«Dario Franceschini dice che Matteo Renzi sta facendo l'impossibile per distruggere le soprintendenze e la tutela, e che lui invece fa il possibile per resistere, e per salvare le une e l'altra. La prima parte del discorso è certamente vera». La Repubblica online, blog "Articolo 9", 21 gennaio 2016
Come altro definire, se non mobbing, l'incomprensibile decisione di tornare – dopo pochi mesi – a riformare radicalmente la struttura centrale e periferica del Ministero, negando e sovvertendo i capisaldi della precedente riforma e gettando nello sconforto e nell'avvilimento le donne e gli uomini che difendono il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione?
A questo giro si sopprimono – con l'assenso inquietante e vergognoso del Consiglio Superiore dei Beni culturali – le soprintendenze archeologiche e la direzione centrale per l'archeologia, e si passa a soprintendenze uniche. Olistiche, come ama chiamarle qualche ciarliero cialtrone.
Intendiamoci: le soprintendenze uniche potevano avere un senso. Ma dovevano essere un obiettivo fin dall'inizio: non un aggiustamento maldestro fatto in corso d'opera e a costo zero. Si dovevano accompagnare a direzioni generali divise per funzione, e dovevano essere guidate a rotazione da funzionari dalla diversa competenza, e non affidate agli evanescenti ectoplasmi interdisciplinari che ora si vagheggiano, e che rischiano di essere i leggendari managers del patrimonio. Senza contare il vero e proprio caos che questa riforma della riforma provoca mescolando le competenze di soprintendenze, poli museali, segretariati regionali...
Una delle vere ragioni di questa imbarazzante contorsione è recuperare posti dirigenziali per creare altri dieci musei e siti archeologici autonomi. Carne da valorizzazione, da rimettere presto a bando internazionale: per avere altri dieci fedeli terminali del potere politico. Con quali conseguenze? C'è, per esempio, da scommettere che vedremo presto l'Appia Antica consegnata armi e bagagli ad Autostrade.
Si riesce ad intravedere un fine più generale, in tutto questo caos? Le premesse delle bozze dei decreti dicono ufficialmente che tutto ciò servirebbe a evitare le conseguenze del silenzio assenso: che non è una pestilenza o un terremoto, ma una norma introdotta dallo stesso governo Renzi. A voce, poi, Franceschini dice che è un modo di arginare i danni della sottomissione delle soprintendenze alle prefetture: che è un'altra mostruosa disposizione della Legge Madia.
Che, invece, il fine sia quello di portare a termine la distruzione dell'apparato della tutela lo dimostra il fatto che ora passano agli istituti della valorizzazione (i musei autonomi) anche gli immobili in cui essi hanno sede: e pazienza se li condividono con le soprintendenze (si veda ad esempio il caso di Villa Giulia a Roma, dove convivono soprintendenza e museo). E non basta: si impone anche "il trasferimento [ai musei] di uffici, archivi, biblioteche, laboratori, spazi espositivi e depositi dei relativi musei e luoghi della cultura", fingendo di non sapere che tali strutture sono (erano) comuni a Soprintendenze e musei prima della riforma. E la Soprintendenza senza laboratori, biblioteche ed archivi, come lavora? Non lavora: et hoc erat in votis.
Non basta ancora. Si dispone anche che "con riguardo ai musei, alle aree e ai parchi archeologici, la consegna dei reperti presenti nei depositi e non ancora inventariati può essere differita a non oltre il 31 dicembre 2016, al fine di completare l'inventariazione; decorso tale termine, i beni sono trasferiti ai musei dotati di autonomia speciale o ai poli museali regionali e la relativa attività di inventariazione è svolta da detti istituti in cooperazione con le Soprintendenze competenti". Chi ha scritto questa norma davvero non è mai entrato in una soprintendenza o in un museo, e non ne ha mai visto le condizioni. Chi potrà mai inventariare e studiare entro il 31 dicembre 2016 le migliaia di cassette di materiali rinvenienti da scavo? E con quali risorse? E questi materiali a cosa servono nei musei? Il loro studio e la loro conoscenza servono alle soprintendenze per capire il territorio e costruire le carte del rischio archeologico. O meglio: servivano...
Sta di fatto che per ritrovare una paragonabile contrazione della tutela si deve tornare alla legge del 1923, che istituiva soprintendenze uniche: un assetto che dette pessimi risultati, e che fu radicalmente rivisto contestualmente alla legge del 1939. Per trovare, invece, la sottomissione dei soprintendenti ai prefetti bisogna risalire al 1860: cioè al caos immediatamente successivo all'Unità, poi velocemente superato perché fatale per la tutela.
In privato, Dario Franceschini dice che Matteo Renzi sta facendo l'impossibile per distruggere le soprintendenze e la tutela, e che lui invece fa il possibile per resistere, e per salvare le une e l'altra. Sembra ormai irrilevante capire se la seconda parte del discorso sia vera. La prima certamente lo è: perché è proprio questo il fine del mobbing, licenziare per sempre la tutela del nostro patrimonio culturale.
La Repubblica, 120gennaio 2016
Un nuovo scossone agita le acque dei Beni culturali. Pochi mesi dopo una complessa riorganizzazione di soprintendenze e musei, ecco che le prime vengono ulteriormente accorpate, inglobando, insieme al paesaggio e alle belle arti, l’archeologia, mentre altri dieci luoghi del nostro patrimonio diventano autonomi e per loro sono in arrivo direttori selezionati con bando internazionale, come avvenne per gli Uffizi o Capodimonte nell’agosto scorso.
La decisione maturava da qualche tempo, ma per molti dentro il ministero è stato un colpo a sorpresa. Quando infatti si decise di unificare paesaggio e belle arti in un’unica soprintendenza, nell’estate del 2014, al ministero sottolinearono che l’archeologia restava autonoma per le specifiche competenze che comportava la tutela delle antichità. Ora però Dario Franceschini sottolinea la continuità con le scelte di allora, scelte che hanno prodotto già un faticoso adattamento degli uffici. Per il ministro, le nuove soprintendenze servono a «rafforzare i presidi di tutela e semplificare il rapporto tra cittadini e amministrazione». In Italia ci saranno dunque 39 soprintendenze (erano 17 le sole archeologiche), più le due speciali di Roma e Pompei. E tutte si occuperanno di tutto. Ogni soprintendenza verrà articolata in sette aree funzionali (archeologia, belle arti, architettura, demoetnoantropologia, paesaggio, educazione e ricerca, organizzazione e funzionamento). Verrà abolita anche la Direzione generale delle Antichità. Il ministro insiste sul fatto che le nuove strutture «parleranno con voce unica a cittadini e imprese, riducendo tempi e costi burocratici». Il pensiero di Franceschini sembra andare alle conferenze di servizio e alle altre occasioni in cui si autorizzano opere anche di pesante impatto su territori e paesaggi. Ma il timore del fronte ambientalista è che si voglia abbassare ulteriormente la soglia della tutela.
L’altra parte del provvedimento riguarda quattro aree archeologiche (l’Appia Antica, i Campi Flegrei, Ercolano e Ostia Antica) e poi il complesso monumentale della Pilotta a Parma (con la Biblioteca Palatina, la Galleria Nazionale e il museo archeologico), i musei dell’Eur a Roma (Pigorini, Arti e tradizioni popolari e Alto Medioevo), e, sempre a Roma, il Museo Nazionale Romano, il Museo di Villa Giulia, Villa Adria a e Villa d’Este a Tivoli e il Castello di Miramare a Trieste. Dieci pezzi pregiati del nostro patrimonio che si pensa, con l’autonomia e direttori scelti in seguito a un bando pubblico, di valorizzare meglio. Che cosa questo significhi, ad esempio, per l’Appia Antica lo si capirà quando il provvedimento del ministero sarà disponibile: è un territorio vastissimo, 3.500 ettari, al quale si accede senza biglietto, con monumenti splendidi (da Villa dei Quintili alla Tomba di Cecilia Metella), ma quasi integralmente di proprietà privata, con gravi fenomeni di abusivismo e dove, finora, la soprintendenza archeologica ha faticosamente operato un’efficacissima tutela. Alla stessa soprintendenza romana vengono sottratti il Museo Nazionale, che comprende Palazzo Massimo, le Terme di Diocleziano, Palazzo Altemps e Crypta Balbi, e gli scavi di Ostia Antica, la cui tutela passa a una delle tre soprintendenze del Lazio. Uno spacchettamento. Diventa autonoma anche Ercolano, che si separa da Pompei rompendo l’unitarietà dell’area archeologica vesuviana.
La Repubblica, 7 gennaio 2016 (m.p.r.)
Madrid. Si può mettere all’asta un bene così prezioso da essere stato riconosciuto dall’Unesco come patrimonio dell’umanità? Il caso della grotta di Altamira non è una replica dell’esilarante sketch di Totò che mette in vendita la fontana di Trevi, ma non è meno sorprendente. Convinto che non si stia facendo tutto il possibile per sfruttare al meglio dal punto di vista turistico questo gioiello dell’arte rupestre - la “cappella sistina del Paleolitico” come è stata ribattezzata - il governo regionale della Cantabria pensa alla distribuzione di “pass vip”, alla portata solo di appassionati milionari, che consentano di accedere alla grotta di Santillana del Mar nel rispetto dei rigidi limiti stabiliti dagli scienziati.
eddyburg nel 2015. Sappiamo già che dovremo continuare a farlo nel 2016. Speriamo di diventare più numerosi e più determinati, perciò più efficaci. La Repubblica, 31 dicembre 2015
Il suo nome è Valletta del Silenzio, per il senso di pace che questo lembo di paesaggio veneto custodisce sotto La Rotonda, la villa disegnata da Andrea Palladio fra il 1565 e il 1569. Continuerà a chiamarsi così anche quando verrà smontato il cantiere aperto nell’ottobre scorso e che trasformerà una stradina di campagna in una strada con marciapiedi, dissuasori anti velocità e pali d’illuminazione, affiancandole un parcheggio, una pista ciclabile, un’area per il pic-nic? E, dovessero arrivare altri finanziamenti, aggiungendo alcune attrezzature per attività di didattica ambientale, compreso un edificio? Gli interrogativi inquietano cittadini e associazioni che inviano esposti al ministero per i Beni culturali, alla sottosegretaria Borletti Buitoni, all’Unesco e al Comune di Vicenza, artefice dell’iniziativa. Protestano contro un intervento nato per migliorare l’accessibilità alla villa palladiana, e perciò finanziato dal Mibact, e risoltosi invece — questa la denuncia — in una sistemazione stradale che non riguarda le visite al monumento e che serve soprattutto chi abita in questi luoghi, chi frequenta un campo di calcio lì vicino e che, soprattutto, rischia di stravolgere un paesaggio fatto di natura e di architettura, trasformandolo in una sciatta periferia urbana.
Tante contestazioni per una strada rimessa in sesto e qualche posto macchina? Certo, replicano gli esponenti delle due associazioni più impegnate, Civiltà del verde e Osservatorio urbano territoriale: «Questo pezzo di campagna è la culla dell’ispirazione da cui è scaturita l’opera palladiana ». La villa e il paesaggio circostante, insistono gli ambientalisti citando Denis Cosgrove, uno dei più importanti studiosi palladiani, «sono parte della medesima scenografia».
L’intervento, segnalano le associazioni, investe un’area protetta dall’Unesco che da qualche anno è sconvolta. A poche centinaia di metri svetta il mastodontico insediamento di Borgo Berga, il cui cantiere è stato sequestrato dalla Procura, che ha indagato l’ex responsabile dell’ufficio urbanistico, ora direttore generale del Comune di Vicenza, Antonio Bortoli (per paradosso, la Procura ha sede in uno degli edifici di Borgo Berga). Di fronte, poi, sotto il monte Berico, e sotto la villa Valmarana ai Nani, con affreschi dei Tiepolo, dovrebbe spuntare un tunnel a due piani, stradale in alto, canale scolmatore in basso (la zona è a rischio idrogeologico).
E ora si mette mano alla stradina sotto La Rotonda. Un primo progetto che interessava la Valletta del Silenzio era stato curato nel 2001 da Bruno Dolcetta, professore a Venezia (a detta delle associazioni, «un ottimo esempio di restauro paesaggistico»). Ma nell’aprile 2013 il Comune presenta un altro progetto al Mibact per usufruire di un finanziamento di 130mila euro destinato a una migliore accessibilità ai siti protetti dall’Unesco. Si propone di costruire un parcheggio, di allargare la strada e di costruire marciapiedi e pista ciclabile.
A gennaio del 2015 però la scena cambia. La parte di finanziamento destinata alla strada cresce del 30 per cento, da 83 a 110mila euro. Quella per il parcheggio, che doveva essere il cuore del progetto per ottenere il contributo, scende da 51 a 22mila euro, il 50% in meno. Al Comune spiegano che un parcheggio è già stato realizzato con soldi regionali. Ma allora, insistono le associazioni, si sono chiesti soldi per garantire un parcheggio ai visitatori e invece si è sistemata una strada che serve i residenti della zona. Come d’altronde ha spiegato l’assessore ai lavori pubblici del Comune, Cristina Balbi, che più volte ha rassicurato chi abita vicino alla Rotonda sulle intenzioni dell’amministrazione: migliorare la loro mobilità.
Ultima questione sollevata dalle associazioni. Presentando al Mibact la variante al progetto nel gennaio del 2015, il Comune sostiene che i progetti definitivi «sono già stati ultimati e acquisiti i relativi pareri». Compreso quello della Soprintendenza: che è positivo, con qualche lieve prescrizione, che però risulta essere arrivato solo il 21 ottobre del 2015, a cantiere già aperto.
Ilfattoquotidiano.it, 29 dicembre 2015
«La provincia di Salerno è pronta ad accettare la sfida. Noi vogliamo interpretare al meglio il nostro nuovo ruolo e stiamo organizzando l’ente per svolgere al meglio il ruolo di ‘Ente di servizio’, di ‘hub’». Così ha detto il Presidente della provincia di Salerno, Giuseppe Canfora, nella relazione introduttiva al Consiglio del 21 dicembre. Sul tavolo l’approvazione dello schema di bilancio preventivo per il 2015. Ma anche molto altro. Come il piano di alienazione che coinvolge anche il Palazzo che ospita l’Archivio di Stato, in piazza Abate Conforti. Un edificio dalla lunga storia.
Prima del 1934, quando è divenuto sede dell’Archivio Provinciale, in seguito Archivio di Stato, ha sempre ospitato uffici giudiziari. Prima, forse già nel XV secolo, sede della Regia Udienza, una magistratura risalente al periodo aragonese, e poi sede del Tribunale di Prima istanza e della Gran Corte Criminale. Dopo l’Unità di Italia ha ospitato il Tribunale Civile e Correzionale e la Corte d’Assise. Insomma un pezzo di storia della città. Un luogo nel quale si conserva una documentazione quasi sterminata. Circa centomila pezzi di documentazione cartacea e più di mille pergamene, oltre ad una biblioteca di circa ventiquattromila volumi. Per ricostruire le vicende dell’Antico Regime, del decennio francese e della Restaurazione e del periodo post-unitario non si può davvero prescindere dai fondi dell’Archivio. Almeno finora.
La scelta di mettere in vendita il palazzo che ospita l’archivio sembra mettere fine a questa lunga storia. I 16 milioni di euro che si spera di guadagnare con la vendita dell’immobile di Piazza Abate Conforti, una parte del tesoretto che la Provincia conta d’incassare. Poco importa se nel Palazzo medievale, al piano terra, si conserva la cappella di San Ludovico con gli affreschi del XIII secolo. Aperta al pubblico dopo i lavori di restauro conclusi nel2009. Irrilevante la circostanza che i documenti dell’archivio non saranno più consultabili, dal momento che ancora incerto risulta il luogo nel quale saranno spostati.
Nonostante la decisione sia stata presa in coincidenza con le festività natalizie, non sono mancate le reazioni. L’Associazione Sunia ha deciso di proporre un incontro pubblico “per discutere eventuali iniziative idonee a bloccare questo assassinio costante e continuo degli spazi pubblici dedicati al sociale e alla cultura”. «Paghiamo più di 60mila euro all’anno all’ente che potrebbero essere usati per restaurare il patrimonio che abbiamo. La Provincia è tenuta alla manutenzione straordinaria che non avviene, il terrazzo di copertura dell’edificio torre perde acqua, questo crea danni anche a documenti. Quando piove si allaga parte della struttura, gli intonaci in alcuni luoghi hanno pesanti lesioni. Abbiamo sempre chiesto alla Provincia la manutenzione, ma non ci hanno mai risposto», ha detto Eugenia Granito, direttrice dell’archivio storico, durante l’incontro di qualche giorno fa all’Archivio di Stato, tra associazioni e comitati, organizzato da Italia Nostra Salerno, per fare il punto su tutte le questioni nate sul territorio comunale.
Quanto la scelta di fare a meno dell’Archivio di Stato sia irragionevole è di facile comprensione. Di più. Addirittura ingiustificabile per chiunque ritenga scriteriato il privarsi di uno dei luoghi identitari di Salerno. Perché è più che evidente che quel è stato deciso dalla Provincia si abbatterà sulla città. «Tentiamo di essere al passo con le tecnologie più avanzate, sperimentiamo, valorizziamo i luoghi che sono diventati un caposaldo di promozione turistica. Stiamo insistendo sul progetto turismo di questa città con azioni mirate di rapido consumo», diceva ad aprile Vincenzo Napoli, il vice sindaco che ha sostituito nelle funzioni De Luca, dopo la sua elezione a governatore della Campania.
«Si conferma l’intenzione di procedere sulla strada della valorizzazione e della promozione del nostro enorme patrimonio culturale… Bisogna fare di tutto per perseguire quello sviluppo che manca da troppo tempo, proprio perché le nostre straordinarie bellezze non sempre sono state adeguatamente utilizzate per produrre lavoro e benessere», ha dichiarato ad agosto Giuseppe Canfora. E’ più che probabile che «le azioni mirate di rapido consumo», al quale accennava il sindaco Napoli e «le straordinarie bellezze non sempre adeguatamente utilizzate per produrre lavoro e benessere», richiamate dal presidente Canfora non contemplino il salvataggio dell’Archivio di Stato. D’altra parte perché mai dovrebbero preoccuparsi di un Palazzo storico nel quale ci si reca quasi esclusivamente per studiare dei vecchi documenti? Il nuovo corso salernitano è evidentemente interessato ad altro.
Il manifesto, 29 dicembre 2015 (m.p.r.)
LA FONDAZIONE HA SBAGLIATO I CONTI.
IL QUIRINALE GLIELI HA CORRETTI
di Paolo Berdini
Le meravigliose logge dei tiratori di Gubbio hanno avuto la sfortuna di entrare nel patrimonio della Fondazione della Cassa di Risparmio di Perugia a capo della quale c’era Carlo Colaiacovo, una delle famiglie più ricche e influenti di Gubbio. E’ da allora che iniziano i suoi guai perché entra nel grande meccanismo che deve aumentare il valore delle proprietà, costi quel che costi. Il caso di banca Etruria e banca Marche ha reso evidente che molti istituti di credito hanno finanziato oltre la decenza ogni valorizzazione immobiliare e ogni avventura edificatoria di spregiudicati speculatori. Per ripianare la voragine di bilancio Banca Etruria sceglie di alimentare il mercato delle obbligazioni speculative e l’esito sono le decine di migliaia di risparmiatori a cui hanno sottratto i risparmi.
La Fondazione della cassa perugina sceglie un’altra strada: quella di valorizzare gli immobili di proprietà che - prassi come noto molto diffusa - vengono spesso iscritti a bilancio per un valore notevolmente superiore a quello reale. Il pareggio di bilancio è nel breve periodo assicurato ma occorre concludere i processi di valorizzazione e il caso delle logge di Gubbio dimostrano che non ci si ferma nemmeno di fronte alla storia e all’identità di una città. Esse sono infatti una caratteristica peculiare della storia di Gubbio, una parte dell’identità storica del popolo eugubino: ciononostante si vuole chiuderle con una gigantesca vetrata aumentando la superficie (e il valore economico) dell’immobile e la sua destinazione d’uso.
Inizia così la pressione verso il comune per ottenere il permesso di chiudere con “moderne” vetrate il grande loggiato per ottenere un parere positivo. L’ostacolo sembrava insuperabile poiché l’attuale sindaco Filippo Maria Stirati era stato eletto due anni fa perché si era chiaramente espresso contro la chiusura della loggia. Evidentemente la proprietà possiede efficaci mezzi di convincimento se quello stesso sindaco è oggi a favore del progetto.
La potente proprietà ha sbagliato solo un calcolo: non ha pensato che un intelligente comitato di cittadini chiamasse la popolazione di Gubbio ad opporsi all’insensato progetto. Questa opera si sensibilizzazione si è giovata anche di illustri esponenti del mondo della cultura come Salvatore Settis e Tomaso Montanari. Gli appelli portati avanti dal comitato hanno avuto così la forza di arrivare nel colle più alto di Roma e il della Presidente della Repubblica, tramite il suo consigliere per la conservazione, Louis Godart, si è espresso in modo inequivocabile contro lo scempio. Del resto, il Quirinale è il baluardo della Costituzione che ha come pilastro l’articolo 9 dove si afferma solennemente che la Repubblica tutela i beni culturali del paese e non le ignobili speculazioni immobiliari.
LE LOGGE RESTINO APERTE
PAROLA DI PRESIDENTEe
di Giovanna Nigi
Regalo di Natale a Gubbio. C’è un no pesante alla vetrificazione del monumento voluta da Cassa di Risparmio: quello di Mattarella
Gubbio. Dopo due anni di lotta sembrava tutto perduto. I lavori per chiudere le Logge dei Tiratori di Gubbio, con enormi pannelli di vetro e acciaio secondo i progetti presentati dal proprietario, con il nuovo anno sembravano ormai prossimi all’inizio. Ma una lettera dal Quirinale, alla vigilia di Natale, ora sembra aver rimesso tutto in dubbio. Tutto in moto. Procediamo con ordine. È l’ottobre 2013 quando a Gubbio si costituisce un Comitato cittadino a cui aderiscono fin da subito le associazioni Italia Nostra e Terra Mater.
L’obiettivo è quello di ribellarsi alla riduzione a ennesimo centro servizi - di fatto una sala congressi, il salotto buono della Fondazione - di uno storico monumento che avrebbe dovuto restare pubblico: le Logge dei Tiratori della Lana, rarissimo opificio preindustriale, sistema basamentale dello straordinario paesaggio urbano della città.
Le Logge sono state costruite sotto la spinta dell’Arte della Lana nel 1603 sopra il lungo edificio dello Spedal Grande, eretto nel 1323, pensate come spazio aperto per “tirare” i panni e farli asciugare dopo averli tinti. Oggi il monumento, biglietto da visita della città, è di proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio, alla cui presidenza siede il cavaliere Carlo Colaiacovo, proprietario del più grande cementificio cittadino, la Colacem. La procedura che intende snaturale e che - ove mai andasse in porto - passerà alla storia come “vetrificazione delle Logge”, segue un iter veramente curioso.
È la commissaria straordinaria Maria Luisa D’Alessando, moglie di Gianlorenzo Fiore, membro della Fondazione Cassa di Risparmio, a dare il primo placet del Comune a un’operazione che la stampa definisce «dal sapore bancario», che serve a quintuplicare il valore dell’immobile. La proposta di trasformazione riguarda una porzione significativa dell’intero complesso edilizio, in particolare del loggiato superiore. L’intervento deturpante e impattante che si preannuncia è la sua chiusura con enormi pannelli di vetro. Anche al primo piano è prevista la ridistribuzione di tutte le superfici, con cambi di destinazione d’uso. Uno stravolgimento di quella che è, da sempre, edilizia operaia e popolare.
La procedura, si legge nel ricorso presentato al Tar da Italia Nostra, è davvero anomala: «Contrariamente a quanto previsto dalle leggi regionali, il parere della commissione comunale per la qualità architettonica e il paesaggio è intervenuto dopo il parere della soprintendenza», parere dato con una rapidità mai riscontrata in precedenza dai funzionari della Soprintendenza nazionale. Escono sulla stampa articoli di aperta critica all’operazione. Il manifesto sin dall’inizio raccoglie la battaglia del comitato. La vicenda comincia a circolare. La Soprintendenza è costretta a indire un tavolo tecnico al ministero dei beni culturali per valutare il progetto. Le conclusioni del tavolo oscillano tra il patetico e l’esilarante. Si arriva a sostenere che senza la chiusura con i vetri un vento più forte del solito potrebbe scoperchiare il tetto; e che il guano dei volatili è causa di degrado dell’edificio, come se l’edificio non stesse al suo posto da oltre 400 anni e al ministero fossero sconosciute le nuove tecnologie, ampiamente sperimentate altrove, per rimediare al problema dei volatili.
Quello di cui non si parla invece è l’impatto paesaggistico della vetrificazione: nessuno studio viene fatto in merito, e nessuno si sogna di denunciare l’effettivo aumento di volumi che farebbe lievitare di cinque volte il valore dell’immobile. Al primo convegno organizzato dal comitato cittadino accorrono in massa i politici: la campagna elettorale è alle porte, c’è bisogno di voti. Filippo Mario Stirati, ex Pd e all’epoca ostile al partito del cemento, è in quel momento candidato sindaco: e afferma pubblicamente la sua contrarietà alla vetrificazione; una volta eletto, da primo cittadino di Gubbio, si rimangerà tutto. Il comitato insorge e lo accusa di aver tradito la buona fede di tanti cittadini. In risposta il comitato viene accusato di immobilismo e antimodernità. Le Logge, replica l’architetto e artista Nello Teodori, «sono uno straordinario esempio di architettura preindustriale europea e devono essere rispettate nella loro identità di edificio aperto e coperto. Potrebbero diventare museo di se stesse e nello stesso tempo magnifica piazza aperta e coperta. Non sono le funzioni a costringere l’edificio ad adeguarsi ad esse, ma il contrario», spiega.
Il metodo di lotta scelto per contrastare il silenzio dei media locali è quello dei manifesti cittadini: dall’ottobre 2013 a oggi sono decine quelli affissi nel centro storico. Vengono organizzati altri convegni e coinvolti i più importanti studiosi del settore: da Salvatore Settis a Tomaso Montanari, da Vezio De Lucia, a Paolo Berdini, al giurista Paolo Maddalena, a Goffredo Fofi, a Giulia Maria Mozzoni Crespi a Leonardo Piccinini. Vengono anche presentate interrogazioni regionali (Brutti e Goracci) e parlamentari (Zaccagnini, Fratoianni, Giordano). Ma non ottengono nessun effetto. Da Roma tutto tace. Il comitato allora va a Roma, cerca inutilmente di essere ricevuto dal ministro Dario Franceschini, distribuisce volantini sotto il ministero e, infine, organizza a Gubbio una mostra, «Le Logge della Bellezza», per i due anni di opposizione al progetto. Alla mostra aderiranno e parteciperanno artisti da tutto il mondo.
È a questo punto che il parere negativo del nuovo soprintendente umbro Stefano Gizzi su una variante al progetto scatena un putiferio: un dossier della presidente della Regione Catiuscia Marini e di vari sindaci, con quello di Gubbio in prima fila, ne chiede la rimozione in quanto «poco collaborativo». Il comitato non si dà per vinto: Italia Nostra fa un ricorso al Tar e una petizione che raccoglie 1100 firme e viene presentata al presidente della Repubblica, all’Unione europea e all’Unesco. La sorte delle Logge sembra tuttavia segnata e il processo di disneyzzazione di Gubbio magnificamente avviato.
Poi, due giorni prima di Natale, il colpo di scena. La lettera che arriva dal Quirinale e che nella sostanza contiene la solidarietà del presidente Sergio Mattarella. Un fatto tanto straordinario quanto inaspettato. Il presidente ha ricevuto i materiali sulle Logge, spiega nella missiva il professor Luis Godart, consigliere per la conservazione del patrimonio artistico del Quirinale, «e mi prega di risponderLe. Condivido pienamente la posizione del Comitato che difende l’antico opificio del Seicento le “Logge dei Tiratori dell’Arte della Lana”. Vetrificare questo mirabile monumento significa ferirlo e deturparlo. Trasmetto copia di questa mia lettera al ministro Franceschini». Un vero regalo di Natale: i due anni di resistenza hanno finalmente un riconoscimento. La lettera di Mattarella è un macigno sulla strada di un progetto inaccettabile.
La televendita. E' ormai un metodo di comunicazione dell'intero governo. I beni culturali non sfuggono a questa logica. Anzi ne sono al centro. Le Domus restaurate e riaperte nei giorni scorsi a Pompei? Tutto merito di Renzi e Franceschini. Non è vero, il merito risale al governo Letta e al ministro Bray. Ma lo sanno e lo dicono in pochi. Non sto a continuare. Nei giorni scorsi il ministro Franceschini ha divulgato la lieta novella: nel 2016 le risorse per i Beni culturali aumenteranno del 27% e saliremo oltre i 2 miliardi. Vero, ma nel 2015, già col governo Renzi-Franceschini, il settore aveva avuto in assoluto una delle cifre più basse della storia: soltanto 1 miliardo e 521 milioni. Aveva fatto peggio di così soltanto Berlusconi nel 2011.
Coi governi Berlusconi, dal 2001 al 2006, ci fu un primo calo che fece scendere di qualche punto - e questo è il dato più significativo - l'incidenza percentuale della spesa per i Beni culturali sul bilancio dello Stato, dallo 0,39 del 2000 allo 0,29 del 2006. Il crollo vero e proprio tuttavia lo si registrava col nuovo governo Berlusconi (quello del 2008, dopo la burrascosa parentesi Prodi/Ulivo, durato sino al 2011) con tagli pesantissimi che portarono il bilancio annuo del MiBAC ad appena 1,4 miliardi di euro e ad un miserevole 0,19 per cento del bilancio dello Stato, meno della metà dell'incidenza del 2000.
Un autentico dissanguamento che ha portato, volutamente, questo Ministero allo stremo: a dover mendicare sussidi e interventi privati, a non avere personale tecnico-scientifico sufficiente per le incombenze quotidiane della tutela e della conservazione, a non poter indire concorsi, ad avere funzionari di età mediamente elevata (circa 52 anni). Con un personale di custodia pure inadeguato. Tutti poi sottopagati, naturalmente: dal soprintendente al custode. Coi governi Monti e Letta si è registrata una leggera ripresa dei finanziamenti per la cultura. Del tutto insufficiente però per le esigenze della rete della tutela.
Ps: tanto per memoria, la Francia destina alla Cultura lo 0,75 % del bilancio dello Stato, cioè 2-3 volte tanto l'Italia, la Spagna lo 0,67 e altrettanto l'Austria. Per farla breve soltanto Grecia, ma non sempre, e Romania vi destinano meno di noi che risultiamo al 22° posto in Europa.
La Repubblica, bloc "articolo 9", 27 dicembre 2015
In mimetica in Libano, a Pompei estasiato cantore dell'«Italia che riparte». Un superspot a costo zero, da spararsi alla vigilia di Natale: quasi un remake della conferenza stampa con Angela Merkel di fronte al David. Con «il patrimonio storico e artistico della nazione» ancora una volta a fare da sfondo.
Ora, non c'è dubbio che Pompei sia ripartita. Non per merito di Renzi e Franceschini: sia chiaro. La svolta di Pompei è merito del nuovo assetto di governo del Grande Progetto e della Soprintendenza voluto e attuato da Massimo Bray. E basterebbe questo a rendere un po' abusivo il trionfalismo dell'attuale governo. Che si è limitato a non far danni – una volta tanto.
Ma quel trionfalismo non è solo abusivo e sguaiato: è anche pericoloso. Perché, lo ha notato Salvatore Settis, la ripartenza di Pompei «è un segnale di speranza in un momento di difficoltà», ma quelle difficoltà sono in buona parte create dal governo stesso. E se quel segnale viene strumentalizzato per coprire le difficoltà, e chi le provoca, il risultato sarà perverso.
Questo vale per Pompei stessa. L'ex sottosegretrario ai Beni culturali Roberto Cecchi, che di Pompei è stato commissario, ha scritto una lettera al "Corriere della sera" in cui prova a ridimensionare il successo dell'attuale gestione. Da chi aveva così clamorosamente fallito ci si aspetterebbe un decoroso silenzio, ma è innegabile che Cecchi abbia ragione rammentando che «gli interventi finora sono stati 14, quelli in corso 28. Se nel 2017 si arrivasse anche a farne 70, sarebbe solo meno del 5% del totale delle domus». Dati che rendono grottesca l'autocelebrazione di Renzi. E quando Cecchi scrive (in una replica alla risposta del soprintendente di Pompei Massimo Osanna) che «bisogna evitare di dare alibi a destra e a manca, alla politica in particolare, dicendo che tutto è a posto», egli impartisce una imbarazzante lezione di buon senso, e senso delle istituzioni.
Ma il 24 dicembre la politica, a Pompei, si è presa ben più di un alibi. Renzi ha provato a nascondere dietro sei domus riaperte (come dietro ad un concorso per 500 giovani chiamati a conservare a mani nude ciò che egli stesso si appresta ad «asfaltare») il fatto che il suo governo sta letteralmente calpestando il patrimonio culturale italiano. Cito soltanto, e nel modo più corsivo, lo Sblocca Italia firmato da Maurizio Lupi (che allarga a dismisura la possibilità di derogare alle leggi e alle procedure di tutela per realizzare infrastrutture, e in generale, per cementificare; e che estromette il Mibact dalla scelta degli immobili pubblici da alienare, prefigurando la vendita di parte almeno del patrimonio culturale monumentale pubblico), la legge delega Madia (che introduce il gravissimo silenzio-assenso tra amministrazioni: il quale, in presenza di una struttura di tutela a bella posta debilitata fino al collasso, sarà il vero cavallo di Troia del sacco di ciò che resta del paesaggio italiano; e che prevede la confluenza delle soprintendenze in uffici territoriali dello Stato diretti dai prefetti, facendo così saltare ogni contrappeso tecnico al potere esecutivo), l'annunciato rilassamento della legislazione sull'esportazione delle opere d'arte.
Quanto ai musei, la riforma, la sua pessima applicazione e i nomi scelti per la nuova governance li hanno messi direttamente nelle disponibilità della politica: avviandoli sulla strada della Rai. E proprio ora, come ha notato Settis in quella intervista, il governo si è fatto dare una delega in bianco per eliminare le soprintendenze archeologiche, accorpandole a tutte le altre: non per migliorare la tutela, ma per diminuirne la capacità di disturbare il manovratore, cioè lui stesso.
Fedele al suo programma 'culturale' («padroni in casa propria»: che dopo esser stato il motto della Legge Obiettivo di Berlusconi nel 2001, è stato il claim ufficiale dello Sblocca Italia) Matteo Renzi sta riportando indietro le lancette della tutela del patrimonio e del paesaggio: fino alla drammatica fase che non solo precede l'articolo 9 della Costituzione repubblicana, ma anche le Leggi Bottai del 1939 e perfino la Legge Rosadi del 1909.
Un quadro davvero troppo nero per essere nascosto da una mano di rosso pompeiano, data a favore di telecamere alla vigilia di Natale.
Micropolis, novembre 2015, con postscriptum
Per finire, un tocco squisitamente Deamicisiano suggella il tutto: l’intervento, si legge, è pensato per permettere anche i disabili (sic!) di fruire delle bellezze eugubine. Si registra invece l' evidente l'assenza di qualsiasi studio, da parte del tavolo ministeriale, riferito al vincolo paesaggistico. La vetrificazione delle Logge modificherà per sempre il carattere dell’edificio con interventi incompatibili, contrari ai principi di salvaguardia e tutela del patrimonio architettonico e paesaggistico sanciti dalla Costituzione.
Dell'aumento di volumi, poi, di cui aveva parlato a suo tempo il consigliere comunale Pavilio Lupini, nessuna menzione: “Il Comune”osserva Lupini,”avrebbe dovuto richiedere innanzitutto un parere della Soprintendenza sul piano attuativo e solo dopo sul progetto esecutivo. Si è invece proceduto al contrario. Una seconda obiezione tiene conto delle difformità rispetto al piano regolatore del Comune di Gubbio: "In tutti gli edifici del centro storico, tranne quattro o cinque motivatamente individuati, vale la normativa che impedisce la realizzazione di nuovi volumi. Le Logge, chiuse con vetrate, vengono trasformate da spazio aperto a chiuso e dunque sono incrementati i volumi.”
Al primo convegno organizzato dal Comitato cittadino accorrono in massa i politici: sta per iniziare la campagna elettorale e c'è da fare un buon bottino di voti. Filippo Mario Stirati si dice pubblicamente contrario alla chiusura delle Logge, salvo poi rimangiarsi tutto appena avvenuta la sua elezione a Sindaco di Gubbio. l Comitato insorge contro questo voltafaccia e lo accusa di aver carpito la buona fede di tanti cittadini. Di contro, si accusano i membri del Comitato di immobilismo e di anti modernità.
Le Logge, come replica l'architetto Nello Teodori, membro del Comitato, “sono uno straordinario esempio di architettura pre-industriale europea e per questo devono essere rispettate nella loro identità di edificio aperto e coperto. Potrebbero essere museo di se stesse o magnifica piazza aperta e coperta, cerniera ideale tra piazza San Giovanni e piazza Quaranta Martiri. Un luogo dove l’attivazione di nuove funzioni pubbliche moderne e contemporanee è compatibile con la tutela storica di un edificio dalla forte connotazione architettonica e simbolica. “ Le funzioni non devono costringere l'edificio ad adeguarsi ad esse, ma è vero il contrario, dice.
La riforma ha coinvolto direttamente gli enti locali: Comuni e Regioni nominano ora parte dei comitati scientifici dei musei nazionali. Un federalismo museale evidentemente incostituzionale: perché l’articolo 9 parla di patrimonio «della nazione» proprio per evitare quella che, in Costituente, Concetto Marchesi bollò come una pericolosa «raffica regionalista». Perché il sindaco di Firenze e il presidente della Toscana devono mettere bocca nella conduzione scientifica degli Uffizi? Che d’ora in poi Maroni abbia il diritto di influenzare la politica culturale di Brera, Brugnaro quella dell’Accademia di Venezia, De Luca quella di Capodimonte non è una buona notizia: è un altro passo verso la balcanizzazione di quell’unità culturale che è il più importante collante della nazione.
Se a questo si somma l’appello con cui Dario Franceschini ha supplicato le grandi imprese di «adottare» i venti supermusei (evidentemente orfani dello Stato), promettendo esplicitamente un posto nella governance, è chiaro che stiamo andando verso la trasformazione dei grandi musei pubblici in fondazioni di partecipazione, con enti locali e privati alla guida. È facile prevedere che questo aumenterà la mercificazione del patrimonio, con ulteriore asservimento delle ragioni della conoscenza agli interessi del mercato, e all’invadenza delle oligarchie locali.
Ma la politica si fa invadente anche al centro: la riforma dà al ministro il potere di scegliere i direttori chiave, e nominare interamente i cda dei musei. E Franceschini sta nominando i suoi fedelissimi. Nel cda degli Uffizi ha collocato il suo vero braccio destro, e autore materiale della riforma, il giurista Lorenzo Casini. Nessun dubbio sulla sua preparazione, ma Casini è stato il membro chiave nella commissione che ha scelto i superdirettori, e con lui entra nel cda degli Uffizi un’altra componente di quella commissione, Claudia Ferrazzi: un intreccio come minimo assai inopportuno.
Il Fatto Quotidiano, 10 dicembre 2015
Il Fatto Quotidiano, 30 novembre 2015
«Trasferiremo la biblioteca a Palazzo Altemps così potremmo utilizzare quel piano con una bellissima terrazza per offrire servizi ai visitatori del Palatino, che è un luogo bellissimo ma non offre nessun confort a chi lo visita». A dirlo è stato il Soprintendente speciale per il Museo di Roma, il Colosseo e l’Area archeologica di Roma Francesco Prosperetti, agli inizi dello scorso luglio. L’esito di un ragionamento sull’accoglienza, introdotto da una constatazione. «Effettivamente – notava il Soprintendente – trovo incredibile che si possa pensare di far camminare per ore il turista sotto il sole tra Palatino e Fori senza dargli la possibilità di un punto dove ristorarsi, riposarsi ed avere informazioni, bisogna pensarci e fare qualcosa di concreto al più presto». I camion-bar, da tempo padroni delle postazioni commercialmente più appetibili del centro storico della città, sono stati spostati altrove.
Così, non senza ragione, Prosperetti rifletteva su come offrire servizi ai fruitori dell’area archeologica centrale. Una necessità per uno spazio all’aperto molto vasto, ma privo di spazi per la ricreazione. Una legittima preoccupazione per il Soprintendente. Idea, quella di riutilizzare il secondo piano e la terrazza dell’Antiquarium per “servizi ai visitatori del Palatino”, delineata meglio alla fine di Agosto. Inequivocabili le sue parole: «Dobbiamo servire almeno tre target diversi. Tra questi ci deve essere per forza un target alto. Un’idea è usare il piano alto e la terrazza del Museo Palatino. Per capirci, si tratta di un appartamento di 130 mq più terrazze nel luogo più panoramico della città e nel luogo più bello del mondo: il ristorante più indimenticabile e suggestivo del pianeta”.
Nei giorni scorsi sul sito de L’Espresso è stata pubblicata la notizia dello stanziamento di fondi ad hoc. Circa 1 milione di euro inserito nel bilancio per il prossimo triennio. Bilancio approvato da pochissimo tempo. Dunque si sarebbe entrati nella fase operativa dell’operazione. A dispetto della scarsa rilevanza che il tema ha finora incredibilmente avuto, rimangono alcune evidenti criticità, a partire dallo spostamento a Palazzo Altemps della Biblioteca ospitata al secondo piano dell’immobile. Solo un particolare trascurabile, secondo Prosperetti. In realtà qualcosa di più se il trasloco di libri diventa necessario per lasciare spazio ai tavoli del nuovo ristorante esclusivo.
E che dire del traffico veicolare che comporterà la trasformazione? Via vai, se non di mezzi privati, almeno di quelli collegati ai rifornimenti dell’esercizio commerciale. Circostanza, soprattutto quest’ultima, che sembra in palese contraddizione con il contesto. Come sarà possibile giustificare il transito di furgoni e autovetture all’interno dell’area archeologica centrale? Mentre si pedonalizza via dei Fori imperiali si crea un corridoio proprio all’interno del sito archeologico? In questo modo verrebbe adottato quello che anche il semplice buon senso sconsiglierebbe. In nome di cosa, lo si sa. Lo ha sostenuto Prosperetti. Lo ha ripetuto più volte Franceschini.
Per l’architetto chiamato a guidare la Soprintendenza romana, «I luoghi dell’archeologia sono attrattivi: sfondo ideale per realizzazioni virtuali, teatro, spettacoli, musica, arte», ha detto alcuni mesi fa a proposito dell’utilizzo del Circo Massimo per i concerti. Probabilmente omettendo che i luoghi dell’archeologia possono diventare anche prestigiosi contenitori di servizi. Per il Ministro, poi, non si può pensare solo alla tutela: «Bisogna valorizzare con bookshop, servizi multimediali e ristoranti», ha dichiarato.
E questo è il punto nodale. La valorizzazione del patrimonio culturale, intesa secondo la definizione che il Mibact stesso ne dà, «consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina di tutte quelle attività a cura dell’Amministrazione dei Beni Culturali volte a promuovere la conoscenza del patrimonio nazionale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione del patrimonio stesso ad ogni tipo di pubblico, al fine di incentivare lo sviluppo della cultura». Definizione tra le cui righe si ricorda (a ragione) come «tutti questi interventi devono essere effettuati in forme compatibili con la tutela e in modo tale da non pregiudicarne le fondamentali esigenze».
Chiedersi se la realizzazione del ristorante “più indimenticabile e suggestivo del pianeta”, identificata da Prosperetti come un’operazione di valorizzazione, non tradisca le indicazioni del Mibact, appare lecito. Interrogarsi se un luogo esclusivo in uno spazio culturale “pubblico” come l’area archeologica centrale, non sia una contraddizione, potrebbe essere utile. Naturalmente a patto che si abbia la convinzione che i luoghi della cultura e i loro servizi debbano essere per tutti. A patto che non si rincorra l’idea che i siti archeologici e gli spazi museali, i palazzi storici e tutto quello che comprende il patrimonio culturale, non siano altro che location. Straordinari ed esclusivi “involucri” di eventi per l’intrattenimento e ristoranti.
Anche lo stile del Governo Renzi è ormai inconfondibile: è quello degli ottanta euro, dei cinquecento posti al Mibact, dei bonus da cinquecento euro per i diciottenni. Il bancomat al posto di un progetto, lo stimolo elettrico all'esistente invece di un qualunque tentativo di cambiarlo, di evolvere, di costruire il futuro.
I cinquecento tecnici che (dal primo gennaio 2017) saranno assunti al Mibact sono in sé un'ottima notizia. Una delle poche cose buone ottenute dal ministro Dario Franceschini: che ieri – per non dire che l'ultima – ha pensato bene di fare una pubblica genuflessione al Ponte sullo Stretto voluto dal Capo. La politica al tempo della società di corte.
Ma quei benedetti cinquecento posti sono come un'aspirina data a un moribondo: sono meno della metà di quelli che saranno lasciati scoperti per pensionamenti solo da ora al 2017. E dentro al Mibact non c'è più nessuno, da anni.
In più, essendo appunto un'una tantum, su questo bando si stanno addensando desideri, aspettative, demagogie di ogni tipo. L'episodio più clamoroso è stato il voto parlamentare che ha abbassato i requisiti di accesso fino al livello della laurea triennale: un grave errore. Ma è chiaro che finché si va avanti con misure da ultima spiaggia, non potrà che finire così. L'alternativa è far funzionare la normalità, riavviare il turn over, riallinearci a ciò che succede negli altri paesi europei.
Gli altri cinquecento (questa volta sono gli euro per i diciottenni: la cabala renziana conosce solo cifre tonde) non sono solo ingiusti (perché senza alcuna relazione col reddito di chi li riceverà), sono anche sbagliati. Perché è sacrosanto dire che il terrore si batte con la cultura, ma il punto è capire cos'è la cultura. Lo ha detto benissimo papa Francesco, in Africa: ci vogliono lavoro ed educazione. Ecco il punto: l'educazione. Che letteralmente vuol dire tirare fuori ciò che è dentro di noi: la nostra umanità, innanzitutto.
La nostra spesa per l'istruzione è poco superiore alla metà della media Ocse. Le nostre scuole e le nostre università sono alla fame. Se il governo vuol davvero coltivare la nostra civiltà, vuol farci rimanere umani, la via maestra è finanziare la scuola e la ricerca. Poi finanziare la produzione (e non il consumo) culturale.
Rimettere in piedi davvero il bilancio del patrimonio culturale, dimezzato nel 2008. E poi aprire a tutti quel patrimonio: con i soldi necessari a finanziare i bonus per i diciottenni si aprono gratis, a tutti, i musei statali italiani per tre anni e mezzo.
Non abbiamo bisogno dell'intrattenimento di Stato, non abbiamo bisogno di diventare ancor più consumatori, clienti, spettatori: abbiamo invece un disperato bisogno di diventare cittadini, di avere strumenti per esercitare il senso critico.
Abbiamo bisogno di conoscenza, di storia, di lucidità: perché è cultura quella che «permette di distinguere tra bene e male, di giudicare chi ci governa. La cultura salva» (Claudio Abbado).
Resta «come elemento dominante del quadro contemporaneo l’esercizio in persona prima e la proposta instancabile di una personalità d’intellettuale, il quale anziché cedere alla continua insidia e alla tradizione delle tante trahisons, assumesse e mantenesse ad ogni costo e in ogni caso la responsabilità dell’intervento mondano dello spirito critico [...] Non posso ricordare senza commozione come Delio Cantimori percepisse con chiarezza di storico delle eresie questo atteggiamento, donandomi nel 1934, al ritorno da un viaggio nella Germania già nazificata la riproduzione del gufo disegnato dal Dürer, con questo commento: Mon seul crime est d’y voir claire la nuit». Così annotava Carlo Ludovico Ragghianti – storico dell’arte, ma anche presidente del Cln toscano e capo del governo provvisorio che liberò Firenze – ridando alle stampe, nel 1972, il suo Profilo della critica d’arte in Italia scritto esattamente trent’anni prima».
Sono stato infatti tra i primi – se non il primo – ad aver posto la questione dell’autonomia dei musei in seno alla commissione per la riforma del ministero per i Beni culturali nominata dal ministro Massimo Bray. Nella relazione finale licenziata da quell’organismo il 31 ottobre 2013 si rinviene una traccia di quella approfondita discussione:
«Con riferimento agli Istituti culturali operanti sul territorio, è emersa con forza l’idea di conferire ad essi un’ampia autonomia tecnico-scientifica e gestionale, prendendo spunto anche dall’assetto delle strutture periferiche dell’amministrazione francese che si occupano di beni culturali: ciò nella convinzione che le strutture operanti sul territorio siano i migliori presidi della tutela e della conservazione del patrimonio culturale e che vadano salvaguardate al massimo le capacità dei corpi tecnici, spesso sacrificate nelle amministrazioni pubbliche italiane. Con particolare riferimento ai Musei, è auspicabile che la loro autonomia si estenda, quanto più possibile, anche alla definizione degli orari di apertura e dei prezzi dei biglietti. Ovviamente, la maggiore autonomia deve essere affiancata da una maggiore trasparenza: ad esempio, tutti i Musei dovrebbero realizzare un report annuale che dia una panoramica delle attività svolte e mostri come le risorse siano state impiegate, rendendo anche disponibili gli elenchi delle acquisizioni, l’illustrazione delle mostre, delle attività educative, didattiche e di ricerca».
Non si tratta di un testo felice, né particolarmente incisivo: eppure basta a chiarire due punti fondamentali. Il primo è che l’autonomia era stata pensata innanzitutto in termini tecnico-scientifici, il secondo è che essa avrebbe dovuto riguardare non solo i musei ma tutti gli istituti culturali (a partire dalle biblioteche e dagli archivi). La mia personale idea era che tali istituti non recidessero il cordone ombelicale che li lega al contesto ambientale e culturale – perché è questo sistema di nessi il vero capolavoro della nostra tradizione –, ma che le comunità scientifiche lì residenti acquistassero finalmente una autonomia culturale sostanziale: e cioè la possibilità (giuridica e finanziaria) di costruire e attuare un progetto culturale fondato sulla produzione della conoscenza (attraverso la ricerca) e sulla sua redistribuzione (attraverso la didattica, la divulgazione, l’apertura più radicale possibile ai cittadini).
In ogni caso, la relazione ammoniva a tenere conto dei «problemi cronici nei quali versano le gestioni attuali delle Soprintendenze italiane», tra i quali veniva citata al primo posto l’«insufficienza delle risorse»: qualunque riforma a costo zero (o addirittura con l’ambizione di tagliare ulteriormente le risorse di un sistema ridotto allo stremo) avrebbe potuto determinare la crisi irreversibile e finale del sistema della tutela pubblica. Che è quel che è poi puntualmente successo.
Oltre a questo irredimibile peccato originale, gli errori fatali della cosiddetta riforma Franceschini (disposta dal Dpcm 171 del 29 agosto 2014, dettagliata dal Dm del 23 dicembre 2014 e in corso di applicazione durante il corrente 2015) sono, a mio avviso, tre. Il primo è la separazione radicale, e direi violenta, tra tutela e valorizzazione: la prima lasciata alle soprintendenze, la seconda prospettata come unica mission dei musei.
Ciò deriva dall’interpretazione, oggettivamente eversiva, della valorizzazione non come finalizzata all’aumento della cultura (come vuole – recependo il dettato costituzionale e le sentenze della Corte costituzionale – il Codice dei Beni culturali) ma invece come messa a reddito del patrimonio. Da qui l’idea di non occuparsi di luoghi improduttivi (implicitamente destinati all’estinzione: gli archivi e le biblioteche), e quella di sfilare venti supermusei (sette di prima classe, tredici di seconda) su cui concentrare risorse e attenzione. Errore nell’errore, la creazione di Poli regionali museali in cui gettare alla rinfusa tutto ciò che avanza (musei veri e propri, siti archeologici, monumenti), con l’unico criterio, brutalmente burocratico, della bigliettazione: se si paga è «valorizzazione», e dunque si va nel calderone dei Poli; se non si paga è tutela, e dunque si rimane nelle soprintendenze.
Naturalmente, essendo la riforma fatta a costo zero – e anzi contenendo la ratifica del permanente ridimensionamento della pianta organica del ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo (Mibact) da 25.500 a 19.050 unità di personale – la maggior attenzione attribuita alla valorizzazione si traduce, automaticamente, nello strangolamento della funzione di tutela. Sui miseri 377 storici dell’arte che oggi lavorano nel Mibact, ben 240 lavoreranno nei musei. Il che significa, per esempio, che un solo storico dell’arte dovrà occuparsi di tutte le Marche, in tre dovranno tutelare Milano, Como, Bergamo, Lecco, Lodi, Monza-Brianza, Pavia, Sondrio e Varese, in due Alessandria, Asti, Biella, Cuneo, Novara, Verbano-Cusio-Ossola e Vercelli, in sette tutta la Campania di De Luca, e ancora in tre Bologna, Modena, Reggio Emilia e Ferrara. L’Istituto nazionale per la Grafica avrà tanti storici dell’arte (nove) quanti le soprintendenze di Roma, Napoli e Firenze (con Prato e Pistoia) messe insieme; a Venezia quattordici storici dell’arte per i musei, mentre per città e Laguna solo quattro; a Caserta cinque saranno chiusi nella Reggia, e uno difenderà il territorio. Commentando questo quadro desolante, Salvatore Settis ha detto che «sembra quasi che si voglia distinguere una bad company (le soprintendenze e la cura del territorio, contro cui si schierava il premier Renzi quando era sindaco di Firenze) e una good company che sono i musei, intesi come “valorizzazione”. E le bad companies sono fatte per essere liquidate». Alcuni dati di fatto certificano che la percezione di Settis è esatta: la ratio della cosiddetta riforma Franceschini si capisce fino in fondo quando la si legga insieme agli altri principali provvedimenti presi, in materia, dallo stesso governo Renzi. Citiamo soltanto, e nel modo più corsivo, lo Sblocca Italia firmato da Maurizio Lupi (che allarga a dismisura la possibilità di derogare alle leggi e alle procedure di tutela per realizzare infrastrutture, e in generale per cementificare; e che estromette il Mibact dalla scelta degli immobili pubblici da alienare, prefigurando la vendita di parte almeno del patrimonio culturale monumentale pubblico), la legge delega Madia (che introduce il gravissimo silenzio-assenso tra amministrazioni: il quale, in presenza di una struttura di tutela a bella posta debilitata fino al collasso, sarà il vero cavallo di Troia del sacco di ciò che resta del paesaggio italiano; e che prevede la confluenza delle soprintendenze in uffici territoriali dello Stato diretti dai prefetti, facendo così saltare ogni contrappeso tecnico al potere esecutivo), l’annunciato rilassamento della legislazione sull’esportazione delle opere d’arte. Fedele al suo programma «culturale» («padroni in casa propria»: che dopo esser stato il motto della Legge Obiettivo di Berlusconi nel 2001, è il claim ufficiale dello Sblocca Italia) Matteo Renzi sta riportando indietro le lancette della tutela del patrimonio e del paesaggio: fino alla drammatica fase che non solo precede l’articolo 9 della Costituzione repubblicana, ma anche le Leggi Bottai del 1939 e perfino la Legge Rosadi del 1909.
Il secondo errore radicale è aver scommesso tutto non sulle comunità scientifiche dei musei, ma sulla figura monocratica del direttore. Un errore che deriva da uno stato di fatto (per le ragioni appena dette, quelle comunità scientifiche di fatto non esistono: e anche in alcuni dei venti supermusei lo staff si riduce letteralmente a due funzionari), ma anche da una prospettiva culturale neoautoritaria: la stessa che modifica la Costituzione e la legge elettorale invocando mani libere per l’esecutivo, che verticalizza la scuola esaltando i presidi, che assolve da ogni vincolo sociale il datore di lavoro.
Se, almeno, quei direttori fossero stati scelti in modo serio e trasparente la riforma avrebbe segnato un punto sul campo. Ma così non è stato: al di là della propaganda governativa (e con il massimo rispetto dei nuovi direttori, cui non si può che augurare ogni bene), i risultati sono stati oggettivamente modesti. La «grande levatura scientifica internazionale», sbandierata da Dario Franceschini sulla prima pagina di un’«Unità» decisamente postgramsciana, semplicemente non esiste. Sono stati promossi a direttori di grandi, e a volte grandissimi musei, storici dell’arte che erano curatori di sezioni di musei di secondo o terzo ordine: nemmeno uno dei nuovi nominati ha avuto esperienze lontanamente comparabili alle responsabilità che si accinge ad assumere. In due casi estremi – attestati entrambi in Campania: la Reggia di Caserta e il Museo archeologico nazionale di Napoli – sono state scelte figure professionali dalle competenze remotissime, e francamente incomparabili alle enormi responsabilità in gioco. Con questa selezione, insomma, lo Stato italiano ha fatto una scommessa, scegliendo di affidare direzioni a persone non ritenute mature per una direzione nelle stesse istituzioni in cui finora lavoravano.
Quando le terne di idonei composte dalla commissione sono state rese note (con quasi due mesi di ritardo dall’annuncio dei risultati finali) è stato evidente che – nonostante la presenza, fra i cinque commissari, di due autorevoli rappresentanti della comunità scientifica internazionale – la scelta era stata ideologicamente orientata. Laddove l’ideologia era la aprioristica determinazione ad escludere (con una sola eccezione su venti) tutti i funzionari interni del ministero: arrivando fino a non comprendere nella terna degli Uffizi chi li aveva diretti per nove anni. Ma, forse, il dato più impressionante è il ricorrere de- gli stessi nomi, giudicati idonei per musei radi- calmente diversi tra loro: la terna degli Uffizi e quella della Galleria Borghese si sovrappongono per due terzi, e lo stesso accade per i Musei archeologici di Taranto e Reggio Calabria. E la commissione ha giudicato gli stessi candidati buoni indifferentemente per musei radicalmente diversi (l’Accademia di Venezia e Brera; Brera e la Gnam di Roma; Torino e Urbino; e addirittura l’Estense di Modena, Barberini a Roma, il Bargello di Firenze e la Galleria Nazionale dell’Umbria...). Questo impressionante valzer di nomi che tornano buoni per tutte le posizioni indica due cose. La prima è che le candidature giudicate potabili anche con la manica larga della commissione erano incredibilmente poche, e che dunque il bando si è risolto in un fallimento che ha messo i selezionatori con le spalle al muro.
La seconda è che la competenza scientifica, semplicemente, non conta: la figura di direttore di museo si avvia a diventare un po’ come quella del curatore nell’arte contemporanea. Si è direttori a prescindere da cosa si dirige. Ma, ammesso che la cosa abbia senso in America o in Inghilterra, non ne ha per nulla in Italia: dove le collezioni hanno storie individualissime che non le rendono intercambiabili tra loro.
Questo esito sconcertante è il traguardo di una serie di passi falsi. Uno è aver emesso il bando prima di aver reso ben chiari e fermi i poteri sostanziali dei direttori, i finanziamenti dei musei, i rapporti futuri con gli onnivori concessionari for profit che di fatto da vent’anni tengono in pugno i grandi musei: una fretta che ha sconsigliato i veri direttori di museo dal presentare la domanda,
Un altro è aver sommato in un unico bando venti musei diversissimi tra loro, con il bel risultato che la commissione ha avuto (nella migliore delle ipotesi) nove minuti per leggere e valutare ogni curriculum e quindici minuti (questo è un dato ufficiale) per il colloquio che ha deciso la sorte degli Uffizi, o di Capodimonte. Un elemento di comparazione: per scegliere l’ex direttore della Galleria Estense Davide Gasparotto come curatore della collezione di dipinti, il Getty Museum di Los Angeles ha ritenuto necessari un’intervista preliminare di due ore, un colloquio privato col direttore di due ore, due visite di tre giorni durante le quali il candidato ha trascorso molto tempo col direttore e il vicedirettore, e poi un lungo colloquio col presidente dei Trustee. E in questo caso era un direttore di museo che diventava curatore di sezione: mentre noi abbiamo fatto il contrario in un quarto d’ora. Un terzo passo falso è aver attribuito un enorme potere discrezionale, diretto e indiretto, al ministro: la commissione contava solo due tecnici (un archeologo e uno storico dell’arte, entrambi professionalmente non italiani), accanto a una manager museale, a un rappresentante diretto del ministro stesso (l’autore materiale della riforma e consigliere giuridico principale del ministro) e a un presidente autorevole, ma non proprio terzo rispetto alle volontà ministeriali (perché contestualmente confermato alla guida della Biennale di Venezia con una deroga alla legislazione vigente decisa dal governo). In più, le terne prodotte da questa commissione finivano nelle mani del ministro stesso (che da esse sceglieva direttamente i direttori dei sette musei ritenuti più importanti) e del direttore generale dei musei (che riporta direttamente al ministro).
Queste ultime considerazioni introducono a quello che, a mio giudizio, è il terzo errore radicale che ha fatto sprofondare i musei nella notte attuale: che è appunto la lottizzazione politica dei loro organismi scientifici, e dunque la connessa prefigurazione di una loro sostanziale devoluzione agli enti locali attraverso la trasformazione in fondazioni di partecipazione. L’articolo 12 del secondo capo del decreto ministeriale sull’organizzazione dei musei prevede che «il Comitato scientifico è composto dal direttore dell’istituto, che lo presiede, e da un membro designato dal Ministro, un membro designato dal Consiglio superiore “Beni culturali e paesaggistici”, un membro designato dalla Regione e uno dal Comune ove ha sede il museo. I componenti del Comitato sono individuati tra professori universitari di ruolo in settori attinenti all’ambito disciplinare di attività dell’istituto o esperti di particolare e comprovata qualificazione scientifica e professionale in materia di tutela e valorizzazione dei beni culturali».
Il coinvolgimento degli enti locali presenta innanzitutto evidenti tratti di incostituzionalità: il patrimonio storico e artistico è «della nazione» (art. 9. Cost.), e dunque non si capisce perché il Comune di Firenze debba influenzare la direzione culturale degli Uffizi più di quello di Milano, o la Regione Veneto determinare quella dell’Accademia di Venezia più della Regione Campania. In Costituente, Concetto Marchesi si batté con la profondità del latinista e la sapienza del giurista, ma soprattutto con l’amara consapevolezza del siciliano: l’approvazione dello statuto autonomo speciale della sua regione (che prevedeva la legislazione esclusiva anche in materia di «conservazione delle antichità e delle opere artistiche», e che ha in effetti poi determinato un terribile degrado del patrimonio siciliano) gli faceva temere che la raffica regionalistica avrebbe investito anche questo campo delicato del nostro patrimonio nazionale. E l’Assemblea reagì con «vivi applausi» quando Marchesi paventò il forte rischio che «interessi e irresponsabilità locali abbiano a minacciare un così prezioso patrimonio nazionale». Che è esattamente ciò che sta succedendo. Si badi, non è un caso; Franceschini ha più volte citato come esempio di riferimento il Museo Egizio di Torino, trasformato in fondazione di partecipazione: con gli enti locali, e i privati, rappresentati nel consiglio d’amministrazione. Ed è questo il futuro prossimo che si annuncia: una sostanziale devoluzione agli enti, e alle oligarchie, locali del patrimonio museale che dovrebbe invece rappresentare e articolare l’unità di una nazione fondata sulla cultura come forse nessun’altra in Europa.
Ma c’è un aspetto ancora più grave, ed è l’idea stessa che alla politica – e non alla comunità scientifica – spetti la nomina degli scienziati (in questo caso cultori delle scienze storiche e storico-artistiche), in un processo che rischia di assimilare le direzioni dei musei al consiglio d’amministrazione della Rai. Franceschini non si è accontentato dell’enorme potere diretto che la riforma gli accorda: sul «Corriere del Mezzogiorno» è trapelata la notizia (non smentita) di una sua lettera che chiedeva alla Regione di revocare la nomina dell’ex soprintendente Nicola Spinosa nel consiglio scientifico di Capodimonte, perché reo di essersi pubblicamente pronunciato contro la riforma. E davvero l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un maccartismo renziano contro gli storici dell’arte non allineati.
Queste modalità di reclutamento rappresentano il culmine della progressiva espulsione dalla gui
da del patrimonio culturale dei tecnici selezionati da altri tecnici sulla base delle regole della comunità scientifica. Un’e
spulsione che mira a evitare che il governo del patrimonio possa essere affidato a personalità d’intellettuali, i quali «anziché cedere alla continua insidia e alla tradizione delle tante trahisons», assumessero e mantenessero «ad ogni
costo e in ogni caso la responsabilità dell’intervento mondano dello spirito critico», come scrive Ragghianti nella pagina con cui ho aperto queste considerazioni. È in questo senso che si deve leggere l’ostentata preferenza per direttori «stranieri». Laddove le perplessità non scaturiscono certo da una visione xenofoba, radicalmente imcompatibile con l’idea stessa di una comunità scientifica che coincide con una république des lettres priva di confini interni. Ma se l’enfasi sugli stranieri si legge nel quadro fin qui delineato, emerge l’idea che la politica – questa politica – preferisca servirsi di figure di «sradicati», nuovi capitani di ventura messi in condizione di render conto solo al potere che li ha nominati. Non è un problema solo italiano, né solo del governo della cultura: in un capitolo de La ribellione delle élite (intitolato Il malessere della democrazia), Christopher Lasch analizza il fenomeno per cui «i membri delle nuove élite si sentono a casa propria soltanto quando si muovono [...] la loro è una visione essenzialmente euristica del mondo, che non è esattamente una prospettiva che possa incoraggiare un’ardente devozione per la democrazia». Ma certo è un’evoluzione che, applicata ai musei italiani, compromette in modo ancora più radicale quella funzione civile del patrimonio culturale basata sull’indipendenza della conoscenza che è tipicadella tradizione italiana e che laCarta costituzionale mette tra i principi fondamentali della comunità nazionale. In questo
senso, la notte dei musei italiani rende ancora più evidente l’eclissi dell’articolo 9 della Costituzione. E la notte si annuncia molto lunga, e molto nera.
Patrimoniosos.it, 30 novembre 2015
Dove va il Ministero per i Beni Culturali e il Turismo sulla strada esasperata della "valorizzazione"? Per ora sembra in stato confusionale, al di là di quello che scrivono tanti trombettieri. Per i Musei piovono decine di nomine che però per i Musei non autonomi al 35 per cento (dato ufficiale) vengono rifiutate dai prescelti. In certe Soprintendenze dove si sono assurdamente accorpati i beni storico-artistici e quelli architettonici non ci sono più storici dell'arte e se qualcuno chiede di valutare un quadro o una pala, gli rispondono imbarazzati che loro in quell'ufficio sono tutti architetti. Gli storici dell'arte o gli archeologi passati ai Musei spesso sono destinati a coprire due o tre istituzioni fra loro lontane chilometri. Un solo direttore è stato previsto per i Musei archeologici di Sibari e di Vibo Valentia (168 Km e due ore circa di viaggio in auto, ma chi paga la benzina?) e sempre un solo direttore deve reggere i Musei di Manfredonia (Foggia) e Gioia del Colle (Bari) e relative aree archeologiche fra cui corrono 161,4 Km per oltre un'ora e tre quarti di viaggio (e 12 litri di carburante). E' la valorizzazione, bellezza!
Purtroppo c'è di peggio. Agli Archivi di Stato - che già sono considerati la Cenerentola del Mibact - vengono inferti altri danni. In particolare all'Archivio Centrale dello Stato che l'indimenticato direttore Mario Serio aveva portato a livelli di efficienza rari nel grande fabbricato dell'Eur destinato, se ben ricordo, al Ministero e al Museo fascista della Guerra. Cosa succede ora? Il Segretariato generale del Mibact ha deciso di spostare il Museo Nazionale di Arte Orientale (sinora situato nel palazzo Brancaccio, in via Merulana) nella sede dell’Archivio Centrale dello Stato, sgomberando il primo piano del deposito laterale dell’Archivio stesso. Pur sapendo benissimo (se non lo sanno, è di una gravità assoluta) che i suoi depositi sono da tempo strapieni tant'è che uno spazio supplementare è stato affittato a Pomezia in un magazzino...industriale, senza una sala di studio e neppure uno spazio dove gli archivisti possano lavorare per riordinare le carte. Ma pure quel magazzino di Pomezia è saturo.
Adesso si tratta di far posto ai 23 km circa di documenti sin qui conservati negli spazi dell'Eur che vengono dati al Museo Nazionale delle Arti Orientali. Finiranno in qualche altro deposito decentrato quei 23 Km? Il 16 novembre, il Consiglio superiore per i beni paesaggistici ha approvato una mozione in cui ha espresso “viva preoccupazione” per la situazione in cui versano gli Archivi di Stato ed ha raccomandato che gli stessi siano dotati di ulteriori locali di deposito, per poter riceve i versamenti di documentazione che ora sono bloccati per mancanza di spazio. La Corte d’Appello di Roma vorrebbe riversare all’Archivio di Stato di Roma gli atti della Corte d’assise per gli anni '70 e '80, cioè su terrorismo, delitto Moro, attentato al papa e altre cosucce, ma tutto è bloccato perché non c'è già più posto.
Eppure l'Agenzia del Demanio ha definito "operazione attendibile" questo trasloco del prezioso Museo Nazionale di Arte Orientale intitolato a Giuseppe Tucci. "Attendibile", per chi? Non si sa visto che negli spazi di Palazzo Brancaccio dispone di oltre 4.800 metri quadrati e che gli stessi sono del Comune di Roma col quale un accordo non dovrebbe essere impossibile. Fra l'altro negli ultimi venticinque anni il Ministero vi ha speso circa 2 milioni di euro per attrezzare i locali di deposito di ben 30.000 pezzi di pregio, ruotati in mostre ed esposizioni permanenti.
Del resto, il dramma è nazionale: meno del 35% delle sedi di Archivi di Stato e Soprintendenze sono demaniali, le restanti sedi risultano in locazione e i canoni d’affitto ammontano complessivamente a più di 22,5 milioni di euro, pari ad oltre i 4/5 del bilancio dell’Amministrazione archivistica. Una follia pura coi tanti edifici demaniali vuoti o sottoutilizzati esistenti. E vogliamo ripetere qual è la situazione del personale archivistico che oggi dovrebbe poter digitalizzare e rendere fruibili telematicamente un numero grandissimo di documenti? Il numero complessivo degli addetti è crollato dagli 830 del 1998 agli attuali 621 (- 25,4 %, un quarto, spariti). Nessuno di quelli in ruolo ha meno di 37 anni, mentre il 66 % dei funzionari archivisti conta più di 60 anni. Vuol dire che, con questo trend, fra non molto gli archivi dello Stato chiuderanno i battenti per mancanza di personale qualificato. E di tutto il resto. Tranne il patrimonio di secoli di storia. Chiuso chissà dove e infrequentabile. Purtroppo sono fatti tragicamente reali. Ma su giornali e telegiornali non fanno notizia. Bisogna essere tutti ottimisti, proiettati nel futuro. Il passato ai Gufi.
Il Comunicato stampa di perUnaltracittà-laboratorio politico (23 novembre 2015) che denuncia il tentativo del sindaco di Firenze di nascondere l'autorevole parere dell'Unesco sul massacro in atto del centro storco della città che il pupillo di Renzi avrebbe la responsabilità di tutelare. In calce il testo originale del documento
Inqualificabile il comportamento del sindaco Nardella di fronte alla lettera dell’Unesco al Comune di Firenze che segnalava i rischi della realizzazione delle grandi opere in città.
Malgrado le ripetute richieste dei consiglieri, la lettera è stata tenuta nascosta in Palazzo Vecchio. Non solo. I contenuti della missiva sono stati artatamente mascherati. Rendendo dichiarazioni su una presunta dichiarazione Unesco sul “degrado” della città storica, determinato secondo il sindaco dalla vendita di alcolici e dai minimarket, Nardella travisava il messaggio arrivato da Parigi.
L’analisi tecnica allegata alla lettera Unesco segnala invece problematicità di ben altro calibro, legate ad interventi pesanti e invasivi, quali: il tunnel TAV; la vendita dei complessi monumentali pubblici o «semi-pubblici» – tra cui la Rotonda del Brunelleschi – a investitori privati, e il loro cambiamento di destinazione d’uso (peraltro monetizzato dall’art. 25 delle Note Tecniche del Regolamento Urbanistico); la costruzione di parcheggi interrati nel centro storico; il progetto di metró sotterraneo sotto il quadrilatero romano; la realizzazione delle linee del tram passanti nell’area protetta dall’Unesco; e infine l’eccessiva pressione turistica.
Sebbene la lettera ometta di inserire nell’elenco i sorvoli aerei sull’area Unesco che deriveranno dalla costruzione del nuovo aeroporto, essa ripete quanto stiamo dicendo da anni. Un centro storico non pianificato, troppo indulgente alle lusinghe del turismo internazionale, avviato verso la trasformazione in una luxury-city (o wedding-city) che espelle i residenti e cancella le funzioni civiche e gli spazi pubblici vitali per la convivenza civile.
L’Unesco richiede pertanto «ulteriori dettagliate informazioni sui suddetti progetti, inclusa adeguata documentazione tecnica e VIA, così come le misure di mitigazione per i progetti sotterranei, con particolare riguardo ai problemi di vibrazioni e allagamento». Su questo è chiamato a rispondere Nardella, che abbandoni il ruolo di promotore immobiliare e assuma, se ci riesce, quello che dovrebbe essere il compito di ogni sindaco, cioè di garante del buon andamento della cosa pubblica.
Mibact, una riforma chiamata caos
Renzi detesta e insolentisce pubblicamente i Soprintendenti fin da quando era sindaco di Firenze giudicandoli una burocrazia tanto potente quanto inutile. Difatti col decreto Sblocca Italia ha cominciato a togliere loro competenze sui grandi lavori. Con disegno di legge Madia è andato ancor più avanti imponendo una sorta di silenzio/assenso generalizzato col chiedere agli sparuti drappelli di architetti delle Soprintendenze oberati di lavoro (4-5 pratiche al giorno a testa, se va bene) risposte in pochi giorni. Altrimenti si va avanti, si approva o addirittura si sana anche l’insanabile. Cosa sono queste lungaggini perditempo in un Paese dove il consumo di suolo è pari soltanto a 8 mq al secondo e risulta triplo rispetto alle medie europee, 6,8 % l’anno contro 2,4 ? Dove tutto è integro, ben tenuto, verdeggiante, senza abusi né illegalità?
Per questo possono pensarci i Prefetti ai quali la stessa illuminata “riforma” Madia sottomette le Soprintendenze come altre strutture dello Stato erogatrici di servizi (così anche per gli scioperi ci tanno tutti più attenti). Anzi, a riforma approvata, le chiameranno Sottoprefetture alla maniera sabauda compiendo un salto politico-culturale all’indietro di un secolo e mezzo. Tutte cose che sembrano paradossali, surreali, lunari e che invece si stanno realizzando, in pieno caos.
Il Mulino, 3 novembre 2015
Ai primi freddi, invece, Franceschini dismette le vesti trionfali, reindossa il sacco del supplice (d’ordinanza per qualunque titolare dei Beni culturali), e si prostra: non ai piedi del suo presidente del Consiglio dei ministri, per chiedergli magari di riallineare la spesa pubblica per la cultura (e segnatamente per i musei) almeno alla media europea (siamo sotto la sua metà), ma invece ai piedi dell’impresa privata, implorandola di «adottare» i nostri più importanti musei, dagli Uffizi a Brera, dall’Accademia di Venezia a Capodimonte.
È utile riflettere sulla scelta delle parole. Franceschini parla di «adozione»: egli, cioè, invita le imprese – il mercato – a «riconoscere come proprio il figlio d’altri, mediante un atto giuridico» col quale «si creano rapporti di famiglia» fra cose «che non sono legate da un corrispondente vincolo naturale». È, questa, la piana definizione del Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia. Ed è perfettamente, direi capillarmente, adeguata anche a dar conto dell’uso metaforico che di “adottare” e di “adozione” ha fatto Dario Franceschini. Il ministro prende formalmente atto del fatto che lo Stato – per mano del suo governo – ha definitivamente collocato sulla ruota degli esposti, o degli innocenti, i massimi musei italiani. Si potrebbe qui sottilizzare, discutere: forse non è un’adozione per abbandono, ma per morte dei genitori, giacché lo Stato nell’epoca della modernizzazione à la Blair (o, per dirla altrimenti, à la Reagan) – come ha scritto Luciano Gallino – «provvede da sé a eliminare il proprio intervento o quantomeno a ridurlo al minimo, in ogni settore della società: finanza, economia, previdenza sociale, scuola, istruzione superiore, uso del territorio». La fattispecie è dunque quella di un genitore che si suicida: segue, inevitabile, l’adozione.
Ma, come in un racconto dickensiano (ed è proprio a quella giungla sociale della Londra ottocentesca, che velocemente stiamo tornando), l’orfano non trova una famiglia amorosa e disinteressata. No, finisce tra le mani avide di chi vuol farlo lavorare: e sia pure a vendere fiammiferi per la strada. Lo sa bene il responsabile pro tempore dell’orfanotrofio del patrimonio culturale italiano, che si affretta a far balenare la prospettiva di un guadagno: i nuovi, orgogliosi genitori avranno l’esclusiva (si potrà diventare main partner degli Uffizi), e soprattutto una sedia nei consigli d’amministrazione – secondo l’aurea regola del «pago-comando». E dunque il messaggio renzian-dickensiano suona così: adottate i poveri musei italiani, sono pieni di braccia per il vostro brand. La Venere di Botticelli laverà i pavimenti, la Tempesta di Giorgione ospiterà picnic, la Dafne di Bernini diventerà più disponibile.
Tecnicamente, si tratta di un altro decisivo passo verso la trasformazione dei musei nazionali in fondazioni di partecipazione, sul modello – a torto celebratissimo, come ho provato a spiegare nel mio ultimo libro – del Museo Egizio di Torino. Dando a Comuni e Regioni la possibilità di nominare una parte del consiglio scientifico dei musei, si è avviato una sorta di federalismo demaniale del patrimonio: una devoluzione dal sapore leghista, palesemente incostituzionale (il patrimonio è «della nazione», art. 9 Cost.) e gravida di conseguenze nefaste. Ora segue a ruota la promessa di mettere le grandi imprese nella governance, cioè nei consigli di amministrazione.
Qualche giorno fa il notista politico più lucido e progressista del Paese – Maurizio Crozza – ha constatato, partendo da un articolo di chi scrive dedicato al noleggio del patrimonio pubblico, che «la cultura è diventata una mignotta che si offre a tutti, basta pagare».
Ma no, caro Crozza, ha capito male: adozione, non prostituzione. Andiamo avanti tranquillamente.
[I temi di questo intervento sono ripresi e ampliati nell’articolo di Tomaso Montanari in uscita sul numero 6/2016 della rivista: La notte dei musei e l’eclissi dell’articolo 9, pp. 1084-1092]
Il Fatto Quotidiano, 25 ottobre 2015 (m.p.r.)
Dovrebbero essere tutelati senza se e senza ma e soprattutto ringraziati i funzionari della Sovrintendenza di Siracusa per avere protetto dall’assalto del cemento l’intera area ricadente all’interno delle Mura Dionigiane, patrimonio archeologico della Magna Grecia riconosciuto dall’Unesco, e invece rischiano di essere condannati, assieme alla Regione siciliana, a pagare un risarcimento record di 240 milioni di euro se il Consiglio di Giustizia Amministrativa, nell’udienza fissata per il prossimo 16 dicembre, ribalterà la sentenza del Tribunale amministrativo regionale di Catania, dando così il via libera alla realizzazione di 71 villette a schiera in un’area, il pianoro dell'Epipoli, protetta (perché di inestimabile valore storico archeologico) da un vincolo assoluto di inedificabilità posto con un decreto ministeriale che risale addirittura al 1959: il Castello Eurialo, che domina l’intera area archeologica, è l’unica fortezza greca di quel periodo esistente al mondo.
Duecentoquaranta milioni di euro è la cifra del risarcimento fissata da una consulenza affidata non a un urbanista ma a un luminare dell’ingegneria aerospaziale, docente all’Università La Sapienza di Roma, depositata l’altro ieri nel procedimento avviato dall’impresa Am Group della famiglia Frontino, che ha chiesto i danni dopo il divieto opposto dalla Sovrintendenza in forza di quel vincolo sostenendo di avere pronti i compratori delle villette nel sultanato dell’Oman. E dopo avere avuto torto in primo grado, il paradosso è che a decidere in appello saranno anche due membri del Consiglio di giustizia amministrativa che il Tar, la cui sentenza dovranno esaminare, ha ritenuto illegittimamente nominati: sono Titti Bufardeci, deputato regionale indagato dalla procura per le spese pazze dei gruppi parlamentari, ed Elisa Nuara (entrambi rimessi in sella proprio dal Consiglio di Stato), fedelissima, come il figlio Gian Carlo Maria Costa, del presidente della Regione Sicilia Rosario Crocetta, del quale è stata anche vice sindaco di Gela. Si, perché in Sicilia, a differenza che nelle altre regioni, il Cga oltre che di togati, è composto anche da membri laici nominati dall’amministrazione regionale e dunque dalla politica.
Ad avallare quel piano con la propria firma, che per il consulente aerospaziale oggi giustifica il risarcimento, fu la funzionaria regionale Mariella Muti, pensionata baby a 55 anni con la legge 104 per curare la madre; qualche mese dopo trovò però il tempo per fare addirittura l’assessore nella giunta di centrodestra nella città aretusea: «Fare l’assessore - dichiarò in un’intervista al settimanale Panorama - non è poi così impegnativo». Un avallo che ignorava le parole del sovrintendente Bernabò Brea, che nel ‘47 si era battuto per apporre a quell’area il vincolo di inedificabilità assoluta sostenendo che «la cura della propria bellezza, il rispetto e la valorizzazione dei propri monumenti non sono per Siracusa solo un lusso o l’adempimento di un dovere verso la cultura, ma un’intima ragione di vita e di benessere, anche dal punto di vista economico». Seguirono le convenzioni con la Am Group firmate dal capo dell’ufficio tecnico del comune, l’ingegner Mauro Calafiore, cui la vicenda non portò fortuna.
Nel luglio scorso la procura guidata da Paolo Giordano gli ha notificato l’avviso di conclusione delle indagini per corruzione e sfruttamento della prostituzione: avrebbe consentito la stipula di un’altra convenzione urbanistica in cambio di prestazioni sessuali di prostitute romene. L’ultima parola tocca adesso ai giudici del Consiglio di giustizia amministrativa riuniti il 16 dicembre, anche se il pool di avvocati di Legambiente sta programmando l’ultima contromossa: «Chiederemo la sostituzione del consulente - osserva l’avvocato Corrado Giuliano - nella perizia vi sono diversi svarioni di diritto, disattenzioni nell’esame dei documenti di Legambiente e si salta totalmente la provenienza dei documenti provenienti asseritamente dall’Oman». Il legale prosegue e aggiunge: «Si tratta di errori che non sorprendono alla luce delle competenze aerospaziali del perito».
Riferimenti
L’articolo di Franca Levorotti sulla salvaguardia delle Apuane richiede da parte mia alcune precisazioni.
Oltre a essere chiamata direttamente in causa dal testo, credo infatti di avere qualcosa da dire in merito ai contenuti del Piano paesaggistico della Toscana, approvato nella scorsa primavera dopo una concitata fase di emendamenti e controemendamenti, e oggetto di numerosi e opposti ricorsi con riferimento alla disciplina delle attività di escavazione nelle Apuane. Diverse imprese concessionarie di attività di cava hanno infatti presentato ricorsi al TAR contro i dispositivi previsti dal Piano per garantire la tutela paesaggistica delle aree interessate da attività estrattiva, mentre alcune associazioni ambientaliste prevalentemente locali hanno presentato un ricorso al Presidente della Repubblica per la supposta mancata tutela.
Nessun piano è perfetto, come noto, anche perché le garanzie previste a tutela dei diversi interessi nelle procedure di approvazione danno modo di apportare successive modifiche rispetto alle ipotesi iniziali, in questo caso le proposte approvate dalla giunta regionale. E io stessa, con grave scandalo dei più, non mi sono tirata indietro nell’esprimere le mie valutazioni in merito alle vicende che hanno interessato il Piano, intervenendo in Consiglio Regionale in sede di approvazione dello stesso (cfr., oltre a eddyburg che ringrazio per avere a suo tempo prontamente pubblicato il mio intervento, Anche A.Marson, "Il percorso di approvazione del Piano paesaggistico della Regione Toscana", Il Ponte, LXXI n.7, luglio 2015, pp.63-73). Nello specifico, con riferimento alle Apuane, sarei stata felice se si fosse riusciti a far approvare norme di maggior tutela, ma ritengo che il Piano approvato segni comunque un avanzamento rispetto alla precedente indeterminatezza.
Anche gli scempi paesaggistici richiamati, ad esempio quello già avvenuto al picco di Falcovaia, hanno infatti avuto luogo non soltanto a tutele di legge già vigenti, ma anche a Parco regionale delle Apuane già istituito (allora come ora privo di un piano del parco, e il cui Presidente, di cui Legambiente aveva chiesto pubblicamente le dimissioni, non ha esitato ad attaccarmi pubblicamente perché intendevo tutelare le Apuane).
E’ questa la ragione per cui, quando a suo tempo Franca Leverotti mi annunciò l’intenzione di promuovere un ricorso contro il Piano, le scrissi che non condividevo, poiché rischiava di passare il messaggio politico che è meglio non provare nemmeno a “sporcarsi le mani” per regolare interessi contrapposti con un piano. Meglio accontentarsi di: un Parco (cui spetta esercitare le tutele ambientali) che non pianifica; funzionari delle Soprintendenze che non sono in grado di conoscere approfonditamente, tanto meno di fare sopralluoghi alle cave oggetto di autorizzazione paesaggistica; autorizzazioni all’escavazione concesse da singoli dirigenti comunali.
Il Piano paesaggistico, in uno spirito riformista (giacché le rivoluzioni non si fanno con i piani, meno che meno con quelli approvati dalle assemblee elette con i metodi della democrazia rappresentativa) finalizzato a conciliare tutela del paesaggio e dei lavoratori, ha introdotto a questo riguardo un combinato disposto di requisiti più avanzati: l’obbligo di approvare in Consiglio comunale appositi piani attuativi di bacino per le attività di escavazione (ammettendo soltanto, in assenza di questi, limitate possibilità di ampliamento all’interno dei perimetri già autorizzati); un quadro conoscitivo di riferimento comune a tutti gli enti che intervengono nel procedimento; l’obbligo di valutazione paesaggistica per tutte le nuove attività; la chiusura di alcune cave e il divieto di aprirne di nuove sopra ai 1200 metri, per non citare che alcuni dei dispositivi introdotti ex novo.
Gran parte degli emendamenti passati in commissione, tendenti a scardinare le regole di tutela introdotte dal Piano a questo riguardo, sono stati oggetto di una revisione condivisa fra Regione e Ministero dei beni culturali poco prima del voto finale, per mantenerne la valenza originaria.
Si poteva fare di più? Nel momento dato, con le forze presenti in campo nei diversi schieramenti politici e istituzionali, dubito assai, dal momento che l’obiettivo politico dei numerosi oppositori era quello di far saltare non solo le norme per le Apuane, ma l’intero piano. I numerosi ricorsi presentati dalle imprese di cava dimostrano come il Piano contenga comunque, nel suo insieme, norme finalizzate a garantire anche per le Apuane una maggior tutela di quella finora garantita in assenza del Piano stesso.
Quanto alla presunta “latitanza” delle associazioni ambientaliste più importanti (Italia Nostra, Legambiente, WWF e Fai), pur non potendo rispondere in vece loro mi limito a ricordare che non di latitanza si tratta, ma della mancata condivisione dell’azione di ricorso contro il Piano. Mi risulta per di più che queste stesse associazioni abbiano di recente costituito un “Coordinamento apuano”, con l’obiettivo di seguire attentamente tutte le procedure di autorizzazione in corso, anche al fine di verificare se e come le nuove norme introdotte dal Piano vengano applicate da chi di dovere. Personalmente non posso che ringraziare il coordinamento delle associazioni per questo impegno quotidiano, assai più faticoso di un ricorso al Presidente della Repubblica, che mi dà il senso di non aver lavorato e sofferto invano.
E’ notizia delle scorse settimane che il PIT toscano, già oggetto di ricorsi al TAR da parte di alcuni concessionari di cave, è stato impugnato con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica da alcune associazioni ambientaliste: Mountain Wilderness, Amici della Terra, SIGEA, VAS, LIPU, CAI regionale, Centro Cervati e La Pietra Vivente.
Stupisce innanzitutto che le associazioni “storiche” (Italia Nostra, Legambiente, WWF e anche il più giovane FAI) non abbiamo aderito: una latitanza che contraddice vistosamente lo Statuto fondativo di alcune e soprattutto non è in linea con l’intensa attività mediatica a supporto di Anna Marson intrapresa da alcune di loro nei mesi precedenti. Stupisce anche il silenzio stampa di alcune penne di punta del giornalismo italiano contattate personalmente: una libertà “limitata” di scrittura che vediamo come un segnale assai preoccupante.
L’impugnazione di questo piano trova le sue radici nel fatto che relativamente all’area del Parco le norme del PIT violano l’articolo 142 del Codice in tutti i suoi commi, le leggi di tutela dei Siti Rete Natura 2000, le leggi di tutela delle acque superficiali e sotterranee ed il principio di precauzione. Le deroghe infatti stabiliscono che si può continuare l’attività estrattiva e ampliare i bacini estrattivi; si possono riaprire le cave chiuse, senza limiti di tempo, ovvero anche quelle rinaturalizzate e abbandonate per la cattiva qualità del tempo, oggi superabile con la produzione del carbonato di calcio.
Ebbene NON era questo l’intento del PIT, basta leggere l’audizione di Anna Marson al Consiglio Superiore del Beni Culturali, il solo testo relativo all’accordo con il MIBACT rimasto disponibile in rete (dato anche questo assai preoccupante) laddove dichiarava che la Giunta Regionale aveva stabilito che le cave nel Parco, esaurita l’autorizzazione in corso, andassero riqualificate e poi definitivamente chiuse, mentre le cave fuori dal Parco non potessero andare sulle vette e sui crinali, auspicando in merito una presa di posizione solidale del Mibact.
Chi ha manomesso il PIT? La risposta ancora una volta è nella dichiarazione di Anna Marson a PIT approvato e presente nel sito di Eddyburg, laddove richiama dapprima il conflitto «tra interessi collettivi e interessi privati, poi la presenza di emendamenti non coerenti con i contenuti propri di un piano paesaggistico», denunciando anche la «partecipazione di consulenti delle imprese del marmo alla scrittura degli emendamenti nelle stanze del consiglio regionale ed esplicitando tra i motivi di depotenziamento del piano che «nelle Apuane (sono state) cancellate tutte le criticità relative a specifiche aree interessate dalle escavazioni».
Nessuno ha smentito l’Assessore; anzi le sue accuse hanno trovato conferma nella dichiarazione dei concessionari riportata nel giornale “Versilia produce” di aprile 2015, laddove specificano che hanno ottenuto “soltanto”:
a) l’eliminazione della carta delle vette e dei crinali (che trova appunto la sua ragion d’essere nell’audizione al Consiglio Superiore del MIBACT);
b) lo stralcio della limitazione temporale per la riattivazione delle cave chiuse in area Parco e sopra i 1.200 (aree protette dal Codice!);
c) la semplificazione delle linee guida per la valutazione della compatibilità paesaggistica;
d) il coordinamento tra autorizzazione paesaggistica e valutazione di compatibilità paesaggistica.
Quale seria valutazione paesaggistica ci possiamo aspettare, dopo le manomissioni dei tecnici dei concessionari di cava ai punti c) e d) ? Non illudiamoci che le “nuove linee” fermeranno il disastro; sono note le autorizzazioni rilasciate dal Parco in conferenza dei servizi: i dinieghi diventano prescrizioni e gli abusi vengono differenziati in abusi permissibili o non permissibili.
Questi sono i fatti ricostruiti su base documentaria, ma un professionista competente, ignaro degli eventi, non può non rimanere sconcertato dalla lettura dei contenuti del PIT non solo e non tanto per il sistema delle deroghe che inficiano tutte le tutele che coprirebbero le Apuane, ma a partire dal fatto che questo PIT non è stato sottoposto a Valutazione di Impatto Ambientale, valutazione inderogabile per un Parco, ricoperto da una ZPS cui si sovrappongono 10 SIC , e dove si prevede l’ incremento esponenziale delle attività estrattive.
Sorprende anche che nel testo del PIT si precisi genericamente che le Apuane «sono interessate da numerosi geositi, quando i geositi sono almeno 253 puntuali e lineari (9 campi carreggiati, 5 campi di doline; 14 cordoni morenici; 37 cavità carsiche; 24 doline; 3 marmitte; 17 circhi glaciali; 25 picchi; 20 creste ecc.). Altrettanto anomalo è trovare scritto in un piano che dovrebbe garantire la tutela del paesaggio che sino all’approvazione dei piani di bacino ed entro tre anni sono consentiti, previa valutazione paesaggistica regionale, ampliamenti delle aree estrattive all’interno del perimetro autorizzato non superiori al 30% del volume consentito dall’autorizzazione vigente, se l’autorizzazione è in scadenza e se è stato esaurito il quantitativo concesso. E’ consentita altresì la riattivazione di cave e rinnovi per volumi non superiori al 30% di quanto consentito nell’ultima autorizzazione. Questo sarà concesso una sola volta». Siamo in un contesto di Piano paesaggistico o di Piano estrattivo?
Nel caso del comune di Minucciano «in considerazione del valore economico e sociale che le attività estrattive anche sopra i 1.200 m rivestono per Minucciano si consente di proseguire lo scavo anche sopra i 1.200 metri, garantendo il minor impatto paesaggistico, a TUTTE le cave del Comune comprese nei Bacini 2, 3, 5. Le cave attive del Comune di Minucciano sono 19 (10 di queste sono sopra i 1.200 m), quelle inattive (che al momento non hanno trovato acquirenti) sono 7; non conosciamo il numero delle cave inattive censite nel piano regolatore del Comune. Da un’intervista al Sindaco Poli, dopo la sua elezione, si ricava che nelle 10 cave dei bacini di Orto di Donna e Acquabianca sono OCCUPATI 20 operai. Deroghe sono concesse anche all’Henraux per il bacino dell’Altissimo quando sono in corso processi con la locale ASBUC che contesta alla ditta la proprietà di ben 378 ettari rispetto ai 540 rivendicata dalla società . Continuerà così l’attività estrattiva che ha ridotto ad un mozzicone il picco di Falcovaia alla cava delle Cervaiole, il cui ravaneto ha sepolto una sorgente e imbianca periodicamente il canale del Giardino (non compreso stranamente nell’area Parco, ma interno al SIC 18), dove vive una specie protetta: la Bombina pachypus ( valutata In Pericolo (EN) nella recente Lista Rossa redatta dal Comitato Italiano IUCN). Infatti il recupero dell’estesa discarica di cava e del reticolo idrico sottostante si intendono raggiunti con l’utilizzo di tecniche meno impattanti (forse lo scavo in galleria?) e con <<interventi di risistemazione ambientale e paesaggistica durante e al termine della coltivazione». Sarebbero i primi interventi di risistemazione attuati dal 1997, anno di creazione del Parco, ma risulta difficile pensare ad una loro realizzazione contemporanea all’escavazione.
Sempre nell’Altissimo, sono state riaperte a partire dal 2010, in area Parco, ben 3 cave: il ravaneto della cava Macchietta (cava in galleria a m. 1081 ) sta compromettendo la sorgente della Polla; la cava Mossa è stata ri-aperta nel 2013 nonostante il parere negativo della Provincia di Lucca; la cava Buca è stata ri-aperta nel 2013 nonostante la presenza, accertata tramite georadar, di numerose fratture. Ma già la strada che conduce alla cava Cervaiole era stata realizzata senza l’autorizzazione del Parco: pochi esempi per mostrare il comportamento anomalo del Parco.
Alla Cooperativa dei beni comuni di Levigliani che coltiva le cave nella logica della valorizzazione e del mantenimento delle risorse per le future generazioni, il PIT dei concessionari consente «L’ampliamento delle attività estrattive esistenti, anche al di fuori del perimetro autorizzato, in deroga all’art. 10 della Disciplina dei beni paesaggistici, subordinato all’individuazione di specifiche modalità di coltivazione che riduca al minimo gli impatti sugli elementi della morfologia glaciale»: siamo al di sopra dell’Antro del Corchia. Si tratta del complesso carsico più lungo d’Italia (oltre 60 km esplorati ad oggi) e uno dei più importanti d’Europa: uno dei caposaldi del Geoparco (geosito n. 194) e al quale l’ISPRA ha dedicato il volume The Corchia cave (Alpi Apuane). Il Pit della Marson descrive questa stessa area caratterizzata dalla presenza di rilevanti valori naturalistici (elevata concentrazione di habitat e specie di interesse comunitario e/o regionale, presenza di Siti Natura 2000), geomorfologici (circhi glaciali e vasti complessi carsici ipogei ) e paesaggistici.
Non sono ammesse autorizzazioni all’escavazione nel Retrocorchia» recita il PIT, ma qui si scaverà ancora perché si prevede “la riqualificazione paesaggistica della cava e della discarica del Retrocorchia”, nonostante un progetto di ricerca sulla valorizzazione delle biocenosi esistenti, finanziata dall’ente Parco con Delibera Dirigenziale 50/2007 e 32/2009.
Questi pochi esempi rendono comprensibile – spero- il ricorso delle associazioni ambientaliste di nicchia contro il PIT, limitatamente all’area del Parco, e spiegano anche l’appello che le stesse hanno rivolto tramite il Gruppo di Intervento Giuridico onlus, al Presidente della Repubblica affinchè il PIT manipolato venga azzerato ed il Parco delle Alpi Apuane possa godere di un PIT conforme alle leggi dello Stato.L'autrice è stata Consigliere nazionale di Italia Nostra ed è referente del presidio Apuane del Gruppo di Intervento Giuridico onlus
La proprietà privata deve arrestarsi alla soglia dei beni pubblici che per la Storia, l’Arte e la Cultura hanno un valore non commerciabile. E’ dimostrato che abbattere il debito pubblico –nazionale e locale- con le privatizzazioni è illusorio, irrimediabilmente inutile.
Pertanto, va abbandonata tutta la filiera della cosiddetta ‘cartolarizzazione’ (già repellente nel nome) per i suddetti beni. I quali, essendo di tutti, perché pubblici, non possono essere alienati senza il diretto consenso dei legittimi proprietari che andrebbero perlomeno interpellati tramite referendum nazionali/locali. La vicenda della “Cavallerizza” dimostra proprio questo: la cittadinanza non intende delegare al Sindaco e alla sua Giunta la vendita di beni riconosciuti di alto pregio (la “Cavallerizza” è bene dell’umanità, secondo l’Unesco) se non per volontà del popolo (Paolo Maddalena). Il mandato agli amministratori tramite il voto, riguarda la gestione dei beni comuni nell’interesse dei cittadini, non la loro alienazione/svendita. Se i cittadini intendessero iquidare il proprio patrimonio, cercherebbero figure più professionali e specializzate in ambito immobiliare/commerciale, non certo politici.
La destinazione d’uso di un bene -che resta pubblico- può certamente comprendere, al suo interno, attività private, sponsorizzazioni private, concessioni a privati sulle quali, però, decide autonomamente il pubblico, mai estromesso dalla sua proprietà, mai condizionato né succube della speculazione da capitale privato.
Nel caso specifico, mi pare non eludibile la destinazione di generale struttura culturale e artistica (produzione, formazione, ricerca e manifestazione) e sede di ‘borgo’ universitario e degli artisti con le sue residenze studentesche, le comuni zone-studio, i laboratori e gli studi professionali, i magazzini per artisti, artigiani e ospiti esperti; le botteghe e i ristori per la vita (e la vivacità) della collettività resa omogenea dall’impegno per il sapere e il saper creare.
Sono certo che Sindaco e Giunta, se non fossero ossessionati e ricattati dal buco di bilancio, sarebbero d’accordo. Ma, intanto, dovrebbero convincersi che con la “Cavallerizza” quel buco non lo tapperanno mai e che non si usano i capolavori di un’intera civiltà per sanare i debiti. La risposta la conosciamo: “Chi paga?”. Intanto gli sponsor. Esempi sono il Colosseo e la scalinata di Trinità dei Monti che non sono diventati di proprietà di Della Valle e di Bulgari. Inoltre, occorrerebbe impegnarsi in una campagna locale per l’”Art Bonus” Sono anche convinto che se si lanciasse una tassa di scopo per la tutela e la rivitalizzazione della Cavallerizza (come per gli altri ‘gioielli’ della città), avrebbe successo così come la destinazione del ‘5 per mille’ espressamente finalizzata ad essi.
Tutto questo è possibile ma c’è un dovere per una nazione come l’Italia ed è quello del censimento e classificazione per la riqualificazione e rifunzionalizzazione dell’eccellenza del patrimonio storico architettonico che va inesorabilmente in rovina. Per rispondere a tale dovere va organizzato un apposito ministero non mescolabile con turismo, eventi, fiere, musei, ecc. ma specifico e concentrato su un solo obiettivo.
L’Italia, dal punto di vista della conservazione di tale patrimonio è in una situazione analoga a quella post-bellica che aveva quale priorità quella della ricostruzione. La “Cavallerizza” non è bombardata (è come se lo fosse) ma ha bisogno di tornare allo splendore del suo progetto originario negli esterni e di essere ristrutturata negli interni per essere abitata in nuove funzioni, in sicurezza, con nuovi requisiti, impianti, servizi logistici, ecc. Sono interventi di un livello tale che hanno bisogno di un apposito Ministro e Ministero con portafoglio, di un apposito capitolo costantemente previsto e finanziato tutti gli anni nella legge di stabilità. La mappa degli interventi del ‘livello Cavallerizza’ avrebbe dovuto essere redatta dagli anni ’50. L’incuria ha accumulato un danno enorme. A tanta inadempienza non si risponde svendendo la propria inestimabile ricchezza all’asta. Si accantonano, anno dopo anno, le somme necessarie a portare a termine un programma (ventennale?) di riacquisizione dell’integrità di quel tesoro i cui frutti ripagheranno- anche economicamente- ampiamente della spesa e per sempre.
Intanto, con la “Cavallerizza” che si fa?
1) Il Comune delibera la sospensione, per un anno, di ogni trattativa commerciale relativa agli immobili e
2)la recessione dalla loro cartolarizzazione;
3) il sindaco di Torino, in qualità di presidente dei comuni italiani (ANCI) si fa promotore presso il governo per l’istituzione del nuovo ministero e
4) presso il ministro Padoan per l’inserimento nella legge di stabilità 2016-17 del programma pluriennale di finanziamento del suddetto ministero;
5) sempre Fassino, si attiva presso le istituzioni deputate all’ottenimento dei finanziamenti europei su programmi relativi alla tutela e riuso di opere di alto valore storico/culturale/urbano e
6) si impegna, in qualità di membro del consiglio di amministrazione della Cassa Depositi e Prestiti, affinchè siano ridefinite la sua natura e le sue finalità, queste ultime a vantaggio dell’uso del risparmio collettivo per finalità socio culturali e territoriali come quella del recupero di cui sopra. Infine, si utilizza l’anno di sospensione per il compimento di tutte le fasi necessarie al compimento di tutte le fasi di progettazione dell’ utilizzo di tutto il complesso perché dal 2017 sia possibile dare inizio ai lavori per il suo tanto atteso recupero.
». Un’intervista cdi Ernesto Milanesi a Salvatore Settis. Il manifesto, 17 ottobre 2015
Una scomoda verità rimossa e la difesa costituzionale dei beni comuni. Salvatore Settis, 74 anni, archeologo e storico dell’arte, ex presidente del Consiglio superiore dei beni culturali (da cui si dimise nel 2009 in polemica con il ministro Bondi), offre il suo «segnavia» alla Fondazione Cariparo, che ha dedicato un appuntamento a «Beni culturali e mercato: missione (im)possibile?» al centro culturale San Gaetano di Padova.
«Le risorse per musei e siti, ricerca, scuola, università e cultura? È inutile nascondersi dietro un dito: l’Italia, in base ad una recente indagine dell’Unione europea, è seconda dietro all’Estonia nell’evasione fiscale fra gettito Iva previsto e quello incassato nel 2013 rispetto all’anno precedente. Si tratta, sempre secondo Bruxelles, di una somma pari a 47,5 miliardi di euro. Ecco dove i governi devono trovare i soldi!» sbotta fra gli applausi.
Per Settis fa fede sempre l’articolo 9 della Costituzione («La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione»). Ma stride rispetto alla realtà: «Abbiamo 377 storici dell’arte nell’organico: 240 nei musei e 137 nelle Soprintendenze. Numeri che parlano da soli, soprattutto nel caso delle Soprintendenze che in un territorio capillarmente pieno di beni culturali si ritrovano con personale perfino minore di qualche museo americano e comunque con un’età media più vicina ai 60 che ai 50 anni, dunque vicina al pensionamento», evidenzia senza tanti complimenti.
Nel Nord Est il paesaggio è vittima dell’urbanistica senza scrupoli e dell’economia del cemento. Un’«emergenza» che stava a cuore ad Andrea Zanzotto e che continua ad impegnare comitati, associazioni, singoli. Che ne pensa?
«Il Veneto è una delle regioni più belle non solo d’Italia ma del mondo: possiede una civiltà, una tradizione culturale, architettonica e paesaggistica di prim’ordine. Ho l’impressione che una parte dei veneti la stiano dimenticando, in particolare quelli che poi finiscono a governare la regione e comuni molto importanti come Venezia. Negli ultimi decenni c’è stata una scandalosa «invasione» delle campagne: lo spargersi delle città come una marmellata che sta invadendo la campagna a dispetto del paesaggio. È molto doloroso dover constatare una scarsa reazione civica, anche perché si tratta di un gesto autolesionistico. Il Veneto ha una pianura fra le più fertili del pianeta, ma ha il primato dei capannoni costruiti anche se vuoti perché non c’è più industria. Una sciagurata scelta che ha finito per logorare l’attenzione, la sensibilità, il gusto e il senso civico».
Lei è stato in prima fila nella difesa degli affreschi di Giotto minacciati dal progetto di auditorium (ora definitivamente archiviato) dell’allora sindaco Flavio Zanonato. Qual è la distonia fra «cultori della materia» e pubblici amministratori?
«Solo chi non si fa troppi scrupoli né riflette abbastanza può immaginare qualcosa che metta a rischio la Cappella degli Scrovegni, un gioiello senza paragoni e patrimonio dell’umanità. Noto con grande preoccupazione che a tutti gli appelli in difesa di Giotto si reagisce sempre in modo tranquillizzante. La cripta della Cappella invasa dall’acqua? Il Comune di Padova dice di non preoccuparsi. Un fulmine colpisce l’edificio? Di nuovo: va tutto bene. Dobbiamo restare tranquilli finché non casca tutto? Credo che sia necessario, invece, tornare a uno straordinario rigore nella salvaguardia dei beni artistici e culturali: bisogna esagerare nella loro tutela proprio per essere sicuri di preservarli».
Il suo ultimo saggio è dedicato a Venezia: il «caso Mose» ha dimostrato la reale traduzione della salvaguardia?
«È un grande episodio di corruzione, davvero paradigmatico, che va ben al di là di disattenzione o errori. Nella vicenda Mose è rimasto coinvolto anche l’allora sindaco Orsoni, mentre Galan (ex ministro dei beni culturali) è ancora presidente della commissione cultura della Camera nonostante con il patteggiamento abbia ammesso le sue responsabilità. Ecco: Mose, Expo 2015 o Roma Capitale, dimostrano come, in un paese in cui l’attenzione civile è ridotta al lumicino attraverso «leggi speciali», la corruzione si installa in modo fisso e puntuale. Ciò spinge ad una riflessione ulteriore: con il moltiplicarsi dei comitati che si preoccupano del territorio, mi auguro che la coscienza della cittadinanza attiva riesca ad imporre più rigore a chi fa politica per mestiere».
Gestione dei beni culturali: una sfida sempre più ostica?
«ono un vero e proprio problema nazionale. Soltanto oggi si comprendono fino in fondo gli effetti della criminosa e irresponsabile decisione del governo Berlusconi nel 2008. Il dimezzamento dei fondi al ministero l’ho denunciato all’epoca per primo dalle colonne del Sole24Ore. Adesso chiunque si rende conto delle conseguenze. Senza dimenticare l’atteggiamento degli amministratori locali: il sindaco di Verona vuol mettere il tetto all’Arena come se fosse un circo equestre di plastica. E non è la prima volta che manifesta questa strampalata idea. All’inizio, tutti ci hanno riso sopra. Ma il sindaco ci riprova. E può essere che a furia di insistere, magari, alla fine ce la faccia.
Può valutare la strategia del ministro Franceschini? Qual è, secondo lei, la via migliore da perseguire nel «governo» dei beni culturali?
«Non so qual è il disegno che ha in mente il ministro. Tuttavia, proviamo ad essere ottimisti. La sua prima mossa è stata nei confronti dei musei. Lasciamo stare se i venti direttori siano le persone veramente adatte. Come pure i criteri per le nomine. Ma il governo, non solo Franceschini, deve far seguire immediatamente una seconda mossa: rafforzare davvero le Soprintendenze. Cioè dotarle di personale, farle funzionare e dimostrarne il ruolo cruciale. È il vero banco di prova. La più urgente necessità è far funzionare le istituzioni culturali mediante le persone. Comunque non basta: servono più risorse, ma anche uno stretto collegamento fra musei e soprintendenze. La peculiarità maggiore dell’Italia sono proprio le collezioni museali, espressione dei nostri territori.
«La Galleria dell’Accademia di Venezia non è un museo d’arte universale come il Louvre, ma riflette fondamentalmente la storia di quella città che non mi pare certo secondaria. Ed è lo stesso ovunque, da Parma a Lecce. Mi sento di aggiungere un’altra considerazione: non è che il «modello museale» italiano sia arretrato rispetto a quello degli Stati Uniti che rappresenterebbe la punta più avanzata. Se uno va in giro per New York vede tante belle cose, ma non troverà mai la Cappella degli Scrovegni. E c’è una ragione perché non la trova. A Padova, invece, ci sono i Musei Civici e Giotto. Il punto è mettere insieme il patrimonio di proprietà pubblica (statale o comunale) e privata in un disegno generale di tutela, valorizzazione e fruizione pubblica. Altrimenti, non solo mancheremmo alla nostra tradizione e missione, ma anche a ciò che dice la legge. E per la nostra Costituzione, Giotto appartiene a un siciliano tanto quanto ad un cittadino di Padova».
La Nuova Venezia, 10 ottobre 2015 (m.p.r.)
Venezia. Per Philippe Daverio è «una pura balla» e un progetto irrealizzabile, a meno di non svendere i capolavori di Klimt e di Chagall a un decimo del loro valore reale. Per Vittorio Sgarbi, invece, quella di Brugnaro è «un’idea sconcertante, ma a suo modo geniale perché è meglio vendere opere di Klimt e Chagall che non hanno un rapporto diretto con Venezia, che quelle conservate nei depositi dei Musei Civici, che sono invece di artisti che hanno un legame con il territorio e la sua storia».
I due famosi critici d’arte, i più “mediatici” d’Italia, commentano così l’idea del sindaco di mettere in vendita alcune delle opere d’arte dei Musei Civici, tra cui appunto quelle di Klimt e Chagall, per azzerare il deficit del bilancio del Comune.
«L’idea del sindaco è una pura balla», insiste Daverio, «perché non riuscirà mai a ottenere dal ministero dei Beni Culturali l’autorizzazione a vendere quelle opere sul mercato estero. La “Giuditta II” di Klimt, ad esempio, venduta a Londra o a New York da Christie’s o Sotheby’s, può valere anche molto di più dei 70 milioni di euro stimati dal Comune. Ma siccome non potrà mai lasciare il territorio italiano, sul mercato interno nessuno la pagherebbe più di un decimo del suo valore reale, a meno che non scenda in campo qualche fondazione bancaria. Mi sembra inoltre assurdo pensare di sanare i buchi di bilancio vendendo le opere dei musei, ma anche un grave errore contabile. Il sindaco - e anche Renzi, se davvero gli ha dato una sorta di placet preventivo all’operazione - saprebbero con corso di diritto amministrativo, perché non è possibile utilizzare una voce del conto capitale, come le opere d’arte possedute dai Musei Civici, per “sanare” i buchi di spesa corrente. Al massimo, con quei soldi, Brugnaro potrebbe costruire una scuola, o un ospedale».
Diversa e, come sempre, controcorrente, la valutazione di Vittorio Sgarbi. «Il primo impulso è dire che l’idea del sindaco è un’idiozia», commenta Sgarbi, «ma invece, ripensandoci, è, a suo modo, geniale. Personalmente ho sempre pensato che sia una sciocchezza cedere le opere dei depositi dei musei, non solo per il loro valore limitato, ma perché sono generalmente espressione di artisti del territorio, con una preciso legame con la loro città. Dipinti come la “Giuditta II” di Klimt o il “Rabbino di Vitebsk” di Chagall - artista peraltro sopravvalutato - non hanno alcun legame diretto con Venezia, al di là delle circostanze per i quali sono stati acquisiti da Ca’ Pesaro e dell’influenza che possono aver esercitato su artisti anche veneziani e potrebbero essere pertanto esposti in qualsiasi museo del mondo.