loader
menu
© 2024 Eddyburg
Guido Loris; Viale Campetti

Prove tecniche del cantiere alternativo
14 Luglio 2011
Capitalismo oggi
Tentativi di uscita dalla crisi della politica e dell'economia, sull’onda degli eventi di quest’anno, in due articoli su il manifesto, 8 luglio 2011

Prove tecniche del cantiere alternativo

di Loris Campetti

Se non incrocia la politica e la rappresentanza politica, il vento del cambiamento può rovesciarsi e soffiare contro chi l'ha sollevato, dentro una svolta reazionaria di massa. Senza i movimenti che costruiscono e provano a praticare un modello sociale e di relazioni alternativo a quello dominante non si va da nessuna parte. Ma i movimenti non vivono senza mettersi in rete e rifluiscono dentro un meccanismo di delega della politica o di disinteresse alla politica presente, quella che usa la forza pubblica contro la pubblica opinione. Costruire una democrazia intesa come diritto non di delega ma di ingerenza è compito lungo e difficile ma il tempo per provarci è ora, prima che cambi il vento.

Costruire il cantiere dell'alternativa è il macigno messo sul tavolo di uno dei tanti dibattiti che si animano a «Sherwood festival», più di un mese di confronti e affondi che fanno il punto su un anno vissuto pericolosamente nelle fabbriche, nelle scuole, nelle valli, nei rifiuti, tra conflitti di classe, di genere, nel rifiuto delle guerre tra poveri di una società dominata dalla precarietà di massa. Dibattiti che preparano le giornate del decennale di Genova e un autunno infuocato. Dunque, il cantiere. Ne hanno discusso con Vilma Mazza e Luca Casarini il segretario della Fiom Landini e il presidente della Puglia Vendola.

Legato alla concretezza del lavoro, Landini sa però che una lotta di resistenza, per quanto straordinaria, o diventa lotta generale in una prospettiva di cambiamento o non potrà vincere. Per farlo bisogna rimettere in discussione antiche certezze come quella che in un tempo diverso riteneva imprescindibile il reddito dal lavoro. Così come, per salvare gli operai della Fiat bisogna discutere non di automobili ma di mobilità: vogliono treni superveloci in Val di Susa ma non c'è la merce che dovrebbero trasportare, così come gli operai di Mirafiori dovrebbero lavorare più ore, più velocemente e con meno diritti per riempire i piazzali di automobili invendute, o per restare a casa in cassa integrazione.

Costruire il cantiere dell'alternativa con i soggetti e i movimenti che le producono. E' come camminare contromano dentro un antiberlusconismo che rivendica il diritto dei cittadini di scegliersi i parlamentari oggi nominati dalle caste politiche e poi arresta la democrazia davanti alle fabbriche. Come a dire che per uscire dal berlusconismo non bisogna costruire un programma e dunque un modello alternativo ma semplicemente allearsi con Marchionne.

Le amministrative e i referendum non sono stati vinti ma subiti dal centrosinistra, ricorda Vendola. Conviene appendere al chiodo presunte certezze e appartenenze, insiste Luca Casarini: il problema è scegliere il leader e le alleanze o costruire il programma di alternativa? La palla torna inevitabilmente a Vendola e Landini. Il segretario della Fiom si avventura anche in un primo elenco dei pilastri dell'alternativa: è di sinistra, dice per esempio, un governo che fa votare i lavoratori. Se si salta la democrazia e ci si accomoda dentro o nei meandri del patto di stabilità non ci sono più destra né sinistra, né diritti né contratti. Al massimo restano il Fondo monetario, la Banca centrale, Marchionne e un'ingiustizia crescente. Casarini alza la palla a Vendola: primarie non come esercizio di propaganda sul leader con programmi già scritti ai tavoli delle mediazioni partitiche ma primarie di un programma scritto con le idee e le esperienze: «convocalo tu in Puglia, Nichi, questo cantiere».

Vendola non ci sta a farsi rinchiudere dentro il recinto della sinistra radicale, una sorta di grande rifondazione comunista che farebbe comodo ai cosiddetti alternativi e ai cosiddetti riformisti. Non ci sto, dice, a fare il ministro del dolore sociale per tamponare i guasti della macelleria. Bisogna incidere nel cuore di un programma alternativo costruendo un cantiere largo fatto di forum, piazze virtuali e piazze sociali. «Altro che mediare un decalogo tra me, Bersani e Di Pietro». Tutti maschi peraltro, privi di una lente fondamentale per guardare la realtà, figuriamoci per cambiarla. E' fuori dal tempo l'idea del partito come grande pedagogo, e come grande ingegnere che disegna il letto su cui far scorrere i movimenti. Così come marca il passo l'idea di sciogliersi in acque magari scure e torbide che scorrono in un letto tracciato da chissà chi. Invece la politica va intesa come fuoriuscita dal ceto separato, e il programma dev'essere scritto dai soggetti collettivi che hanno alzato il vento nell'ultimo anno. Con il principio dell'ingerenza, che non è baciare le mani al tiranno né bombardare il suo popolo.

Ma il cantiere delle primarie in Puglia, a settembre? Non so se a settembre o a ottobre, non so se a Bari o in un'altra città, conclude Vendola, ma è la scelta giusta con la volontà di essere radicali e maggioritari. Come fa la Fiom che da Pomigliano parla all'intero paese e lo smove. Ricordando, come ribadisce Landini insieme a tutti gli attori nella commedia sociale di Sherwood Festival a Padova, che nessuno è autosufficiente. Le mille persone presenti al dibattito padovano sono già un embrione del cantiere futuro.

La frontiera dei beni comuni 


di Guido Viale

La crisi della Grecia dimostra che l'alternativa non è più tra stato e mercato. E la decrescita è frutto della globalizzazione

La Grecia ha imboccato - a precipizio - la strada della decrescita. Lo ha fatto per imposizione della cosiddetta troika (Fmi, Bce e Commissione Europea) di cui Papandreu si è fatto interprete ed esecutore a spese dei cittadini e dei lavoratori del suo paese. Nessun economista al mondo pensa più che l'economia della Grecia possa tornare a crescere in un numero ragionevole di anni. Né che possa mai più ripagare il debito che la opprime, neanche mettendo alla fame i propri sudditi e svendendo tutto quello che possiede (cioè i servizi pubblici e i beni comuni del popolo greco). Per anni ci hanno detto che le privatizzazioni sono necessarie per rendere efficienti i servizi pubblici. Adesso è chiaro che servono soltanto a far cassa, per pagare debiti contratti a copertura dei costi della corruzione, dell'evasione fiscale, degli armamenti, delle grandi opere e dei grandi eventi inutili. Dopodiché il diluvio; che l'Europa e mezzo mondo stanno aspettando senza sapere che fare.

Ma la Grecia non è sola: non perché il resto dell'Europa la voglia aiutare (pensa solo a spennarla); ma perché nella sua identica situazione entreranno presto anche Portogallo, Spagna, Irlanda e altri ancora, tra cui l'Italia. Che è anche lei ben avviata sulla strada della decrescita: si tagliano welfare, investimenti (tranne quelli inutili, come il TAV Torino-Lione) e servizi, senza nessuna politica industriale e nessuna prospettiva di riconversione produttiva o di rilancio dell'occupazione. Certo la decrescita imposta da Tremonti non è quella predicata da Latouche e dal movimento per la decrescita felice. Latouche ha sempre ribadito (ma è una cosa assai difficile da spiegare in giro!) che non c'è peggior male di una decrescita in una società votata alla crescita.

Infatti i fautori della crescita "senza se e senza ma" (la totalità o quasi degli economisti) considerano la decrescita un precipizio senza ritorno. Ma le ricette per una ripresa scarseggiano. Il liberismo ha fatto fallimento, anche se nessuno lo dice apertamente e alcuni lo ripropongono come ricetta salvifica, tetragoni a ogni evidenza. Lo statalismo, nelle sue varie forme (forti: programmazione; flessibili: keynesismo; la pianificazione di tipo sovietico non la propone più nessuno), è disarmato: perché mancano i soldi e si ha paura di rompere il tabù dei bilanci, che sono fatti di debiti e quindi in mano alle società di rating. Ma soprattutto, perché bisognerebbe ammettere che per salvare il salvabile è necessaria una riconversione radicale dell'apparato produttivo e della distribuzione del reddito, invece di delegare a ciò - e a modo loro - i mercati.

La Grecia è un piccolo paese, ma potrebbe avere un grande potere di ricatto: il suo default trascinerebbe con sé le finanze di mezza Europa (e di molte banche Usa) e con esse l'euro; e isolarla, escludendola dall'euro, posto che sia fattibile, sortirebbe lo stesso effetto. Basterebbe quindi che Papandreu, che a differenza di Zapatero, non ha alcuna responsabilità per l'allegra gestione della finanza da parte del precedente governo (con avallo, e conseguenti benefici, di Goldman&Sachs, allora diretta in Europa da Mario Draghi), si schierasse dalla parte dei suoi concittadini che si oppongono alla svendita del paese. L'Unione Europea sarebbe allora costretta ad aprire la borsa, non solo per la Grecia, ma per tutti gli Stati membri in difficoltà. Ma un'operazione del genere - per la quale non mancano proposte operative di ingegneria finanziaria - avrebbe forse senso per finanziare un programma di riconversione produttiva, che oggi non c'è e a cui nessuno pensa. Mentre non serve a niente se da essa si aspetta che rianimi mercati e produzioni in sofferenza, risospingendoli verso una crescita di cui, per lo meno in Occidente, non ci sono più le condizioni.

Liberismo e statalismo si stanno dimostrando entrambi fallimentari perché sono ormai una stessa cosa. Ogni giorno constatiamo che la libertà d'impresa - soprattutto nei confronti dei lavoratori, più che nella concorrenza - ha bisogno, per potersi esercitare, dell'intervento statale, e di fondi pubblici "a perdere". Ma quei fondi non servono più a dirigere l'apparato economico verso obiettivi specifici e in qualche modo condivisi (in fin dei conti siamo in democrazia). Servono solo per tenere in piedi le imprese e le loro libertà. I casi recenti della svendita della Grecia, o quello del TAV Torino-Lione, o l'accordo interconfederale siglato anche dalla Cgil che trasforma i sindacati in strutture aziendali - solo per ricordare le notizie più recenti - pur nella loro estrema eterogeneità, sono lì a dimostrarlo.

L'alternativa non è dunque tra statalismo (o dirigismo) e liberismo, tra più Stato o più mercato; è tra il connubio inestricabile di liberismo e statalismo che contraddistingue il processo di globalizzazione in corso e politica dei beni comuni: una politica mirata a sottrarre la gestione di una serie di beni, di servizi e di attività tanto alle regole del mercato, che sono quelle della finanza internazionale che governa ormai anche gli Stati, quanto alla gestione degli Stati, che di quel governo, esterno e contrapposto a qualsiasi forma di controllo democratico, sono ormai solo le cinghie di trasmissione.

Se c'è un tema unificante tra le diverse forme di conflittualità che animano la scena sociale in questo inizio di secolo (e di millennio), dalla Grecia alla Spagna, dal Medio oriente all'Islanda, ma anche, tornando a noi, dalla crescita dei GAS alla campagna referendaria per l'acqua, dalla resistenza operaia alla Fiat al movimento degli studenti o al ritorno in piazza delle donne, dalla Valle di Susa al riscatto di Napoli dalle montagne di rifiuti sotto cui la hanno seppellita sedici anni di gestione commissariale, quel tema è la lotta, in nome di una gestione condivisa e partecipata, senza deleghe, contro l'appropriazione pubblica o privata di una gamma più o meno ampia e più o meno definita di beni, di servizi e di attività. Lo ha spiegato molto bene Piero Bevilacqua sul manifesto del 3 luglio scorso. E' cioè la politica dei beni comuni.

Beni comuni e non Bene comune. E' una distinzione importante: la dizione beni comuni fa riferimento a forme di gestione diverse tanto dall'appropriazione privata che dalla proprietà pubblica. Cioè a forme di gestione partecipata, le cui modalità si stanno delineando - e non potrebbero farlo in nessun altro modo - nel corso di mobilitazioni, di lotte, ma anche di iniziative molecolari e di incontri di studio, indipendentemente non solo dalle divergenze lessicali, ma anche da quelle ideologiche e dottrinarie, che sono per molti versi altrettanto irrilevanti; o quasi. Bene comune (con la maiuscola) fa invece riferimento a una coincidenza di interessi che, se può essere ipotizzata in via teorica nei confronti della sopravvivenza della vita umana su questo pianeta (a cui tutti, chi più e chi meno - o anche molto meno - prestiamo un'attenzione insufficiente), non esiste - e può essere ricercata, ma non necessariamente trovata - negli ambiti in cui si sviluppa il conflitto. Che è il motore di ogni possibile riconversione: dalla Valle di Susa alla gestione di ogni altro territorio; dalle politiche energetiche all'agricoltura e all'alimentazione; dal rifiuto della guerra alla difesa della dignità di chi lavora (e di chi è senza lavoro); dall'accoglienza degli immigrati alla valorizzazione dei saperi; e così via.

Nel mondo di oggi un bene è comune non per natura, ma se, e solo se, è sottoposto a modalità di gestione che lo sottraggono a qualsiasi forma di appropriazione: tanto da parte di un'impresa (privata o pubblica), la cui logica è comunque il profitto, l'accumulazione del capitale, la crescita fine a se stessa; quanto da parte di una struttura pubblica, se questa esclude qualsiasi forma di condivisione della gestione - o per lo meno di controllo, a partire dalle regole elementari della trasparenza - o di coinvolgimento dei diversi destinatari dei suoi benefici (quello che economia e diritto chiamano "utilità") e dei suoi costi (sociali, sanitari, ambientali: quelli che l'economia chiama "esternalità").

Per questo i "beni comuni" non saranno mai del tutto tali; saranno sempre attraversati da una frontiera mobile che si sposta in avanti o all'indietro a seconda del grado di controllo che i territori e le comunità di riferimento riusciranno a esercitare su di essi. La politica dei beni comuni è, e resterà a lungo, un work in progress. Ciò apre il terreno a un dibattito pubblico sul come dare attuazione ai risultati del referendum contro la privatizzazione dell'acqua; risultati che i signori delle utilities stanno già cercando di mettere in discussione. Ma anche a un dibattito sulle forme - che sono differenti - di controllo dal basso e di condivisione della gestione di tutti gli altri servizi pubblici locali che, in linea di principio, l'esito del referendum ha reso possibile sottrarre a una gestione privata o finalizzata al profitto. La stessa cosa vale per molti beni immateriali: dalla conoscenza all'arte, dall'educazione (permanente) all'informazione. Forse sono cose come queste quelle che Marx intendeva come controllo del genere umano sulle condizioni della propria riproduzione; quelle che per più di cent'anni il movimento operaio, socialista e comunista, ha interpretato invece, e cercato di realizzare, come gestione statuale dei processi produttivi.

(guidoviale@blogspot.com)

ARTICOLI CORRELATI
12 Luglio 2019

© 2024 Eddyburg