai ben poco differente da quella della Grecia. Non importa che i cosiddetti «fondamentali» dell'economia siano differenti. La finanza internazionale ha ormai la forza e gli strumenti, se lo volesse, per mettere alle corde persino la Germania. È da mesi che gli economisti lo sanno (o lo temono). Ma non lo dicono, per scaramanzia. Al massimo lo accennano: ma solo per chiedere più lacrime (le loro: di coccodrillo) e più sangue (quello di chi non ne ha quasi più).
Il problema è che non sanno che altro dire. Mario Draghi, per esempio, ha affermato che non ci sono precedenti di fallimento (default) di uno Stato da cui trarre insegnamenti. Intanto non è vero e, vista la posizione che andrà a occupare, sarebbe meglio che anche lui - e non solo lui - studiasse meglio il problema. Perché non c'è solo la Grecia, né solo gli Stati membri più deboli - i cosiddetti PIGS, a cui ora si è aggiunta anche l'Italia: PIIGS - a essere a rischio. Persino Obama teme il default: e non ha solo il problema, anche lui, dei tagli di bilancio: tra un po' deve rinegoziare una fetta di debito e potrebbe non trovar più sottoscrittori disponibili come un tempo, poi deve confermare l'ultimo stock di moneta creata dal nulla: una cosa (che adesso si chiama quantitave easing) con cui gli Stati Uniti hanno dominato l'economia mondiale per sessant'anni, ma che non è detto gli riesca ancora. Neanche la Francia naviga in buone acque. E la Germania, locomotiva d'Europa, vive di export verso il resto del continente e verso la Cina. Ma se metà dei paesi membri dell'Ue sarà messa alle strette la bonanza tedesca potrebbe finire. E neanche la Cina va più tanto bene: scioperi, rivolte, aumenti salariali vertiginosi, inflazione, «bolle» finanziarie. Ben scavato vecchia talpa, direbbe Marx. Se sullo sfondo non ci fosse una crisi ambientale di dimensioni planetarie. Insomma: non c'è «aria di crisi». C'è un uragano in arrivo. Per mesi gli economisti hanno trattato Tremonti come un baluardo contro il default del paese: solo perché lui sostiene di esserlo. Ma è un ministro - il secondo della serie - che non si accorge nemmeno che la casa dove abita viene pagata, vendendo cariche pubbliche a suon di tangenti, da una persona con cui (e con la cui compagna) lui lavora da anni gomito a gomito. Affidereste a quest'uomo i vostri risparmi?
Qualcuno però ha trovato la soluzione: azzerare tutto il deficit pubblico subito. "Lacrime e sangue" ora e non tra due anni: così Perotti e Zingales sul IlSole24ore di sabato scorso. Tagliare subito pensioni, sussidi alle imprese, costi della politica; e giù con le privatizzazioni. Che originalità! Segue un bell'elenco di "roba" - aziende e servizi pubblici - da vendere subito (per decenza non hanno citato anche l'acqua). Per le manovre "intelligenti", aggiungono gli autori, non c'è tempo. Infatti la loro proposta non è una manovra intelligente. Intanto, in queste condizioni, vendere vuol dire svendere. E azzerare il deficit non è possibile, perché poi, anche se non si emettono nuovi titoli, bisognerà rinegoziare quelli in scadenza; i tassi li farà la finanza con le sue società di rating; e non saranno certo quelli di prima. Così il deficit si ricrea di continuo, in una rincorsa senza fine. Prima o dopo il default arriva. Naturalmente, per mettere alle corde pensionati, lavoratori e welfare, e svendere il paese, ci vuole il "consenso", ci avvertono gli autori. Per loro il consenso è il "coinvolgimento dell'opposizione". Forse ci sarà; ma non servirà a niente.
Perché il consenso è un'altra cosa: è il coinvolgimento delle donne e degli uomini che hanno animato l'ultima annata di resistenza nelle fabbriche, di mobilitazioni nelle piazze, di occupazione di scuole e università, di campagne referendarie, di elezioni amministrative, di processi molecolari per ricostruire una solidarietà distrutta dal liberismo e dal degrado politico, morale e culturale del paese. E' il popolo degli indignados, che ormai, con i nomi e le proposte più diverse, ha invaso la scena anche in Italia: forse con una solidità persino maggiore, dovuta a una storia più lunga, che risale indietro nel tempo, fino al G8 di Genova; e forse anche a prima. Un popolo che quel consenso non lo darà mai.
Se per Perotti e Zingales il problema è "far presto", per altri economisti continua invece a essere la crescita: non quella che permette di ricostituire redditi e occupazione strangolati; ma quella necessaria per ricostituire un "avanzo primario" nei conti pubblici, con cui azzerare il deficit e cominciare a ripagare il debito ai pescecani della finanza internazionale; ben nascosti dietro chi ha investito in Bot qualche migliaia di euro. Questi economisti li rappresenta tutti Paolo Guerrieri sull'Unità del 10.7: "Il paese è fragile - spiega - ma la ricetta per la crescita la conosciamo tutti". E qual è? "Concorrenza, nuove infrastrutture (il Tav?), ricerca (di che?), liberalizzazione (forse voleva dire "privatizzazione") dei servizi (anche dell'acqua?). Cose che sappiamo - aggiunge - ce l'hanno consigliate tutti". Paolo Guerrieri ha appreso questa ricetta dall'economia mainstream e probabilmente continuerà a insegnarla ai suoi allievi per tutto il resto della sua vita. Pensa che per tornare alla crescita, che per lui è la "normalità", basti premere un bottone; perché il disastro attuale è solo una sua momentanea interruzione: non si sa se dovuta agli "eccessi" della finanza o all'inettitudine di Berlusconi.
Ma le cose non stanno così. In un mondo al cappio, è la finanza internazionale che fa le "politiche economiche". Quelle che vedete. Gli Stati non ne fanno più; o ne fanno solo più quel poco che la finanza gli permette di fare; a condizione di poter continuare a speculare e a mandare in malora il pianeta. Anche "la crescita", ormai, le interessa solo fino a un certo punto; se non c'è, poco male: per lo meno finché restano pensioni, salari, welfare, servizi pubblici e beni comuni da saccheggiare. Non è la prima volta nella storia che questo succede. Anche Luigi XIV, il Re Sole, diceva: dopo di me, il diluvio.
Adesso sta a noi - a tutti gli "indignati" che non accettano questo stato di cose e questo futuro - ricostruire dal basso quello che Stati e Governi non sono più in grado di promuovere; e nemmeno di concepire. Cioè il progetto di una società, di un sistema produttivo e di modelli di consumo condivisi, più equi, più sobri, più efficienti, più onesti; ma soprattutto le strade da percorrere - itinerari mai tracciati - per realizzarli. E tutto in un mondo che sarà sempre più - e a breve - cosparso di macerie: sociali, ambientali e morali. Ma anche di reazioni furibonde e, verosimilmente, violente (basta pensare all'occupazione militare della Valle di Susa per imporre il "loro" modello di crescita; o a quella della Campania per imporre la "loro" gestione dei rifiuti). Non sarà una passeggiata per nessuno.
Un programma per realizzare quel progetto oggi non c'è; e non c'è il "soggetto" - per usare un'espressione ormai logora - per elaborarlo e portarlo avanti. Non a caso. Perché è un programma irrinunciabilmente plurale; che può nascere solo dal concorso di mille iniziative dal basso, se saranno in grado di tradursi in proposte che consentano un coordinamento e se avranno la capacità di imporsi con la forza della ragione e dei numeri. Ci aiuta il fatto che per ciascuno di noi l'agire locale è sempre orientato da un pensiero globale. L'opposto di quello che fanno i Governi e le forze che li sorreggono. Provocano disastri globali in nome di convenienze dettate da un meschino pensiero locale. La disfatta delle cosiddetta governance europea non è altro.
Tra i criteri ispiratori della nostra progettualità c'è innanzitutto un salto concettuale: nell'era industriale lo "sviluppo" economico è stato promosso e diretto dall'aumento della produttività del lavoro. Che è andata talmente avanti che oggi è praticamente impossibile misurare il valore di un bene con la quantità di lavoro che esso contiene, anche se ci sono ancora - e sono tanti - dinosauri come Marchionne che lasciano credere di poter battere la concorrenza tedesca o cinese rubando agli operai dieci minuti di pausa, qualche ora di straordinario, o qualche giorno di malattia. Tutto ciò è avvenuto a scapito dell'ambiente e delle sue risorse, saccheggiate come se non avessero mai fine. Da ora in poi, invece, si tratta di valorizzare le risorse ambientali e renderle sempre più produttive: con la condivisione, la sobrietà, l'efficienza, il riciclo, le fonti rinnovabili, la biodiversità (ecco un modo di distinguere la ricerca che vogliamo dalle vuote declamazioni in suo favore). Perché è dall'uso più accorto delle risorse che dipenderà anche la produttività del lavoro, che non può più essere misurata in giorni, ore, minuti e secondi; ma solo con il grado di cooperazione e condivisione che quell'uso saprà sviluppare.
guidoviale@blogspot.com
Il reportage è un genere caduto in disuso: troppa fatica costruire un percorso coerente e solido, rinunciare all’effimero per un’unica, costante idea di fondo, macinare chilometri, accumulare materiali e interviste, per poi trasformare il tutto in una forma compiuta. Soprattutto, troppa fatica partire da domande vere, piuttosto che da pretesti per ribadire le proprie certezze. Anche per questo al reportage, all’inchiesta sul campo, allo scavo e al «carotaggio» è andata sostituendosi la scorciatoia dell’invettiva e della denuncia, il moralismo consolatorio, oppure il travestimento, reale o simbolico, con cui penetrare occasionalmente in situazioni ritenute altrimenti impenetrabili.
Land grabbing. Come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismo (minimum fax, pp. 244, euro 15), l’ultimo libro di Stefano Liberti – giornalista del manifesto già vincitore del premio Montanelli per A sud di Lampedusa – restituisce dignità al genere. Perché costruito nel tempo, lasciando che i materiali fossero filtrati dal setaccio narrativo, e perché rivendica la parzialità di uno sguardo: quello di chi rinuncia in modo esplicito all’esaustività, per proporre un percorso persuasivo proprio perché declinato secondo una prospettiva personale, intorno alla consapevolezza che, se qualche interpretazione si può dare di «un fenomeno destinato a cambiare gli equilibri di buona parte del Sud del mondo», può venire solo «dai dati raccolti sul campo».
Governi complici o inetti
Quello di Liberti è dunque un viaggio. Che comincia ad Awassa, nel cuore della Rift Valley, trecento chilometri a sud di Addis Abeba, in un pezzo di quell’Etiopia che è diventata la «meta di businessmen e avventurieri provenienti da mezzo pianeta » da quando, nel 2007, il governo locale ha «lanciato un piano di affitto a lungo termine di una parte dei suoi terreni a investitori intenzionati a farli fruttare». Una politica attuata senza alcuna discussione pubblica, con l’obiettivo di «riempire le casse dello stato di denaro straniero da reinvestire», e prontamente accolta da quei paesi (in primis quelli del Golfo) ricchi di liquidità ma poveri di cibo: di fronte alla crisi del 2007/2008, agli aumenti dei prezzi dei prodotti alimentari di base e ai meccanismi protezionisti e al blocco delle esportazioni adottati dai paesi produttori, questi paesi hanno voluto «garantirsi a qualunque costo la sovranità alimentare» attraverso una esternalizzazione controllata, producendo il necessario ma su terre altrui, più fertili e a basso costo.
Per farlo, come denuncia YefredMyenzi, direttore di HakiArdhi, un centro di ricerca che si occupa di diritto alla terra a Dar es Salaam, capitale della Tanzania, occorrono però governi complici o inetti,ministri dell’Agricoltura disposti a trasformarsi in piazzisti per affittare terre preziose a meno di un dollaro l’ettaro (in alcuni casi anche gratis, per un certo periodo), pur di assicurarsi l’«investimento internazionale ». Che può venire anche da fondi speculativi, grandi multinazionali, fondi pensione, da tutti quegli attori finanziari che dopo il crollo del sistema economico del 2007/2008 hanno iniziato prima a investire nei «beni rifugio», le commodity (grano, riso, mais, soia), per poi puntare verso «qualcosa di ancora più tangibile delle materie prime alimentari: la terra, il bene primario per eccellenza, l’investimento redditizio e sicuro».
Il viaggio di Liberti tocca così anche le stanze ovattate dei lussuosi hotel di Ginevra dove si riuniscono «uomini d’affari, operatori dell’industria, gestori di strumenti finanziari interessati a lanciarsi nel settore dell’agricoltura», oltre che i concitati pit, i «pozzi» del grattacielo di Jackson Bouvelard che ospita il Chicago Board of Trade, la borsa merci di Chicago dove, ogni giorno, «si scambiano più di dieci milioni di contratti al giorno» e «si decide il valore di quei prodotti di base che definiscono il prezzo del cibo in tutto il pianeta ». Per operatori finanziari e governi autoritari, le terre da cui viene quel cibo sono vuote, inutilizzate, sottosfruttate. Eppure su quelle terre ci sono uomini e donne in carne e ossa: per esempio gli abitanti del villaggio di Muhaga, un centinaio di casette di legno nel distretto di Kirawase, 70 chilometri a sud di Dar er Salaam, espropriati con l’inganno e promesse non mantenute; oppure gli indios guaraní del Mato Grosso do Sul, nell’estremo occidente del Brasile, una zona «letteralmente assediata dalle grandi piantagioni di soia», costretti a vivere in una riserva di 3500 ettari.
Perché quello del land grabbing, scrive Liberti, «è soprattutto un grande inganno nei confronti dei contadini», una «forma moderna di neocolonialismo», una battaglia tra contadini e capitale, il cui esito determinerà «i contorni del pianeta in cui ci troveremo a vivere nel corso del XIX secolo »: da una parte le «economie di scala», l’aumento della produttività, la conquista dei mercati esteri, la piantagione estensiva a monocultura, i grandi gruppi dell’agrobusiness, dall’altra i contadini, che puntano alla sovranità alimentare, alla stabilità ecologica, alla diversità rurale e produttiva, all’equa distribuzione delle terre. Si tratta «di modelli opposti, sia dal punto di vista pratico che ontologico», «di uno scontro tra concezioni diverse del territorio e dello sviluppo».
Congedarsi dall’industrialismo
L’accaparramento delle terre «interroga un modello di sviluppo – quello dell’aumento della produttività a ogni costo – che è anche un modello culturale», scrive Liberti. E proprio al modello culturale dello sviluppo e del «produttivismo» è dedicato Futuro sostenibile. Le risposte eco-sociali alle crisi in Europa (Edizioni Ambiente, pp. 480, euro 28, trad. Maria Telma Fiore Unland, Paola Zanacca). Un libro redatto da un’equipe di 30 ricercatori del Wuppertal Institut coordinati da Wolfgang Sachs e finanziato dalla maggiore associazione ambientalista tedesca, il Bund, insieme alle due istituzioni della Chiesa evangelica per la Cooperazione allo sviluppo, come ricorda Marco Morosini, che ne ha curato l’edizione italiana. Un libro importante e necessario, perché analizza le conseguenze dell’industrialismo produttivista che ha governato politiche economiche, immaginario simbolico e orientamenti culturali negli ultimi duecento anni, e propone vie d’uscita praticabili.
Di fronte alla «patologia strutturale della società industriale, cioè alla sua dipendenza da materie prime finite e, se usate in modo massiccio, incompatibili con l’integrità della natura», ci sono infatti due vie: proseguire con il tradizionale paradigma fossile-centralistico, che prevede «enormi capitali, grandi strutture, prevalenza di petrolio, carbone, gas naturale ed energia atomica e l’obiettivo di una maggiore offerta d’energia», oppure invertire la rotta, per un’economia solare, decentrata e interconnessa, che avvii la transizione verso un’era postfossile basata sulla combinazione tra dematerializzazione (efficienza), compatibilità ambientale (biocoerenza) e autolimitazione (sufficienza). Perché qualunque ricorso all’efficienza energetica, qualunque razionalizzazione intelligente dei mezzi è inutile, se non si accompagna anche all’interrogativo, ormai inelubidile, sul «quanto basta?», sui fini, sui limiti che dobbiamo porci.
Una tragedia contemporanea
In questo senso, abbandonare la concezione dell’industrialismo del XIX secolo, secondo cui la produzione richiede un flusso sempre crescente di materiali, vuol dire non solo gestire il metabolismo di materiali tra l’economia e la natura – in modo che «la capacità rigenerativa della natura rimanga intatta nel tempo» –ma occuparsi anche della distribuzione dei beni naturali nella società globale. Interrogarsi, dunque, piuttosto che sulla crescita, sulla distribuzione. E prendere atto di due elementi: da un lato che «non si potrà salvaguardare la biosfera senza congedarsi dalla posizione d’egemonia del Nord nella politica mondiale», dall’altro che la civiltà euro-atlantica, deve il suo sviluppo a circostanze storiche uniche, riconducibili all’accesso improvviso al carbone e alle materie prime biotiche delle colonie, alla «mobilitazione di risorse dalle profondità del tempo geologico e dalla vastità dello spazio geografico», in altri termini allo sfruttamento della cesura economicamente e ecologicamente decisiva tra economica organica ed economia minerale.
Quelle condizioni, però, sono oggi irripetibili, e sta proprio qui «la tragedia dell’attuale momento storico: l’immaginario dei paesi emergenti si ispira alla civiltà euro- atlantica, ma i mezzi per la sua realizzazione non sono più a disposizione». Occorre quindi rompere l’incantesimo del mimetismo «socio-industriale», rinunciare all’economia da rapina ecologica e sociale, «dare una nuova direzione al progresso economico e tecnico, trasformare tecnologie, rapporti organizzativi e abitudini », infrangere l’alleanza tra indifferenza e interessi e rispondere agli imperativi della «missione cosmopolita dell’ecologia: consentire più giustizia globale senza rendere la Terra ospitale».
Giustizia globale in una Terra ospitale è l’obiettivo condiviso anche da Susan George, attivista altermondialista, presidente del board del Trasnational Institute di Amsterdam, che in Whose Crisis,Whose Future (Polity Press, pp. 212) torna a criticare aspramente la natura predatoria del capitalismo neoliberista, che è riuscito a sottomettere il pianeta, le società, l’economia agli interessi della finanza. E che ha edificato mura di ingiustizia: da quelle della povertà e della disugualianza crescenti sia al Nord che al Sud a quelle che impediscono l’accesso alle risorse fondamentali per buona parte della popolazione.
Secondo la George, la crisi economico-finanziaria non è che la manifestazione più evidente dell’implosione del modello imposto dalla «classe di Davos», ma è anche un’occasione per abbattere quelle mura. Come farlo? Capovolgendo la gerarchia stabilita dal neoliberismo: se nell’ordine neoliberista alla finanza spetta occupare la «sfera concentrica» più ampia, che include a sua volta l’economia, le società e per finire e in ordine decrescente il pianeta, occorre ri-attribuire al pianeta la priorità gerarchica, sottoponendogli la società, l’economia e, infine, la finanza.
Per un keynesianesimo verde
L’operazione non è facile, ma la crisi è l’occasione per intraprendere e finanziare una conversione verde – simile «agli sforzi fatti dagli Alleati per vincere la seconda guerra mondiale» –, un nuovo keynesianesimo che incoraggi gli investimenti nell’industria eco-friendly, nelle energie alternative, nella produzione di materiali leggeri, nel trasporto pubblico efficiente e pulito, nella ricerca e nello sviluppo. Lo si può fare, sostiene Susan George, convincendo la classe politica che la trasformazione ecologica paga in termini politici, e mettendo in campo una narrazione convincente, un mito: «non una bugia, una leggenda o una fiaba, ma la grande narrazione che un mondo disincantato chiede a gran voce»
Ecco il testo di una intercettazione impossibile. Si tratta di una lezione agli studenti che sarà svolta da un ignoto docente di storia economica contemporanea verso la fine del ventunesimo secolo. Riguarda "la mutazione del capitalismo nel ventesimo secolo".
* * *
«A circa tre quarti del ventesimo secolo i governi dei paesi anglosassoni, Inghilterra e Stati Uniti, presero la storica decisione di liberalizzare i movimenti internazionali dei capitali. Diventò possibile trasferire capitali da un punto all´altro del mondo alla ricerca del massimo profitto. Fino ad allora, nel regime instaurato a Bretton Woods questa possibilità era stata assoggettata a severe limitazioni.
Queste limitazioni avevano reso possibile un patto fondamentale tra capitale e lavoro, cuore del compromesso tra capitalismo e democrazia, che contraddistinse quella che fu chiamata da un grande storico di quei tempi l´età dell´oro. I capitalisti rinunciavano alla ricerca del massimo profitto e i sindacati alla piena utilizzazione del loro potere contrattuale. Ambedue subordinavano le loro pretese al vincolo dell´aumento della produttività. Si chiamava politica dei redditi e assicurò qualche decennio di crescita sostenuta accompagnata da alta occupazione del lavoro e da equilibrata distribuzione dei redditi.
La liberazione dei movimenti di capitale fece saltare questo tacito patto con conseguenze economiche e sociali contraddittorie. Masse di capitali affluirono nei paesi poveri suscitandovi imponenti processi di sviluppo soggetti a improvvisi e devastanti deflussi. Nei paesi ricchi quella decisione provocò invece una vera e propria mutazione del capitalismo. La ricerca del massimo profitto nel minimo tempo sviluppò le attività finanziarie e speculative rispetto alla produzione reale. Ne risultò un rallentamento della crescita e uno spostamento dei redditi dal settore reale a quello finanziario accompagnato da un aumento vertiginoso delle diseguaglianze. Sul piano mondiale si verificò un altro processo sconvolgente. Il risparmio dei paesi poveri investiti dallo sviluppo fu attratto dai mercati finanziari dei paesi ricchi che gli garantivano sicurezza e rendimenti elevati. Invece di alimentare i bassi consumi dei primi finanziò i consumi eccessivi dei secondi instaurando una condizione di squilibrio permanente delle bilance dei pagamenti.
Ma gli squilibri non si produssero soltanto nello spazio, investirono il tempo. L´accumulazione finanziaria fu finanziata sempre più dai redditi futuri, sotto forma di indebitamento: come dire, vivendo alle spalle dei posteri. Questo fenomeno assunse caratteristiche sistematiche, al punto che un economista definì il nuovo capitalismo come il regime economico in cui i debiti non si pagano mai, ma sono sistematicamente rinnovati.
Qualcuno di voi mi domanderà: era sostenibile una tale condizione di cose? La risposta è: no. Infatti, verso l´inizio del secolo ventunesimo una crisi violenta provocata dal collasso dei debiti del settore immobiliare in America travolse i mercati mondiali. La grande crisi che l´aveva anticipata, negli anni Trenta di quel secolo, era stata superata grazie (si fa per dire) alla seconda guerra mondiale; ma anche, immediatamente prima e immediatamente dopo di quella, a un decisivo spostamento dalla guida privata alla guida politica dell´economia. Invece, quella nuova e altrettanto devastante crisi fu superata brillantemente rifinanziando i soggetti che l´avevano promossa: banche e intermediari finanziari. Il costo fu pagato dai lavoratori rimasti senza lavoro e dai contribuenti. Ciò diede luogo a forti disavanzi pubblici che furono vivamente contestati dai "mercati" che l´avevano suscitati, e che furono repressi con severe misure di taglio delle spese sociali.
Dopo qualche pausa di riflessione il meccanismo dell´accumulazione finanziaria riprese, pur se con qualche deplorato ritardo, esattamente nelle stesse forme e modalità. Voi mi chiederete…».
* * *
A questo punto l´intercettazione, purtroppo, si interrompe. Dobbiamo immaginarci noi la domanda. E, soprattutto, la risposta.
«Simone Weil diceva che nel socialismo gli individui sono in grado di controllare la macchina tecnologica. Si tratta di capire perché è un'illusione» Emanuele Severino: «Tecnologia e ideologie all'ultimo round di uno sviluppo insostenibile»
Con il professor Emanuele Severino affrontiamo l'analisi sulla crescita produttiva, l'obiettivo più tenacemente auspicato e perseguito da economisti, imprenditori, governi, politici di ogni colore, e di conseguenza da tutti invocato anche nel discorrere più feriale.
«Questo continuo parlare della crescita come di cosa ovvia è in buona parte dovuto all'ignoranza. Sono decenni che si va intravvedendo l'equazione tra crescita economica e distruzione della terra. Comunque, è tutt'altro che condivisibile l'auspicio di una crescita indefinita.»
Professore, sta dicendo che l'economia è una scienza consapevole delle conseguenze negative della crescita?
«Ha incominciato a diventarne consapevole: l'auspicio di una crescita indefinita va ridimensionandosi. Anche nel mondo dell'intrapresa capitalistica - la forma ormai pressocchè planetaria di produzione della ricchezza - ci si va rendendo conto del pericolo di una crescita illimitata; (anche se poi si fa ben poco per controllarla). Vent'anni fa, quando lei scrisse quel suo bel libro che interpellava numerosi economisti a proposito del problema dell'ambiente, la maggior parte degli intervistati affermava che quello del rapporto tra produzione economica ed ecologia era un falso problema. Oggi non pochi economisti sono molto più cauti e anche le dichiarazioni dei politici sono diverse da venti o trent'anni.»
Però non fanno che invocare crescita, senza nemmeno nominarne i rischi.
«In periodo di crisi economica, di fronte al pericolo immediato di una recessione, è naturale che si insista sulla necessità della crescita. Purtroppo però lo si fa riducendo il problema alle sue dimensioni tattiche, ignorandone la dimensione strategica.»
E intanto si verificano tremendi disastri. Dal Golfo del Messico a Fukushima.
«Certo. Ma vorrei precisare che prendere atto della gravità di fenomeni come questi significa capire che essi non sono dovuti alla tecnica in quanto tale, non sono disfatte della tecno-scienza, ma dell'organizzazione ideologica della scienza e della tecnica. Sono disfatte, cioè, del capitalismo (fermo restando che l'economia pianificata di tipo sovietico era ancora più dannosa per l'ambiente).»
La mia impressione però è che quanti insistono a invocare crescita, continuino a ignorare che tutto quanto vediamo, tocchiamo, usiamo, è «fatto» di natura; e che dunque disponiamo di materia prima in quantità date, e non dilatabili a richiesta. I grandi industriali che si confrontano a Davos, Cernobbio, spesso neanche citano il problema.
«Ma è un atteggiamento normale dell'uomo quello di preoccuparsi soprattutto dei problemi immediati, lasciando sullo sfondo quelli che non sembrano urgenti, ma che spesso sono quelli decisivi. Quando la barca fa acqua la prima preoccupazione è tappare la falla, poi si pensa a dove approdare. Certo, ci sono quelli che stando nella barca non pensano mai a trovare il porto, e quindi, nel complesso diventa inutile tappare le falle. »
Il problema esiste da decenni... Il deperimento dell'equilibrio ecologico è stato clamorosamente denunciato dagli anni '50, ma nelle scelte politiche è stato completamente ignorato.
«Ecco, forse su quel “completamente” si può non essere d'accordo. Penso ad esempio a Clinton, consigliato da Al Gore: nel suo primo discorso da presidente ha parlato agli Americani della necessità e convenienza di una crescita economica sostenibile... Una dichiarazione di intenti che in qualche modo anche Obama ha fatto propria.»
Anche celebri economisti (Stiglitz, Krugman, Fitoussi...) riconoscono la gravità della situazione ambientale, ma non accennano a soluzioni che mettano in discussione il capitalismo
«È proprio questa la situazione. Ma occorre anche dire che oggi, in un mondo conflittuale, dove nessuno intende rinunciare al potere, una politica economica meno «produttivistica» significherebbe mettersi dalla parte dei perdenti, indebolirsi anche sul piano militare, essere condizionati da Paesi come l'Iran o la Cina. E sembra difficile anche rinunciare alla base economica richiesta dall'armamento nucleare. Oggi infatti, a differenza di quanto spesso si continua a credere, la potenza nucleare appare decisiva anche nella lotta contro il terrorismo. È un problema enorme, che si tende a non affrontare nemmeno là dove si è consapevoli che la crescita incontrollata distrugge la terra. Per arrivare a un impegno adeguato per la soluzione di tale problema dovranno accadere disastri giganteschi.»
Mi domando però fino a quando questa realtà potrà reggere, di fronte a una natura devastata da un agire economico fondato su una crescita produttiva che non prevede limiti.
«È da guardare con diffidenza - ma non voglio sembrare cinico - l'intellettuale che dice alle grandi potenze mondiali: «Dovreste mettervi in discussione». Le grandi potenze non cambiano le loro scelte perché gli intellettuali dicono qualcosa che va contro i loro interessi. Ce la vede lei una Cina che rinuncia a una politica economica vincente, e al proprio tete-à-tete attuale con Stati Uniti, Russia, Europa, per rispetto dell'ambiente? E ormai anche in Europa la vita va avanti alimentata dalle centrali nucleari. E continueranno ad andare avanti così. Non basta quello che sta succedendo: solo un disastro di proporzioni senza precedenti, dicevo, potrebbe convincere l'ordinamento capitalistico a cambiar strada in modo radicale.»
Inevitabilmente? In base alla natura umana? Alla storia?
«In base alla priorità che per lo più vien data ai problemi immediati. Ma c'è un'altra inevitabilità, ancora più perentoria: quella del tramonto del capitalismo. Diciamolo in quattro parole. Un'azione è definita dal proprio scopo. Anche l'agire capitalistico è quindi definito dal suo scopo, cioè dall'incremento indefinito del profitto privato. Quando il capitalismo, di fronte a grandi disastri planetari dovuti al suo agire, assumerà come scopo non più l'incremento del profitto ma la salvaguardia della terra, allora non sarà più capitalismo. Inevitabilmente: o il capitalismo volendo avere come scopo il profitto distrugge la terra, la propria "base naturale", e quindi sé stesso, oppure assume come scopo la salvaguardia della terra, e allora anche in questo caso distrugge egualmente sé stesso. In questo senso appunto parlo da decenni di inevitabilità del tramonto del capitalismo.»
Lei è uno dei pochissimi che fanno previsioni del genere. Le stesse sinistre - quel poco che ne rimane - sembrano aver definitivamente rinunciato all'idea di superare il capitalismo. In fatto di ambiente non hanno alcuna politica propria, anche se gli spetterebbe, perché in fondo a pagare le conseguenze dello sconquasso ecologico sono soprattutto le classi più deboli.
«Quando parlo di declino del capitalismo, parlo infatti di qualcosa che presuppone anche il declino del marxismo, dell'umanesimo marxista, dell'umanesimo di sinistra. Non è che la sinistra sia in una posizione avvantaggiata rispetto al capitalismo. Ma il discorso va completato. Sia il capitalismo, sia il marxismo e le sinistre mondiali - ma anche i totalitarismi e le teocrazie, e la democrazia, e anche le religioni e ogni "visione del mondo" e "ideologia" - si sono illusi e si illudono tutt'ora di servirsi della tecnica. Ma che cosa vuol dire questo? Che la tecnica è il mezzo con cui tutte quelle forze intendono realizzare i propri scopi (per esempio la società giusta, senza classi, oppure l'incremento del profitto privato, oppure l'eguaglianza democratica). Anche la sinistra è cioè sullo stesso piano del capitalismo per quanto riguarda il rapporto con la forza emergente della modernità, cioè la tecno-scienza. Simon Weil diceva che il socialismo è quel reggimento politico in cui gli individui sono in grado di controllare la macchina tecnologico-statale-militare-burocratico-finanziaria: l'«individuo» - come il «capitalista» - si illude di poter controllare l'apparato tecnologico. Si tratta di capire perché è un'illusione. »
Una prospettiva che dovrebbe poter contenere tutti i possibili...
«Invece andiamo verso un tempo in cui il mezzo tecnico, essendo diventato la condizione della sopravvivenza dell'uomo - ed essendo anche la condizione perché la Terra possa esser salvata dagli effetti distruttivi della gestione economica della produzione - è destinato a diventare la dimensione che va sommamente e primariamente tutelata; e tutelata nei confronti di tutte le forze che vogliono servirsene. Sommamente tutelata, non usata per realizzare i diversi scopi «ideologici», per quanto grandi e importanti siano per chi li persegue. Ciò significa che la tecnica è destinata a diventare, da mezzo, scopo. Quando questo avviene, capitalismo, sinistra mondiale, democrazia, religione, ogni «ideologia» e «visione del mondo», ogni movimento e processo sociale, diventano qualcosa di subordinato; diventano essi un mezzo per realizzare quella somma tutela della potenza tecnica, che è insieme l'incremento indefinito di tale potenza.. Perciò spesso dico che la politica vincente, la «grande politica», sarà delle forze che capiranno che non ci si può più servire della tecnica. La grande politica è la crisi della politica che vuole servirsi della tecnica. Non si tratta di un processo di «deumanizzazione», o «alienazione», come invece spesso si ripete, dove l'uomo diventerebbe uno «schiavo» della tecnica; perché in tutta la cultura - anche in quella che alimenta ogni più convinto umanesimo - l'uomo è sempre stato inteso come essere tecnico. Le sto descrivendo il futuro: non prossimo, ma neanche remoto. In questo senso appunto parlo da decenni di inevitabilità del tramonto del capitalismo.»
Mi permetta un'obiezione. Già oggi la tecnica sembra imporsi come scopo. Dando prove quanto meno discutibili.
«No, perché come dicevo prima, ciò che dà cattiva prova di sé è la gestione ideologica della tecnica è il modo, ad esempio, in cui in Giappone sono state organizzate le centrali nucleari. E lì non c'entra la tecnoscienza, ma la gestione capitalistica di essa, che per il profitto ha sottovalutato la pericolosità di quel tipo di centrali. Debbo però aggiungere che la tecnica destinata al dominio non è la tecnica tecnicisticamente o scientisticamente intesa, ma quella che riesce a sentire la forza della voce essenziale della filosofia del nostro tempo, la quale dice che non possono esistere limiti assoluti all'agire dell'uomo).
E resta il fatto che molti istituti scientifici, anche di largo prestigio, vivono in quanto finanziati da grandi potentati economici... E questo in qualche misura significa condizionarli...»
«Certo, questa è la situazione attuale. Ma la tendenza globale è un'altra. Condizionarli significa indebolirli. È quindi inevitabile che, a un certo momento, chi condiziona si renda conto di non poter più continuare a farlo, perché, alla fine, condizionare (e quindi subordinare e pertanto indebolire) la tecnica per promuovere sé stessi significa indebolire se stessi...»
Si diceva che le sinistre - a parte l'impegno per la difesa del lavoro - non dicono, né propongono cose gran che diverse dalla destra. Il marxismo un tempo aveva uno sguardo ben più ampio. Dopotutto non a caso l'inno dei lavoratori era l'Internazionale. Tentare di guardare un po' più lontano, cercare di allargare lo stesso discorso sul lavoro, non potrebbe portare a una proposta alternativa?
«Questo allargamento va imponendosi da solo. Infatti non si può separare il lavoro dalla tecnica (ma dal capitalismo sì, come dal marxismo). Un po' da tutte le parti politiche oggi si sente dire a proposito dei problemi più importanti: “Non è questione né di destra né di sinistra, è una questione tecnica”. È un piccolo indizio del processo in cui le soluzioni tecniche prevalgono su quelle politiche e “ideologiche”».
Mi riesce difficile seguirla, la tecnica viene solitamente vista come uno strumento usato dal capitalismo.
«Questo è lo stato attuale che il mondo capitalistico vorrebbe perpetuare. Ma la tecnica non è il capitalismo. Il servo non è il padrone. Ed è già accaduto che i servi si liberassero dei padroni. La liberazione decisiva, rispetto alla quale si è ancora ciechi, è la liberazione della tecnica dal capitale.»
In definitiva Lei vede il capitalismo sopraffatto dalla tecnica...
«Sì. O meglio: è la logica del discorso a vederla.»
È insomma l'intero sistema produttivo che di fatto agisce contro la salvezza dell'umanità... Non crede che in tutto ciò esista qualche responsabilità anche da parte delle sinistre? Dopotutto erano nate per combattere il capitale, no?
«Ma il discorso che vado facendo da molto tempo indica qualcosa che sta al di sopra delle esortazioni, delle mobilitazioni, dei progetti, della volontà politica. Riguarda un movimento che procede per conto proprio, guidando e animando la volontà, così come, si sa, la struttura del capitale domina e anima la volontà dei singoli capitalisti. Marx diceva appunto che i capitalisti sono le prime vittime del capitale. Ecco, si tratta di capire il modo in cui la tecnica prende il posto del capitale.»
Lei si riferisce a un movimento, o una tendenza, in qualche modo, come dire..., operante e avvertibile? Oppure si tratta per ora soltanto di un'ipotesi filosofica?
«È una tendenza che è operante e avvertibile proprio nel modo adeguato (e dunque non «soltanto» ipotetico) di fare filosofia. Per essenza la filosofia si riferisce all'autenticamente operante e avvertibile.»
Sono tante ormai le persone che si preoccupano per il futuro di un mondo per mille versi sempre più problematico e rischioso... Per lo più si tratta di giovani, consapevoli e impegnati... A tutti costoro che cosa si sentirebbe di consigliare?
«Per ora siamo gettati nell'errore; ma proprio per questo c'è molto da fare. C'è da favorire il processo che porta l'errore a maturazione. Per questo parlavo prima della “grande politica”. Per praticarla è necessario incominciare a guardare in faccia il senso essenziale della storia dell'Occidente, il senso cioè della volontà di potenza: il senso del fare».
Le precedenti interviste, all'economista Pierluigi Ciocca e al demografo Massimo Livi Bacci, sono state pubblicate, rispettivamente, il 16 e il 22 giugno.
SCHEDA BIOGRAFICA
Emanuele Severino (Brescia, 1929), si laurea all'università di Pavia nel 1950 discutendo una tesi su "Heiddegger e la metafisica" e l'anno successivo ottiene la libera docenza in filosofia teoretica. Dal 1954 al 1970 insegna filosofia all'università Cattolica di Milano, ma i suoi libri entrano presto in conflitto con la dottrina ufficiale della chiesa che, nel 1970, proclama l'insanabile opposizione tra il filosofo e il cristianesimo. Severino lascia Milano e viene chiamato all'università Ca' Foscari di Venezia dove è tra i fondatori della facoltà di Lettere e Filosofia. Dal 2001 è stato professore ordinario di filosofia teoretica, ha diretto l'Istituto di filosofia fino al 1989, ha insegnato anche Logica, Storia della filosofia moderna e contemporanea e Sociologia. E' stato docente alle vacances de l'Esprit nel 1996, 2001 e nel 2008. Nel 2005 l'università veneziana lo proclama professore emerito. Attualmente insegna all'università san Raffaele di Milano. E' accademico dei Lincei. Da molti anni collabora con il .Corriere della Sera.
Avendo molta stima per Guido Viale, non posso non apprezzare le sue osservazioni critiche a proposito dell'intervista a Pierluigi Ciocca, apparse sul manifesto del 16 giugno scorso. Viale scrive che i passaggi sulla crescita in quell'intervista lo lasciano piuttosto perplesso e, riferendosi a me, osserva che la crescita è un «concetto largamente screditato e che non lo sviluppo può essere un obiettivo, ma il governo, o meglio, l'autogoverno dei processi economici». Nel contempo Viale precisa di non essere fautore della decrescita di Latouche, ma trova che la crescita è un concetto povero di contenuti, inutilizzabile nelle situazioni di crisi, quando a essere messi in forse sono redditi e posti di lavoro.
Vorrei provare a rispondere. In quell'intervista si trattava dell'attuale grave crisi italiana che colpisce redditi e posti di lavoro attraverso cali di produzione e produttività. Concretamente la nostra non era un'apologia della crescita in sé e per sé, ma si riferiva a una situazione concreta. Quindi sono d'accordo con Viale che bisogna parlare di crescita in situazioni concrete e con riferimento a obiettivi specifici.
Insomma, la crescita va concretamente determinata, ma non credo che sia un obiettivo da bandire. Se la popolazione mondiale cresce, se i bisogni degli umani aumentano bisogna pure che qualcosa cresca. Cresca certo in condizioni e con obiettivi determinati, ma proprio non vorrei che i pregiudizi sulla crescita ci portino a una irrealistica apologia della decrescita. O a una sua supina accettazione. Ma anche Viale è contrario alla decrescita.
È sempre utile guardare che cosa c’è dietro le etichette delle parole. Chi critica la “crescita” (sia spinto o meno da ragioni diplomatiche a dubitare sull’utilità del termine “decrescita”) critica un determinato modello di economia e di società: quello capitalistico, che riduce ogni bene a merce, che cancella il valor d’uso assumendo come unico valore quello di scambio, e che è condannato a produrre (e vendere) la maggiore quantità possibile di merci, indipendentemente dalla loro utilità umana e sociale.
Chi critica la “crescita”, riassumendo in questo termine quei contenuti, critica un modello che ha prodotto storicamente benefici e disastri, ma che ha ormai dimostrato di essere distruttivo per l’intero pianeta e per l’umanità che lo abita (rinvio ai numerosi scritti di Piero Bevilacqua, di Carla Ravaioli, di Guido Viale e a quelle di economisti “classici” come Claudio Napoleoni e di economisti contemporanei come Giorgio Lunghini, raccolti su queste pagine).
Questo sistema è in crisi. La questione è: come uscirne? Come accade da qualche secolo le risposte possibili sono due: aggiustandone i meccanismi, oppure trasformandolo radicalmente.
È la vecchia polemica tra “riformisti” e “rivoluzionari". Ma il secondo termine si è arricchito, nel secolo scorso, di un concetto nuovo: il “gradualismo”, cioè le trasformazioni (le “riforme”) nel quadro di una prospettiva di modifica radicale del sistema. Se si leggono con un po’ di attenzione numerosi degli scritti sul capitalismo, l’ambiente, l’economia, il lavoro inseriti in eddyburg egli ultimi mesi si troveranno numerose indicazioni su ciò che è possibile fare fin d’ora per uscire dalla crisi senza confermare il meccanismo perverso della “crescita” indefinita e fine a se stessa, ma preparando (sperimentando) elementi di un modo nuovo di vivere e governare la produzione e il consumo, l’ambiente, l’economia, il lavoro – e la vita quotidiana. Si veda ad esempio, oltre agli scritti di molti degli autori citati, l’eddytoriale 144.(e.s.)
Siamo vicinissimi al quorum e con un ultimo sforzo possiamo farcela. Le circostanze ci sono favorevoli. L'incredibile autogol prodotto dal tentativo di scippare il referendum pesa sugli umori del fronte del no. Ma è importante che l'allargamento del perimetro del sì non faccia perdere di vista l'essenza politica di questo voto: un'inversione di rotta rispetto a un ventennio di politiche liberiste e un modello di sviluppo nuovo, fondato sulla qualità della vita e finalmente libero dalla schiavitù del Pil, del pensiero economico mainstream dei Draghi e dei poteri forti, del falso realismo conservatore. Un sì che legittima politicamente la realizzazione delle idee (sul manifesto del 7 giugno Viale ne ha esposte alcune di grande importanza) che ci possono consentire di uscire davvero dalla crisi. Tutti quei sì metteranno all'ordine del giorno la riforma del servizio idrico proposta dai Forum con la legge di iniziativa popolare mai discussa in Parlamento, e la riforma della proprietà pubblica della Commissione Rodotà, a sua volta giacente in Senato, che per prima definisce giuridicamente i beni comuni.
Il modello di sviluppo attuale ha causato Fukushima e la crisi economica che colpisce i più deboli. Un modello figlio del tatcherismo e della destra liberista degli anni ottanta e che in Italia è stato sdoganato anche a sinistra all'inizio della cosiddetta Seconda repubblica: in Toscana ed Emilia l'acqua ha subito le prime privatizzazioni, rese possibili dalla legge Galli. L'ingresso dei privati nei servizi pubblici, pur in quote minoritarie, porta sempre con sé un amministratore delegato attento solo al profitto di breve periodo. Al pubblico resta il Presidente, una figura politica scelta al di fuori di qualunque criterio di competenza specifica. Certo, il pubblico ha dei limiti, siamo i primi a riconoscerlo, ma rinunciare a individuarne la natura istituzionale al fine di correggerli è una resa al privatismo che gli italiani non possono più accettare. Il pubblico va curato insieme, con umiltà, dedizione e fantasia istituzionale. Smantellarlo a favore del privato è una scorciatoia pigra, cinica e disonesta che vogliamo sconfiggere per sempre.
Abbiamo iniziato la campagna di raccolta firme, in compagnia di migliaia di iscritti e militanti del Pd che si mobilitavano con noi nonostante i distinguo e le critiche dei D' Alema, dei Veltroni e dei Bersani. Tutti possono oggi cambiare idea e non siamo noi a offenderci perché ai talk show invitano solo politici di professione. Ma su una cosa non possiamo transigere, quali che siano le logiche della società dello spettacolo. Non è vero che quei milioni di voti che otterremo per il sì vogliono aprire una discussione sui territori per scegliere se l'acqua vada gestita in modo pubblico, privato o misto. Il senso della scelta è chiaro fin dal 12 gennaio, quando la Corte ha ammesso i nostri due referendum. Tutti i sì che riceveremo sull'acqua bocciano senza appello e per sempre i sistemi privatistici nel governo dei beni comuni, riconoscendoli come beni da porsi fuori commercio, le cui utilità sono funzionali alla soddisfazione di diritti fondamentali della persona e che vanno governati anche nell'interesse delle generazioni future (è l'essenza della definizione che ne diede la Commissione Rodotà).
UTOPIE CONCRETE
Una politica per il paradiso
di Andrea Fumagalli
La nuova divisione del lavoro e le stigmate della precarietà in un saggio dello studioso inglese Guy Standing.
«Il 1 maggio 2001, quasi 5000 persone, per lo più studenti e giovani attivisti sociali, si riunirono nel centro di Milano per una parade che si voleva alternativa alle tradizionali dimostrazioni del 1 maggio. A partire dal 2005, la partecipazione alla MayDay parade si è ingrossata sino a interessare dalle 50.000 alle 100.000 persone .... ed è diventata pan-europea (EuroMayday), con centinaia di migliaia di uomini e donne, la maggior parte giovani, che si riprendevano le strade delle città dell'Europa continentale. Queste dimostrazioni furono il primo segnale dell'agitazione del precariato». Con queste parole, si apre il libro di Guy Standing The Precariat. The new dangerous class (Bloomsbury, pp. 198). Guy Standing, docente di Economic Security all'Università di Bath, è un profondo conoscitore della dinamica del mercato del lavoro globale, grazie anche ai numerosi anni nei quali ha prestato servizio presso l'Ilo (International Labor Office) a Ginevra, prima di essere allontanato per le sue posizioni non del tutto allineate.
In questo saggio (di cui si auspica la traduzione in italiano), si analizza la nuova composizione internazionale del lavoro, esito dei processi di trasformazione del sistema di accumulazione e valorizzazione degli ultimi decenni e della recente crisi economica globale. Per far ciò è necessario introdurre nella lingua inglese alcuni neologismi: precariat per indicare il soggetto sociale, precariousness per indicarne la condizione socio-economica.
Che cosa è oggi il precariato? A differenza dei lettori italiani, per i quali il lessico della precarietà è entrato a far parte del gergo corrente proprio grazie alla Mayday e per i quali esiste una saggistica avviata da tempo (basti pensare ai «Quaderni di San Precario»), per un lettore anglosassone, la domanda è invece, tutto sommato, nuova.
La risposta di Standing è, allo stesso tempo, semplice e complessa. Semplice, perché afferma che il precariato è una «una classe in divenire, non ancora una classe in sé, nel senso marxiano del termine»). Ne consegue che il tradizionale armamentario analitico-politico che è stato forgiato, sperimentato e innovato nel corso del Novecento a proposito della classe operaia e del proletariato come classe omogenea diventa inutilizzabile. Complessa, perché definire una «classe in divenire» implica una metodologia di analisi nuova, in grado di definire in modo rigoroso l'eterogeneità dei confini del precariato, coglierne appunto le differenze per ricomporle ad un livello superiore e diverso.
A tal fine si può procedere in due modi. Il primo è fornire una definizione per negazione. Fa parte del precariato colui o colei a cui mancano alcuni elementi di sicurezza economica e sociale. In proposito, Standing ne individua sette: la sicurezza di essere occupabile nel mercato del lavoro, la sicurezza dei diritti del lavoro contro discriminazioni, licenziamenti senza giusta causa, sicurezza del lavoro a partire dai livelli di professionalità o dagli infortuni e la salute, la sicurezza della formazione, in grado di favorire avanzamenti di carriera, la sicurezza di reddito in termini di continuità e decenza e, infine, la sicurezza della rappresentatività in termini sindacali e contrattuali. Se dovessimo definire la condizione precaria secondo questo schema, è possibile individuare diversi gradi di precarizzazione, che subiscono una brusca accelerazione dopo la crisi del 2008, sino a dire che a livello globale quasi tutti i segmenti di lavoro ne sono coinvolti. Al punto di arrivare a affermare che oramai, nessun lavoratore è esente da qualche forma di precarietà.
Il secondo modo è definire la precarietà sulla base di alcuni elementi che la caratterizzano in modo omogeneo. Standing ne individua quattro (le quattro A): acredine-rabbia, anomia, ansietà, alienazione. Essi rappresentano la frustrazione del precariato, all'interno di processi di individualizzazione del lavoro che ne favoriscono l'accentuazione. Ed è dall'analisi di questa componente psico-fisica che si può capire il sottotitolo del libro: «la classe pericolosa». Secondo Standing, infatti, le diverse componenti del precariato, dai migranti alle donne che svolgono lavoro di cura, ai contadini espropriati dalle terre, agli operai sfruttati nei sweatshops dell'ovest e dell'est del mondo, ai precari del terziario materiale (dal trasporto ai centri commerciali) e immateriale (dai call-center alle università e editoria) sono inseriti in contesto di forte concorrenza e di dumping sociale favorite da quella «politica dell'inferno» che i policy makers neoliberisti hanno fomentato come strumento di divisione e di controllo. All'interno di questi contesti, fenomeni razzisti, nichilisti, corporativi sono all'ordine del giorno e impediscono lo sviluppo di una presa di coscienza e di soggettivazione per far sì che la precarietà si trasformi in vera classe sociale.
Per opporsi alle «politiche dell'inferno», occorre promuovere ciò che Standing chiama una «politica del paradiso» fondata su alcuni obiettivi universali in grado di favorire quel processo di ricomposizione delle diverse soggettività precarie, oggi frammentate e spesso in lotta fra loro. Dai diritti sul lavoro si passa alla libertà di movimento e di occupazione, dalla critica ai processi di workfare e di smantellamento del welfare state alle politiche pubbliche di accesso ai servizi di base, dalla formazione e libertà di accesso alla conoscenza alla necessità di controllare e ridurre il tempo di lavoro. Tra questi due obiettivi meritano un breve approfondimento: la «riscoperta» dei beni comuni (commons) e la proposta di un reddito minimo incondizionato (basic income). Questi due obiettivi vengono analizzati in modo complementare. Standing, che è anche co-presidente della rete «Basic Income Earth Network» (Bien) individua basic income una sorta di risarcimento per l'espropriazione dei commons che la dinamica capitalistica ha effettuato nei secoli. Da questo punto di vista, il basic income è lo strumento più idoneo per riappropriarsi dei beni comuni naturali e immateriali.
A questo libro, ricco di suggestioni che non è possibile qui ricordare in modo compiuto, dovrebbero seguire altre ricerche tese ad approfondire i cambiamenti nei processi di creazione di ricchezza in un contesto di sfruttamento intensivo del bios umano, nonché delle nuove forme di divisione cognitiva del lavoro che, all'indomani della crisi del paradigma fordista, si sono dipanate nel processo di globalizzazione e finanziarizzazione dell'economia mondiale. Se il precariato è «una classe in divenire», anche l'analisi di tale condizione lo deve essere.
Reddito di cittadinanza
Il diritto universale alla vita
Intervista di Roberto Ciccarelli con il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli
Dopo la politiche neoliberiste attuate da governi conservatori e progressisti, la sinistra deve tornare a proporre soluzioni che impediscano la riduzione del lavoro a merce
«La sinistra deve capire che il reddito base universale, anche se è difficile da realizzare, dovrebbe oggi rappresentare il principale obiettivo di una politica riformatrice da realizzare gradualmente in una o due legislature». È come sempre chiaro e netto Luigi Ferrajoli, che ha da poco pubblicato Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana (Laterza) la più aspra critica del berlusconismo che si ricordi degli ultimi tempi (il manifesto del 25 maggio) e domani interverrà al meeting sull'«utopia concreta del reddito» organizzato dal Basic Income Network a Roma. «La crisi non ci lascia alternative: bisogna arrivare ad un reddito per tutti che garantisca l'uguaglianza e la dignità della persona. Diversamente da altre forme limitate di reddito di cittadinanza, un reddito per tutti escluderebbe qualunque connotazione caritatevole e quindi lo stigma sociale che deriva da un'indennità legata al non lavoro o alla povertà. L'ho già sostenuto in Principia Iuris: il reddito è un diritto fondamentale».
Molti studiosi sostengono che il reddito di base è impraticabile perché costa troppo?
«Certamente il reddito costa, ma i calcoli che sono stati fatti mostrano che esso comporterebbe anche grandi risparmi: un reddito ope legis per tutti riduce gran parte delle spese per la mediazione burocratica di almeno una parte delle prestazioni sociali, con tutti i costi, le inefficienze, le discriminazioni e la corruzione legati a uno stato sociale che condiziona le prestazioni dei minimi vitali a condizioni personali che minano la libertà e la dignità dei cittadini. Ma soprattutto è necessario sfatare l'ideologia dominante a destra, e purtroppo anche a sinistra, secondo la quale le spese nell'istruzione, nella salute, nella sussistenza sono un costo insostenibile. Queste spese sono al contrario gli investimenti primari ed economicamente più produttivi. In Italia, il boom economico è avvenuto simultaneamente alla costruzione del diritto del lavoro, all'introduzione del servizio sanitario nazionale e allo sviluppo dell'istruzione di massa. La crisi è iniziata quando questi settori sono stati tagliati. Sono cose sotto gli occhi di tutti».
Come si possono recuperare le risorse necessarie?
«Dal prelievo fiscale, che tra l'altro dovrebbe essere riformato sulla base dell'articolo 53 della Costituzione che impone il carattere progressivo del sistema tributario. La vera riforma fiscale dovrebbe prevedere aliquote realmente progressive. Oggi la massima è il 43 per cento, la stessa di chi ha un reddito di circa 4.000 euro al mese e di chi, come Berlusconi o Marchionne o gli alti manager, guadagna 100 volte di più. È una vergogna. Quando Berlusconi dice che non vuol mettere le mani nelle tasche degli italiani pensa solo alle tasche dei ricchi. Occorrerebbe invece prevedere tetti e aliquote che escludano sperequazioni così assurde».
Cosa risponde a chi pensa che il reddito sia un sussidio di disoccupazione?
«Lo sarebbe se fosse dato solo ai poveri e ai disoccupati. Il reddito di base universale, al contrario, sarebbe un'innovazione dirompente, che cambierebbe la natura della democrazia, e non solo dello stato sociale, della qualità della vita e del lavoro. È infatti una garanzia di libertà oltre che un diritto sociale. Provocherebbe una liberazione dal lavoro e, insieme, del lavoro. Il lavoro diventerebbe il frutto di una libera scelta: non sarebbe più una semplice merce, svalorizzata a piacere dal capitale».
Per riconoscere il reddito come diritto fondamentale è necessaria una riforma costituzionale?
«No. Si può anzi affermare il contrario: che una simile misura è imposta dallo spirito della Costituzione. La troviamo nei principi di uguaglianza e dignità previsti dall'articolo 3, ma addirittura nel secondo comma dell'articolo 42 sulla proprietà che stabilisce che la legge deve disciplinare la proprietà «allo scopo di renderla accessibile a tutti». Questa norma, come ha rilevato un grande giurista del secolo scorso, Massimo Severo Giannini, prevede che tutti dispongano di una qualche proprietà, accessibile appunto con un reddito minimo di cittadinanza. E poi ci sono le norme del diritto internazionale, come l'articolo 34 della carta di Nizza, l'articolo 25 della Dichiarazione universale dei diritti umani. È insomma la situazione attuale del lavoro e del non lavoro che è in contrasto con la legalità costituzionale».
La sinistra crede in questa prospettiva?
«No. Tuttavia, se la sinistra vuole rappresentare gli interessi dei più deboli, come dovrebbe essere nella sua natura, questa oggi è una strada obbligata. Il diritto al reddito è oggi l'unica garanzia in grado di assicurare il diritto alla vita, inteso come diritto alla sopravvivenza. Ovviamente occorrerebbe anche l'impegno del sindacato. Nella sua tradizione, sia in quella socialista che in quella comunista, si è sempre limitato alla sola tutela del lavoro. Oggi le garanzie del lavoro sono state praticamente dissolte dalle leggi che hanno fatto del lavoro precario a tempo determinato la regola, e del vecchio rapporto di lavoro a tempo indeterminato l'eccezione. Una sinistra degna di questo nome dovrebbe comunque restaurare la stabilità dei rapporti di lavoro. Con la precarietà, infatti, tutte le garanzie del diritto del lavoro sono crollate perché chi ha un rapporto di lavoro che si rinnova ogni tre mesi non può lottare per i propri diritti. Tuttavia, nella misura in cui il diritto del lavoro non può essere, in una società capitalistica, garantito a tutti, e fino a che permangono forme di lavoro flessibile, il reddito di cittadinanza è anche un fattore di rafforzamento dell'autonomia contrattuale del lavoratore. Una persona che non riesce a sopravvivere accetta qualsiasi condizione di lavoro. Ad un dramma sociale di questa portata si deve rispondere con un progetto ambizioso».
Per quanto riguarda il lavoro e il reddito che cosa si dovrebbe leggere in un programma di sinistra per le prossime elezioni politiche?
«Esattamente l'opposto di quanto è stato fatto finora, anche dai governi di centro-sinistra che negli anni Novanta hanno inaugurato, con i loro provvedimenti, la dissoluzione del diritto del lavoro. Bisogna tornare a fare del lavoro un'attività garantita da tutti i diritti previsti dalla Costituzione e conquistati in decenni di lotta, a cominciare dal diritto alla sua stabilità, che è chiaramente un meta-diritto in assenza del quale tutti gli altri vengono meno. Il lavoro, d'altro canto, deve cessare di essere una semplice merce. E a questo scopo il reddito di base è una garanzia essenziale della sua valorizzazione e insieme della sua dignità. Non è accettabile che in uno stato di diritto i poteri padronali siano assoluti e selvaggi. Marchionne non può ricattare i lavoratori contro la Costituzione, le leggi e i contratti collettivi e minacciare di dislocare la produzione all'estero. Una sinistra e un sindacato degni di questo nome dovrebbero quanto meno impegnarsi su due obiettivi: l'unificazione del diritto del lavoro a livello europeo, per evitare il dumping sociale, e la creazione di sindacati europei. Nel momento in cui il capitale si internazionalizza, perché non dovrebbero farlo anche le politiche sociali e i sindacati?