L’Arena chiarisce che la questione Salva Berlusconi è ancora sul tavolo. Peraltro, la Boschi sembra dimenticare che la legge francese mette una doppia soglia: o il 10% dell’imponibile o 153 euro». Il Fatto Quotidiano, 2 febbraio 2014
In questa partita c’è un nuovo protagonista: il neo presidente della Repubblica. Che ieri, non a caso, ha passato un’ora con Napolitano: si è fatto spiegare e raccontare quali ostacoli il Quirinale deve affrontare, come sono i rapporti con Palazzo Chigi, a che punto è il percorso delle riforme. I decreti attuativi della delega fiscale arriveranno presto sulla sua scrivania: firmerà? Chi lo conosce bene lo racconta come un uomo molto preciso, anzi pignolo, molto attento agli equilibri politici, ma anche agli aspetti istituzionali e costituzionali. Vedremo. In arrivo prossimamente i decreti attuativi del jobs act e il milleproroghe.
La Repubblica, 2 febbraio 2015 (m.p.r.)
Sergio Mattarella e Matteo Renzi. I due Presidenti. Formano una strana coppia, tanto sono diversi e lontani. Anche se, fra i due, c’è un filo politico e culturale comune. Mattarella è stato e resta un democristiano - di sinistra. Uno di quelli che si definiscono - e vengono definiti - cattolici democratici. Renzi, invece, è post-democristiano. Interpreta un modello di (post) democrazia personalizzata e mediatizzata. Dove i partiti contano meno perché, in fondo, si sono liquefatti. Per questo l’elezione di Mattarella permette di precisare il tipo di leadership e di democrazia interpretati da Renzi. Leader dei tempi liquidi, al tempo della democrazia liquida. Secondo la nota formula di Zygmunt Bauman. Cioè: senza appigli stabili e senza riferimenti coerenti. In continua evoluzione e ri-definizione. Renzi ne ha fatto un ambiente amico. Dove agisce e decide, perlopiù, da solo.
Il Fatto Quotidiano, 2 febbraio 2015
Montepulciano d’Abruzzo. Vino DOCG, prodotto nelle province di Chieti, l’Aquila, Pescara e Teramo. Colore: rosso rubino intenso con lievi sfumature violacee, tendenza al granato con l’invecchiamento. Odore: profumi di frutti rossi, spezie, intenso, etereo. Sapore: pieno, asciutto, armonico, giustamente tannico. Solitamente si abbina a piatti dal gusto forte, selvaggina, carni rosse, formaggi stagionati. Ha una gradazione minima di 12,5°. Di particolare pregio il vitigno Montepulciano d'Abruzzo Colline Teramane, da coltivarsi con estrema cura e a debita distanza da impianti di ricerca di idrocarburi! Etichetta certificata #NOTRIV.
Mesi fa il Parlamento ha convertito in legge lo Sblocca Italia. Un provvedimento che mirava a rilanciare l’economia e accelerare la realizzazione di grandi opere, ad aprire inceneritori e a dare il via libera agli interventi paralizzati da piccoli comuni e comitati particolarmente resistenti. Il premier l’aveva twittato forte e chiaro: «#basta-comitatini, stanco di fare figuracce quando parlo di energia con i leader della pianeta».
Tra le grandi idee c’è un’intuizione moderna come il motore a scoppio! Aprire una stagione di trivellazioni in tutto il Paese: dalla Basilicata alla Sicilia, dalla Lombardia all’Emilia Romagna. Dalla Puglia, all’Abruzzo, alle Marche, lungo tutto l’Adriatico. Poco importa se il made in Italy ne pagherà le conseguenze. Per tenerne alto il morale basterà il sito verybello.it. Ma esistono comitatini e piccoli comuni che non vogliono perdere i beni comuni. E sanno essere tenaci. Soprattutto quelli abruzzesi. Forse per via dell’ottimo vitigno dall’odore etereo. Così, in Provincia di Teramo, i sindaci dei Comuni di Bellante, Campli e Mosciano S.Angelo, insieme ai comitatini NOTRIV e al giovane costituzionalista Enzo Di Salvatore, non si sono rassegnati al futuro che attendeva la terra su cui cresce il Montepulciano DOCG decantato sulle etichette che viaggiano per il mondo. E hanno detto “no!” allo skyline in cui le trivelle dovrebbero prendere il posto dei filari su un territorio di ben 83 km quadrati.
La Repubblica, 1 febbraio 2015 (m.p.r.)
Inevitabile che la Panda grigia di Sergio Mattarella che sfila fino alle Fosse Ardeatine, ultimo gesto privato e insieme primo gesto pubblico del nuovo presidente, si imprima nella retina del pubblico, vasto o meno vasto, che ancora guarda a Roma non come a un enorme detrito o a un incomprensibile groviglio di cinismo e di intrallazzi, ma come alla capitale del paese. L’utilitaria grigia di famiglia, non la berlina blu di Stato, trasporta l’uomo che incarna le istituzioni, e tanto basterebbe ad accendere l’attenzione.
Il manifesto, 31 gennaio 2015
«Mentre Piersanti come capo dello Stato avrebbe potuto assomigliare più a Pertini, Sergio lo vedo più simile a Einaudi. Due grandi presidenti con i quali Mattarella comunque condivide le stesse posizioni rispetto alla Costituzione repubblicana, al pluralismo della politica, all’equilibrio delle istituzioni, alla centralità del parlamento, e molto altro». Guido Bodrato, classe 1933, più volte deputato, ministro ed eurodeputato, non nasconde il suo entusiasmo nel pregustare la salita al Colle del suo amico e compagno di tanti anni di battaglie nelle fila della sinistra Dc. E, a differenza di Napolitano, dice, non occuperà «la scena politica, di una politica diventata spettacolo».
In sostanza, lei vede Mattarella come un difensore d’altri tempi dei ruoli costituzionali…
«Io sono un elettore del Pd, ma non sono un iscritto perché finché questo partito non avrà una posizione assolutamente coerente sui valori della Costituzione del ’48 - siccome questo è il parametro con cui più di ogni altro giudico una posizione politica - io non lo sento pienamente come il mio partito. Mattarella sarà l’uomo che rispetterà più le istituzioni, attentissimo agli aspetti della legalità e al rispetto della Costituzione, d’altronde non a caso è giudice costituzionale».
Questa sua cultura politica secondo lei lo differenzia molto dal presidente Napolitano?
«Ho più di 80 anni e sono in politica da quando ne avevo 18, ma non conosco più l’assemblea parlamentare. Sono cambiate tante cose, quindi fare il confronto è difficile. Però mentre Napolitano, anche se è della prima repubblica, occupa in qualche modo la scena politica di una politica che è diventata spettacolo, invece Mattarella secondo me sarà bene accetto dall’opinione pubblica perché è uomo convincente e trasparente. Parlando di ciò che esprimono politicamente credo non ci sia una sostanziale differenza, ma se parliamo dell’immagine pubblica, Mattarella è uomo riservato, silenzioso, non è un grande oratore, mentre Napolitano lo è».
Ed è anche il grande protettore del governo di larghe intese non eletto e del patto del «Nazareno…
Vede, vorrei dire a Vendola - persona di cui ho grande simpatia e con cui condivido molte opinioni - che ho visto soddisfattissimo come se fosse lui il vincitore, che è cambiato il quadro di riferimento. Usando un linguaggio da prima repubblica: il patto del Nazareno in questi giorni non è naufragato, è superato. Perché le cose che hanno fatto sulla base di quel patto credo che resteranno, sarà molto difficile cambiarle. Però è altrettanto vero che quel tipo di intesa politica costruita su due personaggi molto diversi per certi aspetti e molto uguali per altri, non funzionerà più in quei termini. Bisogna vedere cosa cambierà, ma non credo che si possa tornare indietro per rifare la partita».
Ma Mattarella non è un sostenitore del presidenzialismo?
«No, ecco, presidenzialista Mattarella proprio non lo è. Se è vero che Renzi ha preferito Mattarella a Prodi, è perché Prodi, da ex premier, come capo dello Stato avrebbe sicuramente invaso l’area del presidente del Consiglio, cosa che Mattarella non farà. Per questo dico che Sergio sarà più Einaudi: resterà uomo della Costituzione, probabilmente in un modo che potrà apparire tradizionale».
Siamo, come qualcuno sostiene, alla fine della seconda repubblica tornando alla prima?
«No, questo non lo credo. Sono cambiate talmente tante cose, sono cambiati i partiti. Il modo con cui questo parlamento ha affrontato la riforma del senato, con i senatori eletti dai consigli regionali, mostra una cultura che per me è inimmaginabile. Io che da giovane ho fatto anche il docente universitario, se avessi dovuto esaminare chi ha sostenuto le cose con le quali il parlamento quasi unanimemente si è mosso, li avrei bocciati tutti. Non vedo la coerenza con l’ordinamento costituzionale.
«Però è così, è cambiato il modo di pensare delle nuove generazioni politiche, ma non si può far finta che queste cose non siano accadute. I mutamenti sono stati così profondi che immaginare che si torni indietro, addirittura alla Dc, è un non senso. Anche se mi fa molto piacere che si riconosca che tutti i partiti della prima repubblica, non solo la Dc, hanno prodotto una classe dirigente che è rimasta in piedi e che continua a essere utile al paese».
Nel luglio 1990 venne varata la legge Mammì sul sistema radiotelevisivo privato: Craxi minacciava di far cadere il governo se non fosse passata mentre la sinistra Dc si opponeva, tanto che cinque vostri ministri si dimisero. Andreotti però accolse le dimissioni, pose la fiducia e andrò avanti come un treno.…
«E io mi dimisi dalla segreteria del partito… Credo che l’ostilità di Berlusconi venga soprattutto da lì. Un episodio che allora fu fondamentale perché al di là della disponibilità delle frequenze avevamo la preoccupazione di come si stava costruendo un’egemonia del sistema informativo sulla vita democratica, con un’impronta che - come poi è diventato lampante - metteva fuori gioco il pluralismo democratico e introduceva tendenze autoritarie molto forti. Per questo abbiamo fatto quella battaglia. E l’abbiamo persa. La sinistra democristiana, prima e più profondamente di altri, aveva capito che si stava affermando una cultura sempre meno rispettosa dei valori della Costituzione. E anche delle norme definite a livello europeo. Poi in effetti Berlusconi ha realizzato quasi un blitz elettorale con quegli strumenti, ma anche perché ha saputo cavalcare un modo di fare politica che stava già dilagando».
Quindi secondo lei Berlusconi non è affatto contrariato solo dal metodo con cui Renzi ha imposto il nome di Mattarella…
«Oramai diventa difficile distinguere. Però sì. Berlusconi secondo me sta sbagliando nel concentrare questa ostilità su Mattarella. Leggo che in definitiva lui considera la sinistra democristiana il suo principale avversario. Forse storicamente ha anche ragione, ma oggi tante cose sono cambiate».
Voi, e lei in particolare, però vi opponeste sempre all’ingresso di Forza Italia nel Ppe.
«Prima Castagnetti e poi io che ero responsabile del piccolo gruppo dei Popolari italiani… Oramai tutti fanno coincidere il Ppe e Berlusconi, ma in verità lui quando arrivò al parlamento europeo non entrò subito nel gruppo del Ppe. Lo fece solo successivamente. Loro avevano più di 20 parlamentari, noi eravamo meno di 10 e il Ppe aveva l’obiettivo di diventare il primo partito del parlamento europeo. Per noi invece evidentemente il problema era squisitamente politico. Purtroppo adesso tutti si definiscono popolari, ma per la verità nel 2004 con François Bayrou, (leader del Movimento democratico francese, ndr) portammo il gruppo Schuman fuori dal Ppe proprio perché i popolari europei avevano scelto, solo per ragioni di quantità, l’accordo con i conservatori inglesi, così come avevano fatto cinque anni prima con Berlusconi. Come si vede, quindi, le occasioni di scontro sono state diverse e sostanzialmente erano sempre tra una visione cattolico-democratica e una conservatrice».
Il manifesto, 30 gennaio 2015
Unione. Il Grexit non è del tutto escluso, malgrado la volontà del governo greco e dei cittadini del paese di non uscire dall’euro
Solo un New Deal europeo, con un collegamento tra soluzione della crisi del debito e piano di investimenti di Juncker (finanziato per davvero e non solo con i 21 miliardi promessi a moltiplicarsi fino a 315), potrà far uscire la zona euro dal pantano, sostengono molti economisti (gli Economistes atterrés hanno appena pubblicato il loro Nouveau Manifeste).
Ma le regole della zona euro impongono che ogni programma della Bei sia cofinanziato dagli stati almeno al 50% e per la Grecia anche questa è una soluzione al ribasso, visto che Draghi ha legato l’accesso alla liquidità pro rata alla partecipazione nel capitale della Bce (2% per la Grecia). Un circolo vizioso, per paesi senza margini di manovra finanziaria.
In questi primi giorni di governo Tsipras, la Grecia è stata lasciata sola di fronte ai movimenti della finanza: come c’era da aspettarsi, la Borsa di Atene è crollata (mercoledì meno 9% in seguito alla sospensione delle privatizzazioni imposte dalla trojka, i titoli delle banche greche sono precipitati del 26%), i capitali continuano a fuggire, mentre le Borse europee viaggiano per conto loro, senza subire contraccolpi greci consistenti. I tassi di interesse sul debito privato sono volati a più del 10%. L’irrazionalità potrebbe prendere il sopravvento.
Il Grexit non è del tutto escluso, malgrado la volontà del governo greco e dei cittadini del paese di non uscire dall’euro. L’uscita dall’euro, inoltre, non è contemplata dai trattati: il Trattato di Lisbona prevede l’uscita dalla Ue, per Atene significherebbe abbandonare prima l’Unione per poi rientrarvi (con un voto all’unanimità dei partner), ma senza euro.
Per la Grecia, sarebbe oggettivamente un disastro, con la svalutazione che ne conseguirebbe mentre il debito resterebbe in euro, per oltrepassare il 200% del pil. Nessuno vorrebbe più prestare denaro alla Grecia. Un’uscita dall’euro della Grecia, che pesa solo per il 2% del pil europeo, viene considerata da Bruxelles al limite economicamente gestibile, ma politicamente esplosiva: l’instabilità potrebbe raggiungere altri paesi, a cominciare dalla Spagna.
Ma le istituzioni europee si stanno intestardendo sulla sola questione del debito. Ricordano che la Grecia ha avuto 240 miliardi in aiuti diversi dai partner, anche se si dimenticano di dire che una parte consistente è tornata nelle casse dei creditori, che la cifra colossale è servita per salvare le banche e non per sollevare la vita quotidiana dei cittadini greci. Gli europei si riparano dietro il paravento della minimizzazione del “contagio”. Con la crisi, sono stati istituiti vari parafulmini, che limitano la propagazione del crollo ad altri paesi indebitati, dal Mes all’Unione bancaria, fino al quantitative easing lanciato da Mario Draghi il 22 gennaio. Ma tutte queste misure sono state concepite per proteggere i mercati, non le popolazioni.
Nei fatti, malgrado i due Memorandum e gli «aiuti» di 240 miliardi, dal 2010 al 2014 il debito greco è diminuito soltanto di una manciata di miliardi (da 330 a 321,7), mentre, a causa del calo della produzione di ricchezza nazionale, la percentuale del peso del debito è aumentata, dal 146 al 175% del Pil.
Ma i partner, Germania in testa, si intestardiscono sui numeri: non devono essere i contribuenti degli altri paesi a pagare. Il debito greco è a più del 70% nella mani di creditori pubblici, 32 miliardi dell’Fmi, più di 141 miliardi dell’Fesf (fondo europeo di stabilità) e 53 miliardi di prestiti bilaterali da parte degli stati membri (40 miliardi per la sola Francia, ad esempio, una cifra analoga per l’Italia, un po’ superiore per la Germania).
Questi sono miliardi a cui i partner hanno dato una «garanzia» e per questo sono stati calcolati nei rispettivi deficit. Gli europei vanno valere di aver già abbassato notevolmente i tassi di interesse imposti alla Grecia e di aver allungato i tempi del rimborso (fino a 30 anni). Insistono sul fatto che, sottraendo gli interessi che la Bce riversa alla Grecia sui titoli del debito che detiene, il «peso» del servizio del debito è inferiore per Atene (2,6% secondo il think tank Brueghel) che per l’Italia (4,7%) o per il Portogallo (5%). Per Bruxelles, quindi, il margine di manovra di Tsipras sarebbe minimo, se decide di non rispettare gli «impegni» dei predecessori, soffocato dalla mancanza di liquidità e assediato dai mercati. La Ue calcola che i bisogni della Grecia per quest’anno siano intorno ai 36 miliardi e spera così, con visione miope, di mettere Tsipras con le spalle al muro e di fargli piegare la testa sotto le forche caudine del rispetto dell’austerità.
Ue da un lato e Tsipras dall’altro hanno in mano un’arma nucleare: Grexit e default (rinuncia a rimborsare). Ci vorrebbe un Salt I e II, uno Start e un telefono rosso tra Atene e Bruxelles
Lettera 42 online, 30 gennaio 2015
D. Invece in Grecia Tsipras ha preferito fare un'alleanza rosso-nero con la destra di Anel. È delusa?
R. No. Purtroppo Tsipras ha tentato varie alleanze: il Kke, partito comunista estremamente stalinista ha subito detto di no, e Potami, partito liberale, ha detto sì, ma a patto che si annacquasse la parte anti-austerity.
Il manifesto, 30 gennaio 2015
Norma Rangeri,
Se fossimo in un altro paese, la candidatura di Luciana Castellina non sarebbe soltanto una testimonianza - a noi molto vicina e cara - ma qualcosa di simbolicamente forte. Resterà però come un omaggio a chi è nel cuore della sinistra italiana.
Tutt’altro rispetto a quanto è successo ieri. Perché dietro la bandiera di Sergio Mattarella, il democristiano perbene, soffiano le trombe della rottura del patto del Nazareno e dell’unità ritrovata del Pd. Riemerge dalla polvere in cui era stato trascinato persino il fantasma del vecchio centrosinistra di bersaniana memoria con Nichi Vendola che, dopo Luciana, sosterrà Mattarella. E tira un sospiro di sollievo la variegata minoranza del Pd mentre davanti alle telecamere brandisce la candidatura del giudice costituzionale come la prova della rottura del patto con Berlusconi. Mattarella ha come spianato divisioni e divergenze.
Si esibisce come controprova il no della squadra di Arcore al politico siciliano, già fiero avversario delle leggi (Mammì, ma anche Gasparri) a favore del monopolista televisivo. E per giunta fermo oppositore dell’entrata di Forza Italia nella famiglia europea del Partito popolare. Un no, quello dell’ex Cavaliere, appena ammorbidito dall’esibito fair play di una gentile telefonata al candidato. E poi manifestato non con un voto contrario ma con la scheda bianca (come per l’elezione di Napolitano).
È anche curioso che in questo torneo quirinalizio si replichi quel che accadde ai tempi di Ciriaco De Mita. Il leader della sinistra democristiana che, come Renzi oggi, era segretario del partito e capo del governo. De Mita fu il regista dell’elezione di Francesco Cossiga: riunì, ancora una volta, governo e presidenza della repubblica sotto il tetto di piazza Del Gesù.
Una replica della storia che, dopo trent’anni, ieri pomeriggio, è tornata improvvisamente d’attualità con una vecchia, storica copertina del manifesto, esibita nell’aula di Montecitorio e in tv dal leghista Calderoli. Quel “Non moriremo democristiani” che campeggiava sulla nostra prima pagina del 1983, riferito al tracollo elettorale della Dc demitiana.
Un titolo che alludeva a «una speranza - scriveva Luigi Pintor - se la sinistra italiana non dilapiderà un risultato a suo favore come mai prima era accaduto». Tra prima e seconda repubblica, quel patrimonio è stato orgogliosamente espulso dal cuore del nuovo Pd renziano e oggi, se il dodicesimo presidente della repubblica sarà Sergio Mattarella, avremo ai vertici del paese, Palazzo Chigi e Quirinale, l’accoppiata di un quarantenne e un settantenne provenienti dalla storia democristiana. E’ un dato di fatto che porta a compimento, anche simbolicamente, quell’opera di rottamazione della radice comunista dallo scenario politico italiano per rinverdire, con spregiudicati innesti, la pianta degasperiana.
Non che il voto unanime dei grandi elettori del Pd per Sergio Mattarella presidente della repubblica, sia un certificato di garanzia contro un altro “Prodicidio”. Tuttavia questa volta la “carica dei 101″ sembra piuttosto improbabile. Renzi ha già il piede schiacciato sull’acceleratore della nuova costruzione mediatica del presidente «l’antimafia, le dimissioni per un ideale, i collegi per i parlamentari, l’abolizione della naja» che signoreggia su giornali e televisioni.
Sfacciatamente sostituita a quella che ci ha bombardato fino a ieri sulla necessità di eleggere un capo dello stato di levatura internazionale, di grandi relazioni nel mondo di economia e finanza. Tanto da spingere per la nomina del nuovo presidente della Repubblica entro il week-end per non urtare la «suscettibilità» dei mercati. A Sergio Mattarella manca almeno la metà delle qualità imprescindibili che dovevano caratterizzare la figura presidenziale. Una evidente presa in giro. Tra le tante a cui ci ha abituato il funambolico capo del governo.
Ma se alla quarta votazione Renzi riuscirà a eleggere Mattarella per il partito di Berlusconi sarà una Caporetto. Dopo aver steso la sua rete di protezione attorno al governo del Pd, assicurando numeri legali in aula, votando la legge elettorale, sostenendo la controriforma costituzionale, dovrà fare buon viso a cattivo gioco, sopportando la vittoria renziana sul Quirinale.
Se le cose andranno come sembra, il capo del governo ne uscirà rafforzato. Tuttavia resterà l’impressione di aver assistito a una partita decisa a tavolino, dalla segreteria di un partito, senza alcun dibattito e confronto interno. E senza passione, coinvolgimento, emozione per gli italiani, perché quanto è accaduto in questi giorni segna ancora di più il distacco tra i partiti e i cittadini.
Ieri in Parlamento è stato un piccolo tripudio per il manifesto. C’è stata la presunta protesta leghista contro gli inciuci renzian-berlusconiani, con Calderoli che issava la nostra prima pagina del 1983, «Non moriremo democristiani», il bel titolo fatto da Luigi Pintor; poi la Boldrini che ha allontanato leghisti e prime pagine, invece avrebbe fatto bene a cacciare i leghisti e a tenere in aula «il manifesto».
Sì, perché di lì a poco i deputati di Sel - e non solo - hanno cominciato, nella prima seduta destinata all’elezione del nuovo presidente della Repubblica, dopo l’uscita di scena del compact-presidente Napolitano, a votare per la nostra Luciana Castellina. Giusto.
Invece di votare scheda bianca, stavolta è stata scheda rossa, una bella bandiera issata per 37 volte. La votazione purtroppo è simbolica, ma c’è poco da scherzare. E poi metti che tra una recita e l’altra qualcuno nel dispositivo sbaglia e allora esce davvero Luciana Castellina? Purtroppo non accadrà come nell’estate del 1978 quando proprio il drappello dei deputati dell’allora Pdup propose il nome fino a quel momento minoritario di Sandro Pertini e alla fine fu una valanga di «Pertini presidente».
Fondatrice con Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Aldo Natoli, Valentino Parlato, Lucio Magri prima dell’esperienza della rivista «Il Manifesto», che fu poi causa della radiazione dal Pci, poi protagonisti della nascita di questo giornale. Lo meriterebbe eccome Luciana Castellina, donna, ex deputata, comunista sempre in prima fila, anche con la parola e la scrittura. Capace di attraversare le stagioni politiche e le capitali del mondo come fosse a casa, cosmopolita prima che la globalizzazione fosse realtà. Con lei il Quirinale sarebbe un avamposto della nuova Europa, una casa aperta, attenta e ospitale verso gli ultimi e i bisogni della società.
Lo meriterebbe davvero, sarebbe l’immagine dell’Italia che ha lottato, che non ha smesso di farlo. Ma che non ha vinto. E allora…
La Repubblica, 29 gennaio 2015 (m.p.r.)
«Mattarella? Ma se lei va a domandare ai deputati chi è, le risponderanno: chi, il cugino dell’onorevole Mattarellum?». Forse ha ragione Pino Pisicchio, che conosce bene i suoi colleghi parlamentari: a Montecitorio lo conoscono in pochi, l’uomo che potrebbe diventare il dodicesimo presidente della Repubblica. Perché in Transatlantico lui non si fa vedere da sette anni, e da allora qui dentro è cambiato quasi tutto: a cominciare dalle facce dei deputati. Però si fa presto a descriverlo. Avete presente Renzi? Bene, Sergio Mattarella è il suo esatto contrario. E’ uno che ama il grigio, evita le telecamere, parla a bassa voce e coltiva le virtù della pacatezza, dell’equilibrio e della prudenza. «In confronto a lui, Arnaldo Forlani è un movimentista » disse una volta Ciriaco De Mita, che lo conosce meglio di tutti perché 28 anni fa lo nominò ministro.
Il manifesto, 29 gennaio 2015
I primi segni del nuovo corso ellenico sono minimi, simbolici, ma già significativi. Da ieri mattina, primo giorno di lavoro del nuovo governo Tsipras, sono sparite le transenne davanti al Parlamento e con loro i Mat, le forze speciali antisommossa che presidiavano i ministeri, in particolare quello della Cultura. Il nuovo inquilino della sede di Exarchia ha poco da temere da anarchici e ribelli vari.
Si tratta di Aristidis Baltas e gode di un prestigio assoluto: filosofo althusseriano, è considerato uno dei maggiori pensatori marxisti in Grecia, proviene dall’Istituto Nikos Poulantzas (di cui è presidente) ed è noto per i suoi studi su Wittngstein, Derrida, Spinoza, Benjamin. Ad affiancarlo, come sottosegretari, ci saranno un noto giornalista, Nikos Xiolakis, responsabile delle pagine culturali del quotidiano Kathimerini, e Tassos Kourakis, un docente della Facoltà di Medicina di Salonicco sempre presente alle manifestazioni contro l’austerità e nelle lotte sociali (in particolare quella contro l’estrazione dell’oro nella penisola Calcidica).
Un segnale meno simbolico è invece arrivato dal primo consiglio dei ministri. Al termine Panaiotis Lafazanis, un matematico che abbandonò il Kke nel ’91 quando i «rinnovatori» persero la battaglia contro gli «ortodossi» e leader della corrente di sinistra di Syriza, Aristeria Platforma (Piattaforma di sinistra), che Tsipras ha messo alla testa del superministero alla Riorganizzazione produttiva, all’Ambiente e all’Energia, ha annunciato il blocco della privatizzazione del porto del Pireo. I portuali avranno anche un sottosegretario a loro molto vicino. Si tratta di Thodoris Dritsas: pireota doc, impiegato nella farmacia di famiglia, durante la dittatura militava in un gruppo denominato «Rivoluzione socialista» ed è tra i fondatori di Syriza. Di lui si ricordano le manganellate prese dalla polizia italiana al porto di Bari nel luglio 2001, quando la nave degli anti-G8 diretti a Genova fu respinta in Grecia.
Nel suo primo giorno di lavoro il ministro delle Finanze Yannis Varoufakis, economista di fama internazionale, ha incontrato davanti al ministero le donne delle pulizie che da un anno e mezzo chiedono di essere reintegrate, divenute un simbolo della lotta contro l’austerità. «Taglieremo le spese al ministero e le riassumeremo», ha promesso loro. Ma Varoufakis non rimarrà da solo ad affrontare i nodi principali che il governo dovrà sciogliere: la rinegoziazione del debito e la soluzione dei gravissimi problemi sociali causati dalla crisi.
Per questo Tsipras ha predisposto una vera e propria linea di fuoco. A coordinarla ci sarà il vicepresidente del Consiglio Yannis Dragasakis, un altro personaggio di assoluto spessore. Economista, già ministro dell’Economia nel governo di unità nazionale del 1989, fino al ’91 esponente di spicco del Kke, che abbandonò quando perse la segreteria per appena quattro voti (57 a 53), Dragasakis è considerato l’ispiratore della politica economica di Syriza. Il terzo esponente della troika di Tsipras è Yorgos Stafakis. Il neotitolare dell’Economia proviene da una famiglia dell’alta borghesia, è un pupillo di Dragasakis dai tempi del Kke (all’epoca era nel Kne, i Giovani comunisti), ma nel tempo si è spostato su posizioni riformiste, suscitando anche mugugni per alcune esternazioni, come quando affermò che il «debito odioso» dei greci, vale a dire quello provocato dalla speculazione finanziaria, non supera il 5 per cento. Tsipras l’ha voluto al governo per le sue posizioni fermamente contrarie al ritorno alla dracma e perché è considerato un profondo conoscitore dell’economia reale.
Al terzetto di economisti il neopremier ha affiancato due sottosegretari che rispondono direttamente a lui: quello alle Relazioni economiche internazionali, affidato a Euclide Thakalotos, un rappresentante del partito degli «inglesi» (si è laureato a Oxford e ha insegnato a Cambridge, mentre Varoufakis si è formato nell’Università dell’Essex così come la Governatrice dell’Attica Rena Dourou, braccio destro di Tsipras, e il deputato di Corfù Fotini Vaki), e l’altro agli Affari europei, messo nelle mani di Nikos Kundos, un eurodeputato dell’ala comunista di Syriza, noto per il suo attivismo a Bruxelles (di lui si contano 300 interventi e un migliaio di interrogazioni, anche su argomenti molto scottanti come quello della svendita dell’aeroporto di Atene e sul caso Siemens). Thakalotos, formatosi nei giovani laburisti inglesi, è invece un keynesiano puro. Ottimo conoscitore di Gramsci, sostenitore del commercio equo e solidale, è convinto che il debito della Grecia non sia sostenibile e che la ricetta per l’uscita dalla crisi abbia un solo nome: socialdemocrazia.
Il secondo pilastro del governo, dopo l’economia, è quello sociale. Alla testa troviamo Nikos Voutzis, a capo del secondo superministero (dopo l’Economia): agli Interni e alla riorganizzazione dell’amministrazione statale. Voutzis, proveniente dal Partito comunista dell’interno ed ex capo della segreteria politica di Syriza, sarà affiancato da un ministro ad hoc per la lotta alla corruzione, l’ex magistrato (dalla fama di duro) Panaiotis Nicoloudis, un indipendente voluto direttamente da Tsipras. Prima promessa: la chiusura delle carceri speciali. Contemporaneamente la sua viceministra con delega all’Immigrazione, Tasia Christodoulopoulou, si è impegnata a dare la cittadinanza a tutti i figli degli immigrati nati in Grecia.
Tralasciando le concessioni all’Anel (l’istrionico e discusso segretario Panos Kammenos alla Difesa, un sottosegretario con delega alla Macedonia e un’ex campionessa di salto in alto e 100 metri a ostacoli che la Cnn nel ’91 scelse tra le migliori dieci modelle al mondo alla quale è stata affidata la delega al Turismo), il terzo pilastro del governo Tsipras sarà il lavoro. Tra i primissimi provvedimenti ci saranno il ritorno alla contrattazione collettiva e l’aumento del salario minimo a 751 euro. Anche qui la squadra messa in campo è di tutto rispetto. Il nuovo ministro, Panos Skouletis, è stato per anni responsabile della comunicazione di Syriza. Sarà affiancato da Teano Fotiou (con delega alla Solidarietà sociale), una docente di Architettura al Politecnico attiva in Solidarity4all, la rete che gestisce gli ambulatori e le mense sociali, e da Mania Antonopoulou (con delega specifica per la lotta alla disoccupazione). Docente alla New York University e al Bard College, consigliere all’Onu sui temi dell’uguaglianza di genere, Antonopoulou è definita “la signora dei 300 mila posti di lavoro” per aver criticato duramente i fondi europei per la riqualificazione professionale (poiché, ha sostenuto, il problema in questo momento è l’assenza di offerta di lavoro), e per aver teorizzato, in uno studio per il Levy Institute, il ruolo dello Stato come datore di lavoro di ultima istanza per garantire la piena occupazione. Ora è chiamata a metterlo in pratica.
Il manifesto, 29 gennaio 2015
Aiuti immediati alle famiglie povere, riassunzioni dei licenziati dalla Troika e dai governi precedenti, blocco alle privatizzazioni del porto di Pireo e di Salonicco, allontanamento della ringhiera che circondava il parlamento, destituzione dei poliziotti in tenuta antisommossa dagli atenei, attribuzione di cittadinanza a tutti i figli di migranti nati in Grecia.
Sono alcune delle misure che già sono state prese o sono in corso di essere realizzate dal dream team di Alexis Tsipras, che comincia ad incontrarsi con i massimi dirigenti dell’ Ue per discutere sul programma del nuovo governo. Il premier ha poi proposto Zoi Konstantopoulou, figlia di un ex leader del Synaspismos (Coalizione della sinistra), ascendente del Syriza, e nota dirigente della sinistra radicale come candidata alla presidenza del parlamento.
Nell’ epicentro dei colloqui del governo - oggi con il presidente dell’ europarlamento, Martin Schulz e domani con il presidente dell’ eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem - il taglio del debito e l’annulamento del memorandum. «Non vogliamo andare allo scontro frontale con i nostri creditori, ma questa catastrofe sociale non può andare avanti. Siamo contrari a un conflitto distruttivo» ha detto Alexis Tsipras nel suo discorso di apertura del primo consiglio dei ministri. Per aggiungere poi che «siamo un governo di salvezza sociale, il popolo ci chiede di lavorare duramente per difendere la sua dignità».
«I greci sanno che non potremo cambiare lo stato della nostra economia in un giorno. Ma di una cosa possono essere certi: l’unico punto di riferimento di questo governo é il popolo» ha sottolineato il nuovo premier greco. Stessa lunghezza d’onda anche al primo discorso del ministro delle finanze, Yanis Varoufakis.
«I colloqui con i nostri creditori saranno difficili, ma riteniamo che i nostri partner ci possano dare una chance». Varoufakis che ha già parlato telefonicamente con il presidente dell’eurogruppo e la settimana prossima si incontrerà con i suoi omologhi italiano e francese. Il neo ministro ha affermato che ci sono «diversi punti di accordo» e non «di scontro» con gli altri membri dell’ eurogruppo, ma se le cose vanno male Atene «non accetterà più i trattati dell’Ue».
La reazione é arrivata proprio ieri prima da Bruxelles e poi da Berlino. La Commissione europea, con il vice-presidente dell’ esecutivo, Jyrki Katainen, fedelissimo della cancelliera Ankela Merkel, ha ripetuto che Atene «si é assunta degli impegni e ci aspettiamo che mantenga le promesse», mentre il ministro dell’economia tedesco, Sigmar Gabriel, ha ricordato ad Atene che «il nuovo governo deve essere giusto verso i contribuenti in Germania e in Europa che hanno mostrato solidarietà». Tutti i partner europei chiedono al governo Tsipras di mantenere i patti, escludendo ogni dialogo per un eventuale taglio del debito pubblico greco. Un atteggiamento che, se da una parte serve le politiche di rigore di Berlino, dall’altra nasconde due fattori non trascurabili.
Innanzitutto ciò che sottolineano tutti gli economisti del mondo e che dietro le quinte ammettono pure i dirigenti europei: il debito non è sostenibile, non solo in Grecia, ma anche in Italia, in Spagna e altrove. Perciò - ed è questa la proposta di Atene - bisogna affrontare la questione in una conferenza europea. In secondo luogo, riferendosi ai contribuenti europei, Alexis Tsipras che si incontrerà anche con il presidente francese, Francois Hollande, varie volte ha sottolineato che un eventuale hair-cut del debito pubblico non toccherà i contributi dei privati. «L’Europa e la Grecia possono avanzare insieme» ha detto più cauto ieri il commissario europeo agli Affari economici, Pierre Moscovici. Infine, a Tsipras, è arrivata anche la telefonata di Obama, che si è detto disposto ad aiutare il paese: «Pure io ero giovane come te quando sono stato eletto e ora ho i capelli grigi», avrebbe detto al leader greco il presidente Usa.
Il manifesto, 28 gennaio 2015
La prima viene dal «supercanguro». L’approvazione dell’emendamento 01.103, a firma Esposito, ha fatto cadere – a quanto si legge — decine di migliaia di emendamenti. Magia parlamentare? In realtà il trucco c’è, e si vede. In principio, un emendamento sostituisce un contenuto normativo. Da qui la tipica formula: «sostituire le parole A, B, C con le parole D, E, F». Per l’art. 72 Cost. la legge elettorale è necessariamente discussa e approvata in assemblea articolo per articolo. Per l’art. 100 del regolamento senato gli emendamenti seguono la stessa logica.
L’emendamento 01.103 premetteva all’art. 1 dell’Italicum un articolo 01 recante in sintesi indirizzi generali per l’intera proposta. Non richiamava altri articoli, commi, emendamenti, e non ne toccava quindi il contenuto normativo specifico. Nemmeno poneva norme autonomamente applicabili. Né infine rispettava il principio della discussione e approvazione articolo per articolo, come è provato proprio dalla decadenza di emendamenti a molteplici articoli del disegno di legge.
Come è stato detto in Aula, al più avrebbe potuto configurarsi come ordine del giorno.
Seguendo la logica dell’emendamento Esposito basterebbe — sotto le mentite spoglie di emendamento — anteporre a qualsiasi disegno di legge un riassunto dei suoi contenuti e approvarlo per far ritenere preclusi tutti gli emendamenti. Un bavaglio istantaneo e, se fatto dal governo, una sostanziale ghigliottina disponibile ad libitum. Basta e avanza a provare il tradimento della lettera e dello spirito della Costituzione e del regolamento, e per di più in una materia cruciale, come è quella elettorale. L’emendamento 01.103 doveva essere dichiarato inammissibile, in quanto privo di «reale portata modificativa» (art. 100.8 reg. sen.). Approvato, avvelena l’intero testo, aggiungendo motivi a una futura impugnativa davanti alla Corte costituzionale.
La seconda macroscopica violazione viene dalla conclamata inosservanza della sentenza della Consulta 1/2014, che si incardina nella indiscutibile natura del voto libero e uguale come diritto fondamentale e inviolabile. Eventuali limiti devono essere necessari per il raggiungimento di fini costituzionalmente rilevanti, proporzionati ad essi, e giustificati dall’assenza di alternative meno lesive.
Tali principi sono lesi dai capilista bloccati. Di fatto, solo gli elettori dei maggiori partiti potranno esprimere utilmente la preferenza. Ciò rende il voto diseguale, tra elettori di partiti diversi, e lo rende altresì per tutti non libero, concorrendo comunque il voto ad eleggere un capolista che potrebbe essere non voluto. In ultima analisi, è la stessa lesione censurata dalla Corte nel porcellum. E il controllo della rappresentanza che la norma persegue non è obiettivo costituzionalmente apprezzabile.
Inoltre, nell’Italicum non è necessaria e proporzionata la riduzione della rappresentatività dell’assemblea. Anche assumendo la stabilità/governabilità come interesse costituzionalmente rilevante e bilanciabile con il diritto di voto – e personalmente non concordo con l’avviso in tal senso della Corte – è ovvio che l’obiettivo si raggiunge pienamente già con il megapremio e il ballottaggio. È certo che una maggioranza parlamentare esiste. Posticcia magari, e con l’aggiunta di seggi non conquistati nelle urne: ma c’è. Questo rende le soglie di sbarramento, ancorché abbassate, un limite inutile ed eccessivo.
La semplificazione del sistema politico non è un obiettivo costituzionalmente apprezzabile, e anzi si pone in contrasto con l’art. 49 Cost. Lo stesso argomento vale per il premio alla sola lista, che colpisce altresì il voto uguale. Nel caso di una coalizione vincente, l’elettore – pur avendo scelto lo stesso schieramento — si troverà sotto o sovra rappresentato a seconda che abbia votato per il partito maggiore o quello minore. Sarà inoltre favorita l’invenzione di listoni unici di facciata buoni solo per il voto. E che però accentueranno la decisione oligarchica e centralistica delle candidature, posto che listoni siffatti richiedono mediazioni complessive impossibili in periferia.
Esistevano alternative meno dannose? Certamente sì. Abbiano assistito a una distruzione voluta per obiettivi non condivisibili e motivi abietti. Se tutto questo andasse avanti, diremmo addio alla Repubblica democratica e alla Costituzione come le abbiamo conosciute. Addolora che ciò accada nel disinteresse dell’opinione pubblica, per mano di un parlamento delegittimato per l’incostituzionalità dichiarata della legge elettorale, selezionato al peggio da tre turni consecutivi di Porcellum, e ormai privo di qualità e di nerbo.
Durante il ventennio tanti non vollero vedere, ascoltare, parlare. Ma nacque anche un ceto politico che seppe rischiare il proprio futuro, e persino la vita, anche quando sembrava non esserci speranza. Se quegli uomini e quelle donne avessero sofferto le debolezze di quelli che oggi popolano le istituzioni, saremmo ancora tutti in camicia nera
Il manifesto, 28 gennaio 2015
È molto stretta l’inquadratura del progetto delle sinistre unite. Ritaglia le facce note, leader di piccoli partiti, di correnti di un grande partito, di associazioni. Un racconto conosciuto, battuta per battuta, e non è solo abituale pigrizia da sistema mediatico. È veramente questa la sinistra unita – tutta di uomini – che in Italia si mette in cammino?
C’è una direzione positiva nel coordinamento delle sinistre proposto Nichi Vendola, cambia il clima dopo il risultato conseguito con la lista L’Altra Europa con Tsipras, originato dalla giusta intuizione dell’Europa come reale spazio dei conflitti, e la battuta d’arresto successiva. Ma cosa garantisce – al di là delle intenzioni – che non si percorrano le solite strade di sterili patti tra ceti politici?
Proviamo a rovesciare l’inquadratura e il racconto. A quale popolo si rivolge la sinistra? Sì, popolo, uso per scelta una parola diventata un tabù, come se popolo fosse di per sé sinonimo di destra, di pulsioni reazionarie. E la uso, questa parola, perché il sociale – nell’uso corrente e quasi automatico dei dibattiti politici – rischia di essere senza carne e sangue. E soprattutto rischia di lasciare senza corpo chi fa politica, come è capitato nei cambiamenti che hanno segnato le grandi organizzazioni di un tempo. Perfino i movimenti – che del sociale dovrebbero essere l’espressione — rischiano di perdere la spinta originaria che li ha resi tali, chiusi in un’autorappresentazione che continua ad alimentarsi di stessa.
Allora, popolo. Popolo di sinistra. Per me sono donne e giovani, prima di tutto. Precari e precarie che combattono con un lavoro frammentato e sottopagato. Madri single che comuni sempre più impoveriti non riescono più a sostenere, neanche con gli asili. Chi vede minacciato il proprio posto di lavoro. E naturalmente pensionati a cui vengono erosi passo dopo passo i diritti. Persone che con affitti che non riescono più a pagare, ma anche case di proprietà troppo costose per redditi sempre più bassi. E costi sanitari sempre più alti. Oppure famiglie costrette a condividere spazi piccoli, o convivenze di estranei neanche giovani, in una cultura che non prevede i monolocali a basso costo. Sono povertà che vengono nascoste dalla narrazione corrente dei media, ma anche dalla politica mainstream.
Dettagli, mi si potrebbe obiettare, una perdita di tempo. Questo è il punto. Non si tratta di minuzie da lasciare alle associazioni, al più alla passione più o meno solitaria di militanti di base. Questa è vita. Queste sono le persone, queste è il popolo con cui fare politica. Questo è lo spazio lasciato vuoto da un Pd sempre più separato dal mondo del lavoro.
È un popolo che ha paura, come sanno bene Matteo Salvini e tutte le destre populiste europee. È a loro che vogliamo lasciarlo? Più che la paura, del popolo oggi temo l’indifferenza. Come difesa dalla mancanza di speranza. Speranza di cambiare. Perché esistono forme di reciproco aiuto, una rete di affetti – tra i giovani ma non solo – che regge l’urto violento del neo-liberismo. È che non basta più. È un po’ come il Distretto 12 di Hunger Games, prima che Katniss partecipi ai giochi. Il potere pervade tutto. Si può riuscire a non morire di fame, ci si vuole molto bene, ma non basta. Occorre una speranza, occorre lottare.
Fare politica oggi è lavorare per creare spazi comuni, in cui tutti possano incontrarsi. Chi lotta per la casa, come chi sa tutto delle politiche di genere, o del Ttip. Chi organizza campagne o raccoglie firme, come chi è se stesso, con la propria fatica di vivere e di riconoscersi nei problemi comuni. Aspetto non secondario di una proposta e una pratica politica. Spazi sparsi nelle città, nei quartieri. Luoghi fisici, in cui incontrarsi, scambiare, organizzare e organizzarsi. Accogliere ciò che esiste senza inglobarlo, elaborare idee, sostenere lotte, rendere visibili nuove facce, di donne e anche di uomini. Luoghi simbolici delle molteplici connessioni in Italia e in Europa, a cui internet può dare strumenti utilissimi di confronto, comunicazione e democrazia. Senza pretendere di guidare dall’alto, senza lasciare tutto all’irresponsabilità del caso. C’è un enorme lavoro da fare. Ne vale la pena
«Una cosa è certa: la troika, dovrà abituarsi al fatto che il salvataggio della Grecia non è solo una questione di tassi d’interesse, bond, rate di prestiti, sostenibilità dell’esposizione e rapporti debito/Pil. Tsipras, Varoufakis & C. metteranno sul tavolo delle trattative anche le lacrime dell’interprete senzatetto. Sono quelle il nuovo parametro su cui la Ue dovrà imparare a ridisegnare la sua politica economica». La Repubblica, 28 gennaio 2015
Prima gli auguri formali al nuovo governo greco, seppur fatti pervenire con due giorni di ritardo. Subito dopo, riunita con i vertici del suo partito, Angela Merkel tiene il punto: la Germania è contraria ad ogni revisione del debito ellenico. Così come il presidente dell’Europarlamento, il socialista Martin Schulz, che domani incontrerà Tsipras: «Bisogna attenersi agli impegni presi». Una doppia risposta al nuovo viceministro dell’Esteri Euclid Tsakalotos che poche ore prima aveva ribadito la linea di Syriza: «Sappiamo tutti che ripagare il nostro debito pubblico è irrealistico». E così nel giorno della nomina dei ministri lo scontro tra i rigoristi e gli anti-austerity sembra già surriscaldarsi.
Ma il neo presidente e i suoi tirano dritto, almeno a parole. «Altro che spread e troika, il mio primo pensiero andrà ai nostri nuovi poveri», si presenta il nuovo ministro delle Finanze greco, l’economista Yanis Varoufakis. Il dicastero più importante del governo è andato a questo professore universitario di 53 anni fuori dagli (attuali) schemi: un comunista a metà tra utopia e pragmatismo, passaporto greco e australiano, capace di giurare davanti al capo dello Stato con il look di sempre, giacca e camicia fuori dai pantaloni. E che, prima ancora della nomina ufficiale, ha commentato così la notizia sul proprio blog: «Volete sapere cosa penserò quando varcherò per la prima volta l’ingresso del ministero? Alla troika? Allo spread? Sbagliato. Nel mio cuore — scrive Varoufakis — ci sarà il ricordo dell’interprete che ho incontrato nei giorni scorsi. Prima di congedarsi è scoppiata in lacrime: “Facevo l’insegnante di lingue ma sono rimasta senza lavoro. Ora vivo per strada, me la cavo con lavoretti saltuari, mi hanno tolto il figlio che vedo una volta al mese. Non le chiedo di fare qualcosa per me. Per me è finita. Ma fate quel che potete per chi riesce a stare ancora in piedi”. Da ministro mi occuperò di questo». Come a dire: dietro ai vincoli e agli indici economici ci sono le persone in carne e ossa e noi penseremo a quelle.
L’esecutivo varato da Alexis Tsipras è composto da dieci ministri (nessuno è donna), un taglio di sei rispetto a quelli del suo predecessore Antonis Samaras. E a parte la Difesa, che come previsto è andata all’alleato di governo Anel e al suo leader Panos Kammenos (sognava quel posto da una vita), sono tutti esponenti vicini a Syriza. Anche se due di loro provengono dal Pasok; nomine che, insieme ovviamente all’alleanza ibrida con i nazionalisti di Anel, hanno creato qualche malumore nella base del partito, che da sempre guarda con sospetto gli ex socialisti folgorati sulla via di Tsipras. Il quale ha nominato «ministro di Stato» — una sorta di sottosegretario alla presidenza del Consiglio — Nikos Pappas, prima amico e poi uomo ombra del premier praticamente da sempre, sin dai tempi dei social forum a cavallo del Duemila.
Tsipras ha fatto davvero la cosa giusta. Perché le decisioni greche riguardano tutti noi». Il manifesto, 28 gennaio 2015, con postilla, rafforzativa
La Repubblica, 27 gennaio 2015 (m.p.r.)
La Repubblica, 27 gennaio 2014 (m.p.r.)
Grosseto. Al suo posto, una sedia vuota. Francesco Schettino non si è presentato ieri in aula al teatro Moderno di Grosseto, ma il conto è arrivato lo stesso. Il pm Maria Navarro, si ferma un momento nella requisitoria, mezzogiorno passato da poco. Riprende fiato, un sorso d’acqua da un bicchiere e comincia l’affondo: chiede una condanna a 26 anni per il comandante di Costa Concordia, più tre mesi di arresto, più una misura cautelare «per il pericolo di fuga». «Schettino ha girato il mondo, potrebbe non avrebbe difficoltà a trovare un appoggio fuori dall’Italia» spiega alla corte.
fiscal compact». Lavoce.info, 26 gennaio 1014 (m.p.r.)
Chi ha "votato" per Syriza. E cho no
Certo, grazie all’euro, il mondo è diventato un posto ben singolare. Un partito di sinistra estrema prende il potere in Grecia, e di fatto la sua vittoria viene salutata positivamente da vari ambienti finanziari e accademici main stream, oltre che da governi e partiti politici europei che più lontani di così sul piano ideologico da Alexis Tsipras non potrebbero essere. Perfino il Financial Times – un giornale non esattamente noto per le sue posizioni filo-marxiste – ha di fatto caldeggiato la vittoria di Syriza, così come un serissimo economista dell’università di Oxford, per non dire di Thomas Piketty che ha affermato: «Syriza vuole costruire un’Europa democratica, che è proprio quello di cui tutti abbiamo bisogno».
La filosofia dell’austerity si è tradotta in politiche fiscali pro-cicliche (cioè eccessivamente restrittive) in un momento in cui ci sarebbe bisogno di tutt’altro, come non si stanca di ripetere Mario Draghi. È un’Unione monetaria sempre sull’orlo della deflazione e della recessione, che in due anni (2013-2014) ha buttato via circa il 10 per cento del suo Pil aggregato e lasciato a casa molti milioni di lavoratori in più di quanti “necessari” a mantenere il tasso di inflazione al 2 per cento (oggi siamo allo 0,3 per cento). Oltretutto, un’Unione monetaria sempre a rischio di dissolversi al suo interno, con impatti devastanti sul resto del mondo, non conviene a nessuno. La piccola Grecia, con tutti i suoi problemi e anche le sue responsabilità, è diventata dunque il simbolo di una modifica possibile nella conduzione della politica economica europea.
Le difficoltà di un compromesso possibile
Ma proprio questo è il problema. Ci sono ovvie ragioni economiche e di buon senso per trovare un accordo tra le richieste del nuovo governo greco, la Troika - cioè la Commissione europea, la Bce e il Fondo monetario - e il resto dei paesi europei. Del resto, da quello che si capisce dal programma di Syriza, le sue proposte non sono poi molto dissimili da quelle che erano già state considerate da funzionari dell’area euro nel 2012 e che sono più volte riemerse nella discussione successiva, cioè la cancellazione di parte del debito e un allungamento delle scadenze per il residuo (una sorta di piano Brady). Non sappiamo quanto sia chiaro a qualche plaudente o preoccupato politico di casa nostra, ma Tsipras non pretende (o almeno non pretende più e non pretende ora) un default totale della Grecia sul debito con soggetti esteri, quindi tutto a carico degli altri paesi europei. Default che sarebbe invece l’ovvia conseguenza di una eventuale (ma non desiderata da Syriza) uscita o “espulsione” della Grecia dall’euro (ammesso e non concesso che una espulsione sia possibile).
Di fatto, nessuno capisce davvero come la Grecia, anche con interessi artificialmente bassi e scadenze allungate, potrà mai restituire un debito che viaggia attorno al 180 per cento del Pil. Ma il punto è che tutti sanno che non si sta discutendo affatto della Grecia, e che un allentamento dei programmi di risanamento per questo paese si porterebbe inevitabilmente dietro una revisione delle politiche per tutta l’area, rimettendo in discussione i capisaldi del fiscal compact europeo e di conseguenza rilanciando l’idea di una politica espansiva, coordinata a livello europeo, che vada oltre il fumoso piano Juncker e i piccoli passi in merito alla flessibilità introdotti dalla Commissione europea.
Sul piano politico, questa revisione toglierebbe il fiato ai vari movimenti anti-euro nei paesi del Sud d’Europa, ma ne amplificherebbe i toni nel Nord e soprattutto in Germania, una cosa che non è chiaro se Angela Merkel può permettersi, dopo aver già dovuto ingoiare il Quantitative easing della Bce e dovendo fronteggiare i possibili veti della Corte costituzionale tedesca. Dunque, la partita è aperta e non è affatto detto che un compromesso, per quanto ragionevole sarebbe sperarlo, alla fine si trovi.
Resta il rammarico che tutto questa complessa battaglia politica ed economica avvenga sulle spalle di un paese che ha già pagato duramente per il sostegno dell’ortodossia economica europea.
La Repubblica, 26 gennaio 2015
«Quando lo scorso autunno, invitato da Alexis, sono andato ad Atene alla festa di Syriza mi ha colpito il fatto che quel movimento non è nato con l’idea di dar vita a un nuovo partito, bensì dalla necessità di dare risposte materiali (le cure sanitarie, i pasti quotidiani) alle persone. Questa è la grande novità. Questa è la forza di Syriza ma anche di Podemos in Spagna».
Cosa significa, dal suo punto di vista, la vittoria di Tsipras per l’Europa e per l’Italia?
«Che finalmente, con un voto popolare e libero, si dimostra che le politiche di austerity della Troika non hanno il consenso delle persone. Questo non può non riaprire una discussione non sull’uscita dall’euro ma sulla costruzione di un’Europa fondata sull’uguaglianza e la giustizia sociale, cioè sui bisogni e le condizioni reali delle persone».
E per l’Italia cosa può voler dire?
«Il popolo greco ha scelto una piattaforma che è esattamente opposta a quella del governo italiano. Il governo Renzi sta completando il programma indicato dalla Bce nella famosa lettera dell’agosto 2011 e avviato con il governo Monti. Non c’è stata alcuna discontinuità. E d’altra parte Renzi è stato il presidente di turno dell’Europa ma nessuno se n’è accorto».
Lei ha inviato un messaggio alla convention di Sel sostenendo che serve «un progetto di cambiamento che nasca dalla società». Sta pensando a un nuovo partito o movimento della sinistra?
«In Italia è innanzitutto necessario recuperare la partecipazione delle persone alla politica. Poi bisogna ridare una rappresentanza ai problemi sociali ed essere in grado di porsi obiettivi di maggioranza».
Sembra Syriza... Ma la Fiom cosa c’entra? Non è un sindacato?
«Nella sua autonomia la Fiom, che continua ad essere e a fare il sindacato, è dentro questo processo perché è interesse anche della Fiom un cambiamento radicale delle politiche europee».
Dunque la Fiom e Landini potrebbero aderire al coordinamento della sinistra che ha lanciato Vendola?
«Non è questo il punto, non è questo che mi interessa. Guardi, l’unica iniziativa che è stata in grado di esprimere una opposizione alle politiche economiche e sociali del governo è stato lo sciopero generale della Cgil del 12 dicembre scorso. Ecco, si deve dare continuità a quella mobilitazione ».
Lei si candida a diventare lo Tsipras italiano?
«Non ci ho mai pensato».
Pensa, in ogni caso, che l’esperienza di Syriza possa essere replicata in Italia?
«Ogni Paese ha la sua storia, le cose non si replicano mai. Ma certo anche in Italia non c’è consenso sulle politiche di austerity. Ecco io mi domando: cosa posso fare, cosa può fare la Fiom per cambiare le politiche di un governo che non ha scelto nessuno e che ha fatto i patti con i poteri forti? ».
Una scissione nel Pd aiuterebbe la formazione di un movimento alternativo di sinistra?
«Non so, né mi interessa. I processi nei partiti li decideranno i partiti stessi. Voglio dirlo in maniera secca: la ragione della crisi della sinistra risiede nel fatto che non c’è più la sinistra».
Dunque il Pd di Renzi non è di sinistra?
«Beh, è di sinistra chi cancella lo Statuto dei lavoratori? Chi dice che si può liberamente licenziare? Chi propone e poi ritira la depenalizzazione della frode fiscale? Tutto questo non ha nulla a che fare con la sinistra. La sinistra o è sociale o non è».
Il Financial Times si è domandato se Tsipras è un realista o un radicale. Secondo lei?
«Mi sembra un realista radicale. Mentre radicali ed estremiste sono le politiche di austerity frutto del pensiero unico europeo».
Il manifesto, 26 gennaio 2015
Per tutta la vita Glazo si è sforzato di immaginare l’inimmaginabile: «Da tanto tempo ho il desiderio di andare a vedere Auschwitz, dove è morto il bisnonno, e le zie, e le cugine… dove è stata sterminata parte della mia famiglia. L’anno che viene ci andrò». Per quest’anno Glazo si accontenta di posare quei suoi occhi, azzurri come il vetro del bicchiere da cui viene il suo nome sinto-tedesco, sulle foto che il più giovane dei suoi figli gli mostra al ritorno del Viaggio della memoria, organizzato dalla Regione Toscana. Come suo figlio, molti dei 650 studenti e insegnanti imbarcati lunedì scorso sul treno Firenze/Auschwitz hanno riconosciuto il nome di qualche parente, nel lungo elenco esposto nel Blocco 13 del primo Campo.
In fuga perenne
Fu suo zio a soprannominarlo Glazo, «da glas, bicchiere, perché i sinti sono come gli indiani d’America, danno alle persone il nome delle cose che li circondano». Ma c’è stato un tempo in cui quelli come Paolo Galliano, classe 1949, di Prato ma milanese di nascita, per salvarsi la vita hanno dovuto prendersi un cognome a caso. Così fece suo padre, il liutaio Nello Lehmann, scegliendo il nome di un violino di origine napoletana e sfuggendo così al Porrajmos, la «Devastazione», lo sterminio delle minoranze rom e sinte. Suo nonno Carlo Ludovico Lehmann, anch’egli liutaio, all’inizio del ’900 lasciò Berlino con i suoi cinque figli per sfuggire alla repressione della polizia tedesca. Discendente della numerosa famiglia Lehmann-Reinhardt che ancora oggi «conta circa 3500 persone in tutta Italia e alcune centinaia in giro per l’Europa», Paolo Galliano è cresciuto girovago tra artisti, artigiani e musicisti, e si è stabilizzato a Prato solo una trentina di anni fa, «per i miei figli». Per tutta la vita ha ascoltato le storie dei suoi parenti dai nomi tedeschi — anche Rosenfeld, Winter, Hoffmann — imprigionati nei campi di concentramento per zingari di Agnone o di Bolzano e poi spediti a Mathausen o direttamente ad Auschwitz. «Non è tornato nessuno, solo una volta ho conosciuto una cugina di mio padre che aveva sul braccio il numero degli internati e mi raccontava di aver visto tutta la sua famiglia in fila verso i forni crematori». La parente del signor Galliano è una dei rari testimoni diretti del “genocidio degli zingari”, miracolosamente scampata e liberata dai sovietici nel giorno di cui ricorre domani il settantesimo anniversario.
Lo sterminio
Una storia quasi sconosciuta, quella del Porrajmos, rispetto alla Shoa ebraica. Eppure, come spiega Luca Bravi, ricercatore di Storia presso l’Università di Chieti che ha accompagnato in viaggio gli studenti toscani, «sono morti in tutto circa mezzo milione di Rom e Sinti, circa l’80% della popolazione presente nei territori occupati dal Reich in quel periodo». E «non è un conteggio preciso perché all’inizio del 1942, prima dei campi di sterminio veri e propri, come gli ebrei, gli zingari venivano fucilati sul posto, appena arrestati». Solo «ad Auschwitz sono morti in 23 mila e lo sappiamo perché un prigioniero riuscì a salvare il libro mastro dove venivano annotati i nomi delle persone che vivevano nello Zigeunerlager di Birkenau prima della sua liquidazione totale, che avvenne nella notte del 2 agosto 1944 con l’uccisione in massa di circa 2 mila persone».
La «razza pericolosa»
Abomini commessi in nome dell’«igiene razziale» garantita in Germania dalle unità del Reich dirette dallo psichiatra infantile Robert Ritter che, racconta ancora Bravi, «dedicò anni a studiare la pericolosità sociale di queste popolazioni, individuata in una caratteristica ereditaria che era l’istinto al nomadismo e l’asocialità». Stesse tesi sostenute in Italia dall’antropologo Guido Landra, i cui “studi” sostenevano le leggi razziali di Mussolini.
Una memoria taciuta
Eppure del Purrajmos restano poche tracce nella memoria collettiva. Perché, fa notare Bravi, «la memoria ha bisogno di un contesto sociale disposto ad ascoltare». In Germania, «lo sterminio razziale degli zingari è stato riconosciuto solo negli anni ’90 e il primo memoriale è stato inaugurato alla presenza di Angela Merkel vicino al Reichstag di Berlino solo due anni fa». In Italia invece «la permanenza dello stereotipo dei Rom come nomadi, e quindi come pericolosi, alimenta la politica dei campi che continua a tenere queste persone distanti, ad escluderle, anche dai diritti di cittadinanza. I pregiudizi di oggi sono esattamente lineari con quelli di allora». Ecco perché anche la ricerca storica è «partita in ritardissimo»: «Da noi i documenti c’erano ma solo nel 2013 sono venuti fuori, grazie al progetto Memors finanziato dall’Unione europea che ha permesso anche l’apertura del primo museo virtuale italiano sul tema, www.porrajmos.it».
Eppure, conclude Bravi, «il racconto del genocidio dei Sinti e dei Rom c’è sempre stato all’interno delle comunità ma difficilmente viene riportato all’esterno. Una volta chiesi a Glazo il perché di questa memoria taciuta, e lui mi rispose: “Perché non vogliamo che questa nostra storia possa essere trattata come spazzatura, come trattano noi”».
La Repubblica, 26 gennaio 2015, con postilla
In realtà la nuova sinistra che guarda adesso alla Grecia come a un ricostituente, magari a un bagno di gioventù, è reduce da una lunga serie di insuccessi. Per cui non basterà gridare «facciamo come loro» per sentirsi pervasi da un benefico flusso di energia greca. Luciana Castellina ha detto con un filo di ironia che assistere agli straordinari eventi ateniesi equivale a «farsi una canna politica». Senza dubbio è così, ma quando si esaurisce l’effetto allucinogeno delle emozioni, resta un bilancio amaro.
Ieri Nichi Vendola, a lungo considerato un fantasioso costruttore di geometrie politiche, ha concluso i tre giorni di Human Factor, tentativo di fare del “surf” sull’onda greca e di accendere qualche entusiasmo anche qui da noi. Ma non sembra che l’operazione abbia dato i frutti sperati. Si è capito che la nascita di un nuovo raggruppamento alla sinistra del Pd, in grado di riunire tanti spezzoni incapaci di espandersi, non è per domani e nemmeno per dopodomani.
Gli stessi scissionisti del Pd sono entità misteriose, a cominciare da Civati che preferisce restare nel partito renziano alla pari di Bersani e di tanti altri. E poi nessuno è sicuro che l’ennesima scissione ovvero una nuova alleanza tra personaggi più o meno logorati sia la ricetta giusta. Probabilmente sarebbe solo un’altra edizione della Sinistra Arcobaleno già sconfitta nelle urne: magari stavolta sarebbe salvata dalla soglia del 3 per cento, ma c’è da credere che non è questo il sogno dei sostenitori nostrani di Tsipras.
La verità è che il leader greco ha completamente rovesciato il paradigma politico, non si è limitato a battere vecchie strade. Che mantenga o no le sue promesse, lo vedremo. Il fatto che il terzo partito ad Atene siano i neo-nazisti di Alba Dorata è inquietante per tutti e soprattutto per il vincitore. In ogni caso Syriza non è una riedizione di Rifondazione Comunista, come vorrebbero suggerire alcune bandiere esposte nella serata della vittoria. Syriza è un esperimento che ha puntato tutte le carte sulla lotta alla politica tedesca dell’austerità e del rigore economico.
postilla
Di questa analisi, indubbiamente acuta, del confronto tra l'evento greco e la sinistra italiana, colpiscono due cose: 1) nella descrizione della sinistra italiana si trascura del tutto il successo, alle elezioni europee, della lista "L'altra Europa con Tsipras"; 2) si attribuisce a Renzi un ruolo e una posizione confrontabili con quelli di Alexis Tsipras.
Le cronache raccontano che nella piazza Omonia di Atene, dove Tsipras ha tenuto l’ultimo grande comizio della vigilia, c’era tanta gente comune, lontana dalla politica attiva, senza bandiere né slogan. Era il segnale tangibile che qualcosa si era mosso nelle profondità della società greca. Del resto i sondaggi delle ultime ore indicavano che la vittoria di Tsipras sarebbe stata alimentata da un voto che arrivava a Syriza da tutta la popolazione, anche da quei greci che alle ultime elezioni del 2012 avevano votato per la destra sperando di trovare così una via d’uscita alle loro sofferenze. C’era chi prevedeva che un 10 per cento dei consensi sarebbero venuti da quella parte di Nuova Democrazia ostile all’estremismo liberista del premier uscente Samaras. Gente per nulla di sinistra, ma che, questa volta, voleva punire un governo colpevole di avere decurtato pensioni e stipendi portandoli a livelli di sussidi.
D’altra parte quando superi il 35 per cento dei consensi vuol dire che i voti ti arrivano un po’ da tutti i ceti sociali, almeno da tutti quelli che la crisi ha messo con le spalle al muro, da quel 30 per cento di famiglie ridotte in povertà, da quei cittadini che in massa fanno la fila per rimediare medicinali e cibo. Se la nostra media della disoccupazione è al 12 per cento e ci fa paura, quella greca ha sfondato il 26 per cento, più del doppio, e si calcola che un milione e mezzo di occupati abbia sulle spalle otto milioni e mezzo di connazionali ridotti alla sussistenza.
Ormai si organizzano viaggi di studio per vedere e capire come Syriza sia riuscita a organizzare 400 centri di erogazione di servizi sociali in tutto il paese. Si resta increduli a sentire che si può comprare un appartamento per 5.000 euro, che il catasto è inservibile, ma che gli armatori sono ancora i potentissimi padroni di Atene.
Questo paese distrutto dalla guerra economica e governato dalla Troika oggi trova la forza di riacciuffare la speranza. Dando fiducia a una forza di sinistra nuova, impegnata in tutto il territorio nazionale a fianco dei più deboli, con un programma politico che fa della rinegoziazione del debito e la cancellazione dei Memorandun la leva a cui agganciare un’agenda di provvedimenti molto precisi: tetto minimo di 700 euro agli stipendi, tredicesima per le pensioni minime, cancellazione di tasse sulla casa e blocco delle aste giudiziarie, banche controllate dallo stato, patrimoniale sulle grandi ricchezze cresciute all’ombra della crisi.
Una proposta di governo ormai conosciuta come il “programma di Salonicco” che Tsipras ha promesso di perseguire a prescindere da come andrà la trattativa con le istituzioni europee. Di fronte allo sfascio di un paese che nella sua storia recente ha conosciuto pagine drammatiche fino al colpo di stato dei colonnelli negli anni ’70, il fatto che Syriza abbia sbarrato la strada alla destra eversiva è un risultato che sarebbe imperdonabile sottovalutare anche solo semplicemente sotto il profilo della difesa democratica.
Una destra sempre presente (con i neonazisti di Alba Dorata che contendono il terzo posto al raggruppamento di centrosinistra To Potami), perché se Tsipras dovesse fallire, in Grecia arriverà l’estrema destra. Lo sanno bene le cancellerie internazionali che si spingono a pur caute aperture verso una trattativa, come dimostra la linea aperturista del Financial Times.
Perché quello che sta vivendo oggi l’Europa, dalla Francia all’Ucraina, con la natura violenta, isolazionista, xenofoba, nazionalista delle destre che si stanno riorganizzando, potrà essere fermato solo da un rapido, benefico contagio del vento greco, da una cosmopolita sinistra europea di nuova generazione (fissata nell’immagine, a piazza Omonia, dell’abbraccio tra Tsipras e Iglesias, leader di Podemos).
Una sinistra che cita molto Gramsci, che ha solide radici a sinistra ma che intende lasciarsi alle spalle le zavorre novecentesche, capace di rinnovare radicalmente modelli partitici, leadership e culture politiche. La vittoria di Syriza è solo l’inizio di un percorso pieno di trappole, ostacoli, contraddizioni. Prendersi la responsabilità di governare un paese distrutto sembra quasi una missione impossibile.
Nel libro di Teodoro Andreadis Synghellakis, “Alexis Tsipras, la mia sinistra”, il leader di Syriza spiega molto bene che si tratta «di una scommessa enorme, simile a quella del Brasile di Lula» e avverte che «non possiamo permetterci il lusso di ignorare che gran parte della società greca, e anche una percentuale dei nostri sostenitori, abbia assorbito idee conservatrici». Dunque consapevolezza della prova che l’attende e determinazione nel perseguire l’obiettivo «che oggi non è il socialismo ma la fine dell’austerità».
Ma questi sono i momenti della festa, della svolta, della vittoria contromano, della bellissima rivincita che la Grecia si prende dopo sei anni vissuti come una piccola cavia nel grande laboratorio tedesco. Un paese da punire in modo esemplare per educare tutti gli altri: se non volete finire come la Grecia ingoiate l’amara medicina dei tagli a salari e pensioni (anche noi abbiamo assaggiato questa frusta e ingoiato questa pillola). Il debito vissuto come colpa (avete voluto vivere al di sopra delle vostre possibilità) con tutto l’armamentario dei luoghi comuni che ancora oggi sentiamo ripetere in tv e leggiamo sui giornali.
Ora dobbiamo attenderci un ampio fuoco di sbarramento contro la svolta sociale di Syriza che appunto ribalta la prospettiva e rimette la realtà con i piedi per terra.
Quando nel febbraio dello scorso anno Tsipras venne in Italia in vista delle elezioni europee, come prima tappa fece visita alla redazione del manifesto (Renzi non trovò il tempo di riceverlo). Ci parlò a lungo del cammino verso una sinistra unita e di quello che poi sarebbe diventato il programma di governo. Ci regalò una piccola barca di porcellana della collezione del museo Benaki, quasi un auspicio, un pronostico. Due coloratissime vele gonfie. Un anno fa il vento in poppa era un auspicio e forse un pronostico. Ora è una realtà sulla quale la sinistra italiana dovrebbe riflettere molto. E anche in fretta.
«Nikissame! Nikissame!», «Abbiamo vinto! Abbiamo vinto», festeggiavano ieri i greci radunati nei vari centri elettorali di Syriza ad Atene, a Salonicco, dal nord al sud del paese. Una svolta radicale, un vento progressista in Grecia, un messaggio per un’altra Europa da riflettere al resto del vecchio continente.
Alle 7 di domenica sera, subito dopo la chiusura delle urne, la buona notizia: Syriza appariva chiaramente come il partito vincente, secondo i primi exit-poll. La sinistra radicale ha ottenuto una vittoria di dimensioni storiche in Grecia, in Europa, raccogliendo tra il 35,5% e il 39,5% con 146–158 seggi, senza avere la certezza di poter formare un governo monocolore. Sconfitta la Nea Dimokratia che raccoglieva, sempre secondo gli exit-pool, tra il 23% e il 27% con 65–75 seggi.
Nelle elezioni più importanti degli ultimi decenni, ha vinto la speranza nel cambiamento e con essa la dignità, l’ orgoglio per il giorno dopo di un popolo che ha subito tanti sacrifici negli ultimi anni. Hanno vinto la democrazia, la giustizia sociale, la solidarietà.
Hanno perso la paura promossa dai conservatori, dai creditori internazionali, da chi vede nelle sinistre il diavolo rosso; hanno perso tutti coloro che nel nome di un risanamento economico del Paese hanno provocato questa crisi umanitaria senza precedenti, la recessione, la depressione collettiva, la violazione di leggi e di vite umane.
Verso le 10 di sera i risultati non erano ancora definitivi. 36,5% per il Syriza con 150 seggi, 27,7% per i conservatori della Nea Dimokratia con 76 seggi. Al terzo posto i nazisti di Alba dorata (Chrysi Avghi) con 6,3% e 17 seggi, il Fiume (To Potami) con 5,9% e 16 seggi, i comunisti del Kke con 5,6% e 15 seggi, il Pasok con 4,8% e 13 seggi e i Greci indipendenti (Anel) con 4,7% e 13 seggi.
Non sono riusciti a superare la soglia del 3% e rimangono fuori dal parlamento il Movimento dei socialisti democratici, fondato dall’ ex premier Yorgos Papandreou (2,5%, la Sinistra democratica, gia componente del Syriza e ex partner del governo di coalizione di Antonis Samaras (0,5%) e Antarsya, formazione della sinistra (0,6%).
Oltre alla preoccupazione che ha provocato a tutti il mantenimento della forza elettorale dei nazisti, la domanda che si poneva fino a tarda serata era se Syriza sarebbe riuscita a formare un governo monocolore e in secondo luogo se Alexis Tsipras avrebbe preferito una maggioranza debole (150–151 seggi sui 300) e la diminuzione della sua forza di trattattiva nei confronti dei creditori internazionali, oppure una collaborazione con un’ altra forza politica che di fatto avrebbe limitato la sua forza politica nell’applicazione del suo programma. «Faremo un altro invito al Kke» ha detto Dimitris Stratoulis, dirigente del Syriza, «ma se continuano a rispondere negativamente, tratteremo con altre forze politiche».
Secondo fonti di Syriza, la sinistra radicale esclude ogni collaborazione con le forze pro-memorandum (Nea Dimokratia, Pasok, To Potami), lasciando aperta l’ eventualità di una cooperazione con i Greci indipendenti, il partito di destra nazionalistico, l’ unico ad essere chiaramente anti-memorandum.
A parte le eventuali alleanze post-elettorali, a sentire i dirigenti di spicco del Syriza ai talk-show televisivi «i greci, e non solo quei che hanno votato per la sinistra radicale, hanno preso una grande boccata di ossigeno». Non certo tutti, ma almeno una parte sono consapevoli delle difficoltà, che il nuovo governo dovrà affrontare; ma a sentire questa gente che ieri gridava vittoria per le strade di Atene, «Tsipras durante i negoziati con la troika avra un ottimo alleato».
Piena soddisfazione tra gli attivisti della «Brigata kalimera» radunata in piazza Klathmonos nel pieno centro di Atene. Smentita la telefonata di Matteo Renzi a Tsipras, mentre la prima reazione da Berlino è arrivata da Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, la Banca centrale tedesca, da sempre custode del rigore del bilancio e avversario di Mario Draghi, il quale ha detto con toni minacciosi che «gli aiuti economici verso Atene continueranno soltanto se la Grecia rispetta i patti». La risposta di Syriza è stata immediata. «Parleremo e tratteremo a livello politico con la leadership europea, non con i suoi rappresentanti» ha detto ieri il vice-presidente dell’ europarlamento, Dimitris Papadimoulis, anticipando l’ atteggiamento del nuovo governo di Atene nei confronti della troika (Fmi, Ue, Bce).
Il risultato ottenuto dalla Nea Dimokratia difficilmente sarà gestito dal premier uscente Antonis Samaras. Samaras ha usato un linguaggio nazionalistico adottato pure da Alba dorata, come per esempio lo slogan della campagna elettorale «patria, religione, famiglia» che ha fatto allontanare molti elettori di destra. Problemi e lamentele si sono sentite ieri anche nel quartier generale dei socialisti del Pasok. Il vice-presidente del governo di coalizione e leader del Pasok, Evanghelos Venizelos probabilmente si allontanerà, ma «non come sconfitto» secondo i suoi stretti collaborattori.
ESPLODE LA GIOIA DELL’ALTRA EUROPA
di Jacopo Rosatelli
L’Unione europea è quella del tendone di piazza Klafthmonos, dove Syriza ha chiamato a raccolta i suoi sostenitori. Pieno all’inverosimile, caldo quasi insopportabile, pochi istanti prima delle 7 ore locale la tensione si taglia con il coltello: facce concentrate, cenni di incoraggiamento reciproco. Poi l’annuncio degli exit polls, e ci si scioglie in un abbraccio collettivo.
Greci, tedeschi, spagnoli, francesi, inglesi, italiani, e chissà da quante altre parti del Vecchio continente: un enorme, corale urlo di gioia cancella l’ansia e la fatica. Ora si può festeggiare. Esiste un’altra Europa, è quella che si è data appuntamento qui, nel centro di Atene.
«Questo è uno di quei momenti in cui si dimostra che anche i piccoli possono fare la storia, possono cambiare il mondo» ci dice subito, tra lacrime di gioia, Raffaella Bolini, l’infaticabile organizzatrice della Brigata Kalimera e di mille altre avventure politiche internazionali. «C’è chi ha ironizzato sul nostro viaggio per criticarci, ma noi siamo venuti a immergerci nella realtà greca: non torneremo in Italia uguali a come eravamo alla partenza, perché questa esperienza ci ha davvero arricchiti», afferma una raggiante Rosa Rinaldi, tra le principali artefici del «miracolo» della fondamentale raccolta firme in Valle d’Aosta per la lista delle europee. «Ora la speranza si materializza: vale per i greci, ma vale anche per noi, perché Syriza al governo ad Atene significa una rivoluzione democratica per l’intera Europa. Persino il nostro pusillanime premier Matteo Renzi potrà ora avere più margini di manovra nei confronti dei partner continentali, e a noi a sinistra spetta il compito di costruire una vera alternativa di società: senza copiare modelli di altri Paesi, ma cogliendo la straordinaria occasione di questo momento», conclude Rinaldi.
«Il messaggio di domenica sera – riflette Maso Notarianni, anima dell’Altra Europa a Milano – è che nella sinistra italiana dobbiamo finalmente abbandonare un atteggiamento minoritario ancora troppo diffuso: qui in Grecia ci dimostrano che si può fare. Bisogna essere convinti che un’utopia può diventare realtà».
La soddisfazione in piazza Klafthmonos è ovviamente di tutti, indipendentemente dalla nazionalità. Ciascuno ha però un compito diverso nel proprio Paese.
In Spagna lo scenario politico più simile a quello greco: «La svolta nella politica europea è possibile. La sfida per noi è prendere ad esempio Syriza e mettere da parte personalismi o divisioni infondate, concentrandoci nella cosa più importante, che è unire le forze», ragiona Alberto Garzón, il nuovo (e giovane) leader di Izquierda unida. Il messaggio che invia dal tendone ateniese è diretto a Podemos, che finora nicchia sulla possibilità di costruire un cartello unitario alle elezioni di autunno.
Parole simili da Enest Urtasun, brillante eurodeputato della sinistra ecologista catalana, «pontiere» fra i Verdi e il gruppo del Gue (Sinistra unitaria europea) nel parlamento di Strasburgo: «La scelta giusta è quella fatta a Barcellona per le prossime municipali: lista unitaria di tutti quelli che si battono contro l’austerità». Di diverso avviso è l’attivista di Podemos Ramón Arana: «non voglio alleanze con i partiti del ‘vecchio sistema’, ma parlo a titolo personale». Pensionato 64enne, Ramón è venuto ad Atene da Madrid «per assistere alla presa della Bastiglia del ventunesimo secolo».
I tedeschi della Linke – muniti di cartelli inequivocabili: «La nuova Europa comincia in Grecia» – usano toni meno enfatici, ma la sostanza è la stessa: niente potrà essere più come prima. «La cancelliera Angela Merkel dice sempre che non ci sono alternative alle attuali politiche, ma la vittoria di Syriza mostra che è falso» ci dice Katharina Dahme della direzione nazionale del partito. «Il nostro compito sarà mostrare ai cittadini del nostro Paese che la politica del nuovo governo di Atene non sarà solo nell’interesse dei greci, ma anche dei lavoratori in Germania, che hanno bisogno di salari più alti e di una politica sociale differente», conclude la dirigente del principale partito dell’opposizione tedesca.
Il Fatto quotidiano, 25 gennaio 2015
Mentre gli occhi sono puntati sul voto in Grecia, sulla tre giorni vendoliana a Milano e sulla “brigata Kalimera” ad Atene, il dibattito a sinistra in Italia ha anche altri protagonisti. Di peso, anche se ora in sordina.
La testa pensante è Stefano Rodotà ma accanto a lui ci sono nomi del calibro di Maurizio Landini, Gino Strada, don Luigi Ciotti. Mentre i “kalimeriani”, vendoliani, rifondazionisti, “tsiprasiani” più o meno doc, sperano di importare in Italia il soffio di Tsipras e mentre oggi a Human Factor Nichi Vendola, Pippo Civati, Paolo Ferrero, Stefano Fassina spiegheranno la loro idea di sinistra, quegli altri studiano altre strade. Senza strappi o scontri. Senza divergenze sul ruolo catalizzatore che potrebbe avere la vittoria di Syriza. Ma con altre priorità.
Nichi Vendola, oggi, assicurerà che non ci sarà nessuna “ora X”. Ma l’ora X è nelle cose e la decisione di Sergio Cofferati di abbandonare il Pd ha accelerato l’attesa e il vorticoso rito delle riunioni. Tutti in cerca di un possibile rimescolamento dei gruppi dirigenti che si conoscono da decenni. Sotto traccia, però, la discussione è più complicata.
Il perché lo spiega una intervista a Stefano Rodotà, già parte della “sinistra indipendente” quando c’era il Pci, candidatura illustre, per quanto snobbata, alla presidenza della Repubblica, che su Micromega espone una idea molto diversa dell’ipotesi assemblativa presentata finora. «La sinistra italiana ha alle spalle due fallimenti» risponde Rodotà: la lista Arcobaleno e Rivoluzione Civile di Ingroia. Due esperienze inopportune nate per mettere insieme i cespugli esistenti ed offrire una scialuppa a frammenti e a gruppi perdenti della sinistra». Qui il giudizio è spietato: «Chi pensa di ricostruire un soggetto di sinistra o socialmente insediato guardando a Sel, Rifondazione, Alba e minoranza Pd sbaglia. Lo dico senza iattanza, ma hanno perduto una capacità interpretativa e rappresentativa della società. Nulla di nuovo può nascere portandosi dietro queste zavorre».
Giudizi così sferzanti spiegano, forse, perché Rodotà non sia presente alla kermesse milanese. «Rifondazione è un residuo di una storia - continua l’ex candidato al Quirinale - Sel ha avuto mille vicissitudini, la Lista Tsipras mi pare si sia dilaniata subito dopo il voto alle Europee. Ripeto: cercare di creare una nuova soggettività assemblando quel che c’è nel mondo propriamente politico secondo me è una via perdente».
Rodotà non rinuncia ad avanzare proposte: «Bisogna partire da quel che definisco “coalizione sociale”. Mettere insieme le forze maggiormente vivaci ed attive: Fiom, Libera, Emergency
- che ha creato ambulatori dal basso - movimenti per i beni comuni, reti civiche e associazionismo diffuso. Da qui, per ridisegnare il nodo della rappresentanza».
La linea del professore ha un retroterra teorico nel suo ultimo libro, Solidarietà, il cui titolo è già un programma. Ma si nutre anche dei rapporti con i soggetti indicati anch’essi assenti dalla tre giorni vendoliana. LaFiom ha inviato alcuni suoi rappresentanti ma non Maurizio Landini che non vuole più vedere associato il suo nome, e quello del suo sindacato, alla ricostruzione della sinistra politica. Ma anche Libera di don Ciotti non è presente e così anche molti dei costituzionalisti che avevano lanciato la manifestazione “La via maestra”. La Fiom, ad esempio, sta riflettendo seriamente sulla tematica del mutuo soccorso quella che ha portato Syriza a realizzare mense autogestite o ambulatori popolari . Ci sono già collaborazioni avviate in questo senso tra Libera ed Emergency e la stessa Fiom potrebbe realizzare qualcosa di simile.
Da segnalare, poi, il canale diretto aperto da don Ciotti con Beppe Grillo, incontrato due giorni fa e con il quale l’associazione che si batte contro le mafie, ma anche contro la miseria, sta pensando di predisporre una proposta parlamentare sul reddito di cittadinanza.
C’è quindi un altro racconto a sinistra. Parla più il linguaggio del “sociale” e non si appassiona molto alle riunificazioni di altri tempi. Anche questa è una novità.
Il manifesto, 25 gennaio 2015
“Noi alle elezioni ci presentiamo”. Da Siena a Prato, dall’Empolese Valdelsa a Pisa, i comitati toscani dell’Altra Europa annunciano la discesa in campo per le regionali di fine maggio. Con la speranza, esplicitata già in partenza, di far parte di un’ampia coalizione unita di forze associative, politiche e di base: “In alternativa a chi sostiene le politiche neoliberiste e di austerità”. Compreso il Pd, che dovrebbe ricandidare Enrico Rossi. Dietro la cui figura si staglia però l’ingombrante sagoma di Matteo Renzi. E di un partito, guidato saldamente dal fedelissimo Dario Parrini, le cui strategie d’azione guardano al centro. Non a sinistra. Vedi il gelo con Sel e l’accordo, già raggiunto, con “Toscana civica riformista”, nuova formazione comprendente ex di Psi, Udc e Idv. Per non parlare della nuova, più che fantasiosa, legge elettorale. Contestatissima, denunciata per incostituzionalità, e redatta insieme lo scorso autunno da Parrini e dal forzista Massimo Parisi, proconsole locale di Denis Verdini.
I comitati dell’Altra Europa guardano peraltro alla concretezza della vita quotidiana. E qui, nonostante il buon lavoro della giunta uscente sul piano urbanistico-paesaggistico, sulla difesa del manifatturiero in una regione dove la crisi continua a far chiudere realtà produttive piccole e grandi, e su un (tardivo) ripensamento delle politiche culturali e turistico commerciali, il bicchiere è più vuoto che pieno.
A turno, il senese Alessandro Vigni e la pisana Tiziana Nadalutti, il pratese Leonardo Becheri e l’empolese Tiberio Tanzini, ricordano le speranze disattese dopo il referendum sull’acqua, servizi e altri beni comuni. Lo sfruttamento delle risorse naturali, da quelle geotermiche al marmo apuano, con effetti collaterali anche drammatici come le esondazioni di Carrara. La riconfermata volontà del Pd di andare avanti su grandi opere inutili come la Tav sotterranea fiorentina e l’Autotirrenica. L’insulto al buonsenso del futuro aeroporto intercontinentale fiorentino, in una zona fortemente urbanizzata e a fortissimo rischio ambientale come la Piana. I cinque, sei inceneritori già in funzione per poco più di tre milioni e mezzo di abitanti, e la costruzione di un settimo grande impianto sempre nella martirizzata Piana. Infine le politiche sanitarie, un tempo fiore all’occhiello ma ormai impazzite nella camicia di forza dei tagli nazionali, tanto da indirizzarsi sempre più verso il “privato sociale”.
“Il nostro obiettivo – sottolineano ancora i comitati — è quello di metterci a disposizione per costruire un’unica lista alternativa”. Nel solco del positivo risultato toscano dell’Altra Europa lo scorso maggio, visto come ideale trampolino di lancio per declinare sul territorio il progetto complessivo di un’ “altra” Toscana possibile. E con la doppia variabile delle decisioni di Sel, attese per la metà di febbraio, e delle riflessioni dei civici di Buongiorno Livorno. Per i quali, naturalmente, le porte della lista alternativa sono spalancate.