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i criticato da Tomaso Montanari, gli risponde, e Montanari replica. Il Fatto quotidiano, 2 luglio 2014, con postilla

"Non ho mai parlato di petrolio"
di Emilio Casalini

Scrive Tomaso Montanari che ci sono degli ingenui che hanno la pretesa di inserire la parola “bellezza” nell’articolo uno della Costituzione. L'iniziativa della deputata di Sel, Serena Pellegrino, per cambiare l'articolo uno della Costituzione era sconosciuta ai più, me compreso, fintanto che lo stesso Montanari non ne ha parlato su questo giornale. Quanto al mio libro, che Montanari gentilmente cita (Fondata sulla bellezza un ebook Sperling&Kupfer), se lo avesse letto, avrebbe scoperto che l'aborrita parola “petrolio”, in 120 pagine di testo, non c’è. Invece ricorre il termine “risorsa” perché il libro è un viaggio-inchiesta tra i paradossi che bloccano lo sviluppo del Paese.

La bellezza forse non salverà l'Italia, ma una mano potrebbe darla. Il turismo, nel mondo, crescerà del +5% per i prossimi 15 anni, la produzione industriale pesante è in calo costante da 40 anni. Dove sarebbe utile investire? Abbiamo l’Alitalia in crisi che però non ha voli diretti verso la Cina, mentre Lufthansa ne ha 47 settimanali. O la Sicilia che, nel 2012, ha registrato 6 milioni di pernottamenti di turisti, mentre le isole Canarie, stessa lunghezza di coste, ma molto meno da offrire, ne hanno avuti 75 milioni. Abbiamo gravi problemi nell’accoglienza, nella promozione dei nostri tanti musei sempre più vuoti. Ma quando si propone di riportare alla luce le opere nascoste e portarle in giro per il mondo, ecco il purista che grida alla prostituzione dell’arte.

La bellezza è invece un marchio identitario da sfruttare, come propone il creativo Maurizio di Robilant attraverso la fondazione “Italia Patria della Bellezza”. Lo certifica il rapporto “Future Brand Country Index”: il mondo ci riconosce ancora la leadership in turismo, arte, cultura e cibo. Attività caratterizzate da piccole imprese che non inquinano, che tutelano l’ambiente, non delocalizzabili, con capitale diffuso, che stimolano la creatività dei singoli. Oltre l’economia, quindi, c'è una coscienza comune raccolta intorno alla bellezza. La formulazione dell’attuale articolo uno della Costituzione è un compromesso del ‘47, figlio del confronto tra Fanfani e Togliatti, che voleva una “Repubblica di lavoratori” di stampo sovietico.

A nulla valsero le parole del deputato di Ezio Coppa che ricordava come il lavoro fosse un mezzo, non un fine. Tutto questo aveva, forse, un senso in un’Italia in macerie, divisa tra stelle e falci, strisce e martelli. Un incipit costituzionale moderno (bellissimo quello del Sudafrica di Mandela) potrebbe includere i valori universali dell’uomo e impegnare i nostri governanti nel promuovere lo sviluppo delle potenzialità del popolo italiano tra cui la Bellezza. Su cui l’Italia è già fondata.

La replica
di Tomaso Montanari


Per la bellezza vale ciò che si dice del sesso: chi ne parla molto, ne fa poco. E a proposito di elitarismo: non sarà un po’ snob, radical-chic, e appunto elitario permettersi di gettare il tempo in simili pipponi? L’articolo 1 sta bene come sta. Ma se Casalini è convinto del contrario basta dare un colpo di telefono alla fatina Maria Elena Boschi: e con un colpo di bacchetta magica la Costituzione e l’Italia risorgeranno, fondate sulla bellezza. In bocca al lupo.

Postilla

All'Autore del libro citato da Montanari sfugge una importante distinzione lessicale: quella tra risorsa e patrimonio. Considerare le qualità che storia e natura hanno depositato nel territorio come una risorsa anziché come un patrimonio significa considerarli come qualcosa che (come, appunto, il petrolio, o il marmo delle Alpi apuane può essere estratto, trasformato in altro da sè, venduto. Considerarle invece come un patrimonio significa considerarle un bene che deve essere conservato, accresciuti, trasmesso ai posteri.

Il Fatto Quotidiano, 2 luglio 2014

Stasera alle 21 si svolgerà una – immaginiamo movimentata – assemblea pubblica indetta dai lavoratori dell’Istituzione Bologna Musei. Il tema da discutere è: “Le esternalizzazioni nei musei fra privatizzazione dei servizi pubblici e svalorizzazione del lavoro”. Già, perché il Comune di Bologna ha prima riunito tutti i musei in un’unica istituzione, e ora sta procedendo a passo veloce verso una privatizzazione ancora più spinta di quella che ha già fagocitato gli Uffizi, il Duomo di Siena o il Colosseo.Sono stati messi a bando, per il triennio che va dall’autunno di quest’anno a quello del 2017, non solo i servizi di accoglienza, la biglietteria, la sorveglianza e la custodia, ma anche i servizi educativi e la mediazione culturale.

Chi vincerà la gara? I musei di Bologna finiranno in mano a Civita (presidente Gianni Letta), o a Electa (gruppo Mondadori, cioè Berlusconi)? I lavoratori dei musei denunciano che tutto si sta svolgendo senza trasparenza e senza garanzie per i loro diritti, e che dopo il bando saranno orientate al lucro privato funzioni che vanno “dall’allestimento mostre alla movimentazione e trasporto di opere, dal controllo del patrimonio al controllo di gestione e qualità, dalla gestione delle attività amministrative e organizzative alla gestione e conservazione del patrimoni, dai servizi bibliotecari all’organizzazione e gestione degli eventi, della comunicazione e del marketing e valorizzazione del patrimonio”.

Insomma, è come se una scuola o un’università pubbliche appaltassero le lezioni e la ricerca: tanto varrebbe smettere di mantenerle con le tasse pubbliche. Dalla parte dei lavoratori, e dei cittadini, si è schierata Italia Nostra, chiedendo “un ripensamento radicale del bando emanato dal Comune, e proponendo di aprire una discussione trasparente su quello che è un capitolo decisivo della nostra politica culturale, ovverosia il destino dei nostri musei”.

Già, perché Bologna è l’ennesima stazione della via crucis che sta inchiodando il patrimonio culturale della nazione alla croce del mercato. E non si intravedono resurrezioni.

Apuane: vi è una riserva di marmo ancora per mille anni di escavazione, sostengono gli industriali. E chi se ne frega se questo comporterebbe la sparizione di uno straordinario monumento >>>

Apuane: vi è una riserva di marmo ancora per mille anni di escavazione,sostengono gli industriali. E chi se ne frega se questo comporterebbe lasparizione di uno straordinario monumento paesaggistico, ambientale egeologico. L'importante - come si è anche accorta la famiglia Bin Laden che oravuole entrare nel business - è di continuare a godere di colossale renditeinquinando sorgenti, fiumi e aria. Intanto, un passo in questo senso è statofatto con l'approvazione nella Commissione ambiente e territorio della RegioneToscana, nonostante l'eroica resistenza dell'assessore Marson, di ulterioriemendamenti peggiorativi del Piano paesaggistico. Di cui, il più negativo è lapossibilità di riaprire le cave dismesse da non più di 20 anni al di sopra dei1200 metri, in aree vincolate. E non è improbabile che in fase di approvazioneda parte del Consiglio regionale, qualche soldatino alle dipendenze diConfindustria proponga ulteriori codicilli per la distruzione della Montagna.

Ma in attesa dell'assalto finale, si possono già fare alcuneconsiderazioni. La prima è che, nonostante che le autorizzazioni di apertura dinuove cave dovrebbero ora essere inquadrate in "piani di bacino"soggetti al parere preventivo della Regione, saranno i Comuni a decidere e adire l'ultima parola; e l'esperienza insegna che in Toscana l'osservanza deipiani sovraordinati è stata finora un'eccezione. Con l'aggravante, che quil'osmosi fra amministratori, imprese e Parco delle Apuane ha creato un bloccodi interessi che nessun meccanismo regolativo di piano può seriamente intaccare.Bisogna, perciò, cambiare politica e l'unica chance in questo senso è dimandare a casa gli attuali amministratori e sostituirli con persone che sipreoccupino più della salute del territorio e dei cittadini che dei profittidelle imprese. Da qui alle prossime elezioni questo è il compito dei comitati.

La seconda considerazione è che il grande sconfitto di questa prova diforza è il Presidente Enrico Rossi, il quale all'inizio e durante il suomandato aveva ribadito che la sua era una maggioranza di sinistra. "Ilnuovo piano garantisce insieme alla tutela ambientale, anche le legittimeistanze di crescita e sviluppo economico"; non è un esponente della giuntaa dichiaralo, ma la portavoce di Forza Italia che così sancisce la nascita di una nuova maggioranza. LaRegione Toscana perciò si omologa alla politica di Matteo Renzi, il premier cheintende sfasciare la Costituzione vigente in combutta con un corruttore digiudici e di minorenni, compratore di senatori, evasore fiscale, ma"votato da milioni di italiani".

Fine del modello toscano? Vi è da dire che questo modello, chesignificava uno sviluppo che non distruggesse paesaggio e ambiente, ma anzi nefacesse preziose materie prime da salvaguardare e riprodurre, è esistito solocome proposta politica e tecnica di minoranze fra cui la Rete dei Comitati perla difesa del territorio. E, tuttavia, il tentativo e in qualche caso la speranzaerano che le istituzioni sapessero raccogliere la sfida, in tale senso erastato possibile registrare qualche cauta apertura del Presidente della Regione.Ora, un Consiglio di nominati dai partiti, ignaro di quanto avviene nel mondo,culturalmente arretrato (e cattiva cultura fa cattiva politica) affonda questasperanza. Ribadisce che lo sviluppo si ottiene distruggendo un patrimonio chenon appartiene ai cavatori, ma al mondo. Scavalca i sindacati, molto più cautie consapevoli che la monocultura marmifera deve essere sostituita daun'economia più equilibrata che valorizzi tutte le risorse del territorio.Puntella le rendite dell'oligopolio dei cavatori senza accorgersi che larendita storica del partito ex Pci, ex Pds, ex Ds, ... "ex" siesaurirà definitivamente quando sulla scena elettorale prenderà posizione unpartito degno di credibilità che faccia propri gli interessi dei cittadini.

Dietro l’apparente ingenuità della proposta ci sia la solita retorica del petrolio d’Italia: una retorica che ha in mente una bellezza da sfruttare, se non da prostituire. E non stupisce che sia stato Oscar Farinetti a lanciare l’idea, nel marzo scorso». Il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2014


L’Italia è una Repubblica democratica fondata sulla bellezza”. Dopodomaniun certo numero di persone con un’agenda sorprendentemente libera si incontreràa Roma per discutere (sembra seriamente) sull’opportunità di cambiare in questomodo l'articolo 1 della nostra Costituzione. Da settimane un incalzantemailbombing annuncia l’evento, promosso dalla deputata Sel, Serena Pellegrino,e condiviso da molte associazioni, anche serie e rispettabili. Tutti, apartire dalla promotrice, sembrano in ottima fede. E si presume che inbuona fede sia anche il giornalista di Report Emilio Casalini, che è il veroautore dell'idea, contenuta in un suo ebook (Fondata sulla bellezza. Come farrinascere l’Italia a partire dalla sua vera ricchezza) appena uscito daSperling&Kupfer.

Gli stralci di questo testo, tuttavia, confermano comedietro l’apparente ingenuità della proposta ci sia la solita retorica delpetrolio d’Italia: una retorica che ha in mente una bellezza da sfruttare, senon da prostituire. E non stupisce che sia stato Oscar Farinetti a lanciarel’idea, nel marzo scorso. Ma quali che siano i sottintesi, l’idea meritadi essere (velocissimamente) archiviata. Intanto i principi fondamentali dellaCostituzione sono un sistema perfettamente equilibrato, che non c’è alcunmotivo di alterare. E poi questa retorica stucchevole ed estetizzante della“bellezza” (che “salverà il mondo”, secondo una frase di Dostoevskijdecontestualizzata e ripetuta a vanvera) è superficiale, melensa,deresponsabilizzante, sviante. La Repubblica non tutela il patrimonio perchésia “bello”, ma perché ci fa eguali, liberi, umani. Il valore in gioco non è labellezza, ma la cittadinanza. E poi: chi non vede quanto sarebbe devastantesostituire al pane del lavoro la brioche della bellezza? Non ci potrebbe essereun messaggio più autolesionista e privo di mordente e di futuro. Dopo un similecambiamento non ci resterebbe che dire ai nostri ragazzi: “Non hai lavoro? Èl’Italia, bellezza”.

Il Comitato per la Bellezza è stato gentilmente invitato a partecipare ad un confronto che si svolgerà venerdì prossimo alla Camera e che ha per tema l’inserimento all’articolo 1 della Costituzione della Bellezza come uno degli elementi fondanti dell’identità nazionale. Al confronto hanno aderito numerose associazioni, alcune dal passato importante. Non il nostro Comitato per la Bellezza. Noi riteniamo infatti - e l’abbiamo ripetutamente spiegato alla promotrice, on. Serena Pelegrino di SEL - che la Bellezza sia già ampiamente tutelata dalla nostra Costituzione all’articolo 9 laddove si dice che “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

Solo che questo articolo rischia di rimanere - grazie anche al Titolo V della Costituzione e all’inerzia di troppe Regioni - inattuato. Per questo riteniamo necessaria un’ampia, documentata, cruda riflessione sulle continue violazioni, sui continui svuotamenti ai quali è sottoposto il fondamentale articolo 9. Altro che fare accademia sulla Bellezza di cui tutti parlano come “un brand” , anzi “il brand” italiano, in termini pericolosamente mercantili, mentre, ogni giorno, i nostri paesaggi, le nostre coste, le nostre montagne, persino i Parchi lasciati a se stessi, subiscono l’aggressione di nuovo cemento e asfalto, i centri storici, svuotati, rischiano di diventare sempre più rumorosi divertimentifici turistici, la tutela dei beni culturali e ambientali ha subito tagli di fondi e di personale qualificato spaventosi, da tramortire, le Soprintendenze vengono intimidite e ulteriormente indebolite da una campagna ormai quotidiana contro di esse, accusate, anche da uomini e forze di governo, di essere un “residuo dell’Ottocento”, di aver “incatenato” il processo di modernizzazione del Paese, di burocratizzare la tutela stessa, di basarsi su di un “pregiudizio estetico” (così Legambiente) per difendere paesaggi straordinari dalle pale eoliche...Non di aver invece fermato nei limiti delle loro esigue forze, mai adeguate, nuovi “mostri” e nuove degradazioni, non di aver realizzato, quando c’erano i fondi, splendidi restauri, di presentare ai turisti una costellazione comunque straordinaria di musei e di aree archeologiche, ecc.

Questi sono i veri problemi oggi. Una seria, civile, diffusa tutela (che è già, in sé, valorizzazione) passa da qui, da questi drammatici nodi che esigono una autentica “ricostruzione” del Ministero stesso, non declamazioni accademiche. Anni fa si voleva “migliorare” l’articolo 9 della Costituzione inserendovi la nozione di “ambiente” (come se il paesaggio non la contenesse già). Vennero presentate modifiche così pasticciate che si concluse di lasciar perdere. La prima parte della nostra Costituzione è quanto mai attuale: non ha bisogno di essere modificata, bensì di venire finalmente, puntualmente attuata.

per il Comitato per la Bellezza: Vittorio Emiliani, Desideria Pasolini dall’Onda, Luigi Manconi, Vezio De Lucia, Paolo Berdini, Gaia Pallottino.
Roma, 24 giugno 2014


Nel 1994 il Presidente del Consiglio dei Ministri impugnava la legge della Regione Toscana “Disciplina degli agri marmiferi di proprietà dei Comuni di Massa e Carrara” per violazione dell’art. 117 della Costituzione (le cave devono essere normate dalla Stato e non dalle Regioni sosteneva), e in particolare perché prevedendo la Regione la temporaneità e l’onerosità delle concessioni, perpetue in base alla legge vigente, incide sui diritti reali immobiliari preesistenti, disciplinati con normativa speciale risalente alla legislazione preunitaria (Editto di Maria Teresa 1751 e Decreto di Francesco V 1846).
La Regione, che aveva legiferato costretta anche dall’“allarmante fenomeno delle rendite parassitarie” e in considerazione dell’enorme importanza economica dello sfruttamento degli agri marmiferi e della loro rilevanza anche dal punto di vista paesaggistico ambientale , aveva dettato criteri, che andavano, a parere del governo Berlusconi, a danno dei concessionari di cava. La Corte Costituzionale (488/ 1995) non solo confermava la validità della legge “rivoluzionaria” regionale, ma riaffermava la valenza dell’art. 32 comma 8 (L. 724/1994) e cioè che a decorrere dal 1 gennaio 1995 i canoni annui sarebbe stati determinati dai comuni in rapporto alle caratteristiche dei beni, ad un valore comunque non inferiore a quello di mercato. E precisava: "A questa regola i Comuni di Massa e Carrara devono fin d’ora uniformarsi, indipendentemente dall’entrata in vigore dei regolamenti più volte ricordati".
Che cosa è successo in questo ventennio?

A Carrara il regolamento è stato svuotato dalle amministrazioni succedute alla Fazzi Contigli; a Massa si è scelto di continuare con il decreto del 1846. Il canone rapportato al valore di mercato del marmo estratto, imposto (“devono”) dalla Corte Costituzionale, è stato dimenticato, con il vantaggio dei pochi concessionari di cave, anche percettori di rendite, che a queste rendite improprie e ai guadagni mostruosi non vogliono rinunciare. A Massa, il Comune riscuote 8,30 euro ogni tonnellata di marmo che passa dalla pesa pubblica (e molto non passa dalla pesa), indipendentemente dal valore del marmo (che oscilla da qualche centinaia di euro ad alcune migliaia di euro)

Vent’anni dopo (2014) è ancora la politica, la cattiva politica, anche di sinistra, che scende in appoggio degli industriali e di fronte ad un piano paesaggistico che cerca di tutelare l’ambiente, le acque, i profili dei monti, i circhi glaciali, le grotte carsiche, geotopi e geositi, le aree di Rete Natura 2000 (SIC-ZPS), un patrimonio che non è solo italiano, ma del mondo intero, un piano paesaggistico che suggeriva di portare a progressiva chiusura le cave all’interno di un Parco, modificando e stravolgendo i diritti della cittadinanza.
Due soli esempi: è sopravvissuto un paragrafo nella disciplina del piano paesaggistico in cui si precisa che l’apertura di nuove cave (che cadranno in zona SIC/ZPS), l’ampliamento delle esistenti (che già ora sono entrate in zona SIC/ZPS) e ampliamenti e recuperi ambientali di cave dismesse (molte di queste sono già oggi in aree individuate come SIC e ZPS) non devono interferire in modo significativo con SIC, SIR, ZPS, emergenze geomorfologiche, geositi e sorgenti, linee di crinale, zone umide Ramsar (fatti salvi i diritti acquisiti di chi ha una attività in corso !).

Che cosa vuol dire "in modo significativo?"
Nel fascicolo Emendamenti, ( pag. 7 punto 4) si scrive che si intendono “rinaturalizzate” solo le cave dismesse da almeno 30 anni: la politica dunque stabilisce che la natura si riappropria dello spazio che le è stato tolto…. solo dopo 30 anni.
La sostanza del comma ci dice che, grazie a questa precisazione, si potranno ri-aprire cave chiuse da 30 anni!
Ancora più sorprendente (pag. 8) l’art. 12 relativo alle aree boscate, aree dove sono ammessi interventi di trasformazione a condizione che non comportino alterazione significativa permanente del paesaggio. Il testo originario riportava semplicemente: alterazione significativa. La politica impone che l’alterazione significativa debba essere anche permanente: solo in questo caso non si ri-apriranno cave.
Per volontà politica il grande bacino marmifero di Carrara non è entrato nel Parco delle Alpi Apuane. Leggiamo sui quotidiani di questi giorni che la famiglia Bin Laden sta per comprare il 50% di una società che possiede 1/3 delle cave di Carrara per 45 milioni di euro. Che cosa rende così costoso quel bene? Certamente la materia prima che appartiene, come ha scritto la Corte Costituzionale, alla collettività carrarina. Quanti dei 45 milioni ricadranno nel territorio? Nessuno, ma questa cifra sarà divisa fra TRE famiglie, proprietarie appunto di quel 50%.
Siamo in Europa, ma in questa parte di Europa, nella Toscana da decenni amministrata dalla sinistra, si permette per il guadagno di pochi di tagliare a fette le creste, distruggere l’ambiente, inquinare le acque, e, per gli interessi economici di questi imprenditori, si rischia oggi che la materia paesaggistica dell’intera Regione, ancora una volta, non abbia norme e regole. E’ recente una sentenza del Consiglio di Stato (sez. IV n. 2222, 29 aprile 2014)che definisce il paesaggio un “bene primario e assoluto”, ma gli abitanti della Toscana sono costretti a ricorrere all’Europa perché ciò si realizzi.

Territorialmente, 29 maggio 2014

Non c’è pace in Mugello. Autostrada del sole, autodromo, invaso di Bilancino, villaggio Outlet, alta velocità, raddoppio dell’A1: opere che insistono su pochi chilometri quadrati in un’area interna, non ricca ma già bella, che da decenni ha ceduto al ricatto occupazionale. Per un lavoro fugace, non sicuro, dai connotati schiavistici come denuncia Simona Baldanzi dai cantieri TAV. Ora però l’attacco al territorio cambia di segno e si chiama “valorizzazione”.

La villa di Cafaggiòlo, da poco iscritta nel patrimonio Unesco, e l’intera fattoria medicea, sono al centro di una storia annosa che riparte nel 2011, quando Regione Toscana, Provincia di Firenze, comuni di Barberino di Mugello e San Piero a Sieve, Autorità di Bacino dell’Arno, MIBAC-Direzione generale per i beni culturali e paesaggistici della Toscana, siglano un protocollo d’intesa con la proprietaria Società Cafaggiolo srl rappresentata dall’argentino Alfredo Lowenstein. Un «modello di collaborazione istituzionale» che nei giorni a ridosso delle elezioni ha raggiunto un’ulteriore tappa: il protocollo è approvato, con un atto di indirizzo, da entrambi i comuni mugellani, di cui uno – San Piero – in mano al commissario prefettizio. Il protocollo, «ispirato a principi di tutela, sviluppo e valorizzazione della villa e della tenuta», sostiene un progetto della Cafaggiolo srl medesima, che interessa circa 370 ettari ripartiti tra i comuni di Barberino e San Piero, inclusi nella zona di rispetto Unesco (buffer zone).

Il “Progetto Cafaggiolo” prevede il riuso del patrimonio edilizio esistente per finalità ricettive turistico-alberghiere di gran lusso, nonché «la creazione di un polo museale con attività culturali e la realizzazione di uno spazio per lo sport ed il tempo libero, attraverso interventi di recupero e riqualificazione dell’esistente e, in parte, interventi di nuova edificazione, nonché interventi per la riqualificazione paesaggistica dell’area». Ad insaporire la pietanza, l’industriale argentino promette a Rossi un investimento di 170 milioni di euro che darebbe vita a 700 (sì, proprio 700!) posti di lavoro diretto e indiretto, e 120 per la realizzazione.
Vediamo cosa prevede la “valorizzazione”: col parere favorevole della sovrintendenza, la villa – malgrado il vincolo ex lege 1939 – sarà squartata in 36 eleganti suites dotate di ogni comodità postmedicea; negli annessi (manica lunga, falegnameria, ma anche conigliera e lavatoio) troveranno posto 59 lussuose camere; l’insieme delle case coloniche, ragguardevole per consistenza, sarà trasformato in 82 suites, per un totale di 164 posti letto. Medesima sorte per fienili e mulini, e per la canonica di Campiano. Un nuovo resort in località Santini sarà composto da 24 nuovi appartamenti costruiti ex novo mettendo a frutto le volumetrie dei demolendi silos; e poi piscine, biopiscine, saune, campi da polo, spazi espositivi. Per l’argentino sussiste tuttavia un unico, insopportabile, neo: la strada statale della Futa che attraversa l’insediamento monumentale.
La Regione si dimostra comprensiva e con solerzia prevede lo spostamento della viabilità in tre possibili varianti, a spese del contribuente (che non vedrà più la villa attraversando il Mugello) e, naturalmente, dell’ambiente rurale. A parte il comitato giallo “Cafaggiolo deve risplendere” che spinge per la realizzazione del resort, la cittadinanza (e la lista “LiberaMente a sinistra” ora in consiglio comunale a San Piero-Scarperia) si oppone a questa valorizzazione sui generis contravvenente all’art. 6 del Codice dei beni culturali, che con il termine “valorizzazione” intenderebbe la messa in valore sociale, la garanzia della fruizione collettiva del bene, e non l’esclusiva messa in valore economico con sottrazione alla vista del bene, come nel caso in esame. Il nuovo piano paesaggistico regionale, ora in discussione presso le commissioni regionali, rafforza le aspirazioni della cittadinanza mugellana prevedendo la salvaguardia dell’assetto insediativo di lunga durata, ivi compreso, da un lato il reticolo stradale storico, dall’altro l’assetto generale della fattoria che verrebbe stravolto dalla trasformazione estilo pampero. Di concerto, la riscrittura della legge urbanistica, in via di approvazione, impedirà ogni nuova ulteriore edificazione residenziale (e ricettiva) sui terreni agricoli, e comunque renderà oggetto di copianificazione di area vasta gli interventi di modifica a fini non residenziali in aree non urbanizzate.
La schizofrenia messa in scena nelle stanze della Regione Toscana offre dunque uno spettacolo sconfortante. E, dando respiro (per un pugno di posti di lavoro) al Progetto Cafaggiolo, rende impossibile perfino immaginare un progetto di conversione ecologicamente e antropologicamente sostenibile, sperimentabile sull’area. Speriamo che l’esempio mugellano non intacchi le sorti di un’altra fattoria storica, oggetto di interessanti tentativi partecipati dal basso: la fattoria di Mondeggi, proprietà della Provincia di Firenze, oggi in vendita per pochi spiccioli, questa volta schiettamente nel segno della politica renziana.
Riferimenti

Territorialmente è il bel portale della Rete dei comitati per la difesa del territorio, il cui focus è suklla Toscana ma lo sguardo aperto a tutto il paese

La costruzione dell'Arzanà dei vinissiani" iniziò mille anni fa. Dante ne scrisse 7 secoli fa nella Commedia. Oggi sembra che abbia inizio la distruzione di un complesso il cui valore culturale non è inferiore a quello del Colosseo romano o dell'Acropoli ateniese, ma forse ancora più importante di quei monumenti per la storia della città e del territorio di cui è parte. La Nuova Venezia, 29 maggio 2014

Mentre sta dando gli ultimi ritocchi al suo piano per le destinazioni d'uso delle varie aree comprese nel complesso dell'Arsenale, il Comune ha convocato per il 30 maggio un "workshop" o seminario di lavoro il cui titolo è "Scenari per il rinnovato uso e la gestione dell'Arsenale di Venezia" (traduco dall'annuncio originale, che è naturalmente in inglese). Al seminario sono invitate una dozzina di organizzazioni internazionali, che dovranno presentare idee e proposte. Ai partecipanti il Comune indica gli scopi ai quali intende mirare e che gli esperti dovranno tenere in mente: i "goals" del seminario.

Ci si aspetterebbe che il primo di tali scopi o intendimenti fosse qualcosa come: "Il totale rispetto e recupero del valore storico, culturale, di testimonianza e di bellezza costituito da questo complesso, unico al mondo e monumento tra i più prestigiosi del pianeta". Prima di tutto, insomma, una presa di coscienza dell'estrema delicatezza del compito. Ma no, il primo goal è questo: "Generare un dinamismo economico, sociale e culturale attraverso la creazione di nuove idee, nuove tecnologie e nuovi posti di lavoro". E così via per altri cinque punti su questo tenore.
Ma allora andiamo a guardare chi sono gli esperti invitati. Storici di Venezia? Professori di storia navale o dell'architettura? Conoscitori delle tecniche degli antichi arsenalotti? No, per carità. Sono dipendenti o titolari di una dozzina di imprese specializzate prima di tutto in attività di "real estate" ( investimenti immobiliari, seconde case, stime), nel settore di "media & communications", scienze digitali e "grande distribuzione organizzata, centri commerciali, Retail Park". Gli "esperti" faranno una visita guidata al mattino e si pronunceranno nel pomeriggio (15-17,30). Alla discussione sono invitati anche i principali portatori d'interesse ("stakeholders"), tra i quali un'associazione cittadina, il Forum Futuro Arsenale.
Ma chi sono gli altri? I soliti noti, che hanno "interessi" ben pesanti e consistenti nel futuro del complesso: prima di tutti il Consorzio Venezia Nuova, poi il Tethis (che appartiene al Consorzio, ma interviene anche in proprio), e poi Biennale, ACTV, Marina militare, Magistrato alle acque e, un po' sperduta in mezzo a ventisei convocati, anche la Soprintendenza ai Beni architettonici e paesaggistici. Nel frattempo l'Ufficio Arsenale del Comune (creato appositamente dopo la consegna dell'area da parte del Demanio marittimo) avrà stabilito le destinazioni d'uso delle varie zone (è già previsto che l'edificio dei "sommergibilisti" sarà destinato ad "attività ricettiva extra-alberghiera").
Tutto fa prevedere che, se non ci sarà un forte intervento della cittadinanza, nell'antico Arsenale sarà operata una manomissione in linea con quelle che stanno avvenendo nel Fontego dei tedeschi, trasformato in centro commerciale, nell'Ospedale al Mare, nella stessa laguna di Venezia con il passaggio delle grandi navi. Ci permettiamo di offrire un suggerimento per quanto riguarda i "goals", gli obiettivi ai quali dovrebbe fermamente mirare l'opera di rinascita dell'Arsenale. Chi ci entra deve prima di tutto percepire la Storia, che qui parla da ogni pietra e da ogni colonna, e la Bellezza, alla quale quasi inconsciamente miravano gli artefici delle tante sezioni del miracoloso complesso. Deve poter vedere la lunga sfilata di archi e colonne sotto le Tese (poi murata dagli austriaci e oggi "foderata" da contenitori di uffici, come se non ci fossero palazzi antichi a sufficienza in città per ospitarli).
L'Arsenale non è Pompei, è più che Pompei. È stato il centro della carpenteria navale europea per molti secoli, un luogo studiato, ammirato e invidiato che possiamo far rinascere quasi del tutto. Non merita di diventare un centro di "retail" e di "vibrant high quality experiences" come si chiede agli esperti dell "urban regeneration workshop".
Paolo Lanapoppi è vicepresidente Italia Nostra, Sezione di Venezia

Riferimenti

Si vedano su questo sito:
per Venezia e la Laguna
: le cartelle e nella vecchia e nella nuova edizione;
per la rigenerazione urbana l'articolo di Francesco Erbani
Basta costruire gli architetti ora rigenerano
e i materiali della Scuola di eddyburg.
La Repubblica, 28 maggio 2014 (m.p.g.)

La cruda eloquenza dei numeri ci dice che l'Italia, che fino al 2009 spendeva in cultura lo 0,9% del Pil, è calata allo 0,6% nel 2011, finendo così all'ultimo posto fra i 27 Paesi dell'Unione. Il 2012 conferma questo dato terrificante. Lieve incremento nelle regioni del Nord, quelle del Centro stabili sugli stessi valori, ma al Sud un ulteriore, drammatico calo In Europa l'Italia evidenzia il più alto disinvestimento nel decennio (meno 33,3%), più del doppio rispetto alla Grecia (meno 14,3%).

Intanto altri Paesi, dall'Olanda all'Ungheria, dalla Danimarca alla Slovenia, investono nel settore oltre 1'1,5% del Pil, e quasi tutti gli altri Paesi europei oscillano tra l'1 e l'1,5%.Tutt'altro che consolante la spesa in consumi culturali delle famiglie italiane, uno striminzito 7,2%, nettamente inferiore alla media europea (8,9%).Secondo dati del 2013, l'Italia è in fondo alla classifica per livello di partecipazione dei cittadini ad attività culturali 8%, un dato davvero imbarazzante a petto del 43% della Svezia, 36% in Danimarca, 34% in Olanda, e così via.La contrazione della spesa in questo settore è stata più pesante che in qualsiasi altro (siamo passati da 51,62 euro pro capite nel 2000 a 30,52 nel 2011 ), ma si è distribuita nelle diverse aree del Paese in modo non uniforme. Val d'Aosta, Friuli, Lazio e Sardegna fanno eccezione, ma tutte le altre regioni sono penalizzate da un disinvestimento rilevante, che colpisce specialmente le regioni del Sud, accentuando il divario storico dal centronord.

Le risorse aggiuntive (fondi strutturali e fondi comunitari), che privilegiano il Sud, sono tuttavia lontanissime dal colmare l'enorme gap che lo separa dal Nord, senza contare che in alcune regioni ( come Puglia e Sicilia) si è registrato dopo il 2009 un forte crollo della spesa aggiuntiva.«Un ulteriore fattore di differenziazione territoriale - scrive il Rapporto - è il ruolo assunto dalle Imprese Pubbliche Territoriali», a cominciare dalle Fondazioni il loro peso «è fortemente cresciuto nel decennio, nell'ambito del calo della spesa pubblica e di una maggiore articolazione della governance», ma con scarsissimo beneficio per l'intero Mezzogiorno (con la parziale eccezione della Campania ), e una forte concentrazione nel Centro-Nord.Nel 2011, il contributo delle Imprese Pubbliche Territoriali alla spesa totale nel settore cultura è pari al 22% nel Nord, al 18% al Centro, all'8% al Sud percentuale bassissima su una spesa complessiva gia assai ridotta, con effetti devastanti sul gia endemico squilibrio Nord-Sud.

«La cultura è tradizionalmente un asse strategico nelle dichiarazioni degli amministratori e dei politici - conclude il Rapporto - ma è al tempo stesso il primo oggetto di taglio di risorse in tutte le fasi di restrizione della finanza pubblica».L'analisi delle dinamiche di investimento e di spesa evidenzia che «lo sviluppo del settore necessita un'offerta pubblica in grado di stimolare la domanda, e ciò soprattutto nei territori caratterizzati da un grado inferiore di sviluppo sociale ed economico». E invece prevale «una visione del settore culturale come lusso per tempi felici, effimero rispetto ad altre esigenze».
Il Rapporto raccomanda «un solido miglioramento del contesto intersettoriale, dai trasporti alla sicurezza, dalla comunicazione alla semplificazione amministrativa»; «una chiara e lungimirante politica nazionale nell'ambito di una governance unitaria»; l'accorta gestione delle politiche di coesione «non solo per le risorse aggiuntive che garantiscono, ma per la capacità progettuale che richiedono»; infine, l'integrazione di risorse pubbliche e private, anche con strumenti di agevolazione fiscale. A quest'ultimo obiettivo risponde, nel decreto Franceschini recentemente varato, la nuova normativa sul mecenatismo, un passo avanti che però resterà lettera morta se non accompagnato da una forte e consapevole politica di nuovi investimenti che capovolga la perversa tendenza alla carestia perpetua, evidenziata dai dati ora emersi.

È vano fare la ruota elogiando qualità e quantità del nostro patrimonio culturale, sbandierando stolte vanterie (come la pseudostatistica, stancamente ripetuta da finti esperti d'ogni colore, secondo cui l'Italia avrebbe il 50, 60, 70% dei beni culturali del mondo ), se poi continuiamo a disinvestire e chiudiamo gli occhi per non accorgercene.

È vano sognare miracolosi interventi di privati, se non facciamo nulla per rilanciare le strutture pubbliche della tutela: che non sono, come talora si blatera, passive strutture di mera conservazione, ma enti di ricerca e conoscenza territoriale, fase ne cessaria per qualsivoglia "valorizzazione" che non sia vuota retorica e flatus vocis. Il Ministero dei Beni Culturali ha bisogno di riavere con estrema urgenza le risorse di cui è stato borseggiato dalla banda del buco Tremonti-Bondi nel 2008; ha bisogno di massicce nuove assunzioni di giovani preparati, in deroga a qualsiasi retorica del blocco della spesa pubblica; ha bisogno di nuove idee, e prima di tutto della coscienza condivisa che l'investimento nel settore, conforme alla Costituzione, non è un optional ma ingranaggio essenziale dell'orizzonte dei diritti, della costruzione dell'eguaglianza e della dignità della persona.

Il ministro Franceschini ha saggiamente ripudiato la volgare metafora del patrimonio culturale come "petrolio" d'Italia, e giustamente insiste sulle sue potenzialità. Ma per dispiegarle non occorrono né commissari né manager, genericissima qualifica che fino ad ora nulla ha prodotto nel settore se non sprechi e rovine, e che invece il decreto addita come soluzione salvifica, senza il minimo sforzo di spiegare perché. A fronte di risorse in calo, nessun manager di qualità sarà mai interessato a lavorare nel settore; e se uno ve ne fosse, non potrà che fallire.

Quando, invece che stracciarsi le vesti sulla cronica mancanze di risorse e inventare palliativi, il governo getterà sul tappeto il tema, perpetuamente rimosso, della gigantesca evasione fiscale che affligge il Paese, terzo al mondo per evasione dopo Messico e Turchia? Basterebbe recuperare un decimo dei 154 miliardi di euro l'anno di tasse non pagate, e come per incanto la scuola, i beni culturali, i servizi sociali potrebbero rifiorire.

proprietarie delle più belle dimore storiche tra i vigneti dell'Amarone». L'Espresso, 23 maggio 2014
Anche le le ville venete insorgono contro il cemento. Succede in Valpolicella, tra Verona e il Lago di Garda, in una zona doc che è famosa nel mondo per la qualità dei suoi vini, come l'Amarone e il Recioto. E per la bellezza del paesaggio, con distese di vigneti e ciliegi contornate da antichi muri in pietra, chiese romaniche, paesini storici e splendide ville nobiliari.

A partire dagli anni Sessanta, purtroppo, anche questa provincia veneta, come troppe parti d'Italia, è stata stravolta da un'ondata di nuove costruzioni speculative, con schiere di lottizzazioni-conigliere, orridi capannoni e mostruosi ipermercati, che hanno arricchito pochi affaristi danneggiando un territorio che è la vera ricchezza di tutti. Uno dei maggiori comuni della Valpolicella, Negrar, è diventato addirittura un luogo-simbolo di questi decenni di cementificazione insensata. Eppure proprio qui una giunta di centrodestra, ora in scadenza, ha varato un nuovo “piano di assetto del territorio” che minaccia di consegnare agli speculatori anche le ultime aree verdi, perfino nella frazione-gioiello di Arbizzano, tanto che le opposizioni lo hanno ribattezzato “piano d'assalto del territorio”.

Per cercare di salvare ciò che resta dell'ambiente e del paesaggio, da mesi si stanno mobilitando dozzine di associazioni civiche e comitati locali. Tra i cittadini più informati e sensibili c'è un ricercatore, Gabriele Fedrigo, autore di un libro-inchiesta che documenta decenni di orrori urbanistici, con un titolo eloquente: «Negrarizzazione: speculazione edilizia, agonia delle colline e fuga dalla bellezza». Nell'agosto scorso, di fronte ai nuovi progetti speculativi della giunta di destra, aggravati dalla scoperta di gravi casi di inquinamento industriale delle falde, Fedrigo ha affisso alle finestre della propria abitazione, a Negrar, due striscioni con queste scritte di protesta: «Basta cemento» e «Acqua e aria sane».

A fine aprile, l'amministrazione comunale ha reagito: il ricercatore si è visto notificare un avviso di apertura di un procedimento sanzionatorio, che gli contesta una pretesa violazione del regolamento comunale sul «decoro urbano delle aree scoperte». Come se a rovinare il paesaggio di Negrar fossero gli striscioni di protesta, anziché le colate di cemento o gli avvelenatori delle acque. Il singolare provvedimento, emesso a ridosso delle elezioni comunali del 25 maggio, si chiude con una diffida a rimuovere le scritte di protesta, sotto minaccia di multe salate. Alla rituale richiesta di presentare una difesa scritta, Fedrigo ha risposto comunicando che «la mia memoria difensiva è la Costituzione italiana, che tutela il paesaggio e la libertà di pensiero»: «Gli striscioni sono stati esposti come forma di manifestazione del mio pensiero, per esprimere la mia protesta e indignazione contro una politica di gestione del territorio palazzinara e devastante».

Il tentativo politico di zittire il ricercatore scomodo, proprio in coincidenza con la fase finale di una campagna elettorale che è diventata una specie di referendum pro o contro il cemento, ha scandalizzato molti cittadini. E tra i tanti indignati sono comparse, a sorpresa, alcune delle più nobili famiglie veronesi, proprietarie delle più famose ville storiche della Valpolicella. In breve, sulle splendide facciate di queste dimore secolari, sono comparse le stesse scritte di protesta, in aperta solidarietà con Fedrigo: «Basta cemento». Ora il tam-tam dell'iniziativa sta facendo il giro di Internet, dove cittadini e associazioni si scambiano una cartolina con la casa di Fedrigo contornata dagli striscioni di protesta comparsi sulle prime otto ville (come gli otto comuni della Valpolicella) che hanno raccolto la sfida contro la definitiva cementificazione del territorio.

Il Fatto quotidiano, 22 maggio 2014, con postilla

Difficile dimenticare un’alba tra le torri di San Gimignano, a buon diritto definita dall’Unesco (che nel 1990 ne ha incluso il centro storico nel patrimonio dell’umanità) un “capolavoro del genio creativo umano”. Ma se uno fa l’errore di rimanerci fino alle 11 di mattina, sarà indimenticabile anche l’invasione turistica che fa della cittadina medioevale della Val d’Elsa una piccola Venezia. Nei giorni di punta anche ventimila consumisti della vista marciano a passo di corsa lungo le due strade e nelle due piazze in cui consiste la meravigliosa ruota da criceti in cui si autoconfina questo rito di conformismo di massa. Quasi ventimila pullman e due milioni di auto fanno sbarcare – spesso dopo chilometri di coda – tre milioni di persone all’anno (anzi in otto mesi: perché dai Morti a Pasqua non c'è quasi nessuno) in un centro che conta poco più di mille residenti.

Qualche anno fa il costante aumento di queste cifre da capogiro aveva indotto l’Unesco a chiedere (inutilmente) un numero chiuso, per difendere i monumenti dall’usura: ma il vero problema non riguarda le pietre, riguarda la qualità della vita dei cittadini. Il sito web del Comune è una gigantesca excusatio non petita: “Se un viaggiatore, entrando in San Gimignano, avesse l’impressione che la dimensione prevalente è quella a misura di turista farebbe bene a ricredersi alla svelta”, perché “San Gimignano non è solo le sue splendide torri, né solo il tessuto urbano, o l’ingente patrimonio artistico che chiese, palazzi e musei conservano, ma è anche un corpo vivo e attivo”. Quel corpo è ancora vivo, sì: ma non lo sarà ancora per molto. Negli ultimi trent’anni, il centro storico ha perso due terzi dei suoi residenti: man mano che il turismo è diventato la monocultura economica e l’unica dimensione esistenziale, San Gimignano ha progressivamente perso i connotati della città per assomigliare sempre più a una quinta cinematografica, a una Disneyland del Medioevo, con tanto di ben tre ‘musei’ della tortura.

I paurosi prezzi delle case, la riduzione e l’omologazione delle professioni possibili, il bassissimo livello di un turismo da mezza giornata (quando va bene) mettono in fuga i giovani.

Tutto è per i turisti, e prima e dopo il loro grottesco turno (11-18) la città non c’è più: e fa davvero impressione sentirsi dire che la sera d'inverno, dopo le nove, l’unico posto pubblico in cui ci si può trovare per fare quattro chiacchiere è la lavanderia a gettone.

Di fronte a questa situazione, l’unica strada sarebbe coltivare un turismo di qualità, diversificare l’economia, e soprattutto ridare un senso civico e comunitario al patrimonio artistico. E invece che fa la giunta guidata dal Pd Giacomo Bassi? Affida per cinque anni tutti i musei comunali (seconda voce delle entrate del Comune, dopo i parcheggi) a Opera Laboratori Fiorentini, del gruppo Civita (presidente Gianni Letta): il più grande oligopolista del patrimonio italiano, che gestisce già – tra il molto altro – gli Uffizi e i musei di Siena. E questo vuol dire uscire dal circuito della ricerca ed entrare definitivamente in quello dell’intrattenimento di cassetta: vuol dire che vedremo a San Gimignano mostre trash profumate di Van Gogh e Caravaggio, come in qualunque altro non-luogo sfigurato dalla triste omologazione commerciale che opprime le nostre città d’arte. E così i ragazzi di San Gimignano avranno un motivo in più per andarsene. Chi ha capito benissimo la situazione sono i cinesi. La multinazionale ForGood ha deciso di costruire un’altra San Gimignano nei sobborghi di Chongqing, uno degli agglomerati urbani maggiori del mondo (circa 33 milioni di abitanti).

Avete capito bene: 253 ettari saranno impiegati per ‘ricreare’ un angolo di paesaggio toscano – con tanto di colline e di piante tipiche, viti incluse – che ospiterà una San Gimignano 2: non una copia esatta, ma una sorta di generica cittadina toscana “medioevale” con torri. L’allucinante iniziativa è stata presentata ai cittadini di San Gimignano dagli architetti dello studio pisano che sta seguendo il progetto, i quali l’hanno descritto come “un nuovo incredibile centro turistico, con la nostra atmosfera artistico culturale: un'esperienza commerciale unica”. Già, perché i cinesi hanno intuito che copiare San Gimignano non vuol dire copiare una città, ma un centro commerciale medioevale, un outlet della storia, un mall della “cultura” senza veri abitanti, ma solo con clienti. La domanda è: hanno preso un abbaglio o hanno, tragicamente, capito quello che sta succedendo?

Domenica si vota anche nella cittadina toscana: una buona occasione per invertire la rotta. Forse l’ultima: prima che San Gimignano diventi la copia della sua copia cinese.

postilla
Luigi Scano definiva "razionamento programmato dell'offerta turistica" all'inizio degli anni Ottanta, una politica del turismo volta a definire (e a tradurrre in regole e azioni) un equilibrato rapporto tra la capacità di carico delle risorse e le presenze di visita e soggiorno, di estendere la fruizione a tutte le numerosissime aree ricche di qualità ambientali e paesaggistiche e di evitare che l’unica discriminante alla fruizione sia quella del reddito.

Il Fatto Quotidiano, 20 maggio 2014

La riforma della P.A. annunciata dal premier Matteo Renzi e dalla ministra Marianna Madia prevede di superare i “blocchi” dei pareri paesistici e delle Soprintendenze (“dobbiamo ridurre i casi in cui il parere serve”, ha detto Renzi). La filosofia sottostante è quella espressa da Giovanni Valentini su Repubblica: le soprintendenze “troppo spesso” sarebbero “di freno e ostacolo allo sviluppo”. Galoppando su questa linea, che si potrebbe chiamare delle mani (libere) sul territorio, alcuni senatori del Partito Democratico hanno usato la legge di conversione del cosiddetto Decreto Casa (sarà approvata definitivamente oggi, dopo che ieri la Camera ha detto sì alla questione di fiducia del governo) per imbucare un articolo che allarga la possibilità - già concessa dal lettiano decreto del Fare - di installare ovunque “case mobili” senza chiedere alcun permesso di costruire.

Così le piazzole per tende dei campeggi di tutta Italia potrebbero trasformarsi per incanto in altrettante schiere di casette e bungalow: e, chissà, un domani potrebbero mettere radici e trasformarsi in vere case di vero cemento. Molte recenti sentenze dei Tar, del Consiglio di Stato e della Cassazione hanno invece ribadito che se questi insediamenti sono permanenti (per esempio attraverso l’allaccio alle reti idriche, energetiche e fognarie ), essi incidono sul territorio e dunque devono passare attraverso tutti i vagli di legge. Al contrario, l’emendamento del Pd permette di fare esattamente quel che sognano Renzi e Madia, e cioè aggirare piani regolatori, piani paesaggistici e vincoli e costruire ovunque: perfino nei parchi nazionali o in aree archeologiche. Un parere dell’Ufficio legislativo del Mibac ha cercato di circoscrivere le nefaste conseguenze di questo punto del decreto del Fare, chiarendo che le autorizzazioni paesaggistiche non possono essere omesse: ma si tratta pur sempre solo di un parere, e questa nuova riscrittura della legge rischia di aprire un grosso varco. Un varco alla costruzione di strutture ufficialmente mobili, è vero: ma la storia italiana insegna che non c’è niente di più stabile dell’effimero. E le nostre pinete e le nostre coste non hanno certo bisogno di un’ondata di urbanizzazione selvaggia.

Il simpatico grimaldello distruggi-paesaggio, introdotto in Senato, da oggi sarà legge grazie alla scelta del governo di includerlo nel pacchetto sottoposto a duplice voto di fiducia, che rende nere tutte le vacche nella notte della democrazia. I promotori sono stati quattro senatori pd: Stefano Collina, primo firmatario, eletto in Emilia Romagna, Mario Morgoni, eletto nelle Marche, Andrea Marcucci e Manuela Granaiola, entrambi eletti in Toscana ed entrambi firmatari nel novembre scorso di un emendamento che aveva l’obiettivo di vendere ai proprietari degli stabilimenti balneari le spiagge demaniali che hanno in concessione per “contribuire al risanamento dei conti pubblici”. Un provvedimento che hanno poi dovuto ritirare, sommersi dall’onda di sdegno suscitata da un’idea di svendita dei beni comuni tanto intimamente berlusconiana.

È da notare che Marcucci (già Pli, già Lista Dini, già Margherita, ora renziano di ferro) è stato sottosegretario ai Beni culturali (e dunque anche al paesaggio) ed è ora nientemeno che presidente della commissione Cultura del Senato. Difficile liquidare questa uscita come l’iniziativa estemporanea del primo che passa: è invece un segno del fatto che la “Svolta buona” di Renzi rischia di avere un inconfondibile color cemento. E c’è da chiedersi se non sia proprio a causa di questo orientamento “maniliberista” del senatore Marcucci se la commissione del ministero per i Beni culturali (presieduta da Salvatore Settis, che certo ha un altro orientamento) che dovrebbe revisionare il Codice dei Beni culturali e del paesaggio non sia ancora riuscita, dopo nove mesi dalla nomina, ad avere la delega dal Parlamento.

Il caso è stato sollevato pubblicamente dal consigliere nazionale di Italia Nostra Emanuele Montini, e inutilmente nelle ultime ore il blog Carteinregola (che riunisce centotrenta associazioni e comitati romani) ha scritto ad ogni deputato “sperando che qualche politico di buon senso, come è già successo per la privatizzazione delle spiagge,faccia sentire la voce dei cittadini più forte di quella delle lobbies”.

Antonio Cederna non si stancava di ripetere che bisogna stare attenti “perché sennò ci strappano il territorio da sotto i piedi, perché l’Italia è il Paese più provvisorio che ci sia”. È ancora così. Il Paese è terribilmente provvisorio, ma le case provvisorie di cui Marcucci & c. vorrebbero coprirlo rischiano, invece, di essere eterne.

Riferimenti

Sull'argomento vedi su eddyburg gli articoli di Annamaria Bianchi e, dal manifesto, di Paolo Berdini.

Stasera la banca d’affari newyorchese Morgan Stanley accoglierà i suoi danarosissimi ospiti per una cena ultraesclusiva (organizzata dall’albergo di lusso Four Seasons) nel Cappellone degli Spagnoli, che è la sala capitolare trecentesca di Santa Maria Novella a Firenze. Si chiama così perché, a metà del Cinquecento, divenne la cappella dove si riunivano gli spagnoli del seguito di Eleonora di Toledo, moglie del granduca Cosimo I. È, insomma, una chiesa – con tanto di grande crocifisso marmoreo sull’altare – completamente coperta di affreschi che raccontano la spiritualità e le opere dell’ordine mendicante fondato da San Domenico.

La brillante idea di usarla come location al servizio della grande finanza responsabile della crisi è del vicesindaco e candidato a sindaco Dario Nardella: la cappella è, infatti, compresa nel circuito museale comunale. Rispettando più il desiderio di discrezione del gruppetto di super-ricchi che non il diritto dei cittadini a essere informati dell’uso del loro patrimonio monumentale, il Comune ha tenuto finora segreto l’evento. Ma si apprende che il beneficio economico sarà minimo: meno di 20 mila euro, che dovrebbero essere destinati al restauro di un’opera d’arte. La precipitosa e silenziosa organizzazione della serata – gestita direttamente da Lucia De Siervo, responsabile della Direzione cultura di Palazzo Vecchio e membro del cerchio magico renziano – potrebbe comportare la temporanea chiusura della chiesa di Santa Maria Novella (eventualità che ha fatto infuriare il Fondo Edifici di Culto del ministero dell’Interno, proprietario del tempio), e obbligherà a collocare le cucine in un chiostro del convento ancora di proprietà dei frati, all’oscuro di tutto.

Nardella, evidentemente, non cambia verso rispetto a Renzi: l’unico uso del patrimonio pubblico è ancora quello commerciale. Ma vista la grottesca esiguità del canone, è evidente che il vero movente è piuttosto quello di disporre di queste location per costruire e consolidare la rete dei rapporti politici ed economici del gruppo dirigente renziano, assai proclive a frequentare la più spregiudicata finanza internazionale. Colpisce che il connubio chiesa-lusso-affari non turbi i sonni di politici che non perdono occasione per esibire il proprio cattolicesimo. Negli affreschi del Cappellone i milionari vedranno San Domenico, ardente di amore per la povertà, che converte e confessa coloro che vivono nel lusso: ci si riconosceranno? Poco più in là vedranno rappresentato il trionfo di San Tommaso d’Aquino, il grande filosofo medioevale che scrisse che “il lucro non può essere un fine, ma solo una ricompensa proporzionata alla fatica”, e che “nessuno deve ritenere i beni della terra come propri, ma come comuni, e dunque deve impiegarli per sovvenire alle necessità degli altri”. Chissà cosa avrebbe pensato se avesse saputo che la sua immagine dipinta avrebbe un giorno decorato la location di un banchetto per i super squali che hanno costruito la più grande disuguaglianza della storia umana.

Il prossimo passo quale sarà? Far sfilare modelle in biancheria intima su un altare? Ma si è già fatto, e proprio a Firenze: in Santo Stefano al Ponte, con la benedizione della Curia. Si arriverà a prestare pezzi di chiese gotiche a centri commerciali? Già fatto anche questo: Oscar Farinetti ha appena annunziato che porterà un pezzo del Duomo di Milano nel suo supermercato sulla Fifth Avenue, a New York, per la precisione “due guglie”. E sì, la Veneranda Fabbrica del Duomo (quella che voleva mettere un ascensore per fare una terrazza da aperitivi sul tetto della Cattedrale) gli presta due guglie da tempo musealizzate, con relative statue di santi. Non per un progetto scientifico, ma come attrazione: insieme a quattro di quelle che Farinetti ha chiamato “grondaie” (le gronde gotiche), e a quella che ha definito “una statua di Santa Lucia incinta”. Ora, Santa Lucia era vergine e finì martire: ma incinta non risulta, e probabilmente l’esuberante Farinetti ha frainteso la veste goticamente cinta sotto il seno della bellissima Santa Lucia del Maestro del San Paolo Eremita, che verrebbe strappata al circuito del Museo del Duomo. Ma il punto non è la gravidanza della statua, né la cultura del patron di Eataly: il punto è chiedersi se abbia senso portare pezzi di una grande chiesa medioevale in un supermercato di cibo a New York, o far banchettare i banchieri in una chiesa del Trecento.

Il Vangelo dice che non si può servire a due padroni, e che si deve scegliere tra Dio e il denaro: bisogna riconoscere che sia la Veneranda Fabbrica sia Nardella hanno scelto. Ma anche chi non ha scrupoli religiosi dovrebbe preoccuparsi per la distruzione della funzione civile del patrimonio culturale. Chi crede nel marketing dovrebbe interrogarsi sulla ridicola entità degli utili, e chi immagina che questa privatizzazione sia la via del futuro dovrebbe farsi qualche domanda sulla mancanza di trasparenza. Gli unici che in nessun caso avranno dubbi sono i pochissimi che ci guadagnano: questo è certo.


Mentre volge al termine questa bella giornata di sole e di democrazia, – questa giornata civile in cui centinaia di persone scendono in piazza, come ha detto Giovanni Losavio, per chiedere restauri! – vorrei per prima cosa ringraziarvi tutti. Vorrei ringraziare coloro che ne hanno avuto l'idea: e cioè Maria Pia Guermandi e Giuseppina Tonet, di Italia Nostra. E tutta Italia Nostra; Nicoletta Arbìzzi, presidente dell'Associazione Nostra Mirandola e nostra guida stamani: specialissimo genius loci di questa terra e dei suoi vivi monumenti. Vorrei ringraziare Santa Nastro, che ci ha aiutato generosamente a comunicare questa giornata, e tutti coloro che ci hanno accolto e ristorato con generosità, e vorrei dire con affetto.
Tutte le altre associazioni che hanno aderito: ANISA, Bianchi Bandinelli, Comitato della Bellezza, Eddyburg, il FAI. Gli organi di tutela dell'Emilia: nostri principali interlocutori.E Massimo Bray, che ha voluto essere qua con noi. E il cui mandato da ministro è stato uno dei pochi motivi di speranza per il nostro patrimonio.

Vorrei infine ringraziare tutti gli oratori che hanno appena parlato, e voi tutti che oggi siete qua.All'Aquila – l'Aquila, a cui va il nostro saluto e il nostro continuo pensiero – abbiamo riascoltato le parole di Roberto Longhi con le quali proprio ha poco fa concluso il suo intervento Salvatore Settis.
Qua a Mirandola vorrei iniziare con altre parole, scritte più o meno negli stessi anni da un altro protagonista dei nostri studi umanistici.Dopo l'8 settembre del 1943 Augusto Campana non riuscì a rientrare a Roma, dove lavorava come scriptor della Biblioteca Apostolica Vaticana. Così, egli rimase nella sua Romagna fino alla Liberazione. Ma non si chiuse a studiare tra altri libri. Quasi ogni pomeriggio egli percorse in bicicletta i 18 chilometri che separano Sant'Arcangelo da Rimini: per sapere cosa fosse successo alle amatissime pietre di Rimini, minacciate, scomposte, distrutte dalle bombe. Egli tenne un diario, oggi edito appunto con il titolo Pietre di Rimini, che andrebbe fatto leggere ad ogni studente di Lettere del primo anno.Ve ne leggo solo una pagina:

«30 gennaio 1944, domenica. Le voci giunte a Sant'Arcangelo sul Tempio Malatestiano sono catastrofiche. Andiamo a Rimini. Il Tempio è aperto, e gente e operai vanno e vengono. Si tratta, salvo errore, di una sola bomba, caduta fortunatamente sulla parte posteriore della chiesa, che è crollata in gran parte, fino alle arcate gotiche aggiunte: nessun danno sostanziale alla parte originale, ma sbertucciature, anche ai bassorilievi. Lo spostamento d'aria ha scoperchiato totalmente il tetto, di cui rimane la sola travatura, ha distrutto il bussolone di legno alla porta d'ingresso e ha aperto la porta della cella delle reliquie (qui è intatto l'affresco di Piero della Francesca). Danni non gravi alla tomba di Sigismondo, scoperchiata dal contraccolpo il 28 dicembre. Vedo le ossa scoperte, tra calcinacci e frammenti ... Una nuova perdita grave è la casetta del Rinascimento in Via Gambalunga, un vero gioiello e un monumento a me carissimo, al quale penso da tanti anni, e con Gino Ravaioli siamo d'accordo di illustrarlo, se le mie ricerche storiche giungeranno in porto. Colpita in pieno la casetta, più che metà della facciata è crollata. Anche qui il problema è di raccogliere accuratamente i frammenti architettonici; la ricostruzione è indispensabile».

È una pagina dove ritroviamo tutti i fili che oggi ci hanno condotto qua. Campana non era un architetto, un urbanista, uno storico dell'arte. Non era un funzionario di soprintendenza. Era un umanista, un epigrafista, un filologo: ma non si curava solo di incunaboli, lapidi, manoscritti. Si curava del contesto, del palinsesto unico che circonda, accoglie, plasma le nostre vite.Era un cittadino: ed è per questo che aveva a cuore le pietre della sua citta.Ancora. Campana ccorre al Tempio Malatestiano, certo. Ma si china in egual modo sulla casetta di Via Gambalunga. Sa che ciò conta è il tessuto continuo, la relazione tra le cose, il contesto.Raccoglie i frammenti, e li connette ai suoi studi.E, soprattutto, non ha alcun dubbio: «la ricostruzione è indispensabile». In quei mesi terribili, questa è l'unica certezza. L'Italia, Rimini, sarebbero risorte com'erano e dov'erano. Era la certezza da cui scaturì la Costituzione, con il suo articolo 9. La Repubblica tutela: una «rivoluzione promessa», avrebbe detto Piero Calamandrei. Una promessa che sta a noi mantenere.

Oggi siamo qua nello spirito di Augusto Campana. Coscienti che gli storici dell'arte hanno smesso di occuparsi di architettura, felici di baloccarsi con le loro opere mobili. Che gli architetti non sanno e non vogliono saper nulla di urbanistica, presi dai loro disegni irrelati e irresponsabili. Che gli urbanisti rigettano la dimensione politica del loro lavoro. I nostri studi ci hanno costretto in una crescente segregazione. Le nostre soprintendenze hanno diviso le loro competenze in modo tale che ormai tra gli affreschi e i muri che li sostengono passano confini guardati col filo spinato.

Sappiamo che tutto questo è vero: ma sappiamo anche che ciò che è successo all'Aquila, ciò che è successo in Emilia, qua a Mirandola, ci costringe a ricordare che il nostro testo comune è la città. Questo il nostro oggetto di studio, questo il campo della nostra tutela. Se vogliamo riconquistare la capacità di incidere sulla politica, dobbiamo ricominciare ad occuparci della polis. Ed è per questo che oggi siamo qui.Uno degli episodi più luminosi del post-sisma è stata la creazione, all'interno del Palazzo Ducale di Sassuolo, di un Centro di raccolta e cantiere di primo intervento sulle opere mobili danneggiate: un centro organizzato in modo esemplare, coordinato da Stefano Casciu, soprintendente di Modena e diretto da Marco Mozzo, funzionario della stessa soprintendenza: che sono lieto di salutare. Ma se oggi siamo qua è perché la stessa attenzione non è toccata agli edifici che contenevano quelle opere. La grandissima pala d'altare della Chiesa del Gesù di Mirandola è oggi al sicuro a Sassuolo. Ma è la chiesa del Gesù a non essere al sicuro. Dopo due anni è ancora scoperchiata, e ingombra di macerie, arredi, decorazioni. Non è in sicurezza, e dunque è impossibile svuotarla: ma dopo due anni è impossibile accettare che non sia in sicurezza. Mancano soldi? Personale?

Qualunque sia il punto, siamo qua per dire ai nostri amici degli organi di tutela emiliani: ditecelo, ditelo in pubblico, sollevate il problema. Permetteteci di aiutarvi a salvare il nostro patrimonio. Non trasformatevi in una controparte dei cittadini che chiedono di riavere i loro monumenti. Siamo dalla stessa parte.Anzi. Vorremo che questa giornata fosse anche una giornata di solidarietà – vorrei dire di amore – verso le soprintendenze italiane. I 44 punti della cosiddetta rivoluzione della Pubblica Amministrazione appena annunciata dal governo di Matteo Renzi prevede l'«accorpamento delle sovrintendenze e gestione manageriale dei poli museali» e la presenza di «un solo rappresentante dello Stato nelle conferenze di servizi, con tempi certi»: e siamo certi che quel rappresentante non sarà un soprintendente. Perché, cito il presidente del Consiglio, occorre «superare i "blocchi" dei pareri paesistici e delle Soprintendenze: dobbiamo ridurre i casi in cui il parere serve». Ecco che il linciaggio delle soprintendenze iniziato su quello che fu un grande giornale di sinistra acquista ora una chiara chiave di lettura: siamo evidentemente alla resa dei conti con l'unica magistratura che, tra mille difficoltà, cerca di salvare quel che rimane del paesaggio e dell'ambiente italiani.

Siamo molto dispiaciuti che oggi non sia tra noi il ministro per i Beni culturali, Dario Franceschini: che abbiamo ripetutamente invitato.Ci avrebbe fatto piacere chiedergli da che parte sta: con il suo presidente del consiglio, o con le sue soprintendenze? Non so voi, ma io non l'ho ancora capito.In ogni caso noi lo sappiamo, da che parte stiamo. E oggi vogliamo dirlo chiaro e forte: siamo con le donne e con gli uomini che ogni giorno lavorano esemplarmente nelle trincee dei nostri organi di tutela.È per questo che abbiamo voluto invitare il Direttore regionale per i beni culturali dell'Emilia Romagna, Carla Di Francesco. Per ribadire il nostro profondo rispetto per il sistema della tutela. E insieme per chiedere ascolto.Siamo vicini – o almeno lo speriamo – al momento in cui le soprintendenze architettoniche e la direzione regionale dovranno varare i progetti per la ricostruzione del patrimonio monumentale. Ebbene, in questi due anni si sono moltiplicati i segnali che ci hanno allarmato. L'astratta dottrina di alcuni teorici del restauro si è saldata ai concreti interessi di alcuni costruttori: nel cercare di far passare un messaggio che giudichiamo eversivo, quello per cui bisognerebbe, sì ricostruire il patrimonio dov'era, ma non com'era.

Al Salone del Restauro di Ferrara del 2013 lo stand del Ministero per i Beni Culturali si intitolava «Dov'era ma non com'era»: questa era la linea della ricostruzione. Il testo ufficiale, firmato proprio da Carla Di Francesco e stampato su grandi pannelli, si concludeva affermando: «di considerare questo evento drammatico come un'opportunità. L'opportunità di affermare una cultura architettonica della ricostruzione capace di prendere le mosse dalla reale situazione e consentire la coesistenza tra le preesistenze e gli edifici contemporanei, l'attualizzazione del bene culturale laddove era, dando ad esso nuovi significati vitali».Ecco, cara dottoressa Di Francesco, glielo diciamo con estrema, ma garbata, franchezza: vorremmo che nessun responsabile della tutela definisse il terremoto un'opportunità.Gli interventi che mi hanno preceduto hanno dimostrato perché rinunciare al com'era e dov'era sia un errore: un errore tecnico, architettonico, urbanistico, giuridico, storico-artistico.Se nel 1945 si fossero considerate le distruzioni della guerra un'opportunità, oggi vivremmo in città storiche largamente rifatte negli anni cinquanta: e non saremmo più felici. Equesto ci insegna a guardare, oggi, al di là del feticismo dell'edificio 'originale': a guardare invece al contesto, al tessuto, alla funzione civile e sociale dei nostri centri storici.

Ma accanto alle fondamentali ragioni culturali, ce ne sono altre: ancora più profonde. E sono quelle dei cittadini, di coloro che fanno parte della comunità ancorata a quei monumenti e a quel territorio.In un momento in cui l'unico sguardo che sappiamo posare sui nostri monumenti è uno sguardo economico è legittimo credere che i monumenti emiliani non siano stati restituiti a noi perché non sono monumenti di rilevanza turistica. Non sono Venezia, non sono Firenze: e dunque, cosa abbiamo da guadagnare nel restaurarli?Ecco: oggi siamo qua a dire che quei monumenti vanno restaurati e riaperti perché sono la riserva di futuro delle comunità che vivono intorno ad essi. E che quella comunità non è solo quella emiliana, ma è quella italiana: come dicemmo all'Aquila un anno fa, l'Emilia è un grande problema italiano.

Ed è importante aggiungere una cosa. Una parte rilevante, forse preponderante, di questo patrimonio è costituita da chiese: da luoghi di culto della religione cattolica. Noi non crediamo che il restauro di queste chiese sia un problema del clero cattolico. È un problema nostro. Perché non crediamo che quei luoghi siano proprietà solo della comunità cristiana che vi prega.La Repubblica tutela non solo il patrimonio in sé, ma la sua appartenenza alla Nazione: ogni cittadino, membro della nazione e sovrano è così proprietario dell’intero patrimonio nazionale, senza altre limitazioni. È per questo che un cittadino italiano di religione musulmana o semplicemente ateo possiede San Francesco di Mirandola non meno del prete che la officia.La chiesa del Gesù, sempre qua a Mirandola, era tenuta aperta da oltre dieci anni non dal clero, ma dall'associazione Nostra Mirandola. C'è una funzione nuova del patrimonio ecclesiastico: che non nega la sua sacralità, ma la integra con valori laici, costituzionali, repubblicani.

Chi impara a parlare la lingua di queste chiese storiche non abbraccia la storia delle istituzioni occidentali o la religione cattolica, e nemmeno la storia dell’arte italiana, ma i valori inclusivi, tolleranti e aperti della Costituzione. Non si vincola alle «radici» della identità collettiva italiana, ma accetta di fluire nelle acque – felicemente impure, mescolate, contaminate – della tradizione italianaIl patrimonio artistico è dunque divenuto un luogo dei diritti della persona, una leva di costruzione dell’eguaglianza, un mezzo per includere coloro che erano sempre stati sottomessi ed espropriati. È difficile capirlo perché nessuno, nemmeno a sinistra, ha inteso il Ministero per i Beni culturali come un ministero per i diritti. Alla sua nascita lo si è inteso come ministero per il Patrimonio, cioè per le «cose» da difendere; all’epoca di Veltroni lo si è voluto «per le Attività culturali» (cioè per lo svago e per il tempo libero); il governo Letta l’ha reso anche per il Turismo (anzi, del Turismo), e c’è chi lo vorrebbe astrattamente «della Cultura».Ma, almeno nei fatti, il Ministero per i Beni culturali dovrebbe essere, invece, un ministero per i diritti della persona: come quello della Salute, come quello dell’Istruzione. Un ministero che lavori per garantire l’accesso di ogni cittadino al patrimonio: innanzitutto l’accesso materiale, ma soprattutto quello conoscitivo, intellettuale, culturale. Un ministero che sia capace di tutelare l'integrità del patrimonio che appartiene anche a chi non ha nient'altro: e cioè il paesaggio e il patrimonio della nazione.

Cicerone racconta che Verre, corrotto governatore della Sicilia, ingiunse al Senato di Segesta di donargli una grande statua di Diana che era stata razziata dai Cartaginesi, e che Scipione l'Africano aveva riportata in Sicilia e collocata di fronte ad un tempio su un piedistallo che raccontava questa storia eroica. La perdita di quell'insieme di arte, memoria collettiva e storia era era potuta avvenire solo «magno cum luctu et gemitu totius civitatis, multis cum lacrimis et lamentationibus virorum mulierumque omnium».Ecco, questo è il messaggio che oggi parte da Mirandola: è il momento di ricostruire il patrimonio monumentale dell'Emilia dov'era e com'era. Perché lo dice la Costituzione, perché lo dice la legge, perché lo dice la nostra storia, perché lo chiedono i cittadini. Perché la forma dei nostri luoghi possa ancora dare forma alla nostra comunità, aiutarci a ricostruire la nostra democrazia. Perché ogni ferita al patrimonio dobbiamo piangerla «con un gran lutto e con il pianto di tutta la comunità, con molte lacrime di tutti gli uomini e di tutte le donne». Perché non sono degli oggetti ad esser feriti: sono i nostri diritti, la nostra democrazia, il nostro futuro.

Ed è per questo che l'Emilia monumentale distrutta dal terremoto va ricostruita dov'era e com'era.
Ora. Senza se e senza ma.

«Lo sciacallaggio intensivo del Rinascimento è l’unica economia della città, e guai a chi dice che ormai la vacca non solo stramazza dalle mungiture, ma è anzi prossima alla macellazione o sciacallaggio intensivo del Rinascimento è l’unica economia della città, e guai a chi dice che ormai la vacca non solo stramazza dalle mungiture, ma è anzi prossima alla macellazione». Il Fatto Quotidiano, 3 maggio 2014

«Gli Uffizi sono una macchina da soldi, se li facciamo gestire nel modo giusto», ha dichiarato Matteo Renzi il 29 novembre 2012. A giudicare da quel che si è visto giovedì sera a Servizio Pubblico, almeno quest’unico punto del programma dell’ex sindaco di Firenze si è avverato: nel celebre palazzo vasariano, un invalicabile muro di corpi traspiranti preclude ogni possibilità di vedere le opere d’arte.

Il limite di sicurezza prevede la compresenza di 980 persone al massimo. Nelle scorse settimane, dipendenti e giornalisti ne hanno contate invece almeno fino a punte di 3.500. Meglio non chiedersi cosa sarebbe successo nel caso di un’evacuazione d’emergenza. No, è una novità: negli ultimi anni si sono susseguiti esposti e denunce, soprattutto da parte dei sindacati dei dipendenti, ma senza sortire alcun effetto: lo sciacallaggio intensivo del Rinascimento è l’unica economia della città, e guai a chi dice che ormai la vacca non solo stramazza dalle mungiture, ma è anzi prossima alla macellazione. Ci vogliono un Leonardo distrutto o un turista morto per far capire che gli Uffizi sono sul punto di esplodere?

La faccia della soprintendente Cristina Acidini, di fronte alle telecamere di Santoro, è la risposta: non sento, non vedo, non parlo. D’altra parte, un processo della Corte dei conti chiede 600.000 euro di danno erariale alla signora, che nel 2009 ha fatto comprare allo Stato un crocifisso ligneo attribuito a Michelangelo e prezzato da lei stessa. E se nessuno dei cinque ministri che si sono succeduti da allora ha pensato bene di destinarla ad altro incarico è anche perché la Acidini garantisce il rapporto di ferro che lega il Polo Museale al concessionario, che è Opera Laboratori Fiorentini, di Civita Cultura (presidente Luigi Abete), a sua volta parte di Associazione Civita (presidente Gianni Letta). Tanto che il portavoce del concedente (cioè il Polo Museale) è un ex giornalista del Giornale della Toscana di Denis Verdini, ora dipendente di Opera: un portavoce a cui la Acidini ha addirittura consentito di curare un’incredibile mostra di documenti storici a Palazzo Pitti.

Il legame tra Opera e Polo è ormai cementizio: la concessione risale nientemeno che al 1996, ed è andato avanti di proroga in proroga, alla faccia della libera concorrenza. Ed è Opera a staccare i biglietti per gli Uffizi, e dunque a governarne gli accessi e a decidere la sorte delle opere, la condizioni della visita, lo stato reale della sicurezza. In verità, la legge Ronchey prevede che si possa (ma non che si debba) cedere a un privato for profit come Opera la biglietteria di un museo come gli Uffizi. E le immagini di Servizio Pubblico dimostrano che non è una buona idea dare le chiavi del nostro patrimonio culturale a chi non ha altra bussola che il proprio profitto. Perché il risultato è la socializzazione delle perdite e la privatizzazione degli utili: incassando a percentuale, il concessionario ha interesse a farcire il museo come il tacchino del Ringraziamento, senza curarsi dell'usura delle opere, del drastico abbassamento della qualità della visita, e del rischio sicurezza.

E non è solo un problema di biglietti. Nello scorso dicembre, i lavoratori del Polo hanno contestato la decisione dell'Acidini di affidare le visite guidate del Corridoio Vasariano alla solita Opera. Essi fecero notare che i dipendenti pubblici erano più che capaci di gestire da soli la cosa, il che avrebbe evitato le assurde tariffe del servizio privatizzato con Civita: 34 euro a prezzo pieno, 25 il ridotto e 16 il... gratuito! Ma nonostante tutto, si continua a perseverare sulla strada della “macchina da soldi”. Nemmeno le immagini girate in galleria hanno indotto Philippe Daverio (ospite di Santoro) a cogliere il punto: il noto divulgatore ha pensato bene di ripetere che gli Uffizi dovrebbero fare i numeri del Louvre. Qualcuno dovrebbe spiegargli che il Louvre è quasi 12 volte più grande degli Uffizi per dimensioni fisiche e ha un numero di opere d'arte che è circa 76 volte quello degli Uffizi. Considerando che i visitatori del Louvre sono solo 5 volte più di quelli degli Uffizi, dovremmo piuttosto meravigliarci che non ci sia stato ancora il morto. Al contrario, nei 44 punti che strutturano la sua “rivoluzione” della Pubblica amministrazione, Renzi ha incluso l'idea di introdurre “una gestione manageriale nei poli museali”: il che vuol dire continuare a badare solo ai profitti (sperando almeno che siano pubblici), e non alla sostenibilità culturale e alla sicurezza dei lavoratori e dei visitatori dei musei. Chissà se Renzi si è mai chiesto perché da 20 anni gli Uffizi non appartengono più ai fiorentini, che ci mettono piede solo da bambini e poi si tengono alla larga da quella specie di pericoloso bagno turco sontuosamente decorato.

Il manifesto, 3 maggio 2014 (m.p.r.)

L’identità di un popolo si fonda, da una parte, sul vin­colo di valori comuni e, dall’altra, sull’ accet­tazione di un pas­sato con­di­viso. La memo­ria cul­tu­rale fa da ponte con l’oggi, favo­rendo – secondo la defi­ni­zione dell’egittologo tede­sco Jan Ass­man – la «strut­tura con­net­tiva» di una società. La rimo­zione del ricordo, dun­que, ci rende non solo più poveri di sapere ma ci con­danna a una pena ben più one­rosa: la per­dita del senso di appar­te­nenza, l’incapacità di tra­sfor­mare l’immagine del sé in noi. Tale pro­cesso, osser­va­bile anche nell’Italia che boi­cotta gli studi clas­sici e svi­li­sce il suo patri­mo­nio storico-artistico, è ancor più accen­tuato in paesi dove una tri­ste sequenza di con­flitti e atti ter­ro­ri­stici ha lasciato ferite aperte e traumi inde­le­bili, che si vor­reb­bero can­cel­lare con l’artificio della menzogna.

Camus in cerca di radici.
In Alge­ria, l’instaurazione di un’ideologia nazio­na­li­sta post-indipendenza, ha por­tato al disco­no­sci­mento dell’eredità romana, nega­ti­va­mente asso­ciata alle esplo­ra­zioni otto­cen­te­sche delle truppe fran­cesi e al rap­porto – spesso infe­lice – tra il Magh­reb e l’Europa. Il rifiuto delle radici latine è fun­zio­nale all’elaborazione di un’identità fit­ti­zia, che prende le distanze dal colo­nia­li­smo ed esclu­dendo dalla pro­pria Sto­ria i non-arabi e i non-musulmani, pro­voca una muti­la­zione cul­tu­rale. Quella che Albert Camus – agli inizi della sua car­riera let­te­ra­ria – ebbe l’ansia di col­mare, resti­tuendo la con­so­la­zione dei miti a un popolo che sem­brava esau­rirsi nel pre­sente. Le parole del cele­bre filo­sofo esi­sten­zia­li­sta risplen­dono su una stele ele­vata dai suoi amici sullo sfondo del monte Che­noua, tra l’azzurro del mare e il giallo caldo delle pie­tre di Tipasa: «Io com­prendo, qui, ciò che chia­miamo glo­ria: il diritto di amare senza misura».
Fu infatti nell’essai Nozze a Tipasa (1938) – nar­ra­zione nostal­gica della gio­vi­nezza tra­scorsa in Alge­ria – che Camus esaltò lo spo­sa­li­zio delle rovine con la pri­ma­vera, nella cui armo­nia con­fessò di aver tro­vato la misura pro­fonda di sé. In un suc­ces­sivo rac­conto – pub­bli­cato nel 1953 e inti­to­lato Ritorno a Tipasa – affiora invece la disil­lu­sione dinanzi alla scon­fitta della bel­lezza, al filo spi­nato soprag­giunto a cir­con­dare i ruderi alla stre­gua delle tiran­nie, della guerra e della morale, venute a chiu­dere per sem­pre l’età dell’innocenza. Inse­rita dal 1982 nella lista del patri­mo­nio dell’umanità, l’antica città romana di Tipasa – impian­ta­tasi sul luogo di un empo­rio feni­cio – si sta­glia su due col­line roc­ciose, sepa­rate dal porto di epoca moderna.
La sparizione di Tipasa.
Una rigo­gliosa vege­ta­zione arbo­rea adorna strade e monu­menti, accom­pa­gnando il visi­ta­tore sulle alture del foro e fino al pro­mon­to­rio che guarda a Occi­dente. Là, verso l’orizzonte del Medi­ter­ra­neo, si affac­ciano alteri i resti della Villa degli Affre­schi e le arcate delle basi­li­che paleo­cri­stiane: «c’è un tempo per vivere e un tempo per testi­mo­niare di vivere», scri­veva ancora Camus in Nozze. Ed è amaro con­sta­tare come, a Tipasa, il valore della testi­mo­nianza non sia ade­gua­ta­mente pre­ser­vato. Nel 2002, a causa del degrado e della cre­scente spe­cu­la­zione edi­li­zia, il sito venne segna­lato dall’Unesco fra quelli in peri­colo di dispa­ri­zione e a tutt’oggi il rischio non è stato scon­giu­rato. All’ingresso del parco, la costru­zione di un risto­rante insi­nua con pre­po­tenza le volte di un com­plesso ter­male. Nell’attiguo giar­dino archeo­lo­gico, stele riverse, bas­so­ri­lievi sfi­gu­rati e capi­telli sor­mon­tati da rifiuti mostrano la mise­ria del van­da­li­smo e dell’incuria. Sulla col­lina orien­tale – detta di Santa Salsa, dal nome della mar­tire che, secondo la leg­genda, vi fu sepolta nel IV sec. d.C. – si svi­luppò una delle più vaste necro­poli della tarda anti­chità: un’immensa distesa di sar­co­fagi aperti al vento, ora meta indi­stur­bata di bivacchi.
Lace­rata dalle distru­zioni e dagli scon­vol­gi­menti urba­ni­stici dell’occupazione fran­cese, anche la città numida di Iol – riba­tez­zata Cae­sa­rea da Giuba II in onore dell’imperatore Augu­sto e capi­tale della Mau­re­ta­nia Cesa­riense sotto Cali­gola – sem­bra aver ceduto l’anima all’oblio. Per­sino le sta­tue delle divi­nità che ne deco­ra­rono un tempo i son­tuosi edi­fici, sof­fo­cano nel cel­lo­fan di restauri mai ulti­mati. Stessa sorte – nella dimen­ti­canza – affligge Lam­bae­sis, for­ma­tasi nel I secolo d.C. come distac­ca­mento della legione III Augu­sta e sede del comando mili­tare romano in Africa. Il muni­ci­pium di vete­rani, dive­nuto colo­nia sotto Set­ti­mio Severo, è asse­diato da cespu­gli e rovi che ne occul­tano muri e mosaici.
A metà del XIX secolo, sulle vesti­gia del castrum fu edi­fi­cato un peni­ten­zia­rio e oggi solo il cosid­detto pre­to­rio si eleva gran­dioso dalle ster­pa­glie, quasi a sfi­dare l’indifferenza. Con cadenza annuale, i siti di Cuicul/ Dje­mila e Tha­mu­gadi/Timgad – entrambi insi­gniti del pre­sti­gioso «mar­chio» Une­sco – bal­zano invece agli onori della cro­naca. Attra­verso l’organizzazione di eventi musi­cali, il Mini­stero della Cul­tura per­se­gue uffi­cial­mente l’obiettivo di sen­si­bi­liz­zare le popo­la­zioni locali alla pro­te­zione del patri­mo­nio archeo­lo­gico. Il discu­ti­bile scopo peda­go­gico di tali ini­zia­tive ha però avuto, fino adesso, esiti controproducenti.
L’installazione di un’impalcatura di metallo e cemento sul piaz­zale dei Severi durante il Festi­val di Dje­mila ha arre­cato danni incom­men­su­ra­bili. Il più cla­mo­roso è il crollo par­ziale della sca­li­nata del tem­pio dedi­cato alla gens Sep­ti­mia.Mal­grado nel 2012 le pro­te­ste di nume­rosi atti­vi­sti della società civile por­ta­rono alla delo­ca­liz­za­zione della ker­messe nella vicina Sétif, nel 2013 gli spet­ta­coli si sono svolti nuo­va­mente a Cui­cul. E se per il Camus de Il Vento a Dje­mila (1939) il mondo fini­sce sem­pre per vin­cere sulla Sto­ria, di «que­sto grande grido di pie­tra che Dje­mila getta tra le mon­ta­gne, il cielo e il silen­zio» sen­tiamo anche noi la dispe­ra­zione e la malin­co­nica poesia. Nono­stante le appas­sio­nate bat­ta­glie che l’archeologa Nacéra Ben­sed­dik porta avanti da decenni, un destino di cemento si è abbat­tuto sul sito di Tha­mu­gadi, che dal lon­tano 1967 acco­glie il Festi­val di Tim­gad. Col pre­te­sto della sicu­rezza (un rap­porto dell’Unesco datato al 2009 sot­to­li­neava già i rischi di un afflusso mas­sic­cio di visi­ta­tori in occa­sione della ras­se­gna) una copia della scena del tea­tro romano è stata innal­zata su un’area non sca­vata, pre­giu­di­cando future ricerche.
Labili tracce.
Non meno gra­ve­mente, l’abuso edi­li­zio ha sfi­gu­rato il pae­sag­gio pre­de­ser­tico dei monti Aurès che incor­ni­ciano la colo­nia di Tra­iano, una fra le più mae­stose e sedu­centi Roma d’Africa. Nes­suna indul­genza nean­che per Ippona – cele­brata col nome di Hippo Regius, la Reale – dove s’incamminarono gli ultimi passi del vescovo Ago­stino, dot­tore e padre della Chiesa. Pro­prio qui, nel 1996, fu tra­fu­gata la maschera in marmo bianco di una Gor­gone di tre­cen­to­venti chi­lo­grammi di peso. Ritro­vata nel 2011 in Tuni­sia nell’abitazione di Sakhr el Materi, genero del depo­sto dit­ta­tore Zine El-Abidine Ben Alì, la scul­tura non ha ancora fatto ritorno nel luogo di origine.
Fin dal 1972, l’Algeria ha rati­fi­cato la Con­ven­zione sulla pro­te­zione del patri­mo­nio mon­diale adot­tata dall’Unesco ma l’incoerenza nell’applicazione del codice non si mani­fe­sta sol­tanto a svan­tag­gio delle città romane. Nel Sahara occi­den­tale, le pit­ture e inci­sioni rupe­stri del Tas­sili n’Ajjer risa­lenti al neo­li­tico stanno scom­pa­rendo per la man­canza di pro­te­zione dagli agenti atmo­sfe­rici e dai cri­mini di deva­sta­zione volon­ta­ria, men­tre a Nord i carat­te­ri­stici mau­so­lei numidi di Imed­ghas­sen, La Chre­tienne e Siga subi­scono l’onta dell’abbandono.
Se in que­sti ultimi casi è evi­dente il disprezzo dello stato alge­rino per le cul­ture tua­reg e ber­bera con­si­de­rate estra­nee alla «purezza» araba, nella Casbah di Algeri – luogo sim­bolo della bat­ta­glia per l’indipendenza – ben cin­que­cen­to­cin­quan­ta­quat­tro edi­fici ver­sano in stato di degrado avan­zato e centottant’otto sono in con­di­zioni di estrema pre­ca­rietà. Sem­pre nella capi­tale, la costru­zione di una fer­mata della metro­po­li­tana nella Place des Mar­ty­res ha com­pro­messo lo stu­dio e la con­ser­va­zione delle già labili tracce dell’antica Ico­sium, abbat­tuta dai con­qui­sta­tori otto­mani e poi fran­cesi. Esclusa dalle recenti rivo­lu­zioni arabe, l’Algeria ha man­cato la sua pri­ma­vera. I risul­tati delle pre­si­den­ziali del 17 aprile, con la rielezione-farsa di Abde­la­ziz Bou­te­flika – al potere dal 1999 e assente dalla scena pub­blica dal 2012 a causa di una malat­tia – hanno inferto l’ennesimo colpo alla spe­ranza di una svolta democratica.
Il forte asten­sio­ni­smo e le vio­lente con­te­sta­zioni scop­piate in occa­sione del voto nella regione della Kaby­lia get­tano nuove ombre sull’avvenire. Anche per que­sto la tutela del patri­mo­nio dovrebbe essere affi­data, ancor prima che a leggi effi­caci, a un revi­sio­ni­smo delle radici. Una libe­ra­zione com­piuta, che renda gli alge­rini depo­si­tari coscienti e respon­sa­bili del pro­prio passato.

Il Fatto Quotidiano, 19 aprile 2014
Trasformata nella Reggia del Pianeta Naboo in Guerre Stellari, umiliata a set della serie Elisa di Rivombrosa, candidata a location per le nozze di Naomi Campbell, promossa a finto Vaticano nella fiction della Rai sul papa polacco ma anche film Angeli e demoni, da Dan Brown: la Versailles casertana di Carlo di Borbone ha sbarcato il lunario nei modi più impensati. Ma l’associazione cinematografica più azzeccata è certo quella con Mission Impossible (il terzo episodio, in cui mima ancora il Vaticano): perché la Reggia di Caserta è davvero la “mission impossible” del patrimonio culturale italiano.

Esattamente un anno fa il Daily Telegraph descrisse con impietosa lucidità un sito monumentale abbandonato a se stesso: con i ladri che rubano il rame dal tetto, i ragazzi che fanno il bagno nelle mitiche fontane del giardino più importante d’Italia, le garitte dei custodi distrutte dalla ruggine e gli occupanti abusivi che vivono nelle foresterie. Per il giornale inglese, la Reggia è il “più clamoroso esempio dell’incapacità dell’Italia di governare il proprio straordinario patrimonio culturale, tra tagli al bilancio e recessione profonda”.

L’aveva scritto sul Corriere della Sera Alessandra Arachi, l’aveva mostrato a Rai Tre Stefania Battistini: ma le critiche estere fanno sempre più colpo, e così Maurizio Crozza si rivolse ai francesi, più serio che faceto: “Francesi, prendete in gestione la Reggia vanvitelliana, fatela diventare il sito più visitato in Europa come avete fatto con il Louvre, salvatela dal degrado”. Poi, a dicembre, il sindaco di Caserta pensò bene di piantare un corno rosso alto 13 metri (e dal modico prezzo di 70 mila euro) di fronte alla Reggia, a mo' di addobbo natalizio. E mentre Gian Antonio Stella osservava sarcastico che “non è detto che porti buono”, Dagospia coniò la più prosaica definizione di “sco-reggia di Caserta”.

Questa litania di cialtronerie impallidisce quando si apprende che il prefetto di Caserta ha “affettuosamente” (come ha scritto sulla busta) consegnato le chiavi della Reggia a Nicola Cosentino. E qui capisci che il degrado materiale è la conseguenza di quello morale. Il fatto che il patrimonio culturale che la Costituzione ha restituito ai cittadini sovrani non sia più una cosa pubblica, ma “cosa loro” è il segno dello slittamento del suo valore simbolico: da segno della presenza dello Stato-comunità a trofeo dell’antistato. Siamo solo a un passo da ciò che accadeva fino a pochi mesi fa in un’altra, vicina, reggia borbonica: Carditello. Sono stati sbarbati e rubati i cancelli, le acquasantiere della cappella, i gradini di marmo delle scale e perfino l’intero impianto elettrico. Quel che non si poteva asportare è stato distrutto, e nelle ali fatiscenti che un tempo ospitavano le attività agricole della tenuta è possibile rinvenire di tutto: da cumuli inquietanti di schede elettorali, a mappe e rilievi dell’area, gettati alla rinfusa sotto tetti sfondati. Il pavimento di cotto della terrazza sommitale è stato strappato e rubato, mattonella per mattonella, e così i balaustrini di marmo che reggevano i parapetti. La reggia si è, insomma, trasformata in una gigantesca cava di materiali pregiati, che non è difficile immaginare indirizzati verso le oscene ville dei ras della camorra.

Qualche mese fa, Massimo Bray è riuscito a ricomprare Carditello (da Banca Intesa), e ora si aspetta un piano per la sua salvezza: che potrebbe passare attraverso l’affidamento a Libera di don Ciotti, capace di rimettere in piedi la tenuta agricola che circonda il palazzo. Qualcosa di altrettanto radicale deve avvenire alla Reggia di Caserta, che non può rimanere uno scatolone vuoto, ma deve diventare un centro vivo di conoscenza. Potrebbe essere un centro nazionale di studio e tutela dei giardini storici, oppure ospitare la biblioteca senza casa dell’Istituto di studi filosofici di Napoli o un museo nazionale della migrazione. Qualunque cosa: purché le sue chiavi siano restituite – affettuosamente – ai cittadini, e negate, per sempre, ai signori dell’antistato.

Il manifesto, 17 aprile 2014

Fino a giu­gno, il Museo Nazio­nale Romano di Palazzo Mas­simo alle Terme ospi­terà una fan­ta­sma­go­rica ras­se­gna dedi­cata ai mostri e alle crea­ture fan­ta­sti­che nella mito­lo­gia antica. Tutti pre­senti gli incubi dell’uomo clas­sico: dal mino­tauro alle arpie, pas­sando per la chi­mera. In cata­logo, manca ovvia­mente il biblico levia­tano, sim­bolo di quello Stato onni­pre­sente, lento e oppri­mente, denun­ciato da Tho­mas Hob­bes. Lo scorso mese, un arti­colo di Gio­vanni Valen­tini su Repub­blica è parso evo­carlo, quel mon­strum, a pro­po­sito dell’amministrazione pub­blica della cul­tura: sarebbe soprat­tutto la buro­cra­zia delle soprin­ten­denze ciò che «imbri­glia il recu­pero e la valo­riz­za­zione del nostro patri­mo­nio cul­tu­rale, con­tri­buendo così a con­ge­lare la modernizzazione».

Imme­diata l’alzata di capo degli archeo­logi, che hanno rea­gito lan­ciando un appello attra­verso il sito Patri­mo­nio sos. Tra le tante firme, tro­viamo quella di Rita Paris, con­si­gliere comu­nale eletta nella Lista Civica Marino Sin­daco e respon­sa­bile dell’area archeo­lo­gica del Parco dell’Appia Antica. La incon­triamo nel suo uffi­cio di Palazzo Mas­simo, sede museale che dirige dal 2005.

Qual­cosa non va nelle soprintendenze?

La strut­tura per la quale lavo­riamo deve essere miglio­rata: noi stessi ne par­liamo ormai da anni. Non è tut­ta­via giu­sto descri­vere le soprin­ten­denze come car­roz­zoni otto­cen­te­schi. Innan­zi­tutto, sono pas­sate con suc­cesso a gestire finan­zia­menti, anche con­si­stenti, appli­cando la nor­ma­tiva sui lavori pub­blici, estre­ma­mente com­plessa per stu­diosi costretti a con­fron­tarsi con scavi e restauri alla stre­gua di opere edili quali via­dotti e auto­strade. Ci hanno quindi chie­sto di infor­ma­tiz­zare il nostro patri­mo­nio cono­sci­tivo: l’abbiamo fatto. Allo stesso modo ottem­pe­riamo alla legge 241 sulla tra­spa­renza degli atti: rispet­tiamo in pieno i tempi, rispon­dendo sem­pre all’attenzione pubblica.

Che le soprin­ten­denze siano anti­che, que­sto è un altro discorso. In effetti sono nate ancora prima del mini­stero, quando erano com­prese all’interno della Dire­zione gene­rale per le anti­chità e belle arti, dipen­dente dalla Pub­blica istru­zione. Da allora, sono le soprin­ten­denze di set­tore — archeo­lo­gi­che, storico-artistiche, archi­tet­to­ni­che e pae­sag­gi­sti­che — gli uffici peri­fe­rici pre­senti sul ter­ri­to­rio, che pre­si­diano e con­trol­lano seguendo le forme di pia­ni­fi­ca­zione ela­bo­rate dagli enti locali, dai piani rego­la­tori ai piani ter­ri­to­riali pae­si­stici. Fran­ca­mente, non rie­sco a imma­gi­nare da quale strut­tura pos­sano essere sostituite.

Una grande rivo­lu­zione fu, nel 1993, la legge Ron­chey sui ser­vizi aggiun­tivi: prima custode e bigliet­taio erano la stessa per­sona; adesso bigliet­te­ria, book­shop, e punti di ristoro sono gestiti a parte. Le soprin­ten­denze hanno defi­ni­ti­va­mente rivolto la loro atten­zione agli aspetti gestio­nali e di valo­riz­za­zione della fun­zione pub­blica, con­cen­tran­dosi sulle nuove esi­genze didat­ti­che e comu­ni­ca­tive. I luo­ghi della cul­tura si sono aperti a un mondo diverso, non solo specialistico.

Un luogo comune, tut­ta­via, insi­ste nel riba­dire che siete troppo auto­re­fe­ren­ziali e dovre­ste aprirvi ancora di più all’esterno.

Per quanto riguarda la ricerca di spon­so­riz­za­zioni, non è vero che siamo sol­tanto con­ser­va­tori. Anzi, manca poco che fac­ciamo i butta-dentro: quelli che pur di ren­dere attraenti i nostri musei, pur di avere mag­giori visi­ta­tori si mostrano dispo­ni­bili a orga­niz­zare tipi di eventi che non hanno molto a che vedere con l’archeologia. Non è il caso di Musei in musica, Una notte al museo, la Set­ti­mana della cul­tura, ini­zia­tive che pos­sono attrarre un pub­blico diverso che altri­menti non si sarebbe mai acco­stato all’arte antica. I Rol­ling Sto­nes, però, sono ecces­sivi, anche per­ché il Circo Mas­simo non ha biso­gno di visibilità.

Quali sono, quindi, i limiti e le cri­ti­cità prin­ci­pali delle soprintendenze?

Abbiamo una serie di figure pro­fes­sio­nali entrate con una qua­li­fica direttivo-apicale; se non fai un con­corso, lì ti fermi. La nostra è una strut­tura pira­mi­dale con un diri­gente e diversi diret­tori che hanno degli inca­ri­chi spe­ci­fici presso monu­menti, pezzi di ter­ri­to­rio, musei. Una strut­tura del genere, con tali respon­sa­bi­lità, meri­te­rebbe un rico­no­sci­mento diverso. Lo sti­pen­dio di un diret­tore di museo, invece — Uffizi com­presi — arriva al mas­simo a 1800 euro. È un inca­rico che, come ti viene dato, così ti viene tolto: oggi sei il diret­tore della Gal­le­ria Bor­ghese, domani puoi lavo­rare altrove. Non hai un’indennità di fun­zione a fronte della mole di impe­gni e respon­sa­bi­lità richie­ste, delle com­pe­tenze neces­sa­rie per gestire rap­porti con le isti­tu­zioni nazio­nali e internazionali.

Così non si può con­ti­nuare a lavo­rare: se ancora resi­stiamo, è per­ché abbiamo intro­dotto nel lavoro qual­cosa che va oltre l’idea di con­tratto. È pro­prio la pas­sione, il tra­sporto, l’enorme senso di respon­sa­bi­lità che ha fatto dimen­ti­care a chi ci governa quanto la nostra con­si­de­ra­zione sia ina­de­guata al ruolo svolto. Tutti lavo­riamo nor­mal­mente dodici ore al giorno, distri­can­doci tra aspetti gestio­nali e ammi­ni­stra­tivi, senza dimen­ti­care la ricerca scien­ti­fica: non pos­siamo smet­tere di stu­diare per restare al passo con l’impegno scien­ti­fico che gli acca­de­mici pos­sono affron­tare. Se non studi, non puoi orga­niz­zare una mostra né gestire un museo: non hai la pos­si­bi­lità di redigere un cata­logo, scri­vere le dida­sca­lie, orga­niz­zare atti­vità didattiche.

Sem­brano le stesse richie­ste degli inse­gnanti. E se le soprin­ten­denze le abolissero?

L’età media delle sovrin­ten­denze è di 57 anni. In alcune regioni sono state immesse forze gio­vani; a Roma e nel Lazio no. Da anni ormai non entra un fun­zio­na­rio nuovo al quale tra­smet­tere la nostra espe­rienza, giu­sto per pas­sare la staf­fetta. Nello Stato non c’è car­riera: ci sono degli interni di livelli infe­riori che non cre­scono, altri pro­prio non entrano. Le dichia­ra­zioni del mini­stro, finora, da un lato par­lano del ricorso a pri­vati, dall’altro di una spen­ding review che sicu­ra­mente va ope­rata, ma non certo qui, dove sarebbe quanto meno rischiosa e con­tro­pro­du­cente. Se si tol­gono risorse alle soprin­ten­denze, si impo­ve­ri­sce irri­me­dia­bil­mente il rap­porto dello Stato con i luo­ghi della cul­tura sul territorio.

Una delle obie­zioni più fre­quenti sostiene che lo Stato non possa far­cela a gestire da solo il nostro patri­mo­nio cul­tu­rale. Biso­gne­rebbe con­cede mag­giore spa­zio ai privati?

Dav­vero non si capi­sce cosa si intende oggi per pri­vati, per­ché ci sono sem­pre stati. Già nel ’94 avevo imma­gi­nato una mostra — Dono Hart­wig, ori­gi­nali ricon­giunti e copie tra Roma e Ann Arbor in Michi­gan — che riu­niva fram­menti scul­to­rei del Tem­plum Gen­tis Fla­viae finiti all’inizio del ’900 sul mer­cato anti­qua­rio. L’operazione fu por­tata avanti gra­zie al con­tri­buto di uno spon­sor pri­vato: l’Eni. È fon­da­men­tale, tut­ta­via, sot­to­li­neare quello che sem­bra ovvio: deve essere lo Stato a soprin­ten­dere. Ulti­ma­mente abbiamo avuto con­tri­buti di pri­vati a titolo diverso: nel caso della Pira­mide Cestia e della Fon­da­zione Pac­kard a Erco­lano, si è trat­tato di ero­ga­zioni libe­rali e di atti di mece­na­ti­smo che non hanno chie­sto nulla in cam­bio se non il pub­blico rico­no­sci­mento e rin­gra­zia­mento; nel caso del Colos­seo, si è andati un po’ oltre. Quello che conta, tut­ta­via, è il pro­ce­di­mento: i pri­vati ver­sano i soldi nelle casse dello Stato e, quindi, delle soprin­ten­denze; que­ste, infine, pro­ce­dono a rea­liz­zare i pro­getti atte­nen­dosi rigo­ro­sa­mente alle pro­ce­dure di legge. Nes­sun pri­vato può dire diret­ta­mente: «io voglio occu­parmi dei restauri al Colosseo».

Non pensa che l’opinione pub­blica possa fati­care a com­pren­dere le vostre ragioni?

Al con­tra­rio, penso che a volte i cit­ta­dini siano per­fino più esi­genti di noi, fino a pre­ten­dere di più di quello che si possa effet­ti­va­mente dare. Per esem­pio, anni fa, un limi­tato scavo pre­ven­tivo in occa­sione della costru­zione di un edi­fi­cio in via Padre Seme­ria, all’Eur, aveva resti­tuito alcune testi­mo­nianze anti­che. In seguito, il palazzo non si fece più e lo scavo rimase a lungo in stato di abban­dono, fin­ché noi non chie­demmo il rin­terro per garan­tirne la pro­te­zione: la migliore forma di conservazione.

I cit­ta­dini quasi insor­sero. Insomma, da un lato si accu­sano le soprin­ten­denze di essere da osta­colo al pro­gresso, dall’altro ogni ritro­va­mento archeo­lo­gico fini­sce per sca­te­nare una sorta di orgo­glio locale. Se l’Italia asse­gna all’intero patri­mo­nio cul­tu­rale della nazione uno 0,19%, è ovvio che il governo e gli ammi­ni­stra­tori con­ti­nuino a chie­dere con mag­giore forza il con­tri­buto dei pri­vati. La que­stione sta tutta qui.

Il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2014
La cancelliera tedesca Angela Merkel ha visitato la Pompei antica, pagando il biglietto. Non ci sarebbe la notizia: almeno non in un paese civile. Diventa, invece, una notizia proprio il fatto che, in Italia, questo piccolo accadimento abbia avuto una straordinaria risonanza mediatica. Per noi un capo del governo che si comporta come un cittadino è un evento letteralmente eccezionale.

E qui sta il primo punto: lo scollamento tra classe politica e cittadinanza. Un abisso antropologico che certo non viene colmato da un Matteo Renzi, figlio d’arte e professionista della politica fin dall’età della ragione.

Eppure, nonostante l’effimero compiacimento verso il gesto graziosamente accondiscendente del potente di turno, il dato su cui interrogarsi è che millenni di potere, imperiale e poi papale, hanno abituato gli italiani a piegare le ginocchia di fronte alla scenografia del sovrano di turno. Il dato tragico è che, in fondo, non prenderemmo sul serio un potente che si comportasse da cittadino.

Nello specifico, tuttavia, l’aspetto su cui riflettere è il rapporto tra il potere e il patrimonio culturale. Come dimostra il recentissimo scivolone della sottosegretaria Vicari, che ha chiesto i quadri dei musei di Roma per arredarsi l’ufficio al ministero dello Sviluppo economico, il nostro patrimonio storico e artistico viene percepito come una specie di grande attrezzeria di scena al servizio del potere. Quadri delicatissimi vengono spediti come commessi viaggiatori in mezzo mondo, gruppi scultorei antichi sono dislocati nei palazzi della politica, un luogo unico come Villa Madama (progettata da Raffaello) viene usato come sfondo di lusso per i vertici internazionali dei nostri capi del governo.

Quel che manca è un qualsiasi indizio di un rapporto personale tra i “potenti” e quello stesso patrimonio. La vera notizia, per l’Italia, non è che Angela Merkel abbia pagato il biglietto, ma che abbia impiegato tre ore e mezzo del suo tempo privato e personale per vedere Pompei, con una cartina in mano e in compagnia di un archeologo tedesco. E che abbia trovato poi il tempo di vedere anche il Rione Terra di Pozzuoli, con le sue vestigia romane e il suo Duomo appena restaurato. Ora, quale politico italiano lo farebbe, se non per dovere di Stato, e a favore di telecamera? E questo è il punto: in Italia non c’è mai stata una vera politica per la cultura, perché almeno dagli anni Sessanta, la nostra classe politica – salvo rare eccezioni – non è stata composta da persone che avessero un vivo rapporto personale con la cultura. È dura parlare di politica internazionale con uno che non sa nemmeno cos’è la geografia, o di economia con uno che non ricorda manco le tabelline: eppure, la stragrande maggioranza dei nostri ministri per i Beni culturali e dei nostri presidenti del Consiglio non ha la più pallida idea di cosa sia un museo, per non dire uno scavo archeologico. Commentando un libro di Renzi, Paolo Nori ha scritto “Ecco: a me è sembrato stranissimo che in tutte le 193 pagine di questo libro sulla bellezza non sono riuscito a trovare una frase che mi sembrasse non dico bella, ben fatta”. Ed è per questo che ci colpisce così tanto vedere la Merkel felice di passare tre ore e mezza tra scavi da cui i suoi omologhi italiani scapperebbero a gambe levate.

Infine, il biglietto. Salvo rarissime eccezioni, nessuna istituzione culturale del mondo campa con i biglietti: ed è per questo che si potrebbe addirittura pensare di sopprimerli, sottolineando così – come avviene, per esempio, in molti musei pubblici inglesi – la gratuità del patrimonio e la sua dimensione inclusiva. Piuttosto, sarebbe stato bello far notare a Frau Merkel che se Pompei versa nello stato penoso in cui l’ha trovata, è in massima parte a causa dei dissennati tagli al bilancio pubblico imposti proprio dall’Europa a trazione tedesca. Non esiste una politica europea della cultura, né una chiara idea della sua funzione civile: e forse il punto da cui partire potrebbe esser proprio il senso della Merkel per Pompei. Senza battere i pugni sul tavolo, ma riallacciando i fili di un’antica conversazione tra Italia e Germania.

Il Fatto Quotidiano, 2 aprile 2014
Agli argomenti di chi indica il carattere autoritario della sua riforma costituzionale, Matteo Renzi non oppone altri argomenti, ma una delegittimazione radicale dei “professoroni, o presunti tali”. Non risponde a chi dice che un governo non può essere costituente (Piero Calamandrei chiese che durante la discussione dell’articolato della Costituzione i banchi del governo fossero addirittura vuoti). Non risponde a chi spiega perché un Senato degli enti locali potrebbe portare a una rottura dell’unità nazionale. Non risponde a chi – come Walter Tocci, senatore pd che ha annunciato il suo voto contrario – scrive che “l’Italicum consente a una minoranza sostenuta dal 20% degli aventi diritto al voto di arrivare al governo, potendo contare su deputati non scelti dagli elettori e non avendo risolto il conflitto di interessi”.

Al sapere Renzi oppone il plebiscito: i professori avranno studiato, ma lui ha il consenso. Poco importa se il consenso è quello delle primarie (consultazioni private a cui ha partecipato una quota minuscola di elettori), se è al governo senza essere stato eletto, se questo Parlamento è legalmente eletto, ma forse non proprio legittimato a cambiare la Costituzione. E poco importa se si sta facendo di tutto per far passare la riforma con i due terzi delle Camere, e dunque per evitare di consultare, con un referendum, il popolo sovrano del quale ci si riempie la bocca.
Invece di discutere, Renzi preferisce scagliarsi contro Rodotà e Zagrebelsky con un tono che ricorda queste parole del primo discorso alla Camera di Mussolini capo del governo (16 novembre 1922): “Lascio ai melanconici zelatori del supercostituzionalismo il compito di dissertare più o meno lamentosamente”.
Non è una novità. Renzi sta replicando, su una scala ben più larga, ciò che fece a Firenze durante la caccia alla Battaglia di Anghiari di Leonardo. L’allora sindaco non si abbassò a discutere le prove dell’assoluta infondatezza di quella purissima operazione di marketing esibite dalla comunità scientifica internazionale degli storici dell’arte. Invece, si scagliò contro i “presunti scienziati”, accusati di non essere “stupiti dal mistero” a causa di un “pregiudizio ideologico”. Arrivò a scrivere: “Penso agli studenti di questi professoroni. Mi domando con quale fiducia ascolteranno adesso le loro lezioni”. La violenza denigratoria contro i “professionisti della cultura che pretendono di fare a pugni con la realtà e con l’innovazione” echeggiò il “culturame” di Scelba. E certo Renzi non si scusò quando le operazioni si conclusero senza trovare alcunché.
Ma perché il capo del governo teme così tanto i portatori del sapere critico? Perché sa che la loro funzione, in una democrazia evoluta, è – come ha scritto Tony Judt – “tirar fuori la verità e poi spiegare perché è proprio la verità. La verità spiacevole, nella maggior parte dei luoghi, è di solito che ti stanno mentendo”. Ecco, questo Renzi non se lo può permettere: sa benissimo di essere un prodotto che vende solo in regime di monopolio, e con un marketing senza smagliature. La prima funzione del pensiero critico, al contrario, è quella di mostrare che c’è sempre un’alternativa: sempre. Un filologo, un giurista, uno storico, un fisico sanno partecipare al discorso pubblico demistificando la retorica dell’ultima spiaggia e dell’uomo della provvidenza. Perché lo fanno usando argomenti comprensibili e razionali, dimostrabili e verificabili. Tutte cose pericolose per chi basa l’acquisizione del consenso non sul cervello, ma sulla pancia degli ascoltatori-elettori. La cui digestione non dev’essere turbata da dubbi. Quel famoso discorso di Mussolini si chiudeva così: “Non gettate, o signori, altre chiacchiere vane alla Nazione. Cinquantadue iscritti a parlare sulle mie comunicazioni, sono troppi”.
Al tempo del Leonardo inesistente Renzi esaltava le emozioni (che sarebbero state 'popolari') e demonizzava la conoscenza (secondo lui elitaria e inutile). Ora Renzi fa leva sulla disperazione diffusa, sul viscerale rigetto per il criminale immobilismo di chi lo ha preceduto, sul riflesso condizionato prodotto dalla promessa degli ottanta euro.
Chi si oppone è «un sacerdote del no», come ha prontamente scritto Ernesto Galli della Loggia evocando addirittura il terrorismo: ecco la parola d'ordine da far passare a tutti costi, prima che qualcuno possa spiegare a cosa si oppone quel no. È il momento di «fare»: ma guai a chi si chiede cosa si stia davvero facendo. Guai a chi sa dimostrare che il re è nudo.

“Un soprintendente è tenuto a compiere sopralluoghi, controllare perizie, dirigere i lavori, pubblicare studi, redigere piani paesistici, ma soprattutto resistere ai privati che vorrebbero distruggere tutto per rifarlo in vetrocemento, quasi sempre con l’assenso e l’appoggio delle autorità”.

“Resistere ai privati”: chi lo sostiene oggi è un talebano, statalista, comunista. A scriverlo, invece, era il liberalissimo Indro Montanelli, in un memorabile articolo comparso sul Corriere della Sera il12 marzo 1966. Oggi, invece, un giornale come Repubblica scrive che “troppo spesso le soprintendenze diventano fattori di conservazione e di protezionismo in senso stretto, cioè di freno e ostacolo allo sviluppo, alla crescita del turismo, e dell’economia”, sul Corriere si invoca un giorno sì e l’altro pure l’intervento salvifico di quegli stessi privati, Matteo Renzi ripete a macchinetta che “Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba”.

L’entusiasmo e la fantasia di chi – tra il 1966 e oggi – ha sepolto questo Paese sotto una colata di cemento. L’attualità dell’articolo è devastante, perché tutto è rimasto come allora: il bilancio miserabile del patrimonio, gli stipendi da fame e la solitudine dei soprintendenti, “pochi eroi, sopraffatti dal lavoro e senza mezzi per svolgerlo”. Montanelli vedeva che il vero problema era – ed è tuttora – la disparità dei mezzi tra i difensori del bene comune e quelli degli interessi privati: “I loro uffici sono letteralmente assediati da orde di impresari, ingegneri, architetti, geometri e altri guastatori. Nel periodo del ‘ boom’ edilizio il soprintendente ai monumenti della Liguria, Mazzino, esaminò in un anno 10 mila progetti con l’aiuto di un solo architetto. Il suo collega di Sassari, Carità, deve difendere da solo circa mille chilometri di costa che, a lasciar fare agli speculatori e ai progettisti a quest’ora sarebbero già un’immensa Ostia. E mentre gli speculatori hanno a disposizione i migliori giuristi per redigerlo, il Soprintendente deve farlo con l’aiuto del bidello e della custode”.

Montanelli vedeva lucidamente nel clero un pericolo per il patrimonio: “E qui bisogna parlarci chiaro, soprattutto coi preti. Il 70 per cento dei monumenti italiani è in loro custodia (…) Non per malizia o cupidigia, ma per ignoranza e spregio di ciò che essi chiamano ‘valori mondani’, i parroci demoliscono vecchie chiese gotiche e barocche per costruire orrende scatole in vetrocemento (quelle che i fiorentini chiamano con pertinente empietà i ‘cristogrill’) con pareti intonacate a ducotone, tapparelle, luci al neon e cromi”.

Oggi le cose stanno forse perfino peggio: ma quasi nessuno osa scriverlo. Con la scusa dell’adeguamento liturgico, zelanti vescovi rifanno da capo a piedi (e orribilmente) le loro cattedrali (da Reggio Emilia ad Arezzo) senza che nessun soprintendente riesca a contrastarli, e laricostruzione delle chiese emiliane dopo il terremoto rischia di risolversi in una mattanza del tessuto storico in nome delle mani libere. Oggi è di moda parlar male delle soprintendenze: dovremmo piuttosto chiederci se il ministero per i Beni culturali (nato nel 1974) sia riuscito a farle funzionare meglio di quando scriveva Montanelli, ed esse rispondevano alla Pubblica Istruzione. La risposta è evidentemente negativa, e questo dovrebbe indurre a ripensamenti radicali: il problema non è la rete territoriale della tutela, ma semmai la burocrazia e la sudditanza alla politica del quartiere generale romano.

Ciò che più colpisce, tuttavia, è la regressione generale del Paese, e del suo discorso pubblico. C’è davvero un abisso tra il profondo senso dello Stato e del pubblico interesse del liberale Montanelli, e il liberismo all’amatriciana del pensiero unico di oggi, insofferente ad ogni regola che non sia l’arbitrio assoluto degli interessi privati. E, soprattutto, c’era in Montanelli la profonda convinzione che ilpatrimonio culturale non fosse misurabile, come scrive, “sul metro del denaro”. Perché è proprio il nostro straordinario patrimonio ciò “che ci qualifica a un rango, del tutto immeritato, di Nazione civile”. È proprio questo il punto centrale: il punto che sfugge a tutti coloro che si riempiono incessantemente la bocca della retorica del “petrolio d’Italia”. A essere venuta meno, in questi cinquant’anni, non è solo la tutela del patrimonio, è l’idea stessa di Stato, un qualunque progetto di civiltà.

Il Fatto quotidiano, 26 marzo 2014
Asservire il patrimonio artistico alla propaganda dei valori del presente – per esempio asservirlo alle ragioni della politica attuale – significa disinnescarlo, neutralizzarlo: o peggio, pervertirlo, tradirlo, falsificarlo. Se l’arte dice la verità sulla condizione umana, difficilmente andrà d’accordo col potere: ed è per questo che in una democrazia basata su una Costituzione come la nostra, l’unico modo di gestire il patrimonio è metterlo al servizio della conoscenza, e dunque della verità, e non al servizio del potere, e dunque della propaganda e della mistificazione pianificata.

Facciamo un esempio. Nel settembre 2013 una grande (cinque metri per due e mezzo) Annunciazione di Sandro Botticelli è stata spedita in Israele, per celebrare i 65 anni dello Stato ebraico. Botticelli la affrescò nella loggia esterna di una specie di orfanotrofio della Firenze del Quattrocento: l’Ospedale di Santa Maria della Scala. Quella Madonna che culla il suo bambino nella pancia, quella casa accogliente e tranquilla perdono un po’ di significato per ogni chilometro che si allontanano da Firenze. Il passare del tempo scompone il mosaico della storia in tante tessere, che dovremmo sforzarci di rimettere insieme, e non di allontanare. Con amore, possibilmente. Ma quando il ministro Massimo Bray ha provato a bloccare il viaggio del Botticelli volante – che anche a lui pareva senza senso – è scoppiata quasi una crisi diplomatica.

Non si potevano mettere in discussione gli accordi dello sventato predecessore, e il ministro degli Esteri Emma Bonino riteneva l’ostensione di un singolo Botticelli assai più efficace di una seria pianificazione di rapporti culturali. Quando Bray ha chiesto al massimo istituto di restauro italiano, il fiorentino Opificio delle Pietre Dure, una relazione sulle condizioni dell’opera, ne è arrivata una così concepita: la vera relazione tecnica, scritta da una restauratrice, diceva che l’opera aveva subito danni durante spostamenti recenti e che un’ulteriore movimentazione sarebbe stata “pericolosa”. Ma questa verità scientifica veniva schiacciata dalla lettera di accompagnamento del soprintendente dell’Opificio, dove la ragion di Stato induceva a definire “non significative” le preoccupazioni sullo stato di conservazione. E così Bray si è arreso, e Botticelli è volato a Gerusalemme. D’altra parte esiste un precedente eloquente: nel 1930 proprio Botticelli fu protagonista di una spettacolare quanto criminale mostra voluta da Mussolini a Londra, esaltata dal Corriere della Sera dell’epoca come “un segno portentoso dell’eterna vitalità della razza italica”. E basta sostituire “brand Italia” a “razza italica” per ottenere la retorica propagandistica di oggi. Che travolge la verità della storia dell’arte e della scienza in nome delle ragioni di un potere autoreferenziale.

In una lettera scritta insieme a Sefy Hendler – che insegna Storia dell’arte all’Università di Tel Aviv – abbiamo provato a dire che entrambi crediamo profondamente nell’amicizia tra Italia e Israele, e nel ruolo che la cultura può e deve avere nel rafforzarla: il nostro stesso, continuo scambio scientifico è un minuscolo tassello di quell’amicizia. Ma siamo convinti che le relazioni culturali tra i popoli non possano essere rafforzate da scambi di singole opere “feticcio” decise dalle diplomazie senza nessun coinvolgimento della comunità scientifica, e anzi imponendo al museo prestatore e al museo ospitante un “evento” del tutto estraneo alla loro vita. Non siamo più nell’antico regime: nelle democrazie moderne le opere d’arte non sono più pedine della ragion di Stato, ma testi su cui fare ricerca, e da restituire alla conoscenza dei cittadini.

Una vera mostra di ricerca aperta al grande pubblico avrebbe ogni ragione di spostare dall’Italia a Israele, o viceversa, anche cento opere (magari meno fragili del Botticelli): non ha invece alcun senso spedire un’opera singola e irrelata, in un’operazione assai vicina al marketing. Crediamo che la regola fondamentale della conoscenza, e cioè il perseguimento della verità, debba stare anche alla base delle relazioni internazionali: specie quelle che si vogliono fondate sulla cultura. È per questo che dirsi la verità non può in nessun caso mettere in crisi, ma anzi può solo rafforzare, le relazioni culturali internazionali dell’Italia. Può sembrare curioso – certo sembra ingenuo – ricordarlo in un momento in cui “parole come verità o realtà sono divenute per qualcuno impronunciabili a meno che non siano racchiuse tra virgolette scritte o mimate”: ma “il ruolo dell’intellettuale è tirar fuori la verità. Tirar fuori la verità e poi spiegare perché è proprio la verità [...] La verità spiacevole, nella maggior parte dei luoghi, è di solito che ti stanno mentendo”. In questo consiste ogni serio programma di politica culturale, a questo serve il patrimonio culturale. A dire la verità.

La Repubblica, 24 marzo 2014

A chi tocca tutelare e promuovere il nostro patrimonio artistico? Lo svuotamento di risorse degli uffici di tutela e le conseguenti disfunzioni hanno fatto venire di moda la diceria che le Soprintendenze sono enti inutili, da eliminare. Quando la nave affonda, tutti se ne accorgono ma nessuno si prende la colpa: si fa prima a cercare un capro espiatorio. Così da una settimana all’altra la patria è salva se si aboliscono le Province, se chiude il Senato, se si smontano i Beni Culturali. Questa voglia di rottamare tutto e tutti, spacciata per moderna, non ha niente di nuovo: è del 1950 un intervento alla Camera del liberale Epicarmo Corbino su «l’enorme discredito» che getta sullo Stato chi dice «se si vuol fare una cosa seria, serviamoci di tutto, tranne che degli organi dello Stato».

L’ultimo libro di Sabino Cassese (Governare gli italiani. Storia dello Stato), appena pubblicato dal Mulino, offre un lucidissimo sguardo di lungo periodo sul tarlo che rode l’organizzazione della cosa pubblica. Da sempre chi ci governa gonfia l’amministrazione di nuove funzioni e strutture con una mano, con l’altra la delegittima perché lenta, pletorica, inefficace. A lungo la soluzione per snellirla fu di creare aziende autonome (come le Ferrovie dello Stato, 1905) o enti pubblici (come l’Iri, 1933). Questo «processo di fuga dallo Stato» ne diventa, scrive Cassese, «un fattore di disaggregazione». È qui che si è innestato lo slogan di Reagan, «lo Stato non è la soluzione, è il problema»: l’impulso a privatizzare, spacciato per modernissimo, è tutto in questa frase datata 1981.

Ma la politica continua il gioco delle tre carte, delegittima lo Stato per asservirlo a sé: dopo la riforma del pubblico impiego (1993), la dirigenza è stata precarizzata, i concorsi per merito sono l’eccezione e non la regola, la competenza è esiliata, «il vertice amministrativo è composto di persone transeunti». «La politicizzazione del vertice si estende alla periferia, con assunzioni dettate da criteri di patronato politico, non da quello del merito». Si formano, in nome di una “flessibilità” contrabbandata per funzionale, legioni di precari, che impediscono di bandire concorsi e premono per assunzioni ope legis. Tutto contro la Costituzione (artt. 97-98), secondo cui «il personale pubblico dovrebbe esser retto dal principio di neutralità perché al servizio esclusivo della Nazione»: reclutamenti discrezionali e successive stabilizzazioni sono pertanto «un aggiramento della Costituzione». Lo Stato svaluta se stesso, delega funzioni a terzi e assume non per competenza e merito, ma secondo appartenenze e fedeltà.

Le Soprintendenze ai Beni Culturali, devastate dall’efferato dimezzamento dei bilanci perpetrato dal duo Tremonti-Bondi (2008), fanno solo in parte eccezione: da un lato i livelli dirigenziali sono sottoposti al voto di ubbidienza imposto dalla politica, ma il centro è ipertrofico rispetto agli uffici territoriali su cui pesano le funzioni costituzionali di conoscenza e tutela. Dall’altro, la mancanza di turn over (età media 57 anni) ha lasciato nelle soprintendenze molti funzionari assunti per competenza e per merito, che talora osano ancora opporsi alle voglie del politico di turno. Perciò spesso chi se la prende con le Soprintendenze o ne reclama l’abolizione non punta su una maggior funzionalità dell’amministrazione, ma su un suo totale asservimento alla politica: questo il senso di ripetute invettive del sindaco di Verona (il leghista Tosi) ma anche del sindaco di Firenze, ora presidente del Consiglio. A una frase di Renzi si ispira un professore di Architettura [Marco Romano, n.d.r.] ( Corriere, 3 marzo), secondo cui le Soprintendenze sono «un intralcio» e vanno soppresse; ma vuole affidarne le funzioni, guarda caso, alle facoltà di Architettura.

Questo il quadro entro il quale con monotone litanie si invoca da vent’anni l’intervento dei privati, inteso come supplenza a uno Stato in ritirata. In una recente intervista, il ministro Franceschini si è mostrato consapevole della differenza fra mecenatismo e sponsorizzazione (che in Italia sfugge ai più), e ha giustamente indicato come modello da seguire l’accordo del Ministero con la Fondazione Packard per gli scavi di Ercolano. “Mecenatismo” è infatti solo la donazione volontaria e senza alcun corrispettivo economico se non (com’è negli Stati Uniti, e dovrebbe essere da noi) qualche vantaggio fiscale.

Tutt’altra cosa è la presenza di ditte private che fanno quello che dovrebbe essere il core business dei musei (ricerca conoscitiva, mostre, programmi educativi): al Louvre o al Metropolitan a nessuno verrebbe in mente di appaltare una mostra a un privato. Ma il mecenatismo privato non può funzionare, se non in un quadro garantito da finanziamenti pubblici adeguati, come oggi non è. Lo ha scritto Eugenio Scalfari in queste pagine (11 novembre 2008): «cultura, ricerca, beni culturali, patrimonio pubblico, paesaggio sono considerati elementi opzionali dei quali si può fare a meno. Ma non si tratta di spese bensì di investimenti che, per loro natura, non possono esser interrotti senza causare nocumento e deperimento gravissimi. (...) La condizione in cui versano da anni le nostre Soprintendenze è quanto di più misero si possa immaginare: personale ridotto al minimo, sedi vacanti da tempo, servizi pressoché inesistenti. (...) Sarebbe necessario chiarire una normativa confusa, fonte di abusi continui che hanno devastato il nostro territorio disseminando mostri architettonici, lasciando deperire monumenti di importanza mondiale, occultando il mare con una cortina edilizia che ne ha confiscato la pubblica fruizione. (...) Da qui l’esigenza di una politica di tutela e di valorizzazione che sia unificata nei poteri e nelle competenze; tale unificazione non può avvenire che in capo allo Stato, il solo che sia depositario di una visione generale».
Perciò occorre non solo indicare un modello positivo di mecenatismo, come Franceschini ha già fatto, ma anche tenere a bada il patriottismo for profit di chi investe in beni culturali solo per averne un rientro economico (basterebbe seguire l’ottimo esempio della Francia). Ancor più importante è però tornare almeno ai livelli di investimento pubblico ante 2008 (già allora insufficienti), poiché i contributi privati sono virtuosi solo se si innestano su forti politiche pubbliche. In nome della Costituzione (art. 9), ma anche delle buone pratiche diffuse in tutto il mondo. In questo come in altri settori, il buon funzionamento delle istituzioni non è il problema. È la soluzione.
Roars.it, 16 marzo 2014 (m.p.g.)

Negli anni in cui Matteo Renzi è stato sindaco di Firenze l’amministrazione non ha brillato per capacità di innovazione, al contrario. L’esposizione del teschio incrostato di diamanti di Damien Hirst a Palazzo Vecchio ha mostrato al mondo come si possa essere al tempo stesso pretenziosi e subalterni. Si è offerto l’edificio-simbolo della storia repubblicana di Firenze alla celebrazione di un oggetto assurdamente dispendioso, concepito come vessillo di disuguaglianza e trappola per la vanità degli oligarchi.

In programma questa primavera, la mostra dedicata a Michelangelo e Pollock prefigura un astorico confronto tra due artisti fumettisticamente presentati come “furiosi”. Il risibile match, che nelle intenzioni di Renzi dovrebbe costituire il dono d’addio alla città, conferma la predilezione per esposizioni-blockbuster di nessuna consistenza scientifica. L’ostinazione con cui si è infruttuosamente cercata la (perduta) Battaglia di Anghiari leonardesca in Palazzo Vecchio è sembrata un’avventata commistione tra dilettantismo storico-artistico, maldestro culto delle nuove tecnologie e fiction rinascimentale in chiave Dan Brown. Certo, esistevano i finanziamenti di National Geographic: ma perché emarginare la comunità scientifica italiana e internazionale? La proposta di “terminare” la basilica di San Lorenzo costruendo la facciata secondo l’”originario” progetto michelangiolesco, lanciata da Renzi a suo tempo in consiglio comunale, si è rivelata episodica e strumentale. Nel frattempo si è disinvestito da istituzioni che non avevano il sostegno dell’industria alberghiera (ma potevano rivelarsi importanti per la comunità dei residenti) e si sono patrocinate iniziative ambiguamente oscillanti tra scoutismo culturale e rapacità commerciale. Non si è infine esitato a impedire senza preavviso ai cittadini il passaggio dal Ponte Vecchio pur di assicurare maggiore privacy agli ospiti di un’esclusiva cena di gala di Luca Cordero di Montezemolo.

La prima cosa da dire è che l’attuale presidente del Consiglio sconta il limite sociologico della città da cui proviene. Firenze è una città di piccole o medie imprese attive in settori ipermaturi e a bassa tecnologia, a conduzione familiare. Alberghi, servizi, editoria finanziata o aggregata a poli museali. Salvo rare eccezioni l’orientamento non è alla competizione ma al controllo proprietario e, qualora possibile, alla rendita confortevole. Le più sbrigative “valorizzazioni” del patrimonio storico-artistico sono remunerative, relativamente anticicliche e non comportano rischio imprenditoriale: perché dunque darsi pena di finanziare progetti a medio e lungo termine, di cui beneficerebbero i cittadini, invece che “eventi” graditi ai visitatori, in primo luogo ai più abbienti? La produzione stereotipa di guide, foulard stampati con motivi botticelliani e cartoline con giglio non impone scelte strategiche né presenta le difficoltà di un’industria high-tech. “La cultura dovrebbe essere il baluardo di una sfida identitaria”, vaticina Renzi in Stil novo[1]. Non è chiaro tuttavia se intenda porre giusta enfasi sull’importanza dell’istruzione o semplicemente accompagnare le dichiarazioni dell’amico Farinetti sull’appeal di torroni e prosciutti doc. “Se è morta non è bellezza. Al massimo può essere storia dell’arte. Ma non suscita emozione”[2]. Ma che vuol dire?

Se per politica della cultura intendiamo una serie coerente di iniziative o provvedimenti volti a promuovere sollecitudine civile, discussione informata e ampiezza di confronti (quanto potremmo sinteticamente definire “apertura della mente”) dobbiamo riconoscere che tale politica non esiste per Matteo Renzi: esistono invece commercio e turismo. A mio parere l’adozione di un punto di vista aggressivamente consumistico costituisce un’incongruità per ciò che Renzi stesso rappresenta come segretario del Partito democratico. Provo a spiegare perché. Le nostre preferenze culturali sono modellate da differenti tipi di marketing. Se desideriamo che il “pubblico” (di una mostra, di un concerto) sia qualcosa di più e diverso da una folla plaudente che sorseggia cocktail e rende omaggio alla munificenza di mecenati pubblici o privati dovremmo porci il problema dell’inclusione. I “mercati culturali” non sono efficienti: esistono alti costi di accesso e pronunciate asimmetrie informative[3].

Personalmente ritengo che l’arte non debba trasformarsi in una sorta di testimonial della disuguaglianza né corteggiare in maniera esclusiva i mondi della ricchezza: almeno non se ci poniamo dal punto di vista dell’amministratore pubblico. Eppure questa è la tendenza dominante. Né credo sia lecita la riconduzione del patrimonio storico-artistico alla sola dimensione del profitto: obbliga la cultura a competere sul breve termine con industrie ben più remunerative. La Costituzione prevede l’investimento pubblico in cultura perché riconosce la specifica complessità del processo di partecipazione[4]. Al pari dell’indigenza, i deficit educativi creano “ostacoli” formidabili alla piena esplicazione sociale e professionale della persona. E’ tuttavia interesse generale, quantomeno in uno stato di diritto, che vi sia (e continui ad esservi attraverso le generazioni) un’opinione pubblica informata e indipendente. Sospinto da un pregiudizio “popolare” (o più semplicemente populista) e dallo spiccato amore per l’acclamazione, il più giovane presidente del consiglio della storia italiana ha sinora mostrato di ignorare le responsabilità di una seria politica culturale. Ha sottostimato i benefici economici e civili della ricerca. Si è circondato di collaboratori fugaci e modesti e ha privilegiato opache reti amicali. Non ha fatto ottimi studi né ha ragione di nasconderlo. In futuro farà tuttavia meglio a evitare dispersive polemiche con i “professori” per valutare senza pregiudizio punti di vista meditati[5]. Perché, malgrado accattivanti appelli all’”uguaglianza”, tanta disattenzione ai temi della cittadinanza? Suppongo che l’organicità di Renzi a cerchie economiche e d’opinione dominanti possa essere la risposta che cerchiamo.

[1] Matteo Renzi, Stil novo, Rizzoli, Milano 2012, p. 50.
[2] ibid., p. 55.
[3] Gustavo Zagrebelsky, Fondata sulla cultura, Einaudi, Torino 2014, p. 44: “le tante conoscenze particolari restano scomposte come tessere di mosaico che non compongono figure… Qualunque avventuriero della conoscenza [può] infilarsi, senza incontrare ostacoli, di fronte a un pubblico ignorante e inconsapevole. Il ‘pubblico’ è già vittima della capacità specialista e dell’ignoranza generalista”. Uno stato di diritto può trascurare il compito di un’educazione permanente dei suoi cittadini?
[4] Sul tema cfr. Salvatore Settis, Paesaggio costituzione cemento, Einaudi, Torino 2010, p. 122 e ss.
[5] Con un ampio e polemico intervento apparso su Repubblica, Giovanni Valentini si è recentemente posto in scia a Renzi attaccando le soprintendenze con argomenti che sono sembrati in larga parte pretestuosi, soprattutto per la mancata distinzione, quanto alle modalità di partnership pubblico|privato, tra filantropia culturale o no profit da un lato, sbrigative forme di “valorizzazione” commerciale dall’altro (I no delle soprintendenze che rovinano i tesori d’Italia, in: la Repubblica, 9.3.2014, pp. 1, 20). A mio avviso la differenza non passa tra capitale pubblico e capitale privato: ma tra “capitale paziente” (per usare la felice definizione di Mariana Mazzucato) e capitale speculativo o rendita. Checché se ne dica la piccola o media impresa attiva oggi in Italia nell’ambito dei servizi al patrimonio non è in grado di (né motivata a) produrre innovazione: sottocapitalizzata, trae la propria sopravvivenza da relazioni politiche e vive di progetti a breve termine (Paolo Sylos Labini, La crisi italiana, Laterza, Bari 1995, p. 9 e ss.). L’attività di agenzie pubbliche in grado di selezionare competenza, procurare strategia e finanziare trasformazione – qualcosa che il MiBACT di oggi, inutile dirlo, è del tutto incapace di fare – potrebbe risultare di grande vantaggio. L’editoriale di Valentini ha sorpreso quanti, sulla prima pagina del quotidiano romano, erano soliti trovare qualificate difese del patrimonio e dell’ambiente intesi come “bene comune”. Sulle retoriche della “sussidiarietà” e le loro implicazioni ideologiche (“neoguelfe” o meglio neocesaristiche) nel contesto della discussione italiana sulle politiche della tutela cfr. Michele Dantini, Inchiesta su “patrimonio” e “sussidiarietà”. Retoriche, politiche, usi pubblicitari, in: ROARS, 9.11.2012, qui. Per una ricostruzione dell’”industria delle concessioni” cfr. Tomaso Montanari, Le pietre e il popolo, minimum fax, Roma 2013, p. 21 e ss. Cfr. anche, di Valentini, l’elusiva controreplica dal titolo Quelli che difendono le soprintendenze, in: la Repubblica, 12.3.2014, p. 56.

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