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Emergenza Cultura, 17 maggio 2016 (p.d.)

Al Consiglio Superiore della Magistratura il vice (fidato di Renzi) Giovanni Legnini vuol zittire da Palazzo dei Marescialli tutti i magistrati e parlare soltanto lui, portavoce unico. Al Collegio Romano, sede del ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini, non spira un’aria granché migliore. Intanto vige un “codice etico” in base al quale “il dipendente (di qualunque grado sia, ndr) – fatto salvo il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni a tutela dei diritti sindacali e dei cittadini – si astiene da dichiarazioni pubbliche, orali e scritte che siano lesive dell’immagine e del prestigio dell’Amministrazione”. Lesive a giudizio delli Superiori. Ciò vuol dire bavaglio, di fatto totale – proprio in questi mesi di sconvolgimento delle strutture del MiBACT – mentre le Soprintendenze vengono assurdamente accorpate annegando ogni specificità e predestinate (legge Madia) a finire gerarchicamente sotto prefetti e prefetture. Il funzionario che parla o scrive senza permesso delle gerarchie ministeriali rischia di brutto. Tanto più che è momento di nomine non per concorso bensì per decisione tutta “politica”.

Non si vuole infatti che si sappia dalla viva voce dei funzionari quanti di loro rinunciano a dirigere musei raggruppati soltanto sulla carta e quindi insensatamente distanti chilometri e chilometri l’uno dall’altro o sapere della paralisi che ha investito anche grandi musei i cui consigli di amministrazione, spaventati dalla mancanza di risorse e dalla responsabilità davanti alla Corte dei conti, non decidono nulla. O ancora del caos imperante ovunque in forza di decisioni prese dall’alto senza alcuna consultazione dei tecnici.

A Roma poi, dal 1° febbraio scorso, vige una circolare firmata dal l’allora Soprintendente archeologico, architetto Francesco Prosperetti, in base alla quale “le modalità di comunicazione agli organi di informazione (giornali, radio, tv) relative ad attività istituzionali dovranno essere preventivamente sottoposte al Dirigente per il tramite dell’addetto stampa e/o delle strutture istituzionali”. In caso urgente rivolgersi “direttamente al Dirigente” (tutto maiuscolo). Attenzione perché “ogni iniziativa autonomamente presa dalle SS.LL in maniera difforme è ritenuta non consona al disposto dell’art. 3 comma 8 del Codice di Comportamento” (quello sopracitato). Se le Signorie Loro ci rifanno come “apparso in più occasioni sulla stampa”, l’azione disciplinare è inevitabile. automatica. Subito ha protestato la Fp Cgil, il suo segretario nazionale Salvatore Chiaramonte richiamandosi all’articolo 21 della Costituzione sulla “libertà di espressione” e definendola “una disposizione vergognosa e pericolosa che squalifica chi l’ha emanata e chi l’ha ispirata e che la dice lunga sulla coscienza democratica di chi ci governa”. Ma il clima non è molto cambiato. Anche perché tranne poche voci di stampa, anzitutto “Il Fatto Quotidiano”, e ancor meno emittenti tv (essenzialmente La7, la Rai in proposito è quasi muta pur essendo “servizio pubblico” finanziato al 66 % da noi abbonati), il silenzio stampa è sceso sulla denuncia dei cento e cento attentati alla tutela dei beni culturali e paesaggistici in nome della “valorizzazione” di alcuni di loro, cioè del “far soldi” e poco più.

Domenica 8 maggio c’è stato un festoso “Appia Day”. Forse per sottolineare, sia pure tardivamente, quanto ha fatto con pochi soldi e molti sudori la Soprintendenza Archeologica alla Villa dei Quintili, a Santa Maria Nova o a Capo di Bove sotto la direzione di Rita Paris? No, al contrario per chiedere genericamente una ludica “pedonalizzazione dell’Appia”. Che peraltro è al 95% privata. Non era meglio riversare lì i 18 milioni di euro (presunti, saranno di più) che Franceschini si ostina invece a voler spendere per riportare gli spettacoli circensi all’Arena Colosseo? Mi par di sentire il Grande Fratello che dal Collegio Romano impone: “Ditelo ancora e vi sospendo subito dal servizio”. Sino a quando?

Il manifesto, 8 maggio 2016 (p.d.)

Allo storico dell’arte Salvatore Settis, uno dei promotori della manifestazione «Emergenza cultura» che ieri ha sfilato a Roma per chiedere di rivedere la riforma Franceschini sui beni culturali, lo Sblocca Italia e la riforma Madia, chiediamo perché ritiene fondamentale l’applicazione dell’articolo 9 della Costituzione. «È un articolo che viene ricordato anche da chi ci governa, senza però averne consapevolezza – risponde – Di solito viene usato per lodare le bellezze culturali o per dire che l’Italia è un museo a cielo aperto. Vuol dire conservare il patrimonio e il paesaggio nella sua peculiarità: la diffusione capillare su un territorio benedetto dalla storia che non ha pari in Europa. Il taglio delle risorse finanziarie e umane ha aumentato la crisi del settore e ha fatto crescere l’attenzione sul problema. Per fortuna un numero crescente di persone si stanno attivando per chiedere l’attuazione del diritto al patrimonio culturale».

Chiedete di rivedere la riforma Franceschini. L’abbiamo conosciuta a partire dalle nomine dei direttori dei musei italiani. Ad oggi qual è il bilancio?
Personalmente non sono mai stato contrario all’idea di dare uno scossone all’amministrazione, che ne ha bisogno. Aprire i concorsi anche agli stranieri è un’idea giusta. Non si capisce perché un italiano possa diventare direttore in Inghilterra e non viceversa. Il problema è che Franceschini ha formato una sola commissione composta da cinque persone che in poche settimane ha nominato venti direttori. Questo è fuori dagli standard internazionali. Non basta dare uno scossone solo a livello dirigenziale. Nemmeno un genio può fare qualcosa se mancano le risorse e non si assume il personale.

Il governo ha promesso cinquecento assunzioni. Sono sufficienti?
È una notizia molto positiva. Per il momento è un annuncio e il concorso non è stato fatto. Quando questi funzionari entreranno in servizio ne saranno andati in pensione altri mille. Stiamo mettendo pezze a una situazione emergenziale. Non si sta facendo nulla per far funzionare bene il paese.

Il governo stanzierà un miliardo per la cultura. È soddisfatto?
Ogni volta che ci sono soldi nei beni culturali bisogna essere contenti. Spero che siano soldi freschi e non una bufala come quella dei 2,5 miliardi per la ricerca denunciata Giorgio Parisi secondo il quale dal fondo manca un miliardo. Franceschini ignora che il problema non è avere fondi eccezionali una tantum, ma assicurare la normale amministrazione. Oggi non ci sono i soldi per pagare la benzina all’archeologo che deve fare un sopralluogo. È come per l’università: non ci sono i soldi per assumere i docenti già abilitati, ma si trovano quelli per creare 500 «cattedre di eccellenza». Vorrei vivere in un paese dove funziona l’ordinaria amministrazione e poi si aggiungono risorse. Non il contrario.

La riforma Franceschini interviene sulle soprintendenze e le direzioni generali del Mibact. Quali sono i problemi a suo avviso?
Franceschini ha fatto una scelta molto strana. Ha lasciato intatte le dieci direzioni generali, ha accorpato tre direzioni generali che tutelano il territorio, ha creato in tutta Italia soprintendenze miste. Non ci saranno più quelle archeologiche che esistono da 100 anni. Un solo soprintendenze dovrà dunque badare a tutti gli aspetti del territorio. Tutto è stato fatto in maniera velocissima senza fare nuove assunzioni. Non ci si è resi conto che in Sicilia le soprintendenze miste esistono da tempo e non hanno funzionato. Sarebbe stato il caso di studiare il perché, ma non lo hanno fatto. È una riforma fatta a tavolino, su indicazione dei consiglieri giuridici del ministro. Suppongo che conoscano bene il diritto, ma non hanno la minima idea di come funziona un museo.

La legge Madia metterà le soprintendenze sotto l’autorità dei prefetti. Cosa c’è di sbagliato?
È gia così di fatto. In questo modo la tutela territoriale che richiede competenze professionali precise viene assoggettata al prefetto al quale si attribuisce il potere di tacitare la voce dei soprintende, se questa voce verrà espressa. È come far dirigere un ospedale da un prefetto che dovrà decidere se si deve operare una persona o no. Per tutelare il territorio c’è bisogno di un archeologo, non di un prefetto. Un principio elementare disatteso dal governo.

Chiedete l’abolizione dello Sblocca italia. Cosa c’entra questa legge con il patrimonio culturale?
Quando la Costituzione dice che la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio culturale dice che questi aspetti fanno parte dei diritti del cittadino. Nello Sblocca Italia ci sono varie ragioni di incostituzionalità riconosciute dalla Corte costituzionale. La legge dà nuova linfa alle grandi opere e istituisce il meccanismo del silenzio-assenso già condannato in passato. Era un’idea fissa dell’ex ministro Lupi contro la quale il Pd si è battuto, ma che poi ha votato quando ha condiviso con lui il governo.

Cosa pensa dei bandi del Mibact che usano il volontariato e gli stagisti per mansioni che dovrebbero essere svolte da professionisti?
Il volontariato è una grande risorsa per creare la solidarietà sociale prevista dalla Costituzione, ma viene usato per sostituire il personale che manca o come alibi per le assunzioni che non si fanno. Queste sono mosse per far lavorare la gente con i voucher o addirittura senza pagarla. Sono provvedimenti che vengono imbellettati da soluzioni di avanguardia, mentre sono foglie di fico che occultano i veri problemi.

Il Fatto Quotidiano, 6 maggio 2016 (p.d.)

Il sito del museo non funziona? Pazienza, è più cool avere Sentiment su Trip Advisor. I visitatori sono pochi? Attiriamoli con Batman di fianco all’Ercole Farnese. Gli incassi sono risibili? Affittiamo la località per matrimoni vista templi. E via così: questo stanno facendo i 20 direttori dei principali musei statali, nominati ad agosto da Franceschini, con un costo per lo Stato di 2-2,5milioni di euro all’anno. I loro stipendi variano da 145 a 78 mila euro (+ 40 o 15 mila di bonus), contro i 30-35miladei predecessori.

A quasi 9 mesi dalla nomina, e a quasi un anno dei quattro della carica, tutti i manager sono indaffarati nel rilancio dei rispettivi musei: alcuni con operazioni felici, come il rientro di una pala del Perugino per Brera, o l’adeguamento della Galleria di Urbino per i disabili, o la riapertura dell’Archeologico calabrese. Altri, invece, si stanno sbizzarrendo con il maquillage più che con interventi strutturali: c’è chi vuole sfrattare un asilo per aprire un ristorante, chi fa strisciare Jan Fabre in Piazza della Signoria,chi invita Federica Pellegrinia tuffarsi nelle “piscine” della Reggia di Caserta...

La valorizzazione è garrula, anche per questo il 7 maggio a Roma è stata indetta la manifestazione “Emergenza cultura”.Una delle tante, benché minori, conseguenze della riforma del Mibact è il caos online: alcuni siti museali non funzionano, o sono in allestimento perenne, o “attivi, ma in forma ridotta”, come quello del Polo Museale Fiorentino, che comprende i frequentatissimi Uffizi e Accademia, gli stessi che poi si lamentano dell’acquisto dei biglietti sui portali non ufficiali o dai bagarini in strada. In compenso, il Mibact “ha voluto fornire ai musei uno strumento che permette di monitorare la propria immagine digitale”: servizio appaltato a Travel Appeal, startup fiorentina del renziano Mirko Lalli.

Quanto agli ultimi stanziamenti Cipe, ne beneficeranno 12 musei su 20 per un totale di 252 milioni di euro su quasi un miliardo.

Galleria Borghese (Roma). Anna Coliva, unica riconfermata, a dicembre si lamentava del “numero contingentato di visite e della prenotazione obbligatoria”.A maggio nulla è cambiato,perché ora il problema è sfrattare un asilo per farci un punto di ristoro.

Uffizi (Firenze). Le zecche sono state debellate, ma non le code e i bagarini. Eike Schmidt promette di completare i Nuovi Uffizi entro 4anni, portare a 50 la lista delle opere incedibili e svuotare il Corridoio Vasariano. Chiedeva 35 milioni di euro e il Cipe gliene ha dati 40.

Gnam (Roma). Lavori incorso forever nel museo di Cristiana Collu: non per riesumare opere d’arte o ampliare le sale, ma per spostare bookshop e caffetteria. Il nuovo ingresso “trionfale” costa 2 milioni di euro e sacrificherà parte della collezione.

Accademia (Venezia). Paola Marini ha aperto 7 nuove sale e inaugurato una importante mostra su Manuzio, ma c’è chi denuncia infiltrazioni e degrado “tali da compromettere l’incolumità delle opere, come quelle di Vittore Carpaccio”.

Capodimonte (Napoli). È partito il servizio di navetta da Napoli a Capodimonte. Intanto Sylvain Bellenger ha deciso di prestare molte opere del Caravaggio, per cui il museo è famoso, alla Germania per una mostra sul barocco a Napoli.

Brera (Milano). James Bradburne sembra il più spigliato e operativo: pregevole l’allestimento di “Raffaello e Perugino attorno a due Sposalizi della Vergine”, per il quale è rientrata in Italia una pala. Come sponsor si è fatto avanti Ovs.

Reggia di Caserta. Mauro Felicori è famoso per il suo stacanovismo, però deve vedersela coll’ingombrante scandalo affittopoli e la transumanza di parcheggiatori e ambulanti abusivi. Atteso per il 1° giugno il riallestimento dell’eccezionale collezione “Terrae Motus”.

Accademia (Firenze). Cecilie Hollberg si è lamentata con il sindaco Nardella del “caos abusivi e mendicanti” e ha ammesso: “Io più di così non posso fare. Nemmeno aperture straordinarie perché il personale non è sufficiente”.A lei niente soldi Cipe.

Galleria Estense (Modena). Diretta da Martina Bagnoli , qualche giorno fa “la Galleria è entrata nel terzo millennio e sbarcata sui social network”. Dopo i concerti e gli aperitivi, forse si vedrà qualche spicciolo dal Cipe dei 70 milioni per il Ducato Estense.

Gallerie di arte antica (Roma). “A causa della carenza di personale potrebbe verificarsi la necessità della chiusura di alcune sale”: ora che Flaminia Gennari Santori riceverà 9 milioni dal Cipe cambierà qualcosa?

Galleria delle Marche (Urbino). Peter Aufreiter ha adeguato gli spazi per i disabili, ma online il museo è inagibile. Sgarbi plaude il direttore per “aver migliorato l’allestimento e aver negato il prestito di un’opera di Pierodella Francesca”.

Galleria dell’Umbria (Perugia). Appena nominato,Marco Pierini disse: “Bisogna lavorare subito alla comunicazione, fare un sito degno di questo nome. Serve l’abbicci”. Infatti il sito è ancora in allestimento. Il museo ospiterà invece Umbria Jazz.

Bargello (Firenze). Orari e giorni di apertura sono esilaranti, se non incomprensibili: in sostanza, però, il museo diretto da Paola D’Agostino è aperto solo al mattino, con una proroga recente fino alle 17 e fino al 31 luglio. Poi chissà.

Archeologico di Napoli. Paolo Giulierini si è inventato due mostre sui supereroi e sui fumetti: oltre a Batman c’è pure Yoda vicino al busto dell’imperatore Claudio. Ma“la Collezione Egizia è chiusa sino a data da destinarsi e le Collezioni della Magna Grecia” pure.

Archeologico di Reggio Calabria. Il museo è stato riaperto sabato dopo 10 anni di cantiere, 34 milioni di euro pubblici e un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia. Ora il compito di Carmelo Malacrino sarà attrarre visitatori.

Archeologico di Taranto. Eva Degl’Innocenti annuncia: “Più 30% di visitatori rispetto al 2015”, ovviamente tacendo il numero esatto.Anche se il trend venisse confermato, si arriverebbe a 70mila ingressi annuali: cifra ridicola, meno di un terzo del 30° museo italiano.

Archeologico di Paestum. Gabriel Zuchtriegel ha aperto il sito ai matrimoni, con tanto di regolamento e tariffario: da 200 euro in su per le foto e da 2 mila euro per il rito civile. Per quello religioso,“rivolgersi alla parrocchia”(sic).

Palazzo Ducale di Mantova. Pochi giorni fa Peter Assmann diceva che “l’ingresso non è ben individuato” e reclamava “parcheggi, organizzazione delle file, un punto d’informazione, bagni puliti...”. Ma che ha fatto finora a parte invitare il “Chamber Music Festival”?

Palazzo Reale (Genova). Serena Bertolucci si è adoperata per creare una App del museo e un percorso di visita per i bambini. Però Palazzo Reale è ancora poco conosciuto o scambiato per il Ducale, persino da Google. Niente nemmeno dal Cipe.

Polo Reale di Torino. Gli annunci sono fuorvianti; davano la riapertura dei Giardini a Pasqua, ma poi sul sito si legge: “Da aprile sarà avviato il cantiere di restauro”, confermato ora dal Cipe. La cappella della Sindone invece sarà riaperta nel 2017, così dice Enrica Pagella.

. Intervista allo storico dell'arte Tomaso Montanari. La Repubblica, 6 maggio 2016 (c.m.c.)

Lo sviluppo della cultura che la Repubblica è chiamata a promuovere, secondo l’articolo 9 della Costituzione, non può essere inteso come mero sfruttamento economico del patrimonio. Invece, pare questa la logica del governo Renzi che sacrifica la tutela del paesaggio e del patrimonio, subordinandola alla filosofia dei beni culturali come pozzi petroliferi ». Spiega così lo storico dell’arte Tomaso Montanari le ragioni che lo hanno spinto a lanciare la manifestazione.

Da cosa è nata l’idea?
«Subito dopo l’insediamento, incontrai il ministro Franceschini e mi disse che Renzi voleva eliminare le soprintendenze. Ma disse anche che si sarebbe opposto, che avrebbe fatto di tutto per riformarle senza depotenziarle. Invece è quello che è successo con la legge Madia, che le subordina ai prefetti, e con la riforma Franceschini, che ne cancella le specificità – accorpando le archeologiche a quelle storico- artistiche e architettoniche – e separa tutela e valorizzazione. Come ha scritto Salvatore Settis, la linea di pensiero che emerge considera le soprintendenze e la tutela come una “bad company”, distinta dalla “good company” che sarebbero i musei».

L’intento è rendere autonomi i grandi musei perché siano valorizzati al meglio.
«Sì, ma il problema della riforma è che misura il loro successo solo in base a quanto incassano. Mentre non ci può essere valorizzazione senza tutela. Il Louvre è straordinario perché punta sulla ricerca, che in Italia è mortificata: basti pensare alle soprintendenze lasciate senza risorse e personale ».

Ci sarà però l’assunzione di 500 funzionari.
«Numeri risibili, non sostituiranno neppure chi andrà in pensione. Per completare l’organico del Mibact servirebbero almeno 1.400 professionisti, ma il reale fabbisogno secondo noi è di 7mila ».

E il miliardo stanziato dal Cipe per la cultura?
«Concentrarlo su 33 progetti, mentre intorno si lascia il patrimonio in abbandono perché non si finanzia l’ordinaria amministrazione, è come rivestire un uomo nel deserto con uno smoking, senza però dargli da bere. Si danno 100 milioni a Firenze per l’Auditorium e i Grandi Uffizi, ma intanto a Pisa la chiesa di San Francesco, con la tomba del Conte Ugolino, è in parte crollata e non si fa nulla. Bisogna far vivere quel patrimonio diffuso che è la vera ricchezza, forse non economica ma culturale, del Paese».

«La manifestazione nazionale “Emergenza cultura” del 7 maggio, in piazza Barberini a Roma, è un’opportunità per dimostrare che esiste ancora un pensiero divergente. Che il patrimonio è un bene inalienabile, di tutti». Il Fatto Quotidiano online, 1 maggio 2016 (c.m.c.)

“Fatico a comprendere come si continui a dire che il nostro è stato un tentativo di separare la valorizzazione del patrimonio culturale dalla tutela. In realtà abbiamo tentato di distinguere i compiti e le finalità pubbliche creando un equilibrio territoriale”, ha detto il ministro dei beni culturali Franceschini, intervenendo il 21 aprile alla presentazione del libro di Lorenzo Casini Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale .

Quanto quell’equilibrio territoriale sia precario, quanto la distinzione di compiti e finalità pubbliche sia incerto non lo sostengono ostinati detrattori. Né tanto meno elitari rappresentanti di una casta che osteggia qualsiasi cambiamento.A certificarlo sono le notizie che giungono da ogni regione d’Italia, esito naturale di politiche scellerate nelle quali la riforma delle soprintendenze costituisce soltanto cronologicamente l’ultimo intervento. Notizie sull’utilizzo di aree archeologiche e musei, ma anche di palazzi storici per eventi di ogni tipo. Ben inteso, eventi indiscutibilmente privati. Come aperitivi, matrimoni, convention aziendali, vernissage e perfino incontri politici. Servono profitti! Quindi avanti con chiusure temporanee, parziali e totali, di spazi pubblici. Quasi sempre spazi rappresentativi e in condizioni di conservazione tali da far bella mostra di sé. In ogni caso chiusure che penalizzano la libera fruizione.Creano le premesse per un pericoloso discrimine tra il semplice visitatore e l’imprenditore di turno.

Non è tutto.In questa operazione di nuovo marketing, che ha da tempo investito il patrimonio italiano, ci sono i riutilizzi. Ville e palazzi storici soprattutto, ma anche tipologie più specifiche come fari e forti militari, conventi e castelli, sparsi da nord a sud del paese. All’interno dei centri abitati, oppure isolati tra campagne e montagne. Beni, in gran parte di proprietà del demanio, messi sul mercato. Non di rado proprietà comunali e regionali. Un’asta per ricchi in cerca di un luogo prestigioso nel quale risiedere, il più delle volte nel quale sviluppare un nuovo business. Hotel a 5 stelle, come si accade a Venezia, B&B affacciato sui resti del foro romano, come accade a Brescia, appartamenti come accade a Firenze nel Palazzo della Beatrice dantesca.Esempi di un riutilizzo che sembra non avere regole. Verrebbe da dire, accortezze. Il palazzo del seicento trattato alla stregua del faro novecentesco. Ogni struttura come ciascun complesso, poco più di una elemento da monetizzare. Questo il punto.

Questa l’idea di fondo, che accomuna la riforma delle soprintendenze e la lista dei beni demaniali da mettere in vendita, con il corollario della riorganizzazione dei musei, di alcune misure dello “Sblocca Italia” e della legge Madia. La chiamano valorizzazione, anche se ha tutta l’aria di essere un’enorme dismissione. Articolata, certo. Ma pur sempre una dismissione. Nella quale i Beni Comuni vengono progressivamente cancellati, per diventare di pochi.Un’autentica emergenza culturale nella quale la valorizzazione, nella sua interpretazione corrente, diviene lo strumento non per esaltare monumenti e siti archeologici ma per farne contenitori di eventi.

Insomma qualcosa tra un set cinematografico e un palcoscenico. Mentre la tutela appare scriteriatamente dimezzata. Con nuove soprintendenze onnicomprensive che dovranno districarsi tra organici esigui e criticità crescenti. Ulteriormente e forse definitivamente relegate ad un ruolo di subalternità decisionale. Per questi motivi i rischi. anche se meno evidenti, sono grandissimi. La rincorsa negata, ma reale, a questa pseudo valorizzazione senza alcun limite e separata dalla tutela, sta rapidamente avvicinando il paese non soltanto a un’emergenza culturale ma anche della repubblica. Sempre meno garante della tutela ad esempio del paesaggio e del patrimonio storico e artistico.Sempre meno promotrice dello sviluppo della cultura che da bene comunitario si sta trasformando in risorsa per pochi.

Anche per questo la manifestazione nazionale “Emergenza cultura” del 7 maggio, in piazza Barberini a Roma è un’opportunità per dimostrare che esiste ancora un pensiero divergente. Che il patrimonio è un bene inalienabile, di tutti. “Prima classe, il passeggero è un miliardario forestiero. – Italia bella, io comperare. Quanti dollari costare?-. Ma il ferroviere, pronto e cortese: – Noi non vendiamo il nostro Paese”, scriveva nel 1960 Gianni Rodari in “Filastrocche in cielo e terra”. Il rischio che qualcuno voglia vendere il Paese esiste. E’ realtà, non è letteratura.

Il Fatto Quotidiano, 21 aprile 2016 (p.d.)

Si moltiplicano le adesioni alla grande manifestazione del 7 maggio a Roma “Emergenza Cultura” contro il caos e la paralisi che regnano nella rete della tutela del Belpaese, ma giornali e tv in maggioranza tacciono (la Rai totalmente) e continuano a parlare di “Bellezza” come di un bene al sicuro.

Comincia Matteo Renzi nel 2011 a scrivere nel suo “Stil Novo” contro il “potere monocratico” dei Soprintendenti che gli impediscono di sforacchiare il grande affresco di Giorgio Vasari dietro il quale, secondo lui, noto specialista, c’è ancora la Battaglia di Anghiari di Leonardo. E conclude con stile: “Sovrintendente de che?” Presto, presto, va indebolito, reso innocuo, sottomesso.

PRIMA MOSSA: poiché i Soprintendenti non hanno mai saputo valorizzarli (una balla, ovviamente) Franceschini stacca i musei da loro e quindi dal territorio (pure quelli di scavo...) onde renderli autonomi. Primo caos: da dividere ci sono sedi comuni, archivi cartacei e fotografici comuni, secolari, personale (poco e anziano), ecc.

SECONDA MOSSA: venti musei di “eccellenza” godranno di totale autonomia e dovranno rendere soldi (Renzi ignora che la macchinona del Louvre costa 204 milioni di euro l’anno e non frutta un solo euro, anzi lo Stato deve ripianare il suo passivo con 102 milioni). Per questi musei non si utilizza un regolare concorso europeo, ma l’accrocco di una “selezione” internazionale, colloqui e curricula. Alla fine, o bella, un solo funzionario già in carica viene “promosso”. Bocciati tutti i direttori in carriera, inclusi quanti, per esempio Antonio Natali agli Uffizi, hanno lavorato bene in condizioni impervie. Al suo posto, il tedesco Schmidt fin lì direttore del Museo di arti applicate e tessili del Minnesota. A Paestum, un giovane svizzero che non ha mai gestito nulla. A Napoli, mirabile museo greco-romano, un etruscologo dalla bibliografia minima. A Taranto, capitale della Magna Grecia, un’archeologa medioevale. Alla Reggia di Caserta, un laureato in marketing che esibisce due libroni sui cimiteri... Leggere per credere. Per essi stipendi da 145.000 euro lordi in su l’anno contro i 35.000 lordi dei loro predecessori.

TERZA MOSSA: Marianna Madia, nella maxi-riforma amministrativa, dà una mano a Renzi e alle pratiche “veloci” già previste dallo Sblocca-Italia ribadendo il micidiale silenzio/assenso se in 90 giorni le Soprintendenze non riusciranno a dare il loro parere e cinicamente si sa già che, con poco personale e tante pratiche, non ce la faranno mai. Quindi passerà trionfalmente anche il peggio del peggio della speculazione.

QUARTA MOSSA: la stessa angelica Madia infila una norma-killer con cui le Soprintendenze tanto detestate da Renzi finiranno (succedeva nel Regno di Sardegna, arretrato in materia), gerarchicamente sotto i Prefetti. Ai quali toccherà decidere, ad esempio, se mandare un archeologo o invece un dirigente Asl alla conferenza di servizi “delicata”. E comunque se mettere o no il vincolo lo deciderà l’onnisciente signor Prefetto.

QUINTA MOSSA: Franceschini ficca sotto la legge di Stabilità una mina che fa saltare le Soprintendenze archeologiche accorpandole in un solo organismo con Belle Arti e Paesaggio. “Un mostro”, secondo Antonio Paolucci, già grande soprintendente e ora direttore dei Vaticani. Accorpamento già fallito nel 1923, cancellato nel 1939 da un altro ministro fascista, il colto e ben consigliato Giuseppe Bottai che riconobbe il valore assoluto delle specializzazioni. Ora no, in pochi minuti, si rottamano sprezzantemente controlli e procedure tecnico-scientifiche a difesa degli interessi di tutti. E si vogliono pure allentare (emendamento del renzianissimo senatore Andrea Marcucci) i vincoli all’esportazione di opere d’arte. Godi, o Mercato.

Ma quali idee geniali sono venute sin qui ai venti super-pagati direttori? Dal bel servizio Ansa di Silvia Lambertucci si apprende che gioiscono per l’iniziativa dello svizzero Gabriel Zulchfriegel a Paestum di aprire a pagamento l’area sacra a matrimoni, festini, rinfreschi di nozze. Plaude Mauro Felicori dalla Reggia di Caserta (che ieri ha annunciato: “Voglio far nuotare Federica Pellegrini nella piscina della Reggia di Caserta. Bisogna aprire, diventare popolari”), è vivamente interessato per il Giardino d’Inverno di Urbino l’austriaco Peter Aufreiter. Esultano i wedding planners. È la Valorizzazione, bellezza!

Solo di stipendi, questi primi venti direttori –usciti col “bando della salama da sugo” (come è stata ribattezzata, alla ferrarese, la selezione franceschiniana) –costano oltre 3 milioni l’anno. Per genialate del genere non bastavano le Proloco coi loro pochi spiccioli di contributo annuale?

Noi – cittadini italiani, donne e uomini impegnati con il nostro lavoro, stabile o precario, a produrre e diffondere cultura, membri delle associazioni professionali e delle associazioni per la tutela, studentesse e studenti delle università e delle scuole – denunciamo che «il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione» (art. 9 Cost.) sono oggi in gravissimo pericolo.

Denunciamo che le modifiche dell’ordinamento introdotte dal Governo Renzi, e passivamente subite dal ministro Dario Franceschini, stanno di fatto rimuovendo dalla Costituzione l’articolo 9.

Le generazioni future rischiano di non ricevere in eredità l’Italia che noi abbiamo conosciuto.

Il nostro è un grido di allarme: è emergenza per la cultura!

Noi vogliamo che la cultura sia davvero un servizio pubblico essenziale: che le biblioteche e gli archivi funzionino come negli altri paesi europei, che i musei siano fabbriche di sapere, che le scuole formino cittadini e non consumatori, che la salvezza dell’ambiente in cui viviamo sia l’obiettivo più alto di ogni governo.

Per questo chiamiamo a raccolta tutte le cittadine e i cittadini italiani: li chiamiamo a scendere in piazza, a Roma, il 7 maggio 2016.

Questa manifestazione chiederà al governo Renzi di sospendere l’attuazione dello Sblocca Italia, della Legge Madia e delle ‘riforme’ Franceschini: perché si apra un vero dibattito, nel Paese e nel Parlamento, sul futuro del territorio italiano, bene comune non rinnovabile.

Questa manifestazione chiederà di introdurre l’insegnamento curricolare della storia dell’arte dal primo anno della scuola superiore.

Questa manifestazione chiederà di permettere ad una nuova leva di ricercatori di entrare nei ranghi del Ministero per i Beni culturali: non con l’effetto-annuncio delle una tantum, che generano solo illusioni, ma con la costruzione di un futuro normale per chi vuole mettere la sua vita al servizio del paesaggio e del patrimonio culturale del Paese.

«La Repubblica tutela»

Chiediamo che si rinunci al ricorso a legislazione d’emergenza e di urgenza per aprire le porte alle devastanti Grandi Opere, come prevede lo Sblocca Italia.

Al governo che vuol fare il Ponte sullo Stretto, promuove nuove trivellazioni a danno del nostro mare e delle nostre coste, legittima il transito delle Grandi Navi nella Laguna di Venezia, chiediamo invece che venga studiata, finanziata, avviata l’Unica Grande Opera utile, anzi vitale per il futuro del Paese: salvare il territorio, risanarlo, metterlo in sicurezza sia dal punto di vista idrogeologico che dal punto di vista sismico.

Chiediamo che sia abbandonata la filosofia dei beni culturali come pozzi petroliferi, che comporta lo sfruttamento intensivo di una piccola porzione del patrimonio – spesso a vantaggio di pochi privati con forti connessioni politiche – e l’abbandono e l’incuria per la maggioranza dei siti. Sul territorio si deve continuare a fare tutela, ma anche valorizzazione: il vero obiettivo è portare gli italiani e i turisti nel nostro patrimonio diffuso, che nessuno conosce e che dunque cade a pezzi.

Chiediamo che si torni indietro rispetto all’idea cardine della Riforma Franceschini: la miope e pericolosissima separazione radicale tra tutela (di fatto impedita) e valorizzazione (troppo spesso trasformata in mercificazione). Chiediamo che si interrompa il processo di trasformazione dei musei statali in fondazioni di partecipazione aperte agli enti locali e ai privati. I musei devono continuare a fare sia tutela che valorizzazione: devono avere al loro interno vere comunità scientifiche permanenti, in grado di fare ricerca e comunicare la conoscenza. La selezione del personale deve essere seria e trasparente, non spettacolarizzata e deludente. E la politica deve ritirare le sue lunghe mani dai consigli d’amministrazioni, dai consigli scientifici e dalle direzioni dei musei autonomi.

Chiediamo che sia sospesa l’attuazione dell’accorpamento delle soprintendenze archeologiche, la soppressione della direzione generale per l’archeologia, lo stravolgimento dei depositi e degli archivi delle strutture territoriali di tutela.

Si rimediti sulla generalizzata confluenza delle soprintendenze storico-artisitiche con quelle ai beni architettonici: che dà già pessimi risultati.

Prima di qualsiasi riforma è necessario aprire un dibattito serio con le realtà del settore, in modo che si possa procedere a una vera modernizzazione, condivisibile e condivisa.

Chiediamo che venga ritirata la norma del silenzio-assenso contenuto nella Legge Madia: perché è incostituzionale, e perché fa scontare all’ambiente e al paesaggio gli inevitabili ritardi di una amministrazione che prima è stata scientificamente massacrata nei ranghi, nei finanziamenti, nel morale.

Chiediamo che il governo rinunci a far confluire le Soprintendenze in Uffici territoriali dello Stato diretti dai prefetti.

Chiediamo che venga ripristinata la competenza del Ministero per i Beni Culturali nella scelta degli immobili pubblici da vendere ai privati.

Chiediamo che non si indebolisca in alcun modo la legislazione sull’esportazione delle opere d’arte dall’Italia. Che il limite rimanga a 50 anni. Che non si introduca alcuna soglia di valore, né alcuna autocertificazione.

Chiediamo che si rinunci all’idea di smembrare i Parchi nazionali, che si rinunci al loro depotenziamento, che si nominino presidenti e direttori di livello nazionale e non più esponenti locali, adeguando la legge sulle aree protette al Codice per il Paesaggio.

Fondata sul lavoro

Denunciamo la demonizzazione dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, dei funzionari pubblici, dei dipendenti dello Stato: i quali mantengono aperto a tutti il patrimonio culturale della nazione, nonostante gli stipendi risibili, e nonostante l’incuria e il tradimento dei governi della Repubblica. I singoli casi di inadempienza sono da sanzionare, ma non devono oscurare il fatto che il lavoro nel settore, nonostante gli stipendi risibili, rappresenta la leva per mantenere aperto a tutti il patrimonio culturale della nazione e nonostante l’incuria e il tradimento dei governi della Repubblica. Le polemiche cavalcate dallo stesso Governo sulla chiusura di siti culturali famosi (basti pensare al polverone su Pompei o sul Colosseo) per assemblee o iniziative di protesta del personale hanno avuto un semplice fine, grave e inaccettabile: limitare le libertà sindacali e i diritti dei lavoratori del settore

Denunciamo che, nonostante l’annuncio di misure palliative di puro impatto mediatico (le ventilate 500 assunzioni dal 1° gennaio 2017 non serviranno nemmeno a rimpiazzare chi andrà in pensione da ora ad allora), vengono frustrate ancora un volta le speranze di chi si è duramente formato per lavorare al servizio del patrimonio culturale, della sua tutela e della sua apertura ai cittadini dell’Italia e del mondo.

Chiediamo che la tutela e la valorizzazione del patrimonio e la direzione degli istituti della cultura (compresi i musei) continuino ad essere affidate a professionisti (archeologi, storici dell’arte, architetti, bibliotecari, archivisti, restauratori, conservatori, demoetnoantropologi, diagnosti, operatori museali specifici e naturalisti, etc). Chiediamo che questo compito sia affidato agli operatori dei beni culturali, individuati dalla recente legge n°110 del 22 luglio 2014 sulle professioni nell’esercizio delle azioni di tutela e valorizzazione) assunti attraverso concorsi pubblici trasparenti, che tengano conto dell’offerta formativa presente nelle università del nostro Paese, indipendenti dal potere politico, tenuti ad obbedire solo alla legge, alla scienza e alla coscienza. Chiediamo che – come imponeva il comma 2 dell’art. 2 di quella legge – venga emanato (sentite, come imposto dalla legge, le associazioni professionali individuate dalla legge 4/2013 – o, in assenza delle stesse, una rappresentanza delle principali realtà associative – e il mondo della formazione), un decreto ministeriale che stabilisca le modalità e i requisiti per l’iscrizione dei professionisti negli elenchi nazionali, nonché le modalità per la tenuta degli stessi elenchi nazionali in collaborazione con le associazioni professionali. Chiediamo che vengano adeguatamente valorizzate le professionalità interne, troppo spesso mortificate e compresse, tramite lo sblocco dei percorsi di carriera e nel concreto riconoscimento della qualità degli apporti professionali.

Chiediamo che le competenze e l’impegno dei professionisti del patrimonio culturale non vengano sostituite ricorrendo a forme più o meno surrettizie di sfruttamento, mascherate da volontariato, o da formazione, come il fondo “1000 giovani per la cultura”. In un Paese con un tasso del 42% di disoccupazione giovanile e del 12% di disoccupazione tout court, ogni forma di volontariato utilizzato come scorciatoia per abbattere i costi del lavoro rischia di entrare in rotta di collisione con le professioni e con le competenze dei professionisti, e di portare dunque danni permanenti al Paese, sia dal punto di vista economico sia culturale – come lasciano intendere le caratteristiche del flusso turistico o la percentuale di lettori e di analfabeti di ritorno, paragonati ad altri paesi europei.

Chiediamo che vengano assunti immediatamente i 1400 lavoratori necessari a compiere l’organico del Ministero per i Beni culturali, e che quindi venga sbloccato il turnover annuale, attraverso concorsi regolari per l’assunzione a tempo indeterminato di professionisti.

Chiediamo dignità professionale e riconoscimento di diritti a tutele per i tanti professionisti del settore che esercitano con partita IVA: equità fiscale e previdenziale, protezioni sociali per maternità e malattia, sostegno al reddito anche per i lavoratori autonomi. Proponiamo agevolazioni sull’IVA (come già avviene per le guide turistiche) e una riduzione dell’aliquota previdenziale al 24% (così come previsto per artigiani e commercianti).

Chiediamo che, dalla bozza riguardante le linee guida per l’archeologia preventiva elaborata dalla Direzione Generale del MiBACT, si passi celermente all’emanazione di un provvedimento che ponga fine a difformità, spesso piuttosto marcate, di prescrizioni e procedure, anche all’interno degli uffici, sul territorio nazionale, con sensibile miglioramento dell’attività di tutela e offrendo nel contempo possibilità di lavoro qualificato ai professionisti del settore.

Finanziamenti

Chiediamo un piano di investimenti in settori chiave quali ricerca e istruzione, che generano ricadute virtuose sia in termini di competitività internazionale del paese, che in termini di cultura civile e democratica. Non la girandola di una tantum venduta come risolutiva dal Governo Renzi, né tantomeno il superfinanziamento di carrozzoni privati.

L’investimento in cultura e la produzione di conoscenza costituiscono la leva strategica di un modello di sviluppo la cui competitività non si risolva in sfruttamento della manodopera, ma in innovazione. E non c’è innovazione se non si garantiscono risorse adeguate alla scuola e all’università pubbliche, oltre che nelle infrastrutture della ricerca, a partire da biblioteche, archivi, laboratori scientifici.

Chiediamo che le biblioteche, gli archivi e in generale gli istituti di cultura statali – depositari di un tesoro librario in tutto paragonabile alle collezioni di arte e famoso in tutto il mondo – ricevano regolarmente il finanziamento ordinario che solo può consentirne la vita, e che di conseguenza possano assumere personale qualificato.

Formazione
Chiediamo che sia garantita a tutti la fruibilità pubblica della cultura e del patrimonio storico-artistico, chiave di ogni formazione alla cittadinanza attiva e consapevole. Chiediamo, dunque, che ogni politica di bigliettazione e gratuita sia fondata solo sul criterio della maggior accessibilità sociale, considerando tutti i luoghi della cultura, come parchi, siti, musei, archivi, gallerie, cinema e biblioteche come parte integrante del percorso formativo di ognuno.

Chiediamo che si insegni davvero la Storia dell’arte nelle scuole italiane: che la si insegni in tutte le scuole secondarie. Che la si insegni con particolare attenzione alle sue implicazioni culturale, a livello locale, nazionale e internazionale.

Chiediamo che, subito, si cominci col ripristinare le molte ore tagliate dalla Riforma Gelmini e non più reintrodotte, nonostante le promesse di questo Governo, e che gli insegnanti siano quei laureati e abilitati in Storia dell’arte, la cui preparazione costituisce un valore aggiunto per un’offerta formativa non solo culturale, ma anche civica e sociale.

Chiediamo un pieno finanziamento del diritto allo studio e dei luoghi della formazione nel nostro Paese. Chiediamo che scuole ed università tornino ad essere, in ottemperanza alla Costituzione, accessibili a tutti e baricentro di relazioni e interscambi con siti museali e patrimonio storico-artistico del territorio.

Conclusione

Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ama usare senza risparmio la retorica della Bellezza, e contemporaneamente sostiene che «soprintendente» sia la parola più brutta della burocrazia. Noi ci rivolgiamo al Paese per smascherare questa narrazione, questo storytelling, questa gigantesca mistificazione: se l’Italia è ancora bella, è perché le generazioni che ci hanno preceduto hanno saputo scrivere regole giuste e lungimiranti, e hanno saputo investire sul lavoro di chi era chiamato ad applicarle e a farle rispettare. Una storia antica, che è stata messa in crisi dalle decisioni dissennate prese nel ventennio berlusconiano, che tuttora si continua a seguire.

Oggi, invece, il governo Renzi scommette tutto sulla rimozione delle regole, e progetta un futuro in cui nessun tecnico possa opporsi all’arbitrio del potere esecutivo: questo significa porre le premesse del consumo finale del nostro paesaggio e della nostra arte.

Non ci riconosciamo in questa Italia che divora se stessa a beneficio di pochi ricchi e potenti. Ci riconosciamo, invece, nel progetto della Costituzione, per la quale il patrimonio culturale serve alla costruzione dell’uguaglianza sostanziale e al pieno sviluppo della persona umana.

Chiediamo con forza che quel progetto sia finalmente realizzato, non smantellato.

È emergenza cultura: salviamo l’articolo 9!

qui il link al sito del Comitato promotore

Il 21 aprile 2015, insieme ad altri studiosi, abbiamo indirizzato una lettera al Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali per segnalare le condizioni di abbandono della ex Stazione Sperimentale di Agraria di Modena.

Tale Stazione è stata prestigiosa sede operativa del Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura, il più importante istituto di sperimentazione agraria in Italia. Essa nacque come istituto del ministero dell’Agricoltura nel 1870 e alla sua direzione si succedettero alcuni tra i più importanti scienziati italiani noti a livello internazionale per le avanzate analisi di laboratorio applicate all’agricoltura, per la selezione delle sementi e per le ricerche sulla coltivazione dei cereali.

Primo direttore “agronomo” della Stazione fu Alfonso Draghetti, che vi operò dal 1927, trasferendola nell’attuale edificio ottocentesco in Viale dei Caduti di Guerra. Draghetti, autore di oltre cinquecento lavori, membro di accademie e società scientifiche, delegato italiano alla FAO, si occupò di temi oggi attualissimi come quello della sicurezza agro-alimentare, della fertilità del suolo e della concimazione, della gestione e del governo delle acque, delle analisi bioeconomiche applicate alle aziende agricole. Alfonso Draghetti è oggi considerato a livello internazionale come uno dei padri dell’Agricoltura biologica e dell’Agro-ecologia.

La Stazione è stata chiusa nel 2006, in seguito ad una riorganizzazione voluta dall’allora Ministro delle Politiche Agricole e Forestali Alemanno, i locali sono stati destinati all’Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari, dipendente dal ministero dell’Agricoltura, che ha poi deciso di dismettere lo storico edificio. La ex-Stazione conteneva una preziosa biblioteca con oltre 12.000 volumi dal ‘700 ad oggi e rare collezioni (anche quarantennali) di riviste e pubblicazioni, gli strumenti di laboratorio, gli archivi pedologici e di ricerca, un patrimonio culturale, storico e scientifico di enorme valore per il paese. I testi della biblioteca sono stati tolti dalle scaffalature che erano state progettate specificatamente per ospitarli, imballati e inviati a Roma presso il CRA-RPS (Centro di Ricerca per lo Studio delle relazioni fra pianta e suolo). Pare che non siano usufruibili e non è chiaro come questi testi verranno conservati nella loro unitarietà.

La nostra lettera non ha ricevuto alcuna risposta e la riproponiamo, a un anno di distanza, segnalando ai partecipanti al convegno sulle Biblioteche ambientali che si terrà a Roma il 15 aprile 2016, il valore di questo nostro patrimonio storico anche alla luce del fatto che l’agricoltura biologica è cresciuta fino al 10% della superficie agricola utilizzata (SAU), divenendo una priorità strategica per lo sviluppo del sistema agroalimentare italiano.

I firmatari ricordano la numerose istanze presentate dal Comune e dalla società civile di Modena per la salvaguardia del patrimonio della Stazione Agraria e anche che la città di Modena si è già distinta nel panorama internazionale dell'agricoltura biologica per aver ospitato, nell'anno 2008, il XVI Congresso Mondiale dell' "International Federation of Organic Agriculture Movements" (IFOAM) dal titolo “Cultivating the future based on Science”.

L'articolo è inviato contemporaneamente agli organizzatori del convegno sulle Biblioteche ambientali che si terrà a Roma il 15 aprile 2016


«Mentre si moltiplicano le adesioni alla manifestazione del prossimo 7 maggio per l'articolo 9, Italia Nostra prende una posizione forte e chiara sulla 'riforma' Franceschini dei Beni culturali». La Repubblica online.,blog"Articolo 9", 11 aprile 2016


Completata la disarticolazione delle istituzioni di tutela. Un esito che investe la responsabilità del parlamento

Il più recente decreto del ministro di attività e beni culturali e turismo (n. 44 del 23 gennaio) completa il disegno di dissoluzione del compatto sistema della tutela di patrimonio e paesaggio voluto dall'art.9 della costituzione. Portando al parossismo l'assurda scomposizione di tutela e valorizzazione (endiadi inscindibile, essendo la valorizzazione funzione essenziale della tutela), la riforma dell'estate 2014 già ha rotto il nesso organico tra soprintendenze e musei, dimenticando che le soprintendenze sono nate come soprintendenze alle gallerie e che proprio le pubbliche raccolte sono state le attive fucine della tutela del contestuale patrimonio diffuso del nuovo stato unitario. Dichiaratamente per esaltare le attrattive turistiche, è stata operata una arbitraria selezione di qualità dei musei espulsi dalle soprintendenze (secondo due ordini di importanza, di prima e seconda categoria!) riconosciuti degni di autonoma gestione, con reclutamento dei direttori attraverso un concorso internazionale che ha privilegiato le esibite doti manageriali, non certo le specifiche competenze di studio delle singole raccolte maturate negli anni all'interno degli stessi istituti.

Tutti gli altri musei, ritenuti “minori” secondo una assurda gerarchia, sono stati alla rinfusa assemblati in una sovrastruttura burocratica, modellata non certo per riconosciute aree culturali, ma secondo il ritaglio del territorio regionale, il polo museale, mentre tutti, supermusei e no, fanno capo a una apposita direzione generale, concettualmente e funzionalmente ingiustificabile. Mentre il più recente decreto del ministro (art. 7, comma 2) vara la libera circolazione dei beni da un museo all'altro del “polo” o tra i distinti istituti del supermuseo, così definitivamente smarrite le specifiche identità.

All'artificioso accorpamento dei musei “minori” nei poli museali fa riscontro l'assemblaggio di tutte le soprintendenze di merito, con lo sconvolgimento di consolidati assetti funzionali e di servizi. Da ultimo, accorpate anche le soprintendenze all'archeologia fino ad oggi funzionalmente e unitariamente organizzate per vaste aree culturali come efficienti sedi di studio, ora invece frantumate nei più numerosi istituti di approdo. Quando invece il raccordo tra i distinti ambiti di tutela nei non frequenti casi di convergenti competenze di merito è stato ed è agevolmente altrimenti assicurato, essendo un palese pretesto l'addotta esigenza di più pronta determinazione nei confronti dell'attesa dei privati interessati. E anche alle accorpate soprintendenze l'ultimo decreto ministeriale (art. 4, comma 4) estende il criterio di reclutamento dei direttori, aperto al personale amministrativo anche di provenienza esterna alla amministrazione dello stato, con la mortificazione delle competenze di merito maturate nell'esercizio operoso della tutela.

Di fronte allo sconvolgimento del consolidato sistema di diffusa presenza territoriale nel nesso solidale tra istituti museali e cura dei contesti di necessario riferimento, che costituisce la originale caratterizzazione della istituzione della tutela nel nostro paese (indicata come esemplare anche nel panorama europeo), sembra ad Italia Nostra che ne sia investita la responsabilità del Parlamento. Perché necessariamente verifichi se l'esito dei distinti e disorganici provvedimenti legislativi che pur hanno legittimato la recente riforma nella organizzazione del ministero della tutela di paesaggio e patrimonio storico e artistico abbia corrisposto alla esigenza di piena attuazione del precetto costituzionale o non abbia invece gravemente indebolito l'esercizio di una funzione della Repubblica cui è riconosciuto il ruolo di assoluta primarietà rispetto ad ogni altro interesse sia pure di rilevanza pubblica. E sappia quindi adottare le doverose misure, anche nella prospettiva della delegata riforma della pubblica amministrazione (escluse innanzitutto ogni presunzione di silenzio-assenso e la dipendenza delle soprintendenze dalle prefetture), idonee a ripristinare quel ruolo.

Critica Marxista, 1, 2016 (m.p.g.)

Avanti che il governo Renzi mettesse mano, prima col ministro Dario Franceschini e poi con la ministra Madia, a tutta una serie di "riforme" che investono in pieno il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, si pensava che quel corpo stremato e indebolito dai ripetuti tagli di risorse andasse anzitutto rivitalizzato subito con un piano graduale che prevedesse:
a) una congrua ricostituzione delle risorse per la cultura, divenute infime, e che ci ponevano, secondo l'Istat, al 22° posto, dopo Malta, Cipro e Bulgaria e prima delle sole Grecia e Romania;
b) la riduzione del "testone" centrale di direttori centrali e regionali, con il ripotenziamento delle Soprintendenze diffuse sul territorio e del personale divenuto drammaticamente insufficiente a fronte delle aggressioni portate al paesaggio, a partire da quello tecnico-scientifico, sottoretribuito e mediamente sui 50-55 anni di età;
c) l'organizzazione sollecita di autentici concorsi di merito coi quali rinsanguare gli ormai anemici quadri tecnico-scientifici e lo stesso personale di custodia del Mibact arricchendolo di nuove competenze e professionalità;
d) uno status giuridico ed una autonomia funzionale per i musei maggiori ai quali destinare una parte delle somme oggi lucrate dalla società oligopolistiche di servizi aggiuntivi;
e) un rapporto coi privati che privilegiasse i mecenati veri e che non avviasse alcuna ambigua privatizzazione delle gestioni museali.

Era una linea, questa, che ancora ricomprendeva la cosiddetta valorizzazione nella tutela stessa. Due valori scissi dal sciagurato pasticcio del Titolo V della Costituzione (Bassanini-Fassino), ricuciti a fatica, bisogna riconoscerlo, dai ministri Rocco Buttiglione e Francesco Rutelli.

Renzi e per lui Franceschini ha invece puntato sulla netta scissione fra valorizzazione e tutela al punto che si parla soltanto della prima e la seconda è praticamente sparita dal lessico ministeriale e governativo. In perfetta coerenza del resto con quanto aveva scritto nel suo libro "Stil novo" Matteo Renzi nel 2011 da sindaco di Firenze: "Sovrintendente (con la V e non con la P) è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. E' una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia sin dalla terza sillaba. Sovrintendente (sic) de che?" "Potere monocratico che non risponde a nessuno". Che "non può essere al centro di un sistema organizzativo dell'800" (Renzi non sa che dal punto di vista programmatico risale addirittura a Raffaello e alla famosa lettera-manifesto inviata nel 1519 a Leone X). Una bellicosa dichiarazione di intenti, più volte ripetuta nel tempo. Una strategia di guerra a competenze e controlli tecnico-scientifici a tutela del patrimonio archeologico, storico-artistico e paesaggistico.

Le leggi Franceschini e Madia col corollario del decreto Sblocca Italia configurano infatti due sistemi distinti: un sistema museale con 20 musei di eccellenza, 17 Poli museali incaricato della valorizzazione del patrimonio, della sua "messa a reddito" (possibilmente) da privilegiare e un sistema territoriale da lasciare in secondo piano con le Soprintendenze archeologiche, Belle arti e paesaggio, archivistiche+archivi e biblioteche, delle quali viene ridisegnata nella maniera più sbrigativa la stessa geografia culturale. Una scelta che travolge quell'idea geniale del "contesto" affermata fra '700 e '800 da Quatremère de Quincy o anche del "palinsesto millenario" del paesaggio in cui tutto si tiene e si lega riaffermata nella discussione al Senato per la legge Galasso da Giulio Carlo Argan.

Al fondo dell'ebbrezza "valorizzatoria" c'è probabilmente l'illusione provinciale che i Musei siano "macchine da soldi" sin qui scioccamente trascurate e lasciate impolverare. Ignorando che lo stesso Grand Louvre con le entrate proprie copre sì e no il 50 % dei costi e altrettanto accade al Metropolitan Museum. Ignorando il modello inglese che ha reso gratuiti gli ingressi ai maggiori Musei puntando anche così ad incrementare il turismo culturale e riuscendoci. Perché non sono i musei a far soldi bensì il loro indotto, cioè il turismo culturale debitamente organizzato e promosso.

Scindendo la valorizzazione dalla tutela si è tagliato di netto il rapporto fra Musei e Territorio, una delle acquisizioni più apprezzate della nostra cultura della tutela e della conservazione, un vero "modello italiano". Ognuno può constatare come oggi, nonostante le quotidiane razioni di lodi alla bellezza italiana, un'altra parola sia uscita dal lessico ministeriale: il paesaggio. Il valido Codice per il Paesaggio nell'ultima redazione Rutelli/Settis ha racimolato a fatica 3 soli Piani paesaggistici, in Sardegna, meritoriamente, ai tempi della Giunta Soru, in Toscana, fra roventi polemiche. e in Puglia, la regione più seminata di grandi pale eoliche.

Del resto gli stessi Parchi Nazionali - formidabile, insperata acquisizione degli anni '80 e '90 - sono oggi abbandonati a se stessi (alcuni, come lo Stelvio, già smembrati), affidati ad amministratori e ad interessi locali, a commissari e sub-commissari, senza direttori spesso e con fondi miseri in grado di garantire solo la più stentata sopravvivenza. E non stanno meglio i numerosi Parchi Regionali come ci confermano le notizie recenti del primo di essi, quello del Ticino, minacciato da autostrade insensate e da nuove piste aeroportuali, e dell'Appia Antica dove sulla componente archeologica pende la minaccia continua di essere sacrificata ad altre logiche, anche qui "valorizzatorie".

Con gli archivi e le biblioteche, tesori culturali strepitosi, siamo lontani dall'idea della turbo-cultura e quindi è logico che siano abbandonati all'inedia e agli sforzi eroici di archivisti e bibliotecari con un 66 % dei "funzionari archivisti di Stato" che ha già superato i 60 anni. Siamo all'estinzione fisica progressiva. Il corpo dunque gracile. spossato, invecchiato dei Beni Culturali e Ambientali (riprendo la mirabile dizione spadoliniana), invece di essere oggetto di cure ricostituenti, è stato squassato da una terapia tanto violenta quanto affrettata, priva di una idea generale, strategica che non fosse la mitica "valorizzazione".

In chiave mediatica e turistico-commerciale. La stessa creazione dei 20 Musei di eccellenza con un concorso internazionale (che però non era un vero concorso), uno solo dei quali affidato ad un funzionario del Mibact, ha forse portato in Italia grandi esperti di management museale o promosso italiani di autentico spessore specifico? Alla napoleonica Pinacoteca di Brera è stata accorpata anche la teresiana Biblioteca Braidense storicamente antecedente e da sempre autonoma e il nuovo titolare James Bradburne si è affrettato a rassicurarci che a lui "piacciono molto anche i libri". Dopo qualche mese, fra l'altro, lo stesso Bradburne ha dichiarato pari pari che "valorizzazione e tutela devono marciare di pari passo", smentendo quindi il suo ministro e Renzi. Agli Uffizi, dove tanto si era prodigato in condizioni decisamente difficili Antonio Natali, il suo successore Eike Schmidt, un esperto di scultura, arti applicate e tessili (del Minnesota), ha enunciato due linee strategiche: accrescere le aree museali da affittare per eventi commerciali e "abbattere le code e le attese troppo lunghe". Come? Non si sa. Poi, per la verità, è tornato sui suoi passi negando di voler concedere spazi museali agli "eventi" commerciali, semmai grandi terrazze (Loggia dei Mercanti, Boboli, ecc.). A Paestum è andato un giovane tecnico svizzero il quale per primo dichiara di non avere alcuna esperienza gestionale e che ora però si è messo alla testa della lotta agli abusivi riconfermando con ciò l'indissolubile legame fra musei, siti archeologici e territorio, l'unitarietà di tutela e valorizzazione. A Taranto Museo mirabile della Magna Grecia una archeologa del Medio Evo. A Napoli straordinario Museo della classicità greco-romana un etruscologo dalla bibliografia disarmante per pochezza e a Caserta, la "Versailles italiana", un laureato in marketing con due pubblicazioni sui...cimiteri monumentali.

Come non avvertire un qualche profumo di antiche spartizioni "politiche"? Tutti messi a capo di strutture con pochi custodi demotivati e con ancor meno tecnici. Per cui il Mibact nei giorni scorsi ha avuto l'idea geniale di allestire - "alla chetichella" secondo il coordinatore toscano del sindacato Confsal Unsa Learco Nencetti - un helpdesk , una sorta di Telefono Amico "esclusivo" che soccorrerà i supermanager in tutte le materie strategiche: bilancio, personale, spesa, valorizzazione e tutela, prestiti per mostre, sponsorizzazioni e erogazioni liberali ecc. ecc. Qualcuno si chiede: ma sono davvero supermanager esperti della materia? Anche quelli già in carica, come Anna Coliva alla Galleria Borghese (unico funzionario del Mibact confermato alla guida di un grande museo) hanno dovuto constatare che la nuova situazione non crea miracoli, che i soldi per ora sono pochi, come i custodi disponibili, per cui la stessa Galleria Borghese, affollata di prenotazioni, ha dovuto chiudere alcune sale.

In realtà questi 20 superdirettori retribuiti con 145.000 euro lordi all'anno contro i circa 35.000 lordi dei loro predecessori agli Uffizi, a Caserta o a Brera - come del resto le decine di direttori (assai meno remunerati) andati ai musei non autonomi e ai Poli museali - si devono essere accorti che la cura radicale cui è stato sottoposto il vecchio nobile malnutrito, debilitato destriero dei Beni culturali lo sfianca e confonde non poco. Essa prevede che le Soprintendenze, le quali spesso gestivano direttamente Musei e Pinacoteche, si tengano le loro sedi e, quando possono, il loro personale tecnico-amministrativo, i loro, per quanto antiquati computer, i loro archivi, inclusi quelli fotografici, ecc.

E ai Musei cosa va? Maggiori fondi, ma quando? C'è stato inoltre un certo travaso di tecnici, per esempio di storici dell'arte (già rari), ai musei, magari archeologici, per cui nella Soprintendenza accorpata Belle Arti e Paesaggio sono rimasti soltanto architetti (pochi pure loro). E' successo che ad una importante Soprintendenza sia stata chiesta l'expertise su una certa pala d'altare e che nessuno fosse in grado di esaudire la richiesta. Da tempo in certe Soprintendenze, per carenza di personale, lo stesso Ufficio all'Esportazione ha funzionato a scartamento ridotto o rimane chiuso per giorni fra le proteste degli spedizionieri. Figuriamoci ora.

Intanto i direttori dei Poli museali dovrebbero correre come disperati per la regione con stipendi insufficienti e senza i rimborsi (almeno teorici) per le trasferte previsti fino a che erano nei ranghi della Soprintendenza. E va malissimo anche a quei funzionari divenuti direttori di musei o siti diversi in città o cittadine differenti. Stipendio medio: 1.650 euro al mese.

Ancor più problemi pone ovviamente nella gestione dei musei archeologici la scissione fra museo e territorio che in questo caso è l'area di scavo con cui sono stati sin qui, logicamente, un tutt'uno. Guai molto pesanti provoca la separazione dei musei, parlo ovviamente di quelli archeologici, dalla Soprintendenza. Infatti musei nazionali, a parte quelli di tradizione ottocentesca che hanno raccolto vecchie collezioni, come quelle borboniche, nella prevalenza dei casi sono strettamente legati al territorio, sono di formazione recente ed hanno saputo coniugare e promuovere tutela, conoscenza, promozione costituendo veri presidi permanenti sul territorio.

La riforma Franceschini però altera o sconvolge gli equilibri di questo rapporto virtuoso e condanna alla impotenza le Soprintendenze e alla staticità i musei archeologici privandoli dell'apporto continuo di nuovi restauri e nuovi scavi. La separazione tra magazzini e musei, tra nuove acquisizioni di materiali provenienti dalla ricerca e nuovi progetti espositivi, causerà problemi a non finire. Al vertice del Ministero evidentemente ignorano che l'intensa attività di tutela degli ultimi decenni per fronteggiare l'espansione edilizia speculativa, opere pubbliche fortemente invasive e distruttive ha determinato l'accumulo di quantità impressionanti di materiali di grande interesse, ma tuttora da schedare, da conoscere.

I rischi sono facilmente intuibili, aggravati dall'ormai vicino pensionamento di molti validi funzionari tecnici, privati di riconoscimenti e impossibilitati a trasferire ad altri le loro conoscenze. Archivi umani che saranno persi a breve. Il personale al momento appare disorientato, stanco, spaventato, spesso anche con l'angoscia di possibili trasferimenti paventati volutamente dalle strumentali propagande di alcuni gruppi interni. In Calabria, musei prestigiosi e lontani come Sibari con relativo parco archeologico e Vibo Valentia con il parco di Ipponion verrebbero assegnati in modo analogo allo stesso funzionario. In Puglia il medesimo funzionario dovrebbe curare l'importante museo di Manfredonia nel Foggiano, noto per le sue stele daune e per le presenze pre-protostoriche, e contemporaneamente l'altro importante museo di Gioia del Colle posto all'interno del castello federiciano e con annesso parco archeologico. Nel Lazio sono state sospese le nomine dei direttori di musei archeologici importanti come Palestrina e Civitavecchia. Ci si rende conto al Collegio Romano che il sistema non funziona? Non ci voleva molto a capirlo.

Per ora si divide il poco personale smarrito, stanco e sfiduciato tra uffici del polo e direzione della Soprintendenza archeologia. I magazzini-deposito perdono i punti di riferimento conoscitivo. Le risorse finanziarie già ridotte, prima condivise, devono essere ripartite tra gli uffici. Gli archivi storici delle Soprintendenze, come quelli fotografici e documentari, sono contesi tra i dirigenti e rischiano una pericolosa frammentazione che somiglia e si avvicina molto alla loro distruzione. Il personale tecnico-amministrativo, ormai anziano, frustrato da anni di politiche che sovente hanno mortificato il merito e premiato le clientele, rischia l'implosione.

E di conseguenza, tutto il sistema della tutela pazientemente costruito negli anni, sostenuto dalla passione e dalla generosa attenzione di tanti funzionari, si appresta a scomparire. Contemporaneamente, le numerose Università italiane che hanno prodotto laureati in Lettere Classiche o Beni Culturali vedono con grande mortificazione la fuga all'estero dei loro prodotti migliori o, in alternativa, la loro utilizzazione in lavori che non richiedono necessariamente un percorso di studi universitari.

Le nuove piante organiche non sembrano destinate a risolvere il problema neanche in prospettiva, visto che le dotazioni delle Soprintendenze restano enormemente al di sotto delle necessità effettive e a poco potrà valere, sempre se verrà messo in pratica, l'annunciato concorso per 500 posti per funzionari tecnici. Esso probabilmente coprirà a malapena i pensionamenti. Mentre i 150 milioni in più promessi per il 2016 con la legge di stabilità riportano, sì e no, il bilancio del Mibact ai livelli già depressi del 2008-2009 recuperando un po' di più dell'inflazione. Comunque denari benvenuti dopo anni di tagli (sempre che la legge di stabilità regga sino alla fine).

Ma veniamo al territorio, al paesaggio. La riforma, pur sollevando le Soprintendenze dalla gestione dei siti museali e monumentali assegnati ai poli regionali, prevede il raddoppio delle competenze su tutti i territori (tutela architettonica e paesaggistica + storico artistica e etnoantropologica). In alcuni casi particolari tale raddoppio è ulteriormente aggravato dalla ridefinizione territoriale: in Calabria sono stati accorpati i territori, quindi il carico di lavoro nel settore della tutela tende a quadruplicarsi, mentre la nuova Soprintendenza unica dell'Aquila, pur relativa ad un territorio limitato, assomma anche le competenze della tutela archeologica e quelle di stazione appaltante della ricostruzione post-sisma, in un ambito territoriale in cui si concentrano criticità e complessità enormi, che ad oggi vengono gestite con pochissime unità di personale tecnico (ad oggi solo 8 architetti, 2 storici dell'arte e 2 archeologi di altro istituto in collaborazione temporanea...in attesa dei nuovi organici).

Il potere salvifico della (pur doverosa) informatizzazione e modernizzazione degli uffici con la costituzione di sistemi di banche dati non basterà, laddove si stanno perdendo competenze, esperienze e saperi specifici per i quali non viene previsto un ricambio né tantomeno un adeguato percorso di affiancamento tra nuovi assunti e funzionari anziani. Ma quale sarà l'impatto che deriverà - sugli uffici così indeboliti e, ovviamente, sull'intero sistema della tutela sul territorio - dalla progressiva attuazione delle novità normative introdotte dal governo negli ultimi 18 mesi in ordine alle grandi opere e all'edilizia residenziale e non residenziale? Primo: è stata anzitutto concessa alle amministrazioni la possibilità di richiedere il riesame di tutti i pareri rilasciati, attraverso l'operato delle commissioni regionali (introdotto dal decreto art bonus e definitivamente reso operativo dalla riforma Mibact di cui al DPCM 171/2014 e successivi decreti attuativi. Secondo: le disposizioni contenute nella legge Madia e i suoi primi decreti attuativi del 25 gennaio 2016 hanno confermato che la "velocizzazione" dei pareri, la semplificazione delle procedure producono effetti sciagurati, a partire dal famigerato silenzio/assenso che il governo Renzi ha esteso per la prima volta (dopo anni in cui la sinistra si opponeva fieramente e con successo ad analoghi tentativi da parte dei governi di centro destra) alla materia dei beni culturali e del paesaggio. Terzo: le modifiche delle norme sul funzionamento della conferenza dei servizi, già introdotte,col decreto Sblocca Italia per alcune categorie di interventi e rese permanenti ed estese con la legge Madia. In tal modo si istituisce una sorta di livello superiore decisionale quando permangano diversità di vedute nei pareri degli enti preposti alla tutela e delle amministrazioni locali. Esaminiamoli nel dettaglio. Ecco che allora la commissione regionale, composta dai dirigenti Mibact della regione, può ricevere la richiesta di pubbliche amministrazioni di riesaminare qualunque parere o atto emanato dalle Soprintendenze entro 3 giorni dal ricevimento. La commissione deve esprimersi entro 10 giorni.

Considerando che la riforma attribuisce alla commissione gran parte dei compiti che prima spettavano al direttore regionale (conclusione dei procedimenti) e che per questo la commissione deve naturalmente prevedere riunioni molto frequenti, è evidente che gli obblighi connessi al riesame dei pareri richiederebbero convocazioni ravvicinatissime, con carico di lavoro soprattutto per i dirigenti che operano in città diverse (e costi di missioni). Quindi: un ufficio lavora per settimane o mesi per produrre un parere o un atto (p.es. un vincolo), il Soprintendente lo firma e lo inoltra alla commissione per l'emanazione del provvedimento finale, la commissione si riunisce, lo approva ed emana il decreto, il comune lo riceve e entro tre giorni chiede il riesame, la commissione deve nuovamente riunirsi entro dieci giorni per valutare la richiesta e confermare o sconfessare se stessa ed emanare di nuovo l'atto (uguale o modificato). Tutto ciò moltiplicato per tutti in pareri o atti che possono risultare in contrasto con le volontà delle amministrazioni locali.

Il silenzio assenso della legge Madia, operativo dallo scorso mese di agosto, si riferisce ai soli pareri "endoprocedimentali", cioè quelli in cui gli uffici Mibact sono chiamati ad esprimersi nell'ambito di procedure tutte in capo alle amministrazioni locali. Salvo pochi casi (cartelli pubblicitari o occupazioni di suolo pubblico nei centri storici) esse riguardano essenzialmente la tutela paesaggistica e comprendono (attenzione!) tutte le procedure che pervengono ai Comuni da parte dei privati e che i Comuni trasmettono alle Soprintendenze per il nulla osta. Quindi si tratta di un silenzio/assenso che non mira, come si è detto, a semplificare e velocizzare i rapporti tra amministrazioni, ma di fatto apre un percorso preferenziale agli interessi dei privati.

Non basta. Infatti le autorizzazioni paesaggistiche "ordinarie" - quelle dei cittadini che correttamente presentano i progetti e chiedono il previsto nulla osta prima di costruire - già godono di una forma di silenzio/assenso, addirittura più "conveniente", visto che il codice prevede che se la Soprintendenza non si esprime, già al 60° giorno il Comune può procedere autonomamente. V'è di più e di peggio. La nuova norma risulterebbe avvantaggiare realmente, con un automatismo difficile da controllare, soltanto coloro che devono/vogliono regolarizzare una illegittimità che prima d'ora poteva essere sanata unicamente con un espresso parere positivo della Soprintendenza. Nessuna abdicazione alla tutela, è stato detto, ma solo la previsione che la tutela venga esercitata in tempi certi e rapidi, ma perché ciò viene introdotto proprio per i reati edilizi? E quale rapidità si può ragionevolmente invocare da uffici ridotti ai minimi termini, sepolti sotto montagne di pratiche molto complesse che richiedono ricerche e sopralluoghi, normalmente 5-10 pratiche a testa per giorno lavorativo, addirittura 79 pratiche al giorno (parola dell'ex direttore generale Roberto Cecchi) alla Soprintendenza di Milano?

Le norme della legge Madia prevedono anche un "estremo appello", se tutti gli espedienti dei punti precedenti dovessero fallire e/o trovare una Soprintendenza "pronta ed efficiente" e una commissione compatta del difendere i pareri espressi: è il passaggio che prevede, in caso di mancato accordo tra amministrazioni statali, l’intervento del Presidente del Consiglio – su deliberazione del Consiglio dei Ministri - nel definire le modifiche al provvedimento. Infine, le nuove norme in materia di conferenza dei servizi prevedono la partecipazione di una sola figura in rappresentanza di tutti gli uffici statali. E' ovvio che tale unificazione in un solo rappresentante riduce ad uno anche il peso di un eventuale voto nella conferenza dei servizi. Qui emerge una evidente anticipazione del previsto progetto (riforma Madia della P.A.) di unificare sotto le Prefetture tutti gli uffici delle amministrazione statali sul territorio, a partire dalle Soprintendenze.

Una proposta storicamente e culturalmente scandalosa, una regressione complessiva mai vista a ben prima delle leggi della Repubblica (articolo 9) e seguenti, a ben prima delle stesse leggi bottaiane del 1939, per non parlare di quelle giolittiane. Le Soprintendenze come Sottoprefetture alla antica e autoritaria maniera sabauda. E pensare che la rete delle nostra tutela era ammirata e "copiata" da altre importanti Nazioni. Dunque, le disposizioni della legge Madia, presentate come norme moderne volte a perseguire obiettivi di semplificazione e velocizzazione delle procedure amministrative per garantire “il diritto dei cittadini ad avere risposte certe nei tempi previsti dalla legge” e “costringere le amministrazioni a prendersi la responsabilità delle proprie decisioni”, in realtà per quanto attiene al campo dei beni culturali e paesaggistici finiscono per agevolare quegli interventi realizzati (più da soggetti privati che da amministrazioni pubbliche) in aree tutelate in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica. Situazioni di illegittimità che a volte finora non sarebbero neanche sanabili per legge. Allarme "rosso".

Si pensi che fra 1996 e 2005, cioè prima dell'ultima lunga recessione, i Comuni hanno autorizzato bel 3,2 miliardi di metri cubi di nuova edilizia, con consumi pazzeschi di suoli e di paesaggi. Continuiamo infatti a "mangiarci" 8 mq di suoli liberi al secondo, cioè un'area grande come quella di Napoli in solo cinque mesi. Siamo esattamente al triplo del consumo medio di suolo in Europa: 6,8% contro 2,3%. In sostanza si potrebbe paradossalmente affermare che il Ministero si trasformerà in una grande (speriamo) Agenzia Viaggi per il Turismo Culturale, mentre la tutela o quel po' che ne rimane sarà affidata alla mano prudente dei Prefetti sotto i quali andranno a collocarsi le Soprintendenze ridotte - secondo la riforma Madia - a Sottoprefetture. Difatti Franceschini è subito passato con una "normetta" nascista nelle pieghe della legge di stabilità (ormai si "riforma" così") all'accorpamento delle varie Soprintendenze - archeologia, belle arti e paesaggio - in un solo organismo.

Riforma tentata nel 1923 e poi abbandonata dallo stesso fascismo che per bocca del ministro Giuseppe Bottai sostenne che in tal modo venivano frustrate e sacrificate le competenze specifiche degli archeologi, degli storici dell'arte, degli architetti e varò nel 1939 le leggi n. 1089 sul patrimonio artistico e 1497 sul paesaggio, ottime leggi, molto centraliste certo, che però, rese costituzionali, sono servite per anni a tutelare il Belpaese. Così accorpate e depotenziate (in un autentico caos per l'attribuzione degli uffici, degli archivi cartacei e fotografici, ecc.), le Soprintendenze potranno rientrare più docilmente sotto i prefetti e magari sotto il Ministero dell'Interni dove del resto è già allocato il Fondo per l'Edilizia di Culto, l'unico organismo che ha soldi e che si occupa delle centinaia di chiese (pochi lo sanno) di proprietà dello Stato dall'Unità d'Italia, soltanto a Roma SS Apostoli, Chiesa Nuova, Sant'Ignazio, Gesù, Caravita, Sant'Andrea al Quirinale, San Marcello al Corso, Santa Sabina e tante altre.

Questi accorpamenti avvengono per aree oltretutto disegnate nel modo più improvvisato: Bologna si vede staccata dalla Romagna e da Ferrara alle quali è sempre stata storicamente e culturalmente legata, per essere collegata con Modena e Reggio Emilia con le quali non ha grandi rapporti. Una follia che sta suscitando la protesta generalizzata degli archeologi soprattutto, giustamente orgogliosi della loro "specificità", i quali formarono la prima divisione generale (delle Antichità) nel corpo del Ministero della Pubblica Istruzione a fine Ottocento. Ma un sia pur sintetico passaggio devo dedicarlo al capitolo da anni doloroso del personale del Ministero che in certe inchieste giornalistiche dilettantesche viene in partenza considerato "pletorico". Esso in realtà deve tutelare, conservare, custodire, gestire direttamente o avere sotto controllo indirettamente circa 2 mila aree e siti archeologici (dei quali 740 statali), 95 mila fra chiese e cappelle di cui 85.000 vincolate e circa 2500 "nazionalizzate" (e nel Sud le chiese sono i veri musei di pittura e scultura), più di 7o antiche sinagoghe, oltre 4 mila musei dei quali 700 statali, 1500 civici e 700 ecclesiastici, 40 mila fra torri e castelli, migliaia di archivi, pubblici e privati (25mila parrocchiali e altri 3 mila fra diocesani, seminariali, capitolari, di congregazioni) e di biblioteche antiche, oltre 20 mila centri storici dei quali almeno mille straordinari, circa 141 mila Kmq di territorio vincolato in forza delle leggi Bottai e Galasso (il 47 % del territorio e del paesaggio italiani) e via elencando.

Nel 2010 i dipendenti del Mibact erano 21.242. Alla fine del 2011 se ne contavano 19.545 con un calo generalizzato di 1.697 unità (- 8 %) fra esodi e pensionamenti non ricoperti. Alla fine del 2014 il numero dei dipendenti dal Mibact è sceso ancora: esattamente a 18.209 (- 1.636 unità - 8,3 %). Nel quadriennio in esame i dipendenti si sono ridotti di 3.033 unità con una calo percentuale del 14,3 %. Neppure dove gli introiti sono da primato come al Colosseo dove si incassa un terzo di tutte le entrate dei Musei statali: dalle ingenerose polemiche contro i custodi è emerso che gli stessi sono 27 a pieno organico per un pubblico ordinario sulle 10-12.000 unità che diventano anche 25-30.000 nelle tanto vantate domeniche gratuite. Con lo sconvolgimento portato dalle "riforme" renziane le forze in campo per la tutela si riducono ancor più. Comunque già prima di esse avevamo 487 architetti in tutta Italia per vigilare sul territorio vincolato che si è appena detto, cioè un architetto ogni 290 Kmq. Nei nostri archivi statali c'erano 2.761 addetti di cui 365 archivisti di Stato-direttori. Il solo Royal Archive di Londra può contare su 90 archivisti e su un personale complessivo di 530 unità. Nel 2000 il bilancio consuntivo del Mibac registrava risorse pari allo 0,39 % del bilancio dello Stato.

Nel 2013 le risorse costituivano lo 0,19 %, con un pratico, disastroso dimezzamento delle risorse in tredici anni. Cali continuati inesorabilmente. Per il prossimo esercizio, in extremis, il governo ha operato una prima inversione di tendenza riportando la spesa prevista quasi ai livelli del 2000 (governi D'Alema e Amato). In termini assoluti, non in percentuale sul bilancio dello Stato e senza recuperare l'inflazione. Tuttavia è prevedibile che i milioni di euro previsti in più rispetto agli ultimi esercizi vengano dirottati sulla valorizzazione e quindi soprattutto sui Musei di eccellenza a discapito della tutela e dei piccoli e medi musei. Per il progetto - tipico della cultura-spettacolo o turbo-cultura - del ripristino dell'Arena Colosseo voluto con grande energia dal ministro - si prevedono (senza contare, temo, le spese indispensabili per regimare le acque del sottosuolo, impetuose, anzi irrefrenabili, per ora, con le grandi piogge) ben 18 milioni di euro coi quali si potrebbero, ad esempio, acquisire e restaurare tanti siti e monumenti oggi non curati della mirabile Appia Antica ancora privata al 90 e più per cento. Per l'Appia poi, la "normetta" Franceschini, ha previsto di creare un Parco archeologico che non avrebbe (il condizionale è d'obbligo) funzioni di tutela bensì di valorizzazione del comprensorio. Per trasformarlo in una sorta di "parco ludico-sportivo-turistico" magari a pagamento? E' probabile.

E contro di esso si è svolta sabato 13 febbraio una grande marcia alla quale hanno partecipato 500 persone. Potevano e dovevano dunque razionalizzare, modernizzare, potenziare il Ministero e le sue articolazioni territoriali a beneficio di tutti, del Belpaese. Hanno invece sconvolto l'esistente, già debole e povero di mezzi e di tecnologie, introducendo non il "nuovo", ma il caos. Da anni ci aspettiamo il peggio, fin dalla Giornata di protesta nazionale che organizzammo - Bianchi Bandinelli, Assotecnici e Comitato per la Bellezza - con l'indimenticabile Beppe Chiarante esattamente dieci anni fa, l'11 novembre 2005 in pieno berlusconismo. Ma non pensavamo che sarebbe sopraggiunta questa slavina a sconvolgere tutto e a scomporre il Ministero, già tanto indebolito, in una sorta di Agenzia Viaggi e Turismo e in tante Sottoprefetture soggette ai prefetti, cioè al Viminale.

Con tutto ciò, continueremo instancabilmente a denunciare guasti e a proporre ragionevoli soluzioni, come ci hanno insegnato a fare i nostri maestri e fratelli maggiori. Come Beppe Chiarante appunto.

La Repubblica, 3 marzo 2016



GIROLAMINI, IL TESORO PERDUTO
“UN DANNO ALL’ITALIA DA 20 MILIONI”
di Conchita Sannino

La Corte dei Conti quantifica il saccheggio subito dalla storica biblioteca Il Senato dà l’ok per l’utilizzo delle intercettazioni di Marcello Dell’Utri
«Piena conferma». I giudici d’appello della Corte dei Conti ribadiscono il “prezzo”. Lo scandalo dei Girolamini deve essere definitivamente risarcito da coloro che ne furono predatori trasvestiti da custodi.

La spoliazione più vasta e sfacciata inferta, in età moderna, a una storica biblioteca italiana, lo splendido complesso monumentale che si apre nel cuore della Napoli antica a due passi dal Duomo, deve essere ripagata così come stabilito già in primo grado dai magistrati contabili campani a carico dell’ex direttore del complesso, Marino Massimo De Caro, e dell’ex conservatore Sandro Marsano, già condannati dalla sezione campana al pagamento di oltre 19 milioni di euro, in favore dei Girolamini.

La sentenza della prima sezione giurisdizionale centrale è stata depositata lo scorso 4 febbraio, presidente Nicola Leone, con i magistrati Mauro Orefice, Emma Rosati, Piergiorgio Della Ventura e Fernanda Fraioli. Sono loro a riaffermare il verdetto e a respingere l’appello di De Caro che, assistito dall’avvocato Italo Spagnuolo Vigorita, aveva lamentato la «mancata considerazione da parte del primo giudicante dello stato di incuria e degrado in cui già versava la biblioteca », oltre che la «mancata chiamata in causa dei dirigenti e funzionari ministeriali». Ma per la Corte dei Conti, questa ed altre «doglianze si appalesano prive di pregio e devono essere disattese». Sciocchezze, tradotto dalla lingua del diritto.

Per i giudici, l’opera di spoliazione architettata e realizzata da De Caro è stata «tanto scientifica e pianificata da inglobare e travolgere ogni possibile pregressa incuria o disattenzione». D’altro canto, per le responsabilità di De Caro come regista del clamoroso saccheggio, parlano interi faldoni di atti processuali a carico dell’ex direttore così benvoluto dall’allora ministro Galan, e amico devoto del noto bibliofilo ed ex potentissimo senatore Marcello Dell’Utri, anch’egli coinvolto nello scandalo e indagato per concorso in peculato. De Caro è infatti già stato condannato a sette anni, con sentenza passata in giudicato, per peculato, mentre è ancora imputato in un altro processo con le accuse di associazione per delinquere, devastazione e saccheggio.

Una storia che aveva sconvolto il mondo della cultura internazionale, e i più grandi studiosi del libro antico. E parallelamente all’inchiesta penale, il sostituto procuratore Francesco Vitiello della magistratura contabile mette nel mirino l’enorme danno originato dalla spoliazione pianificata da De Caro, complice don Marsano. Almeno 4mila testi preziosi volati via dagli antichi scaffali. Spuntano varie intercettazioni. E ora il Senato dà l’ok al loro utilizzo. In una, Dell’Utri chiede sornione a De Caro: «Massimo, fammi il prezzo ». Stavolta lo hanno deciso i giudici.


E ORA STIAMO ATTENTI
A NON DIMENTICARLA DI NUOVO
di Tomaso Montanari

La Corte dei Conti condanna i saccheggiatori per «l’amputazione delle pagine recanti note di possesso; la devastazione patita dai libri malamente stipati in scatoloni o esposti alla luce, o all’umidità; l’asportazione di tavole; i tagli, abrasioni, strappi, scompaginamenti, lavaggi corrosivi...». Quale ‘bibliofilia’ anima quel mercato internazionale che ha tanto beneficiato del massacro dei Girolamini? C’è bisogno di un amore diverso: non il possesso esclusivo, ma la condivisione più larga. Altrimenti, quando la Procura toglierà i sigilli alla Biblioteca, il rischio è che essa ricada nella marginalità che è stata la premessa della devastazione.

Questa volta, l’università potrebbe fare la differenza. Andrea Mazzucchi (filologo della letteratura italiana presso la Federico II di Napoli) sta lavorando ad un progetto che collochi ai Girolamini la prima Scuola di filologia materiale d’Italia: dove ogni anno una ventina di laureati si formi sullo studio dei manoscritti (paleografia, diplomatica, filologia), catalogando (e dunque mettendo in sicurezza) l’enorme quantità di codici conservati nelle biblioteche meridionali, a partire proprio dai Girolamini. Accanto a questo cuore pulsante, una struttura che redistribuisca la conoscenza: le sale e i chiostri dell’enorme complesso tra Via Duomo e il decumano si aprirebbero alla cittadinanza. Non un museo, ma il primo grande centro per il libro del Meridione: dove i ragazzi delle scuole, i pensionati e i bambini possano partecipare a letture pubbliche, spettacoli, caffé letterari. Il progetto ha il sostegno dell’Ateneo, e ha un parziale finanziamento: se il Ministero per i Beni culturali vorrà, potrà partire subito.

In fondo era il sogno di Giuseppe Valletta (1636-1714), padre del pensiero illuminista napoletano: che spiegò ad un papa che l’In-quisizione si era incattivita perché finalmente «si erano fuori de’chiostri dilatate le lettere, e propagata nella nostra patria la filosofia». I libri di Valletta sono ai Girolamini: a perorarne l’acquisto fu il più illustre frequentatore della biblioteca, Giovan Battista Vico. Dilatando fuori da quei chiostri l’amore per i libri si avvererebbe anche un altro sogno. Nell’ottobre del 1980 il governo decise di fare dei Girolamini una scuola di studi filosofici, diretta da Gerardo Marotta: «un provvedimento coraggioso — scrisse Luigi Firpo — illuminato dalla fede laica nell’intelligenza e nella volontà rivolte al bene comune ». Nemmeno un mese dopo, il terremoto dell’Irpinia cancellò quella svolta, riducendo i Girolamini a ricovero per gli sfollati.

Stavolta ci si deve riuscire. Roberto Saviano ha spiegato perché Napoli è un buco nero, che inghiotte il proprio futuro. Poche cose possono cambiare il destino di una comunità quanto la produzione di conoscenza: non il marketing dei capolavori che sradica i Caravaggio, non la fabbrica degli eventi. Un centro per la formazione alla lettura piantato nel cuore di Napoli, invece, sarebbe più potente di qualunque presidio militare, più carico di futuro di qualunque tattica politica.


COSA c'è di peggio che fare uno stage da 430 euro netti al mese, dopo anni di studio, e con una laurea o anche un dottorato in tasca? Ovvio: non riuscire nemmeno a farseli dare.

È questa la paradossale situazione in cui si trovano, da gennaio, i famosi '500 giovani per la cultura': quelli che il 21 ottobre 2013 Enrico Letta andò ad annunciare a Otto e mezzo, presentandoli come una specie di svolta epocale. Finalmente un governo che investiva sulla cultura: non proprio creando lavoro, non esageriamo, ma selezionando "cinquecento giovani laureati da formare, per la durata di dodici mesi, nelle attività di inventariazione e di digitalizzazione del patrimonio culturale italiano, presso gli istituti e i luoghi della cultura statali" (così il bando).

Ebbene, né a gennaio né a febbraio quei «500 giovani» hanno ricevuto il loro 'stipendio'. Perché? Perché il combinato disposto della 'riforma' che ha gettato il ministero per i Beni culturali nel caos e la cronica incomunicabilità burocratica tra ministeri (in questo caso, appunto, il Mibact e l'Economia) ha fatto sì che nessuno ora sappia chi deve erogare gli 'stipendi'. Non solo: la confusione è stata tale che le ritenute finora applicate non erano quelle giuste, cosicché i «500 giovani» dovranno pure restituire i soldi al governo. Finalmente, una circolare della direzione Mibact per l'Educazione e Ricerca ha annunciato la soluzione: i centri di spesa saranno "i Segretariati regionali e gli istituti dotati di autonomia". Ma questi ultimi hanno già messo le mani avanti: non hanno i fondi, non hanno i capitoli di spesa, né i conteggi giusti. Morale: i 500 giovani non saranno pagati neanche a marzo, e anzi fonti sindacali dicono che lo stallo potrebbe durare fino a giugno.

Quando Letta annunciò il bando, sulla rete ci fu un'insurrezione, e fu coniato l'hashtag #500schiavi: profetico, vista l'incredibile conclusione che calpesta quel che rimaneva della dignità di chi ha deciso di dedicare la propria vita al nostro patrimonio culturale.

Ma il significato di questa vicenda va anche oltre. Perché vi si può leggere tutta intera l'incapacità di una classe politica che invece di cambiare i meccanisimi inceppati del
sistema, preferisce avanzare per provvedimenti eccezionali e una tantum, comunicando nel modo più enfatico bandi ad effetto con numeri tondi: a quei 500 giovani sono infatti seguiti i 1000 stage del governo Renzi, i 500 professori da riportare in Italia, i 500 posti di ruolo per il patrimonio culturale... Ognuna di queste infornate, decisa dal ministro di turno per andare in televisione, accende una piccola speranza, ma finisce col determinare un inaudito caos amministrativo, risolvendosi in un boomerang.

Perché quello di cui c'è davvero bisogno non è questa specie di residuale speranza da lotteria ('uscire' tra i 1000, o i 500), ma invece la certezza di un processo ordinato e continuo di reclutamento, trasparente e fondato sul merito. Certo, per ottenere questo risultato bisognerebbe avere la capacità e la volontà di cambiarlo davvero, il sistema: ma è solo questa la prospettiva che può dare fiducia a chi deve decidere se rimanere o no nel Paese in cui è nato. Una fiducia difficile da avere, quando non riesci neanche a farti dare quei miserabili 430 euro al mese che ti spettano per contratto. #500schiavi: fino in fondo.

Il Fatto quotidiano online, blog "Ambiente e veleni", 19 febbraio 2016
“Più che a un parco piano piano l’area archeologica, soggetta a continue pressioni antropiche, assomiglia sempre più a un giardino, a un appezzamento di terreno circondato da costruzioni e capannoni e attraversato da strade già costruite…e da costruire…”. Era il dicembre 2014 quando la locale sezione di Italia Nostra scriveva del pericolo che correva l’area archeologica di Amiternum, nei pressi di San Vittorino, frazione de L’Aquila.

Un sos per la città, Amiternum, sviluppatasi tra la fine dell’età repubblicana e la prima età imperiale senza mura, ma con un edificio termale e soprattutto un anfiteatro ed un teatro di tutto rispetto. Si tratta dei monumenti conservati più significativi, sfortunatamente inclusi in due differenti spazi di visita. Sezionati dal tracciato della SS. 80 e da quello parallelo, che parte dalla Scuola della Guardia di Finanza, realizzato per il G8 del 2009. Circostanza questa che, evidentemente, ne rende meno immediata ai visitatori l' inclusione all’interno del tessuto urbano antico. Insomma una situazione che non valorizza al meglio i resti archeologici.

Situazione, come denunciava Italia Nostra, in procinto di mutare. Ancora in peggio. Con l’aggiunta di due nuove viabilità. I “Lavori di miglioramento delle condizioni di sicurezza mediante realizzazione di un nuovo svincolo con la SS. 260 e la SS. 80 in località Cermone”, che l’Anas ha progettato di realizzare immediatamente a ridosso del Teatro Romano e la “Sistemazione strada di collegamento via delle Fiamme Gialle – SR 80 dir – SP 30 “di Cascina”, ovvero la strada provinciale nelle località Torroncino e Grottoni.

Viabilità che verrebbero ad inserirsi in un’area, quella denominata “Ambito Fiume Aterno”, che nel Piano regionale paesistico è classificata “a conservazione integrale”. Ma non basta. La zona rientra anche nel D.M 21.06.1985 che ne prevede la salvaguardia integrale. Senza contare che la strada provinciale rientra in qualche modo nella Legge Galasso, dal momento che passa per un tratto entro la fascia di rispetto di 300 metri dal laghetto “Giorgio”, geosito alimentato da sorgenti perenni con un emissario che confluisce nel fiume Aterno.

Considerati i vincoli esistenti, chiedersi come tutto questo sia possibile sembra naturale. Interrogarsi su quali ragioni abbiano consentito ad Anas e Provincia de L’Aquila di ottenere le diverse autorizzazioni è legittimo. Peccato che in entrambi i casi sia improbabile avere risposte. Anche se un aiuto alla comprensione lo possono fornire le modalità con le quali si è svolta la conferenza di servizio del 30 ottobre 2011, nella quale è stato approvato definitivamente il progetto della strada provinciale.

In quell’occasione risultano assenti non solo il Comune de L’Aquila e la Regione, ma anche la Soprintendenza per i Beni archeologici e la Soprintendenza per i Beni paesaggistici. Insomma progetto approvato in assenza degli organi preposti alla tutela. Le successive indagini preventive predisposte dalla Soprintendenza archeologica in coincidenza con le aree interessate dalle nuove infrastrutture viarie non hanno fatto altro che confermare la loro rilevanza archeologica. Tutto inutile. Al punto che a gennaio 2015 c’è un nuovo appello. Questa di volta dell’Archeoclub de L’Aquila: “Ci chiediamo quale beneficio due nuove strade che duplicano una viabilità già presente possano apportare alla collettività tanto da poter superare i vincoli esistenti”, scrive al proposito la Presidente Maria Rita Acone.

Domanda senza risposta se poco prima della metà di febbraio sono ancora intervenute sulla questione l’Archeoclub de L’Aquila, l’Associazione Culturale di Rievocazione Storica “Compagnia Rosso d’Aquila”, l’Associazione Panta Rei, il Circolo Legambiente Abruzzo, il Fondo Ambiente Italiano, il Gruppo Aquilano di Azione Civica “Jemo ‘nnanzi”, Italia Nostra e Pro Natura . La proposta quella di realizzare un Parco archeologico. “Una strada turistica, percorsi di visita e passaggio su un ponte pedonale sulla Statale 80 tra le due aree di interesse archeologico potrebbero rendere più facilmente e piacevolmente visitabile l’area”, sostengono le associazioni.

Quel che è indubitabile è che ad Amitermo non sono tanto in pericolo i resti archeologici della città antica, ma piuttosto l’intero paesaggio. Il rischio è che teatro, anfiteatro e terme siano rinchiusi in recinti, sostanzialmente decontestualizzati.

“Si chiede al Ministro per i Beni e le Attività Culturali, alla Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici per L’Abruzzo, alla Soprintendenza Archeologica di provare ad avere per una volta un po’ di coraggio e di essere forte con i forti negando la realizzazione delle opere con la semplice giustificazione che li sotto c’è un pezzo importante della antica città di Amiternum”, scriveva Massimo Cialone di Italia Nostra. Verrebbe da aggiungere, “con la semplice giustificazione che” quei monumenti non possono diventare poco più di uno snodo viario.

Il Fatto Quotidiano, 16 febbraio 2016.

Nello storytelling governativo, la così detta seconda riforma Franceschini, è destinata ad occupare un posto di rilievo: illustrata come un'operazione di razionalizzazione e semplificazione della macchina ministeriale, ad una lettura poco meno che superficiale risulta essere tutto il contrario.

Basta cominciare dai numeri. Ministro e comunicazione Mibact sostengono che da 17 Soprintendenze si passerà a 39: in realtà le Soprintendenze attuali sono 50 e quindi 11 in più di quelle che ci saranno a riforma attuata. La differenza sta nel fatto che, mentre fino al 2014 le Soprintendenze territoriali erano suddivise per specializzazione (architettura, belle arti, archeologia), già con la prima fase della riforma si cominciò ad accorpare architettura e belle arti e con questo secondo decreto, incorporando anche quelle archeologiche, si arriverà ad ottenere delle Soprintendenze uniche, competenti per la tutela del patrimonio culturale e del paesaggio nel suo insieme su territori coincidenti grosso modo a 2-3 province o quello di alcune città metropolitane.
Alle Soprintendenze, già dal 2014 (DPCM 171), sono state sottratte, intanto, le competenze su tutti i musei e alcune aree archeologiche. La vecchia struttura del Mibact, già stressata da tagli lineari da 10 anni a questa parte, in asfissia di risorse sia economiche che di personale, verrà dunque sottoposta - sommando la prima e la seconda fase - ad una rivoluzione organizzativa radicale. Tutto questo - come precisa il decreto in corso di approvazione - a costo zero. E già questa mancanza assoluta di investimento mette fortemente in dubbio gli obiettivi sbandierati di razionalizzazione o addirittura di potenziamento della macchina ministeriale dichiarati da Franceschini: ad oggi l'attribuzione del personale - già di per sè insufficiente - alle nuove sedi è affidata a meccanismi di movimentazione volontaria tutt'altro che semplici e razionali. Questa movimentazione, attivata da una circolare delle scorse settimane, raggiunge vertici di surreale di cui sono capaci solo i burocrati ministeriali dal momento che elenca - fra le sedi per cui è possibile chiedere l'assegnazione - anche quelle Soprintendenze Archeologiche che il Decreto del Ministro aveva abolito qualche giorno prima. Nessuna indicazione è poi recuperabile nel Decreto, per quanto riguarda l'aggregazione/ripartizione delle biblioteche, laboratori di restauro, archivi di cui ognuna delle ex Soprintendenze specialistiche - comprendenti i musei statali - era dotata.

Con la digitalizzazione delle immani documentazioni storiche possedute ancora in fase embrionale (eufemismo) e il problema ormai fuori controllo della gestione di immensi depositi di materiale soprattutto archeologico, un processo di riforma serio avrebbe dovuto investire mezzi non trascurabili per permettere alla nuova struttura di tutela sul territorio di decollare e quindi di essere in grado di governare in tempi non biblici i delicatissimi processi di controllo e tutela territoriale. Al contrario, in questa situazione, con una prima fase della riforma scarsamente governata, questo secondo, ulteriore stravolgimento rischia di condurre alla paralisi operativa strutture di cui attualmente è impossibile per chiunque definire "chi fa cosa".
E dire che la necessità di fare presto e bene c'era eccome. Come ha dichiarato lo stesso Franceschini, la creazione delle Soprintendenze Uniche dovrebbe essere il rimedio ai rischi del silenzio-assenso e della subordinazione degli organismi di tutela ai Prefetti: meccanismi peraltro introdotti nel nostro ordinamento dallo stesso governo, attraverso la legge Madia di riordino della Pubblica Amministrazione.

Così, nel chiuso dei corridoi ministeriali, nel giro di pochi mesi, senza alcun dibattito pubblico che coinvolgesse non solo il mondo della cultura, ma anche solo quello degli operatori della tutela, è stato partorito questo provvedimento-tampone.

Ma forse, per arrivare al vero obiettivo di quella che tutto è tranne una riforma organica, basterebbe ricollegarsi a quell'emendamento della legge di Stabilità votato a dicembre che reintroduce per i Comuni la possibilità di fare cassa con gli oneri di urbanizzazione. Un ritorno al Testo Unico per l'edilizia di Bassanini e ai perversi effetti di speculazione territoriale che hanno innescato negli ultimi 15 anni.
Adesso, con questa riforma delle Soprintendenze, forse l'ultima debole arma di controllo rappresentata dagli organismi di tutela, è stata definitivamente spuntata.

Associazione degli Archeologi del Pubblico Impiego, 10 febbraio 2016

Non c'è pace per il Ministero per i beni culturali.
La Riforma fase due non è neppure iniziata e già si annuncia una terza rivoluzione. L'istituzione di un non meglio definito Istituto Centrale per l'Archeologia. E' ancora caldo il letto di morte della Direzione Generale Archeologia, affossata da un DM dello stesso Ministro che ora paventa rischi per la disciplina, e già si pensa a come supplirne la mancanza. E si annuncia la sua sostituzione con un nuovo organismo che avoca a se l'archeologia italiana. Ancora non è chiaro quali saranno i contorni di questo nuovo ente che si profila all'orizzonte; l'impressione che se ne ricava, però, non è certo quella di una accelerazione verso la modernità, quanto piuttosto di una immensa confusione che sta gettando nella paralisi la gestione dei Beni Culturali.
A dettare tempi e modi di questo stillicidio non sonotecnici del settore, ma consulenti ignari della complessità della materia e pertanto non consapevoli dei processi deleteri che si rischiano di innescare a scapito del patrimonio archeologico nazionale.
Quanto costerà questo nuovo organismo? Quanti e quali dirigenti e quale personale avrà? Ma la riforma non doveva essere a costo zero? E che cosa potrà fare mai un istituto centrale che non sapessero già fare, e meglio, gli archeologi specialisti che ogni giorno setacciano l’intero territorio nazionale? E poi, ancora, non sono state spezzate le Soprintendenze Archeologia, sezionandole ed accorpandole, in nome di una maggior presenza sul territorio? In questa logica, come si pone un Istituto CENTRALE ? Centro o periferia?
Gli scavi universitari, le missioni all'estero, dei quali il nuovo Istituto dovrebbe andare ad occuparsi sono solo una parte dell'archeologia, ben poco hanno a che vedere con il controllo dei cantieri, la tutela quotidiana, la salvaguardia del territorio, il lavoro giornaliero degli archeologi del ministero, che questa riforma complica e avvilisce, e che questo “nuovo” Istituto non è certo creato per facilitare.
Per capire cosa sta succedendo è opportuno riassumere le tappe di questa corsa verso la morte, attuata con il pretesto della cosiddetta "tutela olistica", prassi peraltro già applicata quotidianamente nelle strutture che si vanno riformando. Prima l'artificiale separazione dei musei dal territorio di riferimento. Poi la creazione di Poli museali eterogenei, dove la direzione prescinde dalla specialità dei contenuti che si vogliono promuovere alla fruizione del pubblico. Poi l'introduzione di nomine politiche nella gestione dei beni culturali. Quindi, la soppressione delle Soprintendenze archeologiche e il trasferimento del personale tecnico-scientifico, altamente qualificato e specializzato perché reclutato con concorsi pubblici altrettanto altamente selettivi, a mettere timbri in prefettura, con l’unico risultato di sottomettere la tutela del patrimonio culturale alla volontà politica del momento.
Ora come ultimo atto arriva l'accentramento a Roma del futuro dell'archeologia italiana.
Non è solo la fine di un apparato organizzativo dall'alto profilo scientifico, ma soprattutto la liquidazione del modello italiano basato su un forte rapporto con il territorio e sull’integrazione imprescindibile tra conoscenza e salvaguardia.
Si inventa qualcosa che c’era già, un luogo di raccordo e di indirizzo sulla ricerca archeologica, di dialogo e collaborazione con università ed enti di ricerca: tutte prassi ormai consolidate a livello territoriale grazie al lavoro delle Soprintendenze e armonizzate a livello centrale dalla Direzione Generale.
Si inventa qualcosa che c’era già, e che era “olisticamente" rivolto allintero e unitario processo di attività sul patrimonio-conoscenza, tutela e valorizzazione, e si spacchetta in organismi dai contorni confusi, separati per “funzioni” che non possono essere separate e accorpati per “materie” giustapposte, per competenze non sovrapponibili.
Si prepara, diligentemente e a piccoli passi ai più impercettibili, la soppressione del Ministero per i Beni Culturali. Non è la prima e non sarà lultima volta che un generale non si fida del suo esercito. Ma forse è la prima volta in assoluto nella storia che lo si vuole annientare.
Con buona pace di chi in questo Ministero non è capitato per caso, ma ha scelto coscientemente di lavorarci per fare l’archeologia come questo Ministero aveva sempre saputo fare finora.
10 febbraio 2016
Associazione degli Archeologi del Pubblico Impiego – comparto MiBACT
(API – MiBACT)

Il Sole 24 Ore, 7 febbraio 2016 (m.p.g.)

Il ministero d Beni Culturali accelera la riforma del sistema di tutela con una drastica ristrutturazione. Le soprintendenze archeologiche sono accorpate con quelle storico-artistiche e monumentali e suddivise in unità territoriali più piccole. Questo avviene su un corpo debilitato dalla scarsità di personale e fondi che non ha assorbito ancora il colpo delle riforme precedenti: il silenzio-assenso, il passaggio sotto le prefetture, lo scorporo dei musei dalle Soprintendenze territoriali hanno paralizzato la tutela.

Nessuno sa più chi fa che cosa, sono oscurate le competenze precise delle nuove norme, non si è nemmeno tentato di correggere gli errori macroscopici. Su questo quadro arriva lo tsunami.I (pochi) difensori della riforma esaltano le sorti progressive del sistema e disegnano la scena come una lotta fra innovatori e immobilisti. È la retorica per cui il cambiamento è a priori positivo, sorvolando sulla possibilità di cambiare in peggio. La reale contrapposizione, però, è tra filosofi e operativi. I filosofi teorizzano la tutela "olistica" (archeologi, storici dell'arte, architetti, uniti per l'impresa comune), gli operatori osservano che all'opposto la riforma è il trionfo della frammentazione e della disarticolazione. La Soprintendenza archeologica di Roma viene spaccata in cinque, quella Toscana in quattro e si può continuare. Musei senza territorio, territori senza magazzini, né laboratori e senza disporre più dei materiali scavati.

Va chiarita invece la vera chiave interpretativa della riforma, perché la tutela olistica è solo copertura ideologica. Le soprintendenze regionali erano troppo estese per passare sotto i prefetti, ma la soluzione è semplice: facciamone spezzatino e dimensioniamole sulle prefetture.Non importa se i servizi centralizzati verranno pure spezzettati: archivio, magazzini, biblioteca, laboratori di restauro e fotografico. I funzionari quindi non avranno libri, fotografi e restauratori. Diverse Soprintendenze non avranno nemmeno funzionari. Ma in compenso la tutela sarà finalmente sotto tutela (governativa).

L'unificazione inoltre non è per semplificare la vita al cittadino, ma per il prefetto che vuole un referente unico. Infine l'ultimo tocco: arriva il decreto sulla mobilità per redistribuire il personale. Con un piccolo difetto: al Ministero non si sono accorti nemmeno che c'era stata una riforma: cosicché nel testo mancano le nuove sedi, ma si può far domanda per quelle già abolite.Una riforma calata dall'alto a sorpresa, senza un parere di chi i problemi li conosce per esperienza diretta, senza un piano di fattibilità e di costi, ignorando il Consiglio Superiore dei Beni Culturali che il Ministro (nella sua benevolenza) si è limitato a "informare" verbalmente, guardandosi bene dal sottoporgli lo schema del decreto. Si procede a vista per stravolgimenti successivi, senza un disegno d'insieme, incuranti delle proteste del personale del Ministero, delle critiche delle consulte universitarie, della petizione che ha raccolto 12mila firme in una settimana.

Sintetizzare il discorso è facile. Napoletanamente: "scurdammoce 'o passato".

Riferimenti
Numerosi gli articoli su eddypurg a proposito della'deforma' Franceschini. Li trovate tutti qui nella cartella SOS> Beni cuLturali. Magia.

«È chiaro l'obiettivo politico: mani libere sul territorio». La Repubblica online, blog "Articolo9", 6 febbraio 2016

Il lucido, durissimo articolo di Salvatore Settis apparso venerdì su Repubblica ha colto nel segno. Ieri il ministro Franceschini ha replicato – senza mai citare Settis – con una intervista sempre a Repubblica, tutta giocata in difesa.

Un'intervista imbarazzante, per almeno tre motivi.

Il primo riguarda il cuore stesso dell'articolo, e cioè il fantomatico Istituto di Archeologia, il coniglio che esce dal cilindro del ministro di fronte all'epic fail della sua 'riforma' dell'archeologia. Una risposta che non risponde affatto alle critiche della comunità scientifica circa la soppressione delle soprintendenze archeologiche: perché non si compensa l'abolizione di organi di governo e tutela vagheggiando la creazione di istituti di ricerca. Questo è puro storytelling, e di pessima qualità.

È poi noto che il ministro pensa di servirsi di ciò che resta dell'Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell'Arte di Palazzo Venezia: e nella foga di trovare una risposta qualsiasi alle pesanti critiche di questi giorni, Franceschini è prontissimo a cancellare da quell'istituto la storia dell'arte, i cui cultori sono evidentemente meno fastidiosi degli archeologi: l'unico risultato di questa grottesca sarabanda sarà infallibilmente quello di ridurre a spezzatino gli organi cui è affidata la vita del patrimonio culturale. Prima si sono separate tutela e valorizzazione, ora si fanno divorziare tutela e ricerca. È chiaro l'obiettivo politico: mani libere sul territorio.

Il secondo motivo di imbarazzo riguarda l'affermazione di Franceschini sulla divisione della comunità scientifica sulla soprintendenza unica. Ebbene, tutte le consulte archeologiche si sono dette contrarie a questa riforma. E ora anche quella degli storici dell'arte ha fatto altrettanto. Forse Franceschini si riferisce all'isolato plauso di Giuliano Volpe, l'archeologo che presiede il plaudente Consiglio Superiore dei Beni culturali. Volpe ha sostenuto più volte di essere in quella posizione non per ragioni politiche, ma per ragioni scientifiche: e sia. Ma ora che la comunità scientifica lo sconfessa in modo così plateale non dovrebbe allora tirarne le uniche conseguenze dignitose?

Terzo, e forse più grave, motivo di imbarazzo è che Franceschini abbia detto di aver imbavagliato l'archeologia a propria insaputa. Il ministro sostiene di non conoscere il provvedimento che vieta ai soprintendenti di parlare della 'riforma' con la stampa: ma il codice di comportamento su cui essa si basa l'ha varato lui stesso, il 23 dicembre scorso. Al comma 8 dell'articolo 3 vi si legge: «Il dipendente - fatto salvo il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni a tutela dei diritti sindacali e dei cittadini - si astiene da dichiarazioni pubbliche, orali e scritte che siano lesive dell'immagine e del prestigio dell'Amministrazione ed informa il dirigente dell'ufficio dei propri rapporti con gli organi di stampa. Le attività di informazione si realizzano attraverso il portavoce dell'organo di vertice politico dell'Amministrazione e dall'Ufficio stampa, le attività di comunicazione attraverso l'Ufficio per le Relazioni con il Pubblico, nonché attraverso eventuali analoghe strutture». Tradotto: un funzionario archeologo non può parlare con i media della riforma che rischia di cancellare la tutela archeologica.

Ha ragione Settis: se Franceschini firmerà il decreto sull'archeologia il governo si rivelerà una bad company. Ma chi lo dice lede «l'immagine e il prestigio dell'Amministrazione»: tutti zitti, mi raccomando.

La Repubblica, 5 febbraio 2015 (m.p.r.)

«A Roma nascerà un Istituto Centrale dell’Archeologia: l’Ica sarà un luogo di raccordo delle missioni di scavo italiane e di valorizzazione della disciplina che ancora mancava nel nostro Paese». Il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini lo annuncia in risposta alle critiche contro la sua riforma che accorpa le 17 soprintendenze archeologiche con quelle che tutelano il paesaggio e le belle arti. Negli stessi giorni in cui gli archeologi protestano e lamentano l’attacco a una professione già fragile.

Ministro, perché ha cancellato le 17 soprintendenze archeologiche?
«Ne ho create 41 nuove: 39 uniche più due speciali (Roma e Pompei). Molti soprintendenti unici saranno archeologi. Ho fatto un’operazione che punta a rafforzare la tutela. E mi offendo quando sento dire che, al contrario, l’ho indebolita. Prima un soprintendente doveva occuparsi di una regione intera. Con la riforma, la Lombardia, per esempio, ha quattro soprintendenze che controllano un territorio più piccolo. E il cittadino che chiede di procedere con un intervento su un palazzo deve fare una sola domanda e aspettare una sola riposta».

Però, con la riforma della pubblica amministrazione e l’introduzione del silenzio assenso, i prefetti hanno più potere in materia di tutela ambientale e paesaggistica…
«Il prefetto ha una funzione di coordinamento delle strutture territoriali dello Stato. Ma non sostituisce il soprintendente in nessun caso. Tutti i contrasti saranno risolti all’interno del ministero. In ogni soprintendenza c’è un responsabile per il patrimonio archeologico, storico e artistico, architettonico, per il paesaggio… Se prima c’erano 17 soprintendenti, oggi per l’archeologia ci sono 39 responsabili».
Insomma, non crede di avere indebolito le soprintendenze?
«Semmai ho provveduto a una razionalizzazione. Nella comunità scientifica, il tema della soprintendenza unica divide. Il dibattito è legittimo, ma poi bisogna scegliere. Operare una sintesi: è quello che cerco di fare. Contemporaneamente alle nuove soprintendenze, nascono nuovi parchi archeologici che avranno statuti e bilanci autonomi e si occuperanno di tutela e valorizzazione. Parlo tra gli altri dei parchi archeologici di Ostia, dell’Appia Antica… finora erano semplici uffici di Roma…».
Sul futuro dell’Appia Antica c’è apprensione. Il 13 febbraio ci sarà una marcia dell’associazione Bianchi Bandinelli per i beni culturali in ricordo di Antonio Cederna…
«Bianchi Bandinelli era un riformatore, non un conservatore. L’Appia Antica ci sta a cuore. Il direttore sarà scelto con un bando internazionale: avrà autonomia fiscale, gestionale… non capisco dove sia l’indebolimento. Dal punto di vista della tutela, l’archeologia ne esce rafforzata da questo secondo atto della riforma. Semmai bisognerà essere più attenti agli scavi… ».
E quindi?
«È per questo che faremo nascere un Istituto Centrale di Archeologia del ministero che supporterà le soprintendenze come luogo della ricerca e del coordinamento delle missioni di scavo italiane sul territorio nazionale e all’estero. Per l’archeologia sarà il corrispettivo dell’Istituto Centrale del Restauro e dell’Opificio delle Pietre Dure».
Quali sono i tempi?
«Saranno veloci, lo faremo in fretta. Le preoccupazioni degli archeologi vanno ascoltate».
L’età media del ministero è alta. C’è un sostanziale blocco del turn over. Lei ha avviato l’assunzione di 500 funzionari. Basteranno?
«Basteranno per qualche anno. Il numerò coprirà tutti i posti ora vacanti più quelli occupati da chi andrà in pensione nel 2016. Si ringiovanirà l’età media del ministero. Poi, più avanti, si potrà procedere a un altro concorso. Il dato positivo è che si inizia a capire che sulla cultura si può investire. Il bilancio del 2016 è cresciuto del 27 per cento rispetto all’anno scorso».
C’è una circolare del ministero, diffusa su Internet, che invita i funzionari a non parlare con gli organi di stampa…
«Non l’ho vista. Il dibattito sulla riforma ci deve essere fuori e dentro il ministero. Deve essere libero e mi pare sia così».

Il nuovo disegno di legge sul cinema abolisce le commissioni ministeriali che attribuivano finanziamenti in base al cosiddetto “interesse culturale”. I crediti fiscali saranno assegnati in base a “parametri oggettivi” come i risultati economici e il successo in sala. Non si rischia di favorire i progetti di cassetta?

«L’obiettivo è quello di creare un indotto per il Paese: del tax credit hanno usufruito il remake di
Ben Hur, Zoolander, 007. Film che restituiscono l’immagine dell’Italia nel mondo. Il cinema è un’industria. C’è un nuovo interesse intorno a Roma e a Cinecittà. Se un film oggi produce l’effetto che fece Vacanze Romane, ben venga. Poi il 15 per cento del Fondo unico per lo spettacolo sosterrà comunque opere prime e seconde, start-up e piccole sale».
Si è dato una risposta chiara sull’incidente delle statue inscatolate ai Musei Capitolini, durante la visita del presidente iraniano Rouhani? Una commissione doveva accertare l’accaduto: a che punto è?
«Non ho nuovi elementi. L’indagine della commissione interna a Palazzo Chigi evidentemente non è finita. Continuo a dire che ci sono mille modi per non offendere la sensibilità di un leader straniero. Non bisognava certo coprire le sculture classiche».
Quale sarà la sede per la mostra della collezione e per il Museo Torlonia?«È tutto aperto. L’accordo con la famiglia Torlonia è fatto, ma non ancora firmato. C’è un interesse internazionale: si tratta della più grande collezione archeologica di scultura mai vista. La mostra girerà il mondo. Dobbiamo trovare a Roma una sede di grande prestigio».

l'Italia, dagli anni di Giuseppe Bottai a quelli di Concetto Marchesi e Aldo Moro, fino alla miseria di oggi. Ma non è detto che il fondo sia raggiunto. La Repubblica, 4 febbraio 2016

C’era una volta la Costituzione, con il perentorio articolo 9: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Quando lo approvò la Costituente, su proposta di Concetto Marchesi (Pci) e di un giovane democristiano, Aldo Moro, quelle parole erano chiare. Erano la «costituzionalizzazione delle leggi Bottai» (Cassese), ma anche delle relative strutture, le Soprintendenze, espressamente menzionate in Costituente: questa l’interpretazione della Corte Costituzionale (269/1995). E non è vero che, come vogliono interpreti mediocri, la prima parte dell’art. 9 («La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica») parli di “valorizzazione”, nozione giuridica introdotta decenni dopo, peraltro «al fine di promuovere lo sviluppo della cultura» e non di far cassa, secondo il Codice dei Beni Culturali (art.6). Vanto del nostro patrimonio è la diffusione capillare, donde la natura territoriale delle Soprintendenze, che per la Corte «salvaguardano beni cui sono connessi interessi primari per la vita culturale del Paese e la fruizione da parte della collettività».

Ma il blocco delle assunzioni ha svuotato i ruoli, il personale è invecchiato, i bilanci falcidiati da tagli micidiali. Voluta dalla politica, la crisi della tutela viene rinfacciata a chi l’ha subita, i funzionari del Ministero. Come in una tela di Penelope, le strutture vengono fatte e disfatte da riforme a raffica: Veltroni (1998), Melandri (2001), Urbani (2003), Rutelli (2007), Bondi (2009). Ma con Franceschini l’accanimento terapeutico batte ogni record. A lui va riconosciuto il merito di aver avviato l’assunzione di 500 funzionari (comunque meno di quanti ne andranno in pensione nel frattempo) e di aver ottenuto qualche incremento di bilancio (ma tra quanti decenni raggiungeremo non dico i livelli della Francia, ma quelli della stessa Italia fino al 2008?). Ma non è un merito fare e disfare il Ministero con colpi di mano, codicilli in Fianziaria, riforme-missile a due o tre stadi. A un’istituzione, come a un’impresa, non giovano la precarietà, l’arbitrio del potere, le decisioni dietro le quinte.

Quando nella legge di stabilità spuntò sotto Natale una “normetta” che autorizza il ministro «alla riorganizzazione, anche mediante soppressione, fusione o accorpamento, degli uffici dirigenziali, anche di livello generale, del Ministero», il disegno era sopprimere le Soprintendenze archeologiche (e la relativa Direzione Generale), accorpandole con Belle Arti e Paesaggio. Perché, invece, non vengano accorpate le restanti direzioni generali (dieci !) è un mysterium fidei che sfugge alla comprensione degli umani. Contorcendosi come un’anguilla, il Superiore Ministero prima accorpa tre tipi di Soprintendenza in un anno, poi triplica i sottosegretari in una notte (29 gennaio). Prima spiega che porre i Soprintendenti alla «dipendenza funzionale» dai prefetti (legge Madia) non li esautora, ora insinua che azzerare le Soprintendenze archeologiche serve a “resistere” ai prefetti nelle conferenze dei servizi. Prima sussurra che il silenzio-assenso targato Madia non è poi così grave, ora sostiene che spegnere le Soprintendenze archeologiche è «necessario e urgente per attuare il silenzio assenso».

Vano spacciare per innovativi questi accorpamenti vintage: la tutela guidata dai prefetti è datata 1860, ma nel 1907 la L. 386 stabilì che (al contrario) i prefetti coadiuvano le Soprintendenze nella tutela. Quanto alla fusione di Archeologia e Belle Arti (sperimentata con pessimi risultati dal 1923 al 1939), è la fotocopia del modello attuato in Sicilia con esiti fallimentari, che il Ministero non si è degnato di analizzare. Sarebbe stato interessante, visto che la Sicilia è la sola regione indipendente dal Ministero, che la “perse” senza fiatare (ministro Spadolini) nel 1975, otto mesi dopo la sua fondazione. Ma accorpare le Soprintendenze mortifica la professionalità, uccide la specificità delle competenze, depotenzia la tutela. Solo un forte accrescimento del personale potrebbe bilanciare questa sciagura: ma come è mai possibile, se la stessa norma vieta tassativamente «nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica»?

La neo-tutela “modello Franceschini” ha una strategia, la valorizzazione, e una tattica, la tripartizione delle strutture. Al vertice, i venti “super-musei” con nuova filosofia di gestione; un gradino più sotto, gli assai disomogenei “poli museali”; infine, le Soprintendenze territoriali. Ci sono, è vero, buone pratiche ‘globali’ con cui devono misurarsi i musei italiani: ma essi sono diretta espressione del territorio (non lo è il Metropolitan, né il Louvre), e perciò il loro divorzio dal terreno che li alimenta non è una buona idea. Immaginata da menti a digiuno di ogni esperienza sul campo (sia in museo che sul territorio), questa riforma si presta all’effetto-annuncio, ma inciampa alla prova dei fatti. Che accadrà delle Soprintendenze, se i loro archivi e biblioteche sono trasferiti ai Musei? Se vengono sfrattate dalle sedi, passandole ai musei? Che succede dei materiali in deposito, condannati a traslochi e shock inventariali? E senza personale né risorse i nuovi inventari chi li fa? Soprattutto: data la primogenitura dei musei che è il chiodo fisso del ministro, come si distribuisce il personale, che ne sarà della tutela sul territorio? Vogliamo davvero distinguere una good company (i musei) e una bad company (le soprintendenze e la cura del territorio), pronta a essere liquidata?

Segnali contraddittori vengono dal Palazzo: il Consiglio di Stato boccia la conferenza dei servizi se applicata all’autorizzazione paesaggistica (come vuole la legge Madia), e la Corte Costituzionale dichiara incostituzionali vari punti dello “Sblocca-Italia”. Intanto il Governo capovolge la proposta Catania sul consumo dei suoli: gli oneri di urbanizzazione non “devono” ma “possono” essere usati per spese di urbanizzazione: cioè saranno usati per la spesa corrente («una istigazione alla distruzione dei suoli agricoli», commenta Paolo Maddalena). E un appello contro la legge Madia al Capo dello Stato di sette costituzionalisti (fra cui Zagrebelsky), in prima su questo giornale, è rimasto senza risposta; nè ha detto una sillaba in merito la stessa Madia o il capo del suo ufficio legislativo, Bernardo Mattarella.

Rafforziamo pure i musei, ma il tallone d’Achille della tutela è il paesaggio, su cui si accaniscono le peggiori cupidigie. E il paesaggio non si difende nei musei, ma nelle Soprintendenze. Renzi (da sindaco) ha inveito contro i Soprintendenti («una delle parole più brutte del vocabolario», scrive nel suo Stil novo, 2012), e si fa presto ad attriburgli il progetto di smantellare la tutela del territorio. Mi rifiuto di crederlo. Da Renzi (presidente del Consiglio) dobbiamo attenderci il rispetto del ruolo costituzionale della tutela. Se non se ne desse un segnale cestinando l’improvvida “normetta” natalizia, la bad company sarebbe il Governo, non le Soprintendenze.

La Repubblica, blog "Articolo 9", 3 febbraio 2016


Se un provvedimento come questo, firmato ieri l'altro dal soprintendente archeologico di Roma, fosse uscito sotto Bondi ci sarebbe stata la rivoluzione. Ringrazio la Cgil per avermelo fatto conoscere, e lo pubblico qua sotto. ( nostra trascrizione, qui il testo dell’originale in .pdf)

1 febbraio 2016, prot. N. 2208
oggetto: Codice di comportamento dei dipendenti pubblici (D.M. 23 dicembre 2015)
In seguito all’adozione del Codice in oggetto, come comunicato via intranet in data 18 gennaio u.s., si ritiene opportuno precisare quanto segue.
Le modalità di comunicazione agli organi d’informazione (giornali, radio, TV) relative ad attività istituzionali dovranno essere preventivamente sottoposte al dirigente, per il tramite dell’addetto stampa dr. Luca Del Frà e/o delle strutture istituzionali Ufficio Stampa e Ufficio Comunicazione o, in caso urgente, al Dirigente.
Ogni iniziativa autonomamente presa dalle SS.LL. in maniera difforme è ritenuta non consona al disposto dell’art.3, comma 8 del codice di comportamento.

Quanto sopra, al ripetersi di quanto recentemente apparso in più occasioni sulla stampa, darà luogo ad azione disciplinare nei confronti del dipendente ritenuto responsabile.
Il Soprintendente
arch. Franco Prosperetti

Questa inaudita circolare vieta ai dipendenti di parlare con la stampa della “deforma” del Ministero per i Beni culturali voluta da Franceschini. Mentre la protesta si fa internazionale, mentre si avvicina lo sciopero, il Ministero non trova nulla di meglio che mettere il bavaglio agli archeologi: sarebbe come se si fosse proibito ai professori universitari di dire la loro sulla (devastante) riforma Berlinguer, o agli insegnanti di parlare della (altrettanto devastante) #buonascuola.

I funzionari delle soprintendenze non sono dei grigi passacarte, né gli impiegati di una multinazionale che deve difendere la sua immagine. Sono, invece, ricercatori al servizio del pubblico interesse: e l'oggetto della loro ricerca è la tutela del patrimonio. La libertà di esprimersi su tutto ciò è dunque garantita dalla Costituzione.

Noi paghiamo lo stipendio (miserabile, peraltro) dei soprintendenti perché difendano il nostro patrimonio dalle pressioni del potere politico e di quello economico. Ora tutto questo viene spazzato via dalla Legge Madia che sottopone i soprintendenti ai prefetti, cioè ai rappresentanti del potere esecutivo. A questo è funzionale la riduzione delle soprintendenze da tre ad una sola: perché una testa si piega, e si taglia, meglio di tre.

Il bavaglio ai soprintendenti è un altro, odioso, passo in questa direzione. Ed è un attacco diretto alla democrazia, e agli interessi dei cittadini: perché mira a far tacere coloro che più e meglio di tutti possono spiegare come e perché la 'deforma' Franceschini uccide la tutela del patrimonio.

Coprire le statue antiche, imbavagliare gli archeologi: c'è del metodo, in questa follia.

La Repubbica online. blog"Articolo 9", 30 gennaio 2016
L'ultimo stadio del razzo del Governo Renzi contro l'articolo 9 della Costituzione ha avuto finalmente l'effetto di far insorgere il popolo del patrimonio culturale. Sit in sotto il Collegio Romano a cui partecipano accademici dei Lincei, assemblee nei musei, appelli preoccupatissimi della comunità nazionale dell'archeologia, dure lettere dei dirigenti interni del Mibact e del comitato tecnico scientifico dello stesso Ministero, articoli di giornale ampi e ben informati: ora Dario Franceschini e la sua 'deforma' del governo del patrimonio è sul banco degli accusati.
Meglio tardi che mai, si dirà: dopo lo Sblocca Italia con suo assalto al territorio, l'asservimento dei musei autonomi al potere discrezionale del ministro, la Legge Madia col silenzio assenso e la letale sottomissione delle soprintendenze ai prefetti. Un vaso di veleni, stracolmo: e ora l'ultima goccia, la soppressione delle soprintendenze archeologiche con la relativa Direzione generale. Venuta di notte, come un ladro: con una normetta nascosta nella legge di stabilità (l'avevo svelata su Repubblica il 21 dicembre). E con questa goccia, il vaso trabocca.

Dell'inaffondabile, spregiudiciato democristiano Dario Franceschini tutto si può pensare tranne che non sia sveglio. E dunque non passerà molto tempo prima che si renda conto che questa volta ha tirato troppo la corda. Avrà il coraggio di dire: «Scusate, questa volta mi sono sbagliato», e di ritirare coerentemente il suo decreto? Sarebbe una bella pagina istituzionale. Potrebbe andare in televisione, magari da Fazio, e dire, per esempio:

«Una soprintendenza all'arte o all'antichità non costituisce un ufficio amministrativo qualsiasi, ma ha una giurisdizione di merito, in cui la valutazione personale, la preparazione culturale singola, la conoscenza tecnica specifica hanno la massima importanza. Tale importanza, una volta ammessa (né potrebbe essere altrimenti) delimita, per necessità, delle sfere di competenza di specializzazione, che esigono d'essere riconosciute in una corrispondente divisione amministrativa. Soprintendenti, direttori, ispettori sono funzionari ammirevoli (e mi piace ripetere loro pubblicamente questa lode): ma perché l'azione che svolgono sia effettivamente proficua, deve potere intensificarsi nel campo delle conoscenze specifiche, essendo la loro sfera d'azione vastissima e mai conclusa, neanche a scavo ultimato o a restauro compiuto.

«Occorre, quindi, che l'archeologo faccia l'archeologo, l'architetto risarcisca l'architettura lo storico dell'arte si prodighi per statue, tavole, tele, affreschi. Non, badate, per stabilire in questo campo una drastica specializzazione, da cui, non concependo compartimenti stagni nello spirito, io aborro. Ma altra cosa è l'informazione culturale, altra l'azione, nella quale ognuno deve praticamente attuare quel che fa e sapere quel che fa. Possedere, insomma, un corredo di cognizioni tecniche le quali un uomo solo non può ormai abbracciare che per settori: altrimenti non è un tecnico, ma un dilettante».

Così rispose, nel 1939, il ministro a chi gli chiedeva perché avesse diviso le soprintendenze secondo competenze tecniche specifiche: cioè esattamente il contrario di quello che fa la "deforma" Franceschini, che ci fa arretrare invece che avanzare.

Quel ministro era Giuseppe Bottai, il presidente del Consiglio era Benito Mussolini: dovere, alla fine, ammettere che per il patrimonio culturale hanno fatto meglio loro di Franceschini e Renzi sarebbe davvero imbarazzante.

Riferimenti

Sull'argomento vedi l'opinione di Maria Pia Guermandi Archeologia e territorio: l'ultima spallata e l'articolo di Tomaso Montanari La tutela sotto mobbing

La Repubblica, 30 gennaio 2016 (m.p.r.)

Il malessere è diffuso da anni. Ma la nuova, ennesima riorganizzazione del ministero per i Beni culturali spinge una categoria che non vanta tradizioni barricadere, come gli archeologi, sul piede di guerra. In realtà è l’intero mondo incaricato di tutelare e valorizzare il patrimonio italiano a sentirsi frastornato dai ripetuti rivolgimenti. Non si fa in tempo, si sente dire, ad adattarsi a uno scombussolamento della macchina ministeriale (l’ultimo è dell’agosto 2014, seguito dalle nomine al vertice dei musei autonomi nell’agosto del 2015), ed eccone un altro, altrettanto radicale. Lettere, appelli, assemblee, sit-in: i lavoratori dei beni culturali sono in subbuglio.

La miccia esplosiva è la decisione del ministro Dario Franceschini di cancellare le 17 soprintendenze archeologiche, accorpandole con quelle che tutelano paesaggio e belle arti. In totale le soprintendenze in Italia saranno 39, più le due speciali di Roma (che perde pezzi pregiati: Appia Antica, Ostia e il Museo Nazionale Romano) e Pompei (alla quale viene tolta Ercolano). Un taglio di posti dirigenziali che consente di crearne altrettanti per guidare gli appena istituiti nuovi musei o siti archeologici autonomi. Le poltrone di soprintendente da poco assegnate ad architetti o a storici dell’arte saranno riassegnate perché ad esse potranno concorrere anche archeologi. Un carosello che, temono in molti, farà arrancare una macchina già in affanno.
È l’archeologia l’epicentro del terremoto. Un settore in cui l’Italia ha un primato e per tutelare il quale si formano ogni anno alcune migliaia di giovani. Dati precisi l’Associazione nazionale archeologi non ne ha. Ma da un censimento del 2011 e, assicurano, tuttora valido, risulta che in Italia ci sono, oltre l’università, 15 scuole di specializzazione più la Scuola archeologica di Atene alle quali accedono per selezione 600 giovani l’anno (il che fa dire a Salvo Barrano, presidente dell’Ana, «che i laureati ogni anno sono almeno il doppio »). Che faranno dopo il biennio di corso? Il 14 per cento degli archeologi è dipendente in parte del ministero, in parte di imprese o istituzioni private. Il resto alimenta l’impressionante bacino dei precari: il 27 per cento scava a partita Iva, il 7 in forma di impresa o di cooperativa, il 14 come collaborazione occasionale. Il 62 non lavora più di sei mesi l’anno e solo il 17 copre gli interi dodici mesi. Eppure il 52 per cento ha una brillante qualifica (master di primo e di secondo livello, dottorato, corsi all’estero…). La maggioranza smette superati i 40 anni.
Lunedì a Palazzo Massimo a Roma erano in trecento e assai battaglieri ad affollare un’assemblea indetta da Cgil, Cisl e Uil. Tutto il personale della soprintendenza archeologica di Roma è in stato d’agitazione. Una lettera di protesta al ministro è stata firmata da 16 su 17 soprintendenti archeologi. «Grave preoccupazione» esprimono decine di studiosi di tutto il mondo in questi giorni a Roma per un convegno al Reale Istituto d’Olanda. I quali temono che si dissolvano «modelli amministrativi e forme di cultura giuridica che hanno ispirato l’ordinamento delle antichità in molte parti del mondo».
Per lunedì prossimo è convocato un sit-in davanti al ministero (le proteste sono sempre di lunedì, a musei chiusi). Non c’entra con la riforma, ma una marcia sull’Appia Antica è stata organizzata per il 13 febbraio dall’Associazione Bianchi Bandinelli: è la prima iniziativa per i vent’anni dalla morte di Antonio Cederna. Ma ciò che la riforma prevede per l’Appia Antica non se ne starà sullo sfondo.
Sull’archeologia italiana si addensano fosche nubi. La quasi totalità degli scavi avviene non sulla base di un progetto culturale, bensì come effetto secondario dei lavori per un elettrodotto o per una linea ferroviaria. Si chiama archeologia preventiva. Ai lavori in zone dove si presume siano custoditi reperti assistono archeologi pagati dall’impresa, i quali intervengono se viene scoperto qualcosa. Funziona così così, a giudizio di molti (è qui che è impegnato l’esercito dei precari, pagato anche 5 o 6 euro l’ora). Ma intanto è un’occasione per alimentare conoscenze.
Secondo gli archeologi Pier Giovanni Guzzo e Maria Pia Guermandi nella nuova formulazione del Codice degli appalti non vi sarebbero norme sull’archeologia preventiva. Il che vorrebbe dire che si torna al sistema per cui se scavando rinviene una struttura antica, l’impresa - ammesso che sia onesta - sospende i lavori, segnala il fatto alla soprintendenza avviando una farraginosa procedura.
La soppressione delle soprintendenze archeologiche e le norme fissate dalla legge Madia (il parere di una soprintendenza deve arrivare entro 60 giorni, altrimenti è come se si dicesse sì; il prefetto potrà intervenire sulle decisioni di un soprintendente) piombano su un apparato pubblico di tutela già indebolito dai tagli. Nel 2008 il bilancio era di poco superiore ai 2 miliardi, nel 2011 si è precipitati a 1,4 e nel 2015 si è appena appena risaliti a 1,5. Per il 2016 Franceschini ha annunciato un incremento di 500 milioni: si tornerà a una condizione in cui per la cultura c’è pur sempre meno dello 0,30 per cento del bilancio statale (è oltre l’1 per cento la media Ue). Per archeologi, storici dell’arte, architetti, bibliotecari, archivisti vige il blocco del turn over che interessa il pubblico impiego e i 500 nuovi posti messi a concorso nel 2016 copriranno a malapena i pensionamenti (l’età media dei funzionari supera i 55 anni).
La tutela del patrimonio, si sente lamentare nelle assemblee, nei blog e sui siti, è ormai una chimera. Uno dei punti roventi è l’Appia Antica, che le nuove norme hanno sganciato dalla soprintendenza di Roma e trasformato in una struttura autonoma. La soprintendenza romana a sua volta è disintegrata: si occuperà del Colosseo, del Palatino e dell’area archeologica centrale, con una cassaforte di oltre 44 milioni d’incassi finora spalmati su gioielli meno remunerativi, come l’Appia Antica. Ma ora che succederà? Il futuro direttore dell’Appia Antica (3.500 ettari, un pezzo di città, nessun biglietto d’ingresso, quasi tutta in mano a privati, tranne la villa dei Quintili, la tomba di Cecilia Metella o il Circo di Massenzio) dovrà impegnarsi soprattutto nella valorizzazione. Che sarà separata dalla tutela e dalla guerra agli abusivi (1,3 milioni di metri cubi di nuove edificazioni). Le quali funzioni passano a una delle tre soprintendenze laziali, con il rischio che nei conflitti di competenza si perda un patrimonio di documentazione e di esperienze maturate nel fronteggiare gli assalti a un luogo così prezioso. Compreso l’accurato piano di gestione presentato appena un anno fa da Rita Paris, che dal 1996 dirige l’Appia Antica e le cui conoscenze sono imprescindibili per la tutela dell’area.

Corriere della Sera, 24 gennaio 2016


Le pagine di eddyburg, che per primo ha pubblicato la lettera, sono aperte al dibattito: eddyburg@tin.it

Italia Nostra in profonda crisi, generazionale e identitaria. Tutto è partito dalla lettera di dimissioni dal Consiglio nazionale presentata da Tomaso Montanari, giovane critico e storico dell’arte: «L’attuale dirigenza nazionale ha deliberatamente provocato una frattura con l’ispirazione più autentica dell’associazione, quella di Umberto Zanotti Bianco, Antonio Cederna, Giorgio Bassani. Non c’è più alcuna elaborazione intellettuale originale, e c’è anzi la supina accettazione delle più usurate parole d’ordine del potere vigente». Montanari accusa il vertice nazionale (non le sezioni locali) e il presidente Marco Parini, eletto nel settembre 2012, di aver capovolto la scala di valori: «La “valorizzazione” è messa sullo stesso piano della tutela; il privato su quello del pubblico; il volontariato su quello del lavoro, e via di seguito». Con la conseguenza, sostiene Montanari, di un «crescente interesse» di Italia Nostra per la gestione dei beni che rischierebbe di trasformarla «in una sbiadita fotocopia del Fai».

Desideria Pasolini dall’Onda e Nicola Caracciolo di Castagneto, presidenti onorari eletti all’unanimità, hanno chiesto a Parini di «adoperarsi perché il Direttivo dell’associazione respinga le dimissioni di Montanari, una delle figure più marcanti di una nuova generazione di ambienta-listi. Perderlo sarebbe un errore». Una dura lettera di sostegno a Montanari (firmata da Pier Luigi Cervellati, Vezio De Lucia, Andrea Emiliani, Vittorio Emiliani, Rita Paris) chiede le dimissioni del presidente e della dirigenza accusati «di equiparare la pubblica tutela alla privata valorizzazione». Solidarietà a Montanari dalle sezioni di Tivoli, Ferrara, Caserta, Vasto, Forlì. Anche la consigliera nazionale Maria Pia Guermandi sta riflettendo su possibili dimissioni.

Invece protesta il presidente della sezione di Firenze, il professor Leonardo Rombai: «Supina accettazione delle parole d’ordine del potere? Non mi riconosco affatto in questa accusa ingenerosa, e non si riconosceranno i nostri iscritti. Siamo in tanti a batterci per il nostro patrimonio». Ma è soprattutto Parini a replicare, con una missiva ai due presidenti onorari. Il presidente rivendica «una linea programmatica in continuità con il triennio precedente, l’incremento delle azioni giudiziarie anche penali, un confronto senza sconti con le istituzioni, per esempio la prima iniziativa contro il decreto sblocca Italia e le battaglie sul paesaggio e contro l’eolico selvaggio». Ma Parini ribatte soprattutto all’accusa di voler privilegiare la gestione-valorizzazione dei beni citando l’articolo 1 dello statuto del 1955 («concorrere alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio storico e naturale della Nazione») e l’articolo 3 («promuovere l’acquisto di edifici o proprietà in genere, di valore storico artistico, o assicurarne la tutela ed eventualmente anche la gestione»). Ricorda il successo di iniziative ormai radicate nel tempo «come il Boscoincittà, il museo nel Porto Vecchio di Trieste, il parco gestito dalla sezione di Reggio Calabria, il museo all’Isola di Caprera, la recente concessione dell’Eremo di Santo Spirito in Abruzzo».

Parini contesta a Montanari il voler rifiutare ciò che Italia Nostra fa da quarant’anni. Così come rispedisce al mittente l’obiezione sulla correttezza del principio per cui il meccanismo del volontariato può generare posti di lavoro nell’indotto (così come avviene, va detto per inciso e per completezza, in Gran Bretagna proprio grazie al National Trust).

Parini ritiene dunque concluso l’incidente: dopo le irrevocabili dimissioni di Montanari, scrive Parini, «il Direttivo nazionale del 16 gennaio ha preso atto e ha invitato l’architetto Luigi De Falco, che ha accettato, a subentrargli». La storia, c’è da giurarci, non finirà qui.

La lettera di dimissioni di Tomaso Montanari da Italia nostra: una lunga e argomentata accusa al gruppo dirigente:«Italia Nostra è diventata, da un mezzo, un fine: soprattutto per chi la dirige». Con una nostra premessa.



Premessa

Italia nostra, è diventata subalterna al peggiore governo e al peggiore parlamento che il nostro paese abbia conosciuto dal 1945 a oggi? Parrebbe di sì, secondo l’argomentata denuncia di Tomaso Montanari, membro del consiglio direttivo nazionale, che ha inviato all’attuale presidente e a tutti i Soci – fra i quali chi scrive - una nobile lettera di dimissioni. La lettera di Montanari, che pubblichiamo di seguito, denuncia una clamorosa inversione di marcia dell’associazione, e in particolare al suo livello nazionale.

Ricordiamo ai nostri lettori che la prestigiosa associazione protezionista, nata nel 1955 per iniziativa di autorevoli personaggi della più illuminata intellettualità italiana (quali Umberto Zanotti Bianco, Elena Croce, Antonio Cederna, Desideria Pasolini dall’Onda, Pietro Paolo Trompeo, Giorgio Bassani) e le sue sezioni sparse su tutto il territorio nazionale ha tenacemente lavorato per 60 anni per la difesa del patrimonio culturale e per la diffusione di una cultura di massa volta alla tutela della bellezza dei nostri territori.

Memorabili battaglie combattute in ogni regione e grandi campagne nazionali hanno contribuito a salvare decine di luoghi di straordinaria qualità archeologica, artistica, storica, ambientale. È stata la prima associazione proto-ambientalista a comprendere che le pietre e i paesaggi, le biblioteche e i musei non si salvano senza l’attivo impegno del maggior numero di persone, e che la pianificazione urbanistica è uno strumento essenziale per la tutela del territorio e dei suoi abitanti.

Per tutti i governi e i parlamenti Italia Nostra è stata uno stimolo e una sentinella: pronti a collaborare con i membri dell’esecutivo e del legislativo, quando governi e parlamenti esprimevano interessi coerenti con quelli dell’associazione, tempestivi nel criticare con severità e rigore ogni volta che gli atti del governo o del parlamento minacciavano i valori e i principi dell’associazione.

Secondo Tomaso Montanari – noto ai frequentatori di questo sito e a un pubblico molto più vasto per i suoi numerosi scritti in difesa della bellezza, della memoria e della democrazia – la dirigenza dell’associazione, e in particolare l’attuale presidente Marco Parini – avrebbero radicalmente rovesciato il pluridecennale atteggiamento politico- culturale di Italia Nostra. Mentre numerose sezioni proseguono la loro azione di vigilanza, critica e proposta nella scia del comportamento di sempre – il livello nazionale, mentre tace sulle più gravi lesioni alla tutela del territorio operate dal governo Renzi e dal suo parlamento, arriva al punto di avallare talune delle scelte più nefaste, come quella di indebolire gli organi statali di studio, vigilanza e governo dei beni culturali, di procedere nella strada criminosa delle privatizzazioni e così via. Ma è il caso di dare la parola direttamente a Montanari, cui speriamo seguirà un ampio dibattito, di cui cercheremo di dar conto puntualmente.

Dopo l’allineamento dell’INU (Istituto nazionale di urbanistica) agli indirizzi di politica della città e del territorio peculiari all’ideologia e alla prassi del renzismo e ben rappresentati da Maurizio Lupi ed Ermete Realacci, il cambiamento di fronte di Italia nostra sarebbe una perdita gravissima. È necessario invertire la rotta. Ciò è possibile solo attraverso un dibattito trasparente e aperto, al quale partecipino in primo luogo i soci e le sezioni dell’associazione. Cercheremo di darne conto nel migliore modo possibile (e.s.)

La lettera di Tomaso Montanari

Cari soci di Italia Nostra,

è con grande tristezza che vi scrivo per comunicarvi che mi sono appena, irrevocabilmente, dimesso dal Consiglio Nazionale dell'Associazione.

Ho accettato di candidarmi rispondendo all'appello di alcuni amici – tra i quali voglio nominare solo Giovanni Losavio, indimenticato presidente –, profondamente preoccupati per la frattura che l'attuale dirigenza nazionale ha deliberatamente provocato con l'ispirazione più autentica dell'Associazione, quella di Umberto Zanotti Bianco, Antonio Cederna, Giorgio Bassani. Questa frattura è, in effetti, innegabile: mentre moltissime delle sezioni conservano intatto quello spirito, e lottano quotidianamente perché siano attuati i valori dell'articolo 9 della Costituzione, Italia Nostra nazionale è caduta in un letargo profondo. Non c'è più alcuna elaborazione intellettuale originale, e c'è anzi la supina accettazione delle più usurate parole d'ordine del potere vigente.

Ho sempre pensato che il faro dell'Associazione dovesse essere una celebre frase del suo presidente Giorgio Bassani, per cui Italia Nostra opera perché un giorno non ci sia più bisogno di Italia Nostra. Quando ho citato questa bussola, mi è stato risposto che si tratta di un programma superato, anzi sbagliato. Italia Nostra è diventata, da un mezzo, un fine: soprattutto per chi la dirige.

Sono fermamente convinto che tra l'attuale dirigenza e i padri fondatori c'è la stessa distanza che separa Matteo Renzi da Alcide De Gasperi, o Maria Elena Boschi da Piero Calamandrei. Parlare, o carteggiare, con i membri della Giunta Esecutiva equivale a farlo con il ministro Franceschini: la 'valorizzazione' è messa sullo stesso piano della tutela; il privato su quello del pubblico; il volontariato su quello del lavoro, e via di seguito. Questa mutazione della scala valoriale e il crescente interesse di Italia Nostra per la gestione diretta del patrimonio culturale (con tutte le servitù politiche e gli interessi che ciò comporta) mostrano che l'Associazione si avvia a diventare una fotocopia (peraltro sbiadita e subalterna) del Fai.

Nella feroce battaglia che infuria intorno al progetto costituzionale sul patrimonio – una battaglia che ho provato a descrivere in alcuni miei libri, come Le pietre e il popolo e Privati del patrimonio – Italia Nostra si trova spesso a combattere da quella che io giudico la parte sbagliata del fronte. Il rifiuto di ricorrere contro la ricostruzione illegale e abusiva di Città della Scienza a Bagnoli è forse il più terribilmente concreto tra i segni di quella che io giudico una gravissima involuzione.

Sapevo tutto questo prima di entrare nel Consiglio Nazionale: ed è anzi proprio per tentare di cambiare questo stato di cose che ho accettato di candidarmi.

Quello che non conoscevo è il punto a cui è arrivata la determinazione della maggioranza del Consiglio ad avanzare in questa direzione. Ogni tentativo di proporre un'agenda valoriale diversa viene respinto in base ad un unico, brutale argomento: la forza dei numeri in consiglio – quasi si volesse scimmiotare la retorica muscolare della maggioranza 'che tira diritto', drammaticamente invalsa in Parlamento. Questa radicale indisponibilità ad ogni correzione di rotta si accompagna ad un dibattito di qualità intellettuale e culturale oggettivamente infima, e ad una violenza verbale sorprendentemente alta. Credo che sia meglio non entrare in dettaglio, ma se qualcuno fosse interessato a comprendere su cosa si fondi un giudizio così netto, sono disponibile a far conoscere il ricco carteggio di insulti da me ricevuto in questi mesi.

In queste deprecabili e deprimenti condizioni la mia presenza nel Consiglio Nazionale di Italia Nostra non ha alcuna prospettiva utile. Continuo invece a credere nel lavoro splendido di molte sezioni, e spero che anche queste mie dimissioni possano spingere i soci – e non solo le centinaia che mi hanno votato, e che ringrazio – a condurre finalmente una battaglia che riallinei la dirigenza nazionale ai valori sani di quelle stesse sezioni.

Queste precoci, e assai sofferte, dimissioni si devono al fatto che una simile battaglia non ha, nell'attuale consiglio nazionale, alcuna prospettiva di successo. Ammiro gli amici che scelgono di rimanere, per dare testimonianza e svolgere una indispensabile funzione di controllo. E so che chi prenderà il mio posto in Consiglio avrà occhi e voce perfettamente adeguati. Ma credo che ora sia, invece, mio dovere non sottrarre ulteriori energie alla battaglia per il patrimonio culturale e per la sua funzione costituzionale.

Continuerò ad appoggiare in ogni modo il lavoro delle sezioni che operano secondo il cuore antico, e attualissimo, di Italia Nostra.

Questo inverno, ne sono sicuro, passerà: viva Italia Nostra!

Tomaso Montanari, 14 gennaio 2016
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