Intervento all’istruttoria pubblica del 13 novembre 2018 sul progetto per i Prati di Caprara voluta da 47 associazioni di cittadini per fermare un’operazione di sedicente ‘rigenerazione’ che potrebbe cancellare il Bosco urbano dei Prati di Caprara. Con commento e riferimenti (m.c.g)
É stato un grande evento partecipativo – anzi, secondo Piero Cavalcoli, la prima manifestazione di massa su di un tema urbanistico negli ultimi 50 anni a Bologna - l’istruttoria pubblica sul progetto per i Prati di Caprara voluta da 47 associazioni di cittadini che, con le loro firme, hanno consentito un ampio dibattito critico cui hanno partecipato tecnici e semplici cittadini, il parroco e i rappresentanti dei vari condomini che si affacciano sull’area. Si trattava di fermare un’operazione di sedicente ‘rigenerazione’ (edilizia residenziale con le solite briciole per l‘housing sociale, terziario e l’ennesimo centro commerciale) che potrebbe cancellare il Bosco urbano dei Prati di Caprara. I Prati costituiscono un ecosistema naturale localizzato a 550 metri dal centro storico che svolge (come ha sottolineato anche il FAI che sta raccogliendo firme per eleggerlo a ‘luogo del cuore’) una funzione ambientale cruciale in una delle zone più inquinate della città. Pubblichiamo l’intervento critico di Piero Cavalcoli, un urbanista che ha contribuito a fare la storia, per decenni esemplare, dell’urbanistica bolognese, e che è stato chiamato ad intervenire sul progetto per conto di Coalizione civica - il raggruppamento di sinistra che, alle ultime elezioni amministrative comunali, ha ottenuto l’8% dei voti. L’intervento evidenzia le gravissime responsabilità politiche e le non meno gravi aporie tecniche dell’amministrazione locale (con qualche accento ironico da grande maestro!). (m.c.g.).
Cosa si propone per questa area strategica il POC, il Piano Operativo che attua il Piano Strutturale? E dunque che idea si ha, di conseguenza, del futuro della città? Lo dice una disposizione sintetica delle Norme del POC: “Un intervento di sostituzione integrale dell’edilizia esistente e la creazione di un nuovo impianto urbano con la realizzazione di residenze, centri direzionali e commerciali, scuole, parcheggi e un parco di 20 ettari” (Norme, art.11, comma2)
Dunque un nuovo quartiere residenziale, ma quanto grande? Anche questo è noto: 181.810 mq di Sul (Superficie Utile Lorda), pari a 1.164 alloggi, di cui 873 “libera” e 291 di “edilizia sociale” (133 pubblica e 158 privata) (art.11, comma 2 delle Norme e Relazione pag.27), più “eventuali ulteriori quote di capacità edificatorie per la realizzazione di attrezzature e spazi collettivi…. nella misura massima del 10% della Sul complessiva” (Norme, art.11 delle Norme). In definitiva, un nuovo quartiere urbano formato da circa 200.000 mq di Sul, ospitanti un numero di alloggi pari a circa due volte il “Virgolone” del Pilastro.
Ha bisogno Bologna di questo “nuovo impianto urbano” in questa “area strategica”?
NO, ma non lo dico io, lo dice la stessa Relazione del POC (pag.12): “Questo approccio si distacca dall’ipotesi di un dimensionamento del POC legato a un fabbisogno: come si evince dal Documento Programmatico per la Qualità Urbana (documento di base del PSC, ndr), il lieve aumento tendenziale della popolazione nella città non richiede previsioni insediative come quelle che vengono messe in gioco dal POC”
Ma allora? E qui sta la giustificazione più straordinaria “La ragione per rendere possibili interventi di tale dimensione dipende…. dalla volontà di mettere in gioco l’offerta del PSC che ha maggiori possibilità di segnare il futuro della città, incidendo sulla stessa quantità della domanda (inducendo cioè una domanda oggi non presente) oltre che sulla qualità”. Dunque: di un quartiere di queste dimensioni non c’è proprio bisogno, ma se lo facciamo, magari progettato da un Archistar, senza dubbio una domanda oggi inesistente sboccerà di incanto. Si contraddicono in questo modo, oltre a quelle dell’urbanistica, che vorrebbe che si stabilissero le destinazioni dei suoli in base ai fabbisogni, anche le più elementari leggi del mercato e si stabilisce che sarà l’offerta a generare la domanda. Qualcuno dovrà spiegarmi, perciò, per quale ragione la pancia delle banche è piena di alloggi invenduti.
Per la verità l’Assessora Orioli ci dice che i dati più recenti hanno fatto cambiare parere al Comune: oggi (a distanza di soli 2 anni e mezzo dall’approvazione del POC) si registrerebbe un fabbisogno di circa 6.000 alloggi.
Ma benedetta ragazza! A un vecchio urbanista verrebbe da chiedere che cosa insegnano oggi all’Università. Il fabbisogno di alloggi è da sempre composto da segmenti di domanda, derivanti dalla diversa capacità economica degli strati sociali che la caratterizzano. La consistente quantità di invenduto non è il segnale di totale assenza di domanda, ma semplicemente segnala che è sazio quel segmento di domanda che può permettersi i costi degli alloggi che sono sul mercato. Ciò naturalmente non vuol dire che in assenza, ormai da decenni, di una politica pubblica della casa, non esista domanda. I seimila alloggi che oggi sarebbero necessari, rappresentano la credibile richiesta di trent’anni di assenza di edilizia pubblica!
Ma riprenderò questo punto, quando tenterò, in conclusione di “volgere in positivo”, come si dice.
E ora mi chiedo, al di là del fatto che lo stesso Comune non lo giudichi necessario, ciò che viene proposto è almeno sostenibile sotto il profilo funzionale?
NO, e di nuovo non lo dico io, lo dice di nuovo lo stesso POC: “Si è verificato e valutato, attraverso gli studi di carattere trasportistico… che hanno preceduto la redazione del POC, che esistono attualmente le condizioni di sostenibilità per circa il 30% dell’intera capacità edificatoria” (Valsat, pag 21; Relazione, pag.12). Dunque, per rendere sostenibile sotto il profilo funzionale quanto complessivamente proposto sarà indispensabile “…l’adeguamento infrastrutturale necessario, la cui realizzazione potrà determinarsi sia in base all’iniziativa degli operatori interessati alla trasformazione delle aree sia in base all’iniziativa del Comune qualora riuscisse a garantirsi altrimenti le risorse finanziarie” (Relazione, pag.12).
Ottimo, impariamo così altre due cose: primo, che gli Accordi pattuiti con la proprietà non contemplano alcun impegno finanziario relativo al completamento della rete infrastrutturale necessaria per completare l’intero insediamento e, secondo, che, qualora non si manifestasse “l’iniziativa degli operatori interessati”, ci penserà il Comune.
Ma almeno, siamo a posto sotto il profilo della sostenibilità ambientale?
Relativamente: sul tema dell’aria e dell’inquinamento atmosferico la Valsat si occupa esclusivamente di tutelare i futuri abitanti del quartiere e non fa cenno al contributo che l’aumento del traffico generato dai nuovi insediamenti scaricherà sulle generali condizioni dell’aria dell’intera area urbana, mentre, sul tema dello smaltimento delle acque superficiali, ci si dimentica di sottolineare l’aspetto principale del problema, che risiede nel contributo alla impermeabilizzazione dei suoli che gli interventi progettati inevitabilmente genereranno. Al proposito ci si limita a prescrivere che l’indice di permeabilità territoriale debba essere almeno pari al 50% della Superficie Territoriale. Ma quale è adesso l’indice di permeabilità dell’area? Aumenterà o diminuirà dopo gli interventi? Non è dato sapere, con buona pace del Piano di Adattamento al Cambiamento Climatico, adottato dallo stesso Comune proprio mentre adottava il POC e finanziato dall’Europa (Life, “Blue Ap”), che indicava come primo obiettivo dell’amministrazione la scelta di minimizzare la crescita del territorio impermeabilizzato.
Fa un certo effetto certificare, proprio in questi giorni, queste cadute di attenzione.
In sintesi, e in definitiva, pare ragionevole considerare quanto proposto dal POC scarsamente motivato, contraddittorio, inefficace e infine, lasciatemelo dire, in fondo anche un po’ banale, impropriamente dedicato a un’area che è a ragione considerata strategica.
Scarsamente motivato, come ammette anche il Comune, che nega ogni relazione con il fabbisogno.
Contraddittorio, in quanto la Valsat nega la fattibilità del 70% di quanto previsto negli Accordi.
Inefficace, perché contrastato da numerose prescrizioni (per fortuna!) che ne proiettano la realizzazione in tempi difficilmente prevedibili: un impegnativo piano di indagini, da svolgere con Arpa sulla qualità dei suoli, la conseguente “condizione escludente, cioè la possibilità di escludere l’utilizzo delle aree” (Relazione, pagg.11/12) qualora risultassero necessarie bonifiche difficilmente operabili o costose, l’utilizzo solo parziale (30%) delle realizzazioni concesse, in attesa del completamento delle opere infrastrutturali necessarie, a carico di non si sa chi.
Debole e banale, infine, perché, in fondo, anche se il progetto fosse firmato da un’Archistar, si tratta comunque di un ordinario intervento di sviluppo urbano che, anche se non collocato in area agricola, mantiene tutte le caratteristiche della passata e criticabile stagione edilizia, a lungo operata a partire dal PRG dell’85 del secolo scorso che, in nome di una riduzione delle occupazioni di suolo in area agricola, ha operato, con le medesime finalità e caratteristiche, in area urbana, nelle famose “aree interstiziali”. Sottraendo, in nome dell’obiettivo della “città compatta”, circa il 50% delle previsioni a verde pubblico.
Che fare allora? Bisogna avere il coraggio di cambiare strada, correggendo il POC.
É necessario un progetto forte e condiviso, capace di segnare una distanza con la perdurante debole attenzione alle questioni ambientali, che sappia raccogliere le voci, che pur si sono manifestate nel corso stesso della redazione del POC (penso alle prescrizioni della Valsat e ai risultati di importanti progetti europei, da Blue Ap a Gaia) e soprattutto quelle dei cittadini. Se questi ultimi abbracciano gli alberi e nessuno ha mai abbracciato la Meridiana a Casalecchio o l’Unipol di via Larga una ragione ci sarà.
Forte vuol dire anche simbolico ed evocativo, questo sì capace di segnare il futuro. Un progetto che contrasti la tentazione di costruire muri, ostacoli, fratture, che richiami la nostra tradizione di attenzione al nuovo e di rispetto del passato.
A questo si pensa quando si parla di un bosco urbano, un progetto che sappia trovare continuità con la tradizione di questa città, che non ha mai semplicemente nascosto le rovine e le testimonianze di ciò che è stato seppellendolo sotto pezzi anonimi di “sviluppo urbano”, ma ha saputo conservare la memoria del passato reinterpretandolo con il senso del presente. Penso alla Montagnola, ai Giardini Margherita, al Guasto, alla Manifattura Tabacchi. E, in fondo, penso a tutto il centro storico e alla collina.
Un bosco per la pace, ad esempio, in un luogo adibito così a lungo alle armi. E un bosco evocativo della necessità dell’accoglienza e delle relazioni tra gli uomini, in un luogo che connette stazioni, ferrovie e aeroporti e che ha anche visto cosa può determinare l’indifferenza e l’incuria, dimostrando quanto ancora siamo incapaci di accogliere e integrare i più deboli.
Si può fare?
Per rispondere a questa domanda è necessario prendere spunto dall’esperienza dei Prati e allargare il campo delle considerazioni, ponendo domande alla politica urbanistica in generale, bolognese e nazionale.
Il caso dei Prati è infatti significativo di un ulteriore degrado della politica urbanistica, che ha al centro un tema decisivo e in qualche misura nuovo: il ruolo dello Stato nei processi di riqualificazione urbana. L’interlocutore delle esigenze locali di riqualificazione è profondamente cambiato negli ultimi cinque anni: i primi Accordi erano da costruire faticosamente con Generali dell’Arma ed alti dirigenti delle Aziende di Stato, soggetti che, nel panorama multiforme del potere, erano interessati solo al mantenimento del proprio. Ora è diverso: il caso dei Prati ci chiarisce che ora gli Accordi si sottoscrivono con un soggetto del tutto integrato nella attività di speculazione fondiaria e finanziaria: i terreni dei Prati sono di INVITIM.
Cosa è INVITIM?
E’ una “società di gestione del risparmio del Ministero dell’Economia e delle Finanze che ha ad oggetto la prestazione del servizio di gestione del risparmio realizzata attraverso la promozione, l’istituzione, l’organizzazione e la gestione di fondi comuni di investimento immobiliare” (Wikipedia). Dunque una concorrente di Maccaferri, interessata all’investimento immobiliare e alla cosiddetta “rigenerazione urbana” nella misura in cui essa sia fonte di rendita urbana.
Una questione nuova perciò per l’urbanistica, che ha avuto sempre a che fare con una rendita urbana la cui natura era incontestabilmente di carattere privato. Una questione su cui l’urbanistica ha fino ad ora risposto con il fumo della “rigenerazione urbana” a prescindere dai soggetti, dagli operatori, dai fabbisogni, dalle generali condizioni di fattibilità e sostenibilità.
E dunque cosa cambia?
La prima delle novità è che evidentemente tendono a mutare le relazioni istituzionali: una richiesta di solidarietà istituzionale avanzata nei confronti di una società finalizzata a trarre il massimo di profitto ha poche speranze, soprattutto se il rapporto tra i pesi dei contraenti gli Accordi è così sbilanciato in favore dei proprietari delle aree. Il Comune si accontenterà dell’elemosina: una scuoletta, qualche alloggio popolare, un parco lungo e stretto a ridosso del Ravone. Il Comune (e i cittadini!!) dovranno così affrontare tutto il peso che deriverà da una speculazione immobiliare (pubblica!!!), paradossalmente finalizzata, a quanto viene sostenuto, a ripianare i debiti dello Stato. Indicative, in questo senso, le voci che indicano in un piano di dismissioni del patrimonio immobiliare dello stato per 17 miliardi, la promessa all’Europa sulla sostenibilità della manovra finanziaria. Distrutti i patrimoni dei Comuni, si passa così a distruggere il patrimonio dello Stato.
Altra novità è dunque che il cortocircuito logico di questa finalità (diminuire il debito pubblico vendendo il patrimonio dello Stato, e cioè perseguire finalità benefiche generali attraverso misure malefiche a livello locale) non trova alcun contrasto se non quello dei cittadini, che denunciano la assoluta illogicità degli Accordi pattuiti e dei conseguenti strumenti urbanistici. Non una parola dalla disciplina. Non una parola dalla politica.
É forse possibile un’altra strada? Può il Comune pretendere la restituzione di quella parte della rendita che gli appartiene?
Basterebbe che ciascuno facesse il proprio mestiere. Lo Stato che si dedicasse, ora che ha risolto i problemi della povertà, a risolvere quelli dell’evasione fiscale, incamerando così le risorse che occorrono per risolvere i problemi di fabbisogno di edilizia pubblica che ci ricorda Orioli. E rinunciando alle mire di valorizzazione e speculazione fondiaria e finanziaria. E il Comune richiedesse allo Stato quella solidarietà e sostegno che è costituzionalmente dovuto. E riscrivesse gli Accordi intesi alla riqualificazione dei terreni di proprietà dello Stato situati nei Comuni dell’area metropolitana.
Ma si chiede dunque l’impossibile?
A parte l’esperienza che ci ha dimostrato che chiedere l’impossibile è l’unico modo per ottenere il possibile, va ricordato che questo è il momento: una nuova legge urbanistica regionale che, almeno a parole, enfatizza la riqualificazione urbana e la sostenibilità, le elezioni regionali all’orizzonte, anche se cariche di presagi non confortanti, i segnali invece confortanti di resistenza, come quelli della comunità dei Prati.
Possibile è innanzitutto pretendere coerenza dagli enunciati enfaticamente pronunciati dal legislatore regionale. Si tratta di una pessima legge, lo abbiamo sostenuto in diverse sedi e occasioni. Ma si deve cogliere in pieno l’occasione che essa pure ci offre: la formazione in contemporanea, in questi tre anni (uno è già sostanzialmente trascorso) del nuovo Piano Regionale e dei principali Piani dei Capoluoghi.
Possibile è dunque pretendere che il Piano Regionale, dialogando con quelli dei Capoluoghi, affronti in modo sistematico e sostenibile il tema delle aree statali, ponendo in modo autorevole il tema della solidarietà istituzionale e della volontà dei cittadini, così rimangiandosi la tentazione sino a qui perseguita di scimmiottare le richieste di autonomia proprie di strategie politiche che non trovano asilo nella nostra tradizione e nella nostra cultura.
Ricordiamolo: la nostra regione vanta la pianificazione territoriale più antica del mondo. Un asse di siti urbani di impianto romano che i duemila anni seguenti non hanno mai avuto la forza e la necessità di negare. Un asse su cui le civiltà susseguite hanno continuamente aggiunto una propria modernità, senza mai contrastare i segni del passato: la via Emilia, la ferrovia, l’autostrada, l’Alta velocità. E ciò è avvenuto sapendo ogni volta interpretare, con regole nuove, le esigenze di nuova configurazione delle città disposte lungo questo nastro in continua evoluzione. Così, il disporsi delle manifatture lungo la ferrovia prima e lungo l’autostrada poi, a nord dell’abitato, pone a tutti i Capoluoghi la stessa esigenza: quella di un disegno comune, del recupero delle aree dismesse con regole comuni e finalità comuni, regole che solo un nuovo Piano regionale, attento alle volontà dei cittadini e dell’ambiente, può e deve predisporre.
A noi il dovere di pretenderlo, insieme a nuovi e solidali Accordi con lo Stato, proprietario di quelle aree.
Ma, si dice, due ostacoli si frappongono alla volontà di cambiare strada, ridiscutendo le scelte del POC
Il primo consisterebbe proprio nell’impossibilità di denunciare gli Accordi sottoscritti con l’Agenzia del Demanio e con l’INVIMIT, proprietari delle aree in questione, accordi che sarebbe opportuno rispettare sia per correttezza istituzionale che per evitare qualsiasi possibile richiesta di risarcimento; il secondo consisterebbe nelle disposizioni della recente nuova legge urbanistica regionale che, nel previsto periodo transitorio di avvio dell’applicazione delle diposizioni di legge, impedirebbe ogni diversa determinazione o variante dei vigenti strumenti urbanistici.
Per quanto attiene l’inopportunità dell’eventuale denuncia degli Accordi, non credo che essa possa essere presa in alcun modo a pretesto per evitare di mettere mano a una sollecita modificazione del POC e delle scelte descritte. Si tratta semplicemente di mettere in atto quanto previsto all’art.5 dell’ultimo Accordo, sottoscritto il 2 marzo 2015, contenente l’impegno del Comune ad elaborare il POC fino a qui commentato.
L’articolo recita: “La durata del presente Accordo è stabilita in due anni, decorrenti dalla data della sua sottoscrizione, rinnovabili su accordo delle parti. Nell’ipotesi in cui le previsioni del presente Accordo non potessero trovare integrale attuazione, le parti potranno sciogliersi dagli impegni assunti, mediante comunicazione scritta per raccomandata con avviso di ricevimento. In tal caso, le Parti si impegnano a verificare la possibilità di rimodulare obiettivi e finalità dell’Accordo, ai fini della sua attuazione, anche parziale, ovvero a regolarizzare le situazioni medio tempore verificatesi”.
Dunque, nulla osta, se c’è volontà politica, a denunciare o riformulare l’Accordo, stante il fatto che, per quanto so, non ci sono situazioni “medio tempore” da regolarizzare.
Per quanto poi riguarda il presunto impedimento che nascerebbe da una corretta applicazione delle disposizioni contenute nella nuova legge urbanistica, va richiamato quanto enunciato nel capitolo IV° della lettera che il legislatore regionale ha inviato ai Comuni nel marzo di quest’anno: “Nel corso della prima fase triennale del periodo transitorio, i Comuni possono avviare e approvare i procedimenti indicati all’art.4, comma 4, ossia i procedimenti relativi a: a) varianti specifiche agli strumenti urbanistici vigenti….. ma anche varianti ai POC vigenti…. Ovvero POC “tematici” diretti alla pianificazione di specifiche tipologie di insediamenti”. Inteso che le suggestioni appena abbozzate in precedenza sul possibile destino dei Prati possono in pieno riconoscersi in “varianti tematiche al POC”, assieme a quanto è puntualmente proposto dal citato Piano di Adattamento al Cambiamento Climatico, pare dunque non sussistere alcun impedimento amministrativo a quanto invocato e richiesto da migliaia di cittadini.
Dunque, la decisione torna al Comune e ai suoi attuali amministratori: vorranno essere ricordati come coloro che per 1.200 appartamenti invenduti hanno distrutto un bosco di più di quaranta ettari, nel cuore della città? O viceversa pretenderanno coerenza da un presunto “Governo del cambiamento”, richiedendo nuovi Accordi, consoni al dovere di solidarietà istituzionale e rispettosi della volontà dei cittadini?
L’Istruttoria Pubblica sui Prati di Caprara e la politica urbanistica di Bologna. Come il Comune di Bologna, contro l’opinione di migliaia di cittadini attivi, ha posto le basi della cementificazione di un bene straordinario che abbandono e natura hanno donato alla città.
I Prati di Caprara sono una grande area (45,7 ha) a ovest del centro storico di Bologna a poca distanza dalle mura, interclusa tra le espansioni urbane novecentesche, l’Ospedale Maggiore e i fasci di binari che portano alla stazione centrale e all’ex scalo ferroviario Ravone.
Dismessa da decenni dopo aver conosciuto utilizzi diversi e come ultimo quello militare, si presenta rinaturalizzata in un rigoglioso bosco spontaneo scrigno di biodiversità, che può costituire un prezioso polmone ecosistemico per l’intera città, ma che l’Amministrazione comunale, dopo molte promesse di trasformazione in parco pubblico, ha inserito in un piano di valorizzazione immobiliare.
Foto P. Rocchi |
Foto dal sito del Comitato Regenerazione No Speculazione |
lacittàinvisibile 15 ottobre 2017.« Il testo prova a restituire i numerosi spunti emersi durante il dibattito ‘Bologna oltre Bologna. Costruire la città dell’alternativa’ tenutosi a Bologna il 27 settembre 2017» (c.m.c.)
Negli ultimi anni i contesti urbani sono stati un laboratorio di sperimentazione economica e politica di innegabile interesse. La città contemporanea, infatti, si manifesta e si produce continuamente attraverso una tensione tra i condizionamenti esercitati dai processi socio-economici e l’azione creativa e interpretativa di individui e gruppi che interagiscono e (spesso) si oppongono a queste dinamiche costruendo forme alternative di appartenenza, partecipazione e consumo. In un’epoca in cui i processi di urbanizzazione (3) rivestono un’importanza fondamentale, la gestione e organizzazione degli spazi diventa centrale.
La città neoliberale
Innanzi tutto, le città sono state il punto di caduta finale delle politiche di ridefinizione del welfare e di riduzione degli investimenti pubblici che negli anni della crisi hanno subito una radicale espansione; anche la funzione delle amministrazioni locali è stata ridotta, in molti casi, alla gestione degli effetti delle misure di austerità. Allo stesso tempo, le città sono diventate sempre più oggetto di interessi economici: dalle grandi opere urbane all’espansione del turismo, dagli investimenti immobiliari allo sviluppo del platform capitalism.
In tutte queste dinamiche gli spazi rivestono un ruolo fondamentale. Il consumo di suolo, inquadrando la questione all’interno della temporalità lunga del capitalismo, si è spostato sempre più dalla campagna alla città, favorendo meccanismi di rendita immobiliare e finanziaria. Già a partire dall’inizio degli anni ’80 si riduce l’intervento statale (4) nella forma della pianificazione urbana come mediazione fra diversi interessi mentre lo sviluppo della città è affidato sempre più alla negoziazione tra istituzioni e grandi gruppi.
Oggi questa dinamica assume spesso il nome di “riqualificazione” o “rigenerazione”. Questi processi – che si prefiggono di recuperare luoghi abbandonati, inutilizzati o “degradati” – si accompagnano a fenomeni di gentrificazione (5): la “nobilitazione” degli spazi impatta sui quartieri e sui territori in maniera complessiva e porta a cambiamenti quali l’espulsione di alcune fasce di popolazione da determinate zone, l’aumento degli affitti, l’applicazione di ordinanze restrittive, etc…
Queste politiche di rigenerazione, inoltre, sono legate all’elaborazione di leggi e piani urbanistici. In tal senso, Bologna ha subito profonde trasformazioni infrastrutturali negli ultimi anni. Il caso di studio paradigmatico è sicuramente la Bolognina ma pensiamo anche al recupero delle caserme abbandonate (all’interno del quale si inserisce la vicenda del Làbas Occupato (6)). Oppure teniamo a mente grandi opere quali FICO Eataly World, il Passante o il People Mover, oggetto di opposizione da parte di comitati locali (7). La recente proposta di legge urbanistica regionale varata dalla giunta dell’Emilia- Romagna è stata fortemente contrastata a causa dei contenuti neoliberisti che si riverserebbero nella pratica urbanistica, tutti in favore dei privati e degli interessi particolari (8).
Al contempo le istituzioni cittadine combattono una guerra senza quartiere all’illegalità cosiddetta “di necessità” contrastando quelle pratiche – come ad esempio le occupazioni di spazi abbandonati – che sorgono da una serie di problemi irrisolti nel contesto urbano (diritto all’abitare, accoglienza, riduzione del welfare, mancanza di spazi di socialità). Esiste un legame tra queste politiche e la stagione degli sgomberi che si sta consumando da alcuni anni, specie a Bologna (9): per valorizzare gli spazi occorre espellere quei soggetti che non rientrano in dinamiche di valorizzazione (10).
Organizzarsi nella crisi
Queste politiche economiche, ovviamente, non possono non avere degli effetti più generali. Si registra una tensione fra politica e società che assume la forma di un doppio movimento di de- e ri- politicizzazione.
Il progetto neoliberista che punta a mercificare spazi e welfare (casa, socialità, servizi, educazione) porta a una restrizione della dimensione politica: si limitano i margini di azione collettiva a favore del mercato; si riducono le possibilità di confliggere e proporre alternative attorno a questioni basilari come la cittadinanza o la giustizia. Gli strumenti tramite i quali si operano queste forme di restrizione della sfera pubblica sono, da una parte, la logica emergenziale (11) e, dall’altra, i cosiddetti saperi tecnici.
In quest’ottica, i progetti partecipativi promossi dalle municipalità sembrano riconoscere parzialmente questo scollamento tra amministrazione e tessuto sociale e provano a ristabilire forme di legittimazione collettiva delle scelte politiche, ma assumono troppo spesso la forma di percorsi il cui esito è stabilito in partenza.
È però difficile limitare le trasformazioni urbane a processi unilineari; piuttosto, spesso sono oggetto di confronto fra visioni diverse e contrastanti. A fronte dell’acuirsi delle dinamiche di sfruttamento del territorio e degli effetti sociali ed ambientali che queste determinano a livello urbano, gruppi di cittadini e movimenti sociali provano ad esercitare un maggiore controllo sui processi decisionali che condizionano in maniera diretta le loro vite. Se da un lato le politiche urbane privilegiano gli interessi privati su quelli collettivi, le pratiche di auto-organizzazione rivendicano il diritto e la necessità di costruire spazi alternativi di convivenza (12). Si tratta perlopiù di esperienze che, facendo ricorso a pratiche di volontariato e mutualismo, istituiscono welfare di prossimità e comunità, reti di economia solidale, luoghi di socializzazione.
Tali pratiche possono essere fatte risalire alla tradizione socialista e operaia di fine ‘800 e oggi assumono nuova vitalità. In comune tutte sembrano avere l’obiettivo di trovare nuove forme di organizzazione nella crisi e ricostruire solidarietà nei territori. Queste esperienze urbane forniscono modelli alternativi dentro e contro l’erosione del welfare pubblico e, tramite il recupero di spazi, vengono a costituire un nuovo tessuto sociale all’interno della città.
Dall’analisi delle pratiche informali a quella degli usi temporanei degli spazi emerge una forma di socializzazione della politica: la partecipazione alla vita pubblica e democratica assume i tratti dell’impegno concreto e collettivo rispetto a bisogni specifici avvertiti all’interno del contesto urbano. Detto altrimenti, le nuove forme di attivismo e partecipazione – soprattutto a livello giovanile e metropolitano – non passano più per i canali tradizionali (come, ad esempio, i partiti) né si danno sulla base di scelte “ideologiche”, ma si esprimono prevalentemente attraverso pratiche di impegno sociale.
Il diritto di decidere
Resta però il problema del rapporto fra queste esperienze e le istituzioni. Gli strumenti a disposizione delle amministrazioni locali (nel caso di Bologna, i patti di collaborazione o il regolamento sui beni comuni) appaiono inadeguati rispetto al carattere aperto, fluido e partecipativo di tali pratiche.
Inoltre è difficile ridurre queste esperienze alla semplice fornitura di servizi, in quanto spesso pretendono di decidere sulle scelte politiche e urbanistiche della città. È in questa prospettiva che possono essere lette sia alcune tipologie attuali di conflitti urbani che esperienze come quelle neo- municipaliste (13) le quali partono dalla contaminazione fra sociale e politico. La ristrutturazione del welfare e l’invenzione di nuovi processi democratici passano anche attraverso lo scontro con le politiche di governance e le dinamiche economiche di profitto.
Bologna negli ultimi anni ha vissuto in pieno queste contraddizioni. Da una parte, l’amministrazione ha investito in grandi opere e progetti di “rigenerazione”; dall’altra la città ha espresso un punto di vista autonomo sul suo futuro – anche tramite pratiche di liberazione di spazi e di vertenzialità metropolitana – che parla di accoglienza, socialità, mutualismo. Il grande corteo (14) #RiapriamoLàbas di sabato 9 settembre ha condensato in maniera fortemente tangibile questa potenza sociale autonoma.
Gli spazi urbani – concepiti non come semplici superfici fisiche ma come luoghi di relazioni sociali (15) – diventano dunque il punto di partenza per reinventare la politica come spazio pubblico: la ri- politicizzazione del sociale va intesa come allargamento dello spazio della decisionalità politica e inclusione di soggetti precedentemente esclusi o poco influenti.
NOTE
1 Il testo prova a restituire i numerosi spunti emersi durante il dibattito “Bologna oltre Bologna. Costruire la città dell’alternativa” tenutosi a Bologna il 27 settembre 2017 e a cui hanno partecipato Paola Bonora, Nicola De Luigi e Lorenzo Bosi. Ringrazio loro per disponibilità e Vito Giannini per il confronto sui temi trattati.
2 Dottore di ricerca in Politica, istituzioni e storia presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Bologna e attivista del centro sociale TPO.
3 Da una parte nei termini di divenire globale delle città (cfr. Saskia Sassen, The Global City, 1991), dall’altra in quelli del farsi metropoli del globo (Neil Brenner, Implosions/Explosions: Towards a Study of Planetary Urbanization, 2014).
4 In una recente intervista, David Harvey ha dichiarato: «Quando lo Stato ha iniziato a ritirarsi dalla fornitura di servizi sociali, il progressivo declino del welfare state, si sono aperte una serie di questioni rispetto a chi e come si dovesse sviluppare la distribuzione dei servizi sociali. E uno dei modi coi quali lo Stato si è relazionato a tale problema è stato quello di ributtare tutte queste funzioni addosso ai governi delle città dicendo: “non è un mio problema, risolvetevela voi”. E chiaramente a quel punto non è che lo Stato ha inviato maggiori risorse alle città, nonostante queste stessero affrontando un numero crescente di problematiche come il social housing, l’aumento delle povertà ecc… Le municipalità vennero abbandonate, dovendo cominciare a trovare le risorse in maniera autonoma. È quello che ho definito come il passaggio da una forma manageriale del governo locale a una governance urbana di tipo imprenditoriale. A quel punto il tema dello sviluppo urbano è divenuto centrale, con un peso sempre più rilevante acquisito dai developer, di fatto gli unici soggetti a garantire un gettito fiscale per il bilancio delle città per poter affrontare i problemi sociali. Purtroppo ciò ha prodotto uno spostamento netto delle risorse, che sono andate sempre meno a coprire i costi necessari per il sociale e sempre più a sussidiare le corporation, proprio mentre i fondi statali diminuivano. E nessuno si oppose a ciò. Qualcuno disse che si poteva costruire una città in cui i bisogni sociali sarebbero stati affrontati col gettito proveniente dallo sviluppo urbano» (Niccolò Cuppini, L’effetto contagio dei movimenti urbani globali. Intervista a David Harvey, 2017).
Cfr. anche David Harvey, From Managerialism to Entrepreneurialism: The Transformation in Urban Governance in Late Capitalism, 1989).
5 Cfr. Giovanni Semi, Gentrification. Tutte le città come Disneyland?, 2015.
6 Cfr. https://labasoccupato.com/2014/08/18/occupare-ed-auto-organizzarsi-per-una-nuova-democrazia-urbana/ e http://www.glistatigenerali.com/cdp_turismo/cdp-il-capitalismo-di-stato-fa-acqua-su-immobili-e-turismo/
7 Rispettivamente La foglia di fico (https://fogliadifico.noblogs.org/), Passante di Mezzo – No grazie!
(http://www.passantedimezzonograzie.it/index.php) e No People Mover (https://nopeoplemover.wordpress.com/)
8 Cfr. Ilaria Agostini (a cura di), Consumo di luogo. Neoliberismo nel disegno di legge urbanistica dell’Emilia-Romagna, 2017, il pdf del libretto è scaricabile a questo indirizzo: http://www.officinadeisaperi.it/eventi/cerano-una-volta-i-comuni-rossi-dellemilia/
9 Ad esempio, sul rapporto fra trasformazioni urbane in Bolognina e minacce di sgombero al centro sociale XM24 si veda http://www.eddyburg.it/2017/04/a-bologna-la-rigenerazione-si-fa-congli.html
10 Cfr. Saskia Sassen, Expulsions, 2014.
11 I processi di securitarizzazione che perimetrano e neutralizzano lo spazio pubblico – ad esempio, tramite i decreti di sicurezza urbana – sembrano rientrare in questo tipo di logica basata sull’urgenza e lo stato d’eccezione della misura applicata, oltre che sulla presunta pericolosità dei soggetti da disciplinare.
12 Cattaneo e Engel-Di Mauro, Urban squats as eco-social resistance to and resilience in the face of capitalist relations. Case studies from Barcelona and Rome, 2015.
13 Bertie Russell e Oscar Reyes, Fearless Cities: the new urban movements, 2017:
http://www.redpepper.org.uk/fearless-cities-the-new-urban-movements/
14 https://www.facebook.com/events/1396308287155571/
15 Henri Lefebvre, La producion de l’espace, 1974.
«Ex Caserma Masini. Oltre 10mila in piazza dopo gli sgomberi del Làbas e di Crash, l’8 agosto. Il sindaco Merola corre ai ripari e promette un’altra sede». Ha compreso che il potere urbanistico non è della CDP. il manifesto, 10 settembre 2017
Almeno diecimila persone in corteo a Bologna per «riaprire Làbas» ieri hanno cambiato il segno dell’estate dei manganelli e degli sgomberi. Tra i portici e i viali ha sfilato una densa rappresentanza plurale, e non riconciliata, della sinistra politica, dei movimenti e dei sindacati che hanno risposto all’appello degli attivisti dell’ex Caserma Masini sgomberata l’8 agosto scorso insieme al laboratorio Crash. Altrove diviso, spesso invisibile, stretto dalla repressione, questo schieramento è stato il risultato di una campagna efficace e l’effetto della percezione di un pericolo estremo: il deserto politico chiamato «legalità» e «decoro».
Gli sgomberi di Crash e Làbas sono stati considerati la goccia che ha fatto traboccare il vaso tanto a Bologna, quanto nel resto del paese. L’apice di una stagione di eventi drammatici, come quello dei rifugiati eritrei da piazza Indipendenza a Roma, mentre la politica è ostaggio dai poteri di polizia e della magistratura. In questo vuoto democratico, dove prevalgono le istanze di una legalità astratta e un razzismo diffuso, ieri è stata data una risposta di segno opposto. «Ogni città prende forma dal deserto a cui si oppone» sostengono gli attivisti di Làbas.
Non è mancata l’ironia sui paradossi della situazione. «Il popolo di Bologna sa tenersi cari i suoi poeti e anche i suoi ribelli – ha detto all’inizio del corteo Lodo Guenzi, il cantante de «Lo Stato Sociale», citando beffardamente una prolusione del sindaco Merola su Freak Antoni degli Skiantos – Una persona che piange al suo funerale faccia in modo che i ribelli di oggi diano nuova vita alla loro città».
La manifestazione è stata preceduta da un risultato importante. In una lettera il sindaco di Bologna Virginio Merola ha assicurato che entro due mesi sarà data a Làbas una soluzione «ponte». L’opzione più accreditata è quella di vicolo Bolognetti, già sede del quartiere San Vitale dove per cinque anni ha operato l’occupazione. Le attività di Làbas dovrebbero trasferirsi in seguito nell’ex caserma Staveco, dove sono previsti anche i nuovi uffici giudiziari. «Pensate che bello, gli uffici della legalità accanto alla vita della società. Comune è quello che fate voi, questo è il comune» ha ironizzato Alessandro Bergonzoni a una piazza XX settembre gremita.
A metà agosto su questa assegnazione è scoppiato un conflitto tra il sindaco e i magistrati bolognesi, contrari a questa soluzione. Per gli attivisti di Làbas, invece, si tratta di «una straordinaria conquista per la città» perché «ci permette di dare continuità e non disperdere le attività» che hanno riscosso il consenso degli abitanti di San Vitale. Il senso di questa «conquista» è considerato anche rispetto alle altre realtà sgomberate (Crash, che terrà un concerto-protesta in piazza Verdi giovedì 14) o sotto sgombero (XM24).
Il ritorno alla politica potrebbe arrestare la catena di sgomberi e rimettere in discussione il «Piano Operativo Comunale» (Poc) con il quale la giunta Merola (Pd) intende ridisegnare il futuro urbanistico di Bologna. Làbas chiede un cambio del Poc e un uso socialmente utile degli spazi e delle case vuote. Il criterio è quello della rigenerazione urbana realizzata attraverso processi di partecipazione e auto-governo, necessari per affrontare l’emergenza abitativa e la richiesta diffusa di culture e relazioni. Su queste pratiche a Bologna si può avviare un «processo di convergenza» tra «migliaia di persone» sostiene Detjon Begaj, consigliere di Coalizione civica nel quartiere di Santo Stefano.
Questo processo dovrebbe essere «sostenuto da attività organizzate dal basso che mirano a costruire qualcosa con le persone e non per gli utenti» sostiene un documento che ha raccolto l’adesione dell’XM24, Consultoria, Usb Asia e altre realtà. Una dialettica «non riducibile alla forma associativa o al patto collaborativo» precisano. Si tratta di una critica alla sussidiarietà del welfare che trasforma l’auto-organizzazione in un erogatore di un servizio che lo Stato non intende più fornire, e non in un «laboratorio di sperimentazione politica dal basso». In questa tensione, tipica di una democrazia conflittuale, si è collocato il corteo a cui hanno partecipato anche Maurizio Acerbo (Rifondazione), Giorgio Cremaschi (Eurostop) e i sindacati di base (Adl Cobas, Usb).
«L’amministrazione deve cogliere la ricchezza del corpo più profondo – sostiene Nicola Fratoianni (Sinistra Italiana) – questi progetti non possono essere derubricati a semplice ordine pubblico». «La politica deve adattare gli strumenti amministrativi per rappresentare questa aspirazione e queste pratiche. Senza queste esperienze le città diventano più povere» commenta Federico Martelloni, già candidato sindaco e consigliere comunale per Coalizione Civica. «Il corteo ha avuto il grande merito di porre questione vere sul futuro di Bologna che vive la rivoluzione 4.0 nelle fabbriche e la trasformazione urbana – sostiene Michele Bulgarelli, segretario Fiom di Bologna – Si è creata una larga coalizione da Libera all’Anpi, all’associazionismo, realtà autogestite, partiti e sindacati a sostegno di un nuovo progetto».
Dopo lo sgombero dei centri sociali dagli edifici ex militari bolognesi è il momento di riaprire una discussione seria sulla utilizzazione più ragionevole di questa ampia categoria di spazi pubblici inutilizzati. La Repubblica, ed. Bologna, 20 agosto 2017
LE discussioni accese che hanno seguito losgombero agostano di Làbas, non quelle corali di indignazione per l’azionepoliziesca, ma quelle dei giorni successivi sulla Staveco come possibiledestinazione del centro sociale, nella loro asprezza e inconciliabilità,portano a ragionare sulla strana sorte toccata a Bologna alle ex aree militari.Comparti preziosi per la vivibilità urbana, su cui da anni si discute e sispendono progetti ma continuano a restare dominio dei ratti.
A Bologna la rigenerazione si fa congli sgomberi: la minacciata chiusura di XM24, spazio sociale autogestito è l'episodio centrale della ristrutturazione fisica e sociale della Bolognina: un quadrante della città che continua a far gola alla speculazione. In calce il link all'appello.
Il documento allegato è un primo momento di aggregazione e di denuncia, se lo condividi puoi firmarlo e diffonderlo.
Una garbata e argomentata replica di un urbanista condotto, che conosce il territorio e la sua storia recente, agli articoli di Wolf Bukowsky e Wu Ming sul Passante Nord di Bologna (m.b.)
Un libello in tre puntate sul Passante di Bologna - di Wolf Bukowsky & Wu Ming è stato pubblicato a puntate su Internazionale online e ripreso da eddyburg. Cito:«Le ipotesi per risolvere i problemi di traffico del nodo bolognese si rincorrono ormai da vent’anni. Nel 2005 ha iniziato a consolidarsi quella del cosiddetto "Passante Nord", una bretella autostradale che doveva tagliare la campagna a Nord della città, collegando Anzola Emilia (A1), Altedo (svincolo A13) e San Lazzaro (Uscita A14). Quel progetto, già finanziato, è stato respinto l’anno scorso, grazie all’azione di un comitato e dei sindaci dei comuni interessati. Ma il comitato ha scelto di "non dire soltanto no" e ha proposto una “brillante” alternativa: l’allargamento di una corsia per senso di marcia dell’infrastruttura congiunta autostrada/tangenziale, che già ammorba la periferia bolognese. E così, un comitato che all’inizio contestava la ratio stessa del progetto, ha finito per scaricare il barile sui cittadini di un altro territorio».
La prima puntata
Altro elemento che manca nella narrazione, anche se snobbato e cancellato dalla “Bologna che conta” e dai suoi media, è il convegno tenuto nella sede della Regione sulle “Grandi Opere”. Fu indetto nel maggio 2015 dai due gruppi consiliari de L’ALTRA E-R e dei 5stelle, e in quella sede associazioni, comitati e molte personalità della cultura e del sociale manifestarono il loro impegno contro il Passante Autostradale Nord e per la sua “opzione zero” cioè l’impiego della Tangenziale esistente. In quella occasione fu anche esposta, come complemento all’ipotesi dei Comitati, l’idea-progetto di copertura fotovoltaica dell’intera Tangenziale, in funzione anche di mitigazione delle emissioni inquinanti, che era stata anticipata con una graphic-novel dal periodico “il manifesto Bologna - in rete”.Ovvierò a tale omissione allegando il recapito al materiale e alla registrazione dell’esposizione raccomandandone la consultazione in rete.
La seconda puntata
La terza puntata
E’ qui il caso di proporre la consultazione del “Quaderno degli attori” da me depositato agli atti del forum partecipato e che non sono riuscito a discutere né con i frastornati partecipanti né con i tecnici progettisti delle sedi stradali, né, tampoco con gli amministratori coinvolti nelle decisioni, facendolo precedere dalla registrazione della mia presentazione al Convegno sulle Grandi Opere che ho già citato.
Conclusioni (provvisorie)
Antonio Bonomi - vecchio architetto e urbanistagià Assessore e Consigliere nel Comune di Calderara di Reno , mercoledì 28 dicembre 2016.
Qui di seguito i link alle tre puntate dell'inchiesta di Wolf Bukowsky e Wu Ming sul Passante di Bologna: prima puntata, seconda puntata, terza puntata.
«“Green infrastructure”: l’infrastructure è l’autostrada/tangenziale e il green è quello che c’è già, va solo pettinato meglio per attenuare il grigio e i rumori. È la versione emiliana della dialettica di Hegel: il simulacro di tesi, antitesi e sintesi in un unico partito e blocco di interessi». Internazionale online, 21 dicembre 2016 (p.d.)
Pubblichiamo la terza ed ultima puntata del reportage in tre puntate condotto da Wolf Bukowski e Wu Ming sul Passante di Bologna (la prima puntata la trovate qui, la seconda qui).
Abbandonàti (e perciò sopravvissuti)
Nel dossier del Passante di Bologna i cantieri rientrano nella categoria delle “occupazioni temporanee”, e coprono in tutto una superficie di 20 ettari. Ma se “temporanee” significa “per molti anni”, come nel caso dell’Area ex Michelino, e magari anche di più, qualora non arrivi un nuovo progetto a finanziare la deimpermeabilizzazione, allora quei 20 ettari di terreno “temporaneamente” occupati diventano l’ennesima bugia, e faremmo meglio a considerare che almeno 40 ettari di suolo saranno impattati dall’infrastruttura, nel significato etimologico di “calpestati, trasformati in pattume”. Lungo il Sàvena Abbandonato, sulla riva opposta rispetto al casello Fiera, c’è un terreno agricolo e alberato di circa 23 ettari, undici dei quali saranno “temporaneamente” occupati da un cantiere del Passante, completo di campo base, officina, deposito mezzi e materiali di scavo, campo travi dei cavalcavia, impianti di produzione del calcestruzzo e del conglomerato bituminoso. Come si fa a sostenere che quel suolo non sarà “consumato” da un simile ingombro? Come si può pensare che, dopo tanta devastazione, torni a essere quello di prima? E il Sàvena Abbandonato – ritenuto “risorsa ecologica e ambientale” – come resisterà nella morsa tra un simile cantiere e lo svincolo autostradale, che ormai lo affianca fino a che morte non li separi?
Ma non basta, perché con la scusa della “semplificazione”, il progetto di legge si spinge “fino alla negazione della stessa disciplina urbanistica”. L’articolo 32 dichiara infatti che un comune non può stabilire quante saranno e dove saranno ubicate le nuove residenze e attività produttive. La decisione “spetta agli accordi operativi derivanti dalla negoziazione fra l’amministrazione comunale e gli operatori privati”. In sostanza, la pianificazione dei comuni evapora, sostituita dall’esame, caso per caso, delle proposte dei costruttori. Proprio come era previsto da una proposta di legge di Maurizio Lupi, risalente al 2005, a dimostrazione dell’uniformità di vedute in materia di cemento tra centrodestra e centrosinistra. “È un ribaltamento totale della prospettiva”, continua Bonora. “Mentre un tempo la pianificazione serviva ad accreditare la dimensione pubblica della territorialità, oggi è l’esatto contrario, e sono gli investimenti privati che vanno salvaguardati. In Emilia vantiamo la pianificazione come grande scelta pubblica degli anni sessanta-settanta, mentre oggi ci troviamo a essere capofila della privatizzazione”.
Vestita di verde
L’assessora Valentina Orioli – responsabile di ambiente e urbanistica – introduce i lavori parlando delle opere di inserimento e mitigazione del Passante come di una “vera e propria infrastruttura ecologica che accompagna la strada”. Il concetto di “green infrastructure” ritornerà più volte nel corso della mattinata, con l’aggiunta di un pizzico di orgoglio patriottico, perché si tratta di una strategia adottata dall’Unione europea nel maggio 2013 su iniziativa dell’italiana Pia Bucella. Tuttavia, l’idea originaria di cucire tra loro le aree naturali di un territorio qui si traduce in un obiettivo più terra terra: l’infrastructure è l’autostrada/tangenziale e il green è quello che c’è già, va solo pettinato meglio per attenuare il grigio e i rumori. L’architetto Carles Llop, come da copione, si dice onorato di lavorare a Bologna, ricordando quando i professori gli facevano studiare questa città modello e Pier Luigi Cervellati – assessore urbanista dal 1965 al 1980 – era il suo idolo intellettuale. Peccato che Cervellati sia seduto tra il pubblico, schierato con i cittadini che si oppongono al Passante. Llop fa partire una presentazione con 78 slide, fitta di mappe, rendering, tavole a colori. I materiali sono organizzati in base a cinque parole chiave: parchi, percorsi, passaggi, opere d’arte e porte.
Le porte sono una tipica ossessione bolognese, ma il trucco vale per qualunque altra città. Si prende un elemento del paesaggio urbano, carico di storia, caro ai cittadini, ricco di simbologie. Nel nostro caso, le dieci porte superstiti delle antiche mura. Quindi, si assimila a quell’icona una nuova architettura, potenzialmente sgradita, per presentarla come un’espressione del genius loci. A Bologna è già successo con la ripugnante porta Europa, un ecomostro per uffici del gruppo Unipol, che scimmiotta i casseri medievali fin nelle finte merlature, e che dovrebbe essere l’arco trionfale di accesso alla città dalla Fiera, dalle Alpi, dal resto del continente. Un’architettura pensata per favorire incontri e passaggi, ma affollata solo dalle auto che ci scorrono sotto. Ecco perché, quando sentiamo parlare degli svincoli del Passante come delle nuove “porte” di Bologna, un brivido ci scuote. Per carità, l’idea di rampe d’accesso e sottopassaggi che non siano un incubo ciclopedonale è senz’altro meritevole, ma quando si comincia a raccontarli come luoghi di scambio e identificazione, forse si sta esagerando con le pie illusioni. Perché una strada in rilevato a dodici corsie non la cancelli con quattro salici, il wi-fi diffuso e qualche bel lampione. E se la schiaffi in mezzo a una periferia, non sarà mai un polo d’attrazione. Ma su questo, Llop è molto chiaro: non spetta a lui giudicare l’opera. Il suo compito è migliorarne l’inserimento. Insomma, lo stesso obiettivo che i facilitatori hanno indicato ai cittadini durante il percorso partecipativo: essere propositivi, suggerire qualche abbellimento e contribuire a gonfiare una bolla di consenso intorno al Passante di Bologna e ai suoi promotori.
L’intervento sui parchi è affidato alle parole di Andreas Kipar, dello studio Land, già coinvolto nella gentrificazione del quartiere Isola a Milano. Anzitutto, scopriamo che i parchi hanno una doppia funzione, come luoghi del tempo libero e spazi di mitigazione dell’opera. Grazie a questo duplice obiettivo, rientra nella definizione anche una zona interclusa, un filare di pioppi, un’aiuola spartitraffico. Accade con i parchi quel che abbiamo già visto per le “porte”. Anche questa è un’idea passepartout, un lasciapassare: chi semina parchi è sempre benvenuto. Eppure, non è affatto detto che un parco sia sempre e comunque una buona notizia. I paesaggi che accompagnano la tangenziale bolognese sono un impasto molle, in precario equilibrio chimico, di ruderi, palazzoni, squarci di campagna, canali, colonie feline, fasce boscate, rimesse di ferraglia, artigiani in baracche, sfasciacarrozze, centri commerciali, sottopassaggi dormitorio, cartelli “vendesi”, scavatrici, arredi da parco urbano spruzzati sui prati, sentieri nascosti, orti, studi di registrazione e startup ricavati in vecchi fienili. Un territorio nel quale qualsiasi intervento di “riqualificazione urbana” deve stare attentissimo a non cancellare ricordi e uniformare differenze, accorciando insieme all’erba anche il respiro delle storie.
Ci vuole l’albero
Kipar mostra i rendering del nuovo parco Nord, che sarà rinverdito, riforestato, rinaturalizzato. Nell’immagine, si vede un tizio che va in monociclo sull’erba e sullo sfondo, oltre una fioritura di pruni, spiccano le due torri, che da parco Nord non si vedono manco con il binocolo. A ulteriore illustrazione del futuro dell’area, una foto mostra un concerto sul prato… del parc de la Villette, a Parigi. Grande spazio viene dato all’idea di connettere i parchi tra loro, con piste ciclabili, sottopassi pedonali e sentieri. Nelle slide che scorrono sul telo, non c’è l’ombra di un’automobile, eppure il motivo per cui siamo qui è una strada a 12 corsie. Kipar parla di trasformarla da ferita che taglia il territorio a sutura che lo tiene insieme, ma ripete troppo spesso “basta con l’ornamentalismo, basta con i giardinetti in mezzo alle rotonde” e l’impressione è che voglia scacciare un fantasma. Infatti, dopo aver parlato di ecotoni e biodiversità, l’architetto tedesco si lascia scappare una frase rivelatrice: “L’albero è un’architettura vegetale che piace sempre di più”.
Gli fa eco Paolo Desideri dello studio Abdr, orgoglioso responsabile di quelle che negli appalti italiani si chiamano ancora “opere d’arte”, quasi a voler preservare la gloriosa tradizione romana di coniugare architettura e ingegneria. Desideri quindi si occuperà di barriere antirumore, cavalcavia, viadotti. E soprattutto della galleria acustica di San Donnino, fiore all’occhiello sul fiore all’occhiello, grande sfoggio di attenzione per i cittadini del quartiere più segnato dal passaggio dell’A14/Tangenziale. Non a caso, di tutti i rioni che abbiamo visitato lungo l’infrastruttura, San Donnino è quello che più fa sentire la sua opposizione al passante, con striscioni, tazebao e volantini. Uno di questi ritrae uno scheletro intento a fare jogging. La didascalia recita: “Andava tutti i giorni a correre nel giardino pensile sul Passante di Bologna”. Giardino pensile, ecodotto, galleria fonica: comunque lo si voglia chiamare, si tratta di un tunnel artificiale, steso sopra le 12 corsie della nuova strada, e rivestito da “un panneggio ambientale”, un “manto verde”, secondo le parole dello stesso Desideri. E dunque alberi, perché piacciono sempre di più, e giardini usati come camouflage. A dispetto del grande impegno progettuale, l’obiettivo reale di questi interventi emerge dai lapsus linguae. L’elemento naturale serve a infilare il pugno d’asfalto in un guanto di velluto verde.
Racconti che la benzina quasi quasi quasi purifica l’aria
In realtà la risposta alla domanda è fin troppo facile, e altrettanto deludente: le proiezioni fatte da Autostrade sono fondate su pensieri speranzosi, più che su solide realtà. Il ritmo con cui gli automobilisti cambiano la vettura è condizionato dai redditi in calo e dalla precarietà lavorativa, e i dati delle emissioni dei nuovi modelli di auto sono notoriamente poco affidabili. Inoltre il governo Renzi, dello stesso segno dell’amministrazione bolognese, si è caratterizzato come uno dei meno virtuosi: “Tra i paesi dell’Europa occidentale l’Italia veramente balza all’occhio come quella che vuole rinviare e indebolire” norme più stringenti sui test per le emissioni dei veicoli, dice Julia Poliscanova dell’associazione Transport & Environment a Radio 24. Infine andrebbe sempre ricordato che costruire un’auto nuova inquina quanto guidarla per tutta la sua vita utile, quindi sarebbe doppiamente saggio frenare gli entusiasmi attorno al “rinnovo parco auto”. Il wishful thinking di Autostrade è interessato: dire che le nuove auto quasi quasi quasi purificano l’aria è parte della campagna comunicativa che conduce, anche per conto delle istituzioni, a favore del Passante di Bologna. Ma non è un caso isolato: una schiera di ideologi di un modello di città integralmente privatizzata va ripetendo la stessa presunta profezia. Il milanese Giacomo Biraghi, già uomo dei social di Expo 2015, scrive: “Nonostante un decennio di lotta allo sviluppo della mobilità individuale e di investimenti sulla mobilità collettiva, le auto resteranno protagoniste delle nostre città. Saranno sempre meno a combustione e sempre più a trazione elettrica, con versioni innovative che si guidano da sole […]. Dovremmo cominciare a ripensare all’equilibrio di attenzione, spesa corrente e investimenti tra trasporto pubblico e nuovi sistemi di mobilità personale”. Il contenuto politico è chiaro: il ritorno delle auto ovunque e il disinvestimento nel trasporto pubblico. A Bologna in tanti pensano esattamente lo stesso, ma la comunicazione risulta distorta dal mito autocompiaciuto del buongoverno emiliano. Così si arriva a sostenere che allargare autostrada e tangenziale è l’atto inaugurale di una stagione di riscatto… per la mobilità ferroviaria!
Lo scarico calibrato e un odore che non inquina
Il racconto del Passante di Bologna si arricchisce così di un terzo livello di privatizzazione, dopo quelli che abbiamo già visto nelle puntate precedenti. Il primo è nel rapporto ombelicale con Autostrade, che condiziona tutte le scelte sulla mobilità; il secondo consiste nella privatizzazione ed esternalizzazione del rapporto tra cittadini e amministratori; quello definitivo, nella privatizzazione della politica ambientale, ridotta a semplice questione di consumi individuali. Stabilita questa equazione mistificante, si possono tranquillamente condurre politiche che generano traffico (e cementificazione) senza ritenersi responsabili delle conseguenze. Si promette la fluidificazione del traffico grazie al Passante di Bologna, e nello stesso tempo si genera traffico con Fico, parco tematico fintissimo ma vero centro commerciale della smisurata galassia Coop. Fico ambisce a milioni di visitatori; gran parte di loro sono attesi in automobile e dunque andranno a intasare nuovamente l’infrastruttura – ma questa contraddizione svanisce nella bolla di irrealtà in cui è immersa Bologna, e si perde nel gioco di rifrazioni della dialettica emiliana. Il giorno dopo la sconfitta al referendum costituzionale viene presentato un “ordine del giorno” in consiglio comunale. Il documento si limita a chiedere un maggiore coinvolgimento dei consiglieri nelle decisioni che riguardano il Passante. La prima firmataria è un’alleata esterna, Amelia Frascaroli, ma il testo è approvato grazie ai voti favorevoli (e alle astensioni) nelle file del Partito democratico. Il sindaco Merola la prende molto male, l’assessora Priolo reagisce in modo scomposto. L’accusa che rivolge a Frascaroli e, implicitamente, ai consiglieri Pd che ne hanno sostenuto la mozione, è quella di non essere stati presenti “al percorso di condivisione con i cittadini, quando c’erano da prendere i pomodori in faccia”, e di presentarsi solo “alla fine (a pomodori scansati, ad assemblee pubbliche durate fino all’una di notte, a più di mille cittadini ascoltati)”. Noi in quelle assemblee c’eravamo e non abbiamo visto volare pomodori, nemmeno quelli Gentry della galleria Cavour. A quanto pare, la scarsa consuetudine con il conflitto porta a scambiare per ortaggi le fin troppo disciplinate critiche di un pugno di bolognesi, peraltro vigilati da uno stuolo di esperti e difficilitatori. Ma come abbiamo visto, la dialettica del Pd è autoreferenziale, al punto da inventarsi agguerritissime opposizioni, nei confronti delle quali ergersi a eroici e coraggiosi paladini.
Noi, per non assecondare quest’epica farlocca, i pomodori ce li siamo mangiati e abbiamo preferito scrivere quest’inchiesta in tre puntate. Per mettere un freno al verde fasullo, alla partecipazione bugiarda e alle immagini finte della nostra città.
Nel corso dell’inchiesta siamo stati accompagnati da versi di canzoni, utilizzati come titoletti dei diversi paragrafi.
Quelli della prima puntata sono questi:
Guarda la fotografia (La fotografia, di Enzo Jannacci, 1991)
Col trattore in tangenziale(Andiamo a comandare di Fabio Rovazzi, 2016)
I lupi e gli agnelli (Lupi e agnelli, di Fausto Amodei, 1965)
Chilometri da odiare (Autostrada, di P. Cassella e D. Baldan Bembo, 1981)
E si aggrappa al passante più vicino (She’s lost control dei Joy Division, 1979)
Scopri sempre che c’è un’alternativa (Un’alternativa di Irene Grandi, 2015)
Stasera pago io (di Domenico Modugno, 1962)
Luglio, agosto, settembre (nero) (degli Area, 1973)
La playlist della seconda puntata è questa:
Per vedere di nascosto l’effetto che fa (Vengo anch’io. No, tu no di Jannacci, Fo e Fiorentini, 1968)
Libertà è partecipazione (La libertà di Giorgio Gaber, 1972)
(Non) sarà un’avventura (Un’avventura di Battisti e Mogol, 1969)
Anagramma (quasi) perfetto di facilità (Ballando con una sconosciuta, di Francesco Guccini, 1990)
Viaggi e miraggi (di Francesco De Gregori, 1992)
L’ultima occasione (di Del Monaco, Fontana e Meccia. Incisa da Mina, 1965)
La colonna sonora di quest’ultima parte è:
Abbandonàti (e perciò sopravvissuti) (Il mio canto libero, di Battisti e Mogol, 1972)
Nubi di ieri sul nostro domani odierno (di Elio e le Storie Tese, 1989)
Ci ho pensato su, non consumo più (Cicciottella di Lauzi, Caruso e Baudo. Incisa da Loretta Goggi, 1979)
Vestita di verde (Verde, dei Diaframma, 1990)
Ci vuole l’albero (Ci vuole un fiore di Bacalov, Endrigo e Rodari, 1974)
Racconti che la benzina quasi quasi quasi purifica l’aria (Ma è un canto brasileiro di Battisti e Mogol, 1973)
Lo scarico calibrato e un odore che non inquina (Il motore del 2000 di Dalla e Roversi, 1976)
«Il “confronto pubblico” non è quindi importante di per sé, ma come lubrificante politico, utile a sbloccare l’Italia e garantire che i progetti si facciano, senza troppe rotture di scatole. Lo “strumento di democrazia” del sindaco è uno strumento privatizzato per una democrazia esternalizzata». Internazionale online, 10 dicembre 2016 (p.d.)
Pubblichiamo la seconda puntata del reportage in tre puntate condotto da Wolf Bukowski e Wu Ming sul Passante di Bologna (la prima puntata la trovate qui).
Per vedere di nascosto l’effetto che fa
Il ponte di mattoni rossi sulla via Emilia, a cavallo del fiume Reno, ha ottenuto fama letteraria con il nome di Pontelungo. Nelle pagine di Riccardo Bacchelli lo attraversano prima il diavolo, con addosso un cappello a cilindro gibus, di quelli tenuti in forma da molle nascoste, e poi l’anarchico Bakunin. Oggi è piuttosto malandato, ha un marciapiede transennato e attende da tre anni lavori urgenti che lo mettano in sicurezza. Superato il ponte si svolta a destra, verso l’aeroporto di Bologna, e lungo la strada s’incontra La Birra, un quadrilatero di case stretto tra la ferrovia, il fiume e la tangenziale; nella frazione c’è la scuola elementare, e accanto alla scuola, la palestra. Sul pavimento in gomma, con le linee dei campi da basket e pallavolo, ci sono per l’occasione dieci tavoli rotondi. A uno di questi è seduta la signora, accanto a lei il suo deambulatore. È venuta fin qui e ha atteso paziente l’inizio dei “tavoli di discussione” per poter dire quello che la inquieta. Però, quando viene il suo momento, anche noi, che le sediamo vicini, non capiamo quel che dice, perché ogni tavolo discute in contemporanea, contendendo agli altri lo spazio acustico della palestra, dove l’altissimo soffitto fa di ogni brusio un frastuono. Cogliamo giusto qualche parola, “la mia casa… esproprio… mila euro”, e questo basta a lasciarci intravedere il dramma. La signora perderà la casa, nel luogo dei suoi ricordi ci sarà uno svincolo nuovo di zecca, e teme che i soldi dell’indennizzo “a prezzo di mercato” non bastino per una sistemazione altrettanto dignitosa.
Per fortuna ogni tavolo ha un facilitatore o una facilitatrice, anche il nostro. La facilitatrice incita la signora a parlare a voce più alta, come ogni santo scolastico giorno fanno le insegnanti nell’edificio accanto con i bambini troppo timidi. Poi, con la stessa pazienza di una brava maestra, aiuta la signora a chiarire il proprio pensiero, compitando con lei parole e concetti – “il prezzo di mercato significa la valutazione del mercato nel momento in cui l’esproprio viene fatto” – e suggerendole di dare al suo tormento una forma propositiva – “tuttavia, possiamo fare una domanda che riguardi specificatamente il criterio con il quale viene determinato il valore dell’immobile”. L’importante, per la facilitatrice, è arrivare a “formulare una domanda” a cui le autorità e “gli esperti” risponderanno. La signora deve essere propositiva affinché il “giro di tavolo” possa proseguire. Dopo di lei intervengono due donne. Parlano con l’esperienza di chi abita vicino alla tangenziale da decenni, non con il lessico affinato da chilometriche riunioni di “antagonisti”. Esprimono, in altri termini, il proverbiale concetto “chi semina strade, raccoglie traffico”. Ma alla facilitatrice non va bene, bisogna…“provare a tradurre questa preoccupazione in una domanda”. Le signore ci cascano e accettano di chiedere informazioni dettagliate sulle… barriere acustiche.
Questa è la “facilitazione”, ovvero la messa in campo (da basket) del “confronto pubblico” sul Passante di Bologna, il processo partecipativo che il sindaco Merola considera uno “strumento di democrazia”. Uno strumento che le amministrazioni usano sempre più spesso, negli ultimi tempi, con risultati molto deludenti. Tra le critiche più diffuse, c’è quella di voler allestire un dibattito di facciata, per poi farsene scudo contro ogni contestazione successiva. “Siamo stati aperti e disponibili, vi abbiamo ascoltato, abbiamo risposto, che altro volete?”.
Libertà è partecipazione
Nel campo delle grandi opere, il precedente che tutti citano, l’esperimento apripista, è il débat public “alla francese”, istituito nel 1994 dopo le violente proteste delle popolazioni locali contro l’alta velocità Marsiglia-Lione. Da allora, tutte le grandi infrastrutture passano al vaglio di un’apposita commissione nazionale, che decide se avviare il confronto. “Ma nel momento in cui lo decide”, spiega Iolanda Romano, esperta di processi decisionali inclusivi, “il confronto diventa obbligatorio e, sottolineo, aperto a tutti. Nel débat public, e questo è importantissimo, non si discute solo del come, ma anche del se, dell’opportunità dell’opera. E deve svolgersi in una fase anticipata rispetto al progetto definitivo”.
Il primato italiano per una “legge sulla partecipazione” spetta invece alla regione Toscana, che ha approvato la propria nel 2007. Secondo i commentatori più entusiasti, si trattava della prima legge al mondo che mirasse a promuovere il coinvolgimento dei cittadini nelle politiche pubbliche in generale e non solo su tematiche specifiche. Eppure, tanta inedita promozione non ha funzionato granché. Il “dibattito pubblico” non si è svolto neppure per la grande opera più controversa, l’ipotesi di sotto-attraversamento Tav di Firenze. La legge stessa prevedeva una valutazione dei propri risultati a cinque anni dall’entrata in vigore. E il risultato della valutazione è che è stata riscritta. Il nuovo testo prevede che il dibattito pubblico non sia più solo un diritto, ma anche un dovere, per i progetti di maggiore impatto. Tuttavia, a fronte di questo “dovere di ascoltare”, non c’è nessun dovere di recepire, nessun rapporto vincolante tra le conclusioni del confronto e i progetti definitivi. Il promotore dell’opera deve rispondere alle critiche e motivare le sue scelte, ma fatto questo può tirar dritto. Così i cittadini, dopo mesi di confronto, si portano a casa la convinzione che partecipare sia una perdita di tempo.
Non va meglio con un’altra legge regionale, quella dell’Emilia-Romagna, introdotta nel 2010. Qui il dibattito pubblico non è obbligatorio, anzi, per ricevere sostegno e finanziamenti, un progetto di partecipazione deve rispondere a requisiti, modalità e criteri fissati dalla giunta regionale. Inoltre, l’ente locale coinvolto deve dare il proprio assenso. Altrimenti, nisba. Quindi, se i cittadini di Roccafritta vogliono avviare un dibattito pubblico sulla nuova fondovalle, devono progettarlo in modo che piaccia alla regione e al loro comune. Così, i dibattiti sgraditi alle autorità locali hanno ben poche possibilità di ricevere un sostegno. Ma se per caso lo ottengono, niente paura: anche in questo caso, le conclusioni del processo partecipativo non sono vincolanti per nessuno.
Questo è il quadro nelle due regioni considerate all’avanguardia per la promozione dei processi partecipativi e di dibattito pubblico. Ma il panorama è ancora più sconfortante se ci spostiamo in ambito nazionale. Nel marzo 2015 è stato presentato un disegno di legge sul débat public, il cui primo firmatario è il senatore Stefano Esposito. L’esigenza che muove i promotori è quella di “colmare il gap infrastrutturale che […] affligge il nostro Paese” e di “superare lo stallo decisionale che affligge la nostra economia”. Una delle cause di questo ritardo sarebbero i cittadini, che si oppongono ai progetti “in quanto percepiti come frutto di decisioni ‘calate dall’alto’ nonostante siano state assunte da rappresentanze democraticamente elette”. “Si tratta di chiudere un’epoca”, continua Esposito, “per aprirne un’altra, attraverso la presa d’atto che il modello […] delle procedure autorizzative previste dalla normativa vigente […], è divenuto, da solo, insufficiente a dare garanzie sulla fattibilità concreta di un progetto”. Il “confronto pubblico” non è quindi importante di per sé, ma come lubrificante politico, utile a sbloccare l’Italia e garantire che i progetti si facciano, senza troppe rotture di scatole.
Mentre il disegno di legge Esposito è all’esame del senato, il parlamento italiano deve occuparsi di tre direttive europee, che obbligano a rivedere le leggi sui lavori pubblici. Il nuovo codice degli appalti entra in vigore il 19 aprile 2016 e tra i cambiamenti che introduce c’è proprio la “consultazione pubblica”. L’articolo 22 la rende obbligatoria per “le grandi opere infrastrutturali e di architettura, di rilevanza sociale, aventi impatto sull’ambiente, sulle città e sull’assetto del territorio”. Un decreto dovrà poi stabilire come individuare tali opere, in base al tipo e alla dimensione, e con quali modalità svolgere il dibattito che le riguarda. Tutti i progetti avviati dopo l’entrata in vigore del codice dovranno sottostare alle nuove regole. Per non sbagliare, il Passante di Bologna viene approvato proprio quattro giorni prima, il 15 aprile, mentre il ministero delle infrastrutture avrà un anno di tempo per emanare il decreto con tutti i dettagli. Tra questi “dettagli” c’è la questione di chi debba condurre la consultazione. Esposito, nella sua proposta, immagina un “soggetto pubblico indipendente” che agisca “in modo assolutamente imparziale”, ma come garantire questa indipendenza e imparzialità è uno degli aspetti più delicati da definire. In Francia, la commissione nazionale per il dibattito pubblico è composta da 25 persone, tra le quali una indicata dalla corte dei conti, sei elette localmente, due scelte dai sindacati, due dalle associazioni di consumatori, due da quelle ambientaliste. La legge toscana sulla partecipazione ha istituito un’autorità, chiamata a svolgere una funzione simile. Sono tre componenti, designati dal consiglio regionale. Considerando che la regione è spesso tra i proponenti delle opere che si vanno a discutere, l’imparzialità di quest’organismo risulta quantomeno dubbia. Nel dibattito sul Passante di Bologna, un “soggetto pubblico indipendente” che gestisse il confronto non si è nemmeno visto, ma l’organizzazione degli incontri è stata affidata a una società privata, individuata con un meccanismo che non è affatto garanzia d’indipendenza. Vediamo perché.
(Non) sarà un’avventura
L’articolo 3 bis dell’accordo per la realizzazione del Passante di Bologna, assegna ad Autostrade per l’Italia il compito di individuare “specifiche professionalità con comprovata esperienza” al fine di attivare un confronto pubblico. Esso “consisterà nella presentazione al territorio […] delle soluzioni progettuali individuate nel Progetto preliminare, attraverso illustrazioni pubbliche e attività di coinvolgimento dei cittadini […] favorendo la proposizione di idee che consentano di raccogliere i vari contributi premiando le migliori soluzioni. Ciò al fine di individuare, […] i possibili miglioramenti da apportare al progetto per favorire un migliore inserimento nel tessuto urbano dell’opera e per ottimizzare l’utilizzo delle risorse”. Torna, ineludibile, l’aria di scuola elementare che si respira nella palestra della Birra. Il confronto pubblico diventa un’attività di coinvolgimento – “Bambini, oggi facciamo un collage!” – attraverso illustrazioni pubbliche – “fermi con quelle forbici: vi faccio vedere come si ritaglia” –, che favoriscano la proposizione di idee premiando le migliori soluzioni: “Siete tutti bravissimi, però faremo una mostra speciale dei lavori dei più bravi dei bravissimi”. Ma i migliori collage non devono andare fuori tema, e possono riguardare solo l’inserimento dell’opera nel tessuto urbano e un più generico “utilizzo delle risorse”. D’altra parte, il “Progetto preliminare”, cioè il punto di partenza del dibattito, è completo fino nei dettagli: dalle rotatorie e gli svincoli da costruire alle canalette di raccolta dell’acqua.
Nel sito del Confronto pubblico, la traduzione in lingua corrente dell’articolo 3 bis lo interpreta ancora più al ribasso. Si tratta, semplicemente, di “presentare con un linguaggio chiaro anche ai non addetti ai lavori il progetto del Passante” e di “ascoltare i cittadini per raccogliere proposte su come migliorare gli interventi di inserimento ambientale, paesaggistico e di protezione acustica”. Un po’ poco per definire il processo partecipativo “una grande occasione per entrare nel merito di un grande progetto”, secondo le parole del sindaco Merola. Pochissimo rispetto al modello proposto da Iolanda Romano, quello in cui “non si discute solo del come, ma anche del se, dell’opportunità dell’opera. E [che] deve svolgersi in una fase anticipata rispetto al progetto definitivo”. Eppure è proprio Avventura Urbana, di cui Romano è fondatrice e presidente fino al febbraio 2016, ad assumere l’incarico di gestire la consultazione bolognese.
Scrive Franco La Cecla, in Contro l’urbanistica (Einaudi, 2015): “Avventura Urbana è […] una agenzia che si occupa professionalmente di organizzare processi partecipativi. Tutto questo è molto bello, ma la mia impressione è che abbia poco scalfito l’urbanistica in quanto tale e sia diventata molto presto un’attività a parte. Come esistono quelli specializzati nel piastrellare un pavimento, così esistono i partecipatori. Questi vengono adoperati da amministrazioni, autorità locali ma anche grosse imprese di progettazione per mediare il rapporto tra progetto e utenti. Diventano facilitatori del consenso, o comunque negoziatori tra le richieste della popolazione e le decisioni dei pianificatori. È il grande campo dell’animazione sociale […] il vastissimo campo del filtro sociale tra utenti sempre meno abituati a far valere direttamente i propri diritti e pianificatori che non vogliono direttamente essere implicati. Serve ad attutire i conflitti, certamente, una specie di professione cuscinetto tra interessi diversi. Il problema è che in questa funzione filtro specializzata tutto si ricompone in maniera tale che poco cambia nella passività degli abitanti e nella vecchiezza dell’impostazione progettuale”.
Nel caso bolognese, come abbiamo visto, è Autostrade che ha incaricato Avventura Urbana. L’accordo dice che la scelta deve avvenire “di concerto con le parti”, cioè con i firmatari pubblici (governo, regione, comune…), ma non è affatto chiaro chi debba pagare le “specifiche professionalità con comprovata esperienza”. Le questioni di soldi, in tutta questa vicenda, sono appena sfiorate, noblesse oblige. Sulle pagine di Avventura Urbana srl, tra i clienti dell’azienda, ci sono Autostrade e la sua controllata Spea, che progetta il Passante, ma non gli altri soggetti. C’è, è vero, la regione Emilia-Romagna, ma probabilmente solo per i servizi formativi forniti da Avventura Urbana dal 2009 al 2011. Inoltre il sito del confronto pubblico, passantedibologna.it risulta registrato dall’azienda che cura la presenza in rete di Autostrade. È quindi evidente che la titolarità del Confronto pubblico va ricondotta ad Autostrade, ed è più che ragionevole supporre che sia Autostrade a pagare Avventura Urbana. Lo “strumento di democrazia” del sindaco è dunque uno strumento privatizzato per una democrazia esternalizzata. Così Autostrade, che ha interesse a realizzare l’opera per avere più veicoli ai caselli bolognesi, paga un altro soggetto privato per gestire la partecipazione e “farsi fare le domande” dai cittadini, domande che però devono essere solo su aspetti marginali.
Anagramma (quasi) perfetto di facilità
Come questo si realizzi sul playground del “Confronto pubblico” è presto detto, basta tornare al tavolo di discussione nella palestra della Birra. Tocca a Valeria, più giovane di età e di residenza nel quartiere rispetto a chi l’ha preceduta. Parla delle minacce alla salute, della partecipazione-farsa, degli impegni su rumore e inquinamento che non sono affatto impegnativi per Autostrade, e poi: “Non cambia nulla se ce lo becchiamo noi l’inquinamento o quelli del Passante nord o sud, il problema è di tutti!”. E ancora: “Invece di fare il compitino delle domande da preparare dobbiamo parlarne tra noi, poi si vedrà se ci interessa fare delle domande agli esperti!”. La facilitatrice cerca di interromperla più volte con la scusa di chiedere chiarimenti, ma Valeria la ferma: “Lei mi chiede mi chiede, ma mi lasci la mia libertà di esporre quello che voglio!”. Due minuti dopo, quando l’addetta ci prova di nuovo, Valeria l’accusa di “non facilitare un bel niente, ma anzi di essere un ostacolo alla comunicazione”. In quel momento, ci si compone in testa il neologismo che descrive quell’infelice ruolo professionale: difficilitatrice. Ostacolare la partecipazione, scongiurare l’emergere di conflitti, indurre gli oppositori a marginalizzarsi da soli: questo il compito dei difficilitatori, parola perfetta proprio perché difficile anche da pronunciare. Il momento si fa meravigliosamente caotico quando la difficilitatrice cerca di trasformare le considerazioni di Valeria in una domanda – “potremmo chiedere se esiste un organo terzo che verifica il rispetto degli impegni in merito a…” –, ma all’improvviso si materializza al tavolo una sua collega dai gradi più alti, reduce di altre impegnative avventure urbane, che si impone e ricomincia a parlare di barriere antirumore. Così viene definitivamente scongiurata l’irruzione della realtà in una discussione fondata su un presupposto immaginario, cioè che “fare le domande” abbia un qualche senso. Valeria si alza e se ne va, sconfitta e irritata per la farsa.
Intorno a noi gli altri nove tavoli: il divide, siedi, et impera. I potenziali oppositori sono messi nell’impossibilità tecnica di diventare massa critica: possono scegliere di costituire un Aventino in un tavolo tutto loro, per essere marginalizzati collettivamente, oppure diluirsi su più tavoli, per essere marginalizzati individualmente. Il report dell’incontro ci informa che tutto è andato secondo i programmi: “Le persone presenti all’incontro sono 147, la discussione si è svolta correttamente ed è stata rispettata la struttura prevista. Tutti i gruppi di discussione hanno condiviso almeno un quesito che è stato sottoposto da un portavoce di ogni gruppo ai tecnici di Autostrade per l’Italia e agli amministratori presenti. […] Nel corso della serata è stato possibile rispondere a tutti i quesiti presentati dai partecipanti”. In conclusione, l’assessora Priolo ringrazia chi ha prestato la propria opera per la riuscita dell’incontro. Sono, dice, venti facilitatori di Avventura Urbana e venti membri dello staff di Autostrade, più “i massimi dirigenti” della società di Benetton e, naturalmente, gli amministratori. Proviamo a fare due conti. Un totale di 45-50 professionisti si è occupato di 147 cittadini: il rapporto è di circa un addetto ogni tre partecipanti. Con grande dispiego di mezzi, la difficilitazione è riuscita. Gli ostacoli alla partecipazione hanno funzionato perfettamente – “è stata rispettata la struttura prevista” – e hanno posto le premesse per futuri Confronti pubblici ancor più intimi.
Successi di questo tipo devono essere premiati. Le revolving doors tra gli esperti “di processi decisionali inclusivi” e le stanze dove si prendono davvero le decisioni sono pronte a girare. Come già nel gennaio scorso, quando Iolanda Romano è stata nominata commissario governativo “per la realizzazione dell’intervento relativo al Terzo Valico dei Giovi”, la Tav Milano-Genova. Da quello scranno, rinnegando il proprio modello – “non si discute solo del come, ma anche del se, dell’opportunità dell’opera”–, Romano promuove confronti pubblici per le compensazioni di un’opera già iniziata. Processi partecipativi a numero chiuso, con meccanismi di iscrizione e verifica quasi polizieschi – “l’iscrizione sarà effettiva solo dopo una conferma telefonica da parte della segreteria”; messe in scena di cui i No Tav denunciano modalità e contenuto. Con una tempistica imbarazzante, poi, l’evento si terrà tre giorni dopo gli arresti di presidente e vice di Cociv, il consorzio incaricato di realizzare l’infrastruttura.
Viaggi e miraggi
Autostrade per l’Italia ha prodotto anche il dossier di partenza del dibattito pubblico, che dovrebbe contenere le informazioni sul progetto utili ai cittadini per discutere nel merito delle diverse scelte. Sono in tutto 44 pagine a colori, più sei appendici di approfondimento: Traffico, Atmosfera, Acustica, Espropri, Cantierizzazione e Opere di adduzione. Sul sito sono poi comparsi – ma solo a dibattito iniziato – ulteriori materiali tecnici, come tavole e planimetrie, rivolti più che altro agli esperti e ai consulenti dei comitati e delle associazioni coinvolte. Il tema più caldo e discusso è quello del traffico e degli inquinamenti che ne derivano, ma farsi un’idea chiara non è per niente facile, e il dossier non aiuta.
Anzitutto, c’è un problema che viene dal passato. L’allargamento in sede dell’A14/Tangenziale fu bocciato nello studio di fattibilità del 2004 (vedi 1ª puntata), con precise motivazioni trasportistiche e sanitarie. Dodici anni dopo è diventato la soluzione ideale per il nodo di Bologna. Va bene “cambiare verso”, va bene “imparare dagli errori”, ma come si spiega un tale ribaltone? Il dossier dovrebbe quantomeno tener conto di quel precedente e far capire ai cittadini perché ieri no e oggi invece sì, fortissimamente sì. Invece snocciola i suoi dati come se niente fosse e il lettore si domanda: perché dovrei fidarmi di questo nuovo studio e buttare alle ortiche il precedente? Delle due, l’una: o nel frattempo è cambiato qualcosa di fondamentale, oppure una delle analisi è clamorosamente toppata. Anzi, potrebbero anche essere sbagliate entrambe: non sarà che queste previsioni del traffico, pur con tutti i loro numeri e formule, sono meno attendibili di un oroscopo? Lo studio del 2004 presentava una proiezione fino al 2011. La crescita della domanda di trasporto era stimata intorno all’1,5 per cento annuo. Oggi sappiamo che nel 2011 il traffico del nodo bolognese è tornato ai livelli dei primi anni duemila. Quindi è questa contrazione il Grande Cambiamento che ha cambiato tutto? Nessuno aveva previsto la crisi economica globale, con la conseguente diminuzione di mezzi sulle strade, così che un progetto sbagliato nel 2004 è diventato giusto nel 2016? A studiarsi le carte, non pare questo il motivo, perché anche il dossier di Autostrade parte dall’incrollabile certezza che il traffico aumenterà, tornando ai livelli registrati prima del 2008, annus horribilis del motore a scoppio e dell’economia italiana. La sfera di cristallo dice +6,7 per cento nel 2025 e +10,1 per cento per il 2035. Il calcolo non si basa sulla Smorfia, bensì sull’andamento demografico Istat e sulle stime del prodotto interno lordo nazionale. Ma basta scrivere “Istat rivede stime pil” su un motore di ricerca, per scoprire che l’istituto di statistica ritocca ogni anno le sue previsioni. Il dato, insomma, non è di quelli scolpiti nel granito.
Non è dunque la fede nel traffico a differenziare i due studi. E allora perché uno ha bocciato il Passante e l’altro invece lo promuove? I tecnici del 2004 scrivevano che “il potenziamento in sede è l’unica ipotesi che produce un incremento [dei chilometri percorsi sulla rete] anche rispetto allo scenario tendenziale”. In sostanza, temevano che l’allargamento dell’A14/Tangenziale avrebbe portato i veicoli a percorrere più chilometri sulle strade di Bologna. Questo dato, espresso in “veicoli per chilometro”, ha uno stretto legame con l’inquinamento, perché più chilometri percorrono auto e camion e più aumentano le emissioni. Oggi, invece, il dossier di Autostrade sostiene che il Passante di Bologna porterà a una grande riduzione delle percorrenze sulla rete (meno 46 milioni di veicoli per chilometro in un anno), dal momento che la viabilità urbana si decongestionerà, non dovendo più sopportare le auto di chi evitava la tangenziale intasata. A prescindere da chi dei due abbia ragione, è interessante notare la differenza nel modo di esprimere i dati. Lo studio del 2004 sostiene che l’allargamento in sede comporterà un aumento del 7 per cento dei “veicoli per chilometro” – cioè delle percorrenze sulle strade – mentre il dossier giura che diminuiranno di 46 milioni in un anno. A parte il fatto che la rete stradale considerata non è la stessa, è significativo che il dossier di Autostrade si giochi il numerone (46 milioni! Urca!) e non fornisca una percentuale (che faccia capire quanto valgono quei milioni rispetto al totale). Per dare un’idea, basta pensare che nelle strade bolognesi studiate nel 2004, i veicoli per chilometro di un giorno medio erano 10.798.653. Quindi il numerone – 46 milioni di veicoli per chilometro in un anno – equivale a quattro giorni di traffico. Quattro giorni in un anno, equivale a una riduzione dell’1,1 per cento. Non va molto meglio per l’altro numerone proposto dal dossier, due milioni di ore di viaggio risparmiate ogni anno. “Ridiamo tempo di vita ai cittadini!”, hanno titolato i giornali citando il sindaco. Però, aspetta: quei due milioni di ore saranno risparmiati in un anno da tutti i veicoli che battono il nastro A14/Tangenziale, considerati insieme appassionatamente. E quanti saranno questi veicoli? Il dossier prevede che i mezzi, sul Passante di Bologna, arriveranno a 180mila al giorno nel 2025, cioè 65,7 milioni in un anno. Dividiamo il numerone, due milioni di ore, per tutte queste auto, camion e vetture ed ecco che la montagna partorisce un topolino: un minuto e quarantotto secondi di risparmio medio per ogni veicolo.
Da questi dati sul traffico – poco affidabili, discordi tra loro e presentati in maniera oscura – discende la maggior parte delle considerazioni sullo smog, il rumore e la salute dei cittadini, delle quali ci occuperemo nella prossima puntata. Qui vogliamo solo ricordare che lo studio di fattibilità del 2004 aveva bocciato il potenziamento in sede perché avrebbe prodotto “in particolare per alcuni inquinanti, quantità di emissioni superiori”. Ovvero: +11,4 per cento di ossidi di azoto e +4,6 per cento di anidride carbonica. Inoltre, avrebbe comportato “circa il 20 per cento in più di popolazione esposta a valori di rumore superiori ai 55dB(A)”. Per Autostrade, invece, il Passante di Bologna sarà tutta salute. Ma i suoi vantaggi non finiscono qui.
L’ultima occasione
“Con questo accordo”, ha dichiarato Irene Priolo, “abbiamo portato a casa mitigazioni ambientali e opere stradali che i cittadini aspettano da 30 anni”. Opere architettoniche, paesaggistiche e di ricucitura urbana che sono il fiore all’occhiello di tutto il progetto, ma che erano in gran parte previste dal piano strutturale comunale per la “città della tangenziale”. Opere dovute che si trasformano in “gentili omaggi”. Una metamorfosi molto diffusa, nel sistema delle grandi opere. Tra le “compensazioni” si inseriscono anche lavori che erano già in programma, necessari per il territorio. In questo modo l’opera diventa l’Occasione unica e imperdibile per esaudire quelle antiche promesse, e chi la ostacola è un mestatore che vuol privare tutti di un bel regalo. Infine, l’ultimo vantaggio del Passante di Bologna propinato alla cittadinanza è il minore consumo di suolo rispetto al Passante nord. Dato innegabile, ma relativo. Rispetto a una bastonata in testa, meglio un ceffone. E se dopo il ceffone ti offrono cinque cioccolatini? Il male passa più in fretta, no? Con una logica simile, il sito del Confronto pubblico proclama che le “aree a verde” previste dal progetto saranno “superiori a cinque volte l’occupazione di nuovo suolo”. Detto così, uno si immagina che a ogni ettaro di terreno asfaltato ne corrisponderanno cinque di nuovi parchi, giardini e fasce boscate. Invece, studiando meglio le carte, si scopre che tra queste “aree a verde” sono calcolati anche parchi già esistenti, dove si pianterà qualche nuovo albero, e pure le “aree intercluse”, cioè gli spazi completamente circondati da uno svincolo. Di nuovo, invece di favorire il dibattito, sembra che i suoi promotori siano più interessati a confezionare slogan accattivanti e numeri da ufficio stampa.
Dodici anni fa, quando il comitato per l’Alternativa propose il potenziamento in sede dell’A14/Tangenziale, sembrava si trattasse di un intervento a “impatto zero”, senza consumo di suolo. Lo studio di fattibilità degli enti locali dichiarò quel risultato impossibile da raggiungere, evidenziando la necessità di espropriare 54 ettari di terreno. Oggi Autostrade sostiene di potercela fare con 20 ettari, più altri 20 “temporanei” e la demolizione di quattro fabbricati residenziali, due rurali, due magazzini artigianali e un deposito. L’equivalente di 31 campi da calcio finirà sotto asfalto e guardrail, mentre altri 31 saranno occupati temporaneamente, e chissà come saranno ridotti dopo. In Italia, più del 5o per cento del territorio cementificato è coperto da infrastrutture di trasporto. Edifici e capannoni si “limitano” al 30 per cento. Forse in un futuro radioso si potranno allargare le strade senza mangiare terreno, e le auto emetteranno effluvi di ragù, ma per il momento non sembra possibile conciliare il motto “meno consumo di suolo” con il ritornello “servono più infrastrutture”.
Nell’ultima puntata della nostra inchiesta metteremo le scarpe nel fango, lungo i margini della tangenziale, per confrontare le promesse da confronto pubblico, con quel che davvero si vede, si tocca e si respira oltre i guardrail e le barriere antirumore.
«La fede nel buon governo locale, erede della leggendaria pianificazione riformista degli anni sessanta, si è trasformata nel culto di Asfalto, Mattone, Tondino e Cemento». Internazionale online, 7 dicembre 2016 (p.d.)
wumingfoundation.com, 3 dicembre 2016
IL «PASSANTE DI #BOLOGNA»:
UNA DISAVVENTURA URBANA
di Wu Ming e Wolf Bukowski
Da alcuni mesi facciamo inchiesta su una grande opera inutile e imposta: il cosiddetto «Passante di Bologna». Il caso è molto interessante e ha rilevanza nazionale, per diversi motivi.
Le ipotesi per risolvere i problemi di traffico del nodo bolognese si rincorrono ormai da vent’anni. Nel 2005 ha iniziato a consolidarsi quella del cosiddetto «Passante Nord», una bretella autostradale che doveva tagliare la campagna a Nord della città, collegando Anzola Emilia (A1), Altedo (svincolo A13) e San Lazzaro (Uscita A14). Quel progetto, già finanziato, è stato respinto l’anno scorso, grazie all’azione di un comitato e dei sindaci dei comuni interessati. Ma il comitato ha scelto di «non dire soltanto no» e ha proposto una “brillante” alternativa: l’allargamento di una corsia per senso di marcia dell’infrastruttura congiunta autostrada/tangenziale, che già ammorba la periferia bolognese. E così, un comitato che all’inizio contestava la ratio stessa del progetto, ha finito per scaricare il barile sui cittadini di un altro territorio.
Il comune di Bologna ha approvato e sottoscritto il nuovo progetto a fine luglio. Dai primi di settembre è partita una fase di consultazione dei cittadini, che si è conclusa a metà ottobre dopo aver messo in mostra tutte le più bieche strategie per svuotare di senso un percorso partecipativo, a partire dall’esclusione a priori dell’«opzione zero». Ovvero: la cittadinanza è stata chiamata a esprimersi su una decisione già presa.
Abbiamo partecipato ad alcuni degli incontri, abbiamo preso appunti e nelle settimane seguenti abbiamo approfondito, fino a farci un’idea molto precisa delle tattiche di evaporazione del conflitto, del ruolo dei «facilitatori» e delle loro agenzie, dello svuotamento di ogni pratica partecipativa.
La finta partecipazione, ovviamente, è soltanto uno dei problemi. Il progetto è un luna park di interventi compensativi implausibili, parchi in luoghi improbabili, piste ciclabili fantasma, sottopassaggi spacciati per «le nuove porte della città». Ma l’irrazionalità di questo progetto, che peggiorerà la vita dei cittadini e gioverà solo ad Autostrade e alle lobby dell’edilizia e dell’asfalto, non si può comprendere appieno senza il racconto di come ci si è arrivati. Sullo sfondo – o meglio: a far da cornice al tutto – la fine della programmazione territoriale «all’emiliana», l’amore cieco del Pci/Pds/Ds/Pd per il cemento, i precedenti di altre opere inutili in salsa bolognese (abortite, in costruzione o già realizzate per poi essere sconfessate): Civis, People Mover, Centro Agro Alimentare, FiCO, Stazione AV…
Abbiamo proposto a Internazionale un’inchiesta in tre puntate. La prima è da poco on line, illustrata dalle foto di Michele Lapini. Buona lettura.
Eddyburg pubblicherà le successive puntate appena saranno rese disponibili.
Internazionale, 3 dicembre 2016
IL PASSANTE DI BOLOGNA:
UNA DISAVVENTURA URBANA
di Wu Ming e Wolf Bukowski
1a puntata
Al centro dell’inquadratura campeggia uno svincolo autostradale, di quelli che in gergo si chiamano a quadrifoglio completo. Tutt’intorno, a volo d’uccello, si stendono boschi, prati, un fiume e un’anonima cittadina, resa ancor più irriconoscibile dall’effetto di sfocatura ai margini dell’immagine. Il paesaggio è un’esplosione di verde, per lo più abeti, appena interrotti da larici e faggi in veste autunnale. Sopra uno spicchio di foresta, si staglia un simbolo bianco. Archi di circonferenza che ricordano onde radio, come nel logo del wi-fi, ma potrebbe anche essere un orecchio stilizzato, o la curva di una strada a quattro corsie. Subito accanto, una scritta in corsivo recita: “Confronto pubblico”. E una riga sotto, in grassetto, “Passante di Bologna”.
Già alla prima occhiata, avvertiamo che qualcosa non torna, come di fronte a un quadro di Magritte. Chi mai le ha viste, tante conifere, nella campagna intorno alle due torri? Stregati dall’enigma, perlustriamo la rete in cerca di autostrade, foreste, svincoli, alberi e verde. Traduciamo le parole chiave in inglese, francese, tedesco. Passiamo al setaccio i risultati e una fotografia s’impone sulle altre. Autobahnkreuz Oberpfälzer Wald. La prospettiva non è la stessa, ma molti elementi corrispondono. Troviamo altre immagini, mappe digitali, e un laghetto artificiale perfettamente rotondo ci conferma che abbiamo fatto centro. Lo scatto ritrae la foresta dell’Alto Palatinato, in corrispondenza dell’incrocio tra due autostrade, la A6 e la A93. Il paese sullo sfondo non è Casalecchio di Reno e nemmeno San Lazzaro di Savena, bensì Wernberg, Baviera.
Inquieti, ci domandiamo per quale motivo il sito ufficiale per il confronto pubblico sul Passante di Bologna sia illustrato con l’immagine di uno svincolo tedesco. Considerando che per quattordici anni si è favoleggiato di aggirare Bologna con una nuova autostrada, e si è discusso di quanto a nord costruirla rispetto alla città, si potrebbe pensare che il “confronto pubblico” riguardi la proposta di farle attraversare l’Alto Palatinato, ma la regione tedesca sembra davvero troppo a nord. E poi quell’autostrada – il cosiddetto Passante nord – appartiene ormai al passato. Il 22 luglio scorso Virginio Merola, sindaco metropolitano da poco rieletto, ha presentato un progetto alternativo. Non più colate di cemento sulla campagna bolognese! Non più consumo di suolo! Ecco a voi il “potenziamento in sede del sistema autostradale e tangenziale”. Battezzato con il nome di Passante di Bologna, altrimenti detto Passante di mezzo. Ovvero l’aggiunta di quattro corsie alla mezzaluna d’asfalto che da cinquant’anni taglia la periferia della città. Il borgomastro, nel suo discorso, ha speso parole suggestive: “rigenerazione urbana”, “svincoli [che diventano] nuove porte della città”, “ridare ai nostri cittadini tempo di vita”, “cantieri [che] hanno bisogno di un’anima”, “dimostrare al resto del Paese che può contare su Bologna”. Ma soprattutto, ha magnificato “uno strumento di democrazia che affrontiamo per la prima volta”: il confronto pubblico.
Stregati da una simile occasione, ci siamo subito diretti alla piazza virtuale del dibattito, il sito passantedibologna.it, dove trovare tutti gli strumenti per “costruire insieme, nella massima trasparenza, la migliore soluzione per la città”. Ci siamo imbattuti così, per la prima volta, nell’immagine sfocata e traditora dell’Autobahnkreuz Operpfälzer Wald. Quattro mesi più tardi, osservandola con più attenzione, ci rendiamo conto che quell’istantanea della foresta palatina, con le due scritte bianche che l’attraversano, non racchiude una sola bugia, ma addirittura tre, nella nobile tradizione di Simon Pietro. Anzitutto, mente dal punto di vista descrittivo, perché quello non è il Passante di Bologna. Poi mente in senso evocativo, perché le parole “confronto pubblico” suggeriscono una realtà molto lontana dai dodici incontri che sono stati promossi in città. Infine mente anche sul piano metaforico, perché nessun passante, snodo o svincolo “di Bologna” potrà mai essere verde e boscoso come quell’incrocio di autostrade tedesche.
Smascherare queste tre bugie è l’obiettivo della nostra indagine: nella prima puntata, cercheremo di illustrare cos’è davvero il Passante di Bologna; nella seconda, racconteremo gli incontri del “confronto pubblico”, ai quali abbiamo partecipato, “per vedere di nascosto l’effetto che fa”; nella terza, osserveremo in che modo il progetto di allargamento di autostrada e tangenziale sia stato verniciato di un verde che non è verde, finto come un bosco d’abeti nel bel mezzo della pianura padana. Sono tre piccole storie locali, eppure siamo convinti che sia utile conoscerle anche fuori dei confini della città, e non solo perché il nodo autostradale di Bologna è uno dei più nevralgici della penisola.
L’Emilia-Romagna, negli ultimi vent’anni, ha ispirato molti cautionary tales, racconti ammonitori su cosa succede al territorio quando i cittadini non si preoccupano delle sue trasformazioni. L’alta velocità Bologna-Firenze, la variante di valico, il viadotto modenese della linea alta velocità Bologna-Milano, sono esempi ormai noti in tutt’Italia tra coloro che si battono per la tutela del paesaggio. Lo stesso può dirsi per alcuni disastri urbanistici, come il cantiere dell’ex mercato Ortofrutticolo di Bologna o la cementificazione selvaggia e ‘ndranghetista nelle province di Parma e Reggio Emilia. La fede nel buon governo locale, erede della leggendaria pianificazione riformista degli anni sessanta, si è trasformata nel culto di Asfalto, Mattone, Tondino e Cemento. Autostrade, megastazioni e ferrovie veloci sono sempre benedette dal clero laico degli amministratori e accettate senza tanti disturbi dalla maggioranza del popolo.
Proprio il Passante nord sembrerebbe la prima, grande infrazione della liturgia. L’opera è stata contestata dai cittadini e poi respinta dopo tredici anni di manifestazioni e migliaia di firme. Solo che non si è trattato di una bocciatura. L’infrastruttura è stata respinta più in là, dalla campagna bolognese alla periferia cittadina, e con essa si sono trasferiti anche il danno e la beffa, scaricati soprattutto sui residenti di cinque quartieri. Non una vittoria degli eretici, quindi, ma sostanza per un nuovo racconto ammonitore, che aiuti a non ripetere altrove gli errori fatti da queste parti. In fondo, come disse il poeta Miguel Torga, l’universale è il locale senza i muri.
Col trattore in tangenziale
Martedì 11 luglio 1967, a pagina 4 di l’Unità, un articolo firmato da Luciano Vandelli celebrava “l’ultima domenica d’estate in cui Bologna ha dovuto filtrare attraverso i suoi congestionati itinerari cittadini le diaspore motorizzate che convogliano fiumi di automobili verso la riviera adriatica”. Alle 22 del giorno successivo sarebbe entrata in funzione la tangenziale, “un raccordo ancora unico nel suo genere in Italia”, con la caratteristica di “affiancare ai percorsi autostradali del traffico di transito, due nastri complanari, che collegano la viabilità ordinaria”. L’autore del pezzo non mancava di lodare “la felicissima intuizione che più di dieci anni fa fece vincolare dal sindaco Dozza una fascia di centodieci metri di larghezza, lungo quello che oggi è il tracciato della tangenziale nord”.
La lungimiranza di Dozza in quell’occasione è ormai un attributo del suo santino ma, per comprenderla davvero, bisogna aggiungere almeno due dettagli. Primo, che la tangenziale complanare fu il risultato di un baratto. In cambio di quella, la società Autostrade (allora di proprietà statale) ottenne di costruire l’A14 a tre chilometri da piazza Maggiore, a ridosso della prima periferia, con il vantaggio di un tragitto più breve.
Secondo, che solo quattro anni prima, nel 1963, il vecchio sindaco partigiano aveva celebrato il funerale dell’ultimo tram. Sotto la sua guida, Bologna smantellò 16 linee su rotaia, una rete capillare, elettrica e sostenibile di 75 chilometri e 155 mezzi. La sua previdenza non si spingeva oltre i confini di una certa idea di progresso, secondo la quale il futuro doveva battere al ritmo del motore a scoppio. Da allora, il capoluogo emiliano non ha mai brillato per le idee innovative sulla mobilità, se si esclude una minuscola isola pedonale, in anticipo sui tempi italiani (1968), e la breve stagione degli autobus gratuiti nelle ore di punta (1973-76).
Oggi la città è famosa per il Civis, un filobus a guida ottica, acquistato, mai usato e infine ripudiato perché insicuro, dopo anni di lavori per adattare le strade al suo passaggio. Nel 2013, mentre i 49 esemplari del superfilobus marcivano in un parcheggio di periferia, veniva inaugurata la stazione bolognese dell’alta velocità, progetto vincitore di un concorso internazionale bandito da Rete Ferroviaria Italiana. Tre anni dopo, la stessa Rfi considera l’enorme astronave sotterranea “un esempio critico”, perché “a fronte di grandissimi spazi necessari, la frequentazione dei passeggeri è molto bassa”. Per non parlare del People mover, la navetta per l’aeroporto, tutta su monorotaia soprelevata nuova di zecca, quando un collegamento analogo si poteva ottenere aggiungendo pochi binari alle linee ferroviarie già esistenti. Prima ancora dell’inaugurazione dei cantieri, il People mover si è guadagnato le prime pagine dei giornali con un processo per turbativa d’asta e abuso d’ufficio nell’appalto al Consorzio Cooperative Costruzioni, mentre due mesi dopo l’inizio dei lavori la procura ha aperto un altro fascicolo per favoreggiamento e abuso d’ufficio. Ma Civis, Astro-stazione e People mover non erano ancora all’orizzonte quando cominciò a farsi strada l’idea di un ritocco alla tangenziale.
Nell’autunno del 1985, Italia Nostra promosse il convegno nazionale “La strada sbagliata. Nuova politica dei trasporti”. L’iniziativa coinvolgeva tre sindaci “dissidenti” e due eroi della pianificazione riformista, Giuseppe Campos Venuti e Pierluigi Cervellati. Nell’affollato cinema di Sasso Marconi, gli intervenuti contestavano la regione Emilia-Romagna per aver approvato il “progetto irragionevole” di un raddoppio appenninico dell’Autosole, quello che allora si chiamava “camionabile” e che oggi conosciamo come variante di valico. Le accuse rivolte ai sostenitori della nuova autostrada erano principalmente due. Quella di insistere su un modello di mobilità basato sulla gomma e quella di voler ottenere, in cambio del via libera alla camionabile, “il raddoppio della tangenziale bolognese”. Anche la loro preveggenza andrebbe ricordata: trent’anni dopo, mille capriole dopo, appena inaugurata la variante si è arrivati proprio al risultato previsto. Il potenziamento in sede del sistema autostradale tangenziale.
Variante di valico e “allargamento dell’A14 – Terza corsia tangenziale di Bologna” si tenevano a braccetto anche nella convenzione del 1997, quella con cui lo stato si preparava a far cassa vendendo la società Autostrade alla famiglia Benetton. Ed è proprio con la nuova concessionaria che gli enti locali si impegnano, all’inizio del 2002, per ampliare l’A14 con una terza corsia. Poi però cambiano idea e nell’agosto dello stesso anno, firmano l’accordo con il ministro Lunardi che dà il via alla progettazione del Passante nord, cioè la nuova bretella autostradale a nord del capoluogo, pensata per mandare in pensione proprio quel tratto di A14 che un attimo prima volevano allargare. L’apertura del Passante, infatti, andrebbe di pari passo con la banalizzazione della vecchia autostrada, cioè il suo declassamento a strada ordinaria, senza pedaggio, così che le otto corsie dell’autostrada/tangenziale sarebbero tutte dedicate al trasporto urbano, roba da far invidia a Los Angeles.
Il progetto è abbastanza megalomane da far proseliti e si guadagna un posto tra le “scelte fondamentali” della provincia, mentre i sindaci dei comuni attraversati espongono in un documento le loro condizioni. A quel punto, la fondazione Carisbo (gruppo Sanpaolo) promuove uno “studio di fattibilità per la riorganizzazione infrastrutturale del nodo autostradale tangenziale di Bologna”. Lo studio mette a confronto il Passante nord con “altri tre scenari alternativi”: il Passante sud, ovvero un tunnel sotto i colli della città; la banalizzazione secca, cioè l’apertura, senza pedaggio, dell’autostrada/tangenziale, e infine la sola realizzazione delle opere già previste (variante di valico, tre nuovi caselli autostradali, completamento di alcune arterie provinciali).
Scenari “alternativi” per modo di dire, visto che nascono tutti dalla stessa premessa, quella che il traffico si riduce se aumenta la capacità della rete stradale. Eppure, la tesi contraria è ormai talmente riconosciuta da essersi guadagnata tre nomi diversi. I matematici lo chiamano paradosso di Braess, i trasportologi congettura di Lewis-Mogridge e gli economisti paradosso di Downs-Thomson. Non solo l’aggiunta di strade può aggravare la congestione e aumentare i tempi di percorrenza, ma danneggia anche il trasporto pubblico, che si ritrova ad avere meno utenti, quindi meno risorse, quindi un servizio più scadente, fino a raggiungere un equilibrio negativo dove tutti rallentano e il trasporto privato non è più veloce di quello pubblico. Lo studio di fattibilità è completato nel maggio 2003 e già alla prima occhiata non brilla per imparzialità. Su diciotto capitoli, dieci sono dedicati al Passante nord e solo quattro al confronto tra le varie ipotesi. La valutazione, come spesso accade, sembra cucita su misura per rivestire decisioni già prese.
I lupi e gli agnelli
Contro quel documento, insorgono i cittadini dell’hinterland bolognese, che d’improvviso vedono precipitare su campi e cortili un “muraglione” di quasi quattro metri di altezza, lungo 42 chilometri, accompagnato dal solito corteo di capannoni, centri commerciali e condomini. Raccolgono cinquemila firme per scongiurare l’assalto, si riuniscono, studiano e in meno di un anno presentano l’Alternativa. Allargare l’autostrada, allargare la tangenziale, ma senza consumo di suolo e potenziando il trasporto su ferro. Tutto in un’unica, magica mossa. Le scarpate del sistema complanare sarebbero colmate per sostenere le quattro nuove corsie e dentro il terrapieno così ottenuto si scaverebbero due gallerie, una per lato, dove stendere i binari di una metropolitana.
Tanto sforzo produce un primo risultato. La provincia istituisce un comitato tecnico-scientifico per integrare lo studio di fattibilità e valutare l’Alternativa. Gli oppositori della nuova autostrada potranno indicare due tecnoscienziati su dieci. I Gruppi spontanei contro il passante nord rimandano l’invito al mittente, giudicandolo “un’apertura solo apparente”. E hanno ragione, ma non si rendono conto che il terreno per piazzare la trappola l’hanno predisposto loro, chiedendo di vagliare una controproposta. Come insegna Fedro, se il lupo e l’agnello si trovano a bere allo stesso rivo, l’agnello deve scappare o preparare una difesa, perché se accetta di discutere col lupo dei suoi diritti di predatore, quello prima o poi troverà una buona ragione per divorarlo.
Al posto del comitato tecnico-scientifico, i Gruppi spontanei invocano un “concorso internazionale di idee”, il classico rimedio contro tutti i mali, ispirato alla favola liberista che “il mercato premia i migliori”. Quindi, dato un problema, se faccio competere tutte le soluzioni possibili, alla fine sceglierò quella ideale. In realtà, sarà anzitutto la formulazione del problema a selezionare le risposte. Poi ci saranno decine di soluzioni equivalenti, con pro e contro, e ci si ritroverà da capo a non saper scegliere, perché prima di dire “vinca il migliore” bisognerebbe aver capito che cosa si intende con quel termine. Una decisione politica che non può ridursi a un confronto di numeri e perizie.
I tecnoscienziati, invece, fanno i loro calcoli a tempo di record. A novembre 2004, lo studio di fattibilità aggiornato e approfondito finisce sulla scrivania del ministro Lunardi. Nell’addendum, i tecnoscienziati promuovono il Passante nord – con il solo voto contrario di Maria Rosa Vittadini – e bocciano senz’appello il “potenziamento in sede”, esprimendo “seri dubbi sull’opportunità di indurre ulteriori profonde e durature sofferenze alle attuali gravi condizioni di vivibilità e di qualità dell’ambiente, riscontrabili nella fascia a ridosso del nastro tangenziale/autostradale. Particolarmente convincenti e decisive, a questo proposito, risultano le considerazioni svolte nel capitolo dedicato all’analisi della qualità dell’aria e del rumore, che avvertono di quali ulteriori danni la proposta del potenziamento in sede porterebbe allo stato attuale dell’atmosfera e del clima acustico nella prossimità del nastro”. Un giudizio negativo che suona sorprendente, se si pensa che il “potenziamento in sede” oggi si chiama “Passante di Bologna”, ed è il progetto decantato dal sindaco Merola come “un’idea di città che punta a rafforzare fortemente la nostra qualità urbana complessiva”.
Chilometri da odiare
Archiviato lo studio di fattibilità, si passa alla fase operativa. Bisogna sviluppare un progetto e trovare i soldi per realizzarlo. Il governo pensa a un finanziamento pubblico/privato ormai tipico del settore infrastrutture. È lo schema Bot (Built – Operate – Transfer). Il privato paga una parte dell’opera, la costruisce e poi recupera l’investimento riscuotendo il pedaggio fino all’anno X. A quel punto, sazio e satollo, si fa da parte e l’autostrada diventa gratuita. Peccato che lo schema funzioni solo in teoria, mentre nella pratica – chissà perché – l’abolizione della tariffa non arriva mai, e l’infrastruttura si trasforma, per il gestore, in una rendita garantita.
Le prime a farsi avanti per il Passante nord, sono l’italiana Pizzarotti e la francese Eiffage, accoppiate per l’occasione. Ma i tempi si allungano, qualcosa s’inceppa, e ci vogliono due anni prima che il ministro Di Pietro bolli il progetto come “irricevibile sul piano tecnico e giuridico”. “Ognuno tira la giacca dalla propria parte”, si lamenta il ministro. E allora sai che si fa? Altro che Pizzarotti-Eiffage! Questa nuova autostrada è una priorità nazionale, se la deve accollare l’Anas con un finanziamento pubblico, i soldi ci sono, si fa un apposito emendamento nella prossima finanziaria. Che problema c’è? C’è che l’apposito emendamento non passa in commissione bilancio, suscitando il “rammarico” del premier Romano Prodi. Negli stessi giorni – siamo a novembre 2007 – con le classiche “indiscrezioni” a mezzo stampa si comincia a nominare, sottovoce, il deus ex machina che può sbloccare la situazione. Autostrade per l’Italia (in sigla, Aspi).
“Autostrade? Bell’idea, ma mica gli possiamo dare il Passante così, senza gara d’appalto. L’Unione europea ci scortica vivi”. “Dipende. Se la chiamiamo ‘nuova autostrada’ ci vuole un bando pubblico. Se la chiamiamo ‘variante’, possiamo farne a meno. È come se Autostrade pigliasse l’A14 e la spostasse più a nord”. “Geniale! Così il Passante rientrerebbe tra gli investimenti già previsti sul nodo bolognese. Sarebbe tra gli obblighi della convenzione del 1997. Lo pagherebbero tutto loro!”. L’idea geniale deve però fare i conti con alcuni guastafeste, che oggi qualcuno chiamerebbe “gufi”, mentre Di Pietro li accusa di voler difendere bruchi, rospi e passerotti. Legambiente denuncia il governo italiano alla Commissione europea, sostenendo che l’affidamento diretto ad Autostrade viola le regole sugli appalti. Rifondazione comunista e Verdi minacciano di raccogliere le firme per un referendum contro il Passante, mentre i Comitati di cittadini rinforzano la protesta contro il “muraglione”.
Passano altri due anni, cade il governo Prodi. Di Pietro se ne va dal ministero delle infrastrutture e arriva Altero Matteoli. Intanto a Bologna la vita continua. A vent’anni dall’ultimo piano urbanistico generale, viene adottato, a luglio 2008, il nuovo Piano strutturale comunale. “Bologna si fa in sette” è il pay off del nuovo documento, e vi si descrive una città formata da sette città. Una di queste è la “città della tangenziale”, ovvero “la sequenza di insediamenti che, addossati alla grande barriera, ne soffrono tutti gli inconvenienti”. La lungimirante “fascia vincolata” del sindaco Dozza negli anni si è riempita di case, palazzi, interi quartieri, con la sola eccezione di qualche “cuneo agricolo”. Così, per “recuperare l’abitabilità” della zona, il piano confida molto nella “scelta di realizzare un Passante autostradale a nord, che comporterà il ‘declassamento’ a sola tangenziale del tratto autostradale bolognese, con una riduzione del traffico e del suo carico inquinante”.
Aggrappandosi al Passante più vicino
Che il “declassamento” immaginato dal comune possa portare davvero a un “recupero di abitabilità” non è affatto scontato. Se un’infrastruttura contamina per decenni la vita di un quartiere, non è addomesticando il mostro che si guarisce l’infezione. Tuttavia, i cittadini della tangenziale sono invitati a immaginarsi un futuro con meno auto e meno inquinamento sotto le finestre di casa, oltre alla promessa di mitigazioni ambientali, inserimenti paesaggistici, ricuciture, corridoi e spine verdi, attraversamenti ciclo-pedonali, tutela, riqualificazione, potenziamento degli spazi di uso pubblico.
Il Passante nord intanto è ancora ben lungi dall’essere approvato, ma in comune tirano dritto come se lo fosse, sperando che si materializzi a furia di nominarlo. Finalmente, a ottobre 2009, nuntio vobis magnum gaudium: l’Unione europea ha detto sì. O forse no. ‘Spetta ‘n attimo. Qua dice che il passante di 42 chilometri non gli va bene. Una roba così lunga, come fai a chiamarla variante? Bisogna scorciarlo, bisogna stare più a sud. Seee, più a sud! Se passiamo più a sud tocca convincere soquanti altri sindaci, diventa La storia infinita… Il risultato è che altri due anni – quasi fosse una scadenza rituale – se ne vanno per discutere se l’Unione europea ha dato il via libera al Passante nord o al Passantino-più-corto-più-a-sud, interrogandosi su quale sarebbe, nel caso, il tracciato di questo Passantino.
Nel novembre 2011, Anas e Autostrade rompono gli indugi e firmano l’accordo per la realizzazione del Passante. Costo previsto: un miliardo e quattrocento milioni. Il tracciato? Non è dato saperlo, ma pare ormai certo che si tratterà della versione ridotta. Il sindaco di Castelmaggiore, incupito, dichiara che il Passantino “rischia di diventare la nostra Val di Susa”. Ma la battaglia evocata dalle sue parole non è tanto sul territorio del suo comune, quanto all’interno del suo partito, il Partito democratico, tra sindaci e provincia, tra consiglieri e consiglieri, tra pezzi contrapposti dello stesso blocco di potere. Un indizio evidente della guerra intestina è la nuvola di polvere che si alza a confondere la vista: non ci sono più progetti chiari, intenzioni riconoscibili, studi di fattibilità sbilanciati ma quantomeno consultabili.
Autostrade per l’Italia, nell’estate 2012, consegna agli enti locali un’ipotesi di tracciato, ma il documento non viene divulgato. Trapela giusto a spizzichi e bocconi, una tabella qui, un parere là, qualche frase tra virgolette. Come quella che definisce il Passante nord “un progetto che sembra discendere da scelte di carattere urbanistico, piuttosto che rappresentare un’efficace alternativa all’uso dell’esistente sistema autostradale”. E ancora: i “modesti benefici trasportistici” e i “consistenti impatti territoriali e ambientali” portano alla “conseguente scarsa sostenibilità dell’analisi costi benefici, evidente” per il Passante nord nella sua versione originale, e “molto probabile” anche per il Passantino. Uno dice: a ‘sto punto non lo faranno di sicuro, ‘sto maccherone di Passante nord. E invece, nonostante una seconda denuncia di Legambiente all’Unione europea, il 29 luglio 2014 si va tutti quanti dal ministro Lupi a firmare l’accordo per la progettazione del Nuovo-passantino-non-troppo-a-nord. Maurizio Lupi, però, rassegna le dimissioni prima di vedere uno straccio di progetto e il suo successore, Graziano Delrio, chiede tempo, per valutare bene – dice – quali grandi opere siano davvero necessarie al paese. Alla fine, senza troppe fanfare, il Passante passa. Autostrade fa i compiti delle vacanze, consegna tutte le carte, ma il 4 dicembre 2015 arriva lo stop definitivo: “Dopo consultazione dei sindaci, le parti convengono di non dar seguito all’opera prevista”.
Evviva. La campagna bolognese è salva. Si evita di costruire un’autostrada dannosa, inutile e imposta. Ora magari si valuteranno altre soluzioni, per risolvere il problema delle code in tangenziale. Magari si aspetterà di vedere come se la cava il Servizio ferroviario metropolitano, che doveva andare a regime nel 2005 e invece lo sarà – forse – solo nel 2017. Magari… Magari un corno. Per la prima volta in tutta questa storia, si decide in fretta, si bruciano i tempi, non si rispettano i due anni della liturgia consolidata. Il 15 aprile 2016 c’è già un nuovo accordo da sottoscrivere. Le firme sono quelle del ministro Delrio, del sindaco Merola, del presidente della regione Stefano Bonaccini e di Irene Priolo, delegata ai trasporti per la Città metropolitana (ex provincia), nonché sindaca di Calderara di Reno, oppositrice del Passante nord sul suo territorio. Nella nuova giunta bolognese che si insedierà di lì a due mesi, sarà assessora alla mobilità, pur rimanendo sindaca di Calderara. Sull’ultima riga utile del documento, non previsto dall’intestazione e nemmeno dagli appositi spazi per le firme, c’è un sesto autografo – largo allo Sbloccatutto! – : il presidente del consiglio dei ministri, Matteo Renzi. Il titolo è: “Accordo per il potenziamento in sede del sistema autostradale/tangenziale nodo di Bologna”.
Sui motivi di un’intesa tanto rapida, si possono formulare solo ipotesi. Certo, la scadenza delle elezioni amministrative ha il suo peso. Il 5 giugno si vota in molti comuni della Città metropolitana. Ma c’è anche un’altra data – poco nota ai più – che i firmatari conoscono di certo. Il 19 aprile 2016, sotto la pressione di tre direttive europee, entrerà in vigore il decreto legislativo numero 50 del 2016, meglio noto come Nuovo codice degli appalti, destinato a riordinare la normativa in materia di contratti, bandi e concessioni nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali. Sai mai che a firmare cinque giorni dopo non ci si vada a inguaiare con qualche nuova disposizione, come per esempio l’articolo 22, sulla trasparenza e il dibattito pubblico. Quindi via, di corsa, prima si firma, poi si vota, poi si nomina la giunta e infine a luglio, con le valigie in mano e l’afa che addormenta la città, si presenta in comune il nuovo progetto. Merola dichiara: “Abbiamo bisogno di amministratori che sappiano imparare dagli errori e abbiano l’umiltà di dirlo”. Un errore durato dodici anni?
Chissà cosa ne pensano quelli del Comitato per l’Alternativa al passante autostradale nord di Bologna. Sulle prime, com’è giusto, festeggiano. “Questa è una storia che nasce già/ben quattordici anni fa” – comincia la zirudella composta per l’occasione, ma “il quindici aprile di quest’anno/pare finito l’infinito inganno”. Sul loro sito, scrivono che “il potenziamento in sede è […] la proposta avanzata dal Comitato fin dal 2004”. In seguito correggono il tiro, sottolineando che “l’allargamento di cui si sta discutendo oggi non è la nostra proposta e rischia di disattendere le ragioni che l’avevano ispirata”. Autostrade per l’Italia, infatti, aggiungerà le quattro nuove carreggiate consumando 20 ettari di suolo (ma guarda un po’!), e le scarpate dell’infrastruttura non diventeranno gallerie ferroviarie. Né ha immaginato l’avveniristica “opzione 2”, una specie di strada-condominio, formata da due tunnel sovrapposti, suddivisi per tipi di traffico (auto, treni, bici), in parte adibiti a parcheggi e ricoperti all’esterno con pannelli fotovoltaici. Queste ultime osservazioni si possono leggere nel “documento finale” di 149 pagine, pubblicato in ottobre, come “testimonianza dell’impegno di un comitato ‘sui generis’”. Sui generis? E che vuol dire? Ogni comitato di questo tipo ha le sue peculiarità. Cambiano i territori, cambiano le battaglie, le imposizioni e le opere. Non c’è nemmeno bisogno di precisarlo. Per quale motivo, invece, questo comitato si sente in dovere di enfatizzare la sua differenza? È venuto il momento di conoscerlo meglio.
Scopri sempre che c’è un’alternativa
Cominciamo dal nome, che non è un dettaglio. A leggere con attenzione i volantini si scopre che il Comitato contro il passante nord non è mai stato un “Comitato contro il passante nord”. Quando debutta, nel 2003, ha il nome plurale di “Coordinamento dei gruppi spontanei contro il passante nord”. In poco tempo aggiunge: “(e proponenti soluzione Alternativa in sede)”. Più che una ragione sociale, un film di Lina Wertmüller: 14 parole più le parentesi. Dal 2005 si stabilizza in “Comitato per l’Alternativa al passante autostradale nord di Bologna”. Qual è il motivo di questa irrequietezza identitaria? Forse lo stesso che lo spinge a definirsi “Comitato sui generis”. Il Comitato è “per l’Alternativa” perché cerca un modo alternativo di praticare il culto di Asfalto, Mattone, Tondino e Cemento, senza mettere in discussione il dogma che per ridurre il traffico sia necessario fare più strade. Ed è “sui generis”, e quindi atipico, perché si differenzia dagli oppositori di infrastrutture per antonomasia, i No Tav: “Per noi il no e basta non esiste: noi portiamo avanti una proposta alternativa sul Passante, quindi noi prendiamo atto che c’è questo movimento [in Val di Susa] non abbiamo però parentele con questo tipo di atteggiamento e, diciamo, questo modo di comportarsi”.
Il Comitato “sui generis” mette tra i suoi princìpi la critica a un “modello di sviluppo superato”. Eppure, tanto quel modello quanto la loro Alternativa si basano sul culto della mobilità privata e del trasporto su gomma, senza metterlo davvero in discussione. Quest’incoerenza rimane sottotraccia fino al 2016, quando l’Alternativa viene fatta propria dalle istituzioni. Allora il Comitato dimentica di essere “sui generis” e si mette a combattere contro gli oppositori dell’allargamento in sede, che si sono dati il nome di No passante di mezzo, e sono soprattutto quei “cittadini della tangenziale” blanditi dal comune pochi anni prima. A quel punto, la critica al “modello di sviluppo”, già prima puramente formale, viene dismessa: “Non è corretto […] gridare all’improvvisazione […] né invocare una visione generale dei problemi. […]. È significativo che ancor oggi i comitati dei residenti non abbiano indicato la loro preferenza tra le ‘tante soluzioni’ a cui fanno spesso riferimento nei loro interventi senza mai elencarle esplicitamente. Diciamo la verità: il nopassantedimezzo in pratica nasconde un torniamoalpassantenord, e senza badare troppo per il sottile, visti gli interventi che vengono applauditi a scena aperta […] sommessamente suggeriamo a questi signori ed ai loro esperti di informarsi meglio, con meno faziosità negli slogan, nell’esposizione e nell’uso dei dati ed essere capaci anche di ascoltare, in un sereno confronto […]”.
A distanza di pochi anni e chilometri, il Comitato “sui generis” ha dimenticato cosa significa vedersi piombare addosso ettari d’asfalto e non riconosce la propria immagine nello specchio delle vittime del nuovo patto tra Pd e Autostrade. Così, elegge i propri pari – i No passante di mezzo – a principali nemici. Li invita a indicare la loro preferenza, tra le tante soluzioni possibili, e ciò significa, visto il pulpito, a trovare qualcuno su cui gettare addosso l’infrastruttura. Ed è qui che esce il peggio di questa storia bolognese. Perché le nuove vittime stanno al gioco, si oppongono all’opera lì da loro, cercando di scaricarla su un altro territorio. Certo, non tutti: abbiamo sentito di persona chi, parlando a nome del No passante di mezzo, lo fa senza cedere a questa tentazione. Ma nel complesso la visita al loro sito, passantedimezzonograzie.it, è sconfortante, ed è piena di “soluzioni alternative”. La più gettonata è quella del Passante sud – il buco sotto le colline bolognesi già perforate da variante di valico e alta velocità ferroviaria. Tra i tecnici che la sostengono sulle loro pagine (“i nostri esperti”) spicca un negazionista del riscaldamento climatico, nemico dei “talebani dell’ambientalismo”, che coglie l’occasione per un’invettiva contro i No Tav: “Occorre serietà, equilibrio, elasticità mentale, e non si addice neppure la posizione di chi dice solo e sempre no a qualsiasi intervento […]. In un paese montuoso e sismico e di ineguagliata qualità paesaggistica come la nostra Italia […] la mobilità […] va sviluppata nel sottosuolo. […]. Questo orientamento è già stato positivamente attuato anche nel Bolognese con l’Alta Velocità […], e con la Variante di Valico […] opere necessarie, osteggiate e ritardate a lungo dai soliti negazionisti puri che ne avevano pronosticato anche l’impopolarità, come si ostinano ancora oggi a fare i valsusini”. La sintonia tra i comitati “nemici” è, su questo punto, perfetta. La postura è identica, ed è quella che predispone al lancio dell’infrastruttura contro qualcun altro. Più indifeso è, meglio è. Non a caso, i No Tav della val di Susa attirano odio e strali da entrambi, perché dimostrano che è possibile e necessario sottrarsi a questa pratica.
Stasera pago io
Uno degli insegnamenti che si possono trarre da questa triste vicenda bolognese è che lo scaricabarile tra territori, una volta partito, infetta la discussione in maniera irrimediabile. Diventa così molto più difficile confrontarsi sui vantaggi e gli svantaggi di un’opera: traffico, inquinamento, rumore, consumo di suolo e paesaggio. Nelle prossime due puntate della nostra inchiesta, vi racconteremo quanto sia stato fuorviante il “confronto pubblico” su questi temi.
Ora, invece, vogliamo affrontare un altro elemento. Anche questo comporta vantaggi e svantaggi, ma come spesso accade, è stato messo in ombra dalle altre questioni. Il denaro. Nicholas Hildyard, nel suo ultimo libro su infrastrutture e finanza, Licensed larceny (Manchester University Press, 2016), sostiene che nessuna discussione sull’impatto ambientale di una grande opera è davvero efficace se non si capisce in che misura genera profitti e a vantaggio di chi. Strappare qualche chilometro in più di barriera antirumore è una vittoria di Pirro, se rende accettabile un’autostrada che per molti decenni succhierà ricchezza pubblica per trasformarla in ricchezza privata. Quindi occorre chiedersi: chi lo paga, il Passante di Bologna? Chi ci guadagna?
L’idea che va per la maggiore, a proposito dei costi progettuali della nuova opera, è condensata nello slogan “paga Autostrade”. Ma è davvero così? Possibile che una società per azioni “paghi e basta”? Autostrade per l’Italia gestisce quasi tremila chilometri di strade a pagamento. La sua fonte di reddito sono i pedaggi, la sua prospettiva economica è data dalla durata delle concessioni che le consentono di incassarli. Vediamo, in quattro passaggi successivi, come sono stati fissati entrambi i parametri.
a) Nel 1997, quando la società Autostrade è ancora di proprietà pubblica all’87 per cento, la concessione viene prorogata di vent’anni, “in cambio” di opere come la variante di valico e il “potenziamento del nodo bolognese”. Ciò significa che Autostrade incasserà i pedaggi fino al 2038 e non più “solo” fino al 2018. Inoltre, nella formula con cui si calcola l’importo da richiedere al casello è incorporato un provvidenziale fattore X. “È difficile pensare ad altri casi in cui sia possibile per uno stato dispensare regali tanto generosi, senza che l’opinione pubblica nemmeno se ne accorga, come con la regolazione delle tariffe e l’estensione della durata delle concessioni autostradali”, scrive Giorgio Ragazzi autore di I Signori delle autostrade, (Il Mulino, 2008).
b) Tutta la generosità dimostrata nel 1997 è finalizzata a rendere appetibile la società Autostrade, che due anni dopo viene privatizzata. La quota di controllo di Autostrade passa in mano ai Benetton. Le tariffe remunerano abbondantemente una rete già in gran parte ammortizzata: comincia un travaso di ricchezza – da pubblica a privata – che durerà decenni.
c) Negli anni che seguono il fattore X fa il suo lavoro, che è principalmente quello di consentire aumenti del pedaggio a fronte di investimenti in nuove opere. Ma, “la pluralità delle formule concretamente operanti, la definizione poco precisa di alcune delle variabili considerate e le difficoltà riscontrate nel riesame dell’adeguatezza delle tariffe di base […] hanno creato una certa opacità regolamentare. […] Negli ultimi venti anni i ricavi delle concessionarie sono più che raddoppiati, passando da 2,5 miliardi di euro nel 1993 a oltre 6,5 miliardi nel 2012. Tale crescita è prevalentemente da attribuire alla dinamica delle tariffe unitarie, cresciute più della dinamica generale dei prezzi […]”, come spiega Paolo Sestito di Bankitalia ai deputati dell’8ª commissione, nel 2015.
d) Ad Autostrade per l’Italia non basta un fattore X di aumenti, per quanto generosi. Vuole rimettere in discussione la fine della concessione, e il governo Renzi (e Delrio) sembra essere d’accordo. Dall’inizio del 2016 si parla a più riprese di un’ulteriore proroga della scadenza, dal 2038 al 2045. Sulle prime, il mercanteggiamento ruotava attorno alla costruzione della “gronda di Genova” e del Passante nord. Ora, in luogo del secondo, il governo potrebbe accontentarsi del Passante di Bologna, che ad Aspi costerà la metà.
E poi, il colpo finale. Chi entra o esce dai quattro caselli del nodo bolognese è gravato da un sovrapedaggio di circa 50 centesimi (la tariffa per 6,9 chilometri, un quarto dello sviluppo dell’attuale tangenziale). Il balzello serve a pagare Aspi per la manutenzione della tangenziale e a evitare che sia usata dai mezzi in transito come alternativa gratuita all’A14. Sono però esentati gli automobilisti che percorrono le autostrade entro un raggio di 40 chilometri dal capoluogo. Insomma: chi si muove per piccoli spostamenti e pendolarismo. L’accordo di aprile 2016 stabilisce invece che, dopo il completamento del nuovo Passante, il sovrapedaggio sarà applicato “senza alcuna deroga”, e sarà calcolato in modo differenziato casello per casello. Quindi qualcuno spenderà un euro in più al giorno, per altri l’aumento sarà maggiore. E per la concessionaria? Su 40 milioni di transiti all’anno dai caselli bolognesi, quanti sono i pendolari? E a quanto ammontano i costi di manutenzione della tangenziale?
Luglio, Agosto, Settembre (nero)
I profitti crescenti e i costi ridotti di Aspi, probabilmente determinanti nell’abbandono del Passante nord, non hanno avuto spazio nel dibattito. Le semplici domande su quanto incassi Benetton ai caselli bolognesi non hanno trovato risposta nel “confronto pubblico”, dove invece risuonava la falsa e consolatoria certezza del “paga Autostrade”. Nessun incontro specifico è stato dedicato a questo tema, nei due mesi di ascolto e partecipazione.
Due mesi? Ma non avevano detto quattro? In effetti sì. In tutti gli interventi, in tutti i materiali e in tutte le propagande del comune, si parla sempre di “quattro mesi di confronto pubblico”: Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre. Ma il progetto preliminare, come abbiamo visto, è stato presentato il 22 luglio, a mese già finito. Agosto, Passante mio non ti conosco. Il primo incontro al quartiere San Donnino è datato 7 settembre. L’ultimo, con la presentazione dei “suggerimenti per migliorare l’Opera”, è del 7 novembre. Due mesi esatti. Del resto, non c’era da aspettarsi molto di più, da un percorso di partecipazione illustrato con una foto fasulla. I bolognesi hanno risposto con scarso entusiasmo. Chi per pigrizia, chi per disillusione, chi fiutando l’ipocrisia degli interlocutori.
Noi siamo andati a vedere il bluff. Appuntamento alla prossima puntata.
Un privato rifà il look alla prima parte di via Oberdan. La giunta ha approvato ieri il progetto di riqualificazione della zona compresa tra via Oberdan, vicolo Tubertini, Mandria, e Limbo. Un progetto che comprende rifacimento del manto stradale, illuminazione, riordino della segnaletica, rimozione e sostituzione dei cassonetti e delle cabine Telecom, tutto spesato dall’immobiliare Immobildue, che sta eseguendo il restauro di palazzo Tubertini e torre degli Uguzzoni.
«Ci hanno detto che lo fanno loro, ben venga» ha detto ieri il coordinatore di giunta Matteo Lepore presentando la delibera, che assicura costo zero per il Comune, e rivalutazione della zona per il privato. Il totale dei fondi spesi per il restyling è di soli 35mila euro, per un complesso di interventi che vanno dalla sistemazione della strada, a quella dell’illuminazione. Un modello, quello della sempre maggiore iniziativa del privato anche nella riqualificazione di spazi pubblici, già sperimentata non senza difficoltà per Piazza Minghetti. In questo caso però, tutto è in mano al privato, grazie al regolamento approvato dal commissario Annamaria Cancellieri nel 2011, che consente «la realizzazione di microprogetti di miglioramento
dello spazio pubblico da parte della società civile », purché non superino il valore massimo di 200mila euro. Immobildue promette di eliminare
e sostituire i cassonetti dei rifiuti e le cabine telefoniche, «spesso oggetto di vandalismi». In arrivo anche nuove luci e nuovo acciottolato. Tutto approvato da Telecom, Hera e dalla Soprintendenza, che non ha mancato di far avere il suo parere, bocciando la nuova pavimentazione «in lastre di granito per agevolare il transito dei portatori di handicap » e imponendo invece l’acciottolato. Ma se il restyling avrà il prezzo contenuto di 35mila euro circa, l’intero progetto di restauro di palazzo Tubertini prevede «una galleria con negozi e caffetteria al piano terra e abitazioni private al piano di sopra». Nella parte dell’edificio che si trova tra i vicoli Mandria e Tubertini, infine, «verrà realizzato un parcheggio sotterraneo multipiano automatizzato, di pertinenza della residenza».
|
L’architetto Pierluigi Cervellati, ex assessore di Zangheri
«La privatizzazione dello spazio pubblico è pericolosa, perché senza un piano urbanistico del centro storico, che attualmente non c’è, si rischia di finire nella categoria del “gusto”, invece che in quella del “bene comune”». È molto scettico, l’urbanista ed ex assessore tra gli anni ’70 e ’80 Pierluigi Cervellati, quando sente parlare di privati che riqualificano spazi pubblici.
Lei non è d’accordo?
«Mi domando cosa ottengano in cambio, intanto. Che ci guadagnano? E poi si può fare solo se c’è una adeguata partecipazione al progetto da parte dei cittadini. Il problema comunque è un altro».
Quale?
«Sarebbe anche accettabile lasciare che siano i privati a investire nel restyling di strade e piazza, ma solo se esistesse una normativa complessiva per il centro storico, un piano, un disegno che invece non esiste più, e che dovrebbe fissare i criteri da seguire e non seguire. Altrimenti ognuno fa quel che vuole».
Per questo non c’è la Soprintendenza?
«Ma anche la Soprintendenza, se non ha criteri condivisi con le amministrazioni, non basta. Così rischia di diventare una Babele, un complesso di progetti che seguono il gusto dei privati che li propongono, e che mescolano moderno e antico».
Come è successo per Piazza Minghetti?
«Esatto, il problema è che manca il principio di città storica come bene comune. Senza quello, c’è solo confusione».
«Sono gli effetti di un regolamento urbano edilizio (Rue n. d. r.) che di fatto permette tutto» chiosa lapidario Pierluigi Cervellati, più volte inascoltato difensore del decoro estetico del centro e promotore negli anni ‘90 di una campagna contro il proliferare degli abbaini sui tetti della città antica.
Significa che ci sono norme più permissive?
«Col nuovo Rue, approvato nel 2008 da Cofferati e dall’ex assessore all´Urbanistica nonché attuale sindaco Virginio Merola, giostrando bene, si può fare quasi tutto. Dico di più: l’architetto che collaborò con Merola oggi è l’assessore competente, vale a dire Silvia Gabellini».
Cos’è che adesso è consentito e prima non lo era?
«Prenda il palazzo di piazza Otto agosto risalente alla fine del Settecento abbattuto recentemente: è una vicenda sconcertante. Si trattava di un edificio storico abitato che è stato spazzato via per costruire al suo posto un albergo e un garage sotterraneo senza peraltro curarsi più di tanto dei reperti archeologici venuti alla luce. È un esempio di svuotamento del centro con espulsione degli abitanti che ottiene due effetti: rende necessario edificare all’esterno del centro alimentando il volano del cemento e fornisce soldi ai Comuni perché i restauri non si pagano, ma le ristrutturazioni sì».
E le Soprintendenze? Come mai non intervengono?
«Oggi le Soprintendenze spingono per realizzare cose moderne, ma non si capisce perché si debbano fare nel centro storico. Quest’ultimo è così diventato la palestra di giovani architetti piuttosto ignoranti e poco documentati che realizzano o trasformano edifici con gusto perlomeno discutibile. E per fortuna che c’è la crisi perché appena il mercato immobiliare ricomincerà a tirare, le conseguenze saranno devastanti».
Non solo sui tetti?
«Già adesso il centro storico è afflitto dal dilagante effetto supermercato tanto che si sta banalizzando in un’alluvione di ‘store’ e grandi magazzini. In definitiva, è in atto una lenta e tuttavia grande trasformazione che muterà il volto della città storica facendole perdere la sua caratterizzazione. Ma mi chiedo: cancellato tutto ciò, cosa resterà?»
Un processo che parte con Cofferati-Merola o la cosa viene da più da lontano?
«Già in epoca Vitali qualche modifica fu apportata da Laura Grassi, in parte rimediata da Ugo Mazza. Poi la giunta Guazzaloca allentò ulteriormente i vincoli fino al Rue approvato nel 2008 che avrà un effetto disastroso».
Ventiquattro pagine di frasi fatte sulla Bologna da cartolina, eteree riflessioni sulle vocazioni della città e analisi su come potrebbe essere. Ma, come direbbe Mourinho, zero proposte concrete. Dopo sei mesi di lavoro la giunta ha lasciato in eredità ai posteri il documento "progetto per la città storica di Bologna". Se non ci fosse stato l'incidente Cinzia, avrebbe dovuto essere il piano di lavoro. In effetti sembra poco più di un programma elettorale. "Immaginiamo il coinvolgimento dei cittadini e delle categorie in eventi gastronomici....immaginiamo una giornata dell'accoglienza, dove le case sono aperte, la gente invita i vicini...immaginiamo di tematizzare vetrine, luoghi e installazioni valorizzando il rosso bolognese..."
Se questa è la premessa poi si passa al capitolo operativo (perché "questa giunta fa sul serio"). E di "concreto", ad esempio, c'è la proposta, per quanto riguarda la sicurezza, di "favorire punti virtuosi di aggregazione sociale"; di dotare la città di un piano regolatore dei beni artistici e culturali; di fare un maxicalendario degli eventi culturali già programmati; e, sui dehors, "di semplificare la concessione delle autorizzazioni definendo un piano di sviluppo di queste forme di stare insieme sempre più popolari tra la gente".
Il minimo che si possa dire, di fronte a questo ennesimo pasticcio fatto, a quanto pare, di uso distorto del denaro pubblico, di poca o nulla trasparenza, di intrecci impropri tra pubblico e privato, è che c'è tutto un ceto politico-amministrativo che sembra avere perso ogni contatto con la realtà. Non omettiamo la dovuta premessa: finché non vi saranno fatti accertati, il giudizio sul piano giudiziario resta sospeso. Ma il discorso politico è diverso. La piazza non usa troppe cautele, giudica in base alle prime impressioni. E l'impressione è quella di un abisso tra chi, nel Palazzo, approfitta dei propri privilegi e chi, fuori, deve fare i conti con una crisi pesante che mangia posti di lavoro e quote di salario. Milioni di persone per le quali la vita quotidiana è un rompicapo. I figli da mandare a scuola, gli anziani da accudire, le bollette da pagare. Di fronte a questo Paese, è desolante lo spettacolo di una classe politica, quando non corrotta, futile e gaudente.
Ma nel caso del Pd c'è di più, e c'è di più soprattutto quando c'entra Bologna. Non occorre leggere la stampa estera per sapere che oggi il caso italiano si chiama Berlusconi: conflitti d'interesse, uso privato delle istituzioni, fuga dai processi e via elencando. Basterebbe questo per raccogliere i frutti di un'opposizione seria e coerente, che nulla conceda sul piano della moralità e del rispetto delle istituzioni. Lo stile di chi governa è tale da concedere all'avversario mille e una opportunità. Invece capita l'esatto contrario. A torto o a ragione, sembra di non poter distinguere, e il qualunquismo pare la sola attitudine obiettiva. È un dissennato suicidio politico quello al quale stiamo assistendo. E ci coinvolge tutti, nella misura in cui rischia di blindare per lungo tempo il potere di una destra brutale, fascistoide e razzista.
Che l'ultimo scandalo coinvolga Bologna è particolarmente grave. Questa città, si dice, è un simbolo. È vero, e bisogna intendersi. Era la capitale dell'Emilia rossa, al tempo della prima Repubblica. Qui il Pci diede prova di una indiscutibile capacità di governo, di probità e di efficienza amministrativa. Seppe dialogare con l'impresa e con i ceti medi costringendoli a contribuire alla costruzione di una società in senso proprio civile. Una città, anzi una regione esemplare per accoglienza ed efficienza. Dove venivano sin dalla Svezia a studiare il modello di welfare. Non era la rivoluzione, era il buon governo, cemento di una intesa talmente stretta tra politica e società - qui davvero «popolo della sinistra» - che la si sarebbe detta indistruttibile.
La caduta di Bologna, con la vittoria di Giorgio Guazzaloca nel '99, fu la fine di un mondo. O meglio, la sanzione ufficiale di una crisi sotterranea che aveva lentamente eroso quel blocco e ora cancellava definitivamente un tabù. Era finita la «diversità». Bologna pagava la pervicacia ideologica dei nipotini del Pci convertitisi alla teologia delle privatizzazioni. E si scopriva «normale», uguale alle altre città, non meno esposta allo spirito dei tempi. Il guaio però non fu tanto quella prima sconfitta, pur traumatica, che avrebbe potuto essere persino un toccasana. La prova di una crisi organica della «sinistra di governo» bolognese venne cinque anni dopo, con la guerra intestina tra gli aspiranti alla guida del Comune e la decisione di affidarsi a una figura esterna alla città, mortificandone la storia.
Dei cinque anni di Cofferati a Bologna non val la pena di parlare. Arbitrio solipsista è stato scritto, e basta questo. Fu, quello tra sindaco e città, un dialogo tra sordi e la decisione di Cofferati di non ricandidarsi venne accolta da tutti con sollievo. E con speranza. Non è trascorso un anno e siamo a questo disastro, che nessuno avrebbe immaginato. Ora chi se la sentisse di prevedere un successo del Pd alle prossime elezioni - quando saranno - parrebbe oggi un inguaribile ottimista. Ma il punto non è questo: è il dissennato spreco di pazienza, di fiducia, di volontà di credere e sperare nonostante tutto, che vicende come questa determinano, e dio solo sa se ce lo si può permettere.
Non gettiamo la croce su nessuno, tanto meno all'inizio di una vicenda ancora tutta da chiarire. Ma una cosa è certa: Bologna, la sua gente e la sua storia si meriterebbero ben altro. E faranno di tutto per averlo.
Il sempre più folto «partito» degli anti-Civis ora è nelle mani della Soprintendenza. A non nascondere alcune perplessità attorno al progetto del filobus a guida ottica è il neo-direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici, Luciano Marchetti. Perplessità che affondano tra gli articoli del Codice dei Beni Culturali in vigore dal 2004. Esattamente come sostenuto ieri sul Corriere dall'architetto Pier Luigi Cervellati: «Il codice legislativo — ha scritto — prescrive la tutela dei centri storici, non solo dei monumenti, ma anche delle sue strade». Colare l'asfalto in vie medievali come Strada Maggiore e Rizzoli, caratterizzate ancora oggi dalla tradizionale pavimentazione in pietra, al fine di consentire il passaggio del Civis, potrebbe essere valutato come un intervento contrario al concetto di «tutela» espresso dalla legge.
«Con quali argomenti la Soprintendenza non ha applicato il Codice?», la domanda posta da Cervellati. «Le vie e le piazze vanno salvaguardate come le chiese e i monumenti — concorda Marchetti — A questo punto, è necessario capire se il Civis sia compatibile o meno con la tutela di questi luoghi». Il nuovo direttore regionale per i beni culturali si è insediato solo a gennaio e ancora non ha avuto modo di approfondire i dettagli del progetto. Ne discuterà presto con l'assessore alla Mobilità, Maurizio Zamboni, e con la Soprintendente, Sabina Ferrari. In programma, un appuntamento tra una decina di giorni. «Il Codice vieta gli interventi dannosi — spiega l'ingegner Marchetti — In generale, ho perplessità sullo stravolgimento del centro storico, anche se ritengo opportuno farlo vivere e non trasformarlo in un museo. Il giudice ultimo è comunque la Soprintendenza. Su questo progetto in particolare, vedremo di trovare la soluzione migliore».
Al momento, al Comune e ad Atc è stata data indicazione di realizzare una pavimentazione mista nelle strade medievali del centro interessate dal tracciato: asfalto rosso lungo la guida del Civis, basoli ai lati. «È un'ipotesi possibile. L'altra è cercare di mantenere i basoli anche là dove passa il mezzo», sostiene il direttore regionale. E sulla scelta di far attraversare al filobus a guida ottica il cuore della città, alza i toni: «Avrei preferito mezzi più piccoli. Verificheremo. Potremmo anche decidere di non farlo passare attraverso le strade più strette». Tra le fila degli anti- Civis, spunta anche il critico d'arte e assessore milanese alla cultura, Vittorio Sgarbi: «Sono perfettamente d'accordo con Cervellati — osserva — Opere come il Civis vanno fermate. Altrimenti perché si fanno le leggi? Il potere competente in questa materia è la Soprintendenza, che non deve arrivare a mediazioni con l'amministrazione comunale. Il centro storico di Bologna è un luogo nobile che non va sfregiato. Sarebbe come decidere di asfaltare il Canal Grande, solo perché così attraversarlo sarebbe più comodo».
A difesa dell'autenticità della pavimentazione del centro storico anche Vittorio Emiliani, presidente del Comitato per la bellezza: «Dal punto di vista estetico, sarebbe davvero un pugno in un occhio — commenta — E pensare che Bologna è forse una delle città finora meglio conservate del Paese. Purtroppo, a volte, le Soprintendenze esprimono pareri positivi su opere davvero discutibili. Sarebbe giusto sottoporre la questione ai cittadini con un referendum, come a Firenze e come si farà a Torino per il Grattacielo di Renzo Piano. I bolognesi devono poter esprimere le loro volontà su un progetto che potrebbe modificare tanto la città». Referendum che, tra gli altri, non disdegnano neppure i Verdi: «La consultazione popolare sul Civis è condivisibile », afferma Daniela Guerra, capogruppo dei Verdi in Regione, che si rendono disponibili alla raccolta delle firme necessarie. «Un referendum che sarebbe opportuno allargare al quadro generale della mobilità cittadina, metrò e people mover inclusi».
L´assessore all´urbanistica Virginio Merola parla per la prima volta di «ecomostri»: «Il Piano Regolatore dimostra il fallimento della pianificazione basata su vincoli ed espropri». Merola, alla viglia dell´approvazione del Piano Strutturale Comunale (prevista per settembre), risponde all´inchiesta di Repubblica e si interroga sui risultati del Prg dell´85. «C´è stata una rinuncia alla pianificazione urbanistica intesa come visione coerente del territorio. Decisioni prese per caso, edifici isolati e fuori dal contesto». Una urbanizzazione «a macchia di leopardo» troppo spesso incentrata sulla cementificazione. «Oggi dobbiamo cercare una terza via».
«Il Piano regolatore del 1985 è la dimostrazione del fallimento della pianificazione urbanistica basata sui vincoli e sulle espropriazioni. Oggi gli espropri si fanno a valore di mercato, il Comune non se le può permettere e quindi quelle previsioni sono saltate. Da questo però si è passati a uno sviluppo a macchia di leopardo, basato sulla cementificazione».
Virginio Merola è alla vigilia dell´approvazione del nuovo Piano strutturale comunale, al voto in Consiglio comunale in settembre, che disegna la città nei prossimi 15 anni. Eredita una città che sull´urbanistica ha fatto scuola ma che oggi si interroga sui risultati perlomeno sconcertanti di quella pianificazione.
L´assessore all´urbanistica si trova così, mentre sta per inaugurare la piazza intitolata al «Liber Paradisus» nella nuova sede del Comune, a tracciare un bilancio di due «fallimenti», in cerca di una terza via per lo sviluppo della città.
Assessore Merola, gli urbanisti illustri che hanno firmato il Prg del 1985 prendono oggi le distanze almeno da alcune zone disegnate da quel piano. Gli architetti indicano nell´edilizia contrattata del Pru 2003 il grosso difetto di una città che cresce disordinatamente nel cemento. Lei cosa ne pensa?
«Alcuni esempi riportati da Repubblica, i così detti "ecomostri", sono un caso evidente di incapacità di ascolto e di attenta decisione politica. C´è stata una rinuncia alla pianificazione urbanistica intesa come visione coerente del territorio, che ha portato all´urbanistica contrattata degli ultimi anni. Decisioni prese caso per caso, edifici isolati e fuori dal contesto. Dalla aspirazioni del Prg si è passati alla «macchia di leopardo», con un uso della densità edilizia mirato alla quantità, alla fattibilità economica degli interventi in cambio di oneri e servizi pubblici e di alloggi convenzionati».
Può fare qualche esempio?
«L´urbanistica contrattata comporta che si ottengono usi pubblici con il meccanismo dell´aumento degli indici. Per costruire di più, si offrono in cambio servizi. Il Prg dal canto suo è la dimostrazione del fallimento della pianificazione dei vincoli, a un certo punto l´amministrazione pubblica non si è più potuta permettere di espropriare e quindi non è stato concretamente possibile realizzare le previsioni del 1985. Oggi dobbiamo cercare una terza via».
Qual è la sua ricetta?
«Un piano strutturale per fissare gli indirizzi, un piano operativo che stabilisce l´attuazione. Agli espropri si sostituisce la perequazione urbanistica: ogni privato avrà un indice alla pari con gli altri, ma è il piano che stabilisce dove si concentrano gli indici. I diritti edificatori valgono cinque anni, se non attuati si perdono e non alimentano la rendita fondiaria».
Anche lei è del parere che il Prg abbia fallito lo scopo di frenare le rendite? Il suo Psc ci riuscirà?
«Il Prg non ci è riuscito, l´urbanistica diventa impotente se le si attribuiscono temi che non le competono. Il Psc non ci riuscirà, ma non se lo pone come obbiettivo. Bisogna prendere atto che non si freneranno le rendite senza un piano nazionale sulla casa. Per quanto riguarda l´espansione, io credo che di cemento ne abbiamo anche troppo, adesso è il momento di riqualificare le aree urbane, in quelle abbandonate c´è il costante rischio, secondo i presidenti di quartiere, di veder "spuntare" un ecomostro».
Secondo lei quali sono le caratteristiche degli ecomostri,?
«L´ecomostro è un edificio che nasce fuori dai riferimenti del territorio, senza sforzi di ricerca e progetto. Sul singolo gesto architettonico, invece, bisogna lasciare la massima libertà, osare l´architettura contemporanea in una città un po´ "allergica". Ad esempio la nuova sede del Comune progettata dall´architetto Mario Cucinella è un oggetto urbano interessante».
Le piace la nuova sede dei servizi del Comune?
«Sì, valorizzerà il quartiere della Bolognina, e creerà una nuova piazza urbana. Piazza che abbiamo deciso di intitolare al "Liber Paradisus", che contiene uno dei primi atti al mondo ad abolire la schiavitù, emesso proprio a Bologna 750 anni fa».
Parlando di qualità, come si può assicurare ai nuovi edifici che sorgeranno?
«Nel nuovo Psc i concorsi di architettura sono obbligatori, un´architettura contemporanea illustrata nei laboratori di urbanistica ma che non dovrà mai essere sottoposta a referendum, perché per immaginare la città del futuro ci vuole coraggio».
Forse lo «shock» prodotto dalle espressioni più recenti di architettura è anche dovuto a un difetto di comunicazione. I cittadini vedono sorgere in pochi mesi palazzi enormi, magari previsti in un piano di 20 anni fa di cui hanno perso memoria. Non c´è un difetto di democrazia?
«Ci sono delle trasformazioni che richiedono tempi lunghi, è normale che i cittadini poi si dimentichino i dettagli di un progetto presentato anni prima. La risposta non può che essere quella di usare i cantieri come centri di comunicazione, cioè aprirli e renderli più leggibili ai cittadini con grafici, dati, disegni della costruzione che sta sorgendo».
Le famose «gocce» sarebbero dovute servire a questo scopo: un Urban center per mostrare i progetti per la città. Pensa di chiudere quell´esperienza?
«L´Urban center verrà spostato in Sala Borsa e il contenitore, lo spazio sotterraneo cui si accedeva tramite le Gocce, tornerà a disposizione del settore cultura. Anche se si tratta di uno spazio molto difficile da usare, perché non ci si può restare per più di 4 ore di seguito. Noi puntiamo sulla partecipazione dei laboratori di urbanistica e su internet, oltre al piano di comunicazione che abbiamo elaborato con la facoltà di Scienze della Comunicazione».
Lei ha citato il modello delle torri come riferimento per lo sviluppo della zona Fiera. I grattacieli saranno quindi la cifra della città del futuro?
«Le torri oggi possono essere tipologie edilizie innovative, con un recupero di terreno permeabile e di spazio pubblico. Il grattacielo è un´immagine un po´ fuorviante, fa pensare a alla densità urbana delle metropoli, Bologna è una città media che vuole rimanere tale. Di sicuro escluderei per il futuro le «villettopoli», casette a schiera che abbondano in provincia, uno spreco energetico e di territorio».
Comincia a prendere forma, in Zona Caab, il processo di cementificazione che cambierà il volto della parte più estrema del Quartiere San Donato. Mentre è ancora solo sulla carta il progetto di edificazione della nuova moschea in via Fiorini, e unicamente negli auspici dei costruttori la realizzazione di una nuova Romilia,
il Parco delle Stelle che il patron della Fortitudo, Gilberto Sacrati, vorrebbe tirare su dalle parti di via del Piratino, le gru della reggiana Unieco lavorano alacremente, affianco al parco commerciale Meraville, per completare quello che diventerà il Business Park, ovvero la nuova zona direzionale e per gli uffici della città. Un'operazione in linea con il Piano strutturale comunale, che lì esclude la realizzazione di residenze e villette.
arch. Braccaloni |
Ieri dunque è stato presentato il primo acquirente dei dieci palazzi che completeranno il Business Park: sono le Banche di credito cooperativo (Bcc), che sposteranno qui la sede della loro associazione regionale che attualmente si trova in via Calzoni. Il terreno dove sta sorgendo il Business center è di proprietà della società Città Scambi, ovvero della Seci (del gruppo Maccaferri) e della Galotti, di proprietà della famiglia Marchesini: fu acquisito, diversi anni fa, quando l’allora presidente del Caab, Aljs Vignudelli, decise di mettere in vendita alcuni terreni di proprietà del Centro agroalimentare per ripianare i debiti dell’ente.
Ora si vedono, in concreto, i frutti di quella operazione immobiliare: affianco al Meraville (anch’esso sorge su terreni ex Caabacquisiti da Maccaferri e dai Marchesini) stanno crescendo giorno dopo giorno i palazzi che, negli auspici di chi li vende, dovrebbero attirare tutto il terziario bolognese. In totale si parla di dieci edifici, tutti, assicurano Seci e Galotti, in linea con le ultime norme sul risparmio energetico. I primi quattro palazzi sono in avanzata fase di realizzazione (tra questi quello acquistato dalla Federazione delle Bcc al costo di 30 milioni di euro). Per altri quattro è stata presentatadomandadi autorizzazione agli uffici comunali.
Arch. Braccaloni |
I dieci edifici copriranno, assieme a un laghetto, strade, piste ciclabili e parco, una superficie di 40mila metri quadrati. In futuro l’area sarà raggiungibile dal metrò, in tempi brevi, almeno negli auspici dei costruttori, visto che al momento c’è a malapena una linea di bus a servire quella zona.
Il tutto, burocrazia e mercato degli uffici in stallo permettendo, dovrebbe essere ultimato in poco più di quattro anni. Ignoto il prezzo di vendita al metro quadro, sarà frutto di contrattazione "ad personam",dice Giuliano Montagnini, Addel gruppo Seci, così come non è ancora chiaro di quali servizi potranno usufruire i dipendenti delle aziende che dovessero trasferire la loro sede nel Business Park. Tabaccherie, uffici postali, ambulatori, asili? «Il palazzo che sarà posto all’ingresso dell’area, e che fa parte del secondo stralcio del progetto (quello che attende ancora le autorizzazioni del Comune, ndr), sarà dedicato ai servizi, come bar o ristoranti. E comunque – replica Montanini - si potrà usufruire del Meraville, dove già ci sono servizi di ristorazione. Per quel che riguarda invece i servizipiù focalizzati sulle esigenze delle aziende, valuteremo se sarà il caso di accentrarli in un’unica sede, decideremo dopo la prima fase di commercializzazione».
«Non escluse edificazioni sulla collina»
Adriana Comaschi – l’Unità, ed. Bologna, 18 novembre 2007
Il PSC non esclude «una possibilità edificatoria». È il cuore dell’argomentazione con cui il Tar dell’Emilia Romagna ha bocciato la variante di tutela della collina del Comune di Bologna. La stessa che ha bloccato un residence da 49 alloggi dell’imprenditore
Minarelli, che oggi minaccia di «rivalersi» su palazzo d’Accursio. Una bocciatura a cui è seguita quella del Consiglio di Stato. Per l’assessore all’Urbanistica Virginio Merola quella del Tar è «una sentenza incomprensibile»: la variante non sarebbe solo di tutela come obiettato dal tribunale ma «urbanistica» a tutti gli effeti. E si appoggerebbe al Ptcp della Provicia, che sulla collinea prevede appunto una tutela specifica.
Si è già detto che la misura del Comune è per il Tar «intempestiva» e dunque «illegittima», perché anticipa i contenuti del vero strumento abilitato a dettare le tutele, ovvero il Psc. La lettura integrale del testo però evidenzia come il tribunale punti il dito soprattutto sul carattere «provvisorio» della variante. «Non si è in presenza ... di una variante diretta a dettare una disciplina potenzialmente stabile del territorio - si legge infatti - ma di una misura preventiva e provvisoria, come rilevato dalle stesse difese comunali, che non escludono una possibilità edificatoria al momento di adozione del Psc e degli altri strumenti attuativi con i quali saranno effettuate le nuove scelete urbanistiche comunali». In altre parole, è lo stesso Psc a non dare garanzie certe sulla linea anticipata dalla variante. Fermo restando che il solo richiamo al Psc, oltretutto non ancora «formalmente adottato», è di per sé insufficiente. In effetti, la sentenza sottilinea come non vi siano altri riferimenti normativi a dare “consistenza” alla variante sulla collina. Non basta infatti il richiamo al Ptcp, visto che questo «al punto 7.3 non pone un vincolo assoluto di inedificabilità nelle zone di particolare interesse paesaggistico-ambientale».
È su questo che insistono anche l’architetto Pier Luigi Cervellati, l’ex sindaco Guido Fanti e la docente di Geografia all’Alma Mater Paola Bonora, che già contestarono il via libera del Comune a un campo da golf da una buca in collina. Ora lanciano un appello alla Regione, perché «esca dal suo sonno», per dirla con Fanti, e intervenga con un richiamo forte al Piano paesistico regionale che solo può dare una valida base giuridica alla tutela della collina. L’altro appello è al Comune, perché al di là dello scontro in atto sul residence a Domizzola torni a porsi il problema della tutela «con un disegno complessivo della città che oggi manca - nota Fanti -, si agisce in modo settoriale».
Un esempio? La tutela della collina per l’ex sindaco fa parte di «una più generale tutela del centro storico». Tutela che viene meno quando si stende l’asfalto in Strada Maggiore per il passaggio del Civis, che secondo Cervellati «stravolgerà completamente la funzione» del centro. sempre più simile a «un supermarket». Insomma «prevale una logica di frammentazione, anche nel Psc: dividere Bologna in 7 città è solo retorica», attacca Bonora. Senza contare che «il Psc non può tutelare la collina perché è stretto nei confini comunali - ricorda Cervellati -, non prende in considerazione l’area metropolitana».
Se questo è il quadro, inutile andare all’iniziativa pubblica sulla collina del 20, promossa da Merola: «La partecipazione non si costruisce a giochi fatti». Piuttosto, Fanti guarda «con interesse al dibattito che si è aperto in maggioranza proprio in questi giorni, da qui si capirà se veramente si vuole cambiare strada, correggere il tiro». Sulla colilna e sul Civis. E le penali da pagare per interrompere i lavori del tram? «Distruggere l’immagine e l’identità di Bologna costa di più - nota l’ex sindaco - dei milioni da sborsare per gli errori fatti».
I passaggi più significativi della sentenza
Adriana Comaschi -l’Unità, ed. Bologna, 18 novembre 2007
La sentenza n.1667 con cui il Tar boccia la variante comunale sulla collina parte da una premessa: «L’oggetto del presente giudizio è costituito dalla legittimità o meno degli atti impugnati e delle motivazioni indicate quali ragioni ostative dell’intervento edilizio in questione. Nessun rilievo hanno pertanto le considerazioni difensive dell’amministrazione comunale che», si legge, «si presentano come una inammissibile integrazione postuma dei provvedimenti impugnati». Altro punto contestato: la variante del Comune «precisa che la scelta effettuata costituisce una “misura di salvaguardia nel percorso in atto di elaborazione della nuova pianificazione urbanistica (Psc, Poc e Rue)”». Insomma la variante ha carattere provvisorio, è «tale da non pregiudicare la pianificazione in via di elaborazione». Il Comune difende poi la variante come «urbanistica» a tutti gli effetti: il Tar invece rileva come «la qualificazione formale dell’atto quale misura di salvaguardia è più volte contenuta nella deliberazione stessa».
Sentenze e difesa della collina
Vittorio Emiliani -l’Unità, ed. Bologna, 18 novembre 2007
La situazione della collina bolognese è unica in Italia. Lo si constata ad occhio nudo ogni volta che si passa da Bologna in treno o in autostrada. Il suo paesaggio verdeggiante non ha subito manomissioni. Per contro il cemento ha invaso da tempo i Castelli romani, ha reso agghiacciante lo sfondo di Genova e falcidiato il verde di quella Napoli che Stendhal definiva «indiscutibilmente la più bella città del mondo, con tanta campagna dentro». Né è andata granché meglio nella collina torinese. Dunque l’atto di coraggio compiuto, tanti anni addietro, dalle giunte comunali guidate da Dozza e da Fanti, con gli assessori Sarti e Cervellati, rimane nella storia dell’urbanistica italiana come un fatto positivo rarissimo di cui essere ancor oggi orgogliosi. E da difendere come patrimonio paesaggistico, naturalistico, ambientale di tutti.
Comprendo bene quindi come si rimanga disarmati di fronte alla sentenza del TAR e del Consiglio di Stato sostanzialmente favorevoli (bando alle sottigliezze giurisprudenziali) ad un progetto di residence che costituisce il "grimaldello" col quale può saltare la tutela pluridecennale della collina bolognese. Con l’argomentazione davvero speciosa che la giunta Cofferati ha ecceduto in zelo presentando troppo in anticipo la variante in difesa della collina medesima e, ancor più, violando un diritto acquisito dai privati che non si vede quale fondamento abbia.
Ma la “questione collinare” è diventata anche argomento per una arroventata polemica fra due urbanisti, entrambi ex amministratori bolognesi di notevole peso, Felicia Bottino e Giuseppe Campos Venuti, sulla qualità della pianificazione urbanistica: su quella vecchia o tradizionale, dirigistica, su quella nuova, condivisa con le forze economiche, sociali, culturali. L’impressione che ho io è che la prima non abbia dato i risultati sperati (però per la collina bolognese li ha dati) soprattutto perché essa è stata spesso tradita - come lo stesso Piano paesistico del 1986 - a livello di attuazione con l’arma delle varianti e che la seconda porti in sostanza all’urbanistica contrattata la quale, a sua volta, conduce al "paesaggio negoziato" (si salvano quelli belli e integri, pochi ormai, e per gli altri…si negozia).
Sono soltanto un giornalista appassionato di questi temi e problemi e però la vedo così. Come vedo l’Emilia-Romagna seminata di gru, in testa ai permessi di costruzione edilizia assieme a Lombardia e Veneto, fra le prime nei consumi di suolo e quindi di paesaggio, divenuti da noi divoranti, con una riduzione della superficie ancora libera del 22 per cento soltanto nel quindicennio 1990-2005, alla pari con la Sicilia (dove, certo, l’edilizia abusiva se ne "mangia" un altro bel po’ di ettari ex agricoli o a verde) e appena dopo la Calabria.
Insomma, la battaglia per salvare la collina bolognese da asfalto & cemento mi sembra di quelle emblematiche se non vogliamo giocarci nella regione quel po’ che resta di paesaggio agrario, storico e naturalistico alle spalle di un Adriatico integralmente costruito e quasi senza più dune, da Cattolica ai Lidi Ferraresi.
I Comuni che fanno bene il loro mestiere tutelando come quello di Bologna la collina verdeggiante o, come quello di Verucchio (Rimini), collina e archeologia, dovrebbero venire premiati anziché paradossalmente puniti dagli organi della giustizia amministrativa.
«Almeno il 40% di spazi ai privati». «Nessuna spartizione. E comunque la quota di edificazione non può andare oltre il 33% delle aree». Prime schermaglie tra costruttori e Comune sul futuro dei 12 immobili militari appena passati al Demanio, che li darà in concessione a palazzo d’Accursio o privati. E lo scontro si allarga subito all’altra grande operazione immobiliare in vista nel futuro di Bologna, quella all’ex Mercato Fioravanti: «Un’impresa che partecipasse al bando del Comune andrebbe in perdita» attacca il direttore del Collegio costruttori Carmine Preziosi. In concreto: «A fronte di un investimento di 55-60 milioni si rischia una perdita di 5 milioni, non recuperabili nè attraverso la vendita né attraverso la locazione», spiega Preziosi. Insomma «le imprese stanno valutando se presentarsi solo per senso del dovere». O se non presentarsi del tutto. Sulle aree militari poi l’impegno non sarebbe da meno: lo stesso Comune stima che per recuperare la sola Staveco occorreranno oltre 40 milioni.
Il doppio affondo dei costruttori segue un unico filo conduttore, e prende spunto dalle aree fino a due settimane fa di proprietà del ministero della Difesa a Bologna: ben 600 mila metri quadri, ricchi di verde, anche in zone di assoluto pregio ai bordi della collina. Tra queste gioielli come la Staveco e la caserma S.Mamolo, ex convento francescano, e poi l’enorme appezzamento dei Prati di Caprara che la giunta ha già detto di voler trasformare nel secondo grande polo del verde cittadino dopo i giardini Margherita. Quanto alla Staveco, l’assessore all’Urbanistica Virginio Merola ha subito messo in chiaro: lì «niente villette» ma scuole o impianti sportivi come chiesto dal quartiere S.Stefano. E in generale, la destinazione a uso pubblico sarà prevalente.
Subito realtà importanti come ateneo, procura e questura si sono fatte avanti rivendicando l’esigenza di nuovi spazi. È questo il quadro in cui nasce il vivace scambio di battute tra Merola e Preziosi, ieri ai microfoni di Radio Città del Capo. Un confronto che poi Preziosi ha voluto allargare anche al delicatissimo comparto dell’ex mercato. «Il problema è quello dell’equilibrio tra costi e ricavi, sulle aree ex militari vedo solo proposte con un forte consenso sociale ma sbilanciate sui costi», ragiona Preziosi riferendosi sia all’impostazione data dal Comune, sia alle richieste arrivate da diversi enti.
Il ragionamento è chiaro: impossibile attuare interventi così consistenti senza fondi privati. Ma è altrettanto impossibile che un privato possa farsi avanti senza un guadagno, «la differenza tra costi e ricavi deve essere almeno del 30%», spiega Preziosi. Ecco allora che il Collegio invita l’assessore a essere «molto realista» e a riconoscere come «imprescindibile» la destinazione residenziale. Con tanto di indicazione su come suddividere la riqualificazione delle 12 aree: con un 60% di uso pubblico e un 40% a gestione privata. Merola chiude subito la porta, «impossibile stabilire ora delle percentuali, ci vogliono sei mesi per gli studi di fattibilità, qui si mettono le mani avanti prima del tempo», detta alla vigilia del primo incontro tecnico sul tema, oggi a Roma. E comunque «il coinvolgimento dei privati non lo vediamo solo nella costruzione di alloggi, possono realizzare anche parchi o altre strutture». Unica concessione, quella sui Prati di Caprara: qui ai potrebbe seguire il “modello” del Parco dei Cedri, «realizzato permettendo l’edificazione di alloggi ai suoi margini».
Preziosi insiste. «Il 33% ci può anche andare bene, purché si faccia un ragionamento complessivo sulle 12 aree, se i Prati di Caprara saranno verde al 100% da qualche altra parte i privati dovranno avere anche più del 40%». Un’impostazione che Merola respinge al mittente. «Mai detto che pensiamo di fare a meno dei privati - sbotta - ma devono lavorare attenendosi a quello che dice il Comune, come è sempre stato». Intanto l’assessore annuncia che presto il Comune chiederà allo Stato anche la caserma dei carabinieri di viale Panzacchi, collocata tra le due aree da riqualificare di Staveco e S.Mamolo: «Così potremmo creare un unico grande complesso di accesso alla collina».
Eddyburg aveva scritto per Carta...
Cazzola chiede alle istituzioni risposta definitive: sicuramente quella della Provincia era una risposta molto chiara, anche se non definitiva. Che ne pensa, Campos?
«Cazzola sa, perché evidentemente ha avuto delle assicurazioni in questo senso, che non tutti la pensano come la Provincia. Il sindaco di Imola, Massimo Marchignoli, lo ha già detto, quello di Medicina, Nara Rebecchi, anche. A questo punto, molto dipende da quello che dicono il presidente della Regione, Errani, e forse anche il sindaco di Bologna, Cofferati».
Che per il momento tacciono. Il sindaco di Imola rimprovera invece alla Provincia un atteggiamento «troppo istituzionale».
«La prima cosa che voglio dire è che la Provincia ha fatto bene e io non mi aspettavo di meno. Però cosa fondamentale da capire è che il Piano con cui la Provincia regola lo sviluppo del territorio (e sulla cui base ha posto dei “paletti” al progetto Romilia ndr) è stato disegnato con il consenso della Regione. Per questo mi aspetto subito che alla Provincia faccia eco la Regione».
Per il momento l’assessore regionale Campagnoli dice, a proposito di Romilia, che va accelerata la realizzazione del Passante autostradale.
«Ci arriviamo, prima però voglio dire un’altra cosa, a proposito dell’approccio istituzionale. Che in questo caso altro non è che una lettura del Piano territoriale provinciale che, essendo lo strumento urbanistico vigente, va rispettato. Io non ho mai pensato - e non lo penso oggi - che il Piano debba essere blindato. Certo risponde a una strategia generale chiara che può essere cambiata. Se questo è il problema, abbiano il coraggio di dire che va cambiata la strategia generale del Piano provinciale (e regionale), ci spieghino qual è la nuova strategia e, per servire gli interessi del signor Cazzola, cambino il contenuto del Piano».
Cazzola è risentito perché il suo progetto è stato da lei paragonato a quello berlusconiano di Milano 2.
«Lui dice che questo confronto gli fa accapponare la pelle e che si è offeso. Mi sorprende che Cazzola si adonti per il paragone con Berlusconi, da un certo punto di vista mi fa persino piacere. Però l’unica differenza che c’è tra Milano 2 e Romilia è che nel primo caso si parla di 70 ettari di variante, mentre per Romilia sono 300. Inoltre, per Milano 2, la proprietà del terreno era già di Berlusconi, mentre per Romilia è ancora di proprietà delle cooperative, che evidentemente hanno concesso a Cazzola un’opzione. Quindi c’è un socio che, per essere espliciti, è cointeressato all’operazione di Cazzola. E questo è il primo punto, ma ce n’è un altro che mi preme sottolineare».
Prego, lo faccia.
«Cazzola parla di piano industriale, ma quello di Romilia non lo è».
Perché?
«I liquidi non ci sono: Cazzola stesso li cerca. L’unica produzione sarà costituita da servizi. Non si tratta quindi di profitto, ma di pura rendita. Un terreno di 300 ettari, con un valore agricolo relativamente basso, con una semplice firma potrebbe diventare edificabile, vedendo moltiplicato per cifre imponenti il proprio valore. Le destinazioni ottenute con quella firma sono private e come tali andranno sul mercato. Per finanziare lo stadio e il Bologna calcio, che restano privati».
Il sindaco di Medicina ricorda che esistono anche le varianti ai piani urbanistici.
«In parte ho già risposto. Qui non si tratta di una variante, si tratta di una strategia. Il piano indica una direzione di sviluppo, verso nord, e comunque lungo gli assi esistenti. Dice che le campagne vanno semplicemente preservate e non ci deve essere nessuna aggiunta di centri commerciali o residenze fuori da queste direttrici. Se non va bene, facciamo un nuovo piano che dica il contrario».
Torniamo alla proposta di Campagnoli.
«Mi chiedo se abbia provato a guardare una carta. Se il Passante autostradale deve essere dirottato di dieci chilometri per arrivare a Romilia, io comincio a preoccuparmi moltissimo. Bisogna portare servizi dove vuole Cazzola, strade dove vuole Cazzola, persino la ferrovia. Questo è un metodo che in Emilia Romagna non è mai stato praticato».
Ma Bologna che c’entra con Romilia?
«Il Comune di Bologna è proprietario dello stadio Dall’Ara per ristrutturare il quale la collettività, nel 1990, ha speso fior di quattrini. Se si decidesse di fare un altro stadio, il Dall’Ara, un valore immobiliare di proprietà pubblica, verrebbe danneggiato».
Lei, parlando di Romilia, chiama in causa il nuovo Pd.
«A Rimini c’è un’operazione identica a quella di Romilia, tutta finanziato dalla rendita. Noi stiamo presentando la nuova legge nazionale di governo del territorio, ispirata alla nostra legge regionale. Se passano queste operazioni, diranno: “Si voi fate leggi, ma poi non le seguite”. Il Partito democratico per cui ho votato non sarà mica il partito di Romilia? Se così fosse, mi ritirei in buon ordine».
Romilia potrebbe restare un sogno. Il patron del Bologna Calcio e i suoi soci, Mario Bandiera e Renzo Menarini, stanno pensando di abbandonare l’idea del complesso ludico-residenziale che vogliono realizzare a Medicina, nell’hinterland bolognese. L’area in cui, tra appartamenti e parchi tematici, dovrebbe sorgere anche il nuovo stadio. A far riflettere la triade di imprenditori sono una lettera che la presidente della Provincia, Beatrice Draghetti, ha mandato allo stesso Cazzola. Nella missiva Draghetti chiede «approfondimenti tecnici necessari per le valutazioni territoriali di sostenibilità, fattibilità e coerenza del progetto con le politiche amministrative approvate dagli Enti locali». Una serie di richieste che, evidentemente, ha messo in allerta Cazzola e soci.
Nei prossimi giorni il gruppo, di cui fa parte anche la società Aktiva, «valuterà l’opportunità di sostenere ulteriori investimenti per produrre la documentazione richiesta o se abbandonare definitivamente l’iniziativa». Un “aut aut” in piena regola, dunque, dovuto al fatto che la lettera di palazzo Malvezzi «evidenzia che i contenuti della proposta di progetto denominato Romilia sono incompatibili con le norme e i criteri vigenti sulla pianificazione territoriale di competenza della Provincia», recita la posizione della società rossoblù. Il nodo, insomma, è la compatibilità con il Piano territoriale di coordinamento provinciale (Ptcp), messo a punto in questi anni dalla giunta di palazzo Malvezzi. Il punto è che il terreno scelto a Medicina non è nelle linee di sviluppo del piano. Le dimensioni del progetto Romilia avevano aperto polemiche aspre in Consiglio provinciale: la giunta vuole mantenere aperto il dialogo con Cazzola e soci, ma Verdi e Sinistra radicale avevano bocciato l’idea. A fronte dell’entusiasmo del sindaco di Medicina, Nara Rebecchi, il primo cittadino di Bologna, Sergio Cofferati, dapprima freddo, aveva mostrato segnali di apertura al progetto. Una stroncatura totale, invece, era arrivata dall’urbanista Giuseppe Campos Venuti che, l’ultima volta lunedì scorso dalle colonne de L’Unità, ha definito Romilia un «ecomostro». Ma cosa si legge nella missiva della Provincia? Tutto, come si diceva, ruota attorno alle prescrizioni del Ptcp. Che individua per lo sviluppo dell’hinterland 5 aree: San Giovanni in Persiceto, Funo, Altedo, Castel San Pietro, Martignone. Medicina non compare. Ma non è finita. «La residenza (si parla di circa 600-700 alloggi, ndr) è ammessa solo in corrispondenza dei centri urbani esistenti e dotati di servizio di trasporto pubblico su ferro (Sfm)», oltre che di scuole e servizi sanitari. Tradotto: niente vieta di realizzare in aperta campagna, come vorrebbe il progetto di Cazzola e soci, impianti sportivi e ricreativi, altra cosa è costruire delle abitazioni lontane da centri abitati e servizi. Una «coerenza rispettata da tutti i Psc finora elaborati», tra cui quello di Bologna. E se pure è vero che il Ptcp «ammette funzioni complementari a quelle sportive», le stesse prescrizioni - cioè la vicinanza a aree urbanizzate o urbanizzabili - riguardano anche le funzioni commerciali. Se le infrastrutture non ci sono, bisogna che la loro «realizzazione sia garantita da impegni finanziari già inseriti nei programmi di investimento degli enti competenti e/o dei soggetti attuatori dell’investimento». Per il nuovo stadio, poi, «si chiede il tipo di stadio ipotizzato, le funzioni presenti, le dotazioni territoriali necessarie per il suo funzionamento, gli usi, sportivi e non, che dovrà ospitare oltre a quelli calcistici». Per il vecchio Dall’Ara, si chiedono, invece, «gli usi e le funzioni previste per il suo riutilizzo».
Mentre la triade rossoblù riflette, Alfredo Vigarani, capogruppo dei Verdi a palazzo Malvezzi, spera che Romilia resti un sogno: «Sono felice che Cazzola abbia finalmente compreso il senso della pianificazione territoriale», esulta l’ambientalista.
COLPO DI SCENA Romilia non è stata ancora concepita che già sembra essere morta. Ieri la Provincia ha ricordato a Cazzola e soci i vincoli. Gli imprenditori ora getteranno la spugna?
L’ultimo pezzo critico de l'Unità sulla gestione del paesaggio toscano, mi suggerisce di continuare e di allargare il discorso fatto da Vittorio Emiliani. Perché la sua critica alla Regione Toscana riguarda l'eccesso di autonomia attribuita ai Comuni toscani per quanto riguarda il paesaggio, mentre la questione, secondo me, riguarda più in generale tutto il governo del territorio. Io penso, infatti, che la sacrosanta responsabilità urbanistica di ciascun Comune, deve misurarsi costantemente con quella dei Comuni vicini e con quella della Provincia e della Regione; oltre, naturalmente con le responsabilità nazionali.
Resto del parere, insomma, che il governo ottimale del territorio - e non solo dei suoi aspetti paesistici - si ottiene con una collaborazione continua delle diverse istituzioni a tutti i livelli.
Detto questo, però, condivido l'opinione dei compagni toscani che, fra tanti «ecomostri», quello di Montichiello - tanto sbandierato sulla stampa - , indubbiamente sgradevolissimo, non è però fra i più gravi; e penso che sarebbe utile occuparci di ecomostri anche più macroscopici. Per esempio di quello che rischia di nascere in Emilia Romagna, in mezzo alla campagna fra Bologna ed Imola. Si tratta di una colossale urbanizzazione battezzata «Romilia», la cui superficie totale sfiora i 300 ettari - per capirsi 3 milioni di metri quadrati -; una cittadina grande come le vicine Medicina, Budrio o Molinella, che dovrebbe nascere dal nulla, con motivazioni francamente difficili da condividere.
Infatti il patron del Bologna Football Club, Cazzola ha deciso che lo stadio comunale bolognese, rifatto impeccabilmente per i Mondiali del 1990, non va più bene e ne vuole costruire uno nuovo tutto suo, a circa 40 chilometri dalla città. Siccome, però, non ha intenzione di finanziarlo in proprio, ha deciso di farlo finanziare dalle scelte urbanistiche della comunità. E ha presentato un plastico, che spiega come ha intenzione di utilizzare i quasi 300 ettari di campagna da urbanizzare: un migliaio di alloggi, un megacentrocommerciale, un gruppetto di alberghi e ristoranti, un parco acquatico, un parco divertimenti tipo Gardaland, un parco dell'automobile - tribune colossali e una bella pista che fa pensare ad un vero e proprio autodromo -, un golf, il centro tecnico del Bologna Football Club e relativi campi di allenamento ed infine il nuovo stadio. Più parcheggi per 17.000 posti macchina, perché a Romilia si arriverà - naturalmente - in automobile. Anche se Cazzola ha dichiarato che vuole un raccordo ferroviario, oltre all'indispensabile raccordo superstradale, alla cui realizzazione spera di poter contribuire con i proventi della colossale operazione immobiliare.
Il fatto è che la Provincia di Bologna ha approvato nel 2004, d'intesa con la Regione, un ottimo Piano Territoriale di Coordinamento, redatto in base alla nuova legge regionale riformista. Un piano che indica le direttrici di sviluppo strettamente legate alle ferrovia esistenti, sulle quali è previsto si snodi il Servizio Ferroviario Metropolitano, già in via di attuazione; con una netta preferenza per la direttrice nord e con l'esplicito rifiuto di nuovi centri urbani da creare a spese della campagna. Mentre Romilia si trova ad est, lontana dalle direttrici ferroviarie e isolata da qualsiasi insediamento. In più la legge regionale riformista impone ad ogni nuovo insediamento, la cessione gratuita di tutte le aree necessarie ai servizi per la popolazione già esistente e da insediare; e non consente certamente previsioni premiali che le proprietà possano usare per finanziare nuove attrezzature private.
La proposta di Romilia si presenta, quindi, come un vero e proprio baratto urbanistico, che sfrutta le scelte delle istituzioni per creare valori immobiliari privati, capaci di finanziare altre operazioni private. Una operazione al limite della legalità, ma fuori da ogni visione etica, che rappresenta soltanto una gigantesca operazione immobiliare. Anche se Cazzola, sdegnato, si ostina a definirla una «operazione industriale»; mentre chiede di valorizzare terreni il cui costo sul mercato è soltanto agricolo, con una decisione pubblica di piano che farà lievitare il prezzo in modo esasperato. E in seguito l'operatore immobiliare beneficiato da questo regalo della comunità, costruirà attrezzature e insediamenti che resteranno privati e saranno venduti a privati a prezzi di mercato. Non è possibile sostenere in alcun modo che si tratta di una operazione industriale, perché siamo di fronte soltanto ad una speculazione, fatta da privati con la complicità delle istituzioni.
È una operazione identica a quella che fece ai suoi esordi Berlusconi, 45 anni fa; ottenendo dal Comune di Segrate una variante che consentiva di urbanizzare 70 ettari di campagna, permettendogli di costruire dal nulla «Milano2», una cittadina alle porte della grande città. E così dalla Edilnord naquero le fortune del Cavaliere, dal mattone alla tv, alla editoria, fino alla costituzione di un partito politico. Eppure le istituzioni bolognesi non sembrano indignarsi. La Regione è quasi apertamente favorevole, il Comune di Bologna non sembra interessato, mentre nel piccolo Comune di Medicina sede dell'operazione, all'opposizione è rimasta solo Rifondazione. La Provincia di Bologna, che per la legge regionale deve valutare la coerenza della variante rispetto al Piano Territoriale Provinciale, è l'unica istituzione che ancora non si è arresa e tergiversa, abbandonata dalle altre istituzioni più potenti politicamente.
Eppure nei congressi dei Ds, che si stanno svolgendo in questi giorni, non c'è nessuno fra le tre mozioni, che abbia preso le parti di Romilia. Come farebbe del resto il Partito Democratico, per il quale si orienta la maggioranza degli emiliani e dei romagnoli, ad esibire nel suo nuovo e immacolato biglietto da visita l'ecomostro di Romilia? Ecco perché sostenevo all'inizio, che per le scelte di rilievo sul territorio, tutti i livelli istituzionali sono corresponsabili. Non certo solo il piccolo Comune, esaltato dalla mirabolante prospettiva di Romilia; ma insieme il Comune capoluogo, la Provincia e la Regione, tutti oggettivamente responsabili di rifiutare o di consentire la nascita di un ecomostro anche in Emilia Romagna.
Guardiamola, Bologna: le porte, le tracce delle mura che incontriamo percorrendo i viali di circonvallazione; guardiamola e pensiamo a come è stata progettata la cinta trecentesca della città perfetta, Jerusalem celeste con le sue porte, dentro le strade a raggiera, la calibrata dimensione dei suoi edifici, l'emergere delle chiese e, un tempo, lo svettare, accanto ai campanili, delle torri dei secoli XI, XII e anche XIII.
Guardiamola, Bologna e proviamo a capire come è stata ripensata, quella città. La città è una macchina per pensare l'esistenza, certo, ma quale esistenza? Una città è un sistema di funzioni, certo, ma quali funzioni? Una città è il luogo del vivere civile, sicuro, ma questo vivere civile, questa vita anche di relazione, è di tutti e quindi è sempre e ovunque possibile dentro la città?
Credo che per capire Bologna si debbano distinguere due tempi, quello prima e quello dopo gli anni '70, e ancora si debba pensare a distinguere le vicende del dentro e del fuori delle mura, salvo poche zone come quella dei colli.
Perché, prima di tutto, la distinzione temporale? Perché in una certa e precisa fase — quella che ha visto all'opera Pier Luigi Cervellati e Giuseppe Campos Venuti, l'urbanista che progetta Bologna fra 1960 e 1966 — si spostano dal centro al-la periferia, la Fiera, la Borsa e il Palazzo dei Congressi; si crea, quindi, un vero e proprio centro direzionale al settentrione della città, ancora oggi funzionale. L'assessore Pier Luigi Cervellati, in Via San Vitale, restaura delle case «popolari », dunque non costruisce fuori porta casermoni ma reinventa un modello urbano medioevale con servizi moderni; propone il rapporto spazio coperto-spazio verde riprendendo quello della gran parte degli spazi dentro le mura prima dei riempimenti ottocenteschi, e ulteriori, degli orti e dei giardini. La lezione è importante perché stabilisce una norma: che gli abi-tanti non abbienti devono potere vivere nel centro storico, non esserne espulsi.
Tutto questo accade ancora nel centro di Bologna? Ecco, la frattura che abbiamo indicato segna davvero uno spartiacque: il centro di Bologna diventa in pochi lustri sempre più simile a quelli delle altre città del nostro paese, diventa il luogo del terziario, il luogo degli uffici, delle banche, dei servizi; i cittadini, quelli coi redditi meno alti, sono costretti a uscire dalla cerchia delle mura e ad andare ad abitare nei quartieri periferici. Un corretto Piano Regolatore avrebbe dovuto prevedere linee di espansione precise e, visto che la collina veniva occupata progressivamente da edilizia residenziale e che al nord stava il centro direzionale, si doveva programmare un sistema di crescita coordinato, ma non è accaduto così. Il vecchio quartiere popolare in parte ricostruito dopo i bombardamenti e i disastri della guerra, la Bolognina, vive come una enclave a sé, e vive male, credo; a San Donato affiorano zone verdi ma il quartiere, come del resto quello prossimo di San Vitale, propone una crescita a macchia d'olio della città che si sviluppa, naturalmente, anche dal lato opposto; nella zona dello stadio e di porta Saragozza, modificando profondamente il rapporto con uno degli assi più significativi e che era certo da rispettare: la salita coperta alla Madonna di San Luca i cui portici, ancora ben conservati, sono stati otticamente manomessi in più punti e sopra tutto nella zona dello stadio.
La macchina della città, a questo punto, non propone più una forma, ma semplicemente un sistema di espansione disorganica senza spazi verdi, senza centri per il loisir, per gli incontri, per gli scambi.
Bologna ha un centro storico, certo, ma non hanno storia purtroppo le sue periferie: ancora oggi, infatti, i loro abitanti vivono se vanno «in centro», quello vero, pensato nell'età che dal Medioevo arriva al '700 e al primo '800, il tempo in cui Bologna è stata una città a misura di abitanti. Pochi anni fa, di fronte alla crisi della immagine stessa e delle funzioni della città, esplosa negli anni '80 e '90 e culminata con il cambio della maggioranza, un gruppo di urbanisti, Alessandro Del Piano, Marco Guerzoni, Giancarlo Mattioli fonda la Compagnia dei Celestini nel nome di un recupero di modelli diversi, e di uno spazio diverso dentro e fuori la cinta urbana.
Il nodo quindi oggi sta proprio qui, capire che cosa è accaduto non alle architetture, ma alla gente: capire dove vivono e come vivono le classi meno abbienti, capire se esse hanno dei punti di riferimento ma capire anche dove e come vivono gli altri, quale esistenza viene loro proposta al di là della qualità estetica dei condomini che per loro sono edificati.
La mancanza di forma della città, della Bologna di oggi, non è il risultato di un casuale accavallarsi di interventi, anche se questi certo vi sono stati, ma di una visione che si è perduta della funzione civile del rapporto cittadini-tessuto urbano. Nascere a Bologna, per decenni nel dopoguerra, ha voluto dire, mi si permetta la espressione, vivere nell'equilibrio di un sistema eccezionale nel nostro paese; vivere adesso a Bologna risponde a equilibri sempre più precari man mano che ci si allontana dal filo delle mura. Ma se i piccoli proprietari, i piccoli negozi, i poli stessi della microcultura urbana, compresi i cinema e tutto il resto, chiudono o si allontanano dal centro, se i grandi nodi della distribuzione di alimentari, di arredo, risucchiano all'esterno l'attenzione e i percorsi dei cittadini, se le grandi imprese, le assicurazioni, le banche, comprano o affittano i maggiori pa-lazzi del centro, che cosa resta della equilibrata, densa, ritmata e felice vita dei cittadini a Bologna? Si dovrebbe sperare soltanto che la Università avesse i fondi per comprare dentro le mura tutto quello che è possibile e per aprirlo a nuove funzioni, a nuovi usi collettivi.
Sono queste le domande che chiunque progetti, da adesso in avanti, la forma della città do-vrà porsi ricordandosi anche che, almeno in apparenza, percorrendo le strade fuori delle mura, si ha la impressione che la edificazione non sia stata pianificata se non quasi caso per caso, ogni pezzo di strada o di piazza separato dal resto. Tutto questo si vede. E si vede anche, ed è terribile, la spaventosa contraddizione fra edilizia speculativa recente ed edilizia anche e solo di fine '800 o dei primi del '900. E questo ovunque. I soli luoghi dove i villini, pur rifatti, pur ingranditi, si conservano nel verde è sulle colline a sud, lungo le strade da Via Castiglione a Via di Barbiano: affascinanti vie, alberi, verde, un bello per pochi, però, e tutti gli altri? Se avrete seguito l'itinerario negli spazi fuori della città, se avrete passato un'ora la domenica pomeriggio fra piazza dell'Unità alla Bolognina e Piazza della Pace dalle parti dello Stadio, forse allora potrete capire.
Sarà forse perché da amministratore ho visto piani e varianti di tutti i tipi e colori, o forse perché ho modo oggi di vedere cosa i nostri piani hanno prodotto nelle città, ma sta di fatto che nutro una profonda delusione sulla reale efficacia di questo strumento. E nutro diffidenza sulla sua strumentalizzazione, sulla autoreferenzialità arrogante, sulla ipocrita chiamata in causa del "Piano" a difesa di quegli interessi collettivi e di quella correttezza politica e amministrativa che nessun Piano può di per sé e comunque garantire. Ma soprattutto ritengo un´offesa all´intelligenza far credere che con il Piano non si favorisce la rendita e si controlli la speculazione immobiliare.
Non è così, e da tempo. Forse è per mancanza della legge nazionale sul regime dei suoli? Forse. Però gli amministratori di Bologna (Zangheri, Sarti e Cervellati), già negli anni 70 praticarono un´efficace politica patrimoniale capace di garantire una fetta consistente di edilizia pubblica comprando vaste aree di espansione, interi isolati degradati del centro storico e parchi in collina.
Guardiamo a Bologna oggi, dove il piano dell´85–89 (per il quale solo il sindaco Vitali ha fatto autocritica) ha lasciato sul campo della sua attuazione uno dei peggiori esempi di pianificazione. Non so quanto il nuovo PSC inverta la rotta, ma ammetto la mia difficoltà a leggerlo o la sua vocazione a non farsi comprendere. Una cosa è chiara: è sparito qualsiasi riferimento al centro storico, da sempre polo funzionale primario della città e identità dell´intera area metropolitana. Così come non viene previsto alcun significativo decentramento di funzioni primarie, né viene impostata alcuna concreta visione metropolitana. Per il resto non mi risulta ci siano innovazioni sostanziali rispetto a scelte, ipotesi e progetti che si erano già via via consolidati prima della formalizzazione del piano attraverso accordi o varianti specifiche al piano dell´85: dall´area ferroviaria, alle volumetria concesse al CAAB, alla stessa proposta del people mover. Così come allo stesso modo risulta casuale ed estemporanea e quindi labile la previsione della più importante scelta infrastrutturale del PTCP.
Il cosiddetto "passante" che, pur senza essere previsto in nessun atto di pianificazione, venne inserito all´ultimo momento nel piano. Superfluo dire che sia la previsione del passante che quella del people mover ha promosso e favorito la logica della rendita di posizione che sarà difficile combattere o anche solo contemperare.
Questo quadro rappresenta l´apice di una difficoltà di governo del territorio presente anche in tanti altri comuni della regione. Forse vale la pena tornare a guardare all´Europa dove alcune fra le più avanzate esperienze hanno dato alla crisi del piano una risposta positiva accompagnandola con una pianificazione strategica capace di sposare politiche e piani e con una capacità di progettazione urbana di alta qualità. E´ la strada seguita da Rimini, ma la stessa Regione con l´elaborazione del piano territoriale e l´adeguamento del piano paesistico intende dare una risposta in positivo.
Tornando a Bologna, vi è infine da registrare come si sia di recente calato in questa situazione, in modo del tutto anomalo, il progetto Romilia. Anomalo perché è del tutto irrituale che parta dalla solitaria iniziativa di un gruppo di privati un progetto di così forte impatto, ma anomalo anche per l´atteggiamento del Sindaco che, prima ha ritenuto che la cosa non lo riguardasse, salvo successivamente chiedere alla Provincia di decidere. La Provincia ha optato per la costituzione di un tavolo inter-istituzionale dove ogni soggetto dovrà assumersi le proprie responsabilità. Senz´altro la valutazione che dovrà contare meno è quella che il progetto non è previsto nel Piano (quale?). Senz´altro quello che è necessario per il futuro è la messa in campo di una cultura di governo capace di disegnare un progetto strategico per la città metropolitana.