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«Parlano tutti di Romilia come se fosse una cosa fattibile, invece non si può fare. Ed è inutile "scaricare" la decisione su Beatrice Draghetti, perché riguarda anche Vasco Errani». L´urbanista Giuseppe Campos Venuti guida l´ira degli urbanisti contro il progetto di Romilia, il nuovo polo funzionale di Alfredo Cazzola che dovrebbe comprendere anche lo stadio decentrato di Bologna, a Medicina. Nei giorni in cui il sindaco Sergio Cofferati invita a "decidere in fretta" e la presidente della Provincia, Beatrice Draghetti, annuncia un tavolo tra istituzioni entro febbraio, Campos Venuti mette uno stop al mega progetto. E l´Istituto Nazionale di Urbanistica (Inu), di cui il professore è presidente onorario, pubblica un comunicato dichiarando «preoccupazione per come il problema degli stadi è affrontato in questi giorni a Bologna».

Campos Venuti è molto diretto: «le istituzioni discutono come se questo progetto si potesse fare, ma non si può fare. Sarebbe commercio di vincoli urbanistici». Per uscire dai termini tecnici, significa, secondo Campos Venuti, «che un privato cittadino non può decidere di edificare su un suo terreno che non vale niente, un complesso di abitazioni e servizi che lo renderà ricco. Altrimenti io domani compro un piccolo campo coltivato e ci costruisco sopra un grattacielo, vendendo gli appartamenti a caro prezzo».

L´equilibrio tra le aree verdi, quelle destinate alla costruzioni di case e quelle per le nuove infrastrutture è codificato in un Piano Territoriale Provinciale (Ptcp) approvato dalla Provincia di Bologna d´intesa con la Regione. Ed è a questo documento che si richiamano gli studiosi dell´Inu, definendo il progetto di Cazzola concepito «in spregio totale della strategia generale del Ptcp, strategia basata sulla valorizzazione insediativa delle direttrici ferroviarie in particolare sulla direttrice Nord». Se si decide che il nord non è più la direzione da tenere, bisognerà motivare la scelta in una deroga al piano. Ma c´è anche un motivo tecnico di salvaguardia del verde: dove dovrebbero sorgere spalti e tribune, scorre il torrente Quaderna, i cui argini e territori cono protetti dal Piano paesistico regionale. Per questi motivi tecnici e istituzionali, gli urbanisti definiscono il piano "inaccettabile".

L´alt su Romilia non significa però che non si possa pensare ad un decentramento dello stadio. Cofferati aveva infatti sollecitato "decisioni in merito a una diversa ubicazione dello stadio" anche per una migliore gestione dell´ordine pubblico, in giorni in cui la violenza negli stadi è un problema di rilievo nazionale. Gli studiosi del settore chiedono però che la nuova struttura si faccia sulla direttrice di sviluppo indicata dal piano, dove si trovano anche strade e infrastrutture, soprattutto con un bando di gara per l´appalto. «Gli operatori privati», spiegano, «potranno aggiudicarsi e realizzare a proprie spese gli stadi da rinnovare o da decentrare, in regime di aperta concorrenza».

«Qui si parla della costruzione di un paese privato nel vuoto», dice Campos Venuti, «dove oggi ci sono solo campi e arriva solo una strada. È quello che Silvio Berlusconi ha fatto con Milano 2. Ma in Emilia queste cose non si sono mai fatte: prima bisogna spiegare a tutti noi cittadini perché è nel nostro interesse che i piani si cambino. Altrimenti si tratta di una variante illegale».

Adesso, secondo Campos Venuti, la Regione deve per forza intervenire. Il tavolo "interistituzionale" che Beatrice Draghetti ha convocato entro fine mese non può non coinvolgere chi ha approvato l´attuale piano della Provincia e deve sorvegliare sulla tutela del paesaggio. «Quest´opera», chiosa l´urbanista, «ci coinvolge tutti come cittadini, quindi è in capo a tutte le istituzioni del territorio».

Su Romilia, in eddyburg

Strane coincidenze, un giorno si illustra il Piano Strutturale Comunale di Bologna e il giorno dopo il ministro Lanzillotta presenta la legge di riforma delle amministrazioni locali che istituisce le città metropolitane – tra cui Bologna. Evviva, si dirà da molte parti che speravano in questa decisione. Come la mettiamo ora con il PSC? Dato che salta la scala territoriale di riferimento e si dilata all´intera Provincia che nel disegno governativo sparisce sostituita dalla metropoli. Una transizione che era nell´aria da tempo, che cerca di sanare sovrapposizioni di competenze e duplicazioni di spese degli enti territoriali. Il PSC insiste invece, salvo marginali sbordature, sul territorio comunale. Disattento a ciò che da molto era noto ribolliva in seno a un governo amico. Una sfasatura che ne mette in crisi l´idea di fondo, la prospettiva urbanistica.

La Relazione illustrativa del PSC intende la città metropolitana come "conurbazione fisica" per "densità e continuità del suolo urbanizzato". Un´interpretazione che non tiene conto, a Bologna come in ogni città del mondo da trent´anni a questa parte, della dilatazione dell´organismo urbano. Che non è più un corpo compatto e uniforme, ma una ragnatela disseminata di gangli, in cui popolazioni e attività si sono decentrati a partire dagli anni ‘70. Su questo tessuto cresciuto senza ordine, polverizzato e informe, vanno pensate politiche di piano in grado di rafforzare le connessioni vitali, per dare unicità, coordinamento, fisionomia all´area degli interessi metropolitani. Una dimensione reticolare della metropoli che non è dunque solo metaforica ma scritta nei fatti.

Il PSC preferisce invece la città densa, compatta. Che è una buona regola trasportistica, ma che viene applicata alla sola Bologna cercando di riconcentrare ciò che è già diffuso. E andava invece finalizzata a un policentrismo metropolitano capace di razionalizzare il caos della dispersione. Attraverso una pianificazione di taglio territoriale più che urbanistica in senso tradizionale. Progettando la città dei cittadini decentrati nell´area vasta, non quella del continuum costruito (e da costruire, saturando i pochi spazi ancora vuoti).

Un PSC che ha anche buone intuizioni. La "città di città" viene infatti ricondotta a una logica funzionalistica. Di cui però quel termine implica il superamento, non negando la necessità di razionalizzazioni, ma affidandole a una concertazione degli interessi di natura plurima. A interventi cioè concordati in contesti e secondo procedure di decisione condivisa. Le "7 città", non a caso disegnate sugli assi morfologici, sono suggestive e sicuramente esprimono delle rappresentazioni utili al riassetto della città. Ma non è questa la città di città. Che va intesa invece come città dei cittadini, come insieme di polis federate nel corpo politico della metropoli.

Al PSC insomma manca una visione politica. Ignaro com´è da un canto della politica in atto a livello governativo, che riconosce la realtà metropolitana. E dall´altro delle sensibilità scaturite dalla critica al pianismo vecchia maniera, che da tempo propongono attenzione all´idea di cittadinanza attiva. Un piano insomma ancora di impronta modernista - senza neppure le mediazioni riformiste del buon welfare dei tempi andati - in cui i cittadini rimangono una variabile (tra le altre).

I «Tre Magi» entrano senza bussare e buttano sul tavolo del sindaco una mappa in cui al posto dei campi di barbabietole si vedono alberghi, case, campi da golf e piste per auto: un parco disneyland. Il sindaco, sorpreso dal magico potere di trasformare barbabietole in oro, alza gli occhi e chiede il perché di tanto ben di Dio… La risposta, paradossale, non si fa attendere: «Serve per fare il nuovo stadio…». Il Sindaco, subito non coglie il nesso, ma poi ricorda che il Bologna è retrocesso in B, che la società era in brutte acque e che i Tre Magi generosamente l'hanno acquistata. E a tutti vengono alla mente le polemiche che si scatenarono quando un pacchetto simile fu proposto a un altro paese al di là di Bologna perché, data l'attività terrena dei Tre magi, si era diffuso il dubbio (o la certezza?) che il povero Bologna calcio fosse solo la scusa per un progetto pensato, subito dopo o subito prima poco importa, del suo acquisto. Il sindaco, che non finisce di stupirsi, nota che l'affare non è proposto dalla società del Bologna Calcio bensì da una società dal nome strano, certamente di comodo, per loro. Come dire… al Bologna Calcio i soldi forse arriveranno, ma solo di sponda, dopo vari giri e se tutto va bene; se l'affare funziona, se non vendono ad altri, ecc. Il solito giro di società già visto in altri luoghi. Ancora perplesso il sindaco dice «vedremo» poi vede al loro fianco uno dei proprietari delle terre interessate felice per la pensata dei Tre che lo liberano dalla fatica di coltivare barbabietole. Uno che conosce bene perché fa parte del consiglio del paese e che dice che bisogna fare presto perché il «miracolo dei Tre Magi» può svanire se il consiglio del paese non decide entro il 2007. E subito nasce la pensata di convocare il Consiglio e il popolo per sentire il loro parere che, si pensa, non potrà essere contrario a un miracolo così evidente di cui nessuno aveva mai parlato, anche se qualcuno ci aveva sperato. Non c'è traccia di una tale ipotesi di trasformazione nei piani di sviluppo del territorio provinciale che con tanta cura e per tanti anni sindaci, tecnici e consiglio locale e provinciale avevano discusso per quella zone, spesso allagate, lontane da autostrade e ferrovie. I Tre non hanno alcun titolo per lanciare quella mappa sul tavolo, se non il loro potere magico. E non è poco di questi tempi, avranno pensato, visto che i Comuni sono presi per la gola e vedono con grande favore oneri di urbanizzazione e nuove Ici per fare funzionare i loro servizi. Ovunque: sussurri e grida, imbarazzo generale, timidi sussulti, richiami a precedenti, accettati e respinti, timori per il Bologna calcio, rifiuto allo spostamento dei tifosi. Preoccupazioni per il traffico? Spuntano una nuova ferrovia e nuove strade: «Tutto si può fare, piccola». Ma basta un'occhiata rapida alla mappa per vedere la stranezza del progetto: le aree di intervento sono come poligoni staccati l'uno dall'altro che si congiungono ai vertici: sembra un progetto disegnato con la logica delle proprietà fondiarie e non certo con la logica del progetto urbanistico.

È tutto molto strano: da anni questo modo di fare era alle nostre spalle e l'attività privata sempre più si misurava con i progetti di riqualificazione e di uso corretto del territorio sulla base della programmazione dei Comuni e della Provincia. Non siamo nelle praterie da lottizzare bensì in una regione molto edificata dove la collocazione di nuovi servizi e così pesanti come questi va programmata sulla base di criteri generali, prima che personali, pardon societari. Ed ecco il colpo si scena. Il sindaco convoca il Consiglio comunale aperto a tutti e consegna il microfono al capo dei Magi che lo terrà per tutta sera. Tra perplessità e applausi, il più costruttore tra i Magi fa una grande pensata: «Non è previsto nel Ptcp? Ma non c'è problema. Sulla base dell'articolo 40 faremo un accordo anche con la Regione e tutti i problemi saranno risolti». Magico?… O forse pensavano di essere entrati nella stalla prima dell'evento? Nei film più popolari a questo punto arrivano i nostri che con la tavola delle regole spiegano a tutti, e in particolare ai Tre Magi, che lo spettacolo pirotecnico è stato folgorante ma che passata l'ubriacatura serale e alla luce del giorno le cose saranno affrontate in punta di spada, pardon di penna, con la verifica di tutte le compatibilità partendo dalle previsioni della «mappa generale» che si è costruita nel rispetto delle nostre tradizioni di programmazione. Saremo anche poco fantasiosi noi terreni ma, come si dice, in queste terre di questi miracoli ne abbiamo visti pochi, e ci riteniamo fortunati.

Ugo Mazza, Consigliere regionale Ds

Romilia: un sogno da 500 milioni

red. - la Repubblica, 30 novembre 2006

Si chiamerà Romilia e sarà il maxi-investimento del Bologna. Romilia come un vecchio angolo della Fiera campionaria di qualche lustro fa. «Quel nome m´è sempre piaciuto - ha spiegato Alfredo Cazzola - e in questo caso, unendo l´Emilia alla Romagna, mi sembra il più appropriato». E´ l´area di circa 300 ettari, fra Budrio e Medicina, sulla quale sorgerà il nuovo stadio del Bologna; e poi il centro tecnico, ossia campi sportivi, ristorante e residence, la stazione ferroviaria, un centro commerciale, un´ampia zona residenziale, un campo da golf da 18 buche e ben tre parchi tematici. Uno dedicato al divertimento (con tema l´Europa), uno al fitness, uno all´auto, sulla scia del Motor Show, una sorta di motor valley che guarda alla vicina Imola (Cazzola è interessato a rilevare la gestione dell´autodromo).

«Più che un progetto - ha chiarito Renzo Menarini, costruttore e socio del Bologna -, si tratta di un´idea di progetto che presenteremo al più presto alle istituzioni cittadine». Ieri mattina intanto, presso l´Associazione industriali di via San Domenico, è stato illustrato alla stampa. L´operazione è faraonica e destinata a rivoluzionare, se andrà in porto, il comprensorio ad est di Bologna ed anche la sua economia. I costi s´aggirano sui 500 milioni di euro, mille miliardi di vecchie lire. Due o tremila coloro che da questa operazione trarranno occupazione. «Per definire correttamente il piano finanziario - ancora Menarini - bisogna aspettare che le amministrazioni coinvolte accettino la nostra proposta, poi bisognerà valutare i tempi: comunque sia, su queste dimensioni un affare del genere siamo in grado di affrontarlo noi». A cominciare dagli investimenti per la sola viabilità. «Metteremo noi fra i 35 e i 40 milioni di euro», ha sintetizzato Cazzola in apertura del suo intervento. Noi, cioè lui stesso, Menarini e Bandiera, il terzo socio del Bologna.

«Cambieremo pelle al Bologna, questo è un progetto molto innovativo, come ci eravamo prefissati quando acquistammo il club. Il futuro della società è di trasformarsi in un entertainment company, un club che sviluppa e gestisce, oltre al calcio, una serie di iniziative ed attività tali da consentirci di aumentare sensibilmente le nostre entrate. Anche se c´è in ballo, e sino al 2028, la convenzione col Comune per il Dall´Ara, che noi rispetteremo e della quale siamo pronti a ridiscutere col Comune, questo progetto di Romilia non può prescindere dal nuovo stadio che, se i cantieri partiranno nel 2008, potrebbe essere pronto nel 2010 o nel 2011, in tempo utile anche per gli eventuali Europei del 2012. Perché il nuovo stadio sarà il motore di questo progetto: dietro a tutto c´è un´idea di marketing legata al Bologna. Vogliamo, partendo da lì, proporre un´offerta innovativa per vivere nel migliore dei modi questo ampio territorio. Sarà una zona molto servita, fra superstrade, un´autostrada, un treno e ci si arriverà agevolmente e spendendo pochissimo, senza contare gli oltre 16 mila parcheggi». A chi gli chiedeva conto delle eventuali reazioni dei tifosi, costretti a lasciare il Dall´Ara per arrivare a Fossatone, Cazzola ha risposto che «da questo progetto credo proprio che trarranno soddisfazioni, benefici e orgoglio. Perché aumentando patrimonio e fatturato, potremo essere all´altezza dei nostri migliori competitori».

Campos Venuti: «Fermate Romilia»

Andrea Bonzi - l'Unità, ed. Bo, 2 dicembre 2006

«Romilia? È una proposta sbagliata, fuori dalle attuali linee di sviluppo del territorio. Così si torna agli anni ‘50, dove chi comandava era la proprietà fondiaria. È inaccettabile». Non usa mezzi termini, il famoso urbanista Giuseppe Campos Venuti, nel bocciare la proposta immobiliare-sportiva di Romilia, il sogno della triade rossoblù Cazzola-Menarini-Bandiera. Un’opposizione «non certo ideologica - spiega Campos Venuti -, nessun timore dell’impatto ambientale, che è risolvibile, e neanche dei grandi cambiamenti urbanistici».

E allora, Campos Venuti, perché Romilia non la convince?

«Perché non è coerente con il piano dello sviluppo del territorio bolognese. Nel Piano territoriale di coordinamento provinciale (Ptcp) si individuano tre direttrici su ferro: verso Ferrara, Budrio e Verona (passando per San Giovanni in Persiceto). L’area su cui vogliono realizzare Romilia sta a Medicina, che è estranea a questo disegno. Io sono favorevole alla flessibilità, ma l’operazione deve essere organica al complesso, altrimenti si cambia la strategia. Così si finisce per valorizzare un terreno privato a spese della collettività».

In che senso? Cazzola e soci sono pronti a investire 500 milioni di euro...

«I privati possono coprire i costi degli alloggi, dei parchi tematici, del centro commerciale, del campo da golf, dei centri fitness... Ma i 15 chilometri di strada aggiuntiva fino alla tangenziale e l’allungamento delle rotaie per far arrivare lì il treno chi li paga? E le fogne e gli allacciamenti idrici? Le istituzioni non hanno neanche i soldi per pagare il Passante nord, il Servizio ferroviario metropolitano (Sfm), il metrò. Se non ci sono risorse per finanziare le opere considerate indispensabili, perché spendere altrove?».

Per le opere infrastrutturali hanno previsto una quarantina di milioni, sempre a carico dei privati...

«Sono briciole. Per fare un paragone, ci paghi giusto un pezzettino di metrò. I costi delle infrastrutture sono sotto gli occhi di tutti. Il progetto andava pensato lungo una delle linee di sviluppo del territorio, così resta solo un bel plastico: non è che possiamo costruirlo a Medicina solo perché un privato ha 300 ettari da valorizzare, così si ritorna agli anni ‘50, quando erano i latifondisti a comandare».

Di decentrare alcune funzioni d’eccellenza, in questo caso lo stadio, si parla da un bel po’ di tempo. Non si perde un’occasione?

«È un tema che si ripresenta ciclicamente. Un’idea fu sottoposta addirittura a Imbeni. Un’altra l’aveva in mente Gazzoni Frascara. Nel caso di Romilia, lo spostamento dello stadio mi sembra un pretesto per un’operazione immobiliare».

Come giudica l’atteggiamento degli enti locali bolognesi?

«Il Comune di Bologna, con il sindaco Sergio Cofferati, ha dichiarato che non vuole averci nulla a che fare e vedrà eventualmente cosa fare del Dall’Ara; la Provincia è stata richiamata a un inevitabile richiamo al Ptcp e ha spiegato che metterà in campo le verifiche opportune».

La Regione, però, con l’assessore Campagnoli, parla di tassello fondamentale per la Motor Valley?

«Se è funzionale per spostare da Bologna il Motor Show di Cazzola io sono felicissimo. Quanto alla Motor Valley, rilevo solo che abbiamo appena perso il gran premio di Imola. Piuttosto, mi dispiace l’atteggiamento della Regione e di Campagnoli, diessino come me. L’ente di viale Aldo Moro sta monitorando l’attuazione da parte dei Comuni e delle Province della legge urbanistica 20/2000, ma non ha ancora fatto il suo piano territoriale, di cui da troppo tempo sentiamo la mancanza. Con i primi Romilia non è sicuramente coerente, non vorrei che il piano regionale si adattasse».

Postilla

Molto ci sarebbe da aggiungere alle critiche, condivisibili, di Campos Venuti a questo nuovo progetto. A partire dalle modalità di presentazione: una conferenza stampa di imprenditori privati che illustrano ai cittadini – i futuri potenziali consumatori - l’arrivo di un nuovo Paradiso chiavi in mano. E potrebbe bastare il contrasto con le direttrici di sviluppo delineate nell’attuale PTCP per suscitare nelle istituzioni territoriali interessate una reazione un po’ più allarmata rispetto all’attuale: un mix di cauta attesa, quando non di aperto, plaudente sostegno. Un assessore comunale l’ha definito “progetto con una grande logica imprenditoriale” e voleva essere un complimento.

Quanto poi al “pagheremo tutto noi” della triade degli investitori, beh, grazie, ma abbiamo già dato…(m.p.g.)

Da anni utilizziamo metafore che recepiscono la diffusione del fenomeno urbano: sprawl, controurbanizzazione, città dispersa, città diffusa, città infinita. Uno sfaldamento della città che ha messo in crisi l´idea stessa di città e ha portato persino a negare il persistere della polis. Che ha infatti perso sia i connotati, l´identità di "luogo", che il senso di comunità solidale. Non c´è più "città". Si è dispersa nel territorio ex agricolo senza carattere, specificità. E´ saltata non solo la forma urbis ma, in un gioco semiotico di rispecchiamenti, il territorio della convivenza, delle aggregazioni sociali, della vivibilità. A Bologna come altrove. Il territorio assediato. Per assenza di pianificazione. Soffocato per invadenza della "bolla" edilizia.

La mancanza di un progetto a Bologna e in Emilia è particolarmente preoccupante. (La revisione in essere degli strumenti urbanistici si basa solo sulle nuove quote di edilizia residenziale da realizzare - oltre a quelle tutt´altro che modeste contenute nei piani vigenti - e su infrastrutture atte a favorire la motorizzazione privata). Si ignora il problema dell´area metropolitana. Manca la presa d´atto (fattuale e non solo astratta) che natura e struttura della città sono cambiate. Che il suo aggregato fisico si è dilatato ben oltre i confini comunali. Che i suoi abitanti si sono dispersi nei paesi e nelle campagne e che chi la frequenta e usa non è più il cittadino di un tempo.

Questioni talmente note che ribadirle annoia. Ma che non trovano coerenti politiche territoriali. Soluzioni adeguate. La Regione tace da anni. (Sull´assetto del territorio, esiste ancora?). La capacità di controllo della Provincia si è dimostrata fallimentare. Il Comune si è isolato all´interno dei suoi confini.

Per paradosso si attende dal governo centrale una decisione che dovrebbe invece appartenere prima di tutto alle politiche locali. Qui sta l´errore di fondo.

Attribuire all´area metropolitana un esclusivo ruolo infrastrutturale e di strumento di captazione di finanziamenti pubblici. Una logica di subalternità dal centro che fa poco onore alla capacità emiliana di autodeterminazione e innovazione istituzionale e mette in luce la scarsa consapevolezza politica dei problemi complessi dell´area vasta. Che non attengono le elargizioni del centro, ma scelte politiche in direzione di nuovi modelli di decisione e di rappresentanza locale.

Sino a che non si trova il modo di coinvolgere i cittadini metropolitani nelle scelte la situazione rimarrà ingovernabile, di disagio, dissenso, malessere. I cittadini metropolitani debbono contribuire all´elaborazione di un progetto innovativo in grado di definire un giusto assetto del territorio. Ma il desiderio di partecipazione espresso da associazioni, comitati, gruppi civici viene accantonato o costretto entro contenitori fittizi. Uno spreco di risorse sociali, di idee e progettualità preziose invece per uscire da una fase avvilente di declino e di perdita del senso di appartenenza al proprio territorio. Il tema della "città di città", della irrinunciabile revisione statutaria delle Circoscrizioni, della creazione di nuovi municipi federati viene svilito ad artificio retorico privo di operatività. Nulla si sta facendo per ridare significato al vivere metropolitano. Urge una riforma delle rappresentanze e dei processi di decisione che sappia tenere conto dei contributi che la società può offrire e li traduca in effettiva potestà, rinunciando ad alcune prerogative in favore di un reale decentramento capace di ri-formare la città come "città-di-città" del terzo millennio.

Su questi temi domani, mercoledì 22, in aula Absidale si svolgerà un´iniziativa che prevede alle 15,30 una tavola rotonda "Dall´oblio dell´urbano a una città di città", coordinata da Guido Fanti, in cui si discuterà di alternative possibili con un´attenzione precisa all´idea di metropoli come città di città progettata con la partecipazione dei cittadini. Senza dimenticare le recenti polemiche sulle aree collinari, sul degrado di alcune aree del centro storico e sull´abbandono a loro stesse delle Circoscrizioni bolognesi. Alle 20,45 si terrà un esperimento di teatro-forum "Il piccolo urbanista: gioco partecipativo sulla città", inscenato dall´associazione Giolli Teatro sulla città immaginaria di Sergeville. Una tecnica partecipativa volta alla ricerca di soluzioni ai conflitti e all´individuazione degli elementi di creatività collettiva da essi generati.

Bologna, la grassa, la capitale prodiana, la città modello dell'urbanistica pianificata di sinistra è diventata una città alla «Blade Runner»? La denuncia lanciata l'altro ieri dal cardinale Caffarra durante la messa per i quattro santi patroni delle arti murarie suscita valutazioni diverse. Caffarra ha parlato di una Bologna «deturpata e sfregiata», perdita di «bellezza e dignità estetica in alcune parti» e ha invitato chi è «impegnato nell'arte muraria a essere custode e difensore dell'intima bellezza». Una diagnosi impietosa ma senza riferimenti a casi specifici. Per cui, per confortarla con esempi, ricorriamo ai casi discussi negli ultimi anni: le periferie, in particolare il quartiere Pilastro. Poi il degrado diffuso, con scritte sui muri e muri usati come pisciatoi. Qualche architettura discutibile: il virgolone del quartiere Barca, la discoteca in corso di trasformazione in residence presso San Luca, Borgo Masini al posto degli stabilimenti Vecchia Romagna, la zona industriale Roveri, la Fiera District di Kenzo Tange e i grattacieli, l'area per esposizioni della Pinacoteca nazionale, le gocce di Mario Cuccinella.

Ma Caffarra ha ragione? La sinistra boccia la sua analisi. Il padre dell'urbanistica, Giuseppe Campos Venuti (che fu anche assessore), fa spallucce: «Non sono anticlericale, ma i preti si occupino d'altro. Il quartiere Pilastro venne fatto quando lo Iacp era controllato da chi era capo dell'ufficio nuove chiese. Lì si son fatti servizi e scuole; è vero però che ci fu una ghettizzazione etnica, si concentrarono tutti i meridionali. Borgo Masini (secondo alcuni un progetto esemplare ndr) è stato fatto da Pierluigi Cervellati, che ha gestito ogni ritocco non perfettamente storicistico nel centro storico da me salvato, ma poi ha fatto quelle boiate con il vicesindaco Salizzoni, che aveva ottenuto un'autorizzazione negli anni Sessanta per abbattere una chiesa e fare un supermercato. Io salvai la chiesa. La verità — conclude — è che Bologna è tra le città meno peggio nel disastrato contesto italiano. A Bologna serviva una facoltà di architettura, che non si è voluta fare».

«BASTA INGERENZE» — Sulla sua linea anche il critico d'arte Renato Barilli. «Sono preoccupato dell'ingerenza continua della Chiesa: Bologna non è Napoli, ha delle periferie degradate come ce le hanno New York e Bogotá. Certo, io speravo che Cofferati fosse in grado di recuperare maggior decoro, su questo sono deluso».

Il discorso del cardinale trova parziale approvazione in Carlo Monaco, già assessore all'Urbanistica della giunta Guazzaloca. «Architetti come Campos Venuti e Pierluigi Cervellati avevano confezionato un mito di Bologna che io ho sempre denunciato come falso. Si è tutelato centro storico e colline, ma il resto è senza qualità per due errori: il ricorso allo zoning, che ha creato quartieri come la Fiera District e la zona industriale Roveri; e il ricorso al metodo di un metro di verde per un metro di costruito. Tutto ciò non ha funzionato, così come in altre città. Bisognava puntare sulla città policentrica costruendo centri in periferia. Poi fare dell'arte pubblica e migliorare la pulizia: c'è troppo sporco sui muri ed eccesso di polvere».

L'ABBRUTIMENTO — Pierluigi Cervellati condivide l'invettiva di Caffarra, ma non giudica Bologna peggio di altre città. «Gli inserimenti architettonici di Bologna sono analoghi a quelli di altre città e la crescita dei quartieri economici è addirittura migliore. Ma sta venendo meno il senso civico. Bologna ha cercato di salvaguardare il centro storico e la zona collinare e sviluppato i quartieri popolari. Non ha una bellezza esibita e turistica e sta diventando una città dispersa, una non città, poco vissuta e con perdita di senso di appartenenza. Gli studenti la subiscono e le strade sono utilizzate come orinatoi. C'è un abbrutimento che va al di là dell'architettura». Un brutto segno per una capitale del sapere con la sua università di via Zamboni, l'Archiginnasio e l'Accademia Clementina centro dei grandi studiosi d'arte felsinei. Un paio di brutti esempi Cervellati li segnala: «L'ex discoteca Vertigo trasformata in residence dopo un valzer pluriennale di carte bollate e azioni legali: è uno scandalo che nessuno, fra i tanti funzionari, si sia accorto del danno che si stava facendo al vicino gioiello barocco di San Luca». L'altro è «il campo da golf che si sta costruendo in collina». Un terzo è «trasformare edifici del centro storico con diversa funzione d'uso non idonea, come boutique o megastore che svuotano edifici», facendone dei non luoghi anonimi. Ricetta: «Bisognerebbe tornare alla pianificazione».

Anche il critico Vittorio Sgarbi, nato nella vicina Ferrara, nota «trascuratezze di gestione e le difficoltà di una città monumentale, ma non turistica». E con qualche errore. «Con Giorgio Morandi Bologna diventò una capitale dell'arte moderna, ma quando morì la sua casa in via Fondazza venne smontata per farne appartamenti anziché una casa museo e il suo museo l'hanno fatto altrove»: era già un segnale di quella perdita d'identità che molti rilevano sotto le due torri. Quando poi si passa al «nuovo», Sgarbi è caustico: «La Pinacoteca nazionale ha sistemato un orrendo spazio mostre sotterraneo. Con sindaco Guazzaloca, l'architetto Cuccinella ha progettato due "gocce" che erano dei pisciatoi ovali di vetro e cemento a quaranta metri da piazza Maggiore per fare il centro di documentazione dell'attività politica». Ora rimossi da Cofferati.

Questo articolo è stato pubblicato ieri da «Il Domani di Bologna» Lo ripubblichiamo per gentile concessione.

A guardarla, oggi, giugno dell' anno 2006, e a camminarla, ad ascoltarla per la strada, per le strade, ove dà suoni infuriati e quasi costanti; insomma a viverla da cittadino ogni giorno, ogni ora del giorno e dell'anno, con le sue spesso drammatiche necessità vitali; oggi, ripeto, Bologna appare una città stravolta, perforata, bucata, scavata, martellata, intubata in ogni ambito, strade stradine stradone ponti cavalcavia, come sotto un bombardamento di confusione e di polvere. È anche, a volere dire tutto, costantemente impiastricciata in ogni dove: cassonetti, muri, colonne, serrande, vetrate, porte, sopra e sotto; scritture e segni grossi grevi che nulla hanno a che fare con le intemperanze lucidamente linguistiche di un tempo ormai dimenticato, perché allora erano spesso sospinte da una rabbiosa partecipazione d'amore, come se si scrivesse sul braccio o sulla spalla di una madre, non per maledirla o aggredirla ma per implorare alla fine di essere riconosciuti e abbracciati.

Questa città, unica finestra aperta sulla schiena d'Italia, è impietosamente spezzatacome ossa d'agnello fino dal medioevo, quando nelle strade scorreva il sangue e chi aveva il sopravvento abbatteva muri palazzi alberi torri della o delle famiglie nemiche e non aveva tregua se non quando arrivavano armigeri spietati da lontano i quali matavano i vinti; poi, volendo arrivare con un balzo rapido a toccare tempi più ravvicinati, appena acciuffata dai Savoia e incollata all'Italia, ha avuto abbattuto il cerchio delle mura (fra i più integri in Europa) e abbattute le torri (Bologna la turrita era chiamata) preservandone soltanto le ultime due, che adesso stanno lì incastrate nel pieno centro come due salami penzolanti in bottega; poi è stata maciullata nel corso della seconda guerra infernale; e, in seguito, sommersa da una alluvione cementizia, spesso per necessità, spesso per avidità, spesso per una sorta di delirio urbanistico, imperiale, da Bologna in Europa, Bologna nel mondo, quasi che potesse competere al centro con le grandi metropoli. Mentre è una città bella e solenne, appena un po' giocosa nonostante tutto; minuta e splendida ma troppe volte vilipesa dalla storia, dagli avvenimenti e dall'aridità degli uomini; perciò adesso va difesa, come è possibile, con le unghie e con i denti; va stretta al petto, tutelata in ogni modo e occasione come un animale infradiciato dalla pioggia e ritrovato dopo ricerche nel bosco. Con l'unico diritto di averla sempre partecipata in tanti anni di vita, si può esprimere la convinzione che la prima collina bolognese è l'ultimo baluardo ecologico, l'estrema trincea contro l'ingorgo respirativo, vitale per una città che è fra le più inquinate non solo d'Italia,ma d'Europa; che ha sessanta chilometri di portici, i quali, se da una parte rappresentano un vanitoso privilegio, da altra parte sono subdoli tutelatori di aria pestifera; con un traffico su ruote e sfugge a ogni realistico e rigido controllo, dato che non si riesce a renderlo compatibile neanche un po' con le strettoie delle sue vie principali.

Adesso poi, l'ho già accennato, ha più cantieri aperti di ogni altra città italiana. Cosa si può addossare ancora a questa intrepida ma conculcata Bologna?

Con la presunzione da parte dei poteri politici amministrativi, magari di farla più giovane, più agile, più scattante, sopra sotto ai lati, nello sprofondo delle sue viscere? Una frenesia che è data dalla contaminazione di questo tempo infuriato e spesso scriteriato nel suo scannamento delle cose e dal fatto che - non essendo più disponibili le idee forti e drammaticamente precise e individuabili di un tempo, alle quali collegare il carro dei pensieri o della vita - si tende a rivolgersi a processi, a programmi grandiosi di cui noi abbiamo avuto la torturante esemplificazione da ragazzini, quando si sventravano città e quartieri per la smanie imperiali dei padroni del vapore; per vederle dopo poco ridotte in polvere, in fumo, in cenere, in fuoco.

Bologna nel dopoguerra con un solo quinquennio di intermittenza, è sempre stata amministrata con rigore da una sinistra che era ammirata (lo ripeto) anche all'estero e una delle scelte di queste amministrazioni, nel corso di cinquant'anni, è stata la difesa intransigente della collina; lo ripeto: intransigente, della prima cerchia collinare. Non una difesa generica ma all'erta e mai indecisa; nonostante alitasse, sopra questo spazio aperto al cielo, il fiato - bollente - della speculazione; in agguato, per percepire anche solo i primi scricchiolii in tali propositi di difesa. Sbavando per la voglia, qua e altrove, di fronte a questi spazi di alberi, prati, silenzio e nuvole. Trentacinque anni fa il settimanale l'Europeo, bene attivo nelle battaglie socio-ecologiche, allegò ai fascicoli per dieci puntate degli inserti intitolati «Il Malpaese -Atlante dell' Italia distrutta». Il primo l'ho sotto gli occhi, era dedicato al Veneto: «Il saccheggio dei Colli Euganei». A sfogliarlo non possono non venire ancora i brividi nella schiena. Firmava Paolo Ojetti e iniziava: «Che questo fosse diventato il malpaese, il paese del malessere, del malcostume, del malgoverno, un paese malato di un male oscuro,sommadi tanti altri malanni, non lo si capì né il giorno dell'alluvione del Polesine, né il giorno del crollo della diga del Vajont, né quando l'onda dell'Arno cancellò i tesori d'arte conservati a Firenze. Lo si capì invece quando, improvvisamente, nel 1970, ci si accorse che, senza una vera ragione, senza che fosse capitata una catastrofe, senza insomma che la cattiva stella o altre diavolerie ci avessero messo lo zampino, le ruspe e le scavatrici ci stavano mangiando a grossi bocconi iColli Euganei. Se non si fossero mossi dei giovanotti del posto e la grande stampa, l'assalto ai colli si sarebbe fermato solo il giorno in cui al posto dei colli ci fosse rimasta una spianata grigio cenere. Ancora oggi si vedono le ferite profonde di quel delitto incompiuto. Le cime, torturate, tagliate al vivo come da grandi lame di coltello, testimoniano ancora l'ignobile saccheggio di queste colline, terra di conquista di molti cavatori e di pochi, insipienti e corrotti, detentori del potere. A ridosso di Arquà, Monselice, Este, Vò, sulle ferite di un tempo cresce ora una peluria verde, stentata e rara. Ma non è finita...».

Oggi, da noi qui a Bologna, si sente parlare con voce alta ma con toni d'agnello, con una sorta di leggerezza quasi svagata, di propositi sulla nostra prima collina.

Con il pretesto che è mal tenuta, che è poco e male usata, che Bologna merita una collina splendente di luci e fiori per la delizia deambulante dei cittadini; e promettono che non sarà sfregiata neanche da un graffio, o dal rumore di una foglia caduta, o dall'ala perduta da un uccello migrante; e a conferma, si allestirà un campo da golf di 18, no, di 36 buche desiderato da tempo dalla popolazione. Magari si aggiungerà un agriturismo, così che si potranno evitare i viaggi in Toscana, Umbria o in Sicilia e altrove, potendo caricare le valigie sull'autobus 30, che arriva in dieci minuti a destinazione, per un pronto contatto con la natura ritrovata. Forse si potrà aggiungere qua e là un baretto progettato da qualche importante architetto giapponese, di legno pregiato, per il sollievo delle coppiette sazie d'amore. Per il resto, si è letto, nessuno si permetterà di toccare sfiorare tagliare calpestare neanche un'erbetta (il colle della Guardia non può essere un esempio). Così è stato insinuato nello scalpitare dei primi progetti; da contrastare con uno scatto immediato prima che prendano il minimo abbrivio. Si può fare una seconda citazione, a conferma che in Italia la sostanza delle cose cambia poco, nonostante il passare non degli anni ma dei secoli; e nonostante la nostra mai esausta presunzione. Da «Il Marzocco » di Firenze n° 23, 7 Giugno 1903: «Per le porte di Bologna». «Un destino fatale gravita su Bologna in quest'alba di secolo. I Consigli municipali si susseguono anzi si mutano compiutamente; i partiti radicali succedono a' più moderati. E in grembo del Consiglio da tre anni non si ode che una voce: abbattiamo le mura! Come se la città non avesse altri e maggiori bisogni essenziali; ed ogni soluzione dipendesse dal dirompimento di una cerchia, che par saldata nel bronzo, che non toglie l'aria a nessuno, che allieta la passeggiata pei viali, che è destinata - sì, destinata - a sfidar altri secoli e a coronarsi di altre grandi memorie. Il destino fatale vuole anche che queste mura appartengono al Comune... ». Oggi vediamo dove sono finite le mura. E un Comune che non riesce a ristabilire ordine civile in piazza Verdi, in piazza Santo Stefano, in via del Pratello (non per ignoranza o per mal volere ma perché manca di mezzi e di persone e affronta il disagio come può, in un modo genericamente sussultorio, perché non si può fare altro, pensare altro, inventare altro che non sia la minutaglia della giornata, di volta in volta) come potrebbe garantire, in un contesto nazionale in generale così degradato, una gestione attenta e coordinata in uno spazi periferico tutto da inventare? Certo, con la collaborazione dei privati; socchiudendo la porta, che con un calcio verrà poi scardinata. È stato appena detto che la collina, questa collina va usata. Mi permetto di ricordare che da noi, in Italia, ogni uso si traduce prima o poi in un abuso; o in manomissione al servizio dei vari interessi; sicché penso sia meglio parare via, come mosche, ogni proposito nei riguardi di questa fascia di terra alberata non ancora deturpata; per secoli una delle difese degli ultimi benefizi ecologici di questa nostra città.

Il Sole 24 Ore, nell’indagine sulla qualità della vita nelle città italiane relativa al 2004, colloca Bologna al primo posto della classifica. Le aree di valutazione che le garantiscono questo posizionamento sono principalmente il tenore della vita, la qualità del lavoro, dei servizi e del tempo libero. Si tratta cioè di quelle componenti qualitative che formano l’immagine della città, nel pensiero comune degli italiani. E sempre il Sole 24 Ore informa anche che la città felsinea è al penultimo posto per ciò che attiene la “criminalità”. Dato – anche questo – tutt’altro che inatteso, se non fosse per l’emerge, negli ultimi tempi, di una presenza insistente nelle cronache nazionali, delle azioni che si stanno mettendo in campo nella città governata da Sergio Cofferati, per contrastare “l’illegalità”.

L’impressionante copertura mediatica a documentazione delle attività per riportare la legalità a Bologna costituisce così un piccolo paradosso, se si prendono per buone le classifiche del prestigioso quotidiano di Confindustria. Da un lato i blitz nelle “banlieue” dei baraccati abusivi diventa una caso nazionale che invade i media come successe per le sanguinose faide di Scampia. Dall’altra l’immaginario collettivo di una nazione, corroborato dalle indagini statistiche, che vede Bologna campionessa della qualità della vita.

Sembra cioè che esista una città “percepita” e una, per così dire, “reale”. Quest’ultima, pur nelle mille difficoltà della sua metropolizzazione, è ancora, in fondo, il “benchmark” per le città medio piccole italiane ed europee. La città “percepita”, quella vissuta e camminata quotidianamente, dove le classifiche contano poco se sei tra i 40 mila studenti fuori sede che scuciono (magari in nero) fino a 500 euro per una stanza, quella sembra essere la palestra più interessante, cui dedicare attenzione e applicare il metro della legalità. Qualche numero può così aiutare a decifrare la percezione, perché è difficile ignorare, per esempio, che a fronte dei suoi 90 mila studenti universitari, la città offra soltanto 2 mila posti letto in strutture per il “diritto allo studio”, e che i restanti fuori sede debbano arrangiarsi col libero, ed insostenibile, mercato dei fitti.

Ma dall'altro lato c'è la Bologna del 65% di residenti con almeno una casa in proprietà, tendenzialmente anziani (col 26% di ultra sessantacinquenni Bologna è tra le città con più anziani del Paese), che sopportano costi e inflazione da primato nazionale: a giugno 2005, in città, l'indice dei prezzi al consumo segnava +5% per la componente legata ai costi per l'abitazione e l'energia. Così il sistema abitativo diventa un cane che si morde la coda, in una escalation di costi che erode la capacità di spesa tanto degli inquilini quanto dei proprietari.

Poi in una città con elevati tassi di ricambio sociale, in cui oltre il 60% dei residenti non è di origine bolognese e l'incidenza degli stranieri residenti è ormai vicina al 7%, diventa complicato mantenere in equilibrio il sistema delle regole, quando sono legate intimamente alla capacità dei cittadini di considerare Bologna la "propria casa" - da accudire, mantenere, "lucidare" - e non un luogo temporaneo di consumo e produzione.

D'altra parte però anche il governo urbano, a volte, non aiuta a questo fine. Si prenda ad esempio la programmazione delle attività commerciali, che sembra aver seguito lo spontaneismo più che la razionalità: alcune zone diventano così plaghe vuote di residenti e piene di uffici, che a notte sono territori di spaccio e degrado; o straordinari addensamenti di locali notturni fracassoni o pieni di vita - dipende dal lato in cui li si guarda - incompatibili comunque con la vita delle famiglie che vi abitano sopra o a fianco; e ancora fiumane di auto che assediano marciapiedi, passi carrai e corsie preferenziali.

Il caos prodotto dall'evasione diffusa delle (piccole?) norme che regolano i comportamenti di una collettività complessa come quella bolognese, finiscono così, inevitabilmente, per contribuire a percepire e praticare una città incivile e sregolata. A questo disordine comportamentale, forse, bisogna riferirsi per intendere a pieno la questione della legalità.

Che poi ad evadere le regole siano cittadini distratti, locali fracassoni, proprietari immobiliari senza troppi scrupoli, irriducibili dell'automobile, baraccati o spacciatori, poco importa. Il problema della legalità - in quanto principio fondativo della vita comune - non deve, per sua natura, proporre distinzioni di sorta. Bisogna però fare molta attenzione a non ostacolare la vita comune, e negare la città in quanto tale, per colpire l'illegalità. Sarebbe questo un danno peggiore di quello commesso dagli evasori.

Negli ultimi dieci anni non era mai successo che venissero vietate, quasi in contemporanea, due manifestazioni politiche sicuramente non contrapposte nei contenuti tra di loro. Ecco di cosa si tratta:

- Per Sabato 10 dicembre, alle ore 16, il Coordinamento "Bologna città aperta - Open Your Mind" ha promosso "Cannabis Parade 2005", una manifestazione antiproibizionista alla sua terza edizione (il periodo in cui si è svolta negli altri anni è sempre stato tra il 5 e il 12 di Dicembre). Il cartello dei promotori riunisce Livello 57, TPO, Link, CaCuBo, Sub Cave Scandellara, Covo e Sottotetto. Si tratta di un appuntamento per ribadire il No alla Legge Fini sulle Droghe che apre la strada alla punibilità penale dei consumatori e per tornare a porre la questione degli spazi di aggregazione sociale e culturale in città. La manifestazione prevede una prima parte con un piccolo corteo da Piazza San Francesco a Piazza Maggiore e ritorno e una seconda parte con appuntamento in via Rizzoli alle 22 da dove partiranno bus navetta per gli spazi aderenti all'iniziativa dove, nel corso, della notte sono previsti una serie di eventi al chiuso.

- Per Sabato 10 dicembre, alle ore 16, in Piazza Nettuno, il Coordinamento "Facciamo Breccia" (composto da Antagonismogay, M.I.T. Movimento Identità Transgender, Arcilesbica, Sexy Shock, Comunicattive, XM24, Unione Atei Agnostici Razionalisti, Rete di Bologna contro la legge 40) ha organizzato un sit-in dal titolo "Zona devaticanizzata", in occasione della giornata internazionale per i diritti umani, per riaffermare il diritto all'autodeterminazione sui propri corpi come diritto umano inalienabile, e per ribadire la laicità dello Stato Italiano rispetto soprattutto ad una serie di tematiche come PACS (coppie di fatto), legge 194 sull'Interruzione Volontaria di Gravidanza, legge 40 e Procreazione Medicalmente Assistita, utilizzo delle risorse pubbliche e rapporto tra istituzioni politiche e istituzioni religiose. Sono previsti banchetti con materiale informativo.

Nella giornata di ieri la Questura ha comunicato agli organizzatori e alle organizzatrici il divieto dei due appuntamenti:

- il primo per ragioni d'ordine pubblico derivate dallo svolgimento del Motor Show e dalla particolare giornata dedicata allo shopping natalizio;

- il secondo per ragioni d'ordine pubblico, in quanto la Questura non sarebbe in grado di tutelare l'incolumità dei presenti al sit-in di Piazza Nettuno, zona che potrebbe essere coinvolta in incidenti causati dai partecipanti alla prima manifestazione non autorizzata (sic!).

Si tratta di due provvedimenti gravissimi che mettono a repentaglio uno dei diritti principali previsti dalla Costituzione: il diritto a manifestare le proprie idee. E tutto questo per tutelare gli interessi del Motor Show (che non pochi disagi sta provocando ai cittadini di Bologna, per via degli alti tassi di inquinamento acustico e del traffico intenso che produce tutti i giorni enormi ingorghi e blocca intere zone della città) e della lobby dei commercianti che ha già avuto il "regalo" dello spegnimento di Sirio il sabato e nel periodo natalizio.

FINO A DOVE SI VUOLE ARRIVARE? Il restringimento degli spazi di democrazia in questa città sta diventando un problema serissimo che non può preoccupare solo le persone che, di volta in volta, cadono sotto la mannaia repressiva. Bologna, nell'ultimo anno e mezzo, è diventata la città italiana con il maggior numero di procedimenti e azioni penali per episodi di lotta politica e sociale. L'ultimo in ordine di tempo, il rinvio a giudizio contro 12 attivisti del Bologna Social Forum e del movimento per il corteo del 18 gennaio 2003 contro Forza Nuova. La cosa curiosa è che nella stessa settimana in cui è stato notificato il provvedimento, i fascisti di Forza Nuova hanno potuto scorazzare indisturbati con la loro "ronda petroniana" per il quartiere di Corticella, aggredendo un immigrato sotto gli occhi della polizia.

Sono ancora fresche le manganellate finite sulle teste di studenti e militanti della sinistra radicale, davanti al Comune lo scorso 24 ottobre per impedire l'accesso alla sala del Consiglio Comunale (corollario di quelle cariche poliziesche, 34 denunce).

E' di questi giorni la notizia delle decine di multe (da 1033 euro l'una) a un gruppo di una ventina di ambulanti senegalesi (con il permesso di soggiorno e la licenza da ambulanti), che un tempo facevano parte del "mercatino multietnico" e che, oggi, non possono più svolgere il loro lavoro in città. Tutti questi episodi sono i frutti e le conseguenze amare del tormentone "legge & ordine" che attanaglia da mesi Bologna.

E, sicuramente, non siamo arrivati alla fine della spirale. Quello che sta avvenendo in questi giorni in Valle Susa ci dovrebbe far riflettere? Quando dovranno partire i cantieri del Passante Nord nel territorio della pianura bolognese cosa ci aspetterà?

COMUNICATO STAMPA

1 agosto 2005 - I Presidenti del Consiglio Regionale dell'Emilia-Romagna e della Sezione di Bologna di Italia Nostra hanno inviato in data 1 agosto la seguente lettera al Sindaco e all'Assessore all'Urbanistica del Comune di Bologna:

Egregio Signor Sindaco, Egregio Signor Assessore,

numerosi cantieri in corso nella collina prossima a Bologna fanno pensare che siano intervenuti negli ultimi tempi dei cambiamenti peggiorativi nelle politiche di difesa del paesaggio e del patrimonio storico-artistico della collina, praticate con coerenza e sostanziale continuità dal Comune di Bologna da ormai quarant'anni.

In questo senso destano forti preoccupazioni tre cantieri (li citiamo ad esempio, ma ce n’é altri) posti l’uno all'inizio della via di Roncrio, un secondo presso la frazione di Roncrio al bivio di via della Trappola, il terzo a poche decine di metri dalla Basilica di San Luca sulla destra per chi sale dal Meloncello.

Il portico e la Basilica di San Luca, in particolare, non sono episodi qualsiasi del paesaggio e della storia culturale, religiosa e artistica di Bologna: meritano più attenzione e rispetto di quelli che si manifestano in quest’ultimo caso.

Le dimensioni e l'invasività dei nuovi edifici in costruzione sembrano a prima vista contrastare con le linee e le normative di tutela poste in essere fin dagli anni '60 da Comune e Soprintendenze. Siamo certi che il Comune, ove non l’abbia già fatto, verificherà la regolarità degli edifici e delle autorizzazioni anche alla luce delle localizzazioni e delle insolite dimensioni degli interventi in questione, e procederà di conseguenza qualora venissero riscontrate anomalie.

Se invece queste costruzioni fossero pienamente autorizzate, riteniamo sia urgente rivedere le parti di norme e regolamenti che si sono appalesate così clamorosamente inefficaci in questi casi, al fine di evitare che episodi simili possano ripetersi. Occorre poi che siano raddoppiati gli sforzi e le attenzioni degli organismi comunali preposti alle valutazioni di merito sui progetti sottoposti all’approvazione.

Confidando nella Loro attenzione e nel Loro efficace impegno e confermando la volontà di Italia Nostra di continuare a contribuire al migliore andamento delle politiche di difesa del patrimonio storico-artistico e paesaggistico della nostra città, porgiamo distinti saluti.

Paolo Pupillo, Presidente della Sezione bolognese di Italia Nostra

Raffaele Mazzanti, Consigliere Nazionale, Presidente del Consiglio Regionale di Italia Nostra

Postilla

Negli anni 60 i migliori nomi dell’urbanistica italiana e le più avvedute amministrazioni si impegnarono nella tutela del paesaggio urbano: a Firenze (Detti), ad Assisi (Astengo), a Bologna (Campos Venuti) le colline, che già la speculazione aggrediva, furono vincolate da varianti ad hoc o da piani urbanistici “innovativi” (allora non si diceva così, ma si faceva). Gli esempi fecero scuola, e le città che si muovevano nella direzione opposta sono oggi additate come esempi degli scempi più inumani (la collina del Vomero a Napoli).

Che cosa è cambiato, da allora a oggi? Molto, se a Bologna succede ciò che Italia Nostra denuncia. E non si tratta di abusivismo, né di colpi di coda della giunta Guazzaloca. Ciò che sta avvenendo è il risultato dell’applicazione del PRG approvato nel 1989 dalla Giunta PCI-PSI. Un piano che fu pesantemente modificato quando il PSI entrò in maggioranza. Tra l’altro, si consenti che potessero essere autorizzate ristrutturazioni edilizia di “edifici esistenti all'interno di zone agricole non destinati o non destinabili all'attività agricola (edifici residenziali accatastati al NCEU, edifici colonici non più funzionali alla produzione agricola, edifici o parti di edifici utilizzati per attività produttiva e/o di servizio)”, cambiandone la destinazione e con un significativo premio di cubatura”. (articolo 58 - Nuclei edilizi esistenti).

Una interpretazione abbastanza allegra della conservazione del paesaggio della collina. I cittadini bolognesi possono già immaginarne gli effetti osservando i numerosi cantieri apert: uno a fianco del Santuario di San Luca. C’è da sperare che l’allarme lanciato da Italia Nostra, e ripreso da Eddyburg, solleciti gli amministratori a tamponare con immediatezza gli effetti di quel perverso dispositivo.

Al Presidente della Provincia di Bologna

Signora Beatrice Draghetti

e p. c.

Al Presidente della Regione Emilia-Romagna,

Vasco Errani

Al Sindaco di Bologna,

Sergio Cofferati

All’Assessore alla Pianificazione Territoriale e Trasporti della Provincia di Bologna

Giacomo Venturi

Gentilissima Presidente,

apprendiamo con sconcerto dai giornali della decisione di rimuovere dal suo incarico di Direttore del Settore Pianificazione Territoriale e Trasporti della Provincia di Bologna l’arch. Piero Cavalcoli senza alcuna motivazione.

I firmatari di questa lettera, nella loro qualità di docenti universitari di discipline territoriali, di ricercatori, professionisti e operatori in questi campi, considerano una tale decisione preoccupante e intempestiva da numerosi punti di vista.

Innanzitutto, per l’alta qualità professionale da tutti apprezzata dell’arch. Cavalcoli, per l’impegno profuso in tanti anni di direzione nella costruzione di un ufficio del piano probabilmente fra i meglio attrezzati e strutturati in ambito europeo, e per l’opera di paziente progettazione, con l’amministrazione tutta, di un modello di governo del territorio metropolitano innovativo, multilivello e al passo con le complesse sfide attuali e future.

In secondo luogo, perché ritengono incomprensibile che una amministrazione di centro-sinistra – di fronte alle sfide che oggi la pianificazione territoriale deve affrontare nella ricerca di un difficile equilibrio fra competitività e qualità territoriale, fra esigenze di valorizzazione della progettualità privata e tutela dell’interesse collettivo – decida, con motivazioni francamente oscure, di privarsi della competenza e della autorevolezza di un tecnico di prim’ordine che proprio della ricerca di quel difficile equilibrio ha fatto l’obiettivo del suo percorso personale non solo di civil servant, ma anche di docente, animatore culturale ed intellettuale critico.

Gli obiettivi di una pianificazione metropolitana moderna appaiono molteplici e di difficile conciliazione e le soluzioni che nel nostro paese sono state recentemente proposte appaiono spesso francamente inadeguate. Al contrario, la Provincia di Bologna, con il PTCP recentemente approvato, si è avviata in una direzione insieme possibile, desiderabile e innovativa, oggi alla prova di una coerente realizzazione. Il provvedimento in questione sembra compromettere seriamente questa prospettiva, disperdendo il patrimonio umano, culturale e disciplinare pazientemente costruito.

Per non interrompere un processo virtuoso e per evitare di lanciare un messaggio contraddittorio alla comunità dei tecnici e dei ricercatori, ma anche dei cittadini, si chiede di voler ripensare questa decisione.

Roberto Camagni, professore ordinario di Economia urbana, Politecnico di Milano. Presidente della European Regional Science Association

Maria Cristina Gibelli, professore associato di Politiche urbane e territoriali, Politecnico di Milano

Gastone Ave, professore associato di Pianificazione territoriale, Università di Ferrara

Mauro Baioni, urbanista, dottorando in Politiche territoriali e progetto locale, Università degli studi Roma Tre.

Marcello Balbo, professore ordinario di Urbanistica, IUAV Venezia

Angela Barbanente, professore associato di Pianificazione Territoriale, Politecnico di Bari

Piergiorgio Bellagamba, professore ordinario di Urbanistica, Facoltà di Architettura di Ascoli Piceno, UNICAM

Attilio Belli, professore ordinario di Urbanistica e presidente del corso di laurea in Urbanistica e Scienze della PTe A, università "Federico II" di Napoli

Gianni Beltrame, professore associato di Urbanistica, Politecnico di Milano

Paola Bonora, presidente del Corso di Laurea in Scienze Geografiche, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Bologna

Dino Borri, professore ordinario di Ingegneria del territorio, Politecnico di Bari, presidente dell'Associazione Italiana di Scienze Regionali

Aurelio Bruzzo, professore straordinario di Politica economica, Università di Ferrara

Francesca Calace, ricercatrice di Urbanistica , Politecnico di Bari

Antonio Calafati, professore associato di Economia urbana, Università Politecnica delle Marche. Segretario dell’Associazione Italiana di Scienze Regionali

Teresa Cannarozzo, direttore del Dipartimento Città e Territorio, Università di Palermo

Roberta Capello, professore straordinario di Economia regionale, Politecnico di Milano

Giancarlo Capitani, professore associato di Nuove tecnologie per i sistemi urbani e territoriali, Politecnico di Milano

Bruno Carapella, Senior Partner RSO, Responsabile P. A. - esperto di strategie ed organizzazione della Pubblica Amministrazione

Arnaldo “Bibo” Cecchini, professore straordinario di Tecniche urbanistiche, Presidente del Corso di Studi di Pianificazione Territoriale, Urbanistica e Ambientale, Università di Sassari

Gustavo Cecchini, professore associato di Pianificazione del territorio, Facoltà di Ingegneria, Università di Palermo

Carlo Cellamare, professore associato di Ingegneria del Territorio presso la Facoltà di Ingegneria, Università degli Studi di Roma "La Sapienza"

Giancarlo Consonni, professore ordinario di Urbanistica, Politecnico di Milano

Fausto Curti, professore straordinario di Valutazione e gestione dei progetti, Politecnico di Milano

Moreno Daini, dirigente del Settore “Programmazione, Tutela e Gestione del Territorio” del Comune di Imola (Bo)

Alessandro Dal Piaz, professore di Progettazione urbanistica nell'Università Federico II di Napoli

Vezio De Lucia, urbanista Umberto De Martino, professore ordinario di Urbanistica, Università degli Studi di Roma - "La Sapienza"

Valeria Erba, professore ordinario di Urbanistica, Politecnico di Milano David Fanfani, ricercatore, DUPT/Facoltà di Architettura di Firenze

Stefano Fatarella, funzionario urbanista, Direzione centrale pianificazione territoriale, energia, mobilità, infrastrutture di trasporto, Servizio pianificazione territoriale sub-regionale, Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia

Antonio Font, professore ordinario di Urbanistica, Universitat Politécnica de Catalunya, Barcelona

Francesco Forte, professore ordinario di Urbanistica, Università degli Studi di Napoli Federico II

Gianfranco Franz, direttore Master in Programmazione di Ambienti Urbani Sostenibili, Università degli Studi di Ferrara

Roberto Gambino, professore ordinario di Urbanistica, Politecnico di Torino

Roberto Giannì, Coordinatore del Dipartimento Urbanistica, Comune di Napoli

Francesco Indovina, professore ordinario di Analisi delle strutture urbane e territoriali, IUAV Venezia. Direttore di Archivio di Studi Urbani e Regionali

Manfredi Leone, ricercatore di Architettura del Paesaggio, Università di Palermo

Giancarlo Leoni, professore a contratto, Politecnico di Milano (sede di Mantova). Dirigente Area Gestione del Territorio ed Infrastrutture della Provincia di Mantova.

Roberto Lo Giudice, libero professionista, presidente della Sezione INU di Basilicata

Alberto Magnaghi, professore ordinario, presidente del Corso di laurea in Urbanistica e Pianificazione Territoriale e Ambientale dell'Università di Firenze

Fabrizio Mangoni, professore associato di Urbanistica, Università degli Studi Federico II di Napoli

Anna Marson, professore associato di Politiche territoriali e ambientali e direttrice del Corso di laurea specialistica in Pianificazione della città e del territorio, IUAV Venezia

Flavia Martinelli, professore ordinario di Analisi dei sistemi territoriali, Università degli Studi "Mediterranea" di Reggio Calabria

Lodovico Meneghetti, professore ordinario di Urbanistica al Politecnico di Milano, a riposo. Condirettore dell'Archivio di urbanistica e architettura Piero Bottoni (Apb), Politecnico di Milano

Sauro Moglie, direttore Area Urbanistica e Ambiente Comune di Ancona. Presidente INU Marche

Corinna Morandi, professore associato di Urbanistica, Politecnico di Milano

Maurizio Morandi, professore straordinario di Urbanistica, Università di Firenze

Anna Moretti, professore associato di Pianificazione Territoriale, Politecnico di Milano

Federico Oliva, professore ordinario di Urbanistica al Politecnico di Milano e Presidente del Corso di Laurea di Pianificazione

Gabriele Paolinelli, professore a contratto di Architettura del paesaggio, Università di Firenze

Stefano Pezzoli, Istituto Beni Culturali Regione Emilia-Romagna, Servizio Beni Architettonici Ambientali

Daniele Pini, professore associato di Urbanistica, Facoltà di Architettura di Ferrara

Laura Pogliani, ricercatrice di Urbanistica, Politecnico di Milano

Daniela Poli, ricercatrice Dupt - università di Firenze

Paolo Rigamonti, urbanista

Bernardo Rossi-Doria, professore ordinario, presidente del CCS in Pianificazione Territoriale Urbanistica e Ambientale, Università di Palermo

Edoardo Salzano, professore ordinario di Urbanistica (FR), IUAV Venezia

Michelangelo Savino, professore associato di tecnica Urbanistica, Facoltà di Ingegneria di Messina

Agata Spaziante, professore ordinario di Urbanistica, Politecnico di Torino

Roberta Strappini, professore associato di Urbanistica, Coordinatore del Master di II livello, "Urbanistica nell'Amministrazione Pubblica- UrBam- "La Sapienza"

Graziella Tonon, professore associato di Urbanistica, Politecnico di Milano

Ferdinando Trapani, ricercatore in Urbanistica, Facoltà di Architettura, Università di Palermo

Paolo Urbani, professore ordinario di Diritto Amministrativo, Università di Roma3

Michele Zanelli, responsabile Servizio Riqualificazione Urbana, Regione Emilia-Romagna

31 maggio 2005

successive adesioni pervenute:

Tiziano Lugli, architetto

Marina Arena, Ricercatore SSD in Tecnica Urbanistica, Facoltà di Architettura, Università degli Studi "Mediterranea" di Reggio Calabria

Dario Predonzan, Funzionario Regione Friuli Venezia Giulia

Francesco Lo Piccolo, Università di Palermo

Matelda Reho, professore ordinario, direttore del dipartimento di pianificazione- Università IUAV di Venezia

Flavia Rinaldi, Responsabile dell'Area Tecnico manutentiva, Urbanistica e Ambiente del Comune di Remanzacco (UD)

Loredana Seassaro, prof. associato in Tecnica e Pianificazione urbanistica, Università di Genova

Andrea Rumor, urbanista

Massimo Tozzi Fontana, Istituto Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna, Servizio beni architettonici e ambientali

Tomaso Pompili, professore associato di Economia applicata, Università degli Studi di Milano - Bicocca

Enrico Ciciotti, professore ordinario di Politica economica, Preside della Facoltà di economia, Università Cattolica di Piacenza

Carlo Donolo, professore ordinario di Sociologia economica, Università La Sapienza di Roma

Carlos LlopTorné, professore Titolare del Dipartimento di Urbanistica e Ordinamento Territoriale della Università Politecnica di Catalogna

Ugo Baldini, urbanista

Oscar Mancini, segretario generale CGIL Vicenza

Fortunato Pagano, avvocato

Paolo Baldeschi, professore straordinario di Pianificazione territoriale, Università di Firenze

Luciano Vecchi, urbanista, funzionario della Regione Emilia Romagna

Giuseppe C. Vitale, responsabile Servizio Pianificazione del territorioUmberto De Martino, professore di Pianificazione e Gestione delle Aree Metropolitane, direttore del Master "Urbam - L'urbanistica nell'amministrazione pubblica", Università "La Sapienza" di Roma

Arch. Donatella Venti, Dirigente Area Assetto del territorioProvincia di Terni

ing Marco Pompilio, urbanista professionista, Pavia

Sull'argomento, l'eddytoriale n. 72, e la lettera dell'assessore Venturi e della presidente Braghetti

In fondo, una postilla di Eddyburg

Gentili signori, Gentili Signore,

ci rivolgiamo a Voi, firmatari della lettera che ci è giunta, indirizzata anche al Sindaco di Bologna e al Presidente della Giunta regionale Emilia Romagna, per rassicurarVi sulle intenzioni e sugli obiettivi del percorso di riorganizzazione che l’Ente ha adottato anche nel settore della pianificazione territoriale e per confutare alcune affermazioni della Vostra missiva.

Non vi è da parte della Provincia di Bologna nessun mutamento di strategia e nessun calo di attenzione per i temi di una pianificazione territoriale equilibrata e sostenibile, che offra opportunità al sistema socio-economico e garantisca un elevato tasso di tutela ambientale e qualità dello sviluppo, costruita attraverso un percorso articolato che punta sulla collaborazione istituzionale, il confronto sociale ed una larga condivisione delle decisioni assunte.

Così la Provincia ha lavorato sino ad oggi e così intende continuare per arrivare ad un’applicazione coerente del PTCP, nella formazione degli strumenti urbanistici locali.

Se oggi la gran parte dei comuni (40 su 60 totali) partecipa ad un processo di pianificazione associata, in stretto rapporto con gli uffici della Provincia e con la partecipazione diretta della stessa, attraverso le competenze dei suoi tecnici, la messa a disposizione di risorse e servizi; se attraverso gli Accordi territoriali per i poli produttivi sovracomunali abbiamo iniziato a spezzare il circolo molto poco virtuoso che lega la crescita urbanistica alle necessità finanziarie dei comuni, introducendo meccanismi di perequazione economica e territoriale; se il Comune di Bologna ha sottoscritto l’accordo per un percorso partecipato di revisione del suo PSC approvato nella scorsa legislatura senza l’accordo della Provincia; se abbiamo predisposto, e siamo pronti a sottoscrivere, un Accordo procedimentale con il Governo sul Passante autostradale Nord, i cui caratteri innovativi sia dell’opera, sia per le implicazioni fortemente volute con il Servizio Ferroviario Metropolitano ed il sistema della mobilità sostenibile sono da tutti riconosciuti - è proprio perché della coerenza e del rigore nell’applicazione degli indirizzi definiti in questo complesso e impegnativo percorso di cui l’Arch. Cavalcoli è stato animatore e protagonista insieme ad altri abbiamo fatto un punto di principio, strategico nel nostro programma di mandato

L’avvicendamento dell’Architetto Cavalcoli alla direzione del servizio pianificazione non è quindi frutto del giudizio sul suo operato che anzi valutiamo di grande qualità al punto che vogliamo continuare ad avvalerci della sua collaborazione proprio per far crescere in modo più diffuso quella innovativa cultura dell’urbanistica e della programmazione territoriale di cui abbiamo bisogno per dare più qualità al nostro sviluppo né della volontà di smantellare una struttura di primo piano: infatti gran parte dei tecnici cresciuti in questa esperienza - resteranno al loro posto, assumeranno incarichi di maggiore importanza o porteranno le competenze acquisite al servizio degli enti locali chiamati ad applicare gli indirizzi del Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale.

Stiamo procedendo ad una riorganizzazione complessiva della Provincia, nuovi sono il Direttore Generale, il Segretario generale e molti altri dirigenti, per dare maggiore efficienza ed efficacia alla nostra azione di governo, proprio perché vogliamo mantenere ed accrescere quei livelli di eccellenza e di qualità che in questi anni abbiamo saputo affermare.

Perché tutto ciò possa esplicarsi occorre fare squadra, consentire a chi si è formato in questi anni di cimentarsi ai massimi livelli.

Il PTCP della Provincia di Bologna ha diversi padri, ed oggi per affermarsi compiutamente ha bisogno di molti amici e collaboratori consapevoli.

Con questo percorso che abbiamo intrapreso vogliamo determinare queste condizioni.

Quindi nessuna assenza di motivazioni, nessuna manovra oscura, ed anzi dispiace che senza conoscere la natura esatta e complessa del processo avviato e tuttora in corso, si sia disposti ad emettere giudizi invece che partecipare, con occhio critico ma sereno, ad un lavoro intenso ed impegnativo perché le buone premesse del PTCP si possano tradurre in una concreta e coerente azione di governo in questo mandato.

Cordialmente.

L'assessore alla Pianificazione Territoriale e ai Trasporti Giacomo Venturi

La Presidente della Provincia di Bologna Beatrice Draghetti

P.S. Si chiede cortesemente di inoltrare la presente risposta a tutti i firmatari della lettera in oggetto e/o a tutti coloro ai quali la stessa è stata inviata. grazie

Postilla

Poiché Eddyburg ha ospitato la lettera, ed è stato il primo a informare sull’evento cui la lettera si riferisce, una postilla alla replica molto tempestiva della Presidente e dell’Assessore è opportuna.

Osservo in primo luogo che – fermo il diritto dell’amministratore di spostare un dirigente – un minimo di correttezza culturale e amministrativa vorrebbe che ci fosse una motivazione esplicita. Lo spoil system rende quasi superflua la motivazione quando cambia il segno politico dell’amministrazione. Non sembra che questo cambiamento ci sia stato nel caso specifico: DS e Margherita prima, DS e Margherita dopo.

Osservo in secondo luogo che l’allontanamento di Cavalcoli è stato preceduto da una politica del personale e del bilancio che ha notevolmente impoverito le risorse dell’ufficio. Questi sono dati oggettivi, cui non voglio aggiungere le altre informazioni di cui non è documentabile la verità, ma che vanno tutte nella medesima direzione.

Il prestigio che l’ufficio della pianificazione territoriale godeva (e che è testimoniato dalle adesioni alla lettera, che i promotori continuano a inviarmi) è tale da sollecitare la maggiore attenzione agli ulteriori avvenimenti, a via Zamboni e, soprattutto, sul territorio della provincia bolognese: soprattutto su quelle aree extraurbane, che il PTCP tutelava, con analisi, scelte e politiche di rara intelligenza, e a proposito delle quali, nelle stesse settimane in cui si apriva l’offensiva verso l’ufficio di Cavalcoli, si sono lette, sulla stampa locale, strane proposte di “urbanistica creativa”.

A seguito del rinnovo dell'Amministrazione comunale bolognese e di quella della Provincia, la sezione di Bologna dell'Associazione ITALIA NOSTRA ritiene opportuno inviare alle Autorità in indirizzo il documento che segue, sintesi delle posizioni dell'Associazione nei confronti del Piano Strutturale del Comune di Bologna.

Il documento riprende anche alcuni contenuti di precedenti interventi che si ritemgono essere tuttora di attualità.

ITALIA NOSTRA si augura che un nuovo spirito di apertura e di disponibilità alla collaborazione venga a caratterizzare le relazioni fra il tessuto associativo e culturale e gli organi politico-amministrativi cui competono le importanti decisioni riguardanti il futuro della città e del territorio provinciale delle quali gli atti della pianificazione territoriale ed urbanistica rappresentano tanta parte.

Le note che seguono entrano solo a titolo esemplificativo nel dettaglio delle proposte attualmente in discussione -né potrebbero fare diversamente data anche la vastità dei materiali messi a disposizione nella fase di presentazione del P.S.C.- ma sono da intendere come un contributo critico positivo alla definizione delle linee generali e degli orientamenti fondamentali delle azioni di politica urbanistica, coerentemente con le finalità strategiche dell'attuale fase di pianificazione.

Per maggiore chiarezza espositiva il presente parere è articolato per punti che intendono sottolineare gli aspetti del P.S.C. che a parere dell'Associazione sembrano di maggiore criticità.

La sezione di Bologna di Italia Nostra si riserva comunque di intervenire in seguito in modo più preciso nel merito degli argomenti che vengono qui trattati in maniera necessariamente generale.

1. La dimensione territoriale dell'azione di pianificazione

Il P.S.C. risente delle carenze che derivano da un'elaborazione sia analitica che progettuale essenzialmente limitata al solo Comune di Bologna; una limitazione che esclude quindi gran parte dell'area alla cui scala si manifestano i fenomeni insediativi e di trasformazione territoriale della fase attuale del processo di urbanizzazione.

E' convinzione di Italia Nostra che nessuna vera ed efficace politica di tutela del patrimonio storico e paesistico esistente e di creazione di nuova bellezza per la nostra città e per il territorio -che sono gli obiettivi di fondo della nostra Associazione- sia possibile al di fuori di una pianificazione urbanistica che affronti in modo organico ed alla scala adeguata il complesso dei problemi in giuoco: non ci può essere una buona salvaguardia del centro storico senza una buona periferia, così come non ci può essere una buona periferia senza una oculata tutela del paesaggio agricolo e naturale e del patrimonio storico sparso che la circonda od è presente nelle sue frange più lontane.

La dimensione delle problematiche urbane bolognesi ormai da molti decenni è tale che la sola pianificazione urbanistica comunale non è più in grado di affrontarne la reale natura: è nostra convinzione che occorrano un quadro complessivo di riferimento a livello sovracomunale e strumenti di coordinamento politico-amministrativo che superino le ristrettezze dei singoli ambiti territoriali comunali coinvolti nei processi urbani del nostro tempo (si pensi, per esempio, alle problematiche delle infrastrutture per la mobilità privata e per i trasporti pubblici od a quelle della creazione e della localizzazione di centri commerciali e direzionali, di poli della Sanità o per l'Università e la Ricerca, o di infrastrutture per gli spettacoli di massa, della tutela del territorio agricolo di pianura o collinare o degli ambiti fluviali, della previsione di parchi territoriali ecc.).

L’attuale divaricazione fra le pianificazioni del Comune di Bologna, dei Comuni contermini e della Provincia sembra rendere problematica la ripresa di una efficace iniziativa di pianificazione sovracomunale; riteniamo invece che sia ancora questa la strada da seguire se non ci si vuole rassegnare ad un futuro all’insegna della frammentaria casualità di scelte urbanistiche condizionate dagli esiti di impari contrattazioni fra le parti pubbliche e controparti private sempre più forti.

2. Una "idea" generale di città alla base di una strumentazione attuativa articolata.

E' opinione di ITALIA NOSTRA che occorra, in sintesi, una "idea" di città alla scala alla quale i fenomeni urbani si manifestano oggi e forme di governo territoriale adeguate in grado di concretizzarla attraverso una strumentazione articolata ma coerente.

E' principalmente sotto questo punto di vista (anche se non solo) che -a parere della nostra Associazione- l'azione dell'amministrazione comunale bolognese si è mostrata carente nel corso almeno degli ultimi due-tre decenni, sostanzialmente cancellando le esperienze degli anni '60 e '70 del '900 che fecero di Bologna uno dei principali punti di riferimento politico-culturali del dibattito urbanistico europeo.

Alle già discutibili scelte del P.R.G. del 1985 volte principalmente a colmare con nuove urbanizzazioni le aree ancora "vuote" della periferia cittadina o quelle

che si sarebbero rese disponibili a causa dell'obsolescenza naturale od appositamente provocata di vecchi impianti annonari, industriali e ferroviari (non a caso questo tipo di logica di riempimento dei vuoti venne definita con involontario umorismo "urbanistica interstiziale"), ha poi fatto seguito, nella totale mancanza di qualsiasi visione sovracomunale dello sviluppo, una prassi attuativa all'insegna del caso per caso, dell'inseguimento di questa o quella emergenza, di questa o quella iniziativa proposta nell'interesse dei relativi proponenti: tutto ciò aggravato dagli sconsiderati "premi di cubatura" generosamente elargiti e quasi sempre al di fuori di ogni idea strategica sul futuro della città, delle esigenze prioritarie dei quartieri nei quali le nuove trasformazioni venivano ad inserirsi, e, troppo spesso, addirittura in assenza di ogni possibilità di pubbliche discussioni e verifiche.

Si è così verificato il susseguirsi di iniziative episodiche e di scelte avvenute in carenza di una effettiva discussione pubblica che le precedesse: si pensi alle vicende dei progetti per la Stazione, a quelle delle Officine dell'Istituto Ortopedico Rizzoli passate in un sol colpo da luogo di punta della ricerca medica mondiale ad area lottizzabile a scopi speculativi privati, alla fallimentare e sconclusionata realizzazione del CAB, all'addensamento eccessivo di volumi e di funzioni generatrici di grandi volumi di traffico a ridosso dei viali di circonvallazione (aree ex Morassutti e Buton), od in altre zone della periferia cittadina (via della Repubblica, Stalingrado, aree ex ICO e Panigal), fino alle ancora nebulose decisioni circa l'area dell'ex Mercato Ortofrutticolo alla Bolognina e ad altre aree ancora.

Si pensi, ancora, alla diffusione casuale di grandi infrastrutture civili ed economiche dentro e fuori dai confini del territorio del capoluogo

Molte di queste vicende sono purtroppo già giunte a conclusione; per alcune è invece ancora possibile rimediare ai guasti che si prospettano qualora si concludano secondo le premesse enunciate.

Tutto questo mentre sono proseguite (e proseguono tuttora stando almeno agli esiti delle prime proposte per i nuovi P.S.C.) ntense politiche espansive dei Comuni della cintura volte soprattutto ad assorbire popolazione in uscita dal capoluogo.

Le discussioni sul P.S.C. di Bologna, sul Piano Territoriale della Provincia e sui nuovi Piani urbanistici dei Comuni minori, in presenza di nuove compagini dirigenti a livello amministrativo possono ora essere occasioni utili da utilizzare per una forte inversione di rotta rispetto ad un andamento che si è caratterizzato troppo a lungo negativamente con una sostanziale continuità politico-culturale fra le ultime amministrazioni comunali del capoluogo pur derivanti da differenti maggioranze politiche.

3. La tutela del patrimonio storico artistico

E’ naturale che, in un quadro di sostanziale mancanza di chiare linee di governo dei problemi urbani nel loro complesso, il centro storico della città abbia subito nel corso degli ultimi decenni un progressivo processo incontrollato di trasformazione che si è manifestato soprattutto nella crescente terziarizzazione dell'uso del patrimonio edilizio, nell'evoluzione della struttura commerciale verso i consumi più lussuosi, nel calo delle famiglie che lo abitano in permanenza con la costante espulsione verso l'esterno delle famiglie a basso reddito, con la riduzione del numero e della varietà dei negozi di prima necessità a servizio dei residenti, con la graduale scomparsa delle botteghe degli artigiani: ci troviamo così di fronte ad un centro storico sempre meno popolato da abitanti permanenti e che rimane però un grande e potente attrattore di popolazione diurna; le modalità della sua fruizione sono sempre più condizionate dalla crescita sproporzionata dei prezzi di vendita e d'affitto degli alloggi e dei locali commerciali.

La stessa grande e positiva presenza di una ingente massa di popolazione studentesca richiamata dall'Università, in mancanza di adeguate politiche abitative mirate, è diventata sempre più un fattore di squilibrio del mercato della casa agendo in senso negativo sulle possibilità di mantenere all'interno del centro urbano antico una diversità sociale capace di garantirne anche una vitale stratificazione commerciale e funzionale.

Si tratta, certamente, di problematiche complesse e di tendenze non sempre controllabili al solo livello delle politiche locali; è certo però che da circa due decenni sembra essere caduta ogni tensione volta a contrastare attraverso politiche urbanistiche ed edilizie mirate gli andamenti tendenziali indotti dalle sole leggi del mercato immobiliare.

E' opinione di Italia Nostra che occorra invece una forte ripresa di iniziativa per ristabilire un "progetto" complessivo per la città: un progetto capace di dare coerenza e continuità alle soluzioni dei problemi specifici, a cominciare da quelli della tutela e della valorizzazione del patrimonio di risorse storico-artistiche, architettoniche ed ambientali di cui la nostra città ed il nostro territorio sono ancora così ricchi (ed il fatto di averlo conservato in misura così rilevante è certamente un merito storico delle politiche locali condotte a Bologna nel corso degli ultimi cinquant’anni) senza però trascurare i limiti da porre alle modalità del loro uso.

Riteniamo che sia proprio anche a causa della mancanza di una "idea" complessiva di città e -al suo interno- del valore e del ruolo del suo centro antico, che proprio qui si rilevino diversi aspetti di forte degrado della qualità ambientale (inquinamenti dell'aria e da rumore dovuti all'eccesso di traffico motorizzato privato e di mezzi pubblici; sosta caotica e pervasiva di auto, moto e biciclette che spesso invadono addirittura portici e marciapiedi) e di caduta di attenzione da parte degli organi preposti nei confronti della qualità degli interventi edilizi e di arredo. Si possono citare molti episodi accaduti in questi ultimi anni che testimoniano di questa situazione preoccupante: dallo sventramento Benetton alle "gocce" dell'Infobox di via Rizzoli, dalla disordinata proliferazione di antenne e sovrastrutture tecnologiche per ascensori ed impianti di condizionamento un po' su tutti i tetti alla copertura di cortili antichi come quello minacciato dai progetti per Palazzo Pepoli, dalla statua di Padre Pio a Porta Saragozza alla grossolana risistemazione del giardinetto di Piazza Minghetti, alle minacce di ulteriori scomparse di esercizi commerciali storici a causa di affitti eccessivi e di mancanza di vincoli efficaci.

Lo stato di degrado in cui versano molti dei percorsi porticati che costituiscono uno degli elementi fondamentali dell'architettura urbana antica, testimoniano di una preoccupante e diffusa mancanza di attenzione e di decadimento di quel vitale rapporto pubblico-privato su cui si è basata storicamente l'invenzione e la diffusione dei portici stessi.

Pavimentazioni malridotte e spesso sconnesse al limite della pericolosità per chi cammina, scarsità di illuminazione notturna, invasione di spazi pedonali da parte di biciclette, motorini e auto in sosta, sono aspetti evidenti di questo stato di degrado.

Occorre avviare una nuova politica di incentivi per i privati e di controllo pubblico per provvedere alla riqualificazione di queste fondamentali strutture cittadine, ricordando sempre che la manutenzione ordinaria del patrimonio costituisce lo strumento principale delle politiche di tutela anche per evitare di dovere ricorrere poi a più complesse e costose operazioni di restauro.

4. I Viali di circonvallazione: l'importanza e la qualità urbana delle aree di cerniera fra centro storico e prima periferia.

ITALIA NOSTRA ritiene che un'attenzione particolare vada riservata al sistema dei viali di circonvallazione e delle aree contermini: le soluzioni che verranno date ai problemi che gravano su queste parti della città ed il modo con cui se ne utilizzeranno le potenzialità saranno fondamentali nell'orientare gli andamenti futuri di molti dei problemi del centro urbano antico, della fascia della prima periferia storica e delle relazioni fra le diverse parti dell'insieme cittadino.

L'anello dei Viali, realizzato sul sedime delle ultime mura medievali secondo il modello d'intervento in voga fra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX, costituisce ancora oggi uno degli elementi urbanistici d'insieme più caratteristici ed importanti della città sia dal punto di vista morfologico che da quello del funzionamento della vita urbana; come tale rappresenta però anche uno dei suoi più evidenti punti di crisi e di degrado.

I Viali che erano stati pensati come una sorta di grande passeggiata tutt'intorno alla città e come anello di congiunzione fra il nucleo urbano antico e le crescite moderne all'esterno del suo perimetro storico, richiedono oggi un ripensamento globale: le funzioni alle quali dovevano rispondere sono profondamente mutate; la striscia alberata centrale che tuttora suddivide le due carreggiate non può più essere sede di passeggiate e resta come una sorta di impraticato ed impraticabile spartitraffico, mentre sulle carreggiate il traffico stesso si svolge con sempre maggiori difficoltà in una assurda mescolanza fra traffico privato e trasporto pubblico costretto a risentire delle condizioni di congestione di quello privato, nonostante la realizzazione in alcuni tratti di corsie riservate.

Le condizioni di abitabilità delle zone che fiancheggiano il sistema dei Viali (una volta e fino a non moltissimi anni orsono fra le più pregiate) risentono pesantemente dei rumori e della pessima qualità dell'aria che vi si respira a causa dell'eccesso di traffico.

La caduta in disuso di molte delle funzioni pubbliche che si erano andate attestando sui Viali, ha creato, ed ancora creerà in futuro preziose occasioni di riqualificazione dell'intero sistema con ripercussioni importanti sul resto della città.

Fino ad oggi ad ogni occasione di intervento si è data risposta come se si trattasse di un problema isolato da soddisfare pensandosoprattutto a massimizzare il profitto immobiliare dei proprietari delle aree interessate; questo ha portato a concentrare volumi e funzioni che anziché contribuire a risolvere i problemi in essere, sono causa di ulteriori appesantimenti della situazione complessiva.

Nonostante gli errori già compiuti i Viali rappresentano ancora una grande occasione complessiva di ripensamento di una parte importantissima della città per le occasioni di intervento che ancora si presentano lungo l'insieme del loro tracciato; il ripensamento delle funzioni di traffico che i Viali possono continuare ad assolvere deve andare di pari passo con un progetto complessivo di riqualificazione del sedime dei Viali e delle zone circostanti che tornino a farne un'area di vero decoro urbano con la prevalenza del verde.

ITALIA NOSTRA ritiene che questo sia uno dei temi urbanistici più importanti da affrontare nel prossimo futuro, per il quale sia da mettere in campo il massimo sforzo progettuale.

5. La tutela del patrimonio paesistico-ambientale e il sistema del "verde"

Bologna ed il suo hinterland hanno bisogno di una rinnovata attenzione nei confronti del residuo patrimonio paesistico ed ambientale sempre più assediato da iniziative incontrollate di proliferazione edilizia. La salvaguardia stessa della collina basata sul Piano del 1969 e sulla politica di creazione di un grande sistema di parchi pubblici perseguita nel decennio successivo, si trova ad essere messa in dubbio da iniziative per ora ancora isolate (si pensi alla soluzione che ha avuto l'annosa vicenda delle aree dell'ex Accademia di Agricoltura od a quella preconizzata per quella delle ex Officine dello IOR) ma certamente significative di una tendenza preoccupante a ripensare negativamente la volontà di mantenere la collina di Bologna come grande area agricola-naturale libera dalle iniziative della speculazione edilizia. Anche i Parchi della collina costituiti negli anni '70 ed attualmente, almeno in parte, in stato di deplorevole abbandono, devono tornare ad essere intesi come elementi importanti per la qualità della vita della città e dei suoi abitanti

Gli stessi grandi cunei agricoli di pianura che penetrano ancora in profondità nel cuore dell'area urbana ed hanno impedito fino ad ora la saldatura completa delle diverse direttrici dell'espansione periferica, sono stati in questi ultimi decenni manomessi ed aggrediti in molte parti da iniziative edilizie casuali sorte al di fuori di qualsiasi disegno di pianificazione generale; i corsi dei fiumi e dei canali artificiali che erano stati indicati fin dalla pianificazione degli anni '60 e '70 come importanti occasioni per creare un sistema di parchi lineari capaci di collegare collina, città e pianura, si trovano in gran parte in deplorevoli situazioni di degrado e di abbandono: basti per tutti l'esempio di quel che è successo del progetto di restauro e di riqualificazione del Canale Navile.

Gli accurati studi relativi al sistema ambientale, alle sue esigenze e potenzialità compiuti in preparazione del P.S.C. di Bologna possono costituire una buona base di partenza per ridefinire gli orientamenti di una pianificazione urbanistica che, diversamente dalle indicazioni del P.S.C., tenga conto di questo patrimonio come di una risorsa da utilizzare in positivo e da non erodere ulteriormente così come invece ci si ripromette di fare attraverso le deplorevoli conclamate "manovre perequative" alle quali molte delle aree ancora agricole sembrano essere minacciosamente assoggettate.

6. Traffico e trasporto pubblico

Le questioni del traffico locale e nazionale e del trasporto pubblico e della relativa creazione di nuove infrastrutture, hanno polarizzato per lungo tempo la discussione intorno ai nuovi strumenti di pianificazione provinciale e comunale.

Anche in questo caso la mancata integrazione della visione pianificatoria bolognese ad una scala più ampia di ragionamento ha contribuito ad impedire fino ad ora -fatta eccezione per il progetto e le prime realizzazioni relative al Servizio Ferroviario Metropolitano (SFM, che però soffre ancora di notevoli disfunzioni di esercizio e della decrepitezza e del degrado del materiale rotabile)- che si mettessero a punto ipotesi di intervento adeguate per un sistema integrato di trasporto pubblico e privato, un sistema in cui un ruolo fondamentale è da assegnare alla rete dei trasporti pubblici in sede propria integrata ad una serie di parcheggi scambiatori lontani dal centro storico cittadino, sola alternativa reale alla congestione ed alle molteplici conseguenze ambientali negative dell'invadenza del traffico motorizzato privato e della pressione esercitata soprattutto sul patrimonio edilizio storico del centro da mezzi di trasporto pubblico di superficie eccessivamente ingombranti ed inquinanti.

Bologna ha così finito per trovarsi in una gravissima situazione di ritardo rispetto alle esigenze ed a quanto fatto negli ultimi quindici-vent'anni in moltissime città anche di piccola e media dimensione negli altri paesi europei.

Anche le timide ipotesi prospettate con il PRG del 1985 sono cadute nel vuoto, prima, e nel baratro, poi, delle polemiche politiche sui progetti della metropolitana. Ci si augura che sia ora possibile un confronto più aperto, concreto e costruttivo su questi complessi temi nell'interesse della città.

Senza scendere nel dettaglio e nel merito di giudizi tecnici circa i tracciati e le soluzioni tecnologiche da adottare, ITALIA NOSTRA sottolinea l'esigenza di dotare finalmente Bologna e la sua area metropolitana di una rete di trasporto pubblico in sede propria capace di costituire una alternativa reale a gran parte degli spostamenti che attualmente si avvalgono di mezzi di spostamento individuali per mancanza di alternative comode, dignitose ed efficienti.

I cittadini bolognesi si sono già da molti anni espressi a favore di una sostanziale diminuzione del traffico motorizzato privato in un ormai lontano referendum i cui esiti vennero presto accantonati e dimenticati dal Comune; è ora tempo di uscire dalla paralisi che per troppo tempo ha paralizzato le decisioni pubbliche in questo campo.

Occorre quindi riprendere una politica fermamente orientata alla diminuzione del traffico privato; una politica che non sia demagogicamente realizzata con soli slogan o divieti che poi si rivelerebbero politicamente impraticabili, ma che agisca attraverso un accorto dosaggio di disincentivi e di messa a disposizione di efficaci alternative all'uso dell'auto privata: la scelta del mezzo con cui spostarsi non è infatti una questione ideologica: ciascuno sceglie sulla base delle opportunità che gli vengono offerte, dei costi e dei benefici delle diverse alternative, della velocità e della comodità dei diversi mezzi a disposizione.

ITALIA NOSTRA, che ha contribuito insieme agli abitanti della zona e ad altre Associazioni alla non approvazione dell'infausto progetto di un parcheggio sotterraneo negli orti di Via Orfeo, si augura che in futuro le misure di attenuazione dell'impatto del traffico automobilistico privato soprattutto all'interno del centro antico della città, tengano conto della necessità di non alterare episodi significativi del tessuto urbano storico e di non provocare fenomeni indotti che procurerebbero più danni di quelli ai quali si vorrebbe porre rimedio come sarebbe stato invece nel caso della realizzazione di quel parcheggio.

Riguardo infine alla proposta del Comune e della Provincia per il raddoppio autostradale che dovrebbe risolvere le attuali difficoltà del sistema tangenziale spostando quote di traffico di attraversamento dell'area bolognese su di un nuovo tracciato che verrebbe ad interessare grande parte dell'area di pianura del territorio provinciale, ITALIA NOSTRA chiede che vengano studiate alternative che producano conseguenze meno distruttive degli equilibri ambientali, insediativi e paesistici rispetto a quelle preconizzate con la soluzione individuata. Non è con un pezzo di autostrada in più che si risolvono i problemi dovuti all'eccesso di trasporti su gomma: aggiungere nuove strade vuol dire semplicemente richiamare ancora più auto e tir.

Non ci sono alternative reali alle difficoltà del nostro sistema autostradale che non passino per lo spostamento di importanti quote di traffico merci dalla gomma alla ferrovia, come si sta già facendo in altri paesi europei (Svizzera ed Austria in primis) e quote di spostamenti delle persone dal mezzo di trasporto privato a quello pubblico. Una nuova autostrada come quella ipotizzata da Comune e Provincia sposterebbe soltanto di qualche chilometro il problema per poi rivelarsi di nuovo insufficiente dopo pochi decenni, alterando invece definitivamente in modo negativo l'organizzazione funzionale, agricola e paesistica di gran parte del territorio provinciale.

Pur in attesa di non molto probabili (per ora) ma inevitabili inversioni di rotta delle politiche nazionali dei trasporti ed avviando rapidamente soluzioni alternative per il trasporto pubblico, occorre compiere un grande sforzo tecnico-progettuale per porre rimedio alle attuali situazioni di difficoltà mettendo in campo capacità amministrative, culturali e progettuali paragonabili a quelle che portarono sul finire degli anni '50 ed all'inizio degli anni '60 alla realizzazione del sistema tangenziale, un sistema che si ritiene possa essere ancora migliorato e potenziato attraverso interventi di razionalizzazione fisica e di modernizzazione delle modalità di gestione del traffico.

7. Le modalità attuative

L'impianto del PSC è negativamente condizionato dalla scelta di procedere secondo le modalità di attuazione dell'urbanistica contrattata oggi in voga, che tanti danni sta producendo nelle nostre città, Bologna compresa.

Chiamare ora in modo apparentemente più accattivante "manovra perequativa" (dizione che sembra furbescamente alludere a qualche sorta di giustizia distributiva di vantaggi e di svantaggi) questa prassi liquidatoria di ogni politica di pianificazione principalmente finalizzata al pubblico interesse, non cambia il risultato che si minaccia di ottenere: che è quello di subordinare le scelte attuative concrete principalmente agli interessi economici di chi partecipa ai giuochi della contrattazione.

Quanto accaduto e sta accadendo da una quindicina d'anni a questa parte anche a Bologna lo dimostra ampiamente e non è di alcuna consolazione constatare che la legislazione regionale e quella nazionale tendono ad evolvere sempre più in questo senso: di fatto, prendendo ad esempio quanto sta oggi accadendo in Emilia Romagna, molti dei maggiori disastri urbanistici si stanno producendo e vengono proposti sotto le etichette dei Piani di Ricupero o di Riqualificazione, degli Accordi di Programma ecc., strumenti e modi di attuazione, anche questi, che vengono propagandati come benefici strumenti di superamento delle concezioni "vincolistiche" della pianificazione "vecchia maniera".

Condizionare ad imprecisate "manovre perequative" il mantenimento dell'inedificabilità di parti dei cunei di territorio agricolo residui all'interno dell'espansione periferica della città che si ritiene debbano invece restare non costruiti al di fuori del condizionamento di qualsiasi interesse particolare (si vedano ad esempio -ma non si tratta delle sole- le aree comprese fra l'Autostrada per Ferrara e l'urbanizzazione a ridosso della via di Corticella), significa condannarle invece ad un processo incontrollato di prevalente edificazione, completando così errori già fatti con il PRG del 1985 in altre parti del territorio comunale.

Ci sono "vuoti di urbanizzazione" che rappresentano valori da preservare in quanto tali; sulle aree di questi vuoti va piuttosto esercitata una preveggente politica patrimoniale pubblica di lungo termine, la sola, come ormai dimostrato da oltre un secolo di storia della pianificazione urbanistica europea, che possa garantire nel tempo la prevalenza dell'interesse pubblico nelle scelte relative alla crescita ed alle trasformazioni urbane, come d'altronde fece con successo il Comune di Bologna negli anni '70, durante i quali la manovra sul patrimonio costituì un importante strumento al servizio del successo delle azioni di pianificazione urbanistica nel centro antico della città come sulla collina e nel più ampio territorio dell'area metropolitana.

Il Piano Strutturale oggi in formazione non deve costituire il quadro entro il quale tutto diventa possibile sulla base dell'esito di impari trattative pubblico-privato, ma deve fissare con chiarezza l'ossatura delle scelte fondamentali a lungo termine dell'organizzazione urbana e territoriale; soltanto in subordine a queste vanno considerati i margini di flessibilità da lasciare alle contrattazioni con i privati.

Non c’è che dire, il progetto presentato dalla giunta comunale segna una svolta. Da qualsiasi parte lo si voglia guardare si tratta di un documento che delinea una precisa idea di città. Una città che viene intesa innanzitutto come una collettività a cui si chiede di partecipare attivamente alla definizione del proprio futuro. Una visione diversa, innovativa, che procede dal basso e via via mette in rete tasselli diversi il cui interagire produce risultati che non sono la banale sommatoria degli elementi immessi, ma genera un arricchimento della complessità e dunque effetti moltiplicatori. Una cultura della città sensibile alle differenze e al valore aggiunto che la loro correlazione innesca.

Un modo di guardare ai problemi e di prospettare soluzioni che nel linguaggio della mia disciplina si definisce “territorialista”, per sottolineare la trasversalità, la pervasività dello sguardo. Ma nello stesso tempo per enfatizzare la dimensione umana di quella costruzione atavica che è il territorio. Fatto di mille sfaccettature, mille sottili equilibri, mille conflitti e lacerazioni. Che solo le comunità locali conoscono appieno e sono in grado di sanare se si mettono a dialogare attorno a un tavolo.

Il documento della giunta Cofferati pensa ai tempi lunghi e alle dimensioni vaste. Scavalca le piccinerie della bolognesità e pensa alle relazioni con il resto del paese e del mondo. Intende riposizionare la città in seno all’Europa e valorizzare le ricchezze di intelligenza e competenza da troppo tempo assopite o comunque inascoltate.

Un progetto che ha scelto terminologie nette, chiare, che non gioca con equivoci. Parla di programmazione, di regole da individuare e rispettare, di equilibri da ristabilire, di equità da garantire, di diversità da colmare. In sostanza del ruolo del pubblico da reinventare.

Scelte forti e strategiche, le regole per attuarle e le procedure democratiche per definirle. Reti di nuovi municipi, anch’essi ridisegnati nei compiti e nelle dimensioni. Laboratori di quartiere per sperimentare l’urbanistica partecipata, i bilanci partecipativi, i bilanci di genere. Nuove centralità attorno a cui coagulare il senso di cittadinanza e condivisione. Un nuovo Piano Strutturale da coniugare con l’idea di città metropolitana. Qualità urbana e recupero delle periferie. Attenzione ai nuovi soggetti e alle forme aggregative, all’accoglienza e all’integrazione - dai migranti agli studenti. Ai saperi, alle culture e al ruolo cardine dell’Università. Impegni infrastrutturali e indicazioni logistiche, ma anche welfare, coesione sociale e cooperazione decentrata. Sostenibilità ambientale e energie alternative.

Un documento che si ispira a una nuova idea di sviluppo, fondata sulla consapevolezza che armonia sociale, collaborazione e fiducia rappresentano i prerequisiti del successo. Oltre che il fondamento culturale e morale di una società matura e preoccupata delle contraddizioni implicite alla globalizzazione.

Un piano finalmente. Che tuttavia partendo dal presupposto della condivisione e della comune individuazione delle regole, mette in moto un esercizio democratico che viaggia lontano dai pericoli del dirigismo e dell’autoreferenzialità. Come anche dai lassismi della deregolazione.

E’ proprio nell’attesa di questa filosofia urbana che si è ribaltata la situazione in città e che oggi i bolognesi possono sperare di vedere realizzati i sogni che avevano tenuto congelati. Si tratta a questo punto di sbrinare le idee e discuterle con la comunità, confrontarle, valutarle assieme. Un percorso che spinge a ritrovare quel senso del collettivo di cui si erano smarriti la sensatezza e il piacere. Ognuno a questo punto è (davvero) libero: di dire, proporre, suggerire, sperimentare. Le aperture e gli spunti sono molti, si tratta di allargarli e direzionarli. Di tradurli in buone pratiche. Compito non facile nelle attuali angustie del decentramento.

Utopie? Non direi. Il documento sta lì scritto, l’ho trovato nel sito del Comune e ho deciso di conservalo come fosse un contratto (oddio, cheddico!). Questo però mi piace molto di più: non promette ma invita e responsabilizza. Chiama al dovere di essere cittadini. A fornire contributi, a dire, a fare, a partecipare. Ad allargare gli orizzonti e a ripensare finalmente al futuro. Il gioco è cominciato. Giochiamo, non abbiamo più alibi.

Vedi qui stralci e link del programma per Bologna

Marco Guerzoni mi ha mandato questi quattro testi, adoperati in differenti occasioni nella campagna elettorale:

La città di luoghi

Più case , meno cemento

Una nuova stagione urbanistica

Brandelli di urbanistica

La città di luoghi (26 febbraio 2004)

La lettura di Pentesilea, "città continua" di Calvino, mi dà la possibilità di affrontare il tema proposto in questa serata, dalla parte non tanto della città (le periferie sono l'esito di un processo relativo alla città in quanto tale) ma piuttosto dalla parte, per così dire, del territorio.

Mi pare di poter dire, e ne abbiamo discusso a lungo in questi ultimi tempi con altri amici e colleghi (e la letteratura è abbondante in materia), che sia indubbio ed evidente il processo di trasformazione che il territorio contiguo e fortemente relazionato alle città, che qualcuno chiama regione metropolitana, ha subìto negli ultimi anni del secolo appena trascorso. Una modificazione fisica innanzi tutto: il territorio metropolitano è più costruito, più infrastrutturato di ieri. I paesini si sono espansi. Le frazioni ospitano nuovi edifici residenziali. I casolari agricoli vengono progressivamente riconvertiti in edifici esclusivamente residenziali. I luoghi completamente naturali sono sostanzialmente scomparsi o ridotti a pochi frammenti relittuali.

Guardando a Bologna, alla sua pianura, è sufficiente ripercorrere - anche solo di anno in anno - la via Emilia, o la Persicetana, o la Galliera, per toccare con mano la trasformazione del paesaggio a cui mi riferisco.

Si tratta anche di una cambiamento sociale: è noto che la Città di Bologna sta espellendo residenti da ormai 3 decenni, a favore del territorio circostante, verso i comuni di cintura in una prima fase, e oggi questa "migrazione" procede anche nei municipi più lontani e nelle località più disperse e piccole del tessuto agricolo. La gente insomma, un po' per libera decisione e un po' per le imposizioni di una città sempre più inquinata, caotica e costosa, sta progressivamente lasciando Bologna per abitare il territorio vasto. Se ne vanno i ceti "medi", che ripopolano le campagna e i comuni della provincia, e rimangono i ceti "bassi" e quelli "alti", che per opposte ragioni possono permettersi la vita nella città.

Lo stesso, o quasi, vale per le attività produttive in senso lato: rimangono quelle a più alto profitto e se ne vanno quelle a più alto impiego di lavoro; rimangono o arrivano le boutiques e se ne vanno le botteghe, che tuttavia non si ricollocano nel territorio metropolitano, ma semplicemente spariscono, perché nel territorio metropolitano nascono i centri commerciali, gli shopping center, o i più recenti outlet.

Sembra quindi che si possa ragionare in termini di una relativamente nuova dicotomia: se nel dibattito "storico" sulle città i termini a confronto erano centro e periferia (o città e campagna), oggi i termini a confronto sembrano essere città consolidata (o città centrale) e regione metropolitana, cioè quell'intorno di relazioni, di vita e di produzione, piuttosto difficile da confinare con precisione, ma che nei fatti esiste, e che soprattutto viene oggi adoperato in maniera complessa, con relazioni pluridirezionali, in maniera erratica e non più sistematica. In altre parole un territorio che ha diverse funzioni collocate non solo nella città di Bologna per esempio, ma anche in molti altri luoghi della provincia, e che perciò viene percorso e vissuto in modo intenso e in diverse direzioni, per consumare e produrre, per dormire o svagarsi.

Vengo così all'oggetto della mio intervento. E' possibile che il territorio metropolitano che ho sommariamente richiamato costituisca - o rischi in futuro di costituire - una nuova forma di periferia? Possiamo cioè dire che le nuove forme dell'abitare metropolitano possano oggi o domani soffrire degli stessi mali di cui soffrono le periferie classicamente intese? E, in caso affermativo, esistono indirizzi per limitare, circoscrivere, questi fenomeni?

Intanto bisogna subito dire che esiste una differenza sostanziale tra quelle che usualmente chiamiamo periferie e il territorio metropolitano. Le prime sono, in qualche modo, l'esito concreto di un certo tipo di governo, di una certa urbanistica, di certe decisioni amministrative. Il territorio metropolitano, nei contorni che prima ho richiamato, sembra invece l'esito, per certi versi, di un processo più spontaneo, meno governato, meno deciso.

Le decisioni ci sono state certo, perché ciascun comune della pianura bolognese ad esempio, ha deciso come e dove costruire, secondo le sue convenienze, le case, le fabbriche, le scuole, ma nessuno ha mai deciso per l'insieme dei comuni; intendo dire che se c'è stata una razionalità nella costruzione delle singole parti, dei singoli comuni, la composizione, la somma di queste singole "parti del tutto", non sembra dare un disegno complessivamente razionale: questo "spazio vuoto della decisione" sembra essere il luogo della spontanea formazione del territorio metropolitano.

Perciò bisogna riconoscere la diversità "genetica" di questi due differenti "mondi".

Ci sono ulteriormente 4 elementi, 4 temi, che possono aiutare a comprendere i fenomeni di cui parlo, le similitudini e le differenze.

L'accessibilità

La qualità

L'identità

I costi

L'accessibilità

La periferia è il luogo per definizione "poco accessibile", o meglio il cui accesso è più faticoso, perchè magari arrivano pochi autobus, perché il percorso a piedi per arrivare "in centro" o al lavoro, o a scuola, è troppo lungo e quello in bicicletta troppo accidentato. Perché l'automobile, in questo caso, è poco adatta se nel "centro" non puoi parcheggiare liberamente, o durante il tragitto il traffico snervante induce a continui ritardi.

Il territorio metropolitano, al contrario, è la "patria" dell'automobile. Tutti gli spostamenti, o la maggior parte, si svolgono con la macchina. Perché il trasporto pubblico non può arrivare ovunque e perché le necessità del "cittadino metropolitano" implicano spostamenti frammentati, a volte imprevedibili.

La periferia poi è il luogo in cui non si hanno i servizi sotto casa, per cui bisogna spostarsi per andare a far la spesa, o dal medico, o per andare a scuola. Più questi spostamenti sono complessi e lunghi, più siamo "perifierici". La stessa condizione, anche se a scala diversa, si osserva nel territorio metropolitano, ma ancora una volta gli spostamenti necessari avvengono generalmente con l'automobile e per percorsi più lunghi

L'identità

La periferia è un luogo, passatemi il termine semplicistico, senza storia o con "poca storia". Sono luoghi di relazioni labili, di un vicinato che fatica ad essere amichevole. In cui la "produzione sociale" è complicata, poco agevole. Ci sono a Bologna (ma anche in altre città) esempi di "periferie consolidate", "periferie storiche", la cui identità è riconoscibile: ma quelle sono diventate, per così dire, nuova città (non sono più periferie), in ragione di una buona progettazione, di buona dotazione di servizi, cioè di "buone decisioni pubbliche".

Il territorio metropolitano è formato da luoghi con importante identità. Le frazioni rurali, i capoluoghi e i nuclei dei comuni sono, nella stragrande maggioranza dei casi - almeno qui a Bologna - luoghi con una storia importante, riconoscibili, identitari. Ma il territorio metropolitano è anche "colonizzato", passatemi il termine, da "nuovi luoghi" e da "non luoghi" (nuove zone residenziali isolate nella campagna; isole commerciali; cittadelle sportive; grandi complessi cinematografici multisala ecc). Non voglio dilungarmi su questi fatti ma solo dire che il territorio metropolitano oggi è eterogeneo, fortemente eterogeneo, al punto che spesso le funzioni insediate nelle sue diverse parti tendono a confliggere le une con le altre, a generare cioè "zone critiche".

La qualità

Qui dico veramente poche cose e banali, per questioni di tempo. Le periferie sono spesso prive di qualità formale ed estetica. Poche periferie si possono dire "belle". Sono poco curate, progettate "in economia", poco manutenute. Il paesaggio urbano spesso è per nulla affascinante.

Il territorio metropolitano, e qui mi riferisco specificamente a Bologna, grazie alla sua storia e alle sue diversità è ricco di "paesaggio" e in qualche modo anche di "bellezza"; ma tuttavia, per i fatti che ricordavo poco fa, la metropolizzazione di questo territorio tende a far scomparire progressivamente questi connotati. C'è una tendenza continua a compromettere il tessuto agricolo e quello storico testimoniale; a corrompere, passatemi il termine, "l'identità dei luoghi".

I costi

Ultima questione, molto brevemente. I costi legati a differenti "modi di abitare".

Si può dire che esista una discriminante economica che divide le periferie dal territorio metropolitano: i costi che la collettività sopporta, direttamente o indirettamente, per conseguenza dei due diversi "modi di abitare".

Dicevo prima che il territorio metropolitano è la "patria" dell'automobile. Questo vuole dire che nel territorio metropolitano si consuma proporzionalmente più energia che nella città "compatta": più carburante per gli spostamenti, e quindi si produce più inquinamento. Ma gli spostamenti massicci danno origine anche ad altri costi: per esempio l'incidentalità stradale, che sappiamo essere una piaga di dimensioni rilevanti.

Certo, anche nella città consolidata e nelle sue periferie, si consuma parecchia energia per gli spostamenti, perché comunque l'auto è adoperata; e pure anche gli incidenti stradali avvengo. Me esiste una differenza: che nella città "compatta" i sistemi di trasporto pubblico - cioè i servizi in grado di porre rimedio al problema dell'inquinamento e dell'incidentalità - sono competitivi con il trasporto privato, cioè con le automobili: lungo un chilometro di periferia cittadina si intercettano molti più utenti potenziali che in un chilometro di territorio metropolitano, e di conseguenza i costi unitari del trasporto pubblico sono assai minori in città; e ciò permette di costruire sistemi e politiche per la mobilità più capillari ed efficienti, quindi più competitivi. Il territorio metropolitano se procederà nella sua costruzione "spontanea", al contrario, non consente e non consentirà queste efficienze.

Conclusione

Concludo, cercando di rispondere alla mia domanda d'apertura (i territori metropolitani sono o rischiano di diventare nuove periferie?).

Io credo che oggi, i territori metropolitani non siano ancora "periferie", ma la tendenza a diventare "periferie" esiste, è concreta e reale.

Il territorio metropolitano rischia di diventare nuova periferia se non si governano i processi spontanei. Attenzione, non voglio dire che bisogna impedire i processi spontanei, bisogna governarli, cioè serve più capacità di governo e più governo pubblico specialmente in relazione ai 4 temi richiamati: cioè governare l'accessibilità e la mobilità, trovando le convenienze e i modelli insediativi metropolitani idonei a rendere competitivo il trasporto pubblico; è necessario progettare e pianificare per aumentare e non ridurre l'identità e la qualità dei luoghi. E' infine necessario ripensare, riformare, il sistema della fiscalità locale, per trovare nuovi equilibri e sistemi compensativi, tra costi e benefici delle diverse funzioni di questi territori metropolitani. Certamente è poi fondamentale ridare qualità "al centro", alla città compatta, per vivere meglio anche nel territorio metropolitano.

Insomma, e chiudo veramente, mi pare che progettare il futuro delle nostre aree urbane significhi, per usare uno slogan, pensare ad un sistema relazionale e interdipendente di più luoghi: una città di città.

Più case , meno cemento (8 aprile 2004)

Qualche tempo fa, in una trasmissione televisiva, mi è capitato di ascoltare un esponente del Governo della Repubblica e un esponente dell’opposizione parlamentare, concordare sul fatto che il “problema della casa” in Italia è una “bomba a orologeria”, che prima o poi mostrerà la sua forza dirompente. Lo stesso esponente del Governo (per la cronaca si tratta di Mario Baldassarri, viceministro dell’Economia) faceva seguire a questa cruda osservazione una soluzione semplice: per risolvere il problema della casa in Italia bisogna costruire più case!

Devo dire che se qualcuno cercasse ancora motivi per distinguersi dalla destra di governo, questo è certamente un buon argomento: sostenere infatti che oggi il problema abitativo delle famiglie italiane si risolva con l’incremento massiccio di edilizia residenziale è un atteggiamento retrogrado, populista e rozzo, connotati questi, tipici appunto di quella destra che oggi sta al governo.

Perché basta leggere qualche dato, nella prospettiva storica, sulla dinamica delle famiglie, del lavoro e delle abitazioni per capire che la massiccia edificazione di case, la massiccia urbanizzazione del territorio, c’è già stata (e continua ad esserci) ma ha risolto solo parzialmente il problema abitativo degli italiani; non ha dato risposte alle esigenze dei cittadini migranti; sta impedendo la mobilità delle forze lavoro che per le esigenze occupazionali si spostano sul territorio nazionale; sta selezionando drasticamente la popolazione universitaria, respingendo coloro che, pur nella volontà di formarsi presso gli istituti pubblici non possono permettersi gli affitti delle città universitarie: tutto questo, che già non mi pare un bel risultato, è avvenuto compromettendo in modo grave l’equilibrio del territorio e dell’ambiente, gravità cui oggi si risponde con l’ennesimo infame condono edilizio.

Allora, cerchiamo di essere seri: si tratta non tanto di aumentare ulteriormente e indiscriminatamente la dotazione di case, ma semmai di usare con maggiore efficienza il patrimonio edilizio e di suoli urbanizzati, già esistente, tramite processi di ristrutturazione, di riqualificazione, di ridimensionamento, intervenendo prioritariamente sui suoli cittadini già urbanizzati e defunzionalizzati: si tratta cioè di organizzare forti politiche pubbliche, capaci di mobilitare le leve della fiscalità locale per incentivare i comportamenti virtuosi e penalizzare quelli speculativi.

Qualcuno attribuisce a queste posizioni la volontà di impedire lo sviluppo del settore delle costruzioni e dell’indotto che esso produce: sono, queste, affermazioni fuori dalla realtà. Non si tratta infatti di chiudere la produzione edilizia, e di ignorare la ricchezza materiale che essa produce, ma di indirizzarla verso innovazioni di processo e di prodotto che garantiscano l’occupazione e le imprese, nel rispetto delle esigenze di vivibilità della collettività e dell’equilibrio ambiente.

Come dicevo, per comprendere l’inconsistenza della tesi di chi propone un futuro con più cemento per risolvere il problema della casa, bisogna ricordare che la superficie urbanizzata di Bologna negli anni cinquanta era di circa 1.400 ettari; negli anni ottanta è aumentata fino a 3.800 ettari e oggi, nel duemila, la superficie urbanizzata di Bologna è di oltre 5.800 ettari: questo significa che in cinquant'anni il suolo costruito (le case, le strade eccetera) si è praticamente quadruplicato, e la sua incidenza sul suolo agricolo o "non urbano" (cioè la collina, le aste fluviali e gli ultimi cunei agricoli) è passata dal 10% degli anni cinquanta a oltre il 40% di oggi: una crescita che non ha eguali nella storia di questo territorio.

Significa anche che un cittadino bolognese solo vent'anni fa - negli anni '80 - aveva a disposizione in media, circa 80 metri quadrati di suolo urbanizzato mentre oggi ne ha a disposizione oltre 150, cioè quasi il doppio.

E ancora, oggi a Bologna ci sono quasi 4 mila famiglie in meno rispetto a 20 anni fa ma ci sono 6 mila case in più.

Questi dati parlano chiaro dunque: l’abbondanza di suoli costruiti e di stock di abitazioni è evidente, così come è evidente che questa abbondanza non sembra rispondere con efficienza alla domanda abitativa della città; altrimenti non si spiegherebbero i problemi e le crisi ben documentati da Valerio Monteventi nella sua relazione.

Allora che fare?

Intanto bisogna distinguere il problema abitativo nelle sue diverse componenti, e riconoscere che esiste ancora, ed esisterà in futuro, una frazione consistente della domanda abitativa cui solo l’intervento pubblico può rispondere: l’edilizia residenziale pubblica è, in questo senso, una risorsa strategica che va incrementata e razionalizzata, e non ridotta e svenduta

Bisogna operare un rigoroso controllo e una ferrea valutazione dei processi di dismissione e alienazione del patrimonio di edilizia pubblica, per impedire che il prezioso capitale sociale accumulato in questi anni, vada disperso. L’alienazione del patrimonio pubblico è da considerarsi un attività “straordinaria”, e non una politica cui ricorre sistematicamente: l’alienazione può essere accettata solo quando sia utile a generare realmente altro capitale sociale, e non “flussi di cassa”.

Il reperimento di quote, in termini di “superficie edificabile”, da destinare all’edilizia sociale deve essere affrontato anche a partire da condizioni negoziali - tra il Comune e i proprietari delle aree - marcatamente differenti dal passato. Nelle zone di trasformazione o di espansione urbana, che producono elevata rendita privata, è necessario “pretendere” quote significative e consistenti di superficie utile da non destinare al libero mercato della residenza, ma ad altre forme: edilizia sociale “pura”, a quella convenzionata, a quella per l’affitto concordato permanente e “a tempo”; all’edilizia cooperativa a proprietà indivisa.

Per ciò che riguarda l’affitto a libero mercato bisogna prendere atto della sostanziale inefficacia della legge 431/98, quella dei così detti “canoni concordati”. Il numero di contratti siglati con le fattispecie previste da questa legge è irrisorio, e le “calmierazioni” ottenute sono ancora troppo basse rispetto al tenore del mercato di Bologna. Nella speranza di una radicale riforma di legge, bisogna intanto agire su alcune leve possibili:

su quelle fiscali, per premiare i comportamenti virtuosi e penalizzare quelli speculativi.

Bisogna poi, al di là di quanto prevede la legge, promuovere un vero “patto tra amministrazione pubblica, parti sociali e imprenditori”: se il fine di tutti deve essere quello di creare migliori condizioni di vivibilità, per assicurare le “utilità” di ciascuna parte, è indubbio che sia urgente riconoscere che queste condizioni sono legate anche alla “ricchezza delle famiglie” e perciò, implicitamente, all’incidenza dei canoni di mercato sui redditi. Bisogna cioè intervenire per regolare il mercato, proporre una disciplina certa e stabile, perché esso diventi un vero mercato e non un cartello che specula su un diritto fondamentale di cittadinanza: il diritto alla casa.

La questione dell’università e degli studenti. La condizione di forte presenza di studenti fuori sede, nel mercato bolognese, produce evidenti distorsioni, perché dalla “competizione” tra la disponibilità a pagare degli studenti che oggi si possono permettere di studiare (assieme alla loro, diciamo così, “flessibilità” abitativa) rispetto alla disponibilità a pagare delle famiglie, dall’altra parte, ne è conseguito un aumento straordinario degli affitti e una progressiva esclusione dei segmenti sociali più deboli e oggi anche delle classi medie, sia nel contesto degli studenti che in quello delle famiglie residenti.

Fermo restando la necessità di rilanciare, con l’università, una politica di assistenza e di tutela per gli studenti in condizioni di specifiche necessità, è opportuno agire su due fronti:

dare consistenza pratica al decentramento universitario alla scala metropolitana, favorendo questa delocalizzazione con le garanzie di una efficiente mobilità permessa dall’entrata a regime del Servizio Ferroviario Metropolitano e dei trasporti urbani di massa;

operare “iniezioni”, consistenti e diffuse, di edilizia speciale (tipologie specifiche per la residenza degli studenti) destinata al libero mercato, integrata con la struttura urbana e con i suoi servizi, al fine di dirottare quote massicce di studenti “fuori” dal mercato abitativo “per le famiglie”, incentivando i privati ad intervenire in questo settore e riproponendo meccanismi di convenzionamento per una parte del nuovo realizzato.

Non mi soffermo su altre proposte perchè Valerio Monteventi le ha già anticipate. Solo un ultima considerazione. Chi paga?

Chi paga è la domanda che sempre si pone quando si tratta di dare servizi pubblici e di governare un territorio. Perché oggi la casse dei comuni sono sempre più vuote e i canali di finanziamento statale son sempre meno generosi.

A me pare che in queste condizioni di forte contrazione della capacità di spesa pubblica sia necessario stabilire delle priorità, escludendo dalla lista le attività meno prioritarie o addirittura inutili.

Allora bisogna dire con forza, per esempio, che la metropolitana che Guazzaloca sta ostinatamente portando avanti non è una priorità! Si potrebbe cominciare da qui a riprogrammare il finanziamento delle attrezzature pubbliche e delle politiche sociali.

Una nuova stagione urbanistica (3 giugno 2004)

Nei giorni scorsi su un giornale cittadino si leggeva che uno dei meriti maggiori della giunta Guazzaloca è stata la continuità con un percorso politico tutto sommato già in essere. Si parla di un’amministrazione che non ha portato cambiamenti forti alla città, che ha governanto dinamiche considerate ineluttabili; che non ha perciò provocato schok ai cittadini.

E dunque “il continuismo” sembra essere di per sé un valore positivo, almeno per alcuni osservatori e alcuni politici.

Io non sono – in nulla – d’accordo con questa tesi. Questo Sindaco, che io mi auguro torni presto alla tranquillità della vita privata, è il simbolo della degenerazione di errori commessi in passato. Altro che continuismo positivo…

Bologna ha un Piano Regolatore che è del 1989. Per questioni complicate che non sto a raccontarvi, tutte comunque legate alla politica e agli interessi economici che alla fine degli anni ottanta si scontrarono drammaticamente, il nostro Piano Regolatore, tutt’oggi vigente, ha delle previsioni di crescita fisica della città molto grandi. Cioè si era prevista una crescita dell’economia e uno sviluppo demografico che nei fatti non si è verificato. Perciò ci troviamo oggi con un residuo di suoli edificabili, molto consistente, che in assenza di una forte ripresa demografica e un’altrettanto forte impulso dello sviluppo produttivo, sarà difficile utilizzare completamente anche nei prossimi anni.

Nonostante questa condizione, la Giunta Guazzaloca ha appena deliberato una proposta di nuovo Piano Regolatore (che oggi, in base alla nuova legge, si chiama Piano Strutturale), che raddoppia di fatto le capacità residue del vecchio Piano, prospettando in questo modo un futuro in cui il libero mercato potrà costruire qualcosa come 20 – 25 mila nuovi appartamenti.

Per capire il tenore di questa ondata di cementificazione bisogna dire che oggi a Bologna si costruiscono mediamente 500-600 alloggi l’anno: significa che a questi ritmi, se non si intervenisse per interrompere il processo proposto dalla giunta Guazzaloca, verrebbero ipotecati i prossimi 40 anni di sviluppo a Bologna. Una condizione che impone alle forze progressiste di alzare la voce per opporsi in modo radicale a questo stato di cose, e ai cittadini di manifestare il loro dissenso il 12 e il 13 giugno prossimo, nel decisivo appuntamento elettorale.

Nonostante le ampie possibilità di costruzione offerte dal Piano Regolatore vigente, dalla seconda metà degli anni ’90, si è cominciato ad usare uno strumento urbanistico che nella sua natura doveva servire per “riqualificare” parti della città particolarmente sofferenti, dal punto di vista dei servizi, del verde, della casa ecc.

A Bologna invece si è interpretato questo strumento come un modo facile e speditivo per rendere edificabili alcuni suoli che il Piano Regolatore aveva molto oppoprtunamente scartato, per trasformare piccoli magazzini, per riempire vuoti interstiziali, e molto raramente per trasformare zone produttive dismesse in strutture e funzioni rispondenti alle domande della collettività. Perché le trasformazioni operate in questi anni, avvenute col nome di riqualificazione, sono state – quasi esclusivamente – orientate a costruire residenza per il libero mercato della vendita, a prezzi così alti che oggi Bologna è in cima alle classifiche delle città in cui le case costano di più. Questo tipo di riqualificazione, invece di sgravare la città dalle condizioni di un certo affaticamento, ha imposto pardaossalmente ultireriori condizioni di stress alle zone interessate dalle trasformazioni.

Le quantità edilizie messe in gioco, con questa riqualificazione, investono complessivamente quasi 110 ettari di suolo cittadino, per una capacità edificatoria di 320.000 mq si superficie, della quale il 70% destinata a residenza, che tradotto significa circa 2.500 - 3.000 nuovi alloggi. Di cui, ripeto, solo un numero irrisorio (sotto al 3-4%) è stato dedicato all’affitto a canoni fuori mercato.

Non bisogna pensare che in occasione di questa campagna elettorale, le attività speculative si siano non dico arrestate, ma per lo meno congelate. Basta leggere i giornali per rendersi conto che l’amministrazione comunale continua a mietere progetti da approvare con urgenza straordinaria, per sdoganarli prima della chiusura del mandato: ecco allora che sorgeranno torri in via della Villa – nella zona fiera; che sorgeranno appartamenti e un hotel nell’area ex SEABO; che si promettono parcheggi multipiano alla STAVECO; che al posto dell’ex mercato ortofrutticolo si costruirà di tutto fuorchè strutture e servizi utili alla bolognina e strategiche per la città metropolitana, vista la stretta relazione con la stazione ferroviaria, che si appresta a diventare una delle più trafficate d’Italia.

ALLORA CHE FARE?

Intanto bisogna ridiscutere subito le proposte contenute nel nuovo Piano Strutturale, per impedire ulteriori speculazioni sui suoli vergini, agricoli, naturali.

Biasogna puntare sulla vera riqualificazione - dentro al Piano Strutturale - dei tessuti già edificati e oggi dismessi: quella riqualificazione che ha il coraggio politico di togliere cemento per far spazio al verde e ai servizi; la riqualificazione che pone al centro dell’edificazione non solo la rendita privata dei legittimi proprietari ma anche e soprattutto il dramma dei cittadini che cercano case a costi regionevoli. Una riqualificazione che deve avvenire all’interno di un disegno organico per la città, una prospettiva cioè che solo un Piano Strutturale può garantire.

Terzo punto, e ho finito. Sembra incredibile, ma Bologna non ha ancora un Piano dei Servizi, non ha cioè un programma pluriennale che in base alle previsioni di sviluppo edilizio e socio economico, e in base alle necessità di ciascun quartiere, predisponga in tempo, gli asili nido, le scuole materne, i parcheggi, le aree verdi e tutta la gamma di servizi necessari ad una vita dignitosa. Questa situazione non può protrarsi ulteriormente: un bilancio e un conseguente piano dei servizi è oggi una delle priorità per Bologna.

Brandelli di urbanistica (da “Ciao, Bologna”, Angeli, 2004)

«Esistono due modi per uccidere: uno, designato apertamente col verbo uccidere; l’altro, quello che resta di norma sottinteso dietro il delicato eufemismo: “rendere la vita impossibile”. È la forma di assassinio, lenta e oscura, consumata da una folla di complici invisibili. È un “auto-da-fé” senza “coroza” e senza fiamme, perpetrato da un’Inquisizione senza giudici né sentenza [...]».

(Eugenio d’Ors, La vie de Goya) [1]

1. La «vita impossibile» dell’urbanistica

Ci sono segnali – non pochi e non nascosti – che portano a ritenere l’attuale condizione del governo del territorio e delle città, in crisi non solo «di fatto» ma anche «di principio».

È evidente, perché esplicita, epidermica e documentata, che la vivibilità di molti territori e di molte città del Paese non ha subito, nell’ultimo decennio, «balzi in avanti», come si era sperato quando la coscienza civile, risvegliatasi dopo gli anni delle truffe e delle tangenti ai danni del territorio (e quindi della collettività), sembrava aver indicato con determinazione la necessità di un cambiamento profondo, anche per conseguenza dell’emergere dei cosiddetti «temi globali»; condizioni che imponevano al nostro Paese, alla sua classe politica, a quella imprenditoriale e a quella intellettuale, di riformare il patto con i cittadini: lo Stato doveva riprendere possesso del governo delle trasformazioni, dopo gli anni del liberismo selvaggio, ma soprattutto dopo gli anni del banditismo politico connivente con le mafie e i sistemi criminali.

L’inizio degli anni ’90 quindi, per certi versi, è stato l’espressione quasi euforica della volontà di riscatto, e sarebbe lungo e qui inopportuno elencare i fatti che documentano questa ripresa civile.

Altrettanto complicato è spiegare il perché del fallimento sostanziale di questo tentativo di rinascita. Perché l’euforia si è presto consumata, la corruzione quiescente si è riattivata, e non hanno tardato a risvegliarsi il brigantaggio e le ruberie ai danni del territorio; mentre una «nuova» forma di comportamento socio-economico si è affacciata: il «neoliberismo deregolativo».

Ma se i fatti, i comportamenti, e gli esiti di questo stato di cose sono – purtroppo – sufficientemente noti e prevedibili, la novità preoccupante di questa «nuova ondata» – quella che stiamo vivendo in questi ultimi tempi – è il riconoscimento delle sue prassi come «socialmente accettabili»: la prassi, cioè, si candida a modificare, piegandolo o spezzandolo, il «principio» e spesso anche la «norma», che originano e sottendono il governo urbano e territoriale.

È una prassi che trova la sua natura nella filosofia individualistica che il neoliberismo impone, secondo la quale la somma dei comportamenti privati, liberamente competitivi, genera benessere, privato e in fine collettivo; che affonda le sue radici nella concezione dell’inesauribilità delle risorse naturali; che impone la coercizione come principio educatore.

La città e il territorio, nella cultura occidentale, non sono però, in alcun modo, l’esito formale e sostanziale di una siffatta prassi, al punto che in tempi ormai lontani questi stessi comportamenti hanno rappresentato la «patologia» per cui è collettivamente maturata la necessità di formare una disciplina – l’urbanistica – che potesse rimediare a queste deviazioni, che avevano reso invivibili quei luoghi in cui gli uomini avevano deciso di convivere democraticamente (le città).

Oggi, questa prassi sembra non essere più patologica, ma organica o per così dire «endemica». È come un parassita che si è innestato nel corpo dello Stato e sembra in paradossale simbiosi, producendo dissesto, congestione, inquinamento, saccheggio, segregazione, che gli «anticorpi» non riconoscono più come malattie ma come manifestazioni normali, di un organismo sano.

L’urbanistica, in questo senso, non è stata assassinata: è il bersaglio di uno stillicidio poco eclatante, ma sistematico e scientifico, diretto a comprometterne gli organi vitali, tramite un anestetico che rende questo declino «socialmente accettabile».

2. Bologna, dal «mito» al «rito»

Bologna ha preso in pieno, e nel verso peggiore, il vento del «neo-liberismo deregolativo» spirato negli anni ’90, sull’urbanistica e sul governo del territorio.

Ci sono stati, è vero, in quegli anni, anche lampi di luce, e belle speranze, di cui lo Schema direttore metropolitano è certamente un esempio, così come lo sono stati i tentativi di governare certe trasformazioni della città con strumenti di valutazione ambientale all’avanguardia.

Ma il vento di scirocco ha ridotto drasticamente la portata e l’efficacia di quegli strumenti, ha inghiottito l’entusiasmo delle donne e degli uomini che ne furono gli artefici; ha seccato e poi bruciato le radici riformiste da cui quegli strumenti erano cominciati a fiorire.

L’analisi necessaria a dar conto dei motivi di questa disfatta è complessa e, probabilmente, nemmeno alla portata di chi scrive. Ma su un fatto bisogna riflettere: quale sia stata l’utilità sociale, cioè il «profitto collettivo», che dieci anni e oltre di smantellamento delle «rigidità» e delle «ingessature», dei «lacci e lacciuoli», connaturate – secondo taluni – all’urbanistica e al governo del territorio, hanno prodotto per la città e per i cittadini che la vivono.

E ancora bisogna domandarsi dove stiano le responsabilità, in quale anfratto sociale o in quale istituzione, in quale processo economico e in quali interessi si nascondano gli errori, le omissioni, le ingenuità e le infatuazioni, che hanno compromesso il rilancio della città del «mito urbanistico», e dove, in fine, ci sia terreno fertile per ricominciare.

Perché bisogna ricominciare, per progettare un nuovo futuro, da dove si è smesso il «mito» ed è cominciato il «rito», quello della contrattazione senza garanzie democraticamente validate e codificate, senza strumenti e obiettivi strutturali, che ha svuotato i Consigli comunali del potere assegnato loro dalla Costituzione repubblicana; quel «rito» che ha distorto e piegato il senso delle operazioni volte a riqualificare tessuti urbani defunzionalizzati, a «costruire sul costruito» e a chiudere definitivamente la stagione dell’espansione urbana verso suoli vergini.

Bisogna chiedersi perché, nonostante Bologna non sia mai stata un polo della grande industria, e di conseguenza non abbia subito, nei tempi recenti, fenomeni di dismissione produttiva o di crisi funzionale di grandi comparti urbani, di dimensione in qualche modo paragonabile a quelli vissuti in altre aree del Paese (per esempio a Napoli-Bagnoli, o a Sesto S. Giovanni), essa sia stata martellata per troppi anni da una costante e unica attività «urbanistica»: quella della «riqualificazione speculativa».

L’attività di sostituzione e ridefinizione funzionale di tessuti già urbanizzati o interstiziali attraverso interventi di media e piccola dimensione ha prodotto infatti, in questi ultimi anni effetti di non secondario rilievo, sia dal punto di vista delle quantità messe in gioco dai programmi complessi realizzati o in fase di realizzazione (in totale quasi 3.000 alloggi), sia dal punto di vista dell’impatto che la sommatoria di questi nuovi fatti urbani ha generato (e genererà) sulla città.

Una prima questione riguarda dunque l’intendimento circa la «semantica della riqualificazione» in un area priva di evidente e significativo degrado, almeno non nei termini con cui ci si misura in altri luoghi del Paese o d’Europa.

A questo proposito è utile ricordare che negli anni ’90 un motivo fondamentale – o forse strumentale – che ha indotto ad inserire nella disciplina urbanistica nazionale e poi regionale gli strumenti di programmazione complessa, era il fattore «tempo»: a fronte delle modificazioni del paradigma tecnico-produttivo a cui si è assistito negli anni ’80, molte aree industriali storiche del Paese erano entrate in una fase repentina di declino e conseguentemente molte città dovettero rispondere alle esigenze di riconversione di grandi comparti, spesso incuneati nel tessuto urbano, in tempi utili ad evitare il degrado indotto da una dismissione prolungata.

Gli strumenti originati da questa necessità prevedevano quindi forme procedurali che dovevano essere più speditive di quelle ordinarie, e introiettavano la necessità di concertazioni negoziali che coinvolgessero risorse private: l’accettazione della deroga dallo strumento urbanistico generale e dalle sue procedure era sostenuta da argomentazioni di urgenza e dalla particolarità di ciascuna delle situazioni da affrontare che postulava l’opportunità di strumenti appositi e di trattative «caso per caso», anche non necessariamente inquadrate in un disegno urbanistico complessivo e «di lungo respiro».

Tali caratteristiche originarie si sono peraltro evolute negli anni ’90 fino a dare luogo ai programmi ministeriali più recenti in cui la dimensione strutturale e strategica e il lungo respiro sono di nuovo richiesti come requisiti fondamentali.

Le diverse interpretazioni che sono scaturite nel tempo, da questa evoluzione legislativa, hanno dato luogo a differenti comportamenti nella prassi urbanistica, sedimentati negli esiti concreti che oggi, nella stessa area bolognese, sono chiaramente riconoscibili, e che consentono agevoli valutazioni.

Un primo aspetto di questa «stagione urbanistica» riguarda, quindi, la completa assenza del rapporto fra le singole operazioni e una strategia urbana che fornisca motivazione e giustificazione dei singoli interventi: si tratta cioè, senza dubbio, di azioni indipendenti l’una dall’altra, che esauriscono la loro ragione nella mera trasformazione edilizia dell’area.

Le quantità messe in gioco, tuttavia, dimostrano che gli interventi di trasformazione sono di assoluto rilievo nella dinamica edilizia complessiva dell’area bolognese, relativamente all’ultimo decennio: si tratta di oltre 50 interventi [2], tutti in deroga dal Prg, che investono complessivamente quasi 110 ettari di suolo cittadino, per una capacità edificatoria di 320.000 mq di superfici utile, della quale 212.146 mq (66%) [3] destinata a residenza (soprattutto per il libero mercato della proprietà), a cui corrispondono circa 2.500-3.000 nuovi alloggi.

Per inquadrare il significato di questi dati è opportuno ricordare che il Prg vigente, nella versione adottata nel 1985, aveva calcolato un fabbisogno decennale di 5.600 alloggi, stima sostanzialmente non smentita dai dati della produzione edilizia, di poco superiore alla media di 500 alloggi l’anno per tutti gli anni ’90, che rappresenta bene la capacità effettiva di assorbimento dei nuovi alloggi da parte del mercato libero.

Con i programmi complessi, tra il 1998 e i giorni nostri si «aggiunge» così alla città un carico urbanistico pari a cinque/sei anni di attività edilizia.

Molti degli interventi per i quali si sono richiamate le procedure della riqualificazione, oltre a non lasciare intravedere un disegno urbano di riferimento, aprono uno squarcio sulle asserite situazioni di degrado urbano (ambientale, o sociale, o funzionale) da riqualificare. Nei fatti, numerosi degli interventi proposti agiscono su aree completamente inedificate, spesso destinate dal Prg a standard, con vincoli più volte reiterati e scaduti; le trasformazioni sembrano originati e motivate da problematiche importanti (vincoli scaduti), ma che hanno poco a che fare con la riqualificazione.

I tempi di trasformazione delle aree selezionate si sono rivelati del tutto simili agli strumenti di pianificazione ordinaria; ci sono, ad esempio, interventi selezionati nel 1997 che ad oggi debbono ancora trovare la definitiva concertazione tra le parti: condizione che rivela, definitivamente, l’inconsistenza della tesi secondo cui la concertazione e la deroga dal Piano, sono il mezzo più veloce per trasformare la città.

La «complessità» delle operazioni urbanistiche, sia in termini progettuali che di relazione con le diverse compagini sociali ed economiche, non ha movimentato risorse straordinarie.

La destinazione abitativa è stata largamente dominante in tutte le operazioni di «riqualificazione», ma paradossalmente non ha contribuito, se non in misura marginale, ad una politica per la casa, considerando che dalla concertazione si sono ottenute quote irrilevanti di edilizia sociale, a fronte di prezzi degli alloggi a libero mercato collocati costantemente ai margini più alti delle classifiche nazionali.

Si deve avere il coraggio allora di riconoscere l’inutilità, per la collettività, delle operazioni urbanistiche che in questi anni sono state nominate col termine «riqualificazione», per le quali si è abbandonata la prassi garantista della pianificazione a favore di un sistema di contrattazioni miopi e fuori dalla sovranità democratica delle assemblee elettive, ridotte drammaticamente a semplici organi di ratifica.

Questi fatti, per finire, non lasciano dubbi sull’opportunità di chiudere una stagione che ha fatto a brandelli l’urbanistica bolognese. Si tratta ora di riprendere un’altra strada, nella direzione della pianificazione.

[1]. È la stessa citazione che Antonio Gramsci, nel 1930, ha annotato su uno dei suoi celebri Quaderni del carcere.

[2]. Ci si riferisce alla somma degli interventi relativi ai bandi pubblici OdG 70 e OdG 136, concertati e non concertati.

[3]. Percentuale che diventa il 71% se si escludono dal conteggio due interventi che destinano ad attività produttiva l’intera superficie utile.

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Ringrazio gli organizzatori di questa serata, perché mi danno la possibilità di portare la voce di un'associazione bolognese di cittadini e di urbanisti, che si chiama Compagnia dei Celestini.

Quattro anni fa ci siamo messi a ragionare sui motivi per cui a Bologna la qualità della vita si fosse così deteriorata, perché la città fosse meno amichevole d'un tempo. E abbiamo cominciato a ragionare con gli strumenti analitici che avevamo a disposizione, riattivando un dibattito pubblico che si era assopito, producendo analisi che hanno "resistito" nel tempo - grazie al loro rigore - anche all'assalto dei nostri più agguerriti oppositori.

Sapete tutti infatti che l'urbanistica è un tema molto spinoso, e che spesso sta sulle pagine dei giornali, in modo più o meno diretto, e di conseguenza chi "critica" e chi propone "cose fuori dal coro" ha in genere vita difficile: noi sopravviviamo - passatemi il termine - grazie al rigore delle nostre analisi e al divertimento che prova solo chi non ha padroni a cui rispondere.

Il titolo del mio contributo un po' lo anticipa: le cose che dirò sono tese a rivendicare l'utilità pubblica dell'urbanistica e della pianificazione. L'urbanistica deve servire per vivere meglio, per far vivere meglio i cittadini. Deve cioè organizzare un sistema democratico di regole e di opportunità orientate ad aumentare l'equità sociale e l'equilibrio ambientale nel suo complesso: in una parola l'urbanistica deve servire per sostanziare i diritti fondamentali di cittadinanza.

Credo sia necessario, oggi più di ieri, sottolineare questa necessità del governo pubblico delle trasformazioni urbane e territoriali perchè negli anni novanta si è smesso - a Bologna e anche in altre parti del Paese - di credere che l'urbanistica potesse realmente concorrere a realizzare questi princìpi, e conseguentemente si è scelta un'altra strada: si è scelto di non pianificare, si è scelto di trasformare la città "navigando a vista", volta per volta, caso per caso, senzaobiettivi di lungo respiro, ma soprattutto si è persa la "bussola" dell'interesse pubblico. Si trasforma la città, piccoli o grandi lotti che siano, costruendo soprattutto palazzi, villette, condomini, senza chiedersi cosa ci guadagnano i cittadini e la città nel complesso dalle trasformazioni che si compiono.

La classe politica sembra aver rinunciato ad una delle principali responsabilità che le spetta per "statuto": cioè progettare il futuro della città che governa. Che poi il progetto abbia le "gambe" (passatemi il termine) nei poteri economici che hanno la forza e l'interesse legittimo e positivo di costruirla questa città, è evidente e fuori discussione: la città è costruita prevalentemente, da sempre, per mano di operatori non pubblici, con i quali si deve trasparentemente discutere e negoziare.

Ma quello che è necessario ritrovare, perché a me sinceramente sembra essersi perduto, è la capacità che solo un governo pubblico è legittimato a fare: costruire un progetto con obiettivi e regole "del gioco", chiare, durature e indiscriminanti, a cui deve riferirsi chi ha le opportunità e gli interessi per trasformare suoli ed edifici.

Questo progetto ripeto non può che essere pubblico, perché solo un governo pubblico può e deve prendersi cura, cioè tutelare e promuovere, anche chi non ha potere, chi non ha interessi immobiliari, chi non è proprietario di suoli o di edifici: cioè la stragrande maggioranza dei cittadini.

Queste cose le dico non per dare lezioni a qualcuno, ma perché servono ad inquadrare il senso del mio contributo.

Perché la strada che si è intrapresa a Bologna ha mostrato di essere fallimentare: un fallimento oggi documentabile e che ha radici ben definite.

A Bologna - ma non solo a Bologna - nell'ultimo decennio del secolo scorso, si è subito pesantemente il fascino del «neoliberismo deregolativo», che altrove aveva cominciato a farsi vivo già dagli anni ottanta.

Negli anni ottanta, a Bologna, si era invece scelta un'altra strada: si era cercato di costruire un progetto per il futuro della città con un Piano, un buon Piano Regolatore, che puntava a non espandere ulteriormente il suolo urbano ma a compiere operazioni di vera riqualificazione. Era un Piano dimensionato con quote di sviluppo residenziale credibili e sostenibili.

Ma quel Piano così adottato nel 1985 fu tradito e stravolto nella sua versione definitiva, approvata 4 anni dopo, a seguito di un drammatico conflitto politico all'interno della giunta di sinistra: aumentarono notevolmente gli indici edificatori, saltarono molte altre garanzie circa la sostenibilità delle operazioni urbanistiche; da una previsione di circa 6 mila alloggi da costruire in 10 anni se ne inserirono 19 mila.

Quello che si cominciò ad attuare all'inizio degli anni novanta era dunque un Piano stravolto, inadatto a guidare lo sviluppo di Bologna, inadatto a creare opportunità per gli operatori del mercato e vivibilità per i cittadini.

A 14 anni di distanza quel Piano, talmente era sovradimensionato, è rimasto inattuato per quasi la metà delle sue capacità edificatorie e laddove lo si è attuato esso ha mostrato drammaticamente tutti i suoi limiti: gli indici edificatori elevati hanno prodotto comparti urbani densi e massicci, privi di qualità e in cui ci sono serie difficoltà di reperimento di suoli per i servizi di quartiere. E di conseguenza sono emersi problemi di congestione e di traffico, e anche di degrado diffuso.

Di fronte a questa condizione, nella seconda metà degli anni novanta, invece di scegliere di "rifare il Piano", cioè di rimettere mano alle regole e alle strategie per la trasformazione della città, si è scelta la strada della deroga dal Piano: significa che si è deciso di procedere inseguendo gli stimoli che il libero mercato proponeva all'amministrazione pubblica, senza che quest'ultima avesse degli obiettivi chiari e di lungo periodo a cui riferire quegli stimoli che venivano dagli operatori di mercato.

Si è aperta così la stagione della così detta riqualificazione urbana, o dei programmi integrati: una stagione transpartitica, a cui Guazzaloca ha contribuito continuando e peggiorando una situazione già in essere.

Non entro nel merito di questa strumentazione (i Programmi Integrati e di Riqualificazione appunto) perché credo sia qui inopportuno. Racconto invece che cos'ha prodotto questa stagione, negli ultimi sette anni.

Nonostante Bologna non sia mai stata un polo della grande industria manifatturiera o "pesante", e di conseguenza non abbia subito, nei tempi recenti, fenomeni di dismissione produttiva o di crisi funzionale di grandi comparti urbani, di dimensione in qualche modo paragonabile a quelle di altre aree del Paese (per esempio a Napoli – Bagnoli, o a Sesto San Giovanni), Bologna è stata martellata per gli ultimi 7 anni da una costante e unica attività «urbanistica»: quella di una «riqualificazione» che ha riqualificato - a nostro parere - soprattutto la speculazione edilizia.

L’attività di sostituzione e ridefinizione funzionale di tessuti già urbanizzati o interstiziali attraverso interventi di media e piccola dimensione ha prodotto infatti, in questi ultimi anni, effetti di non secondario rilievo, sia dal punto di vista delle quantità messe in gioco dai così detti "programmi integrati" prima e poi da quelli di riqualificazione, realizzati o in fase di realizzazione (si tratta in totale quasi tremila nuovi alloggi), sia dal punto di vista dell’impatto che la sommatoria di questi nuovi fatti urbani ha generato (e genererà) sulla città.

Un primo aspetto di questa «stagione urbanistica» bolognese riguarda la completa assenza del rapporto fra le singole operazioni e una strategia urbana che chiarisca l'interesse collettivo derivante dai singoli interventi: si tratta cioè, senza dubbio, di azioni indipendenti l'una dall'altra, che esauriscono la loro ragione nella mera trasformazione edilizia dell'area, con un rendimento ingente e diretto solo per i soggetti privati interessati dalla trasformazione (proprietari di aree e costruttori).

In secondo luogo le quantità edilizie messe in gioco, dimostrano che gli interventi di trasformazione sono di assoluto rilievo nella dinamica complessiva di Bologna, relativamente all’ultimo decennio: si tratta di oltre 50 interventi[1], tutti in deroga dal PRG, che investono complessivamente quasi 110 ettari di suolo cittadino, per una capacità edificatoria di 320.000 mq di Superfici Utile, della quale il 70% destinata a residenza (soprattutto per il libero mercato della proprietà), a cui corrispondono circa 2.500 - 3.000 nuovi alloggi.

Per inquadrare il significato di questi dati bisogna ricordare che il PRG vigente, nella versione adottata nel 1985, aveva calcolato un fabbisogno decennale di meno di 6.000 alloggi - come ho ricordato prima: una stima che sostanzialmente non è stata smentita dai dati della produzione edilizia degli anni novanta, di poco superiore alla media di 500 alloggi l’anno; un dato questo che rappresenta bene la capacità effettiva di assorbimento dei nuovi alloggi da parte del mercato libero.

Con i programmi complessi, tra il 1998 e oggi si «aggiunge» quindi alla città un carico urbanistico pari a cinque/sei anni di attività edilizia (tutto questo in deroga da un PRG con ingenti quantità edificatorie ancora da attuare).

Terza questione: molti degli interventi per i quali si sono richiamate le procedure della riqualificazione, oltre a non lasciare intravedere un disegno urbano di riferimento, aprono uno squarcio sulle asserite situazioni di degrado urbano (ambientale, sociale, funzionale ecc.) da riqualificare.

Nei fatti, numerosi degli interventi proposti agiscono su aree completamente inedificate, spesso destinate dal PRG a zone per servizi pubblici (verde, parcheggi, scuole ecc.), con vincoli più volte reiterati e scaduti; le trasformazioni che sono state proposte sembrano quindi originate e motivate da problematiche importanti (i vincoli scaduti), ma che hanno poco a che fare con la riqualificazione.

Quarto: la questione dei tempi e della presunta velocità di trasformazione delle aree tramite la deroga dal Piano. I tempi di trasformazione delle aree selezionate si sono rivelati del tutto simili agli strumenti di pianificazione ordinaria; ci sono, ad esempio, interventi selezionati nel 1997 che ad oggi debbono ancora trovare la definitiva concertazione tra le parti: condizione che rivela, definitivamente, l'inconsistenza della tesi secondo cui procedere «caso per caso», derogando dal Piano Regolatore, è il mezzo più veloce per trasformare la città.

Quinto e ultimo punto: le "contropartite" per la collettività. La asserita «complessità» delle operazioni urbanistiche, sia in termini progettuali che di relazione con le diverse compagini sociali ed economiche, non ha movimentato risorse straordinarie e dunque, anche per questo aspetto, il «sacrificio» della pianificazione urbanistica non è servito a dotare la città di attrezzature pubbliche di significativa consistenza.

La destinazione abitativa, come ho già ricordato, è stata largamente dominante in tutte le operazioni di «riqualificazione», ma paradossalmente non ha contribuito, se non in misura marginale, ad una politica per la casa: dalla concertazione si sono ottenute quote irrilevanti di edilizia sociale, a fronte di prezzi degli alloggi a libero mercato collocati costantemente ai margini più alti delle classifiche nazionali.

Insomma, mi pare che a fronte di questi risultati si debba avere il coraggio politico di riconoscere l'inutilità, per la collettività, delle operazioni urbanistiche che in questi anni sono state nominate col termine «riqualificazione», per le quali si è abbandonata la prassi garantista della pinaificazione a favore di un sistema di contrattazioni miopi e fuori dalla sovranità democratica delle assemblee elettive: assemblee ridotte a semplici organi di ratifica di contrattazioni eseguite nella "riservatezza", per usare un eufemismo.

Questi fatti, a mio parere, non lasciano dubbi sull'opportunità di chiudere una stagione che a Bologna ha peggiorato la qualità della vita dei cittadini, ha depotenziato il ruolo e la responsabilità dell'amministrazione cittadina nel progettare strategie per il futuro, ha eroso le conquiste sociali connaturate a quell'urbanistica riformista che a Bologna era gemmata.

Credo, per finire, che sia venuto il momento di riprendere una strada che rimetta al centro delle trasformazioni urbane l'interesse pubblico e la responsabilità politica, assieme a tre importanti valori: la trasparenza (che vuol dire anche la partecipazione) dei procedimenti urbanistici; il rigore nelle valutazioni di un territorio sempre più fragile e limitato; e l'equità nel trattamento di tutti cittadini, anche di chi non è interessato a concessioni edilizie, ma ha il diritto a una città vivibile.

Mi pare che l'urbanistica, in questo senso, sia uno strumento di governo necessario.

Grazie

[1] Ci si riferisce alla somma degli interventi relativi ai bandi pubblici OdG 70 e OdG 136, concertati e non concertati.

Non nascondo che raccontare dell'urbanistica bolognese è per me come raccontare di un grande maestro, quando di lui si cominciano a capire anche i lati più complessi e oscuri, le pieghe più critiche e i difetti profondi.

Così oggi, con la necessaria umiltà, racconto a voi il lato dell'urbanistica bolognese che non sta nell'immaginario collettivo, cioè non la "mitica" Bologna della tutela della collina, del Peep centro storico, delle periferie vivibili e ottimamente servite, dei piani urbanistici paradigmatici; oggi racconto invece cosa è successo a Bologna negli anni novanta, quando si è cominciato ad attuare il PRG '89, e quando, contestualmente, si è cominciato a derogarlo, fino a rendere la "città del mito urbanistico", oggettivamente, quotidianamente, critica sotto il profilo della vivibilità generale. So che qualcuno, alla fine, penserà che Bologna è ancora una città molto vivibile se la confrontiamo con altre realtà italiane: questo è vero, ma a me interessa registrare il recesso della cultura urbanistica e politica che qui si è verificato; capire e raccontare perché Bologna non produce più buone pratiche.

Ho pensato di intitolare il mio intervento "Bologna e la pianificazione dell'incertezza" per tre motivi:

1. perché lo strumento che nell'89 è stato varato, cioè la Variante Generale al PRG, è uno strumento che conteneva geneticamente l'incertezza, in particolare l'incertezza sulla dimensione fisica che la città avrebbe dovuto assumere nell'orizzonte degli anni di validità del Piano, cioè i suoi previsti "carichi urbanistici". Con ciò voglio dire che quel piano è nato con delle qualità indubbie nella versione adottata nell'86, ma alla sua approvazione - dopo tre anni - conteneva nelle norme e "nelle strategie" delle previsioni di crescita e un mix d'usi non definiti in maniera accettabile, e dunque oggettivamente non relazionati alle dinamiche sociali, demografiche ed economiche che in quegli anni di formazione del Piano già si cominciavano a presagire; per di più, quel Piano, non è riuscito a trovare nella sua attuazione la necessaria coerenza con la questione della mobilità dei cittadini e delle merci, immobilizzando di fatto, per oltre 10 anni, lo sviluppo delle tecnologie e delle reti di trasporto pubblico di massa;

2. la seconda ragione del titolo di questo mio intervento riguarda l'attività di edificazione che negli anni novanta si è svolta al di fuori del Piano Regolatore, a partire dai Programmi Integrati per arrivare a quelli di così detta Riqualificazione, fino al ricorso ordinario all'Accordo di Programma;

3. la terza ragione riguarda l'incertezza degli obiettivi dell'azione pubblica e politica in questi ultimi anni: il bilancio degli atti "urbanistici" conseguenti a questa incertezza evidenzia una chiara e pesante condizioni di crisi della città.

Capire queste tre incertezze, quella del Piano, quella del "non-Piano" e quella relativa ai loro effetti sulla città di oggi, credo sia utile a comprendere "dove va l'urbanistica" bolognese in questo difficile inizio secolo.

Bologna ieri e oggi

Bologna è una città che perde residenti ormai dal censimento del 1971: la popolazione a quel censimento era di 490.128 residenti, nel 1981 si riduce a 458.939, e oggi, secondo i dati provvisori del nuovo censimento i residenti sono meno di 370.000. Il numero di famiglie è passato da 171.233 del ’91 a 176.931 del censimento 2001 (2,33 individui/famiglia nel ’91 e 2,06 nel 2001).

Nell'intervallo intercensuario '71-'91 le abitazioni complessive aumentano da 173.222 unità a 190.154, ma quelle non abitate addirittura raddoppiano, passando da 10.637 del 1971 a 21.438 del 1991.

Nel frattempo, la sua vocazione terziaria e di città universitaria si consolida. Centomila studenti iscritti all'ateneo bolognese e un peso del tutto marginale degli addetti nell'industria, che rappresentano oggi meno del 16% degli addetti totali.

Ma la città si trasforma radicalmente anche sotto il profilo fisico: negli anni cinquanta la superficie urbanizzata del comune era di circa 1.400 ettari, negli anni ottanta aumenta fino a 3.800 ettari e oggi, nel duemila, la superficie urbanizzata di Bologna è di oltre 5.800 ettari: questo significa che in cinquant'anni il suolo urbano si è praticamente quadruplicato, e la sua incidenza sul suolo agricolo o "non urbano" (cioè la collina, le aste fluviali e i cunei periurbani) è passata dal 10% degli anni cinquanta a oltre il 40% di oggi. Ma questo significa anche che un cittadino bolognese solo vent'anni fa - negli anni '80 - aveva a disposizione circa 80 metri quadrati di suolo urbanizzato mentre oggi ne ha a disposizione oltre 150, cioè quasi il doppio.

Non c'è tempo di raccontare come queste quantità siano anche delle qualità, perché Bologna è cresciuta ma ha saputo farlo bene, almeno fino ad un certo periodo storico, almeno fino a quando è stato chiaro l'obiettivo pubblico delle trasformazioni. Qui m'interessa invece darvi la misura del problema, per dire che queste radicali trasformazioni hanno oggettivamente trasformato il ruolo della città, le sue relazioni interne ed esterne, hanno trasformato e dissolto i confini, al punto che oggi Bologna è un organismo assai più vasto e complesso di quel che i confini amministrativi racchiudono. Quei confini su cui negli anni ottanta si è costruita la Variante Generale al PRG.

1985-1989: due Piani, diversi obiettivi, una mutazione genetica

Il PRG che si forma nei primi anni ottanta viene discusso dal Consiglio Comunale nel 1984, ma l'iter viene sospeso per una "rottura" politica tra la componente Comunista e quella Socialista. Nella primavera dell'85 dalle elezioni amministrative si forma una nuova giunta, sostanzialmente monocolore, composta dal Partito Comunista, con l'appoggio esterno dei Socialdemocratici e dei Repubblicani. Nel luglio dell'anno successivo il Piano viene finalmente adottato, ma nell'autunno dello stesso anno la Giunta fu modificata, allargandosi alla compagine Socialista: negli anni che seguirono, dalle controdeduzioni all'approvazione, all'attuazione, il PRG appare drasticamente difforme, nei contenuti, nelle dimensioni e nelle strategie, dal Piano adottato nell'estate dell'86!

Esso, nella versione adottata, conteneva importanti innovazioni, ma soprattutto conteneva forti obiettivi d'interesse pubblico:

1. si proponeva la logica della trasformazione e della qualificazione degli insediamenti esistenti come scelta portante dell'intero progetto;

2. Bologna era considerata come un elemento non chiuso ma organico ad un sistema regionale, grazie anche alle esperienze del PUI e del PIC;

3. la nuova strumentazione tendeva a qualificare le periferie intermedie, tra il centro storico e le zone Peep degli anni '70;

4. si attribuiva alle Zone Integrate di Settore, cioè le grandi aree interstiziali tra la prima periferia e l'arco della tangenziale, il ruolo di spina dorsale dello sviluppo dei nuovi insediamenti residenziali e terziari, strutturando questo sviluppo attorno a un asse di trasporto pubblico di massa in sede propria. E' un queste zone che per la prima volta si potrà parlare di due temi che in futuro diverranno molto rinomati: la perequazione e la riqualificazione! (badate, entrambe all'interno di un solido processo di Piano);

5. si ribadiva la salvaguardia della collina, sulla base del piano approvato nell'82;

6. si ribadivano le scelte riguardanti la salvaguardia del centro storico, rafforzandole, individuando in esso il luogo principale per le funzioni di carattere pubblico, culturale e formativo;

7. si individuava la così detta "fascia boscata” al di sotto la tangenziale e al di sopra della ferrovia, come parte di un ecosistema urbano che faceva da cornice alla città, con le aste fluviali del Savena, del Reno e con la collina;

8. Infine, ma non ultimo, il dimensionamento del Piano, attestato su 6.500 nuovi alloggi circa, che oggi per altro risulta molto ragionevole, anche alla luce dell’aumento del numero di famiglie, pari a circa 5.700 unità, avvenuto nell’intervallo intercensuario ’91-2001.

Come ho già detto questo Piano non è quello che fu attuato a partire dal 1990. Nella fase immediatamente successiva all'adozione infatti gli equilibri politici, i rapporti di forza, si complicarono; vennero meno gli obiettivi di chi aveva pensato al piano quale strumento per il governo degli interessi pubblici. Il tutto con disastrose conseguenze:

1. si gonfiarono in modo sconsiderato gli indici edificatori, con la conseguenza di raddoppiare le previsioni urbanistiche originarie;

2. si introdussero - con serie incertezze giuridiche - meccanismi premiali sugli indici, fino al 20% in più, con l'unico scopo di velocizzare l'attuazione del Piano;

3. con un cambiamento, apparentemente innocuo, della definizione di Superficie Utile (da lorda a netta) si concessero implicitamente ulteriori possibilità edificatorie, in modo del tutto casuale, e si premiò la rendita fondiaria;

4. nelle zone investite da nuova edificazione, non si garantì il mix funzionale, perché si scardinò il principio della "percentuale minima di usi garantiti", lasciando invece al mercato la libera allocazione delle funzioni: e il mercato ha risposto con case, case, case, e un po' di terziario!

Successe insomma che l'incertezza politica di quella fase modificò incertamente anche la paternità del Piano: chi l'aveva proposto e pensato non era più chi lo stava portando avanti. Ma la stessa incertezza, in fase di controdeduzione alle osservazioni, modificò gli stessi obietti e criteri con cui si andava a rispondere alle osservazioni. Nel frattempo, sempre in quei tre anni, a complicare le cose, molte delle aree in Piano cambiarono di proprietà, innescando ulteriori aspettative di rendita, e complicando le relazioni tra il pubblico e i "nuovi" privati.

Privati che però, ben presto, cominciano ad avvertire che da quel Piano sorgono notevoli problemi: ad esempio le zone terziarie e per il produttivo avanzato sono così sovradimensionate da non incontrare la reale domanda; gli indici poi, nelle zone residenziali, sono così elevati che in alcuni comparti interstiziali, risulta oggettivamente impossibile reperire gli standard minimi di legge: con uno standard di 1 mq per ogni mq di superficie edificabile - com'è il caso Emiliano - quando l'indice di utilizzazione territoriale si avvicina a uno, è molto difficile rispettare la norma!

Gli anni del "non Piano"

Il Piano quindi fatica a decollare, per le sue stesse incertezze, e soprattutto perché esplode di fatto un conflitto tra chi gestisce le aree e chi deve gestire il Piano. Mentre nel dibattito nazionale cominciano ad apparire, per complicate questioni che qui non riassumo, i così detti "programmi complessi".

Sebbene la legge che prevede i "piani integrati" sia del 1992, le incerte vicende di questo strumento inducono la Regione Emilia-Romagna ad introdurlo solo nel 1995, con la legge numero 6 (articoli 20 e 21).

Nel luglio 1996, il Consiglio Comunale di Bologna approva un ordine del giorno intitolato “per l’attivazione di interventi in materia urbanistica” [1], con il quale la Giunta viene impegnata a definire nuove modalità di intervento, sulla base di alcuni criteri di "sostenibilità" degli interventi e in coerenza con la legge 179/92.

Nell’aprile del 1997, un anno dopo, il Consiglio delibera quindi le procedure per la promozione e l’approvazione degli interventi di recupero e riqualificazione urbana [2].

Si procede mediante un bando pubblico per la presentazione di proposte di intervento da parte di soggetti pubblici e privati, che l’Amministrazione si riserva di valutare nel merito per definirne l’ammissibilità ed arrivare alla formazione di una variante specifica al PRG che ne consenta l’attuazione. La stessa procedura si applica relativamente alla valutazione di ipotesi di dismissioni industriali, che vengono valutate in un tavolo specifico, con la partecipazione delle organizzazioni sindacali e della Conferenza metropolitana.

La procedura di valutazione si conclude nel dicembre del 1997, definendo l’ammissibilità di 23 dei 51 interventi proposti. Delle 23 proposte ammesse alla concertazione, 7 riguardano aree non edificate. 11 comparti hanno destinazione quasi esclusivamente residenziale e altri 6 hanno più della metà della superficie con medesima destinazione.

Oggi, in un momento in cui si possono apprezzare nella loro consistenza materiale i primi risultati dell’attuazione dei programmi integrati, è possibile cominciare qualche seria valutazione.

Innegabilmente, si sono ottenute alcune contropartite a favore della collettività:

- in vari casi la cessione di aree pari al doppio degli standard minimi di legge o anche di più;

- in qualche caso qualche onere di opera pubblica a carico degli attuatori;

- in qualche caso qualche alloggio convenzionato in affitto.

Disastrosi i casi invece di ridislocazione industriale nei quali le contropartite dovevano essere rappresentate da presunte garanzie occupazionali, sulla tenuta e l’efficacia delle quali l’insuccesso è completo.

L’impressione, in complesso, al di là di qualche rara eccezione, è che dalla concertazione si sia ottenuto talmente poco, che per alcune delle operazioni non si capisce in cosa consistesse l’interesse della collettività, e bisogna dire che non è stato serio accettarle. [3] Badate, sebbene presi singolarmente questi siano quasi tutti piccoli interventi, se si mettono assieme i soli programmi integrati fin qui negoziati (circa la metà del totale) e gli si aggiunge qualche piccolo accordo di programma nel frattempo sopraggiunto, la superficie della città investita da questa modalità casuale e derogativa, è di quasi 40 ettari, a cui corrispondo quasi 1.500 nuovi alloggi: questo è accaduto a partire dagli ultimi 3-4 anni; e la cifra, ripeto, è assolutamente in difetto!

Ma i risultati dei programmi integrati sono prevalentemente preoccupanti ed insoddisfacenti anche per altri osservatori [4], mi riferisco in particolare ai giudizi espressi dal direttivo regionale dell'Inu Emilia-Romagna (che com'è noto non è composto da un nucleo di estremisti); risultati insoddisfacenti per diversi aspetti (cito testualmente il documento dell'Inu diffuso qualche mese fa):

- quello della qualità ambientale, della vivibilità e salubrità della città; quasi tutti gli interventi si traducono in un aumento di residenze, e quindi di persone, in collocazioni esposte a cattiva qualità dell’aria e ad alti livelli di rumore.

- quello delle conseguenze per la città in termini di incrementi di carico urbanistico su reti infrastrutturali, tecnologiche e per la mobilità che sono rimaste quelle di prima, vecchie e insufficienti; non c’è stato un intervento di trasformazione che si sia fatto carico della realizzazione di nuove infrastrutture per la mobilità;

- infine anche i risultati formali lasciano in molti casi quanto meno perplessi: indici di edificazione ingiustificabilmente alti hanno prodotto e stanno producendo il sorgere di complessi massicci, densi, sproporzionati rispetto ai caratteri del contesto urbano in cui si collocano.

Qualche anno fa, come sapete, per la prima volta dal dopoguerra, alle elezioni amministrative la coalizione di centro destra vince, grazie al non voto meditato di molti elettori di sinistra (infatti, nello stesso giorno, 15.000 elettori scelgono di votare solo la scheda per le elezioni provinciali astenendosi dal votare per il comune), e a un risicato margine di vantaggio nei ballottaggi. E vince, probabilmente, anche perché i cittadini hanno ritenuto insostenibili i livelli di vivibilità urbana prodotti da tutte le incertezze delle precedenti amministrazioni.

S'insedia una nuova giunta, ma sul profilo urbanistico la "musica" non cambia. Anzi, peggiora. A fronte dei problemi del PRG - che ho ricordato poco fa - e a fronte dei pessimi esiti dei programmi integrati, la nuova giunta risponde con un ”avviso pubblico per la promozione di proposte di intervento per la formazione ed attuazione di programmi di riqualificazione urbana”; cioè nuova edificazione al di fuori di un disegno di Piano, sulla base di criteri di selezione ancora più deboli di quelli della giunta precedente.

Richiamando ancora le preoccupazioni recentemente espresse dall’INU regionale, quest'ultimo avviso pubblico ha aspetti fortemente critici perchè:

- non contiene nessuna vera preindividuazione delle aree da interessare con la riqualificazione urbana: anche se c’è un riferimento ad una precedente individuazione di cosiddetti “ambiti strategici” (che peraltro nell’insieme coprono buona parte della città e quindi non sono selettivi), tuttavia le proposte possono essere avanzate ovunque; la collocazione entro gli “ambiti strategici” è considerata solo uno dei criteri di “priorità”;

- non contiene alcun criterio di esclusione, a parte le ovvie esclusioni di legge e le zone CVT (Zone per verde urbano e territoriale);

- contiene un elenco di “criteri di priorità”, che di per sè non produce alcun effetto selettivo, non venendo definito un tetto o un limite all’accettazione: le proposte infatti potrebbero essere accolte anche tutte, fino a quella che nella scala delle “priorità” risultasse ultima;

- non contiene alcun limite massimo di valorizzazione del suolo, in termini di massima densità edilizia, lasciando così aperta la possibilità di ulteriori operazioni di addensamento indiscriminato rispetto alle caratteristiche del contesto e alla capacità di carico delle infrastrutture urbane;

- non contiene nessuna effettiva individuazione di obiettivi, a parte quelli desumibili dai generici “criteri di priorità”.

- viene inoltre abbandonata anche la richiesta di un raddoppio delle aree da cedere come standard (che era presente nel bando precedente del 1997), preferendo viceversa la monetizzazione del 50% del plusvalore economico generato.

Insomma la strada dell'incertezza prosegue.

La nuova legge urbanistica Emiliana prevede una nuova strumentazione per il governo del territorio, e il Comune, sulla base anche di questo rinnovamento normativo, si è impegnato a redigere un nuovo Piano Strutturale, ma ha chiarito da subito che lo intendeva più strategico che strutturale: come dire, non aspettatevi scelte di struttura, ma politiche flessibili. Di questo Piano, tuttavia, non se ne sa più nulla, ma si presagisce il peggio: cioè che sia tutto fermo!

Ma quel che è peggio, è che in città si sta diffondendo "la voce" che il Piano è "morto", cioè non esiste più (quello vigente), non serve più, e che la strada per lo sviluppo sia la contrattazione diretta tra chi possiede un area e chi vuole trasformarla. E l'assessore all'urbanistica, nel gennaio dell'anno scorso, in un documento di indirizzo dichiarava (cito testualmente):

[della pianificazione urbanistica] tre caratteri negativi saltano all’occhio: l’autoritarismo, la rigidità, l’inefficacia. (..) All'autoritarismo va sostituito il contratto; alla rigidità ed alla gerarchia va sostituita la pluralità e la parzialità dei progetti;

A questo atteggiamento rispondo che l'autoritarismo è per chi non ama la democrazia; la gerarchia e l'inefficacia sono proprie di chi non sa governare: il Piano non è il governo, il Piano è uno strumento per il governo, e chi non perde l'occasione per indicarlo come "rigido e inutile", nasconde che ha politicamente bisogno di derogarlo, cioè nasconde la completa assenza di obiettivi pubblici nell'azione di governo.

Spero, con questo intervento, di aver contribuito a chiarire "dove va l'urbanistica a Bologna". Dico solo, per chiudere, che per combattere questa recessione culturale a Bologna è nata una esperienza, di cui faccio orgogliosamente parte

La Compagnia dei Celestini è un gruppo di persone, cittadini bolognesi e non solo, che si è incontrato circa un anno e mezzo fa, rispondendo all’appello di una decina di urbanisti preoccupati per l’assenza di dibattito sulle politiche urbanistiche che stavano e stanno trasformando la nostra città. Denunciamo l'assenza di obiettivi politici per una città pubblica che è in via di progressiva scomparsa, una città nella quale gli spazi fisici per la qualità della vita dei cittadini e le occasioni per la partecipazione alle scelte sulla trasformazione urbana sono costantemente negate.

www.celestini.it

grazie

[1] Comune di Bologna, consiglio comunale, O.d.G. n. 221 del 22.07.1996

[2] Comune di Bologna, consiglio comunale, O.d.G. n. 70 del 11.04.1997.

[3] Rudi Fallaci, Le “ragioni di scambio” nell’attuazione del PRG di Bologna, in Dal piano regolatore al piano regalatore, a cura della Compagnia dei Celestini, 2002, Bologna.

[4] i commenti che seguono sono tratti dalla relazione introduttiva presentata dal Consiglio Direttivo Regionale dell’Istituto di Urbanistica al convegno “Urbanistica a Bologna: situazioni e prospettive”, organizzato a Bologna dall’INU Emilia-Romagna il 10 maggio 2002.

Il sottoscritto consigliere regionale,



premesso che:



Il Consiglio Comunale di Bologna il 9 giugno ha deliberato un Programma di Riqualificazione Urbana ai sensi della L.R. 19/98 che contiene la proposta di trasformazione urbanistica di 26 aree collocate all’interno dei 12 Ambiti di Riqualificazione delimitati con o.d.g.319/99, che coprono genericamente l’intero territorio urbano di Bologna, senza alcuna significativa selezione dei vari livelli di degrado delle diverse parti della città;

la presentazione, ripresa anche da 24ORE nell’inserto specializzato, da parte dell’assessore all’Urbanistica degli esiti della concertazione per il suddetto PRU, ripropone il problema del corretto utilizzo degli strumenti urbanistici previsti dalle leggi regionali;

la procedura di variante urbanistica al PRG vigente, attivata dal Comune di Bologna, relativa a questi PRU, vede l’applicazione dell’articolo 40 della legge regionale 20/2000 (Accordo di Programma), che implica il “rilevante interesse regionale, provinciale o comunale” per procedere alla variazione dello strumento urbanistico vigente;

la Regione non può restare silente rispetto a scelte che, di fatto, stravolgono il senso proprio degli strumenti previsti dalla legislazione regionale e a cui pur si richiamano gli atti del Comune di Bologna;

premesso inoltre che:



il Piano Regolatore di Bologna è “scaduto”, come ebbe a dichiarare lo stesso Assessore in risposta alla lettera dei cittadini di S. Donino con cui si chiedeva l’attuazione della fascia boscata prevista dal piano stesso lungo la tangenziale;

la conferenza di Pianificazione, di cui all’articolo 14 della legge regionale 20/2000, per la redazione del nuovo Piano Strutturale del Comune di Bologna, è sarà attivata dalla riunione del Consiglio Comunale prevista per il 14 luglio;

evidenziato che:



il Comune di Bologna non ha redatto alcun atto urbanistico in cui siano individuati puntualmente e univocamente gli elementi di degrado sociale, ambientale e architettonico così come indicato all’art. 2 della LR. 19 ma solo generici elementi di qualità e di degrado non individuati territorialmente;

la dimensione complessiva del PRU non risponde a quanto stabilito dal comma 3 dell’art. 4 della LR. 19, che recita “il PRU è di dimensioni e consistenza tali da incidere sulla riorganizzazione della città”, in quanto tratta numerose ma piccole aree in zone diverse della città e che non contribuiscono ai fini del recupero di qualità mancanti e alla riorganizzazione urbana come stabilito dalla legge stessa;

solo 1 dei 26 progetti di “riqualificazione” presentati dal Comune di Bologna, rientra negli ambiti strategici ritenuti prioritari dalla stessa amministrazione comunale, in sede di delimitazione degli ambiti di riqualificazione, evidenziando quanto meno la inadeguatezza di questo strumento previsto per la definizione delle politiche di riqualificazione urbana.

il concetto di “riqualificazione” si presta a rilevanti dubbi interpretativi e che comunque, proprio per lo spirito della L.R.n.19, è competenza pubblica individuare le aree da riqualificare mentre in questo caso, come in altri precedenti, proprio per l’ambiguità delle procedure tali aree sono state individuate dai privati, proprietari delle aree stesse, e non dall’amministrazione pubblica secondo criteri e priorità pre-definite;

evidenziato inoltre che:



il Comune di Bologna, come già con l’area di via Baroni, insiste nel comprendere nei “Piani di Riqualificazione Urbane” aree non edificate usando a tal fine uno strumento improprio per giustificare processi di edificazione invece di utilizzare, come sarebbe suo diritto e dovere, gli strumenti per la variazione dei piani o meglio, in questo caso, della elaborazione del nuovi Piani Strutturali Comunali, così come previsto dalle leggi regionali;

oltre il 50% delle aree comprese nei “Piani di Riqualificazione” sono aree senza costruzioni con destinazioni urbanistiche a verde o a servizi pubblici non realizzati e che non si tratta quindi di aree edificate, dimesse e da riqualificare bensì di aree e prati incolti in cui l’edificazione non può certo passare per “riqualificazione”, anche secondo la LR n.19;

su i 900 alloggi previsti complessivamente l’affitto convenzionato riguarda solo 36 alloggi, e per non più di dieci anni, pari al 4% del totale, quantità irrilevante per favorire la politica della casa oltre che non coerente con quanto disposto dalla lett. E) del comma 3 dell’art. 4 della l.r. 19;

la quantità di verde pubblico che verrà realizzato dagli interventi (139.492 mq) è sì pari al doppio del minimo previsto dalla legge regionale, ma significativamente inferiore alla quota oggi prevista dal PRG per le stesse aree (170.000 mq) e quindi peggiora la dotazione complessiva di risorse tanto necessarie per la città e pone, anche seri interrogativi sulle finalità stesse della L.R.n.19;

la valutazione dell’impatto sulla mobilità urbana degli interventi previsti e cioè 900 nuovi alloggi, negozi e attività artigianali, oltre all’alberghiero, andrà ad aumentare le condizioni di traffico in zone già oggi congestionate;

il bilancio ambientale, cioè il primo degli obiettivi dell’art. 4 della legge non può essere considerato positivo per l’aggravio delle condizioni di salubrità e sicurezza visto che il 65% delle nuove famiglie che andranno ad abitare quei luoghi saranno esposti a livelli di inquinamento acustico ed atmosferico che già oggi superano i limiti di legge;

sottolineato inoltre che:



la logica dell’urbanistica “concertata” fuori dalle scelte del Piano Regolatore Generale si riduce al caso per caso con una forte alterazione dei principi stessi del mercato edilizio e degli equilibri tra residenze e dotazione di verde e servizi per la collettività, elementi essenziali, oltre alla tutela ambientale, per la qualità urbana;

quanto sta avvenendo a Bologna non è un fatto isolato bensì una manifesta difficoltà nel governo del territorio per una crescente tensione tra gli interessi forti (proprietari di aree e costruttori) e gli interessi diffusi dei cittadini e più in generale per la tutela ambientale e naturale;

se così fosse lo stesso concetto di “concertazione” in urbanistica si presterebbe a critiche molto forti per la parzialità delle procedure e la costante esclusione dei cittadini dal procedimento di definizione delle scelte urbanistiche, oltre che dalle scelte per l’utilizzo delle risorse ricavate dalla perdita di aree preziose per la città, negando così il principio fondamentale della partecipazione del confronto tra i diversi interessi urbani nelle procedure di pianificazione urbanistica;

interroga la Giunta per conoscere



le sue valutazione su PRU che non sembra possano raggiungere alcuno degli obiettivi stabiliti dalla legge 19, aggravando anzi situazioni urbane già problematiche e che “riqualificano” aree incolte e destinate a servizi con la costruzione di palazzi fuori dalle previsioni del PRG;

le sue valutazioni sul dimensionamento delle previsioni urbanistiche di Bologna e se corrisponde al vero che le riduzioni volumetriche concordate in passato nei D.U.C. sulla base della valutazioni di impatto ambientale (VALSIA) siano comunque usate per definire il tetto complessivo che permette la edificazione di aree oggi di standard urbanistico o identificabili;

se non ritenga opportuno, visti i dubbi di legittimità di tal modo di procedere, esplicitare con chiarezza il campo di applicabilità dell’articolo 40 della legge regionale 20/2000 (Accordo di Programma in variante alla pianificazione urbanistica e territoriale), per contenere la palese e contraddittoria discrezionalità con cui oggi alcuni enti locali, come il Comune di Bologna, applicano questo dispositivo;

e per conoscere inoltre



se non ritenga opportuno invitare gli enti territoriali coinvolti negli accordi di programma in variante alla pianificazione urbanistica, a sospendere tali procedure, per agevolare lo svolgimento della Conferenza di Pianificazione del nascituro PSC di Bologna il cui avvio è previsto per la metà di luglio;

se non ritenga opportuno, in subordine, sollecitare il Comune di Bologna prima di concedere ulteriori autorizzazione a costruire in aree non previste dal PRG ad adottare il Piano Strutturale previsto dalla legge Urbanistica Regionale n.20;

se non ritenga opportuno, come già è avvento per l’area di via Baroni, fare presente al Comune di Bologna che le aree non edificate vanno stralciate da questo provvedimento urbanistico e rinviate a strumenti più consoni alle leggi regionali conseguenti l’adozione del Piano Strutturale Comunale.

Dovendo esprime le opinioni di un gruppo di cittadini che si occupa di rilanciare il ruolo dell’urbanistica nel progetto del futuro della città, e dovendo comprimere queste posizioni in pochi minuti, darò per scontato che tutti conoscano la nostra esperienza – quella della Compagnia dei Celestini – e che tutti conoscano le analisi e le valutazioni che in questi due anni di attività abbiamo svolto e presentato all’opinione pubblica.

Concentrerò invece questo breve intervento esprimendo delle domande, cioè argomenterò delle esigenze – esito delle nostre analisi e delle nostre valutazioni sull’andamento dell’urbanistica e della città in questo ultimo decennio; esigenze che riteniamo prioritarie in questo momento di costruzione di una nuova prospettiva politica e programmatica per Bologna; temi sui quali siamo molto determinati: è opportuno infatti che in un percorso di costruzione programmatica comune con altri - movimenti e partiti – le posizioni di ciascuno siano esplicite e chiare, in modo da raggiungere compromessi e mediazioni – necessarie e possibili – quanto più sincere e trasparenti.

Sono temi, questi che adesso argomenterò, che riteniamo centrali per il programma di una coalizione politica che aspiri al progresso della collettività e non ambisca solamente a sconfiggere l’avversario, cioè non si svegli il giorno dopo l’eventuale vittoria priva delle capacità necessarie a dar gambe attuative alla propaganda politica pre-elettorale.

  1. Bologna ha bisogno di un nuovo Piano Urbanistico. Con ciò affermiamo che la nostra città necessita di una nuova «cassetta degli attrezzi», capace di ammodernare i processi di trasformazione, piccoli e grandi, contingenti e strategici, di cui da diverso tempo si avverte l’esigenza, sia da parte dei cittadini che chiedono disperatamente maggiore vivibilità, sia da parte delle imprese. Il Processo di pianificazione, così come proposto dalla nostra nuova legge urbanistica regionale, è il mezzo che meglio di altri può soddisfare l’esigenza di porre condizioni preventive, condivise, pubbliche e trasparenti per le scelte di trasformazione che matureranno nel tempo.

Spesso si afferma la contrapposizione tra la rigidità e l’inefficacia della pianificazione rispetto alla comodità e alla concretezza della concertazione. Nessuno, di questi tempi, nega la necessità di relazioni e compromessi con tutte le forze – pubbliche e private – che agiscono simultaneamente sul territorio, ma riconoscendo questa necessità siamo altrettanto convinti che senza conoscere le regole di un gioco non si gioca nessuna partita! Affermiamo dunque dei valori che questo strumento urbanistico – cioè il Piano -garantisce.

  1. Bologna ha bisogno di chiudere con la stagione dell'urbanistica «caso per caso» e in deroga al Piano. Credo siano sufficientemente note le nostre posizioni sui programmi integrati e su quelli di così detta riqualificazione urbana, nella declinazione che qui a Bologna si è data. Più volte abbiamo sottolineato gli esiti disastrosi sul profilo dei vantaggi pubblici di queste attività edilizie a fronte dei costi elevati in termini di crescita sconsiderata della rendita speculativa, di aumento della popolazione esposta all'inquinamento, di degrado funzionale e formale di interi comparti urbani gravati da operazioni ad alta intensità edificatoria non coerentemente programmata.Le emergenze o le esigenze che eventualmente si manifesteranno nel tempo, di rifunzionalizzazione di tessuti dismessi o degradati, hanno oggi la possibilità e l'obbligo - a nostro parere - di trovare risposta nel processo di pianificazione ordinario. Quindi si ponga fine, da subito, alle attività speculative dei programmi di riqualificazione in deroga al Piano e ci si opponga, con altrettanta fermezza, anche a quegli interventi selezionati dall'attuale giunta comunale tramite il così detto OdG136, perché non garantiscono contropartite pubbliche sufficienti ad invocare l'applicazione di un accordo di programma, così come l’attuale legge regionale lo definisce.
  2. Bologna non ha bisogno di costruire di più, ha bisogno che le case che già esistono e le aree che sono già pianificate, abbiano costi più contenuti. Le capacità pregresse del Piano Regolatore sono di tale entità da soddisfare abbondantemente anche le previsioni più ottimistiche di crescita della popolazione nei prossimi 10-15 anni. Si tratta di capire se queste capacità pregresse siano congruenti con il disegno della città che desideriamo, o se non sia necessario, eventualmente, rivedere queste capacità o per lo meno riprogrammarle e ridislocarle in luoghi organici alle strategie del nuovo Piano Strutturale, in modo da offrire le condizioni reali, di appetibilità, di qualità ambientale e sociale, per ripopolare Bologna di cittadini, anche dei ceti bassi e medi, e di funzioni di alta qualità.
  3. Bologna ha bisogno di difendere le sue conquiste. Constatiamo la progressiva aggressione che si è operata e che tutt'oggi continua, al sistema di qualità che la città ha costruito con fatica negli anni passati. Mi riferisco agli strumenti che hanno consentito la tutela della collina, che hanno consentito un'elevata dotazione di standard, che hanno consentito un mix funzionale e una necessaria eterogeneità sociale, nelle periferie e nel centro storico: oggi siamo nella paradossale situazione di dover compiere le stesse battaglie che la sinistra ha combattuto 30 anni fa; ma oggi si tratta di dover resistere alle spinte, anche a sinistra, di chi vuole recedere. E' necessario dunque fermare il recesso in atto per riaffermare la necessità di questo sistema di qualità, che rappresenta l'anima di questa città.
  4. Bologna ha bisogno di obbiettivi più «alti e più larghi». La nostra città può e deve guardare l'Europa ma senza dimenticare che oggi la città vera non è più quella racchiusa dai sui confini amministrativi. Le relazioni, le infrastrutture e le strutture urbane sono di scala provinciale e regionale, e perciò si fa sempre più urgente la necessità di un governo unitario e sussidiario del territorio sovracomunale. Non si indugi più dunque sulla sperimentazione di un governo d'area vasta; si cerchi di superare la competizione municipalista e si trovi la strada per una nuova solidarietà; non si costruiscano più frazionamenti di governo: il territorio bolognese non ha bisogno di più livelli di governo, ha bisogno di più capacità di governo.
  5. Per finire, Bologna ha bisogno di discontinuità politica. So che può sembrare antipatico e fuori luogo dirlo qui, ma se i patti non sono chiari l'amicizia non può essere lunga. Crediamo nella necessità di un segnale - si badi, non una rivoluzione, ma un segnale - di forte discontinuità con quei metodi, quei programmi e quegli obiettivi che nella sinistra sono stati gli acceleratori della sconfitta politica e della caduta della passione civile. Riformare metodi e programmi non vuol naturalmente dire rivoluzionare l'apparato delle donne e degli uomini protagonisti di queste ultime stagioni politiche, vuol dire più modestamente costruire garanzie perché chi governa non gestisca un delega al buio, ma ponga al centro della sua attività di pianificazione il tema della partecipazione dei cittadini, non solo durante la campagna elettorale e durante la costruzione strutturale degli obiettivi, ma anche nell'operatività del mandato. Si torni insomma ad educare alla partecipazione.

Il 15 dicembre 1975 apparve un mio articolo su “l’Unità” in seguito (un po’ una risposta) a un articolo di Nino (Luigi) Araldi (il caro amico, urbanista fra i più preparati, persona di rara gentilezza ed eleganza, scomparso nel ’91 a soli 69 anni). Partendo dal caso di Bologna egli sosteneva che “i punti di partenza per l’urbanistica” dovevano essere quelli conquistati in quella città “malgrado le condizioni negative di contorno e all’interno del modello di sviluppo capitalistico”.

Estraggo brevi pezzi del mio intervento che, considerandone la data, forse non è del tutto privo di interesse per l’oggi, per la discussione che si è aperta: (lm)

La recente proroga dei vincoli sulle aree (la terza dopo quelle del ’68 e del’73) e il varo del disegno di legge governativo in materia urbanistica impongono a quanti si occupano di problemi del territorio un’attenta riflessione. La questione si può impostare nei termini seguenti: come, a fronte dei cambiamenti, delle rotture che l’interesse dei lavoratori richiede di apportare alla struttura economico-sociale per costruire una società diversa, si possa rompere la vecchia logica urbanistica, componente essenziale del modello affermatosi in Italia. Componente sovrastrutturale, si direbbe in senso stretto, ma nei fatti di portata strutturale se è vero che:

- il territorio, sotto il comando capitalistico, entra nel ciclo della produzione;

- l’integrazione tra profitto e rendita è uno degli aspetti principali che contraddistinguono le politiche aziendali e le strategie economiche;

- gli obblighi territoriali cui soggiacciono le popolazioni e soprattutto le classi subalterne risalgono anche all’affermazione di determinati rapporti di produzione e sociali.

Quindi “i punti di partenza per l’urbanistica” dovrebbero ritrovarsi […] al di fuori delle linee tradizionali dello “sviluppo” che le classi dominanti e i governi hanno imposto agli italiani; vale a dire più avanti rispetto a quei punti fermi conquistati “ malgrado le condizioni negative di contorno e all’interno del modello di sviluppo capitalistico” (come a Bologna).

Oggi, dopo un’espressione di voto come manifestata nelle elezioni del 15 giugno [elezioni amministrative, preludio al grande successo del Pci nelle politiche del 1976, quelle del mancato “sorpasso” per un decimo di punto] che, a me pare, contiene un’autentica domanda di trasformazione radicale della società, dovremmo verificare se quegli spunti locali del tipo bolognese ritenuti molto progressisti lo siano davvero, domandandoci se:

- questo giudizio localistico regga solo perché rapportabile a un assetto generale del territorio nazionale talmente deteriore da non trovarne l’eguale nei paesi capitalistici europei;

- quegli spunti non subissero il limite, oltreché le “condizioni negative di contorno”, e le difficoltà della stessa cultura di sinistra a essere maggiormente creativa e propositiva in maniera originale entro gli spazi che il capitalismo italiano inevitabilmente concedeva: giacché inadeguato a organizzare il territorio “modernamente” e troppo brutale nella sua manipolazione sì da provocare forti contraddizioni;

- tali limiti e difficoltà non riguardassero anche gli spazi conquistati non per merito degli intellettuali ma attraverso le lotte dei lavoratori e per merito della creatività culturale manifestata dalle medesime.

Airaldi rivendica la validità dell’esperienza bolognese e respinge quindi le critiche di un recente studio sulla pianificazione in Emilia-Romagna, se è vero che “nessuno ha mai ritenuto che la politica urbanistica del comune di Bologna potesse dar luogo a effetti propriamente traumatici sul comportamento del capitalismo in materia di uso del suolo”, appunto a causa delle “condizioni di contorno”. Tuttavia, se si condividono le considerazioni precedenti circa gli spazi lasciati dalle classi dominanti o conquistati dal movimento operaio, dovremmo procedere oltre la linea tracciata da Airaldi. […].

Il “buon governo” e il “buon piano”, come scrive Airaldi, se hanno prodotto effetti diversi nel campo della dotazione di servizi in confronto ad aree malgovernate dal centro-sinistra o dal centro-destra, non sono stati sufficienti per realizzazioni urbanistiche complessive qualitativamente discriminanti, dovremmo poter dire alternative del modo di abitare, del rapporto casa lavoro, dell’uso del tempo libero. Anche quando nuove occasioni erano offerte dalla condizione politico-amministrativa raramente la cultura urbanistica e architettonica è stata capace di coglierle e di introdursi anche negli interstizi della dialettica sociale per indicare i fondamenti per quelle realizzazioni. […].

La cultura urbanistica di sinistra e la sua influenza sulle amministrazioni locali (ma forse è vero il contrario) ha privilegiato rivendicazioni di tipo quantitativo: lo standard urbanistico (in particolare relativo ai servizi) come panacea ai mali della città. Premetto che ancora una volta, come nel passato, gli urbanisti si sono rivolti quasi esclusivamente al fenomeno urbano non cogliendo la necessità di affermare anche un’urbanistica della campagna collegata con la “vertenza della terra” e capace di contribuire al mutamento del rapporto squilibrato città/campagna (metafora, e realtà, del rapporto sviluppo/sottosviluppo): ma, restando in tema, penso che la ‘linea dello standard’ non sia discriminante rispetto alle motivazioni capitalistiche di costruzione della città.

È vero che in Italia, in particolare nelle grandi città e aree metropolitane, mancano il verde, le scuole, i servizi sociali socio-assistenziali, e così via. La richiesta delle opportune quantità di servizi in proporzione alla popolazione ha un senso persino troppo ovvio. Ma dobbiamo solo esigere dalla classe dominante di essere un po’ più “svedese” e di assumere un tale comportamento dove la sinistra governa localmente come a Bologna? O non dobbiamo piuttosto inserire la rivendicazione in un contesto analitico convincente che ci descriverebbe una realtà in cui i ruoli sociali e la loro distribuzione sul territorio devono ricondursi ai termini dello scontro sociale e politico nel paese? E poi, cosa significa, poniamo nel comune di Milano, scegliere, quale priorità assoluta, la battaglia per standard elevati di attrezzature comunitarie senza collegarla alla questione socio-economica fondamentale: che la città appartiene sempre di meno alla classe operaia e ai ceti popolari, visto che ne sono stati cacciati? Al censimento del 1971 le famiglie con capofamilglia “lavoratore dipendente” (operaio, interpretando la casistica Istat) erano ridotte al 26 % del totale (quasi un dimezzamento rispetto a vent’anni prima), mentre negli altri comuni della provincia costituivano il 46 % [oggi a Milano, di operai residenti esiste solo qualche residuo come pensionato in attesa di essere spedito nel suburbio o di crepare].

Penso che si possa rompere la vecchia logica urbanistica soltanto se, in primo luogo, i punti fermi del tipo acquisito a Bologna nel campo della gestione democratica siano riconsiderati e rilanciati verso nuove attuazioni: esempi concreti non solo di come si possa organizzare un po’ meglio il territorio capitalistico e per i margini che il sistema concede, ma di come il territorio possa essere utilizzato secondo il mutamento dei rapporti di forza politici e sociali che si sta determinando. Nel periodo di dominanza massiccia della Democrazia cristiana era inevitabile che gli assetti territoriali si conformassero a beneficio della borghesia e dei ceti medi / medio-alti, e a danno degli operai e dei lavoratori delle campagne nonostante i coltivatori diretti siano in larga maggioranza vicino a quel partito. (Questo, in sostanza, definisce la vera natura degli squilibri territoriali: il rapporto città campagna tutto spostato a favore della città, il divario nord sud, ecc.ecc.). Oggi, dopo le elezioni del 15 giugno e per la capacità del movimento operaio di porre in termini non astratti ma operativi la questione del mutamento del modello, è legittimo pretendere dall’urbanistica un contributo innovatore affinché le classi subalterne si approprino esse, per così dire, del territorio.

Intanto, occorrono indirizzi di analisi che privilegino, più che le tradizionali misurazioni delle carenze, in ogni caso da effettuarsi ma per nulla rivelatrici delle cause profonde di un dato assetto territoriale, la necessità di scoprire i nessi fra la conformazione e l’uso del territorio, della città, delle abitazioni e i rapporti di produzione e sociali, così che si possano trovare soluzioni materiali che interagiscono con la modificazione di quei rapporti.

Gli urbanisti e gli scienziati del territorio possono svolgere un compito progressista nel confronto con gli amministratori locali fornendo strumenti adeguati alla conoscenza e interpretazione delle diverse realtà territoriali quali inequivocabili realtà di classe, localizzate e con una propria dimensione entro la condizione territoriale classista del paese [attenzione all’oggi: non è affatto vero che le classi non esistono più, come i nuovi potenti vogliono far credere ai beoti]. Le “proposte politiche attendibili e operative”, come scrive Airaldi, che spetterà alle nuove amministrazioni formulare, dovranno derivare, a mio parere, da questo taglio di comprensione dei fenomeni anziché “da una conoscenza della realtà di tipo empirico-intuitivo” non sufficiente a fornire un supporto adeguato agli stessi orientamenti politici, anche se questi “si formano democraticamente nella consultazione popolare e nella partecipazione”. Allora le proposte si collocheranno effettivamente più avanti lungo la linea di sperimentazione di un nuovo assetto territoriale e non si limiteranno a surrogare l’incapacità o la reticenza delle classi sociali dominanti e del governo a razionalizzare il territorio secondo criteri malamente ricopiati da paesi capitalistici più progrediti del nostro.

Oltre alla Premessa, che pubblico di seguito, il fascicolo contiene due scritti introduttivi (La rilevanza del tema mobilità, di Catia Chiusaroli, e L’idea di mobilità della Compagnia dei Celestini, che precedono le accurate Schede descrittive e valutative dei cinque progetti di mobilità all’ordine del giorno: Passante autostradale nord, Servizio Ferroviario Metropolitano, Metropolitana leggera automatica, Tram su gomma, Tram-metrò. Seguono alcune note di Catia Chiusaroli (Il nuovo assetto della stazione ferroviaria di Bologna centrale), Giancarlo Mattioli (Cronache della mobilità a Bologna: idee piani e progetti dal 1984 al 2000), Mauro Moruzzi (Un treno di proposte. Tentativi per una diversa politica della mobilità), Rudi Fallaci (Biciclette a idrogeno per la città), Hans Glauber (Il fascino della mobilità sostenibile). Pubblico in altre cartelle, dato il loro interesse più generale, gli stimolanti testi di Moruzzi e Fallaci.

Il Seminario annuale di Montesole, organizzato dalla Compagnia dei Celestini, sta diventando un appuntamento tradizionale per ritrovarsi a discutere di città ed in particolare del futuro della nostra città. Nel 2001 ragionammo di riqualificazione urbana fornendo significativi contributi alla discussione pubblica sul futuro di Bologna in termini di trasformazioni urbanistiche. L’appuntamento del 2002 è stato invece dedicato ai temi della mobilità urbana e territoriale e, più nello specifico, ai grandi progetti per cambiare, nel tentativo di migliorarla, l’accessibilità e la vivibilità della nostra città metropolitana. La scelta è nata dall'evidente e non più sopportabile condizione di congestione viaria in cui si trova Bologna, e dai pesanti problemi ambientali e di qualità della vita causati dal sistema di trasporto oggi esistente, fondato, in modo sicuramente eccessivo, sul mezzo privato. Abbiamo deciso di studiare e di parlare di mobilità perché è un tema strettamente legato ai diritti di cittadinanza dichiarati nel nostro "manifesto": il diritto alla libertà di cultura, all'istruzione, al lavoro, alla salute non possono essere garantiti se non è anche garantito il diritto di mobilità per tutti, e cioé il diritto all'accesso fisico ai luoghi di cultura, di istruzione, del lavoro ecc. Ma il diritto alla mobilità deve a sua volta garantire il diritto alla salubrità delle città, alla sicurezza stradale, ad un aria pulita, a meno rumore, all'ambiente urbano vivibile con luoghi di incontro e con spazi pubblici di qualità.

I Celestini hanno studiato i 5 progetti di mobilità su cui da alcuni anni le amministrazioni locali stanno discutendo. Li abbiamo illustrati sinteticamente nelle schede che troverete nelle pagine seguenti, evidenziandone gli aspetti positivi e quelli negativi, i costi e i vantaggi sociali ed ambientali, dichiarando, senza incertezze, che la nostra idea di mobilità è rivolta verso quei sistemi di trasporto che perseguono, e quindi non contraddicono, i diritti sopra richiamati. Ma è anche nostra convinzione che non esistano soluzioni magiche, taumaturgiche e prive di costi. La "positività" di un progetto non è stabilita dalla sua perfezione assoluta, dall'assenza di qualsiasi svantaggio sociale od ambientale. La ricerca del progetto "perfetto" porta a sicuri fallimenti per l'intera collettività, ovvero all'incapacità di decidere su alcuna delle soluzioni possibili. La "positività" di un progetto di mobilità, se si vuole uscire da visioni ideologiche o parziali, è invece legata alla soddisfazione di 2 condizioni generali, etiche prima che tecniche: la democrazia e la lunga durata. La prima condizione impone che qualsiasi progetto che investa significativamente una collettività, debba essere legittimato da quella stessa collettività - nei modi e nei tempi più opportuni - e che il dato tecnico circa le sua efficacia sia un elemento argomentativo e non decisivo. La seconda condizione impone invece al progetto di mobilità di non ipotecare né il futuro né l'altrove, semmai, al contrario, deve valorizzarli, cioè capitalizzarli. Ciò significa che le soluzioni ad un problema di mobilità debbono fondarsi sui concetti di equilibrio (tra consumi e risorse disponibili, ad esempio) ed equità (nei confronti degli individui di oggi e di domani) per soddisfare i diritti prima richiamati. Siamo altrettanto convinti che i problemi di mobilità urbana e metropolitana potranno essere risolti solo ed esclusivamente se ognuno dei progetti di mobilità diventano parte di un sistema di trasporto fortemente integrato: non esiste opera infrastrutturale che possa da sola svolgere ruoli efficaci ed esaustivi, così come è decisamente essenziale che vi sia piena coerenza fra la rete della mobilità e la distribuzione degli insediamenti urbani. In materia di mobilità sarebbe illusorio assegnare a qualsiasi progetto il valore di ricetta risolutiva; occorre lavorare su tutte le modalità della mobilità, dalle automobili al trasporto pubblico, dalle bici ai piedi, ciascuna secondo le proprie specifiche convenienze; occorre lavorare sulla sicurezza della mobilità, sulla gradevolezza della mobilità, sulla salute e il benessere della città, sulle sinergie, e soprattutto sui cittadini e sulle loro abitudini. Intendendo con ciò che è sempre più opportuno e urgente attivare politiche per "educare" alla mobilità.

Bologna sta pagando dolorosamente le incertezze amministrative degli ultimi 15 anni in tema di mobilità, anche per colpa delle miopìe dei governi nazionali. Il nodo autostradale-tangenziale è in evidente collasso funzionale, la rete del trasporto pubblico non è stata significamente incrementata, il Servizio Ferroviario Metropolitano subisce evidenti ritardi gestionali, i progetti di mobilità urbana sono largamente insufficienti a fornire una reale e competitiva alternativa al trasporto privato. A completare questo panorama, vi è una società civile e politica fortemente frammentata, conflittuale e divisa sulle prospettive di sviluppo e sulle soluzioni trasportistiche oggi in campo. In queste condizioni, se non s'interviene per invertire la rotta, è facilmente prevedibile che nei prossimi vent'anni succederà quanto è successo negli scorsi venti, e cioé un ulteriore degrado complessivo che peggiorerà la qualità della vita di tutti i cittadini a livelli difficilmente immaginabili. Questo non deve accadere! La Compagnia dei Celestini è nata per fornire contributi, attraverso l'informazione e la sensibilizzazione civica, affinché la classe politica ed amministrativa sappia assumersi le dovute responsabilità per compiere scelte di interesse pubblico, con lo scopo di costruire una città migliore di quella attuale.

"Fermi tutti!" è il titolo che abbiamo voluto dare al nostro seminario: un'esclamazione che indica un livello non sopportabile della situazione in cui tutti i bolognesi si trovano. Non è più possibile continuare ad essere tutti fermi, non è più accettabile il contributo di feriti e morti che avviene annualmente sulle nostre strade. Non è più sostenibile l'inquinamento atmosferico. Non è più accettabile il degrado fisico in cui versano le nostre città, le nostre strade, i marciapiedi, le poche piste ciclabili, il centro storico, le nostre piazze. La mobilità, ripetiamo, è un diritto fondamentale, attualmente non sufficientemente tutelato ed anzi troppo spesso negato ad una buona fetta di cittadini che risultano per questo un po' meno liberi degli altri!

"Il Ferro fa bene ai bambini" è il titolo di questo dossier. Sta a significare che la soluzione che rispetti democrazia e lunga durata è da cercare nei sistemi pubblici di mobilità di massa, sui cui fin qui, in Italia e a Bologna, s'è fatto troppo poco. E' attraverso un energica "somministrazione" di ferro (nel senso più ampio delle politiche integrate di mobilità pubblica) che si può sperare in uno sviluppo più equilibrato ed equo, per i bambini di oggi e di domani.

Il dossier è organizzato in tre sezioni, che raccolgono in maniera ordinata il materiale predisposto o prodotto in sede di seminario. La sezione che riguarda l’oggi comprende la presentazione dei cinque grandi progetti di mobilità in corso di discussione (le schede presentate a Contesole aggiornate, con una appendice sul progetto di rifunzionalizzazione della stazione ferroviaria), con due introduzioni, una sulla rilevanza del problema mobilità e una che presenta metodologie d’analisi, criteri valutativi e conclusioni. Ma per capire l’oggi uno sguardo su ciò che è accaduto ieri è molto utile: gli interventi di Giancarlo Mattioli e Mauro Moruzzi descrivono una vicina ma diversa stagione delle politiche per la mobilità a Bologna. Infine due aperture, verso il domani: alcune riflessioni di Rudi Fallaci sul rapporto tra sviluppo urbano e modi di mobilità e sulle tendenze attuali e gli appunti tratti dall’intervento di Hans Glauber.

Il seminario ha visto la partecipazione di molte persone e un’animata discussione ha seguito due provocatori interventi di Maria Rosa Vittadini e Hans Glauber, che non è stato possibile pubblicare per intero sul dossier. Il dossier rimane comunque un documento aperto per discussioni successive e si propone di essere un utile strumento informativo per chi vuole capire meglio come si potrà muovere domani a Bologna.

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