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Perché gli emendamenti alla legge

La nota dell’arch. Giglio, inviata a me per conoscenza, merita alcuni puntuali chiarimenti. Cominciamo dalla domanda iniziale “Perché un ‘nuovo’ piano casa in Puglia?”. Orbene, non si tratta di un nuovo piano casa ma di alcune precisazioni e modifiche (in totale 5 articoli), richieste a gran voce e da tempo, da forze politiche, amministrazioni e uffici comunali, professionisti, operatori economici e loro rappresentanze. La principale ragione risiede evidentemente nella delusione delle enormi aspettative suscitate dal grande spot lanciato due anni or sono da Berlusconi e dal flop che ne è seguito non solo in Puglia ma in gran parte dell’Italia, contrariamente a quanto affermato dagli operatori del settore edilizio e dalla gran parte della stampa locale. Merita ricordare che si trattò di un intervento di vero e proprio sciacallaggio politico, in un momento pre-elettorale e di drammatica crisi economica. Comprendo l’allarme di Giglio, perché l’idea alla base dell’accordo Stato-Regioni dell’aprile 2009 aveva destato apprensione in tutte le persone di buon senso e che hanno a cuore le sorti del paesaggio italiano. Nessuna corsa all’ampliamento e alla demolizione, tuttavia, si è registrato in Puglia e questo, ci deve dare atto, proprio perché abbiamo fatto prevalere la coerenza della visione che è alla base del programma di governo, orientata alla tutela del territorio, del paesaggio e dell’ambiente (e anche, nel caso di specie, dei diritti dei terzi) al canto delle sirene di chi pretende di affrontare la crisi del settore delle costruzioni con interventi derogatori che altro non fanno che aggrovigliare ulteriormente la giungla normativa.

Nessuna sconfessione dell’originaria impostazione

Passiamo quindi al titolo della nota: “Le molte criticità di un provvedimento che smentisce la precedente impostazione”. Le recenti proposte di modifica, se lette con attenzione, non smentiscono affatto l’impostazione originaria, finalizzata a cogliere l’opportunità dell’accordo per offrire sostegno al settore edilizio mediante interventi tesi a migliorare le condizioni di sicurezza e accessibilità del patrimonio esistente e la qualità architettonica, ambientale e paesaggistica delle città e del territorio. Non fu facile indurre il Consiglio Regionale ad approvare all’unanimità una simile impostazione, evitando così la strumentalizzazione politica che sarebbe sicuramente seguita all’inevitabile delusione della promessa di milioni di metri cubi e migliaia di posti di lavoro alla base della campagna pubblicitaria berlusconiana che accompagnò il lancio del cd piano casa. Tale impostazione è stata peraltro riconosciuta da una specifica indagine di Legambiente, che ha individuato la Puglia fra le pochissime regioni, assieme alla Toscana e alla provincia autonoma di Bolzano, che hanno applicato il Piano casa rispettando ambiente e sviluppo sostenibile.

Ora, mi preme dimostrare che le modifiche confermano e per alcuni versi rafforzano questa impostazione rigorosa e coerente con le politiche regionali della passata legislatura e di quella in corso.

Gli interventi previsti, infatti, continuano a riguardare esclusivamente la destinazione residenziale, escludendo qualsiasi destinazione produttiva o turistica e specificando cosa debba intendersi per residenza ai sensi del DIM 1444/1968, in considerazione delle incertezze emerse nella fase di applicazione delle norme e manifestate dai Comuni e dai tecnici in più occasioni. Peraltro, non solo non “salta anche la norma che impediva i cambi di destinazione d’uso”, come riportato nel commento di Giglio, ma il comma che specificava che “con la realizzazione degli interventi previsti non è ammesso il cambio di destinazione d’uso” è sostituito da una più chiara dicitura, secondo la quale gli interventi realizzati a norma della legge in questione non possono essere destinati ad usi diversi da quelli consentiti dallo strumento urbanistico generale vigente.

Inoltre, l’elevazione del limite dei 1000 mc a 1500 mc per gli immobili soggetti ad ampliamento non si accompagna al mutamento del limite di ampliamento consentito, che rimane pari a 200 mc, e dunque decresce in termini percentuali rispetto al 20% massimo della norma originaria, al variare della volumetria del fabbricato. 300 mc possono raggiungersi solo qualora l’intero fabbricato non solo sia adeguato alle norme antisismiche e reso efficiente dal punto di vista energetico, ma raggiunga il punteggio 2 di sostenibilità edilizia (a fronte del livello zero che corrisponde all’adeguamento alle vigenti normative) opportunamente certificato in base al sistema di valutazione approvato dalla Regione in attuazione della LR 13/2008 “Norme per l’abitare sostenibile”. A tale proposito, non si comprende perché Giglio consideri un paradosso che un intervento assentito con DIA debba raggiungere un punteggio 2 per ottenere la certificazione di sostenibilità ambientale ai sensi della LR 13/2008. A questo proposito, è forse utile un’informazione: nell’applicazione della legge pugliese, che consente che gli interventi siano subordinati sia a permessi di costruire che a DIA, i primi prevalgono sulle seconde. A Bari, ad esempio, città caratterizzata da una notevolissima diffusione di case uni-bifamiliari nelle frazioni costiere, su un totale di 1430 DIA presentate solo 8 hanno riguardato il cd piano casa mentre sono 10 le domande di permesso di costruire su un totale di 383.

Non è neppure corretto sostenere che gli edifici non debbano essere già accatastati, appunto perché dovranno esserlo, e ovviamente in data antecedente alla presentazione dell’istanza, mentre gli edifici dovranno essere stati ultimati alla data di entrata in vigore della legge, ossia nel settembre 2009 (data di pubblicazione della legge rettificata). Ancora, nel disegno di legge non è rintracciabile alcun mutamento di indirizzo in merito alla sanatoria edilizia straordinaria e, per quanto riguarda la valutazione antisismica, ferme restando le norme precedenti che richiedono la verifica strutturale dell’intero fabbricato, ci si limita a specificare che la valutazione della struttura può limitarsi all’intervento solo allorquando l’ampliamento si presenti, ancorché contiguo, dal punto di vista statico e strutturale indipendente dall’edificio esistente.

Fortunatamente Giglio rileva che non è stato modificato l’art. 6 che prevede l’esclusione di numerose parti di territorio: non solo centri storici o assimilabili, beni culturali e paesaggistici, aree protette e ambiti ad alta pericolosità idrogeologica, ma anche le aree per le quali gli strumenti urbanistici vigenti non consentano la ristrutturazione edilizia o la subordinino a un piano esecutivo. Merita anche evidenziare che restano ferme altre garanzie quali il rispetto delle altezze massime e delle distanze minime previste dagli strumenti urbanistici e, in mancanza, delle altezze massime e distanze minime previste dal DIM 1444/1968, nonché il rispetto delle norme sui parcheggi e sulla dotazione di standard pubblici. E assicuro che su questi punti la pressione per introdurre modifiche alla legge è stata davvero molto forte sia prima che dopo l’entrata in vigore.

Infine, mi risulta difficile comprendere l’ultima parte della nota, che lascia intendere qualche preoccupazione per gli effetti dell’articolo 9, riguardante la delocalizzazione di immobili legittimamente esistenti ubicati in aree vincolate e contrastanti, per dimensione e tipologia, con il contesto paesaggistico, urbanistico e architettonico circostante. La norma è stata ispirata dalla necessità di migliorare la qualità di ambienti compromessi da decenni di cementificazione selvaggia, abusiva e legale. Essa prevede premi volumetrici per interventi finalizzati alla delocalizzazione di opere incongrue da aree di pregio o a rischio, previa approvazione di uno strumento urbanistico esecutivo e demolizione con ripristino delle aree di sedime, in aree omogenee degli strumenti generali. Il punto critico, piuttosto, sembra essere quello della scarsa convenienza economica alla delocalizzazione di opere legittimamente esistenti.

Perché una nota a eddyburg

piuttosto che la partecipazione nelle sedi istituzionali?

Ora sono io a porre una domanda all’arch. Giglio. Perché ha ritenuto di trasmettere una nota a eddyburg (inviata a me per conoscenza) e non ha partecipato in qualità di esponente di Italia Nostra, associazione della quale credo sia ancora rappresentante, alla riunione dedicata dalla commissione consigliare alle modifiche normative in questione, alla quale erano state invitate anche tutte le principali associazioni ambientaliste attive in Puglia?

Per la verità a quella riunione erano assenti non solo Italia Nostra ma tutte le associazioni ambientaliste e tutti gli ordini degli architetti. Erano invece presenti, oltre che i rappresentanti di Anci e Upi, i portatori di interessi diretti quali gli ordini degli ingegneri e i collegi dei geometri di varie province, l’ance, cna e confartigianato, confedilizia e associazione piccoli proprietari. E’ ovvio che, con un simile sbilanciamento di rappresentanze, le richieste di emendamento sono state esclusivamente orientate, secondo un leitmotiv che risuona dall’epoca della stesura del primo disegno di legge, all’estensione temporale, dimensionale e funzionale dei margini del cd piano casa e all’allentamento dei vincoli previsti.

Nel silenzio assordante di tutti gli altri, l’idea, già diffusa, che rischia di consolidarsi, è che la legge in vigore in Puglia rispecchi solo le convinzioni di un’assessora e di una giunta che, in nome della difesa dell’ambiente, del paesaggio e delle città storiche, la vogliono tenacemente mantenere restrittiva, in barba alla crisi economica, alle esigenze delle famiglie pugliesi e a differenza di quanto previsto dalla gran parte delle Regioni Italiane. Beninteso, quest’idea non mi dispiace affatto, anzi, e quelle convinzioni corrispondono esattamente alle mie. Il timore è che dal canto delle sirene di Berlusconi, amplificato dai partecipanti alla concertazione istituzionale, tutti portatori di interessi diretti, restino incantati i consiglieri regionali, mentre il controcanto dei portatori di interessi diffusi di natura ambientale tacciono o non fanno sentire la propria voce nelle sedi nelle quali si formano le decisioni.



Quali caratteri dovranno avere le città del XXI secolo per competere ai livelli più avanzati, in termini di innovazione e creatività, di coesione sociale e di sostenibilità ambientale? Limitando l’attenzione alla sostenibilità, ecco alcuni indicatori della European Commission per le Green Cities: mobilità eco-compatibile, aumento delle aree verdi, riduzione del consumo del suolo e dell’acqua, raccolta differenziata dei rifiuti, uso prevalente di energia pulita, coinvolgimento della popolazione nella diffusione di buone pratiche.

Sono sempre più numerose le città europee che rispondono a questi indicatori, ma nessuna è italiana. Mi limito a segnalarne solo alcune. Vitoria-Gasteiz, capoluogo della regione basca, città verde del 2012, dove circa il 75 per cento dell’edilizia popolare è già dotata di pannelli solari, il rapporto tra aree verdi e popolazione è di quasi 50 metri quadrati per cittadino, la popolazione residente (circa 250 mila abitanti) dispone di almeno un giardino a neppure 300 metri dall’abitazione, i mezzi di trasporto sono pubblici e collettivi, le piste ciclabili sono già decine di chilometri con l’obiettivo preposto di costruirne centinaia in tempi brevi.

La città spagnola succede a Stoccolma e ad Amburgo, rispettivamente capitali verdi nel 2010 e nel 2011, mentre Nantes è stata designata capitale europea verde del 2013. Tra le città finaliste troviamo Barcellona, Copenaghen, Oslo e tante altre, tra cui la città tedesca Freiburg, grazie soprattutto alla realizzazione dell’ormai noto quartiere Vauban, diventato uno studio di caso sia per le trasformazioni urbane eco-compatibili sia per i processi di partecipazione che si sono innescati in questi ultimi 15 anni e sia, soprattutto, per la capacità di mettere in pratica forme di mix sociale. Va sottolineato che queste buone pratiche producono ricchezza in termini di occupazione (sono necessarie professionalità tecniche e di governance), di attrazione (in queste città è cresciuto il flusso dei visitatori e degli abitanti), di profitto: è stato un modo per uscire dalla crisi edilizia perché le imprese si sono, anch’esse, riconvertite nella riqualificazione e nell’uso di materiali eco-compatibili.

Che cosa accomuna questi esempi? In termini generali il fatto che le città si stanno organizzando all’insegna: dei principi eco-sostenibili; della valorizzazione del tessuto comunitario e del mix sociale; della mobilità pedonale, delle piste ciclabili e dei mezzi pubblici e privati collettivi, anziché di quella automobilistica privata se non per le auto ecologiche; del fatto che gli edifici vengono costruiti solo dopo aver predisposto le infrastrutture necessarie e i sistemi di collegamento; delle domande sociali, garantendo alla popolazione una buona qualità della vita urbana, a partire dai «percorsi brevi» per la vita quotidiana. In termini specifici, il fatto che si costruiscono nuovi edifici esclusivamente per rispondere a precise domande abitative. Il che significa anche che prima di tutto si riqualifica il patrimonio preesistente. Ogni nuova realizzazione deve essere, inoltre funzionale alle specifiche esigenze sociali. Non consumare suolo (in particolare quello a vocazione agricola) e riutilizzare invece quello già compromesso è, comunque, l’obiettivo prioritario.

L’Italia è ben lontana da questi standard, anche se, soprattutto in alcune regioni del Nord, escludendo città come Milano, ci sono degli esperimenti interessanti che vanno nelle direzioni sopra richiamate.

E in Sardegna che succede? Un po’ ovunque si sta abbattendo il Piano casa regionale, probabilmente uno dei peggiori d’Italia, e che sta contribuendo a snaturare il volto (o, se si vuole, l’identità) dei centri urbani. Si pensi a Sassari e al fatto che in questi mesi si sta compiendo quel lungo (e a quanto pare inesorabile) processo di abbattimento che ha attraversato freneticamente la città almeno dalla fine degli anni ’50 fino agli anni ’80, e che ha determinato prima la scomparsa di gran parte del patrimonio edilizio dell’Ottocento e del primo Novecento (ad esempio le ville liberty), ora sta portando alla distruzione del tessuto urbano della seconda metà del Novecento. Si tratta di un autentico dissesto del quale le amministrazioni pubbliche appaiono disinteressate o, quanto meno, non in grado di limitare i danni.

Eppure in Sardegna c’è un pezzo di quell’Europa rappresentata dalle città verdi sopra citate. Mi riferisco agli esperimenti di bioedilizia che si stanno realizzando a Carbonia nel quartiere Bacu Abis. Villaggio dei minatori che estraevano il carbone necessario per rispondere alla crisi energetica nazionale degli anni ’30, le cui case razionaliste sono altamente insicure perché sottoposte ai continui cedimenti dovuti all’instabilità del sottosuolo. Il distretto AREA (ex IACP) di Carbonia ha avviato un’opera di ricostruzione delle case più lesionate con criteri antisismici, utilizzando materiali leggeri come il legno, applicando molti di quei principi che hanno reso alcune città europee esempi di eccellenza, coinvolgendo imprese che hanno dimostrato capacità di innovazione tecnica. Ad esempio, queste nuove abitazioni che verranno realizzati in neppure 100 giorni, avranno il fotovoltaico come fonte energetica primaria, una manutenzione meno onerosa, interni adattabili alle esigenze sociali.

È chiaro che un singolo caso non fa primavera, ma vale la pena evidenziare alcuni fattori che confermano l’idea che la Sardegna può competere con il resto d’Europa.

In termini sociali, si inverte la tendenza diffusa che chi ha meno capacità economiche vive in case povere e brutte, poste in luoghi segregati. Così non è nel caso di Bacu Abis. In termini urbanistici, queste case sono rispettose dei caratteri del quartiere e, più in generale, della città di Carbonia. D’altronde, ciò si realizza in linea con gli indirizzi dell’amministrazione locale che in questi ultimi anni è stata particolarmente attenta a rispettare l’identità del luogo. A ciò va aggiunto che tale rispetto ha fatto sì che non ci fosse un aumento di volumetria e neppure di consumo di suolo, in linea con gli indirizzi dell’Unione europea, eppure vi sarà un incremento degli spazi interni grazie alle avanzate tecniche e ai materiali utilizzati. In termini economici, queste abitazioni di qualità, sono meno costose ed anzi sono produttrici di energia pulita che, in parte, sarà messa a disposizione degli abitanti, in parte verrà immessa sul mercato. In termini di partecipazione, perché il processo di ideazione, progettazione e costruzione è avvenuto all’insegna del pieno coinvolgimento della popolazione interessata. Ciò è stato possibile perché i dirigenti di Area hanno scelto di rendere trasparente l’iter progettuale e decisionale.

I ragazzini dell’Isola bergamasca che si sparano in cuffia l’ultimo album degli Arcade Fire, The Suburbs, sognano lontane frontiere, e non sanno di starci già immersi fino al collo in quelle strofe, fra centri commerciali “come catene di montagne”. La parola sprawl nella pianura padana è stata recentemente declinata nell’ambiguo slogan della “città infinita”, carica di impatto ambientale, e in definitiva di tara per lo sviluppo, oltre la qualità della vita. Mentre per fare alcune cifre, in Lombardia, solo dal 1999 al 2005 sono spariti sotto cemento e asfalto 22.000 ettari: come aver costruito dal nulla una città più grande di Milano. In Emilia le cose vanno quasi peggio, e altre regioni seguono a ruota.

Il gruppo di Mauro Baioni e Massimo Bernardelli ha portato a termine il piano a “crescita zero”, manifesto di sostenibilità locale per un piccolo comune dell’Isola bergamasca, Solza (2000 ab. su 1,23 kmq), dove il consumo di suolo ha già raggiunto la soglia critica del 50% del territorio comunale. Baioni dirige la Scuola Estiva di Pianificazione di Eddyburg, che ha affrontato il tema dello sviluppo sostenibile applicato all’organizzazione del territorio, e il piano per Solza si inserisce nel solco di un dibattito consolidato, per quanto non ancora mainstream.

Le decisioni hanno un percorso trasparente: confronto con la popolazione, inquadramento in una prospettiva di area vasta, a promuovere cooperazione con gli altri comuni, e riassumendo il resto in pochissime parole, preminenza di qualità e risorse: l’una da aumentare in servizi, abitabilità, occasioni, le seconde da conservare e valorizzare.

Questo si traduce in ricerca di integrazione dei tessuti urbani e aperti nell’intero territorio comunale (sacche monofunzionali, sistema di mobilità auto-centrico, crescita puntuale e a cul-de-sac dell’urbanizzazione), a partire dai rapporti col centro storico, con le polarità dei servizi. Un ruolo particolare, nella nebulosa regionale dei capannoni sparsi, assume la domanda: ma servono davvero allo sviluppo locale? E la risposta di solito è NO. Servono, a volte, solo ai comuni, a far cassa, e sempre a spese della risorsa territorio, preziosa e insostituibile. Il PgT di Solza è stato adottato con delibera del 29 giugno 2010.

I cosiddetti “piani a crescita zero” nascono dalla domanda lecita: a cosa serve l’urbanizzazione dei terreni aperti? A cui spesso viene data la sbrigativa risposta: allo sviluppo economico locale. Risposta che molti, sempre più, ritengono quantomeno parziale e incompleta.

Le prime esperienze si possono far risalire agli anni ’90 con l’obiettivo dello zero consumo di suolo per il piano di Napoli coordinato da Vezio De Lucia (approvato nel 2004), o quello di Lastra a Signa senza aree di espansione (2004). Molto noto quello per Cassinetta di Lugagnano, nell’area metropolitana di Milano (approvato nel 2007, 1500 abitanti, circa 200 abitazioni aggiuntive, tutte in recupero/ristrutturazione) dalla cui esperienza nasce poi la Associazione Stop al Consumo di Territorio. Fra gli altri comuni che hanno iniziato percorsi “virtuosi” di questo tipo spicca per importanza quello di Firenze. Situazioni assai diverse, dove però si cerca una risposta pratica, non ideologica e di lungo periodo al tema della sostenibilità, utilizzando il territorio come nodo per affrontare altri temi, quello energetico, o ambientale in senso lato, o di rapporto fra sviluppo e qualità della vita.

Unica pecca, se così si può definire, di questa piccola “famiglia” di piani, è la pessima pubblicità che li riguarda: utopie ambientaliste, progetti velleitari destinati a tramontare insieme ai loro sponsor politico-culturali, ostacoli alle attività di trasformazione indispensabili alla nostra civiltà … solo per riassumere le critiche più frequenti. In realtà, il solo fatto di essersi tradotti in strumenti approvati di governo del territorio ne dimostra la validità.

http://www.comune.solza.bg.it/

Lo scritto che segue è stato redatto dagli autori riprendendo il materiale di una intervista radiofonica svolta sui RAI3 per la trasmissione “Chiodo Fisso”. Le immagini che lo corredano, visibili nel file scaricabile in calce, si riferiscono alla esperienza svolta dalla città di Settimo Milanese, dove i concetti qui espressi sono stati sviluppati e sperimentati.

Una delle ‘cifre’ più significative che misurano il livello di civiltà raggiunto nel funzionamento di una città è dato dalla diffusione dell’uso della bicicletta.

Stiamo parlando di utenza effettiva della bicicletta e non di infrastrutture per la bicicletta: i metri di piste ciclabili realizzate sono, da questo punto di vista, poco significativi, perché l’uso della bicicletta ha piuttosto bisogno di un contesto generale che lo consenta, lo favorisca e lo induca. E siccome la bicicletta è un “mezzo gentile”, questo contesto non può che essere quello di una “città gentile”.

Bisogna quindi interrogarsi su cosa renda una città “gentile”.

La città gentile lo è anzitutto nei comportamenti, a partire da quelli dei suoi utenti più fragorosi, più rumorosi, più invasivi, che sono gli automobilisti. Una città dominata dai comportamenti aggressivi, dalla velocità, dai sorpassi, dal non rispetto delle regole, dalle doppie file, dalla prepotenza, non potrà mai essere una città ciclabile, per quanti chilometri di piste ciclabili si costruiscano.

Occorre quindi operare per ridurre e trasformare lo spazio dedicato alle automobili, con una attenta rigerarchizzazione delle strade, con il severo ridimensionamento degli spazi di circolazione e con l’inserimento di elementi diffusi di controllo dei comportamenti degli automobilisti.

La città gentile poi deve esserlo nella sua organizzazione urbanistica, che deve essere non segregata e segregante, con servizi ed opportunità distribuiti e vicini alle residenze, senza i gigantismi dei grandi centri commerciali che concentrano molte funzioni in pochi luoghi lontani e costringono a spostamenti troppo lunghi e necessariamente motorizzati.

Una corretta pianificazione urbanistica deve dunque in primo luogo garantire alla maggior parte dei propri cittadini la prossimità ai servizi di cui hanno bisogno: le scuole, il verde, i negozi per gli acquisti quotidiani.

La città è inoltre gentile nella qualità e nell’organizzazione dello spazio pubblico.

Ciò in primo luogo significa che quest’ultimo deve cessare di essere disegnato attorno all’automobile o deformato da quest’ultima, con spazi ovunque e comunque consegnati alla circolazione ed alla sosta dei veicoli e sottratti alle altre funzioni, con marciapiedi inesistenti e sensi unici che impongono lunghe deviazioni anche agli ‘incolpevoli’ ciclisti.

Significa poi omogeneità nelle modalità progettuali, qualità dei materiali, attenzione nella manutenzione e, soprattutto, presenza diffusa del verde urbano.

E’ un obiettivo al quale devono poter concorrere tutti gli interventi, dai più piccoli ai più importanti, che vanno ad incidere sullo spazio pubblico, siano essi maturati nell’ambito di uno strumento di settore (come il PGTU) che in quelli della pianificazione e progettazione urbanistica.

La città deve essere gentile nelle opportunità di mobilità, deve cioè garantire a tutti ed in tutte le condizioni in cui si trovano la possibilità di muoversi.

Noi viviamo in città nelle quali ci si può muovere solo in automobile perché il nostro sistema del trasporto pubblico è, come ben noto, gravemente insufficiente ed inefficiente, soprattutto nelle città di piccole e medie dimensioni.

Invece il trasporto pubblico è un elemento essenziale per la diffusione della ciclabilità, dato che l’integrazione tra i due modi consente ad entrambi di ampliare fortemente il rispettivo ambito di utilizzazione.

Infine la città è gentile nella coscienza dei propri cittadini, nel senso che andare in bicicletta è anche il portato di una consapevolezza diversa e più profonda della vita propria, di quella degli altri e delle condizioni che ne permettono oggi e nel futuro una dignitosa continuazione.

Sono ad esempio preziose in questo senso le iniziative come quelle della costruzione della città dei bambini e delle bambine, dallo sviluppo dei processi partecipativi, dal rapporto tra pubblica amministrazione e cittadini.

Prima di concludere il breve ragionamento che si è cercato qui di sviluppare, pare necessario rispondere alle perplessità che possono derivare dall’aver parlato di ciclabilità senza dedicare nemmeno un accenno alle tecniche che la riguardano.

E’ chiaro che occorre disporre di un buon hardware per la ciclabilità, cioè una rete caratterizzata da continuità e connettività degli itinerari, completezza delle polarità servite, adeguatezza degli standard geometrici, sicurezza e comfort; caratteristiche anch’esse poco diffuse –come la gentilezza- negli esempi italiani; è chiaro che bisogna rendere maggiormente visibile il linguaggio proprio della bicicletta in città (si pensi semplicemente alla segnaletica); è chiaro che bisogna investire costantemente in promozione ed educazione all’uso della bici; è però altrettanto chiaro che tutto questo, calato in una realtà poco ‘gentile’ sarebbe destinato a raccogliere risultati ben modesti.

Speculazioni edilizie smodate, abusi, inquinamenti, torri eoliche a go go, opere pubbliche inutili, sono esito di condiscendenze e connivenze oltre che di processi decisionali corrotti. A bruttezza dei luoghi corrispondono non solo sciatteria e assuefazione ma dosi variabili di illegalità. Gli affari in danno del bene comune crescono, pure nel consenso. E chi dissente prova la stessa sensazione di Steve e Jane nel film "Blob" che avvisavano i concittadini del fluido gelatinoso tracimante e nessuno li ascoltava.

Roba da allarme rosso, nonostante la sottovalutazione della politica. Eluso da affermazioni vaghe e accomodanti, il buon governo del territorio è un genere rubricato tra le fisime di estremisti. Prevale l'idea che basti delegare un manipolo di ambientalisti: contano poco e danno un tocco verde alle assemblee. Mentre la tv ci rassicura: celebra la bell'Italia che resiste, le mete che valgono un viaggio, le bandiere al mare più blu. Di malaurbanistica si parla poco. Solo quando la terra scivola sotto le case o si scopre l'ecomostro utilissimo a offuscare le aggressioni ordinarie al paesaggio. La politica, il governo: chi si impegna contro le aberrazioni urbanistiche la paga. Due casi meritano attenzione. Renato Soru in Sardegna: il suo partito, il Pd, in parte avverso ai suoi atti per la difesa del paesaggio, lo ha contrastato (con il preambolo «coniugare ambiente e sviluppo») e lo ha portato alle dimissioni anzitempo. La Toscana, mito della buona amministrazione, è in una fase che ricorda l'esperienza sarda: nel recente passato troppi atti urbanistici controversi, alcuni sotto inchiesta, e qualche sconcertante programma. Anna Marson, nuovo assessore regionale decisa a contrastare l'assalto al paesaggio, è già accusata di eccessiva intransigenza («Pd contro Marson», su l'Unità del 15 agosto). Come se non meritasse rigore il paesaggio della Toscana, risorsa pubblica di lunga durata, motore della sua ricchezza.

La rincorsa è per prendersi i luoghi più preziosi. Ai bordi di un insediamento storico, in prossimità delle coste, nelle vigne con vista sono molto alte le suggestioni e il valore dell'investimento è dato dal sacrificio di quote di paesaggio - bene comune sull'altare del ciclo edilizio. Deborda l'insofferenza di chi rivendica libertà per questo sviluppo che premia pochi. E quando si almanacca con gli argomenti della prevaricazione delle autonomie locali è segno che spinte localistiche non stanno nel quadro delle regole translocali. Marson presidia quelle regole. Le parole di dirigenti del Pd in Toscana la indeboliscono, additando come dispotiche le sue iniziative. «Le regole dell'assessore fanno un po' Urss», fa lo spiritoso il presidente della Provincia di Firenze. Che ne pensano a Roma? Si affronterà il caso o mettiamo in conto un epilogo come quello sardo? È troppo aspettarsi una politica - di sinistra - che si impiccia, che non contraddice la sua tradizione nelle faccende locali fino ad annullarsi? Si può smetterla con la formula liofilizzata «coniugare e ambiente e sviluppo» che ciascuno adatta agli affari suoi?

FIRENZE. Sui porti turistici e più in generale sull’urbanistica la tensione si impenna all’interno della maggioranza regionale. La presa di posizione di Matteo Tortolini, responsabile Ambiente e infrastrutture della segreteria regionale del Pd, che nella sua intervista di ieri al Tirreno ha duramente criticato le posizioni dell’assessora Anna Marson, e la reazione del sindaco di Piombino Gianni Anselmi non potevano certo passare inosservate. «A memoria d’uomo - commenta un politico toscano che preferisce non essere citato - non si ricorda che in Regione ci sia mai stato un attacco così pesante e diretto da parte del più forte partito della coalizione a un assessore della propria maggioranza». A pochi mesi dal varo della giunta Rossi, in effetti, nessuno poteva aspettarsi uno scontro così repentino tra l’esecutivo e il vertice del Pd regionale, tanto che, nell’imbarazzo generale, più di un consigliere preferisce defilarsi ed evitare commenti. Un commento, piuttosto gelido, arriva invece dal presidente Enrico Rossi. «Dopo la pausa estiva - dice il governatore - discuteremo nel merito delle questioni e sono certo che ci comprenderemo e troveremo un’intesa. Nel frattempo, mi limito a dire che il sindaco Anselmi e alcuni altri suoi colleghi hanno ragione a chiedere rispetto; allo stesso tempo, loro mi capiranno se dico che analogo rispetto merita ed è dovuto all’assessore Anna Marson». Pur non entrando nel merito, insomma, il presidente Rossi sembra far capire ancora una volta di condividere l’operato dell’assessora all’Urbanistica, anche se si preoccupa di smorzare una polemica che rischia di mandare in cortocircuito lo stesso Pd. Del resto, poche settimane fa, un’altra intervista della Marson rilasciata al Tirreno aveva provocato la dura reazione di alcuni sindaci della costa e Rossi sembra preoccupato di questa escalation.

In difesa del proprio assessore si schiera l’Italia dei Valori che definisce, quelli di Anselmi e Tortolini, «attacchi inutili e dannosi». Per il vicecapogruppo dell’Idv Marco Manneschi, «nel programma del presidente Rossi c’è un esplicito riferimento alla difesa dell’ambiente e ad una urbanistica sostenibile. E ciò comprende, ovviamente, ogni azione che la Regione deve sviluppare per mantenere inalterati, e se possibile incrementare, i vantaggi territoriali che un paesaggio unico al mondo hanno conferito alla Toscana. Sono vantaggi che verrebbero irreversibilmente compromessi se prevalesse la logica della cementificazione». Per Manneschi, «quello che l’assessore propone non è un modello sovietico ma un metodo trasparente e partecipato; un metodo che, come si è visto nella vicenda del Parco della Piana, trova i sindaci e le comunità tutt’altro che contrari. In tal senso, non possono essere condivisi, ne’nel merito ne’nel metodo, i continui attacchi di cui è oggetto l’assessore Marson e che si risolvono in attacchi all’azione di tutta la giunta regionale».

Sull’urbanistica si apre la prima crepa tra Pd e governo regionale. Già la prima intervista al Tirreno dell’assessore Marson, che aveva annunciato di voler rivedere il Piano di indirizzo territoriale e modificare la filosofia di gestione del territorio, aveva fatto registrare dei malumori.

Adesso, la nuova intervista rilasciata al Tirreno dall’assessore all’urbanistica crea un vero e proprio caso politico all’interno della maggioranza e dello stesso Pd. Anna Marson, che è stata indicata dall’Italia dei Valori ma la cui linea è condivisa con convinzione da Enrico Rossi, ha infatti espresso la volontà di rivedere anche il Masterplan dei porti con l’intenzione di ridurne l’impatto ambientale, ossia le volumetrie di cemento destinate a servizi e residenziale. L’idea della Marson, infatti, è di aumentare i posti barca attraverso la creazione di porti «leggeri», riservando l’offerta di ormeggio soprattutto a una clientela medio-bassa, ossia a imbarcazioni fino a sei/sette metri.

Di fronte alle parole della Marson, il malumore del sindaco di Piombino Gianni Anselmi, a cui si accompagnano i distinguo del suo collega viareggino (del Pdl) Luca Lunardini, è rilevante, ma ad aprire un caso politico sono le parole del responsabile ambiente e infrastrutture del Pd toscano Matteo Tortolini (vedi intervista a parte) che boccia su tutta la linea l’impostazione dell’assessore regionale, sottolineando che la politica non può decidere la lunghezza delle barche.

Anche la reazione di Gianni Anselmi è molto dura, anche nei toni, e se non ci sarà una ricucitura c’è da pensare che non mancheranno le scintille all’incontro in programma a Piombino a fine settembre sulla programmazione del territorio a cui è stata invitata Anna Marson. «La partecipazione - va giù duro Anselmi - non può consistere nella lettura dei giornali, ma nel dialogo e nella discussione. Cambiare impostazione è legittimo, ma bisogna capire se vogliamo utilizzare un metodo autoritativo o uno partecipativo, se vogliamo emettere editti o coinvolgere anche i Comuni e le Province. Io spero che la partecipazione non significhi escludere i sindaci dal dibattito sulla gestione del territorio». Sul metodo Rossi-Marson è più conciliante Luca Lunardini (Pdl), sindaco di Viareggio, dove è in programma un significativo allargamento del porto turistico. «Per certi aspetti - dice - il decisionismo di Rossi è apprezzabile, ma a patto che non si vogliano prevaricare le realtà locali, perché questo non sarebbe accettabile». Sul merito, Lunardini e Anselmi concordano: «Sono i Comuni - dice Lunardini - che conoscono il territorio e un controllo eccessivo da parte della Regione rischierebbe di ingessare la necessaria autonomia delle amministrazioni». Anselmi, che se la prende con il «francescanesimo nautico» della Marson, ha un sospetto: «Spero che vengano fatti salvi i percorsi pregressi, come il nostro progetto. Mi inquieterei se non fosse così».

«Rispetti il programma»

Tortolini, responsabile ambiente [sic]dei democratici: Firenze non può stabilire i requisiti dei progetti «La politica non deve decidere la lunghezza delle barche ormeggiate»

«LA POLITICA degli annunci è fragile e difficilmente produce reali innovazioni. Nel nostro programma non c’è scritto niente di quanto affermato dall’assessore Marson e quindi si pone una questione democratica: i programmi si possono cambiare, ma attraverso il confronto». A Matteo Tortolini, responsabile ambiente e infrastrutture nella segreteria regionale del Pd non piacciono le parole di Anna Marson.

Cosa c’è che non va?

«Non credo a un’alternativa tra porti con grandi cementificazioni e porti scarni, così come non penso che si debba scegliere tra dirigismo e deregulation. C’é una terza via, che io definisco riformista, che punta sulla cooperazione tra gli enti. Non spetta alla Regione stabilire i requisiti dei progetti. Il Pit, il piano di indirizzo territoriale, deve fissare dei paletti non negoziabili a cui tutti debbono attenersi; su questa base la Regione deve poi concorrere a indirizzare le decisioni di una filiera istituzionale alla quale devono partecipare Comuni e Province».

Allora, qual è il ruolo della Regione?

«C’è ad esempio il problema del coordinamento della rete territoriale dei porti; occorre porsi il problema di come si possano specializzare i vari approdi, differenziandoli tra di loro».

Ogni Comune dev’essere libero di costruirsi il proprio porto?

«A chi pensa di importare una strategia neodirigistica in materia, ricordo che la legge Burlando permette ai privati di presentare dei progetti per realizzare porti turistici in aree demaniali anche in deroga ai piani regolatori».

Non le pare che sia in arrivo un mucchio di cemento insieme ai nuovi porti?

«Non generalizzerei. Io credo che l’esigenza di realizzare porti “leggeri” si possa realizzare con strumenti diversi da quelli ipotizzati dall’assessore Marson; il problema è stabilire dove si fanno. Un porto realizzato lontano dagli insediamenti esistenti necessita di un’ingente volume di servizi, mentre se il legame è stretto, l’impatto può essere più leggero».

Come mai tutta questa avversione nei confronti dell’idea di modificare Pit e Masterplan dei porti?

«Sono radicalmente contrario all’idea che la politica debba decidere quanto debbano essere lunghe le imbarcazioni ormeggiate nei porti toscani. Dipende dalle caratteristiche dei fondali e anche dalle necessità di riconversione dei territori. A Piombino, ad esempio, proprio in ossequio all’attuale Pit, è stato modificato il progetto, che inizialmente prevedeva il nuovo porto in un’area sabbiosa lontana dal centro. Adesso, non sarà una sorta di cattedrale nel deserto, ma si integrerà con il tessuto urbano e con il distretto della nautica che dovrà nascere e su cui si gioca il futuro di Piombino. Chi dice che occorre fare solo porti per barche di sette metri, deve venire a dire alla gente che per altri 150 anni Piombino dovrà fare affidamento solo sulla siderurgia. La presenza dei megayacht porta con sé la nascita di una filiera produttiva vasta e articolata che produce lavoro e specializzazioni importanti».

Qualcosa di sostanziale sta cambiando, in meglio, nell’urbanistica toscana, fin dalle dichiarazioni del neo-presidente Enrico Rossi: «le villette a schiera non sono il futuro della nostra urbanistica». Meno lottizzazioni, insomma, e più impegno nel recupero/restauro, in una politica per la qualità. Strategia confermata dalla scelta di un assessore di solida competenza come la docente Anna Marson per ridare forza alla pianificazione regionale e locale. Troppo prossimi, oggettivamente, i Comuni agli interessi immobiliari locali per poter usare incisivamente lo strumento della tutela paesaggistica. Troppo indebitati, purtroppo, per non turare le falle di bilancio spingendo l’acceleratore dell’edilizia e degli oneri di urbanizzazione.

Così è venuto il primo stop alle 32 licenze edilizie a Montespertoli e poi quello al regolamento urbanistico di Rio Marina nell’Isola d’Elba. Stop al quale il sindaco elbano ha reagito commentando che così «si fa morire l’Elba». Una lamentela ben nota contro gli “immobilisti”, contro gli “imbalsamatori del paesaggio”. Amministratori locali che non riescono a guardare lontano, che ormai non vedono più il tanto, troppo cemento sparso a blocchi e blocchetti in uno dei paesaggi più strepitosi del mondo, “fatto a mano” quello agrario, determinante per il resto nei secoli passati e che in alcune zone (nel Chianti, o Chiantishire) si sta difendendo anche con l’evitare l’asfaltatura delle strade poderali, anche col ricostituire se ne occupa Paolo Baldeschi docente a Firenze fondamentali terrazzamenti collinari.

Inutile dire quanto un paesaggio integro sia essenziale per il turismo culturale, per l’enogastronomia, per l’agriturismo, per lo stesso export agro-alimentare (negli Usa e in altri mercati “maturi”). Ma il berlusconismo del mattone facile ha aperto falle anche a sinistra. Sulla costa, negli anni scorsi, si sono moltiplicate lottizzazioni proposte da interessi forti. La polemica più recente è quella scoppiata a Capalbio. Essa non ha davvero niente a che fare coi Vip: riguarda la tutela di 12 chilometri di spiaggia libera a dune dietro cui c’è, intatta, la straordinaria Oasi di Burano, gestita dal Wwf. Nuovi stabilimenti balneari esigono nuove strade e nuovi parcheggi, o la dilatazione di quelli esistenti. Per non parlare di un porto turistico alla foce del Chiarone, di un villaggio turistico e di un resort. Se ne discuterà lunedì in Comune. Perché non lo si è fatto prima di deliberare? La Toscana può conquistare sul campo la leadership della pianificazione attenta e intelligente. Tu


Niente mattoni a Castello. La Regione approva la variante al Piano d'indirizzo territoriale (Pit) con l'obiettivo di progettare la nuova pista dell'aeroporto e mette i vincoli su tutta l'area. "Una salvaguardia rispetto ad ogni altra previsione o progetto in attesa di ridisegnare questa parte di territorio", annuncia il governatore Enrico Rossi. Con la conseguenza che su quei terreni al di là del viale XI Agosto non si potrà costruire niente (a parte la Scuola dei carabinieri). Neppure i palazzi per i quali FondiariaSai e Ligresti avevano già ritirato le licenze edilizie. Fino a quando? Il vincolo, spiega Rossi, durerà per tutto il tempo necessario a tratteggiare un nuovo progetto urbanistico.

Si tratta di un vincolo che oggi non modifica lo stato dell'arte: dopo il sequestro dei terreni deciso dalla magistratura ormai nel novembre 2008 e dopo il blocco edilizio scattato il 24 scorso su tutto il territorio fiorentino per effetto del Piano strutturale che ancora non c'è, è di fatto il terzo capestro apposto su quel terreno. Con questa mossa però la Regione quasi "commissaria" Palazzo Vecchio in materia di riassetto urbanistico di Castello. Ed è il segnale quello che conta: la Regione fa sul serio, fermo restando il Parco della Piana l'aeroporto passa avanti a tutto. Edifici di Ligresti e Cittadella viola compresi.

Lo scalo di Peretola del resto, "quella roba lì" come la chiama Rossi con un moto di disprezzo, non è degna di Firenze: "Non è compatibile con la Toscana, così com'è non può essere la porta di questa regione". E' per questo, ribadisce per l'ennesima volta il governatore, che accanto all'inceneritore e al Parco della Piana la Regione ha ritenuto che l'adeguamento dello scalo fosse una priorità. "Tutto il resto è secondario", sostiene Rossi. 

Non solo: "Giorni fa ho preso l'aereo per Parigi, la Scuola dei carabinieri è proprio sotto, se si potessero aprire i finestrini ci si potrebbe tirare sopra qualcosa con una fionda. Non ci si può mettere tutto su quell'area. E la Regione ha già scelto l'aeroporto come priorità". Rossi non esplicita fino in fondo il suo pensiero, ma il senso è chiaro: non c'entrano gli edifici di Ligresti, non c'entra neanche la Cittadella. E la Fiorentina che mette fretta per avere la localizzazione allora? "Vorrei che anche la Fiorentina ne discutesse". Discutesse cioè di un'area come quella di Castello che non può includere tutto.

"Proponiamo al Comune un accordo di pianificazione che faccia scattare la salvaguardia e sarebbe un errore prevedere localizzazioni che pregiudicano l'adeguamento dell'aeroporto", conclude perciò Rossi.

Il presidente toscano conferma il sì alla Valutazione d'impatto sanitario (Vis) chiesta dal sindaco di Campi Adriano Chini: "E' giusto che siano fatte tutte le valutazioni, se serve anche quella d'impatto ambientale. Perché l'aeroporto è un gran bene, ma è anche un male come tutte le attività umane e le valutazioni devono essere fatte". Del resto, la delibera di integrazione al Pit approvata dalla giunta regionale, spiega Rossi, attiva una procedura di partecipazione.

E tutti i soggetti interessati verranno ascoltati, promette: "I sindaci, le Asl le associazioni, i comitati, le categorie economiche i ministeri, l'Unione piloti e l'Enac. Magari anche la Fiorentina". 

Il calendario della partecipazione, che sarà messo a punto dal garante regionale della comunicazione Massimo Morisi, sarà presentato entro il 10 settembre. E scatterà subito dopo. Ognuno potrà esprimere la sua, spendendosi a favore della pista parallela piuttosto che di quella obliqua. Tutto dovrà essere però concluso entro la fine di novembre e, da quel momento, sulla base delle opinioni e degli approfondimenti raccolti strada facendo, si aprirà la fase di vera e propria progettazione urbanistica del nord-ovest di Firenze. Tenendo sempre presente, ripete Rossi, che "Parco e aeroporto non sono in contraddizione". Chi è che deciderà alla fine la nuova configurazione di Castello?

L'ultima parola, in punta di diritto, è di chi la variante al Pit la fa e la approva. Cioè della Regione. Ma è chiaro che potrà farlo solo con un accordo sostanziale con Palazzo Vecchio. Anche se, con questa mossa che formalmente estromette Firenze dal ridisegno dell'area, la Regione si assume la responsabilità di dire no a Ligresti. Con tutto quel che ne consegue: mandare a carte quarantotto i suoi progetti, a costo di pagare poi contenziosi e penali. La Regione sta forse pensando a forme di compensazione per FonSai? "Vedremo, ma l'urbanistica contrattata - dice Rossi liquidando i laceranti dibattiti fiorentini degli anni Ottanta - è bene che rimanga una cosa del passato". Niente trattative con i privati dunque, il metodo Rossi non le prevede.

EDOARDO SALZANO - Nell’opinione corrente Napoli è un disastro. Rifiuti, camorra, sporcizia fisica e morale, inefficacia della politica, amministrazioni allo sbando e in rissa tra loro. Questa sono i tratti che sembrano caratterizzare, nel pensiero comune, Napoli e, per traslato, l’intera Campania. Questa immagine è mille miglia lontano da quella del cosiddetto Rinascimento napoletano, del quale tu fosti partecipe e co-protagonista. So bene che oggi si tende a semplificare, a schematizzare, a ridurre la realtà (che è sempre complessa e variegata) a una icona: una sola immagine, meglio se a tinte forti. Credo che chi vuole agire deve anzitutto comprendere, e formarsi della realtà una visione il più possibile compiuta. Oltre lo scuro, c’è nella realtà della Napoli di oggi qualcosa che sia anche luce? O la Napoli del Rinascimento è solo il ricordo di una realtà che è stata possibile, ed è scomparsa senza lasciare tracce?

VEZIO DE LUCIA - Da oltre un anno, da quando la questione dei rifiuti ha raggiunto dimensioni oltraggiose (e mai davvero risolte), e dopo l’ultimo scandalo sull’appalto global service al gruppo Romeo, molti osservatori – giornalisti, scrittori, intellettuali, specialisti di varie competenze, analisti della società e del costume – concordano nel ritenere irreversibile la decadenza di Napoli (e dell’intero Mezzogiorno). Ci restituiscono l’immagine di una vera e propria tragedia etica e politica, di una città senza speranza, soffocata dalle immondizie, dalla camorra, dal cattivo governo. Sono gli ingredienti che hanno contribuito al successo planetario di Roberto Saviano. Ritorna, è vero, di tanto in tanto, ma sempre meno convincente, il mito di Napoli che produce cultura, arte, musica, cinema e teatro, e resta la fede imperterrita negli ideali giacobini del 1799. Ma continua a mancare, secondo me, un’indagine approfondita sul funzionamento della città per comprenderne davvero la sua realtà politico-istituzionale. In antitesi alla crisi dello smaltimento dei rifiuti e ai recenti episodi di corruzione, c’è almeno un importante settore dell’apparato comunale che opera bene, anche se in condizioni di evidente isolamento, ignorato dall’opinione pubblica, spesso e volentieri criticato dalla stampa, mal sopportato dal mondo politico e da quello accademico. Mi riferisco agli uffici urbanistici del comune di Napoli che, nonostante tutto, lavorano in modo eccellente, e provo a darne conto.

SALZANO - Cerchiamo di ragionare su questo aspetto, questo settore. É un settore importante, perché forse più di altri più effimeri, o nei quali il Comune ha capacità d’incidere meno diretta, agisce fortemente sul futuro della città. Le trasformazioni territoriali, che la politica urbanistica deve gestire, sono tra le meno reversibili di tutte quelle che le politiche comunali possano governare. A che punto stiamo in questo campo?

DE LUCIA - Prendo le mosse da un recente intervento di Roberto Giannì, coordinatore del dipartimento urbanistica del comune di Napoli, che ha presentato un sintetico ma efficace bilancio dell’urbanistica partenopea degli ultimi anni . Ha fornito dati molto importanti: negli anni successivi all’approvazione della nuova disciplina urbanistica, gli atti abilitativi a qualunque titolo rilasciati (autorizzazioni, concessioni e simili) è passata da poche decine a circa 500 all’anno, quantità poi in parte ridotta con l’estensione della Dia (denuncia inizio attività) agli interventi di ristrutturazione. La maggioranza degli interventi riguarda il centro storico, dove vige una normativa basata sull’analisi e la classificazione tipologica, che consente interventi diretti, cioè senza il preventivo ricorso a piani particolareggiati, com’era invece indispensabile secondo il vecchio piano regolatore del 1972 .

Inoltre, negli ultimi quattro anni, sono stati approvati o sono in via di approvazione ben 38 piani urbanistici attuativi e altri grandi progetti urbani, quasi tutti a carico dell’iniziativa privata, mentre negli oltre 30 anni di vigenza del precedente piano non fu approvato neanche un piano particolareggiato. E’ stato stimato che queste sole opere comportano investimenti privati per circa 2 milioni di euro, e che l’insieme delle iniziative a vario titolo in attuazione del nuovo piano regolatore, determinerebbe un incremento del patrimonio di attrezzature di quartiere per una superficie di 280 ettari, circa il venti per cento del fabbisogno quantificato dal nuovo piano regolatore.

Non sono notizie di poco conto. Dimostrano che, in materia di attività edilizia, si sta consistentemente sviluppando un’iniziativa privata integralmente legale, attività che Napoli non aveva forse mai conosciuto prima, almeno non in questa misura, e sicuramente non negli ultimi decenni.

SALZANO - Quello che dici stupisce chi si basa sull’immagine stereotipa di Napoli che è data dai media di massa. Intanto, sui giornali ho letto cose molto diverse: si parla di un piano che ha “ingessato” Napoli, e in particolare il centro storico, che il Prg ha perimetrato con ampiezza, rifacendovi alle acquisizioni culturali di Leonardo Benevolo e Anntonio Cederna e ai principi della Carta di Gubbio. Mi sembra però particolarmente interessante la sottolineatura che fai dell’attività edilizia “legale”, come se questo fosse una novità per Napoli.

DE LUCIA - In effetti, il mezzo secolo che va dalla fine della seconda guerra mondiale alla metà degli anni Novanta si può pensarlo diviso in due periodi di uguale durata: fino al 1970 circa, l’attività edilizia era caratterizzata dall’essere apparentemente legale. Cioè, la grande speculazione che ha devastato il Vomero, Posillipo e il resto, quella degli scempi e delle mani sulla città, era la somma di edifici tutti dotati di licenza edilizia (allora si chiamava così), ma si trattava di licenze prevalentemente illegittime, cioè in contrasto con le norme vigenti, e quasi sempre i fabbricati erano per di più difformi dai progetti (illegalmente) approvati. Tutto ciò fu molto ben documentato dall’indagine sull’edilizia privata a Napoli, condotta nel 1971 dal ministero dei Lavori pubblici, indagine che purtroppo non ebbe la risonanza e non determinò le conseguenze (legge ponte, standard urbanistici) della più nota indagine sulla frana Agrigento del 1966.

Nel secondo quarto di secolo del dopoguerra (circa 1970 – 1995), a Napoli, l’edilizia privata apparentemente legale è stata quasi totalmente sostituita da due altre modalità che, negli anni precedenti, erano state marginali, mi riferisco all’edilizia abusiva, e all’edilizia pubblica. L’edilizia abusiva è del tutto diversa dall’edilizia speculativa dei decenni precedenti. Quest’ultima, seppure contaminata da fattori di illegalità urbanistico-edilizia, apparteneva pur sempre al mercato abitativo ufficiale; le imprese erano più o meno in regola e regolare era la compravendita degli immobili. Quella abusiva è invece un’attività criminale, direttamente o indirettamente connessa alla malavita organizzata. Ogni segmento del processo costruttivo era, ed è, contrario alla legge: dall’acquisizione delle aree al reclutamento e trattamento della manodopera, all’acquisizione dei materiali e dei mezzi di produzione, all’allacciamento e alle forniture dei servizi, alla vendita dei manufatti, e così di seguito. A Napoli, tra l’altro, non è mai esistito l’abusivismo chiamiamolo mutualistico, quello dei borghetti di Roma dei primissimi anni del dopoguerra, quello del neorealismo, l’abusivismo cosiddetto della domenica, quando intere famiglie di immigrati, per i quali era irraggiungibile il mercato abitativo ordinario (anche perché era ancora vigente la legge contro l’inurbamento), si aiutavano scambievolmente nella costruzione della proprie abitazioni “spontanee” . A Napoli, invece, l’abusivismo è stato quasi sempre espressione dell’imprenditoria delinquenziale.

Quanto all’edilizia pubblica, è bene ricordare che a Napoli ha spesso raggiunto risultati quantitativamente e qualitativamente significativi, a partire dal Risanamento . Ma negli ultimi anni, intorno all’edilizia pubblica opera una sorta di damnatio memoriae, oppure è stoltamente criminalizzata, come succede per le Vele di Secondigliano .

SALZANO - Ecco, le Vele a Scampìa. Nell’opinione corrente sono una delle brutture più pesanti, caso esemplare di un degrado sociale provocato dal tipo di insediamento. Qual è la tua opinione sulle Vele e sulla situazione sociale di Scampìa?

DE LUCIA - L’insofferenza per le Vele è analoga a quella manifestata in altre città d’Italia per quartieri più o meno coevi che hanno subito le stesse selvagge mutilazioni e sono stati oggetto di una irresponsabile gestione comunale: Corviale e Laurentino 38 a Roma, lo Zen a Palermo. Anche in quei casi si dà tutta la colpa agli architetti. Franco Ferrarotti ha scritto che Corviale resta “un monumento all’insipienza di chi ha scambiato i valori collettivi con la mancanza di rispetto per i diritti individuali”. È una bella espressione, ma ingenerosa, e forse sbagliata. È vero che si tratta di scelte architettoniche scomode, e oggi imbarazzanti, perché frutto delle speranze di riforma e di progresso che attraversarono l’Italia alla fine degli anni Sessanta. “La casa come servizio sociale”: da parola d’ordine dei cortei si pensò di trasformarla in pratica sociale, e con quell’idea si misurarono anche alcuni dei migliori architetti che hanno operato in questo Paese. Le Vele, lo Zen, Corviale, Laurentino 38 sono una coraggiosa configurazione di quella parola d’ordine e rara testimonianza degli ideali di un’epoca, poi travolti dal ripiegamento degli anni Ottanta. In altre società, e in altre epoche, la “monumentalizzazione” dell’edilizia ordinaria è andata a buon fine . E le cose potevano andare diversamente anche a Roma, a Napoli e a Palermo, se le amministrazioni comunali fossero state più energiche e consapevoli e non inerti, o forse complici.

SALZANO - Tu sei stato assessore alla vivibilità nella prima giunta Bassolino. Che cosa avrebbe potuto fare la giunta per affrontare il degrado delle Vele?

DE LUCIA - Secondo me, il difetto essenziale del quartiere Scampìa, di cui le Vele sono solo un dettaglio, dipendeva (e dipende) dal fatto che si tratta di un quartiere, anzi una circoscrizione intera, quella di Scampìa, fatta solo ed esclusivamente di edilizia pubblica. Ci sono solo case, nient’altro che case, e pochissimi servizi collettivi (solo con gli interventi per il dopo-terremoto gli abitanti hanno avuto un gran bel parco). Insomma, una specie di mostro. La nostra idea era di aggiungere altre funzioni, per quanto possibile importanti, pubbliche e private, prospettiva agevolata dalla bassa densità dell’insediamento e dalle possibilità di trasformazione (la demolizione delle Vele era solo una delle ipotesi). Contavamo anche sul fatto che la vicina fermata della metropolitana, collegando Scampìa al centro della città in tempi brevi, una volta inimmaginabili, avrebbe certamente reso meno complicato l’insediamento di nuove attività, e anche di abitazioni private. Debbo dire che la risposta dell’imprenditoria fu deludente. tante chiacchiere ma niente di concreto. un interlocutore importante fu invece l’università, e ricordo con riconoscenza e gratitudine l’allora rettore Fulvio Tessitore che accolse con entusiasmo l’ipotesi di affidare alla presenza degli studenti e dei docenti un ruolo decisivo nel riscatto del quartiere. Cominciammo a valutare la possibilità di trasferire due facoltà: agraria e biotecnologie. Molto, troppo lentamente, il disegno mi pare che sia andato avanti, almeno in parte. Nei giorni scorsi ho incontrato Vittorio Gregotti che mi ha detto di aver da poco consegnato al comune un progetto relativo alla facoltà di medicina per Scampìa.

SALZANO - Torniamo all’attività edilizia «legale». Allora, a Napoli il Prg ha incontrato l’interesse operativo dei costruttori onesti, quelli che in un altro contesto, a roma, Luigi Petroselli chiamava gli imprenditori che cercano «l’equo profitto», cioè che si affidano all’attività imprenditiva e non alla rendita. ricordo che un rapporto positivo con i costruttori napoletani era già stato sperimentato dall’équipe che ha lavorato al prg, e che allora riuscì a costruire una positiva e «pulita» collaborazione per la ricostruzione dopo il terremoto del 1980, a differenza di quanto allora avvenne nel resto della Campania.

DE LUCIA - La recente ripresa, a Napoli, dell’edilizia privata regolare, “pulita”, è indubbiamente una realtà rilevante. Chissà perché è sconosciuta, o è volutamente ignorata dai commentatori e dal mondo istituzionale. Non dagli imprenditori. La rassegna stampa comunale degli ultimi anni è fitta di articoli e di dichiarazioni di costruttori e di esponenti dell’associazionismo imprenditoriale che apprezzano l’azione amministrativa del capoluogo campano. Cito per tutti Ambrogio Prezioso, presidente dell’associazione costruttori che, all’indomani dell’approvazione del piano regolatore, esprime soddisfazione per la conclusione “di un lavoro lungo e difficile frutto di un’azione amministrativa tenace” e ricorda il contributo della sua categoria reso “con un energico spirito di cooperazione tipico di chi è consapevole che l’approvazione del Prg è fondamentale per ottenere certezze per il recupero della città, dal centro storico alle periferie” . Lo stesso Prezioso, intervistato da la Repubblica all’inizio del 2007, dichiara che “ora la pianificazione c’è e ci sono i progetti. Non resta dunque che ripartire” , e cita i trenta progetti presentati dalla sua associazione (e poi in parte approvati dal comune).

SALZANO - Il Prg non serve solo a regolare l’attività edilizia. Un problema molto pesante per gli abitanti – a Napoli forse più ancora che nella altre grandi città italiane dove non c’è una tradizione di buona urbanistica – è quello dell’accessibilità: l’esigenza della mobilità è cancellata dalla caoticità del traffico. La tua esperienza napoletana è cominciata, in occasione del G7 del 1994, con la scelta di adoperare i finanziamenti speciali per risolvere problemi ordinari. Tra questi, particolare evidenza ha avuto la pedonalizzazione di Piazza Plebiscito. L’eliminazione del traffico da questo luogo, fino ad allora congestionato e degradato, e la sua restituzione alla pienezza della vita cittadina è stato un risultato secondo me eccezionale. Ricordo che costò faticose discussioni, richiede una faticosa conquista del consenso all’interno stesso dell’amministrazione, e anche con categorie importanti della vita sociale della città. In che modo la questione della mobilità è stata affrontata nella successiva pianificazione, che conflitti e consensi ha provocato e quale esito ha avuto?

DE LUCIA - Certamente, alle informazioni sull’attività urbanistica ed edilizia bisogna aggiungere quelle relative alla realizzazione della nuova rete metropolitana. Una successione di atti sempre più perfezionati – il piano comunale dei trasporti del 1997, il piano della rete stradale primaria del 2002, e il cosiddetto piano “delle 100 stazioni” dello stesso anno – hanno orientato e determinato la progettazione e la realizzazione degli interventi. Il punto di partenza, nel 1994, erano due linee ferroviarie nazionali, due metropolitane (quella storica del passante ferroviario realizzato nel 1927 e le tre fermate della nuova linea 1), quattro funicolari, quattro linee tranviarie, per un totale di 45 fermate e solo cinque nodi di interscambio. Fra pochi anni la popolazione servita sarà raddoppiata (da 536 mila a 970 mila); sono previste dieci linee metropolitane, con 114 stazioni che formeranno 36 nodi d’interscambio ferroviario e 24 di scambio con parcheggi. Metà del programma è realizzato e si procede con inconsueta regolarità, operando in piena coerenza con le scelte urbanistiche, grazie in particolare alla tenacia di Elena Camerlingo che dirige l’ufficio studi e infrastrutture del comune.

Intanto, la restituzione ai pedoni di alcuni dei luoghi più congestionati della città e soffocati dalle automobili fa affiorare qualità perdute (da piazza del Plebiscito a piazza Cavour a piazza Dante). Dovrebbe essere cancellato lo scandalo delle strade interrotte da muretti in cemento armato in corrispondenza dei passaggi a livello (via Ferrante Imperato a S. Giovanni a Teduccio); sarà almeno in parte ricostruito il paesaggio del Miglio d’oro disastrato dalla linea ferroviaria costiera che ha isolato il mare dal retroterra. Infine, il litorale e il parco della nuova Bagnoli saranno direttamente serviti dalla rete su ferro.

SALZANO - Attività edilizia, mobilità, abbiamo affrontato due aspetti importanti della politica urbanistica napoletana. Ci sono altri aspetti che mi interesserebbe approfondire con te. La questione degli spazi pubblici, dei parchi, delle attrezzature civili. So che il piano ha dato il via a grandi progetti, come l’area ex industriale di Bagnoli e il grande sistema dei parchi urbani e territoriali, e le attrezzature già previste dal piano delle periferie che costituisce in qualche modo un’anticipazione del Prg. Mi sembra che a Napoli queste realizzazioni sono avvenute senza gli umilianti patteggiamenti che hanno caratterizzato altre esperienze, dove all’urbanistica “regolativa”, cioè comandata dalla mano pubblica, hanno preferito della contrattazione con la proprietà immobiliare, tra l’altro secondo modalità che hanno visto sempre le amministrazioni pubbliche subalterne rispetto agli interessi privati. Ti sarei grato se volessi fare un breve excursus sulle differenze tra l’esperienza napoletana e quella della altre grandi città italiane, da Milano a Roma.

Ma prima ancora, vuoi dirmi in che modo il Prg ha influito sulla rendita immobiliare? gli economisti dicono che la rendita è una dimensione economica insopprimibile, e che la questione sta nella risposta alla domanda: chi si appropria del valore determinato dalle decisioni e dagli investimenti della collettività, se il pubblico o il privato. Ma è certo che anche la pianificazione incide sul maggiore o minore valore dei terreni, quindi sull’incremento della rendita. Che cosa puoi raccontare a questo proposito?

DE LUCIA - Ho già raccontato altre volte che un momento molto importante della mia vita di amministratore, anzi, più in generale, della mia vita di urbanista, fu quando, una bella mattina, mi telefonò il direttore generale dell’Iri per dirmi che nel bilancio 2006 della società del gruppo Iri proprietaria di Bagnoli, la Cimimontubi, il valore dei suoli sarebbe stato ridotto di circa il 30%, per adeguarlo alle minori possibilità edificatorie consentite dal nostro piano urbanistico rispetto alle loro aspettative (non era solo un gesto amichevole nei nostri confronti, allora esisteva ancora il reato di falso in bilancio ...). Il fatto che un piano urbanistico abbia determinato non l’incremento ma la riduzione del valore dei suoli mi pare un risultato strepitoso, purtroppo raro. Che dimostra come il controllo pubblico della rendita sia lo strumento decisivo dell’urbanistica, senza il quale si disegnano pupazzi.

SALZANO - L’esperienza napoletana mi sembra coerente con quella degli anni della “buona urbanistica”, quella dei piani di Astengo (Assisi, Bergamo), Detti (Firenze), Piccinato (Siena, Padova), Campos Venuti (Bologna), ma assolutamente anomala rispetto a due riferimenti: rispetto al degrado degli altri aspetti della situazione napoletana, dai quali siamo partiti, e rispetto ai piani urbanistici degli ultimi tempi, degli anni craxiani e post-craxiani. Vogliamo dare uno sguardo a ciò che si è

fatto altrove?

DE LUCIA - Il contrasto fra il generalizzato decadimento della città e il buongoverno urbanistico emerge accentuato dal confronto con le vicende urbanistiche di altre importanti città italiane, caratterizzate dalla prevalenza degli interessi privati e dall’arretramento dell’azione pubblica o, nei casi peggiori, dal palese asservimento agli interessi fondiari e immobiliari. E forse una rapida analisi puà essere utile per comprendere meglio il caso napoletano.

SALZANO - Cominciamo dalla “capitale morale d’Italia”, da Milano, che a prima vista mi sembra l’esperienza più lontana da Napoli e dall’eredità culturale cui a Napoli avete fatto riferimento.

DE LUCIA - Il comune di Milano ha da tempo sostituito il piano con la somma dei progetti. All’origine della nuova urbanistica sta il documento Ricostruire la grande Milano, redatto nel 2000 dall’assessorato allo sviluppo del territorio. Il capoluogo lombardo non è mai stato un modello di rigorosa amministrazione del territorio. Non a caso, si chiamò “rito ambrosiano” (la definizione è di Pietro Bucalossi, ex sindaco del capoluogo lombardo e poi benemerito ministro dei lavori pubblici) la specialità milanese di piegare le norme al variare delle circostanze. La tradizione, grazie anche a nuovi provvedimenti regionali, ha raggiunto negli ultimi anni soglie estreme. In buona sostanza, progetti e programmi pubblici e privati non sono obbligati a uniformarsi alle prescrizioni del piano regolatore ma, al contrario, è il piano regolatore che si deve adeguare ai progetti. Il piano regolatore è diventato, così, una specie di catasto che registra le trasformazioni edilizie contrattate e concordate. Siamo di fronte a un possente rilancio della rendita e della speculazione immobiliare, mistificata come modernizzazione, con le conseguenze che si possono immaginare dal punto di vista morale e della trasparenza delle procedure. Come a Napoli, negli anni di Achille Lauro, quando si affermava che “il piano regolatore serve a chi non si sa regolare”.

L’esito più clamoroso del nuovo rito ambrosiano è il progetto dell’area ex fiera, poi battezzata CityLife, con i tre grattacieli di Daniel Libeskind (quello detto il Curvo, 170 metri), di Zaha Hadid (lo Storto, 185 metri), di Arata Isozaki (il Dritto, 218 metri). Fulvio Irace ha scritto che

come nella parodia di un film di Verdone; il «famolo strano» sembra infatti es- sere l’unica regola certa di una professione che ha rinunciato alla pretesa etica di governare la trasformazione riducendo il governo del territorio a un problema di audience di massa. tanto da far venire in mente, davanti alle pretese di una tale “modernità”, l’acre battuta di Noel Coward in Law and order: «non so dove stia puntando Londra, ma più si alzano i grattacieli, più si abbassa la morale» .

L’importo a base d’asta dell’intervento era di 250 milioni di euro; il progetto vincitore (Ligresti, Toti, Generali, Allianz) prevede un valore, e quindi una cubatura, più che doppi, con il conseguente dimezzamento degli standard urbanistici. La scelta del progetto, insomma, ha mirato a massimizzare l’utile, non a migliorare le condizioni abitative dei cittadini (com’è avvenuto, per esempio, con il riuso delle aree dismesse della fiera di Monaco) .

L’assegnazione a Milano dell’Expo 2015 sta moltiplicando le operazioni immobiliari. Secondo Alberto Statera “sono venticinque i grandi progetti, lottizzati tra i gruppi immobiliari con le immutabili regole del manuale Cencelli – tot a me, tot a te – che stanno cambiando lo skyline meneghino insieme a quelli del potere e delle ricchezze immobiliari d’Italia" .

il colpo di grazia è stato sferrato con la proposta dell’assessore allo sviluppo del territorio Carlo Masseroli di incrementare in modo generalizzato gli indici di edificabilità, con il virtuale incremento della popolazione da un milione e 300.000 a 2 milioni di abitanti, con vincoli e regole ridotti al minimo.

SALZANO - Certamente, Milano è un estremo nella storia della pianificazione delle grandi città italiane. Possiamo dire che Bologna e Firenze sono l’altro estremo, la testimonianza di politiche urbanistiche sagge e lungimiranti: basta ricordare Armando Sarti, Giuseppe Campos Venuti, Pierluigi Cervellati per l’una, Edoardo Detti per l’altra.

DE LUCIA - Per gli urbanisti della mia generazione Bologna era un mito. Era un mito la consulta urbanistica dell’Emilia Romagna (che anticipò gli standard urbanistici del 1968), erano un mito gli uffici urbanistici comunali, i piani regolatori e i piani di zona di città grandi e piccole, le scuole di Reggio Emilia, il piano per il centro storico di Bologna degli anni Settanta. Furono mitici Giuseppe Campos Venuti e Pierluigi Cervellati. Ma tout passe, tout casse, tout lasse, tout se remplace. Bologna si è accodata al declino dell’urbanistica progressista dell’ultimo quarto si secolo e non è mai stata rimpiazzata. Secondo me, l’ultima manifestazione del primato bolognese fu la comparsa sulla scena nazionale della Compagnia dei celestini, un’associazione di urbanisti, molti giovanissimi che, all’inizio del secolo, si fecero conoscere per le critiche dure e circostanziate che muovevano alla politica urbanistica cittadina e regionale. In particolare, s’impegnarono a documentare “il livello di ipocrisia progettuale e politica” degli interventi di riqualificazione urbana che hanno “riqualificato ben poco se non il valore immobiliare dei suoli sui quali si è costruito” .

Un esempio del malgoverno urbanistico bolognese è il programma di recupero e di riqualificazione urbana di via Due Madonne, nel quartiere San Vitale, a est della città, in un’area compresa fra la tangenziale nord e la ferrovia per Ancona. Con l’approvazione del piano regolatore del 1985, furono raccolte le osservazioni dei proprietari e, modificando le precedenti più modeste previsioni, fu decisa una destinazione dell’area ad attività terziarie e telematiche – il World Trade Center – con un indice di 0,7 metri quadri a metro quadro. Quando, nel 1997, il comune votò il bando per “programmi integrati aventi l’obiettivo del recupero e della riqualificazione urbana”, i proprietari chiesero un cambio di destinazione per costruire alloggi invece del World Trade Center. La proposta fu accolta e il progetto definitivamente approvato nel luglio 2000 autorizzò un complesso edilizio formato, tra l’altro, da sette edifici residenziali (altezza massima 18 metri).

Uno dei fabbricati è localizzato lungo la tangenziale, al fine di formare una barriera contro il rumore prodotto dal traffico. La convenzione prevede che una parte degli alloggi debba essere di proprietà pubblica e riservata a edilizia sociale. “Ma dove sarà collocata la quota di edilizia sociale? Proprio nell’edificio vicino alla tangenziale: saranno le abitazioni dei meno abbienti a fare da schermo antirumore per le abitazioni più ricche!” .

Recentemente Bologna sta sperimentando il ritorno alla pianificazione. Nel luglio 2008 è stato approvato il piano strutturale comunale cui farà seguito il piano operativo, come prescrive la legge regionale del 2000. L’intenzione è di integrare in un’unica strategia interventi di trasformazione e di riqualificazione. Forse per Bologna il peggio è passato, ma non sarà mai più come una volta.

A Firenze, al centro della bufera urbanistica che nell’autunno 2008 ha travolto il sindaco Leonardo Domenici e la sua giunta sta, ancora una volta, il progetto dell’area ex Fondiaria, oltre 180 ettari nella piana fiorentina, in località Castello, accanto all’aeroporto di Peretola, il progetto contro il quale si era scagliato, nella primavera del 1989, Achille Occhetto, ultimo segretario del Pci, mettendo in crisi il suo partito al governo della città. Fu un atto clamoroso, che in molti salutammo con entusiasmo. Faceva seguito a un importante discorso dello stesso Occhetto a favore della foresta amazzonica e per la riconversione ecologica dell’economia. Ci illudemmo di essere alla vigilia di una svolta risolutiva dell’urbanistica italiana, almeno quella di sinistra. Ma rapidamente tutto rientrò nella normalità, a Firenze furono riprese le proposte di prima con qualche aggiustamento e qualche mistificazione.

Dopo quasi vent’anni, la lottizzazione di Castello – intanto acquisita dal costruttore Salvatore Ligresti, dove sono previsti un milione e 400 mila metri cubi di nuova edificazione che comprendono la sede della regione e la scuola sottoufficiali dei carabinieri e circa 80 ettari di un parco-filtro ai margini dell’aeroporto – ha provocato una nuova gravissima crisi politica e giudiziaria. Sono stati inquisiti per corruzione il vicesindaco e un assessore, un altro assessore si è dimesso, si è dimesso anche il direttore de la Nazione a causa di compromettenti intercettazioni. Il piano strutturale (la prima parte del piano regolatore, secondo la legge urbanistica toscana) non è stato approvato. Il sindaco Domenici si è platealmente incatenato sotto gli uffici romani de la Repubblica per protestare contro alcuni articoli del quotidiano e del settimanale “l’Espresso” che criticano l’operato suo e dell’amministrazione fiorentina. Il tutto è cominciato nel settembre 2008, quando il patron della Fiorentina Diego della Valle ha presentato un progetto di Massimiliano Fuksas per un complesso di circa 80 ettari, battezzato cittadella dello sport, che comprende uno stadio da 50 mila posti, un centro commerciale, una galleria di negozi, un museo, un parco ricreativo del pallone, oltre ad attività ricettive e residenze. Dire di no al progetto sarebbe stato impopolare, ma dove trovare lo spazio disponibile? Comune e regione hanno proposto di utilizzare per il progetto Della Valle-Fuksas l’area destinata a parco nella lottizzazione di Castello, ma il consiglio comunale non ha approvato e tutto è stato rinviato alla prossima amministrazione, dopo le elezioni del giugno 2009.

Paolo Baldeschi ha scritto che “il caso Fondiaria è l’ennesima dimostrazione che a Firenze prima si stabilisce l’edificabilità di un’area in termini di metri cubi patteggiati con i privati e poi si cercano utilizzazioni che assicurino ritorni economici a breve termine. Da qui il balletto delle destinazioni dove predominano incoerenza e improvvisazione e un ingente spreco di denaro pubblico per progetti non realizzati” .

SALZANO - Veniamo alla capitale d’Italia. Roma ha sempre aperto strade alla pianificazione. Ricordo il Prg del 1962, che introdusse gli standard urbanistici e una prima sperimentazione del programma pluriennale d’espansione. E negli anni di Rutelli e Veltroni?

DE LUCIA - Il nuovo piano regolatore del comune di Roma, al quale si mise mano nel 1993, è stato approvato soltanto negli ultimi giorni dell’amministrazione di Walter Veltroni, alla vigilia delle elezioni del 2008 vinte da Gianni Alemanno. Nei tre lustri di governo del centro sinistra, la politica del Campidoglio è stata come quella di Milano, con l’aggravante dell’ipocrisia, si praticava la contrattazione contrabbandandola per politica di piano (pianificar facendo è slogan che ha accompagnato l’esperienza romana). Ma la colpa più grave dell’amministrazione capitolina è stata nel non aver posto alcun limite al consumo del suolo agricolo o in condizioni naturali, comunque non ancora urbanizzato. Roma perde abitanti da trent’anni, ma il nuovo piano prevede un incremento di circa 70 milioni di metri cubi (pari al 10 per cento del volume preesistente) e un’espansione di almeno 15 mila ettari (pari al 36 per cento del suolo precedentemente urbanizzato). Un’espansione quindi a bassa densità, in tutte le direzioni, che si salda ai comuni limitrofi. L’Agro romano, lo spazio che da sempre ha isolato Roma dal resto del Lazio, la più importante risorsa archeologica del mondo, è massacrato. Intanto il centro storico continua a espellere abitanti – che vanno a vivere in periferie sempre più lontane – cedendo spazio ad attività e servizi, in particolare turistici e commerciali, che hanno snaturato il cuore della città. Lavoro dentro, abitanti fuori, è questo il modello che si consolida ogni giorno di più, con conseguenze insostenibili in termini di tempo destinato agli spostamenti, di inquinamento, di stress, di malessere urbano.

Paolo Berdini ha raccontato e documentato compiutamente come si è sviluppata la vicenda romana : le aggiunte continue al piano in formazione, il ricorso agli accordi, alle intese, alle compensazioni, alle perequazioni, alla difesa di inesistenti diritti edificatori. È senza fine la lista degli istituti derogatori che si sono utilizzati per disseminare insediamenti in ogni dove, in genere anticipati da centri commerciali, sempre più grandi, negli ultimi anni se ne sono costruiti trentuno. Le critiche di Berdini sono state poi riprese e divulgate da un efficacissimo servizio di Report che ha sconcertato il mondo politico e l’opinione pubblica.

Accanto a Berdini e a Report, va ricordato il recente libro di Walter Tocci, vicesindaco di Roma dal 1993 al 2001 (sindaco Rutelli), poi autorevole parlamentare del partito democratico, che affronta le questioni cruciali della politica urbanistica della capitale, gli errori commessi, le occasioni perdute, la subordinazione agli interessi fondiari (“A Roma la forza unificante dell’economia del mattone ha sempre vinto sulle differenze degli ordinamenti politici”) . Secondo Tocci, a Roma si è formato “uno dei più grandi esempi di sprawl in Italia e per certi versi anche in Europa. È paragonabile a quello dell’area milanese e a quello del Nord-est, ma prende gli aspetti peggiori di entrambi, la forte gravitazione del primo e la bassa densità del secondo”. Il nuovo piano regolatore di Roma non è neppure un nuovo piano, ma un’ennesima variante di quello del 1962, di cui si condivide la forte geometria espansiva. “Attuare oggi quelle previsioni urbanistiche – scrive Tocci – è in un certo senso più grave che averle pianificate negli anni sessanta”: nessuno di noi, critici da sempre del piano di Roma, aveva osato arrivare a questa conclusione.

SALZANO - Torino mi sembra un caso un po’ diverso dai precedenti. Lì la pianificazione sembra essere ancora uno strumento adoperato con un certo rigore, sebbene anche lì ci sono molte critiche, sia nei confronti del Prg vigente sia, soprattutto, per la sua attuazione.

DE LUCIA - É vero, Torino è un caso molto diverso da quelli precedenti, ma vale la pena di parlarne soprattutto perché dimostra che la vigenza di un piano regolatore è comunque un fattore di garanzia e di trasparenza. Mi riferisco in particolare al modo in cui si è sviluppata negli ultimi anni la contrastata vicenda dei nuovi grattacieli proposti nelle aree centrali di Torino in contrasto con il piano regolatore approvato nel 1995. È un piano che aderisce dichiaratamente a un modello di sviluppo post-industriale, assumendo la produzione dei servizi come settore portante dell’economia cittadina. Prevede infatti il sostanziale azzeramento delle aree industriali, sostituite da quasi 900 ettari di attività terziarie. La cosiddetta Spina Centrale (un lungo corridoio in direzione nord-sud, a cavallo del passante ferroviario interrato) è il luogo privilegiato per l’insediamento di nuove abitazioni e di funzioni rare e di comando, con l’aspirazione ad assumere rilevanza simbolica a scala nazionale e internazionale. Non sono mancate contestazioni alla filosofia e alle scelte del piano L’assenza di riferimenti all’assetto dell’area metropolitana; il riconosciuto protagonismo della grande e piccola proprietà fondiaria; il rafforzamento del ruolo dominante del centro cittadino a svantaggio di un equilibrato rapporto con il territorio regionale; il ricorso a densità insediative abnormi: sono queste le critiche prevalenti e più convincenti .

Ma qui interessa porre in rilievo che, a differenza di Milano e di Roma, nell’esperienza del capoluogo piemontese non è mai stato in discussione il rispetto del piano, né si è fatto diffusamente ricorso a istituti derogatori. La lunga e partecipata discussione a proposito dei grattacieli si è sviluppata intorno alla necessità o meno di apposite varianti allo strumento urbanistico, senza scorciatoie. Il riferimento condiviso al piano regolatore è la ragione, secondo me, dei buoni risultati ottenuti dall’opposizione ai grattacieli. Com’è noto, l’unico per ora approvato è il grattacielo Intesa-San Paolo a Porta Susa (altezza 180 metri), a lato della Spina Centrale e le procedure seguite sono state quelle di un’ordinaria variante al piano regolatore (che limitava l’altezza a 70 metri). Il movimento sviluppato intorno al comitato “Non grattiamo il cielo di Torino” è esemplare e dispiace che qui possiamo ricordarlo solo con brevi cenni. A favore dei grattacieli si erano dichiarati il sindaco Chiamparino (“C’è chi vorrebbe vedere in città ancora pascolare le pecore”) e la presidente della giunta regionale Mercedes Bresso (“Chi è contrario pensa ancora ai dinosauri”) ma l’opposizione a mano a mano più vigorosa alla fine ha raggiunto risultati all’inizio impensabili. È stato ripetuto che la Mole Antonelliana, piaccia o non piaccia, fa parte della storia di Torino, e il suo rapporto con lo sfondo delle Alpi e con la città non possiamo “superarli” con una nuova immagine che oblitera quella che abbiamo ereditato. Non è nella disponibilità della nostra generazione, ce lo inibisce la nostra cultura: altroché sostenitori delle pecore in piazza San Carlo.

Grazie alla forza e alla qualità del movimento, dopo l’approvazione del grattacielo Intesa-San Paolo, il consiglio comunale ha accolto una delibera di iniziativa popolare di sostanziale moratoria sui progetti di grattacieli. Vi si legge infatti che “in tutto il territorio comunale, fatti salvi gli interventi già autorizzati con specifici provvedimenti (grattacielo San Paolo, n.d.r), non dovranno essere consentite nuove edificazioni, o sopraelevazioni, che superino l’altezza di m. 100, fatti salvi i limiti più restrittivi già previsti”. In un ambito più ristretto intorno alla Mole Antonelliana, sono consentite altezze massime di 80 metri.

SALZANO - Mi sembra che dal confronto con le politiche urbanistiche delle altre grandi città quella napoletana appare chiaramente come un’anomalia: un’anomalia positiva, una volta tanto. La prima domanda che scaturisce da questa analisi è: come mai nessuno sembra accorgersene? Come mai questa orrenda semplificazione, che di Napoli vede solo il brutto e lo sporco?

DE LUCIA - Non so se le informazioni raccolte nel paragrafo precedente sulle città italiane dove si pratica correntemente l’urbanistica contrattata sono note a coloro che criticano l’esperienza napoletana. Certo è che a quanti decantano le magnifiche sorti e progressive del modello romano o di quello milanese, a quanti si appassionano alla gara a chi il grattacielo ce l’ha più lungo o più storto: a tutti costoro una vicenda come quella napoletana, fondata preminentemente sulla correttezza amministrativa e sull’equilibrato rapporto fra imprenditori e uffici comunali, deve evidentemente apparire come affetta da arretratezza e da rifiuto della modernità.

Uno che dissente esplicitamente dall’urbanistica napoletana è il direttore del Corriere del Mezzogiorno, Marco Demarco. Sul suo giornale, commentando il crollo di un edificio a Montecalvario nel luglio 2008, ha scritto quanto segue.

“Sarebbe fin troppo facile, ora, polemizzare con quanti, nel tempo, si sono tenacemente opposti a ogni progetto di modernizzazione urbanistica della città, e in nome di una conservazione del patrimonio edilizio hanno favorito il dilagare del degrado e dell’abusivismo. Non è il caso di riaprire vecchie ferite. E tuttavia una questione va posta. Ed è la seguente. Da oltre un quarto di secolo un gruppo di urbanisti e di architetti rappresenta la continuità nel governo urbanistico della città. È quel gruppo definito, in un recente libro di Gabriella Corona, «I ragazzi del piano». Del piano regolatore, per intenderci. Da quando questo gruppo governa di fatto la città si sono succeduti sindaci comunisti e di pentapartito, Bassolino e Iervolino. Convinti della produttività economica e sociale dell’ambientalismo, i ragazzi del piano si sono strenuamente battuti perché non un mattone si eliminasse o si aggiungesse nel centro storico, e perché nulla prendesse forma a Bagnoli. A loro va posta una sola domanda: è questa la città che avevate in mente? Perché se è questa, è bene che si sappia che non è una bella prospettiva passare dai cumuli di immondizia ai cumuli di macerie” .

SALZANO - Perché dai tanta importanza a un intervento come questo? Espime in modo abbastanza piatto un’ideologia corrente: ciò che serve è la “modernizzazione”. Modernizzerebbero anche il Partenone. Non hanno capito niente dell’importanza della storia rappresentata nella materialità del territorio, ai fini della conosccenza del mondo in cui viviamo e della nostra capacità di trasformarlo. Bisognerebbe invitarli a leggere il bel libro di Piero Bevilacqua sulla “Utilità della storia”. Ripeto, perchè ti riferisci a questo brano?

DE LUCIA - Semplicemente perché Demarco enuncia critiche cir- costanziate e il suo testo possiamo assumerlo come rappresentativo del pensiero di altri detrattori dell’urbanistica napoletana che non perdono occasione per affermare che il piano ha «ingessato» napoli e in particola- re il centro storico. uno fra i più tenaci è paolo Macry, che talvolta se la prende personalmente con me. altri dichiarati avversari del piano sono gli economisti Mariano D’Antonio e Massimo Lo Cicero e l’attuale assessore regionale alla Cultura Claudio Velardi. Comunque, prima di replicare a Demarco, è bene ricordare che «i ragazzi del piano» sono un gruppo di tecnici, funzionari comunali, che cominciarono a lavorare insieme negli anni dell’amministrazione di Maurizio Valenzi (quando erano davvero ragazzi), e si deve a essi, come hai ricordato, il cosiddetto «piano delle periferie», approvato dal Consiglio comunale prima del terremoto del novembre 1980 e poi in larga misura realizzato con gli interventi per la ricostruzione post-sismica (di cui si occuparono gli stessi «ragazzi del piano»). Con la prima amministrazione Bassolino hanno partecipato alla formazione del nuovo piano regolatore e sono attualmente impegnati nella sua attuazione. rappresentano quindi un raro esempio di consolidata continuità tecnico-amministrativa, una delle ragioni dell’efficacia dell’esperienza urbanistica napoletana..

Torniamo all’articolo di Marco Demarco e proviamo a rispondere, punto per punto. In primo luogo, la conservazione del patrimonio edilizio, scrive Demarco, favorisce il dilagare del degrado e dell’abusivismo. Una tesi sbalorditiva, assolutamente infondata, l’abusivismo fiorisce laddove è tollerato dai pubblici poteri, indipendentemente dalle politiche di conservazione o di espansione. A Roma, dove, com’è noto, l’attività edilizia ha avuto uno sviluppo vertiginoso e i problemi della tutela del patrimonio storico sono affrontati con disinvoltura – basta ricordare il contestatissimo nuovo involucro dell’Ara Pacis sul lungotevere di Ripetta o lo sventramento del Pincio per ospitare un megaparcheggio (opera quest’ultima poi bloccata dal sindaco Alemanno) – a Roma, le domande del condono 1994-2003 sono state più di 85.000, una quantità inverosimile, quasi la metà dell’abusivismo nazionale, mentre, a Napoli, sono state circa ottomila.

In secondo luogo, Demarco sostiene che i ragazzi del piano si sono strenuamente battuti perché non un mattone si eliminasse o si aggiungesse nel centro storico. Ma abbiamo ricordato sopra che la maggioranza delle domande di atti abilitativi approvate in vigenza della nuova disciplina urbanistica (consistentemente aumentati rispetto all’ancien régime) riguardano il centro storico. Proprio quel centro storico che durante tutti i decenni di vita del vecchio piano regolatore del 1972 era rimasto, allora sì, del tutto bloccato. Perché Demarco non si informa? Primo requisito del buon giornalista non dovrebbe essere la completezza e la qualità delle sue informazioni?

Ed eccoci al progetto Bagnoli che, secondo Demarco, non prende forma sempre per colpa dei ragazzi del piano. Ma egli sicuramente sa che – dopo l’approvazione del piano particolareggiato redatto dagli uffici comunali – l’operazione Bagnoli è gestita da una società ad hoc, caratterizzata soprattutto dalla lentezza esasperante con la quale opera. Da almeno un lustro il parco di Bagnoli doveva essere una realtà, si continua invece a tergiversare. Secondo me, la verità è che, in fondo, aldilà delle dichiarazioni rituali, quasi nessun esponente del Palazzo condivide davvero il progetto Bagnoli e si cerca l’occasione buona per rimetterlo in discussione. Ben due autorevoli soggetti, il Cresme e Rothschild-Acb Group, furono incaricati di verificare se le previsioni del vigente piano particolareggiato fossero davvero vantaggiose per l’interesse pubblico, anche dal punto di vista economico e finanziario, e i risultati furono nettamente positivi. Ciononostante, ogni occasione è buona per proporre incrementi di cubatura. Negli anni passati, la Coppa America parve fatta apposta per rimettere in discussione il progetto. Una caterva d’incompetenti, economisti da passeggio, giornalisti e architetti in lista d’attesa, continuarono a ripetere che 120 ettari di parco pubblico a Bagnoli erano un’esagerazione, che quello spazio doveva essere dato a chi sapeva farlo fruttare, che il portafoglio viene prima del verde pubblico, che il comune di Napoli non può sprecare le poche risorse di cui dispone per contentare i capricci di qualche anima bella. Già in altra occasione ho ricordato che a Ferrara, città di circa centocinquantamila abitanti, è prevista ed è in attuazione la cosiddetta “addizione verde” (in pendant all’“addizione erculea” di Ercole d’Este), un parco territoriale di 1.200 ettari, dieci volte più grande del previsto parco di Bagnoli. Il quale non è un lusso, è un’infrastruttura essenziale perché Napoli sia una città moderna. Non meno della metropolitana. Se Napoli non recupera posizioni nella graduatoria della vivibilità, dell’efficienza e della trasparenza, non esiste alcuna prospettiva di progresso economico e sociale.

Sia consentito infine chiedere a Demarco – e voglia scusarmi se continuo a utilizzarlo come interlocutore di comodo – se non ritiene che sia sbagliato, e anche pericoloso, sottovalutare l’indiscutibile trasparenza con la quale è gestito, a Napoli, un settore di fondamentale importanza come quello dell’urbanistica e dintorni. Non pensa Demarco che, in una città strozzata dalla camorra, dove vasti apparati della pubblica amministrazione sono inquinati da presenze malavitose o squalificati da amministratori disonesti, in una città nella quale, insomma, la questione morale si pone come determinante, il buon governo urbanistico, quasi anomalo nel panorama nazionale, non dovrebbe essere più puntualmente e favorevolmente segnalato ai lettori e all’opinione pubblica?

SALZANO - Vorrei concludere facendoti due domande, che mi si sono affacciate più volte nel corso delle tue riflessioni. La prima. Come mai l’urbanistica napoletana ha potuto svilupparsi così positivamente, il progetto di città che avevate configurato nel 1994 con il documento preliminare e la strategia allora delineata hanno potuto svilupparsi così compiutamente nonostante il degrado politico e amministrativo che vi circondava? Come mai quella strategia ha potuto superare indenne le fasi critiche che pure si sono manifestate nel passaggio dalla prima alla seconda giunta Bassolino? Devo dirti che a Venezia ho vissuto un’esperienza del tutto diversa. Lì avevamo ottenuto l’adozione di un piano per la città storica, faticosamente redatto con con Edgarda Feletti e Gigi Scano, che al mutar del clima culturale (la maggioranza politica era rimasta la stessa) è stato travolto dalla deregolamentazione. Lì ci ha certamente indeboliti il fatto che non c’erano i “ragazzi del piano”, cioè una struttura pubblica altamente qualificata, fortemente motivata, resa coesa dalle esperienze accumulate insieme. Ma anche la scarsa capacità di aggregare attorno al nostro progetto interessi sociali, necessità dei cittadini, speranze degli abitanti realmente consistenti. Il nostro collegamento con la società passava quasi esclusivamente attraverso i partiti (anzi, il partito), e una unità politica più larga che abbracciava quasi tutte le formazioni politiche presenti su alcuni grandi temi. Ecco allora la seconda domanda: a quali condizioni pensi tu che l’esperienza napoletana possa proseguire positivamente?

DE LUCIA - Non vi è dubbio che il sostanziale isolamento nel quale si sviluppa l’esperienza urbanistica napoletana determina condizioni di fragilità e, alla lunga, spinge su un binario morto, esponendo quell’esperienza a ogni rischio. Come successe nel 2003, al tempo del piano territoriale di coordinamento della provincia. Che avrebbe potuto e dovuto riprendere e rafforzare le linee del piano regolatore di Napoli, affrontando soprattutto le questioni non risolvibili in ambito comunale. Imboccò invece la strada del sacco edilizio, riannodando i fili della peggiore tradizione cementifera. Adottato con il consenso di tutti i partiti del centro sinistra, il piano provinciale prevedeva l’urbanizzazione di aree agricole della penisola sorrentina, del Vesuvio, dei Campi Flegrei, delle isole del golfo, in totale ben 25 mila ettari. Ma qui interessa soprattutto ricordare che anche quei brandelli di spazio miracolosamente scampati al massacro dentro il comune di Napoli – a Posillipo, allo Scudillo, nel vallone S. Rocco, nella piana del Sebeto, nella conca di Agnano, nella zona delle masserie di Chiaiano – e che il nuovo piano regolatore destina a parco regionale, sarebbero finiti sotto il cemento e l’asfalto. La catastrofe fu sventata grazie al tempestivo intervento di Italia nostra e Wwf e alla determinazione di Antonio di Gennaro che raccolse anche in un piccolo libro la cronaca della tentata strage, con splendide immagini dei beni a rischio .

in conclusione riprendo la questione dell’anomalia e del controsenso dell’esperienza napoletana rispetto a ogni altra situazione nazionale di scala equivalente. Ho ascoltato al Città territorio festival di Ferrara un memorabile intervento di Raffaele Cantone, il giudice bravo e coraggioso, profondo conoscitore della malavita dei nostri paesi. Secondo lui, la corruzione meridionale risiede in larga misura negli apparati pubblici, più ancora che nel personale politico. Quest’ultimo è soggetto a cambiamenti frequenti, anche repentini, mentre i funzionari sono gli stessi per lunghissimi periodi di tempo. Ed è lì, e specialmente negli uffici che si occupano di edilizia e di urbanistica, che si annidano le collusioni con la camorra, che si favorisce l’abusivismo, che si allestiscono devastazioni e scempi. nel comune di Napoli tutto ciò non succede, però – ed è questo l’aspetto inquietante – la buona amministrazione urbanistica napoletana non ha generato eredi. nessuno dei comuni circostanti ha seguito l’esempio del capoluogo, che resta isolato, anzi accerchiato dal vasto hinterland nel quale la pianificazione non viene praticata. Le responsabilità della politica regionale sono innegabili. La Campania e il Lazio sono le uniche regioni in cui decine di comuni non si sono mai dotati di un piano regolatore e dove i piani vigenti sono in prevalenza vecchissimi e snaturati dalle varian- ti e dalla malaurbanistica. Sono due facce della stessa medaglia. il disastro della Campania (e dell’intero Mezzogiorno) è figlio della stessa cultura politica che non valorizza, o addirittura ignora l’esperienza urbanistica napoletana, mal sopportata da molti amministratori e accusata dalla stampa, come abbiamo visto, di inaudite responsabilità. Come se ne volesse la omologazione allo standard medio circostante.

Infine mi hai chiesto a quali condizioni penso che l’esperienza napoletana possa proseguire positivamente. Mi sembra che l’intera nostra conversazione abbia posto in luce il progressivo affievolimento dell’azione politica riguardo all’urbanistica di Napoli. Questa è ormai quasi tollerata e forse subita, comunque è affidata alla sola iniziativa del gruppo dirigente tecnico. Se non si torna a una stagione di autentica ripresa del protagonismo politico nel governo della città, e più in generale nella politica sociale ed economica, l’esperienza napoletana è destinata certamente a estinguersi. Ma forse, grazie agli sconvolgimenti provocati dall’attuale crisi dell’economia planetaria, tutto torna in gioco, e anche l’urbanistica di Napoli potrebbe avere un migliore destino.

Questo dialogo tra De Lucia e Salzano ha avuto luogo nell’ottobre del 2008, e quindi non tiene conto di sviluppi successivi molto rilevanti per le questioni trattate, in particolare non era stata ancora approvata dalla regione Campania la legge regionale che espone anche la città di Napoli al rischio di una nuova manomissione.

Aprezzo molto la linea editoriale del Tirreno, che da tempo dà grande rilievo al dibattito sui problemi del territorio, mettendo in risalto la nuova linea della Regione in materia urbanistica, espressa dal presidente Rossi e dal nuovo assessore Marson che affermano di voler “sostituire le politiche di consumo del territorio con politiche di riqualificazione”; con l’assessore che sottolinea l’errore compiuto dalla Regione nell’aver dato totale autonomia ai Comuni “senza accompagnarla con adeguato sostegno”.

A tal proposito, mi preoccupano non tanto le reazioni scomposte da parte di molti amministratori, quanto le tesi ben più pericolose di coloro che respingono come infondata la critica della Marson e difendono la precedente politica della Regione, che, con la legge 1/2005 e soprattutto con il Pit del 2007, avrebbe emanato un quadro di prescrizioni sufficiente. Io, un moderato che non ha mai fatto parte di comitati di agitazione, apprezzo invece le parole della Marson, caso mai troppo timide nei confronti della precedente politica regionale; la quale va rivista su di un punto fondamentale: il controllo. La Regione, infatti, che è titolare di un potere costituzionale sull’urbanistica e l’ha correttamente delegato ai Comuni, in materia di pianificazione e governo del territorio poteva e doveva dare indirizzi attraverso il PIT, molto positivi, che però non erano sufficienti di per sé a evitare impatti devastanti del territorio; invece, non doveva spogliarsi totalmente dei suoi poteri costituzionali e mantenere quantomeno un minimo di controllo, certamente di legittimità, in misura limitata anche di merito, sulle scelte degli enti locali. Purtroppo abbiamo a che fare, anche in Toscana, con la cultura del tempo, che rimproveriamo a Berlusconi, ma che appartiene spesso anche ai sindaci: chi ha un potere, lo rivendica e lo vuole esercitare senza controllo alcuno.

Per smentire che la L.R. 1/2005 e il Pit 2007 siano sufficienti di per sé ad evitare abusi incredibili e confermare l’esigenza di un intervento di riforma, voglio citare il caso di Lucca, la mia città, amministrata da una maggioranza di centro destra. Il Piano strutturale di Lucca, del 2001, prevedeva circa 3 milioni di mq di superficie per interventi di edificazione (più di un quarto degli insediamenti esistenti!), di cui 400.000 per la residenza; il Regolamento urbanistico del 2004, dopo aver deciso di utilizzare per i primi cinque anni, tutti gli 890.000 mq destinati a residenziale, commerciale, ricettivo e produttivo, ha introdotto una serie di scomputi per la residenza, che hanno raddoppiato, illegittimamente, la potenzialità di questo settore, portandolo a 800.000 mq; l’Amministrazione, poi, per anni, non ha mai fatto un monitoraggio, come era indispensabile, tanto che si è costruito perfino in una UTOE che aveva previsione residenziale zero. Costretta, infine, a rendere pubblico il monitoraggio, è risultato che in molte UTOE si era sforato e si è dovuto bloccare tutto. Per superare le difficoltà e soddisfare le molte promesse fatte ad importanti gruppi di pressione, l’Amministrazione oggi è ricorsa ad un marchingegno incredibile, trasformando in modo illegittimo 135.000 mq di “funzioni diverse” (in prevalenza aree destinate a servizi) in residenziale; a chi ha chiesto spiegazioni, neppure una parola: l’Amministrazione sa che oggi, in Toscana, neppure l’arbitrio più incredibile dei Comuni può essere sanzionato.

Un fatto questo ben noto alla Regione e al precedente assessore all’urbanistica che nel 2002, dopo l’adozione del Regolamento urbanistico, non avendo altro modo di intervenire, fece ricorso al Tar, contro le gravi illegittimità, ricevendo purtroppo il responso che la Regione, avendo delegato i poteri ai Comuni, non aveva conservato neppure la legittimità a ricorrere in via amministrativa, possibilità che spetta persino al singolo cittadino.

Conclusione: io guardo con fiducia alla nuova politica urbanistica della Regione e spero che l’assessore non si faccia intimidire da chi, magari in buona fede, non si accorge che anche la Toscana ha bisogno di leggi migliori.

Sono rimasto sorpreso - e anche un po’ deluso - dalle reazioni a una mia intervista sulla questione ambientale all’Elba che preludeva alla presentazione del mio ultimo libro Nel nome del parco, un anno sull’arcipelago appena uscito per Effequ.

Avrei voluto suscitare un dibattito ragionato, ma il grido della pancia precede spesso la voce della ragione, anche negli individui più moderati. Non parliamo poi dei portatori di interesse, di chi ignora le questioni ambientali o di chi è in malafade.

Ma andiamo con ordine. Sono tre anni che faccio presenti le mie preoccupazioni sul futuro dell’arcipelago, se i suoi amministratori non sceglieranno con coraggio la strada della protezione ambientale, rinunciando a quella bulimia costruttiva che ha caratterizzato l’isola per decenni. Non ho detto che l’Elba è cementificata, ma che rischia grosso, visti i numeri, come quelli delle sanatorie e delle seconde case. Concetti ampiamente condivisibili, mi pareva, eppure c’è ancora chi continua a sostenere che qui si è costruito poco e che si dovrebbe puntare al modello Malta, un’isola ridotta a una piattaforma di cemento sul mare. E sono almeno tre anni che gli amministratori elbani insorgono, offesi non si sa bene da cosa, e che non rispondono nei contenuti, ritenendo

antipatiche le forme.

Oggi però qualcosa è cambiato e inviterei i sindaci dell’Elba a prestare attenzione ai segnali che provengono dalla società civile e dal resto della Regione Toscana e del paese. Infatti il rischio da me paventato non è solo una mia versione (dettata da chissà quale interesse di parte), ma ormai qualcosa di condiviso, a partire dalla “gente”: i lettori de Il Tirreno, per esempio, che mi invitano a non mollare; chi partecipa a blog tradizionalmente a me ostili, che oggi si dividono anche a mio favore; i turisti, che mi mandano decine di mail o messaggi su faceboock dello stesso tenore; gli intellettuali toscani e non, che sostengono le mie stesse posizioni (Settis per tutti); i partiti del centro-sinistra, che, fatta eccezione per il Pd elbano, si schierano in blocco con me. Anche il direttore de Il Tirreno Bernabò parte dalle mie considerazioni per un editoriale di prima pagina (intitolato significativamente “La guerra del mattone”) in cui, al di là dei toni, si invita a scegliere un modello di sviluppo meno legato al cemento.

E ancora: non solo Alberto Asor Rosa, ma anche il nuovo assessore all’urbanistica regionale Anna Marson, con il sostegno del neo presidente Rossi, esprimono concetti simili ai miei, facendo intravedere una sterzata a 180 gradi (”troppa autonomia costruttiva ai comuni”): il periodo di Conti sembra per fortuna chiuso per sempre. E un esponente importante del Pd livornese, il sindaco di Piombino Gianni Anselmi, dopo un pubblico dibattito in cui ho illustrato lo stesso rischio sulla costa, mi ringrazia e raccoglie il mio invito ad avere più coraggio nella costruzione di distretti di qualità ambientali in Toscana.

Tutti costoro sostengono pubblicamente gli stessi concetti espressi da me e che Legambiente arcipelago irrobustisce da anni con dati e esempi. Il presidente del Parco dell’arcipelago non è più solo, mi pare.

Qualche eccezione c’è, va riconosciuto, anche fra gli amministratori elbani: sostanzialmente il sindaco di Portoferraio mi da ragione sul passato e dice che i nuovi strumenti urbanistici non permetteranno più quegli scempi: bene, questo lo vedremo nel tempo. Il sindaco di Capoliveri, che non mi muove critiche dirette, o quello di Marciana che addirittura non si pronuncia affatto (ben sapendo che l’Ente Parco è forse l’unico in grado ancora di “aiutare” i Comuni) o quello di Rio nell’Elba, che non si sbilancia. Ma c’è anche qualche consigliere del Parco che mi concede “filosoficamente” ragione (è già qualcosa) e un ex sindaco del Giglio che mi difende a spada tratta. Qualche crepa nella diga.

Insomma si riconosce che, se in Italia si consumano 250.000 ettari all’anno di territorio, una parte la fa anche la Toscana (che da sola ne brucia quanto il Regno Unito) e, per forza di cose, anche l’Elba. Certo è più comodo sentirsi dire che tutto va bene e che non bisogna cambiare rotta: ma l’impressione è che rimarrano in pochi, asserragliati come quei giapponesi che non volevano rassegnarsi alla sconfitta in guerra e che sono rimasti per anni nascosti nella giungla. Per far finire l’età della pietra non è necessario che finiscano le pietre. Oh, è una metafora, che nessuno si offenda, vi prego.

C'è una nuova stella in città, anzi in Regione, e c'è una nuova dottrina. È finita l'epoca Conti, ora è il tempo dei professori e dei «volumi zero»: è iniziata l'era di Marylin Marson, l'anti-Conti. Insomma non c'è più trippa, pardon, calcina per i cementificatori. Gli avversari della nuova assessora Anna Marson dicono che è un'«amica di Asor Rosa», Paolo Cocchi su Facebook ha persino scritto che i comitati sono entrati «direttamente nella giunta regionale con la delega all'urbanistica. Una palingenesi... ». Giudizi affrettati, forse, che peraltro scatenano il segretario regionale dell'Idv Giuliano Fedeli: «È finito il periodo in cui si poteva teorizzare che il fine degli amministratori pubblici era quello dei "facilitatori"». Comunque, per ora la Marson assomiglia piuttosto a una nemesi prodotta dalle inchieste--- da Castello a Quadra, a Barberino--- degli ultimi anni, e averla presentata al neopresidente Rossi è forse il maggior successo politico di Pancho Pardi da quando vestiva i panni di Potere Operaio.

NON è la prima volta che la professoressa ricopre un incarico nella pubblica amministrazione. È stata assessore all'urbanistica della Provincia di Venezia dal febbraio 1998 al luglio 1999. Quell'esperienza l'ha raccontata in un libro «Barba Zuchòn town» (Franco Angeli) in cui si narrano le gesta di una urbanista alle prese col Nordest. Barba Zuchòn sta per «zio zuccone» e indica quei veneti un po' tardi e gran lavoratori, «così bravi a produrre e commercializzare merci», ma rivelatisi anche abili «a distruggere in modo difficilmente reversibile questo territorio un tempo decantato per la sua armonia». E come hanno fatto i «Barba Zuchòn che ci amministrano --- si chiede lei nell'introduzione --- a non accorgersi di incoraggiare la distruzione del patrimonio di noi tutti, anziché prevenirla? ». Chissà, magari fra cinque anni l'assessora scriverà qualcosa sui Barba Zuchòn toscani, anche se a dire la verità per quegli amministratori pubblici colpevoli, a suo dire, di svendere il territorio, un nome gliel'ha già affibbiato in quel saggio pubblicato dall'università tedesca di Giessen: marionette. Ecco, «Marionette town», come suona?

Alla fine del mandato, nonostante avesse redatto e portato all'adozione il piano territoriale provinciale di Venezia, la Marson non proseguì il lavoro nella giunta successiva, «per il mio rifiuto di iscrivermi a un partito come condizione per la conferma. Come noto, sono infatti i partiti a proporre i componenti di una giunta; persone non organiche a un partito, usualmente definiti "tecnici", vengono proposti soltanto quando c'è qualche problema di legittimazione tecnico-politica da affrontare». Lei, che arriva nella giunta come «tecnica » indipendente, seppure in quota Idv, sembra non fidarsi troppo dei politici, come scrive nel suo intervento al volume collettaneo «Più piazze, meno cemento. L'impegno della Cgil vicentina per restituire la città alla società. "Il caso Dal Molin"», Ediesse, a cura di Oscar Mancini, già segretario della Cgil di Vicenza: «Gli schieramenti politici non sempre rappresentano una garanzia, in quanto interessi concreti e di parte tendono troppo spesso a scomporli, ad attraversarli influenzandone le posizioni e le decisioni. Non si può quindi lasciare l'urbanistica ai tecnici (e i tecnici ostaggio dei politici)». Ma tutto sommato sembra essersi divertita a fare l'assessore provinciale. «Spesso --- scrive in "Barba Zuchòn town" --- mi sono sentita, in quest'ambiente politico- istituzionale, quale Alice nel paese delle meraviglie, circondata da relazioni e avvenimenti tra il misterioso e lo strampalato».

Sostiene la Marson che il territorio non è solo un fattore d'attrazione per nuove attività produttrici di reddito, ma anche «parte del nostro corpo e del nostro modo di essere: noi siamo ciò che mangiamo, siamo i luoghi che viviamo, siamo plasmati dalle interazioni sociali che i luoghi fisici possono facilitare od ostacolare. Bevendo o mangiando elementi inquinati, i nostri corpi si ammalano; vivendo in luoghi privi di senso, privi sia di razionalità rispetto alle diverse esigenze degli esseri umani (che come noto differiscono da quelle della rendita fondiaria) che di poesia, tendiamo a diventare simili a essi » (Più piazze, meno cemento). Non è dunque difficile capire il perché di quel giudizio sprezzante sui sindaci di San Casciano e Montespertoli. Nella relazione «Territorio» scritta per il convegno del 2006, «Federalismo e partecipazione», la neo assessora sostiene che l'insediamento della Laika è un esempio di «cattive pratiche» ordinarie nel trattare a nome dell'interesse collettivo progetti rilevanti di trasformazione del territorio. «La legge Lupi proposta dall'ultimo governo Berlusconi è quotidianamente anticipata, duole dirlo, dall'azione dei numerosi "lupi di sinistra" che popolano il nostro territorio e soprattutto le nostre istituzioni locali». Proprio contro la legge Lupi, insieme al suo compagno, l'urbanista Alberto Magnaghi, la Marson ha scritto un saggio per il libro a più mani «La controriforma urbanistica» (Alinea), definendola un «disegno di de-regolazione generalizzata», che nega la partecipazione dei cittadini, che promuove l'erosione di suolo, mentre per Magnaghi & Marson «il principio del blocco dell'ulteriore consumo di suolo è indispensabile per consentire la riqualificazione del tessuto urbanizzato esistente».

«Lupi» o «marionette» che siano, in Toscana per la Marson non mancano. Marionette sono gli amministratori locali che hanno gestito, «senza alcuna riflessione pubblica e senza consultarsi né con il Consiglio né con la popolazione», l'affaire Laika, l'azienda di camper che sta costruendo un capannone di 326 mila metri cubi a San Casciano. «Chi ci perde e chi ci guadagna? E quanto ci guadagna la Laika? Se facciamo due conti, da un lato il plusvalore fondiario realizzato qui e con lo stabilimento dismesso, dall'altro una vaga promessa di mantenimento dell'occupazione e sicuri effetti negativi sui valori degli immobili residenziali e rurali già esistenti in zona, nonché sull'attrattività turistica di tutta la zona circostante, il saldo appare decisamente negativo».

Ma non c'è solo la salvaguardia del paesaggio toscano nella dottrina Marson. Il 25 agosto 2009 la professoressa --- anche firmataria di un appello degli urbanisti italiani contro l'allargamento della base Usa Dal Molin--- incontrò a Vicenza don Albino Bizzotto, al suo settimo giorno di digiuno di protesta. «Non so quale testa malata--- disse---sia arrivata a ipotizzare una base militare all'interno di un territorio densamente urbanizzato, ai confini di una città storica e compatta qual è una città tradizionale. In questa base c'è la scelta sciagurata della localizzazione, di aver accettato inconsapevolmente, con ignoranza, il fatto che essa è diventato un esempio di come ormai la guerra si faccia ovunque». Tremate lupi, marionette e Barba Zuchòn, la Marson è tornata!

"Con Marson discuterò, litigherò.

Confronto con una donna competente"

Pietro Jozzelli Intervista

il presidente Enrico Rossi

La mattina dopo, Enrico Rossi ha gli occhi gonfi e l’aria stanca. Ma al nome di Anna Marson, la neo assessora al territorio, si accende subito. Presidente, a Manciulli, segretario regionale Pd, piace e non piace, la destra dice che i comitati hanno preso il potere, che succede?

«Succede che Anna Marson ha fatto il piano regolatore di Venezia [il Piano territoriale di coordinamento provinciale - n.d.r], e l’ha fatto bene. Succede che, se andiamo a vedere le cose in Toscana, qualche problema urbanistico c’è stato, che c’è una tendenza dei comuni a una continua espansione urbanistica. Davvero abbiamo fatto tutto sempre bene?

L’ho detto: basta con le casette a schiera, sono per il riuso del territorio, dobbiamo creare insediamenti produttivi facendo le cose molto per bene. In Toscana abbiamo una buona legge, ma si deve sempre cercare di migliorare, di affrontare le nuove situazioni. Anna Marson non è una sprovveduta, è un tecnico di grande qualità. Discuteremo, litigheremo, sarà un confronto con una donna competente. Sul suo giornale Alberto Asor Rosa ha offerto un ramoscello d’olivo, io sono una persona curiosa e voglio vedere che cosa può succedere. Siccome mi attirano le persone di qualità, dopo un’ora di colloquio con Marson e una notte passata a studiare il piano di Venezia mi sono convinto. E’ il mio modo di agire, il mio profilo. Vede, la prima cosa che farò sarà di discutere con lei di Castello e vedremo cosa ne uscirà. Non si può continuare a parlare di territorio un giorno in un modo un giorno in un altro, non si parla così dell’uso del territorio. Quanto alle reazioni politiche, chi mi ha nominato sapeva che non ero una persona accomodante, anzi io sono uno scrupoloso».

Qualcuno la critica per la scelta di alcuni assessori, frutto di accordi di partito o di pressioni romane.

«Mi hanno telefonato in tanti e anch’io ho chiesto a tanti. E allora? Non sono uno sciocco. So che cosa sono gli equilibri di partito, i rapporti con gli alleati, l’autonomia decisionale che mi è garantita dalla legge. In giunta non ho messo né il geometra di Berlusconi né il medico di Bossi. I due tecnici, alla sanità e al territorio, sono di grande competenza. Eppoi: che senso aveva rompere con Siena o perché non dovevo mettere una presenza del cattolicesimo democratico?»

Rossi si riferisce alla nomina di Ceccobao, sindaco di Chiusi, già nella Fondazione del Monte dei paschi, molto appoggiato dai senesi. E alle polemiche degli aretini che hanno visto escluso Ceccarelli. E si riferisce alla riconferma di Salvadori, molto perorata dai leader romani del partito. Funzionerà presidente?

«Vediamo, io sono contento. Cinquanta per cento di donne, la giunta regionale con meno assessori d’Italia, deleghe precise e ben accorpate. Scaramuccia dovrà affrontare la trasformazione della nostra sanità. Vedrete, ci saranno grosse novità (una ipotesi, la riduzione del numero delle Asl e delle aziende ospedaliere, ndr)».

E l’economia?

« E’ il tema unificante di tutto il lavoro che farà la giunta. E’ stata la mia priorità nella campagna elettorale. E’ la strada da battere per ammodernare la regione. E’ il mio impegno numero uno e ne sarò il responsabile principale. E’ già avvenuto negli ultimi due anni di Martini quando la crisi ha imposto strumenti eccezionali e piani eccezionali. La Toscana è stata la regione d’Italia in cui si è visto il massimo intervento. Il lavoro con Simoncini è già cominciato».

Che cosa ha chiesto agli assessori durante il primo incontro di giunta?

«Essere il più esigenti possibile con se stessi. Io lo sono con me. Voglio che facciano lo stesso. Poi ho chiesto a tutti, visto che i volti nuovi sono tanti, di parlare un po’ di se stessi, insomma di cominciare a creare la squadra. Io sono il responsabile politico e il garante di tutta la giunta. E lo dico a tutti: non ci sono né gli assessori di un partito né quelli di un territorio. Adesso il governo è formato, cominciamo a lavorare».

"Sviluppo si ma anche tutela"

Ernesto Ferrara intervuista

l'assessore Anna Marson



«SVILUPPO industriale si, ma senza più dimenticare la tutela del

territorio». Anna Marson, la docente chiamata da Rossi a guidare l'

urbanistica, mette subito le cose in chiaro. DI MONTICCHIELLO aveva subito

parlato come di un «esempio negativo di gestione del territorio». Dell'

insediamento della Laika (azienda di caravan) a San Casciano ieri ha

spiegato che è vero che «occorre la massima attenzione per la tutela dei

posti di lavoro ma prima di autorizzare con un variante l' insediamento di

un nuovo stabilimento industriale in un' area delicata dal punto di vista

ambientale come quella di Ponterotto, lontana dalle infrastrutture e

vicina a un fiume, occorreva valutare altre opzioni e semmai l' idea di

concedere il terreno per qualche anno all' impresa senza autorizzare il

cambio di destinazione». «Niente sviluppo senza tutela», è lo slogan dell'

assessore più inaspettato della nuova giunta regionale. Trevigiana, 53

anni, saltata fuori all' ultimo tuffo dall' Idv, Anna Marson, amica e

vicina di casa di Pancho Pardi, da più parti definita «movimentista» e

però autrice di un piano regolatore della Provincia di Venezia da tutti

ritenuto solido e innovativo, si ritrova in mano le deleghe che furono del

democratico Riccardo Conti.

Docente di Architettura all' Università di Venezia, la città dove ancora risiede, è sposata con un toscano e vive da anni a Montespertoli. Proprio il Comune al centro nell' ultimo anno di una drammatica vicenda giudiziaria legata ad interventi lesivi del territorio e dove però lei individua un «segnale di speranza»: «Il metodo dell'urbanistica partecipata adottato dal nuovo sindaco di Montespertoli, il Comune dove vivo e che pure è stato al centro delle note vicende

giudiziarie, è da questo punto di vista la conferma che non tutto è

perduto».

Lei non fa annunci: «Non sono ancora nemmeno assessore», ricorda (martedì la prima riunione di giunta in cui saranno ratificati i ruoli

della squadra di Rossi) sbilanciandosi solo su due fronti: «Grande

attenzione ai modelli europei più innovativie apertura ai giovani a cui

voglio spalancare le porte del mio assessorato».

Nel Pd c' è chi storce il naso: «Troppo movimentista». «Singolare definirla così - interviene Rossi - lo sviluppo deve stare insieme alla lotta alla rendita e alla salvaguardia del territorio, sono sicuro che Anna farà bene, nessuno vuole contraddire la precedente gestione urbanistica, occorre solo cercare di migliorarla». «Rossi ha assegnato l' urbanistica ad un Pancho Pardi in salsa rosa che condannerà la Regione all' immobilismo», attacca il coordinatore regionale Pdl Massimo Parisi. E Marson? Non fa una piega e replica da «lady di ferro»: «Mi giudicherete dal lavoro che riuscirò a fare, non dalle dichiarazioni».

La Sardegna difende la supertassa

di Giovanni Maria Bellu

CAGLIARI - Nella regione sarda informatizzata di Renato Soru, gli umori popolari arrivano via e mail. Ce n’è anche uno di Giulia Maria Crespi che incita: "Andiamo avanti così, anche per le coste". Ce n’è un altro, entusiastico, di una giovane fan: "Lei è un mito". La Casa delle libertà, che subito dopo l’approvazione della "tassa sul lusso" aveva paventato "danni per il turismo", non ha insistito nella polemica. Forse perché gli stessi operatori del settore non la pensano così. Il più importante di tutti, Tom Barrack, il padrone della Costa Smeralda, già da tempo si è detto d’accordo sulla tassa con la sola condizione che il ricavato sia investito per la valorizzazione del territorio. Ed è quanto la nuova legge prevede.

Il favore con cui il provvedimento è stato accolto in Sardegna non deriva solo dal fatto che gli isolani sono esclusi dalla tassazione. Ci sono ragioni più antiche e profonde che connettono la "tassa sul lusso" con altre iniziative della giunta Soru: la chiusura della base americana della Maddalena, il divieto di edificare nella fascia costiera a due chilometri dal mare, l’ingresso della lingua sarda negli atti amministrativi della Regione, l’avvio della realizzazione della biblioteca digitale della cultura sarda, dove sono state già inserite 50.000 pagine di documenti. Il "nuovo sardismo" dell’ex patron di Tiscali continua a tirare: nelle elezioni politiche il centrosinistra ha aggiunto 75.000 voti a quelli conquistati alle regionali di due anni fa.

E’ da verificare quanto la "tassa sul lusso" porterà nelle esangui casse della Regione sarda. Stime non ufficiali parlano di circa 150 milioni di euro l’anno, somma rilevante a fronte di un bilancio complessivo di 4,5 miliardi di euro ma insufficiente a coprire i mancati introiti (circa 400 milioni l’anno) causati, secondo l’amministrazione isolana, dal mancato versamento da parte dello Stato di quote dell’Irpef e dell’Iva riscosse in Sardegna. I conti economici, insomma, non sono ancora del tutto definiti. Quelli morali, a quanto pare, cominciano a quadrare.

Tutti in Sardegna conoscono l’aneddoto sulla nascita della Costa Smeralda. Era il 1961 quando gli emissari dell’Aga Khan, che avevano appena cominciato a fare incetta dei terreni costieri, offrirono un miliardo a un anziano capraro. "Altro che un miliardo - rispose l’uomo - voglio almeno 800 milioni!" Da molti anni questa storia ha smesso di suscitare ilarità. E’ diventata la sintesi di una regione totalmente incapace di valorizzare le proprie risorse, di aver cura dei propri tesori. C’è anche questo dietro i consensi che il "nuovo sardismo" continua a raccogliere.

Secondo l’assessore al Turismo, Luisanna De Pau (che è a sua volta un imprenditore turistico) la tassazione delle residenze al mare non solo non farà diminuire il numero dei visitatori della Sardegna, ma agevolerà gli imprenditori del settore. Si calcola che a fronte di 160.000 posti letto censiti e regolarmente classificati ce ne siano altri 4/500.000, in nero, nelle seconde case. La stessa stima porta almeno a raddoppiare il numero reale dei turisti che ogni anno visitano la Sardegna: le presenze non sarebbero dieci milioni, che è il dato ufficiale, ma almeno venti milioni. E’, secondo Soru, la principale industria sommersa dell’isola. "Di tutto questo - dice l’assessore al turismo - non ci resta nulla in termini di posti di lavoro e, quando i proprietari non sono sardi, nemmeno di introito fiscale". Sempre secondo le prime stime, appartengono a "continentali" il 30/40 delle seconde case.

Gli amministratori regionali ritengono che non esistano problemi di legittimità per la "tassa sul lusso". "Dal punto di vista formale - spiega Fulvio Dettori, il segretario generale - abbiamo raggiunto la conclusione, confermata per esempio da un costituzionalista come Valerio Onida, che questo provvedimento rientra nei poteri dell’amministrazione". Ma c’è un argomento sostanziale, che riguarda l’equità del provvedimento. "I nostri interventi a tutela dell’ambiente - dice l’assessore alla Programmazione Francesco Pigliaru - e in particolare il blocco dell’edificazione nella fascia costiere, hanno determinato un incremento di valore dell’intero patrimonio abitativo. Il contributo che chiediamo non è affatto esoso". Concetto riassunto da Soru con una battuta: "Non si capisce perché nelle spiagge chi pianta un ombrellone debba pagare dieci euro e invece chi si sistema in uno dei nostri golfi con una barca di cinquanta metri non debba pagare niente. Quanto chiediamo corrisponde a quanto, molto spesso, viene speso in una serata in un locale alla moda".

Soru: "Chi ha di più paga di più

non sono Ghino di Tacco"

di Alberto Statera

Aveva promesso qualche mese fa di far sequestrare a Tremonti la scrivania di Quintino Sella e l’intero palazzo umbertino di via XX Settembre, sede del ministero del Tesoro, per l’inadempienza dello Stato nel versamento delle quote Iva e di imposte spettanti alla Sardegna. Ora Renato Soru, il Robin Hood di Sanluri, il vendicatore del Supramonte o, tout court, di «su populu sardu», dopo aver «cacciato» gli americani dalla Maddalena, ha fatto di peggio. Ha istituito una sorta di tassa sul lusso di terra, di mare e di cielo - ville, yacht e jet - dei non sardi, beccandosi dal centrodestra almeno l’epiteto di «comunista», avanguardista del partito delle tasse che con Prodi spennerà il paese. Figuratevi se qualche miliardario di Porto Rotondo che si vedrà tassare la villa da 5 o da 50 milioni di euro, magari il proprietario dei 2500 metri quadrati coperti di villa «La Certosa» tra un numero sconfinato di ettari, non ricorrerà in tutte le sedi contro l’ignobile balzello marxista.

Forse, governatore Soru, gli incazzati hanno qualche ragione: ponga il caso di un sardo che si compra una casa a Varazze per passare le vacanze. Che direbbe lei se gli mettessero una tassa?

«Guardi che non abbiamo nessuna intenzione di dividere l’Italia a fette o di far pagare diritti di signoraggio. Non sono un Ghino di Tacco sardo. Ma il turismo e le seconde case sono la principale attività della nostra regione, sono ciò che per l’Italia del nord, per il Veneto, sono i capannoni delle piccole industrie».

Le seconde case come il distretto degli occhiali nel Bellunese o quello delle scarpe nel Vicentino? Il distretto sardo delle seconde case e degli gli yacht a Porto Cervo?

«Esattamente, la Sardegna come il distretto delle piastrelle. Ma il reddito delle nostre piastrelle, 250 mila seconde case e migliaia di yacht, non viene qui, va fuori».

Non ci ha risposto sul sardo ipertassato a Varazze.

«La Sardegna è una regione a statuto speciale, con compiti speciali, con responsabilità e competenze in molte aree, con costi diversi dalle altre regioni. Oltre alla partecipazione all’Iva prodotta in Regione, che non ci viene corrisposta dallo Stato per molte centinaia di milioni di euro, abbiamo la possibilità dell’imposizione fiscale per far fronte ai nostri immensi compiti. Secondo lei verso chi dovremmo usare questa potestà? Verso i lavoratori dipendenti che non arrivano alla fine del mese? Verso i disoccupati?».

Supponiamo verso i ricchi, presidente.

«Verso chi fa uso privato e non produttivo di valori ambientali tutelati, di risorse scarse».

Insomma, lei vuole vendere ai ricchi d’Italia e del mondo una sorta di «pacchetto amenità»?

«Non mi sembra di dire un’eresia sostenendo che si partecipa sulla base delle proprie capacità contributive: chi ha di più contribuisce di più, chi ha meno di meno. L’utilizzo delle scarse risorse ambientali deve andare a beneficio della collettività sarda. Bisogna contribuire allo sviluppo delle zone interne, redistribuire il reddito per creare opportunità uguali per tutti, sulle coste e all’interno».

Presidente Soru, redistribuzione è una parolaccia per chi ci ha governato fino a ieri e forse per parte cospicua degli italiani.

«E invece sa io che le dico? Che contrariamente a quel che ho sentito dire da un importante personaggio politico, lei sa chi, penso che i figli dei ricchi e quelli dei poveri debbano avere le stesse opportunità».

Va bene, ma lei non ci sta forse dando un assaggio di autonomismo un po’ troppo spinto? Non farà dei «continentali» dei nemici?

«Per carità, nemici solo per una piccola tassa sui valori immobiliari che si sono incrementati di centinaia di volte e che si valorizzeranno ancora per la politica di tutela ambientale? I continentali sono gli amici più vicini. Chiedano la residenza in Sardegna, li accoglieremo a braccia aperte».

Non andranno in Costa del Sol?

«Una piccola tassa non sposta le preferenze dei turisti e dei proprietari di seconde case diventate uno straordinario investimento».

Fatto sta che, passato Berlusconi che voleva abolire l’Ici, e lei governatore, e non Prodi, che con la super Ici fa l’avanguardista del centrosinistra come partito delle tasse.

«Guardi che il centrosinistra non è il partito del tasse, è il partito delle pari opportunità».

Quindi non pignorerà a Prodi e al suo ministro dell’Economia la scrivania di Quintino Sella?

«Ci sono giuste ragioni da tutte e due le parti, Prodi lo sa, il problema della ripartizione dell’Iva sarà risolto. E Quintino Sella può riposare tranquillo».

Il 20 ottobre scorso, La Giunta Regionale della Puglia ha adottato lo “schema” di Piano territoriale paesaggistico regionale, di cui sono consultabili la relazione, le tavole e le norme nelle pagine del sito web del piano

L’adozione del nuovo piano paesaggistico è un evento molto importante per diverse ragioni. Innanzitutto perché "il contesto culturale in cui questo piano interviene è un contesto in cui la pianificazione non è la forma ordinaria di governo del territorio. Gli sforzi compiuti dall’attuale amministrazione regionale per mobilitare la società pugliese sono essenziali a compiere la trasformazione culturale necessaria a riconoscere l’utilità del pianificare le scelte relative alle trasformazioni del territorio, bene collettivo per eccellenza" (1).

Il nuovo piano può essere considerato l’esito conclusivo di un percorso, coerente e faticoso, compiuto durante il primo mandato dell’amministrazione di centro-sinistra (in particolare da parte dell’assessore Angela Barbanente) per far sì che la pianificazione torni ad essere lo strumento fondamentale per il governo del territorio, assicurando in questo modo che l’azione ammnistrativa sia fondata sul rispetto delle regole e la trasparenza delle scelte.

Quanto al mirabile mosaico di paesaggi pugliesi, straordinariamente ricco e diversificato, il piano si fonda sull’assunto che esso costituisce

"il principale bene patrimoniale (ambientale, territoriale, urbano, socio culturale) e la principale testimonianza identitaria per realizzare un futuro socioeconomico durevole e sostenibile della regione" (2). La conservazione del paesaggio assume perciò un significato specifico in relazione al modo in cui si interviene sul presente e, soprattutto, in cui si guarda al futuro. Non si tratta, semplicemente, di sottrarre alla trasformazione (rectius, alla devastazione) alcune porzioni isolate di territorio, ma di proporre un assetto complessivo del territorio nel quale assumono un ruolo portante le azioni di conservazione dei beni tuttora integri, di recupero delle parti degradate, di ampliamento delle possibilità di fruizione - compreso il godimento della bellezza - da parte dei cittadini pugliesi e dei visitatori. Si tratta quindi di immaginare un modo differente di abitare, produrre, consumare e muoversi che non si ponga in aperto conflitto con il territorio e che, viceversa, sia capace di riprodurre ed esaltare le qualità e i caratteri specifici che caratterizzano le identità dei luoghi (3). E, conseguentemente, si tratta di selezionare e indirizzare la spesa pubblica e l’azione amministrativa, per incentivare tutte e solo quelle attività che sono coerenti con questa visione del futuro, descritta nel piano, discussa con i cittadini, e deliberata nell’assemblea regionale.

(1) Relazione generale, p. 5.

(2) Relazione generale, p. 14.

(3) Su questo punto si rinvia agli scritti e alle ricerche condotte da Alberto Magnaghi, il coordinatore scientifico del piano paesaggistico. Su eddyburg, cfr. in particolare Il territorio come bene comune.

Polverizzato. Più letale di una benna il Tar ha demolito il castello di accuse tirato su dal comune di Azrazchena al Piano paesaggistico regionale. Sarò anche una vittoria postuma per la giunta guidata da Renato Soru, ma i giudici pezzo dopo pezzo smontano tutte le osservazioni fatte dal comune culla della Costa Smeralda. La sentenza, che fa scuola, ribadisce la bontò della filosofia del Ppr e mette ordine in un area in cui ogni granello vale oro. Solo se ricoperto da cemento armato. Il muro di eccezioni, che l’amministrazione ha presentato per abbattere il Ppr, viene abbattuto dai giudici. Si spezza il principio portato avanti nel ricorso del Comune. Più cemento-più denaro- più sviluppo. Il Ppr non trasforma il territorio della Costa Smeralda in una riserva integrale, ma dà regole certe. Questo è il principio che sembra ribadire il Tar con questa sentenza. Filosofia applicabile in tutti i centri dell’isola. Tra gli argomenti al centro del ricorso l’istituto delle intese. La procedura per cui il Comune presenta una serie di progetti alla Regione e chiede che vengano approvati. Secondo Arzachena è uno strumento arbitrario che spoglia l’amministrazione del suo potere di decidere. Ma il Tar rovescia il punto di vista. Le intese sono una gentile concessione della Regione alle amministrazioni che non sono state capaci di adeguare il piano urbanistico alle regole del Ppr. La Regione non voleva che tutto si fermasse nei centri costieri in attesa del varo dei nuovi Puc. Per questo ha proposto di portare almeno i progetti più importanti a Cagliari. Per discuterli insieme e trovare una intesa. «I comuni non sono obbligati a chiedere l’attivazione dell’intesa — riporta la sentenza —. Si possono limitare ad adeguare con la dovuta sollecitudine il Puc al piano paesaggistico». Ma già dalle prime righe il Tar comincia l’opera di demolizione. I giudici puntano l’indice contro il comune di Arzachena che nel suo ricorso non avrebbe fatto distinzione tra fascia, e ambito costiero. Per i profani due sinonimi. Per il Ppr due cose diversissime. La fascia è l’area vicina al mare, l’ambito è il territorio nel suo complesso. La fascia costiera è tutelata con maggiore rigidità. Arzachena, che si trova a 5 chilometri dal mare, sosteneva di essere considerata dal Ppr come fascia costiera. Ma il piano paesaggistico la individua come ambito costiero. Un’area che vive di e sul mare. Finezze non solo da giuristi, ma che hanno un peso che si misura in metri cubi di cemento. In ogni caso il Tar affonda questo punto forte del ricorso. «La Gallura costiera nord orientale è stata esaminata nelle sue componenti, non si può tracciare una linea netta di demarcazione che distingua la parte paesaggistica costiera da quella insediativa interna. Tutta l’area è un unicum di cui fanno parte sia i territori sul mare, sia quelli e interni». Un altro paletto il Tar lo fissa anche per la strada Olbia- Santa Teresa. Da sempre Arzachena chiede la quattro corsie. La giunta Soru ne ha programmato una a due corsie. Anche su questo punto i giudici mettono punti fermi. Il Comune si lamentava. «Perché la Regione — riporta il ricorso presentato da Arzachena — con la ricomprensione in ambito costiero delle aree interessate alla viabilità a quattro corsie Olbia-Arzachena ha con palese sviamento vietato la realizzazione dell’opera ». Ma anche questo punto viene spazzato via dal tribunale che ribadisce la assoluta discrezionalità della Regione nel dare regole e pianificare lo sviluppo del territorio come meglio crede. In altre parole a decidere deve essere Cagliari.

Alla fine i falchi di Forza Italia hanno dovuto cedere e il consiglio regionale della Sardegna ha approvato l'articolo del decreto salva coste, il numero 3, che impedisce di costruire entro una fascia di due chilometri dal mare. Per bloccare la decisione della giunta presieduta da Renato Soru l'opposizione aveva presentato 3.800 emendamenti. Guidata da Mauro Pili, ex presidente della Regione, alter ego in Sardegna del presidente del Consiglio, il centrodestra puntava a bloccare i lavori del consiglio e a impedire l'approvazione della legge finanziaria regionale entro la fine dell'anno. Ma le cose sono andate storte. Pili, alla fine, è rimasto isolato all'interno della stessa minoranza. Il braccio di ferro è finito a favore del centrosinistra. Alleanza nazionale si è sfilata, lasciando Pili solo a sostenere la linea dello scontro istituzionale. Al partito di Fini si è accodato quasi tutto il resto dell'opposizione, che ha deciso di rinunciare all'ostruzionismo e di discutere la legge in consiglio a termini di regolamento. In sostanza, il centrodestra ha riconosciuto alla maggioranza il diritto di legiferare, senza per questo rinunciare a modificare il decreto in aula. Dopo l'intesa tra centrosinistra e centrodestra Pili ha reagito con dichiarazioni molto polemiche, accusando i partner della coalizione di centrodestra di fare «un'opposizione morbida e in pantofole». Puntuale la replica del capogruppo di Alleanza nazionale in consiglio, Mario Diana: «Ma quali pantofole. Alleanza nazionale farà un'opposizione dura, ma nei limiti della democrazia. L'accordo sul disegno di legge esiste, ma riguarda solo i tempi e non i contenuti». E poi, una puntualizzazione che è anche una «frecciata» al leader di Forza Italia: «Non siamo noi ad aver perso le ultime elezioni, ma Pili». Nel confronto con Soru, Pili ha perso con un distacco nettissimo a favore del leader del centrosinistra (un centrosinistra allargato, in Sardegna, ai movimenti e a Rifondazione Comunista). Il contrasto tra Pili e An riflette a livello locale le tensioni che a Roma agitano la Casa delle libertà. Dopo l'accordo con l'opposizione, la discussione del disegno di legge sulle coste è ripresa a ritmi normali. L'articolo cardine, il 3, è già passato. Ed è un vero e proprio mutamento di paradigma. Il divieto di costruire entro la fascia di due chilometri ferma tutti i progetti speculativi e tutti i piani immobiliari che molti comuni avevano fatto passare, nei cinque anni di governo del centrodestra, con il sostanziale appoggio della giunta regionale. Il saccheggio indiscriminato viene bloccato. Il disegno di legge fissa i criteri generali di una programmazione che mette al centro la tutela dell'ambiente.

Gli interessi che vengono colpiti sono enormi. Tra i progetti bloccati quello di Costa Turchese, a sud di Olbia, dove una società di Marina Berlusconi, figlia del presidente del Consiglio, vorrebbe realizzare un maga villaggio turistico. Ma viene bloccato anche il progetto di raddoppio della Costa Smeralda messo in cantiere da Tom Barrack, il miliardario texano che ha acquistato il paradiso sardo delle vacanze per vip da Karim Aga Khan. Così come vengono fermate colate di cemento già pronte a deturpare le coste di Bosa, di Alghero, del Sulcis e dell'Ogliastra. Interventi che, considerati tutti insieme, prefigurano una sorta di città lineare, fatta di seconde case, di villaggi turistici e di alberghi, che si estenderebbe su tutto il perimetro delle coste sarde. Interessi imprenditoriali, quelli toccati dal decreto, che si appoggiano soprattutto a Forza Italia. Anche per questo An ha deciso di mollare Pili e di lasciarlo solo a sostenere la linea dell'ostruzionismo a oltranza. Ora il fronte della protesta dura si è spostato dal consiglio regionale ai Comuni ed è guidato da sindaci di centrodestra. In prima fila il sindaco di Olbia, Settimio Nizzi, e quello di Arzachena, Pasquale Ragnedda. Il più intransigente è Nizzi, che sui progetti di cementificazione delle coste ha puntato tutta la sua campagna elettorale, sostenuta in prima persona dal Cavaliere.

Nei primi anni ‘90 la Regione decise di vincolare una fascia di 300 mt. dal mare raddoppiando la misura in vigore. Poi i piani paesistici, che accoglievano la norma, sono stati annullati (un primo gruppo già nel ‘98) e da allora la politica, eludendo i tentativi di riaprire il dibattito, ha scelto la strada dell’attesa; conveniente specie per chi non ha mai nascosto l’idea di fare saltare tutto il quadro delle regole.

Il vincolo temporaneo per una fascia di 2 km. dal mare posto dalla giunta regionale è un provvedimento annunciato. In campagna elettorale Soru ha continuamente affermato l’intenzione di ampliare il regime di tutela, giudicato insufficiente. Per salvare il salvabile è un’ accortezza indispensabile.

Ma è la contrarietà degli avversari di questa linea (e la equidistanza di altri) che ne spiegano la giustezza. Una cuccagna l’assenza di regole

che darebbe il tempo di assestare gli ultimi colpi: tante case in libertà, almeno quante se ne faranno comunque, per via di molte concessioni già rilasciate.

Ma le ragioni contro il decreto si ammantano di significati alti: «contrario ai metodi raffinati della pianificazione», «in dispregio all’autonomia dei

comuni», «contro lo sviluppo turistico» ecc. Ed è curioso che chi invoca la certezza del diritto oggi, non lo abbia fatto quando vi erano territori

con e territori senza piano paesistico.

Ma nessuno nega che la sottrazione, per legge regionale ed extra-piano, di parti dei litorali alla trasformazione (la deprecata fascia di rispetto

dei 300 mt.) abbia scongiurato un danno di considerevoli proporzioni.

Non è vero d’altra parte che il ricorso a queste misure sia operazione astratta. Per alcuni beni, a rischio di danni irreversibili, i vincoli si sono ampliati per corrispondere a crescenti riconoscimenti di valori.

Grandi parti delle città italiane sono sostanzialmente immodificabili, aldilà di dettagliate analisi urbanistiche (non solo i profili delle più note piazze e strade delle città storiche ma gli assetti di una miriade di paesaggi urbani minori sono vincolati). Appunto nelle città d’arte - care ai turisti più delle spiagge sarde - un metro cubo in più varrebbe una fortuna e tanti metri cubi sarebbero una disgrazia. La tesi secondo cui i vincoli aumentano la rendita delle preesistenze lascia il tempo che trova.

Verso i paesaggi naturali il processo di affezione avviene con più lentezza. Le misure di rispetto non sono che il riconoscimento a siti dove le sensazioni

di chi si guarda attorno sono più forti, che aumentano quanto più ci si avvicina alla riva del mare, come al nucleo di un bosco, alla cima di un

monte, a un nuraghe. Difficili da definire esattamente e variabili («tu chiamale se vuoi emozioni», semplificava Lucio Battisti).

E il grado elevato di intensità emotiva di questi ambiti, che si può alterare con poco, è confermato guarda caso dal valore di mercato - qui la rendita

immobiliare è molto alta - che si spiega con le ricorrenti richieste di possesso esclusivo.

È così irragionevole ipotizzare di allontanare l’edificazione in modo da lasciare intatti quei luoghi - e quelle emozioni - a vantaggio di molti? Chi può affermare che i turisti, per esempio quelli che hanno cominciato a disertare la Sardegna, non apprezzino questo riguardo verso il carattere

dei luoghi, anche oltre i 300 metri dal mare?

È cresciuta l’esigenza di tutela dei litorali sardi, oltre quella linea credo. La soglia di sopportazione verso le alterazioni dei siti più delicati è stata ampiamente superata, e i sardi - non solo quelli residenti nei comuni marini - e i forestieri guardano con indignazione ai danni, questi si pregiudizievoli

per il turismo. Fermarsi un anno a fronte di scelte che si trasferiranno nel tempo lunghissimo è opportuno: si scoprirà che non servono altre residenze sparse ma al più qualche buona (e vera) attrezzatura ricettiva meglio se localizzata all’interno dei preesistenti insediamenti.

Potrà riflettere quel sindaco che ha fretta di avere villaggi sulla costa con un centro storico mezzo vuoto, e convenire che una estensione del regime

di tutela, cioè piani paesistici più rigorosi di quelli annullati, potrà avvantaggiare il suo comune.

La Regione ha il compito di continuare nella strada intrapresa perchè tra l’altro ha molto più consenso di quanto si vuole fare apparire. Se ne dovrebbero

convincere gli alleati di Soru, quelli titubanti e che si collocano in quelle zone grigie, né di qua né di là, in attesa di vedere come andranno le cose.

“Abbiamo fatto parlare tutti quelli che si sono iscritti a parlare e alla fine della giornata ce ne andremo da qui avendo più ascoltato che parlato. Ci sono stati più di 25 interventi e io ringrazio tutti singolarmente, da ciascuno di questi interventi c’è qualcosa di prezioso da cogliere, importante, anche quando magari il gioco delle parti ha avuto un ruolo troppo importante e anche quando la polemica forse poteva essere stemperata.

I temi sul tappeto sono moltissimi, contagiati da tante cose, le considero tutte, cercherò di far tesoro di tutte, partendo da quella che sottolinea che forse non abbiamo rispettato troppo il cerimoniale con il presidente della Provincia, il sindaco del Comune, però francamente mi sembrano questioni ridicole. Abbiamo fatto in fretta questo incontro di lavoro perché dobbiamo lavorare in fretta per i motivi che voi ci avete sottolineato, senza troppi cerimoniali, incontrandoci da pari come voi avete detto perché c’è da fare. Rappresentiamo istituzioni diverse con responsabilità diverse che tutte assieme collaborano, secondo il principio di equanimità al Governo di questa Regione. Non abbiamo pensato di fare troppe cerimonie, abbiamo fatto le cose in fretta spendendo poco denaro pubblico ma cercando di essere più efficienti possibile.

Ringrazio comunque il sindaco del comune di Alghero per averci ospitato, non l’abbiamo voluta disturbare perché non cercavamo nulla di particolare, cercavamo una sala dove incontrarci e parlare un po’. Però le devo riferire i complimenti che sono già stati fatti per la sua città, perché sono venuto ieri sera e ho passato una bella serata passeggiando per i Bastioni, e mi devo complimentare per la piacevolezza di passare una serata in questa città. Capisco il successo di questa città, per la piacevolezza di far turismo qui e basta una serata ad Alghero per capire che differenza c’è tra visitare una lottizzazione costiera o un villaggio inventato o uno nuovo, o una specie di presepio di cartapesta, un paese vissuto dalla gente, un posto vero che attiri la gente, che l’attiri tutto l’anno e che non si monti e smonti come un presepio che dura solo 20 giorni di architetture di venti anni, un progetto che ci costa sempre un sacco di soldi e che ogni anno dobbiamo ricomprare. Questa è la differenza tra diversi tipi di turismo: fra un luogo di cartapesta e un luogo vero. Suggerisco a tutti una serata ad Alghero, a tutti quelli che hanno responsabilità per programmare il turismo nel loro territorio.

Ho detto che faccio tesoro di tutti gli interventi. Anche se volessi riassumere un pochino gli interventi ne viene fuori che ho sentito poche autocritiche oggi. Parliamoci francamente, ho sentito veramente poche autocritiche da parte degli amici, eppure tutti saranno immagino amministratori pro tempore come lo sono io e quindi non hanno magari responsabilità del passato. Sembrerebbe che tutto va bene, tutto va benissimo. L’ambiente della Sardegna è stato sempre salvaguardato dalle amministrazioni locali, quello che abbiamo realizzato è tutto bellissimo, come dicono, e ciò che stiamo facendo è tutto buonissimo. Il turismo anche quest’anno sta esplodendo e ci sta portando una montagna di lavoro, gli operatori turistici sono tutti contenti, va tutto bene, per cortesia lasciateci lavorare, non disturbateci.

Questo è un pochino il riassunto brutale degli interventi, però non credo sia così perché, se chiediamo a tanta gente che va in giro per la Sardegna, che va in giro per le coste della Sardegna, non tutto quello che è stato costruito è buono, anzi molto di quello che è stato costruito non è buono affatto, anzi ci induce anche a vergognarci un pochino per quello che è stato fatto. E non è neanche vero che il turismo sta andando bene in Sardegna, a parte rarissime situazioni, il turismo sta andando piuttosto male quest’anno, in Sardegna come in altri luoghi d’Italia, colpito dalla nuova competizione, da mercati nuovi che si offrono al mercato del turismo europeo e mondiale con professionalità nuove, prezzi più bassi, prezzi molto più bassi e a volte molto spesso servizi migliori. Il turismo non sta andando bene in Sardegna e allora forse vale la pena di continuare a parlare senza pregiudizi.

Un tema importante che è emerso: non siamo più il modello di uno Stato gerarchizzato, dove certamente si decide in piena autonomia facendo poi subire le decisioni centrali alle regioni alle province poi ai comuni. E d’altronde noi, come amministrazione regionale che combatte quello che sta accadendo in questi giorni in Parlamento, a livello centralistico statale, con il programma addirittura di modificare l’autonomia regionale di regioni che hanno carattere atipico, non possiamo pensare a decisioni centralistiche per territori, comuni, province che hanno caratteri di complementarietà e di pari valore con l’amministrazione regionale. Non ci può essere una Regione senza comuni ma non ci può essere una regione neanche senza amministrazione regionale. Tutti siamo stati votati a scrutinio segreto, come è stato ricordato stamattina, e a ciascuno di noi è stata data una responsabilità diversa, ai sindaci dei comuni costieri, agli altri trecento sindaci che oggi non sono rappresentati in questa sala e che io devo rappresentare e anche alla Regione che sicuramente ha un ruolo importante, diverso da quello dei sindaci.

Abbiamo il ruolo di programmare, abbiamo il ruolo di coordinare, fissare gli indirizzi, di guidare la politica, le diverse politiche della Regione, in questo caso la politica del turismo, le politiche urbanistiche, le politiche dello sviluppo; quindi dobbiamo lavorare assieme e stiamo cercando di imparare a farlo. Comunque esserci incontrati oggi credo sia stato importante per tutti ed è un segno di questa nostra volontà del cambiamento. C’è stato detto che forse lo potevamo fare prima, io continuo a pensare che è stato importante prima farlo e poi discutere e sentire la volontà di questa Giunta regionale, non solo di discutere ma di far le cose. E comunque abbiamo avviato questa discussione che inizia oggi, e andrà avanti e vedrà il vostro contributo attivo da qui ai mesi prossimi e ci porterà alla stesura di un Piano Territoriale Paesistico Regionale.

Programmazione dall’alto verso il basso o dal basso verso l’alto, non credo che dobbiamo attenerci a delle formule ma sicuramente siamo tutti chiaramente consapevoli che abbiamo bisogno sia di assistenza tecnica sia di competenze esterne, ma abbiamo anche bisogno di riconoscere le competenze locali, delle amministrazioni locali, di chi conosce il territorio. Abbiamo bisogno l’uno dell’altro e nessuna parte può fare a meno dell’altra parte; il singolo comune non può fare a meno dell’amministrazione e l’amministrazione regionale non può fare affatto a meno dei singoli comuni. Dobbiamo imparare a lavorare assieme, a rispettarci, e a rispettare la responsabilità diversa che ciascuno di noi ha; è stato detto: “Lei dovrebbe essere il sindaco di tutti i sindaci”, non lo so, non lo so cosa devo essere. Io devo, dovrei, rappresentare tutti i sindaci, devo rappresentare tutti i cittadini sardi, devo sapere di rappresentare gli interessi di tutti i cittadini sardi, di tutti, non solamente dei cittadini dei comuni costieri, ma anche gli interessi dei cittadini di Sanluri, tanto per fare un esempio, che non hanno il mare nel loro comune però hanno conosciuto Torre dei Corsari nel comune di Arbus, hanno conosciuto Marceddì nel comune di Terralba, hanno conosciuto San Giovanni di Silis nel comune di Cabras, e sono portatori d’interesse in quei posti, direi quanto i cittadini di queste sono portatori di interessi altrettanto importanti e altrettanto meritevoli di tutela verso quei luoghi.

E rappresento, vorrei rappresentare, in questa Giunta, gli interessi di tutti i cittadini sardi; non solo, vorrei rappresentare gli interessi di tutti i cittadini sardi, di oggi e quelli che non conosciamo ancora. Sono assolutamente conscio che dobbiamo rappresentare gli interessi di chi non è ancora nato e non nascerà prima di 20, 30 anni. Sono altrettanto importanti quegli interessi, non ci siamo solamente noi, il mondo non finirà e abbiamo il dovere di controllare e di far trovare ai nostri nipoti almeno qualcosa di quello che abbiamo conosciuto noi, e se è possibile dobbiamo fargli conoscere meglio tutto quello che di buono abbiamo conosciuto noi e qualcosa di migliorato e niente di compromesso e di cancellato per sempre: questi sono gli interessi di cui io sono portatore, io e la Giunta.

“C’era urgenza di provvedere?” mi è stato chiesto dal sindaco di Sassari. Accidenti se c’era urgenza, c’era molta urgenza per dei provvedimenti, per dei vincoli caduti, che il passato Consiglio regionale non era riuscito a riproporre, per cui questa nuova amministrazione regionale si è trovata in una situazione di caos normativo sulla fascia costiera che, come è stato ricordato, rappresenta una parte importante dei presupposti di sviluppo turistico e quindi di sviluppo di tutta la Regione sarda. C’era assolutamente l’urgenza di prendere dei provvedimenti. I 2000 metri fanno parte della storia dei precedenti PTP: la programmazione costiera è andata ad esaminare e a studiare la fascia dei 2 chilometri. C’era urgenza e abbiamo prudentemente, e con rispetto anche per quello che hanno fatto gli altri, limitato l’oggetto della nostra attenzione a difendere 2 chilometri di costa che erano stati oggetto dell’attenzione di chi ci ha preceduto. C’era assolutamente urgenza di farlo e l’abbiamo fatto.

Io vorrei cercare di chiarire, scusatemi, però ho ascoltato parecchio e poi corro il rischio di farvi perdere qualche minuto, comunque vi ringrazio di richiamare la vostra attenzione per qualche minuto in più, però è stata preziosa per voi questa mattinata ma è preziosa anche per me per farmi sentire direttamente da voi su questo argomento.

E vorrei provare ad inquadrare questa cosa in un insieme un pochino più generale che appunto è la responsabilità che io ho. E’ chiaro che quando si parla di norme generali poi colpiscono il singolo comune che aveva il suo problema particolare, un altro ne aveva ancora un altro, un altro comune non ha costruito nulla per cui è inutile che venga penalizzato come quello che ha costruito tantissimo, un altro ha nei suoi 200 metri caso unico rarissimo un importante presenza di industria zootecnica, ci sono cento particolari che avremo modo di analizzare e vi chiediamo di aiutarci a comprendere ed eventualmente a correggere. Ma quando c’è fretta è chiaro che nelle pagine si tagliano delle cose che non si vorrebbe tagliare, ma è comunque prezioso, importante, prendere delle note generali.

Comunque, quale è in realtà l’inquadramento generale che la Giunta deve fare, diversamente dai sindaci, che devono pensare all’interesse del loro singolo territorio? Innanzitutto parliamo di sviluppo economico per questa regione, di possibili modelli di sviluppo economico, di possibilità di sviluppo economico.

E’stato ricordato che l’altro giorno c’era il centenario dei fatti di Buggerru, una Sardegna all’epoca certamente più povera di oggi con un reddito pro-capite che era pari al 40% del reddito pro-capite della media nazionale. Oggi il reddito in Sardegna è sicuramente più alto. La Sardegna è più ricca di 100 anni fa, ma il reddito pro capite dei sardi è ancora pari a meno il 65% della media nazionale, dal 40% siamo passati al 65%: questo è il risultato.

Per altre cose la crescita è stata molto più importante, ad esempio per l’istruzione: il 75% delle coppie che si sposavano all’epoca firmavano con una croce i documenti del loro matrimonio; oggi direi che non c’è più nessuno che, delle nostre giovani coppie, firma con una croce. All’epoca, le donne non votavano per nulla, è stato ricordato, c’erano forse circa 15 mila frati che erano iscritti nelle liste elettorali, c’erano trecento studenti all’Università, c’erano 50 ragazzi all’anno laureati, 30 avvocati e 20 medici. La Sardegna ha fatto passi avanti da giganti, però la Sardegna non ha fatto altrettanti passi da gigante nel recupero dello sviluppo economico, dal 40% è passata al 65%. Credo che magari ci saremmo aspettati un risultato migliore e questo ritardo di sviluppo deve essere ancora la priorità del Governo della Regione, insieme alle altre cose. Un ritardo di sviluppo che si sposa con un altro dato importantissimo: la Sardegna ha probabilmente il tasso di disoccupazione più grave di tutta l’Italia. Abbiamo detto che siamo vicini al 20% e in certe regioni, in certe aree della Sardegna, e soprattutto per i giovani e per le donne, questo tasso supera il 35%, in alcune occasioni si avvicina anche al 50%; un reddito più basso del 35%, tassi di disoccupazione cha vanno dal 18, 20, 35%.

Come dare lavoro, come superare questo ritardo di sviluppo? Dando lavoro alla gente. Che modello di sviluppo per i sardi? Sono stati tentati altri modelli in precedenza, quello delle monoculture, quello del mettere tutti i soldi in unica scommessa. Questa Regione non può puntare su una nuova monocultura. C’è un dibattito anche a livello nazionale in cui si pensa che l’Italia, che vede cadere le industrie piano piano, che vede processi di deindustrializzazione, di fuga dagli investimenti industriali verso altri paesi, debba puntare in maniera massiccia verso il turismo, anche a livello nazionale. Noi in Sardegna non possiamo immaginare una nuova monocultura, quella del turismo, vogliamo un’economia ordinata, fatta di un pezzo importante dell’agricoltura, dell’industria, che già al 13% è ai livelli più bassi di tutta Italia. Vogliamo l’agricoltura, vogliamo l’industria, vogliamo anche quello che resta della grande industria, vogliamo l’artigianato, vogliamo i servizi, vogliamo i servizi anche di tecnologia, vogliamo il turismo, all’interno di un processo ordinario, non puntando unicamente adesso su una nuova unica scommessa.

Puntiamo sul turismo e allora, innanzitutto, cos’è il turismo? Prima di parlare di metri cubi, di stanze, metri quadri, stiamo parlando di posti di lavoro, di sviluppo economico, di sviluppo economico nel turismo che deve avere un ruolo importantissimo in Sardegna. E quindi cos’è il turismo? E allora direi che innanzitutto non possiamo far finta tra di noi di pensare che il turismo sia vendere la terra, perché a volte c’è la pressione della gente, ci sono delle necessità, c’è bisogno di uno stipendio oggi, questo mese, c’è bisogno di arrivare al mese prossimo o all’anno prossimo, qualche volta c’è anche il bisogno di guadagnare tanto e subito, fregandosene degli altri e del futuro. Però il turismo non è vendere la terra, non possiamo come Regione pensare di risolvere i problemi come fanno tante volte le cattive famiglie, dove piuttosto che utilizzare questi strumenti che hanno, questa eredità che hanno ricevuto, vendono qualcosa oggi, qualcosa domani, pensando che questo qualcosa da vendere rimanga per sempre; poi alla fine si accorgono che le cose da vendere sono finite, pure il valore di quelle che stavano vendendo man mano è scemato; nel frattempo i figli non sono andati a scuola o ci sono andati poco, nel frattempo quelle cose che avevano avuto in eredità erano diventati strumenti di lavoro veri. E si ritrovano spesso senza futuro e senza possibilità. Allora turismo non è vendere la terra. Il turismo non è vendere le coste, non è nemmeno venderle qualche volta anche a decine di ettari, se rendono qualcosa anche pochissimo, se rendono tanto di più a chi le valorizza, se rendono tanto di più a chi le lottizza e poi le rivende al dettaglio. Il turismo non è quello. Quello non è turismo, quello è altro. Il turismo non è neanche vendere la terra al dettaglio o vendere la terra quando, dopo le lottizzazioni, si iniziano a costruire le casette tutte uguali di questi villaggi che rimangono aperti un mese, un mese e mezzo e raramente rimangono aperti due mesi.

E’ stato ricordato ampiamente in questi giorni che io ho frequentato Villasimius, che vado a Villasimius. Lì ci sono dei posti anche bellissimi, delle calette, delle cale, dei luoghi importanti dove la cala è sparita completamente, il luogo non esiste più e esistono molte decine di case che quest’anno erano per la stragrande maggioranza vuote. E allora quelle lì evidentemente non erano investimento del turismo, sono state terra venduta, venduta con delle casettine sopra. Quello non è turismo. Il turismo non è quindi vendere la terra, terra che poi non ci sarà più a disposizione nostra e delle prossime generazioni, per tentare lo sviluppo economico possibile che ci faccia superare questo ritardo di sviluppo. Il turismo non è nemmeno attività di edilizia e in queste settimane, quando si è detto “Questo decreto uccide il turismo, questo decreto blocca il turismo, questo decreto rovina il turismo”, quasi che avessimo cancellato qualche volo aereo, bloccato la gente fuori, quasi che avessimo bloccato l’accesso alle spiagge, quasi che avessimo chiuso gli alberghi, avessimo chiuso i tour operator, non abbiamo fatto nulla per uccidere il turismo, abbiamo fatto qualcosa che ha limitato l’attività edile. Non credo che questo significhi uccidere il turismo.

Il turismo quindi non è attività edilizia, è uso attento del territorio per l’offerta dei servizi, il turismo non è cose, il turismo sono servizi, il turismo non è la casa o l’albergo, il turismo sono i servizi che possono essere fatti, sono servizi immateriali soprattutto, questo è il turismo e noi ancora ci siamo occupati di turismo nei nostri provvedimenti; è l’uso attento del territorio, è stato giustamente correttamente ricordato, l’uso attento del territorio che vuol dire la costa, la spiaggia, il terreno circostante, ma vuol dire anche il paesaggio, la storia, la cultura, i suoi abitanti, tutto quello che c’è attorno, i mestieri che si sanno fare e altre attività economiche; il turismo è l’uso attento del territorio, che vuol dire di tutta la Sardegna, di tutto quello che su questo territorio esiste, paesaggio, chiese, storia, nuraghi, cultura, conoscenze. Questo è il turismo, non attività edilizia; questo per capire qual è l’oggetto del nostro dibattito e noi dobbiamo a questo mirare, a capire cos’è l’attuale offerta di servizi e che tipo di servizi turistici sostenibili possiamo offrire, non oggi e domani e basta ma nel lungo periodo.

Cos’è il turismo e cos’è il progetto della politica regionale. Voi sindaci avete una responsabilità che è quella del vostro territorio, programmate per quello, cercate di rispondere alle esigenze, cercate di dare risposta a quelli che vengono alla vostra porta ogni mattina. Noi abbiamo come oggetto la politica regionale, la responsabilità che abbiamo di programmazione della politica regionale, all’interno della quale altre politiche regionali devono essere portate avanti. Ma l’oggetto è quello della politica regionale, la politica di sviluppo regionale, la politica turistica regionale riguarda un milione e seicento mila sardi e non solamente quelli delle zone costiere, e non può essere considerato un grazioso regalo per le zone costiere dare un posto di lavoro a quelli delle zone interne e non c’è molto da vantarsi del fatto che a volte le zone costiere danno lavoro a quelli delle zone interne, non ne abbiamo alcun merito.

Il nostro interesse, la nostra responsabilità è quella di tutelare gli interessi complessivi di lungo periodo di tutta la Regione, di lungo periodo e dell’intera Regione, delle zone costiere e delle zone interne e anche degli altri trecento sindaci che oggi non sono rappresentati e di tutta l’economia regionale, perché appunto l’ambiente riguarda tutta l’economia regionale, riguarda l’agricoltura, l’artigianato, la piccola-media industria, tutto quello che deve essere utile al turismo e che deve essere aiutato dall’operazione turistica. E allora vedete che dobbiamo darci innanzitutto, ancora prima di parlare di altri metri cubi, di altri metri quadri, di distanze, di cose, ancora prima di parlare di PTP, dobbiamo capire qual è la nostra strategia sul turismo. Noi siamo alla Regione da pochi mesi ma io la strategia del turismo della Regione sarda non l’ho trovata nei cassetti dell’assessorato al Turismo, se qualcuno sa dove posso andarla a trovare me lo dica e magari se ci va bene la riprendiamo assieme. Non esiste, non è esistita, è stato anche detto, l’hanno fatta gli imprenditori locali e i sindaci, gli imprenditori privati e i sindaci, ma non può essere così, altrimenti vuol dire che la Regione non sta facendo il suo lavoro. Il turismo deve essere programmato dalla Regione, assieme dobbiamo fare questa programmazione, ma ci dobbiamo dare una strategia del turismo, altrimenti siamo delle cicale che stanno sciupando e distruggendo e pregiudicando il futuro di lungo periodo di sviluppo vero e di turismo di questa Regione. E allora per darsi una strategia occorre innanzitutto capire qual è la nostra attuale offerta, la dimensione dell’offerta. E’ stato detto che nella provincia di Oristano ci sono oltre 1500 posti letto. Un buon dato di partenza per capire l’oferta ricettiva, ma quanti sono i posti letto esistenti in Sardegna oggi? Chi lo sa dire con precisione e quanti sono questi posti letto che ci saranno in Sardegna tra 3 mesi, chi lo sa dire con precisione? E tra 12 mesi, e tra 24 mesi? Sulla base delle concessioni edilizie già date, non sulla base di quelle che abbiamo sospeso, di quelle che avrebbero dovuto essere, ma solo sulla base di quello che è stato già concesso, già in fase di costruzione, quanti posti letto abbiamo in Sardegna? Se qualcuno lo sa me lo dica, quanti a breve, quanti sono in costruzione? Voglio dire che mancano i dati sulla dimensione dell’offerta e non credo che possiamo continuare a costruire se non sappiamo i dati dell’offerta. Non sappiamo quello che è in fase di realizzazione, non sappiamo quanto è in fase di realizzazione, non sappiamo quanto è in programma, non sappiamo quanto è la dimensione dell’offerta. Alla fine dobbiamo costruire case o vendere servizi turistici? Se dobbiamo costruire case, va tutto bene fintanto che si vende, credo che ci sia anche un po’ di difficoltà. Ma se dobbiamo offrire servizi, forse la quantità e la qualità della nostra offerta la dobbiamo capire bene, soprattutto alla fine di una stagione come questa dove gli alberghi hanno segnato, credo, dei risultati molto più modesti rispetto al passato; soprattutto alla fine di una stagione come questa dove chi era abituato ad affittare la propria casa, magari in nero, forse ha visto deluse le proprie aspettative, molto di più del passato.

Qual è l’offerta, qual è la domanda, che tipo di turismo vuole la gente, siamo sicuri che lo sappiamo? A quale tipo di domanda di turismo ci vogliamo rivolgere, a quello di massa, a quello delle discoteche, a quello di Rimini, tutti buoni per carità, ma l’importante è che sappiamo che cosa dobbiamo fare, a che tipo di turismo ci vogliamo rivolgere. Qual è la domanda e l’offerta, che tipo di modifiche sta avendo questa domanda, 30 anni fa avevamo timore dei villaggi turistici, forse anche 20-15 anni fa, adesso iniziano ad andare un pochino meno di allora. Gli stessi operatori dei villaggi turistici adesso dicono “Ah, se invece di un villaggio da 1500 posti, ne avessi 5 posti da trecento posti”. La Regione fa bene a capire questa domanda.

Qual è l’offerta, qual è la domanda, come sta evolvendosi questa domanda in giro per l’Europa, cosa possiamo fare per catturare questa domanda, a che tipo di domanda vogliamo puntare e quali sono i vantaggi competitivi di questa regione. Che cosa offriamo? Qual è il vantaggio che pensiamo di avere rispetto agli altri per cui anche in futuro la gente verrà da noi? Perché la gente sta iniziando ad andare in Croazia, o perché va alle Maldive, o perché vanno di più sul Mar Rosso, perché vanno in Tunisia, come ci poniamo in competizione verso questi paesi, qual è il nostro vantaggio competitivo? Il vantaggio non è sicuramente una stagione diciamo di caldo, non è nemmeno la facilità di trasporto che abbiamo no, come vantaggio competitivo, non abbiamo la Germania dietro di noi che incombe a poche ore di macchina in autostrada sempre pronta e a costo basso, non è il trasporto che ci aiuta per la nostra capacità di competere. E credo che non sia nemmeno il basso costo del lavoro che ci aiuti come possibilità di competere. E in un mercato che sta diventando sempre più globale e completo, dove arrivano Croazia, Tunisia, Egitto, iniziano ad arrivare anche i paesi dell’Africa tra poco, paesi dove il costo del lavoro è il 10% del nostro, dove ci sono 5 camerieri attenti per ogni turista che costano pochissimo, diversamente da un cameriere distratto, come capita da noi qualche volta, non è quello il vantaggio competitivo; e allora perché dovrebbero continuare a venire da noi, perché il costo del lavoro alto porta ad un’offerta dei servizi che non è particolarmente vantaggiosa. Non sentiamo molti turisti che vanno via dicendo la Sardegna costa poco e anche noi quando andiamo fuori all’estero, o andiamo da altre parti, ce ne torniamo a casa pensando che la Sardegna costi poco o stupendoci per quanto costa tanto dalle altre parti rispetto a noi. Noi stessi sappiamo, diciamocelo tra di noi, che la Sardegna costa cara, che i ristoranti in Sardegna costano spesso tantissimo, che gli alberghi costano tanto per la qualità dei servizi che danno. E allora quale è il vantaggio competitivo della Sardegna? Se non sono i trasporti, se non è la massa di persone che vive a fianco a noi, a distanza di automobile, se non è la qualità dei servizi, se non è il costo del lavoro, quale è il vantaggio competitivo che abbiamo? L’unico vantaggio competitivo che abbiamo è l’ambiente, l’unico vantaggio competitivo che abbiamo oggi e che possiamo sostenere nel futuro è l’ambiente, un ambiente ancora sufficientemente integro, ancora bellissimo, ancora straordinariamente intatto in molte regioni, un ambiente fantastico, in mezzo all’Europa, in un contesto di sicurezza non vicinissimo a problemi di grande emergenza, diciamo di sicurezza internazionale, con una coscienza ambientale magari ormai superiore a quella dei paesi che si affacciano ex-novo al turismo. L’ambiente, la qualità dell’ambiente, l’importanza che possiamo dare all’ambiente in mezzo all’Europa, in un contesto di sicurezza sociale. Un’altra cosa abbiamo, come dice uno che, questa estate, dopo essere stato un amante pazzesco della Sardegna, un milanese che amava la Sardegna più di me, ma questo anno non è venuto in Sardegna, è andato da un’altra parte a farsi le vacanze, ha preso la sua barca ed è andato nel Nord Africa. Ha visitato un paese che tradizionalmente era chiuso, ha incontrato dieci vacche in quindici giorni, ha trovato chilometri di coste libere, l’acqua meno trasparente fortunatamente, molto vento, disagi; fortunatamente dietro alla costa non c’era niente, certo non c’era una cultura, non c’era una storia, non c’era una tradizione di ospitalità, non c’erano tutte quelle altre cose che compongono il contesto ambientale della Sardegna e che la rendono preziosa: nuraghi, chiese romaniche, muretti a secco, centri storici, antichi mestieri, tradizioni, musica, cultura, letteratura. Questo rende prezioso il nostro ambiente: questi sono i vantaggi competitivi dai quali possiamo partire per programmare il turismo in Sardegna.

La qualità ambientale è un concetto di ambiente sufficientemente espresso; la qualità ambientale quindi deve essere il nostro pensiero ricorrente, importantissimo, tutto quello che possiamo fare per proteggere l’ambiente è importante, perché è quello l’unico vantaggio competitivo che abbiamo e che possiamo mantenere nel futuro. Dobbiamo partire dal presupposto che l’ambiente ha un costo e una priorità altissima, che una volta consumato non è che avremo ripensamenti, non esiste più, quello che c’era non ci sarà più, e quando si sbaglia nei territori è per sempre e allora non una volta ci dobbiamo pensare ma 2, 3, 4. Gli sbagli che facciamo oggi non sono per 3 mesi o per 3 anni, sono per sempre. E allora la massima attenzione al valore ambientale, al concetto di ambiente sufficientemente esteso, perché questo è l’unico vantaggio competitivo che avremo,abbiamo qui in Sardegna, non ne vedo altri, se qualcuno ne vede altri ce lo faccia sapere e condivideremo questa impostazione e magari riusciremo a fare qualcosa.

Poi vi faccio anch’io una domanda: chi devono essere i protagonisti del turismo in Sardegna? Per ora è stato detto che sono stati gli imprenditori privati e sono stati i sindaci, abbiamo detto che un ruolo importante ce l’ha la Regione e la programmazione, ma vorrei sapere chi sono questi imprenditori privati. Scusate io sarò all’antica, ho un’educazione assolutamente occidentale, capisco il valore dei mercati ma capisco anche che i mercati vanno regolamentati, capisco anche che i mercati non vanno lasciati da soli e capisco anche che ci sono mercati diversi e occorre sapere chi devono essere i protagonisti.

L’altro giorno, lo ripeto ancora, eravamo a Buggerru per ricordare i tempi della miniera. Abbiamo ricordato incidenti gravi, fatti, una tragedia importantissima la quale poi ha contribuito in maniera importantissima a far nascere la coscienza sociale e politica dei sardi. Ha permesso di essere individui, singoli che si ribellavano singolarmente ma hanno posto la loro ribellione all’interno di un discorso generale; erano operai, minatori, che lavoravano per una miniera francese con un direttore turco che il 3 di settembre gli ricordava che l’estate era finita a Buggeru e che quindi bisognava tornare all’orario invernale e la pausa per il pranzo s’interrompeva all’una del pomeriggio. Qualcuno - lo voglio ripetere perché mi sembra un’immagine bellissima - ha detto che la società a capo dell’estrazione del minerale aveva un sistema colonialistico e della Sardegna non gliene importava niente, tantomeno dello sviluppo anche sociale della Sardegna. Aveva un totale disinteresse, anzi viveva della quasi schiavitù delle persone che occupava: gli dava uno stipendio piccolo e li costringeva a spendere i loro soldi dentro la cantina della miniera per cui pagavano il martello, pagavano il tugurio in cui dormivano, pagavano l’unico market dove consumavano e così vivevano. Erano nel colonialismo dell’estrazione mineraria. Qualcuno con una felice frase ha detto che poi siamo passati all’estrazione del pecorino romano. La Sardegna è stata usata come miniera per estrarre il pecorino romano come decenni fa. Ancora una volta, il lavoro dei pastori, il valore del latte, il valore di quello che producevano, è valorizzato pochissimo: tutto viene “estratto” e portato fuori.

Oggi ci sono dei villaggi turistici in Sardegna, io ne conosco molti, in uno sono anche andato a prendere un mio amico che era lì e l’ho poi portato a casa per passare un pomeriggio assieme. Era lì da dieci giorni e naturalmente non sapeva neanche dov’era; abitava in un villaggio turistico dove naturalmente si sente quasi come un diritto imprescindibile che il demanio regionale dia la spiaggia a 4 euro all’anno dove mettere gli ombrelloni e le sdraio. Non accontentandosi di questo, c’è il proprietario del villaggio che è riuscito anche a ritagliarsi uno spazio pari a qualche decina di metri, recintato con le canne, dove anziché metterci le sdraio, ci mette la sua sdraio, quelle dei suoi amici, …sempre a 4 euro all’anno del demanio regionale.

Una fetta importante, una spiaggia importante in un luogo del territorio della Sardegna: in quel villaggio i sardi naturalmente sono impiegati, qualcuno a fare il giardiniere, altri a sistemare le camere. Tutto è chiuso, non c’è un signore che esce e che va almeno a comprare due cose nel paese che è a quattro chilometri di distanza. Ora ditemi se questo non è estrazione di turismo della Sardegna, questo è, in maniera molto più civile e moderna, un’altra forma di estrazione di valore dalla Sardegna. Ci può essere anche un po’ di questo, ma non può essere questo in prevalenza, non ci può essere estrazione di turismo dalla Sardegna e allora, se non può essere estrazione di turismo dalla Sardegna, vuol dire che la politica deve cercare per quanto possibile di privilegiare il turismo che renda attiva l’impresa sarda, che la renda attiva, per quanto possibile. Forse abbiamo un problema politico, ovvero capire che anche il turismo non deve essere solo estrazione di turismo dalla Sardegna, ma deve essere luogo di creazione di turismo in Sardegna da parte dei sardi che ci devono abitare; e allora ci sono modelli diversi da quelli di svendere il proprio territorio ad un prezzo che comunque, per quanto ci sembri caro, sarà sempre poco visto tra dieci anni o visto tra 20 anni, sarà sempre nulla in prospettiva, quando si tratta della terra. Perché su un automobile si può guadagnare poco o tanto, su un mobile poco o tanto, su un vestito poco o tanto, quando si tratta della terra di una Regione in prospettiva sarà sempre poco e ce ne accorgeremo. Chiunque, tutti noi ci rendiamo conto che è stato troppo poco il prezzo a cui è stato venduto in precedenza. Allora gli imprenditori sardi devono essere protagonisti e per essere protagonisti non possono essere lasciati soli. Il sistema deve essere in qualche maniera regolamentato, o meglio l’Amministrazione non può sempre lasciare le porte aperte, agevolare l’occupazione chi viene ad estrarre turismo in Sardegna che non produce quanto potrebbe produrre. Un turismo prodotto in Sardegna e non estratto dalla Sardegna.

Tutti noi abbiamo figli, io adesso ne ho uno di dodici anni neanche. Se deve giocare a pallone, io voglio che giochi con persone della sua classe, voglio che partecipi al campionato dei ragazzi e al massimo si confronti con quelli di tredici, quattordici quindici anni, non lo metto a giocare a pallone con quelli di venti anni, perché quelli vincono di sicuro, non lo metto a giocare al pallone con gli adulti perché quelli vincono di sicuro. E allora nel pallone non c’è la libera competizione: i piccoli con i piccoli, i medi con i medi, i grandi con i grandi; se lasciamo la libera competizione i campi da calcio saranno occupati solamente dai grandi, i piccoli non giocheranno mai a pallone perché i grandi sono più forti di loro, sono più veloci, hanno spalle più larghe, sono anche più potenti e non lasciano spazio ai piccoli. I campi di calcio noi non li regolamentiamo per i nostri figli, forse dobbiamo stare attenti anche a regolamentare la possibilità di fare impresa per quelle aziende che sono più piccole e hanno meno capitale, meno esperienza. Non c’è bisogno di fare tutto subito oggi, perché altrimenti casca il mondo.

Allora il turismo non è vendere la terra, il turismo non è costruire quello che abbiamo costruito fino adesso, perché abbiamo già venduto molta terra e abbiamo già costruito tanto che resta vuoto. E allora dobbiamo innanzitutto risistemare quello che rimane vuoto, riqualificarlo, migliorarlo, modificarlo anche in maniera sostanziale in virtù delle mutate esigenze dei turisti di oggi; aiutare i comuni che non hanno la fortuna di avere i bastioni di Alghero, ma che comunque sono comuni costieri da valorizzare e aiutare a diventare luoghi belli, luoghi piacevoli. Intervenire dove c’è un turismo che vuole ritrovarsi in contesti normali e, se c’è la possibilità, può venire a novembre, a dicembre, a febbraio, quando i paesi rimangono comunque aperti e i villaggi sono chiusi e le lottizzazioni sono chiuse e solamente qualche volta hanno la seconda casa chiusa. Dobbiamo riqualificare l’esistente per quello che è possibile, dobbiamo invertire questa idea totalmente diversa dal modello di turismo, per cui il turismo balneare debba essere necessariamente e solamente quello, senza che venga offerto altro, tutto ciò che c’è intorno. Siamo sicuri che abbiamo fatto una riflessione attenta? Siamo sicuri che sia solamente questo? Siamo sicuri che, come ancora succede oggi, dobbiamo fare i parcheggi asfaltando a fianco a un palazzo con il cornicione alto 20-30 centimetri, accanto alle spiagge incantate che ancora abbiamo. Probabilmente non è questo.

E allora riqualificazione, spremerci le meningi, usare le intelligenze, le risorse, l’entusiasmo e ritrasformare questi paesi e questa marea di seconde case o di case vuote nei paesi. A Villanova Monteleone ci sono delle case che costano 30,80,40 milioni di lire, si comprano le case per 20 mila euro non c’è dubbio, dobbiamo solamente aspettare, le compreranno tutte come hanno comprato la Toscana. Le spiagge a Villanova Monteleone c’è il vantaggio che è vicino all’aeroporto di Alghero, se le compreranno tutte.

C’è un modello, c’è una domanda turistica in giro per il mondo che chiedi di trovare una natura incontaminata. Riqualifichiamo, investiamo nei paesi, costruiamo anche tanto, ma per riqualificare e per rendere bello ciò che c’è, valutiamo caso per caso, incontriamoci, innanzitutto sapendo che cos’è il turismo, che non è vendere i territori, ma avere ben chiaro che strategia abbiamo per il turismo e che cosa vogliamo per il nostro futuro. E poi parliamo di metri cubi e di metri quadri, quello è tutto dopo, con questo provvedimento si arriva innanzitutto a fare in modo che non ci siano comuni di serie A e comuni di serie B, comuni più forti dove le tubature sono poche e comuni invece magari più attenti alle norme, che hanno approvato il PUC da tempo, dove le tubature sono la metà di quelle di altri comuni. Ecco questo non può esistere, davvero in Sardegna solo le tubature; serve ai comuni e agli imprenditori avere certezza di diritto, per avere certezza di diritto bisogna fare delle leggi, per fare delle leggi bisogna analizzare, per analizzare bisogna avere voce ferma, per analizzare bisogna avere un quadro fermo, non si può analizzare, programmare quindi normare quando tutto è in movimento. Noi chiediamo al Consiglio regionale che ci approvi questo disegno di legge, se sarà il caso potranno essere precisate meglio delle cose, e ci impegniamo entro 12 mesi a portare a casa il Piano Territoriale Paesistico Regionale, che non sia solamente metri cubi e metri quadri, ma che sostenga un modello di turismo, che sappia che l’ambiente è in realtà l’obiettivo più importante della Sardegna nei prossimi decenni e che ogni ferita all’ambiente ha un costo comparato enorme, ha un costo enorme per la possibilità di sviluppo turistico e sappiamo anche che l’ambiente ha mantenuto un’accezione più alta di quella che magari ogni tanto si ripresenta. Non è solamente mettere a posto la spiaggia, ma è tutto quanto, e sappiamo che la Sardegna è una, è fatta di 1 milione e 600 mila persone, di paesi che vivono all’interno, che fanno magari mestieri e che ancora oggi portano avanti quelle tradizioni per cui noi poi ci battiamo, ci impegniamo anche nei paesi delle zone costiere e sarà un dono prezioso la possibilità di lavoro per questi paesi. Noi chiediamo al Consiglio regionale che ci approvi questo disegno di legge, nella consapevolezza che questo è un aspetto fondamentale dei prossimi 5 anni dell’amministrazione regionale. E’ uno dei temi fondamentali della mia campagna elettorale, della maggioranza che mi ha sostenuto. Verremmo valutati in un momento veramente di importanza fondamentale per la Sardegna, quando è ora di ripensare il turismo e l’utilizzo del suo territorio. Ci incontreremo per farlo insieme.

Grazie

Sull'argomento vedi anche l'Eddytoriale 53 e i link in calce

CHI può dissentire, in buona fede e in tutta onestà, da una norma che serva effettivamente a difendere il territorio e il paesaggio di un paradiso come la Sardegna? E chi può contestare, dunque, la decisione della nuova giunta regionale guidata da Renato Soru di fermare l´avanzata del cemento selvaggio, per impedire lo scempio urbanistico nella "perla del Mediterraneo"?

Con la delibera che sospende per tre mesi qualsiasi attività di costruzione in una fascia di due chilometri dal mare, in attesa di un Piano paesistico da adottare entro un anno, la Regione ha emanato un provvedimento d´emergenza contro l´anarchia edilizia, contro il vuoto legislativo e il conseguente caos che ormai minacciavano di compromettere irreversibilmente i tratti più incontaminati delle coste sarde.

Ma come mai si era arrivati a questa situazione estrema e perché? Nell’ottobre del 2003 molti avevano accolto con entusiasmo la sentenza con cui il Tribunale amministrativo, su ricorso delle principali associazioni ecologiste, respinse ben tredici piani paesistici approvati dalla precedente amministrazione di centrodestra. Se il Tar li ha bocciati, vuol dire evidentemente che non erano legittimi, che non rispettavano la legge urbanistica regionale, che non tutelavano adeguatamente l´assetto del territorio. Eppure, come riconoscono gli ambientalisti più consapevoli, quella fu in realtà una vittoria di Pirro: vale a dire un boomerang che, facendo tabula rasa dei vincoli previsti, ha dato via libera alla lottizzazione più sfrenata.

Una volta di più, insomma, l´esperienza insegna che non sempre l´estremismo (in questo caso, verde) paga. E la lezione può essere utile anche ora, per la stessa giunta di centrosinistra e per i suoi sostenitori, in preparazione del Piano paesistico regionale che dovrà riempire appunto il vuoto legislativo e definire una nuova fascia protetta, oltre i trecento metri dal mare stabiliti dalla vecchia legge Galasso. In questa prospettiva, per un´isola frastagliata come la Sardegna, due chilometri possono anche essere troppi o troppo pochi. Dipende, tratto per tratto, dalla configurazione della costa. Sarà opportuno perciò verificare in concreto, comune per comune, le caratteristiche particolari di questo o quel territorio per decidere di conseguenza. Sul piano del metodo, un confronto aperto e democratico con le amministrazioni locali comunque s´impone.

Altrimenti, magari al di là delle migliori intenzioni, c´è il rischio di favorire gli interessi forti, quelli di chi già possiede abitazioni, residence, ville o alberghi sulle coste sarde. O peggio ancora, di alimentare involontariamente una bolla speculativa, come quella finanziaria ai tempi d´oro di Internet. Né si può ridurre tutto all´effetto annuncio, a una campagna mediatica fine a se stessa, all´insegna della demagogia, dell´isolazionismo o del protezionismo autarchico.

Per crescere e prosperare, alla Sardegna serve un modello di sviluppo economico-sociale, moderno, compatibile con la difesa dell´ambiente e con la valorizzazione di tutte le sue risorse, a cominciare proprio da un turismo sostenibile. Ha ragione il governatore Soru a dire che questo non si può identificare con l´attività edilizia. Ma è pur vero che non deve ispirarsi a un paradigma "cavernicolo", fatto esclusivamente di campeggi, tende, roulotte e caravan. La "perla del Mediterraneo" ha bisogno di essere protetta dai nuovi barbari, non di essere blindata e diventare un´isola "off limits".

Postilla

Ha ragione Valentini quando dice che “due chilometri possono anche essere troppi o troppo pochi”, non solo per la Sardegna. Proprio a questo serve un piano paesistico. Un vincolo temporaneo di salvaguardia non può che essere una sciabolata, cui dovrà seguire (come correttamente la delibera regionale prevede)il cesello di un vero e proprio piano paesaggistico, che, adeguandosi alle caratteristiche proprie delle diverse porzioni di costa, potrà stabilire la tutela rigorosa e la non trasformabilità su fasce che potranno essere inferiori, e anche superiori, ai 2000 metri del vincolo di salvaguardia. È su questo piano che dovrà esercitarsi il confronto, con el amministrazioni locali ma con i cittadini e con le espressioni associative degli interessi diffusi. Solo che il vincolo dovrebbe durare fino all'adozione del piano. (es)

DAL NOSTRO INVIATO CAGLIARI — Non più cemento sulle coste, Renato Soru è stato di parola: da ieri la Sardegna ha una legge che proibisce di costruire sui litorali e il limite è persino più dei due chilometri che due anni fa, fra polemiche e minacce di rivolte nei comuni a più alto sviluppo turistico, il governatore aveva imposto provvisoriamente. Ora quel limite è flessibile: va da un minimo di 300 metri, ma in pochissimi siti, a un massimo che in località di particolare pregio ambientale supera i 5 chilometri. Soru riassume: «Tutto ciò che è scampato all'assalto in corso da decenni rimarrà intatto. Le bellezze naturali sono un patrimonio che può essere messo a frutto solo se non viene stravolto. Ci eravamo impegnati a voltare pagina, lo abbiamo fatto».

A un prezzo carissimo, protestano l'opposizione di centrodestra che ha occupato l'aula del consiglio regionale con bavagli, transenne e cartelli di divieto di transito («Sarà la paralisi dell'edilizia, migliaia di disoccupati») e gli imprenditori più danneggiati. Fra i quali la famiglia Berlusconi, che dovrà rinunciare definitivamente a realizzare Costa Turchese, mega villaggio a sud di Olbia, ville e alberghi su 500 ettari e porto turistico per 2 mila imbarcazioni. A Costa Turchese e nella fascia intorno a Capo Ceraso, di fronte all'isola di Tavolara, non si potrà erigere un solo metro cubo: la salvaguardia è totale, anche per la vicinanza di una riserva marina protetta che va dal golfo di Olbia fino a San Teodoro.

La legge è tassativa: si potrà costruire esclusivamente nelle città, ma solo se dotate di un piano urbanistico, e compiere interventi di riqualificazione in insediamenti turistici esistenti, ma con l'assenso di Regione, Provincia e Comune. Un esempio: a Porto Cervo il finanziere californiano Tom Barrack potrà compiere ristrutturazioni (è previsto l'abbattimento del cantiere nautico: al suo posto hotel a 5 stelle e centri commerciali) ma la Costa Smeralda nel complesso rimarrà com'è; nei 2500 ettari fra Cala di Volpe e Portisco non si potrà tirar su neanche un muro. Stop a Sergio Zuncheddu, importante imprenditore immobiliare ed editore del quotidiano Unione Sarda, e agli insediamenti a Cala Giunco (costa sud). Niente cemento nell'incantevole golfo di Orosei (Cala Luna, Sisine, Mariolu, Goloritzè), nella baia di Porto Conte vicino ad Alghero. Nel Sulcis Iglesiente invece le miniere dimesse saranno trasformate in siti di interesse turistico con il recupero degli edifici esistenti, ma nelle decine di migliaia di ettari fronte mare non si potrà erigere nulla. Così pure all'Asinara: nell'ex isola- prigione, ora parco nazionale, via libera ad imprenditori internazionali che però dovranno trasformare gli edifici carcerari in residenze per turisti.

Alt anche alle ville «camuffate» da fattorie: nei terreni agricoli si potranno costruire solo alloggi per chi conduce l'azienda ed è prevista un'estensione minima di 3 ettari. «E' la fine del Far West», tira dritto Soru. «Ora ci sono regole certe, forse addirittura abbiamo fatto meno di ciò che la gente chiedeva. Abbiamo visto paesini sulle coste diventare città, senza lo straccio di un progetto né un piano regolatore. Si procedeva colpi di piano di risanamento urbano, ben 18 in un solo comune. Adesso non accadrà più».

Per il partito del cemento è una disfatta. La giunta regionale sarda ha approvato ieri il cosiddetto piano paesaggistico. Costruire sulle coste devastando paesaggio e ambiente non sarà più possibile. Le nuove regole impongono una tutela rigorosa. Vietato costruire entro una fascia che si estende mediamente (un po' meno in alcune zone, un po' più in altre) per due km dal mare. Tutti i comuni dovranno dotarsi di un piano urbanistico, che dovrà essere sottoposto a una verifica di coerenza con il piano affidata alla Regione. Nelle zone di insediamento turistico saranno consentite esclusivamente opere di riqualificazione urbanistica, ad esempio la trasformazione di villaggi turistici in alberghi oppure la ristrutturazione di strutture abbandonate o in rovina. E il piano tutela anche le campagne, dove si potrà costruire solo in terreni estesi per almeno tre ettari e solo se si dimostra che chi edifica esercita su quel pezzo di terra un'attività di imprenditore agricolo. E' insomma un'inversione di tendenza netta rispetto al passato. L'obiettivo del piano, firmato da Edoardo Salzano, urbanista da sempre impegnato sul fronte ambientale, è quello di dare uno stop a un modello basato sulle seconde case e sui villaggi turistici. Ora dove non c'è niente non si potrà più costruire, e dove già è stato costruito si potrà soltanto riqualificare, eliminare gli scempi. La filosofia di fondo del piano è conservare le zone ancora intatte, indirizzando lo sviluppo turistico verso i centri urbani, con progetti di riconversione urbanistica degli insediamenti già esistenti. Per il presidente della giunta sarda, Renato Soru, non è stato semplice ottenere il consenso della sua maggioranza all'approvazione del piano paesaggistico. Le resistenze maggiori sono arrivate da una parte dei Ds, quella più legata a settori imprenditoriali che dal vecchio modello di sviluppo turistico hanno ricavato per anni utili sostanziosi. Alla fine di un lungo braccio di ferro Soru è riuscito a far passare la sua linea. La battaglia, però, non è ancora terminata. Raggiunto l'accordo di maggioranza che ha consentito all'esecutivo presieduto da Soru di approvare il piano, ora si apre la fase di definizione dei piani urbanistici comunali. Molti sindaci di centrodestra hanno già annunciato che faranno ostruzionismo. Tra le reazioni, quella di Roberto Della Seta, presidente di Legambiente: «Quello sardo è uno dei piani paesaggistici più avanzati e innovativi, in grado di proporre tutela e valorizzazione». A sostegno del piano anche Antonello Licheri, capogruppo Prc in consiglio regionale: «E' una bellissima notizia per la Sardegna e un pessimo affare per palazzinari senza scrupoli». E quanto pesante sia la sconfitta per i palazzinari lo dimostra la reazione rabbiosa del centrodestra. Ieri mattina alcuni consiglieri regionali hanno bloccato l'ingresso all'aula, transennando le porte con nastri di plastica con su scritto: «Vergogna!».

Precisazione

Il Piano paesaggistico regionale non è “firmato da Edoardo Salzano”. Il piano è il piano dell’amministrazione regionale, è stato redatto dall’Ufficio regionale diretto dall’ing. Paola Cannas, alla sua redazione hanno concorso alcune decine di tecnici e amministrativi, nonché (con i suoi consigli e documenti, e l’impegno personale di alcuni suoi membri) il Comitato scientifico. Salzano è stato il coordinatore del Comitato, ed è orgoglioso di aver partecipato a questo titolo alla formazione del più positivo documento di pianificazione redatto in questi anni, così difficili per quanti credono che il territorio sia un bene comune e che, per governarlo nell’interesse delle generazioni attuali e di quelle future, sia necessario amministrarlo con parsimonia e avvedutezza.

L’urbanistica non è solo volumetria, e la ricchezza di un paese non si misura dal numero di metri cubi realizzati sul suo territorio. Ci ha provato in mille modi avantieri sera l’architetto incaricato Sandro Roggio a fare capire e accettare questo concetto durante l’illustrazione del documento di indirizzo del nuovo Puc di Orosei.

Una impresa ardua quando davanti hai una folta platea composta da piccoli e medi imprenditori edili giunti nella sala consiliare solo per sapere quando, e soprattutto quanto e dove, potranno riprendere a costruire. Compito oltremodo difficile perchè ad imporre leggi e regole non sono più le amministrazioni comunali ma la comunità europea, lo Stato e la Regione con le normative sulla tutela dei patrimoni paesaggisti ed ambientali, con il codice Urbani e con il nuovo Piano Paesaggistico Regionale.

Uno sforzo improbo poi quando un consiglio comunale vive di continue e trasversali fibrillazioni che si manifestano astiose e conflittuali ad ogni intervento e ad ogni votazione. Così alla fine di una seduta fiume durata circa quattro ore il sindaco Gino Derosas, con il conforto unanime (ma non convinto) di tutta l’assemblea, ha deciso di non portare in votazione la relazione di indirizzo. Se ne riparlerà a gennaio, dopo le feste, e dopo che le molte perplessità e le osservazioni esposte dalla minoranza e da alcuni cittadini verranno, per quanto possibile, inserite nel documento di indirizzo urbanistico.

Questo hanno promesso sia il sindaco che lo stesso Roggio che alla fine comunque non ha nascosto un pizzico di delusione «per non essermi, forse, fatto capire abbastanza». Ma lui di”colpe” ne ha ben poche: la sua relazione non conteneva, e non poteva essere altrimenti, né numeri né volumi perchè quel documento voleva e doveva solo tracciare le linee guida lungo le quali andrà poi disegnato il futuro socio-economico ed edilizio del centro costiero baroniese. Un progetto che tradotto in soldoni per Orosei vuol dire la fine di un ciclo edificatorio che negli ultimi venti anni ha distribuito prosperità e ricchezza ma che ormai è da considerarsi esaurito. Niente più case in agro, niente più”cattedrali turistiche nel deserto” e le nuove zone di espansione edilizia dovranno essere misurate e calibrate sulle reali necessità abitative e su certificate prospettive di incremento demografico.

Da qui la necessità di trovare nuove fonti di ricchezza e nuovi sbocchi all’edilizia. «Che ci sono e non sono pochi, - ha detto Sandro Roggio nella sua appassionata arringa finale - bisogna avere però nuove visoni e capire che l’unico vero patrimonio rinnovabile di Orosei sono i suoi meravigliosi e variegati paesaggi». Ovvero pianura, montagna, fiume, campagna, aree umide di inestimabile valore naturalistico, spiagge e scogliere splendide e un centro storico ricco di significativi monumenti. «Un simile contesto se utilizzato con saggezza non può che produrre ricchezza in continuità - ha rimarcato Sandro Roggio - Ma occorre mantenerli integri, e salvaguardarli da mire speculative che non apportano ricchezza alla comunità ma al contrario la impoveriscono».

Non un piano punitivo dunque, ma un progetto che mira a riequilibrare il patrimonio edile esistente e a crearne del nuovo di qualità. «Questo è un piano che non vuole male all’edilizia - ha sottolineato l’architetto - e non è vero neanche che nelle campagne non si potrà più far niente: certo, l’era del vano attrezzi che diventa villetta è finita, ma ad esserne avvantaggiati saranno quei progetti di valorizzazione rurale che passano per agriturismi e/o aziende agroalimentari all’avanguardia. Per portare a casa un buon risultato è necessaria la collaborazione di tutte le componenti politiche sociali ed economiche del paese. Non c’è bisogno di giocare con carte truccate, basta usare quelle che Orosei ha in mano e che, ripeto, non sono ne poche ne scarse».

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