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L’Arena chiarisce che la questione Salva Berlusconi è ancora sul tavolo. Peraltro, la Boschi sembra dimenticare che la legge francese mette una doppia soglia: o il 10% dell’imponibile o 153 euro». Il Fatto Quotidiano, 2 febbraio 2014

La norma inserita nel decreto fiscale non è a favore di Berlusconi, ma riguarda tutti. Il 20 febbraio riaffronteremo il tema. Ma che non sia una norma per B. lo dimostra il fatto che in Francia hanno una norma uguale, con una soglia più alta, non del 3% ma del 10% di non punibilità dell’evasione fiscale ai fini penali”. Il giorno dopo la “grande vittoria” con la quale Renzi ha portato Mattarella al Colle, Maria Elena Boschi, a L’Arena chiarisce che la questione Salva Berlusconi è ancora sul tavolo. Peraltro, la Boschi sembra dimenticare che la legge francese mette una doppia soglia: o il 10% dell’imponibile o 153 euro. Il Ministro torna dunque sulla norma che cancella i reati di evasione e frode fiscale se le tasse sottratte al fisco sono inferiori al 3% del reddito dichiarato. Come primo effetto l’ex Cavaliere potrebbe chiedere la revoca della sentenza di condanna per frode fiscale nel processo Mediaset, quella che lo ha fatto decadere da senatore per la legge Severino, cancellando così anche la pena accessoria e l’interdizione che gli avrebbe impedito la ricandidatura fino al 2018.

«Non credo si possa fare o non fare una norma che riguarda 60 milioni di italiani perché riguarda anche Berlusconi», sottolinea la Boschi. Prima dell’inizio della partita per il Colle, il premier aveva rimandato tutto a dopo. Al 20 appunto. Adesso dovrà decidere cosa fare. Tra i punti “attenzionati” proprio la soglia del 3%: difficile però che il premier possa decidere di alzarla, visto che è stata fatta e modulata per i grandi gruppi industriali. Da capire se cambieranno i reati: una delle ipotesi è cancellare la frode fiscale, tagliata appositamente sull’ex Cav. Nessuna marcia indietro ufficiale per ora: il 20 è la prima data utile per capire quanto ancora Renzi abbia intenzione (ma soprattutto necessità) di rinsaldare il Patto del Nazareno. Si vedrà se ha ragione Bersani, secondo il quale l’elezione di Mattarella è stata “un colpetto” al Patto. Mentre Alfano prova ad avvertire: «Al governo, faremo sentire la nostra voce».

In questa partita c’è un nuovo protagonista: il neo presidente della Repubblica. Che ieri, non a caso, ha passato un’ora con Napolitano: si è fatto spiegare e raccontare quali ostacoli il Quirinale deve affrontare, come sono i rapporti con Palazzo Chigi, a che punto è il percorso delle riforme. I decreti attuativi della delega fiscale arriveranno presto sulla sua scrivania: firmerà? Chi lo conosce bene lo racconta come un uomo molto preciso, anzi pignolo, molto attento agli equilibri politici, ma anche agli aspetti istituzionali e costituzionali. Vedremo. In arrivo prossimamente i decreti attuativi del jobs act e il milleproroghe.

E poi, c’è tutta la partita delle riforme. L’Italicum deve tornare alla Camera: in Senato è passata la versione dei capilista bloccati nei collegi, nonostante l’opposizione della minoranza bersaniana. Ringalluzziti dal ruolo giocato nella partita per il Colle, Bersani & co. annunciano battaglia a Montecitorio. Anche qui, da vedere come si comporterà il nuovo Presidente, che peraltro è il padre del Mattarellum, legge da molti rimpianta, che prevedeva i collegi uninominali e una quota proporzionale. Renzi nella presentazione della candidatura ai Grandi elettori Pd l’ha quasi presentato come un antesignano della nuova legge elettorale. In realtà, la filosofia era diversa. Infine, le riforme costituzionali, adesso alla seconda lettura alla Camera. Come si comporterà il costituzionalista Mattarella di fronte ad alcune evidenti forzature?

La Repubblica, 2 febbraio 2015 (m.p.r.)

Sergio Mattarella e Matteo Renzi. I due Presidenti. Formano una strana coppia, tanto sono diversi e lontani. Anche se, fra i due, c’è un filo politico e culturale comune. Mattarella è stato e resta un democristiano - di sinistra. Uno di quelli che si definiscono - e vengono definiti - cattolici democratici. Renzi, invece, è post-democristiano. Interpreta un modello di (post) democrazia personalizzata e mediatizzata. Dove i partiti contano meno perché, in fondo, si sono liquefatti. Per questo l’elezione di Mattarella permette di precisare il tipo di leadership e di democrazia interpretati da Renzi. Leader dei tempi liquidi, al tempo della democrazia liquida. Secondo la nota formula di Zygmunt Bauman. Cioè: senza appigli stabili e senza riferimenti coerenti. In continua evoluzione e ri-definizione. Renzi ne ha fatto un ambiente amico. Dove agisce e decide, perlopiù, da solo.

Il confronto con la precedente elezione presidenziale, nell’aprile 2013, risulta, al proposito, esemplare. Allora, le elezioni politiche avevano fatto emergere un Parlamento diviso in tre grandi minoranze politiche. In-comunicanti e divise anche al loro interno. Pd, Pdl e M5s. L’elezione del Presidente ne ha fornito una prova decisiva. Ha, infatti, dimostrato che si era alla fine di una stagione infinita. Il Berlusconismo. Una storia chiusa, ancora nel 2011. Senza che ancora se ne fosse preso atto. Riproponendo gli stessi riti e le stesse procedure. Come se il mondo fosse lo stesso di prima. Diviso in due. Pro oppure contro. Berlusconi. Come non fosse avvenuta l’irruzione del M5s. Veicolo della frattura fra società, politica e istituzioni. Così è stata bruciata la candidatura di Franco Marini, ex leader della Cisl e della Sinistra Dc. Ma, soprattutto, si è consumata la candidatura di Romano Prodi. Padre dell’Ulivo e del Pd. In aula. Per mano dei franchi tiratori del Pd. Molti più dei 101 di cui si è parlato. In questo modo è finita la finzione. Che si potesse continuare come prima. Con le stesse logiche di “partito”. Quando i partiti erano finiti, insieme ai loro riferimenti. Crollati, insieme al muro di Arcore. La “proroga” di Napolitano al Colle segna questo passaggio incompiuto. Perché è una nondecisione . In attesa di tempi diversi. Leader diversi.

Due anni dopo, quei tempi sono maturati. Tempi liquidi. Segnati da partiti liquidi. Le tre grandi minoranze, uscite dal voto del 2013 non esistono più. Non sono più grandi come prima. Due di loro, almeno. Il Popolo delle Libertà, si è diviso in diversi popoli. Forza Italia, guidata da Berlusconi. Il Nuovo Centro Destra guidato da Alfano. Entrambi, peraltro, proprio in questa fase si sono scomposti ulteriormente. Mentre il M5s si è, a sua volta, frazionato, in Parlamento. Ormai non è chiaro quanti siano i “fedeli” a Grillo e Casaleggio. E quanti parlamentari abbiano defezionato. Quel che resta del Centro, infine, si è riunito in un’altra sigla: Alleanza Popolare. Ma, in effetti, appare una periferia del PdR. Il Pd di Renzi. Il principale, se non unico, vero “partito” di governo. Sfidato, solamente, da partiti anti-europei e anti-politici. M5s e la Lega di Salvini, per primi. Tuttavia, lo stesso Pd non si presenta unito. È “geneticamente” diviso. Negli ultimi mesi, minacciato dalla tentazione della sinistra interna di integrarsi con Sel. Per formare una sorta di Tsipras all’italiana.
Ripercorro fatti e avvenimenti noti. In modo disordinato e superficiale. Ma in grado, anche così, di rendere più evidente il segno di questa Repubblica. Di questa democrazia. Liquida. Senza schemi né riferimenti stabili. in questo ambiente immateriale e frammentario Matteo Renzi ha affermato la propria leadership. In Parlamento e fra gli elettori. Renzi, come si è detto fin dal suo esordio, è “veloce”. Mimetico. Spregiudicato. Spietato, se necessario. Ha stabilito, da subito, un dialogo con il Nemico. Berlusconi. Un Patto, si è detto, intorno alle riforme istituzionali e alla riforma elettorale. Ma poi ha proceduto diritto al “suo” scopo. Scegliendosi di volta in volta i nemici prima ancora degli amici. A Destra e a Sinistra. Il Centro l’ha assorbito subito.

Così, ha avviato e impostato le riforme con alleati diversi. Il Jobs act e l’abolizione del Senato elettivo. Fino alla riforma elettorale. L’Italicum. Di cui è difficile delineare i contorni, dopo tante mediazioni e riscritture. Modellando, di volta in volta, maggioranze à la carte. Di volta in volta diverse, a seconda dei casi e degli obiettivi. Primo alleato: Berlusconi. Formalmente all’opposizione ma, puntualmente, a sostegno delle maggioranza, nelle occasioni che contano. Fino a ieri. Cioè, fino all’elezione del Presidente della Repubblica. Sergio Mattarella. Che non piace a Silvio Berlusconi. Per ragioni “storiche”, trattandosi di un “cattocomunista”. A suo tempo, ostile alla legge Mammì. Ma anche per ragioni “politiche” legate al presente. Anzi, al “momento”. Perché Renzi l’ha scelto senza consultarlo. Senza accordarsi con lui. E, in fondo, senza consultare nessuno. Così ha “liquefatto” ulteriormente Fi, Ncd e M5S. Ma ha riunito - e solidificato - il Pd. E la Sinistra, con cui il Pd si era alleato alle elezioni politiche del 2013.
Da ciò la differenza rispetto al 2013, quando l’elezione del Presidente aveva sancito l’impotenza del Pd e della sua leadership. Avviandone la crisi. La scelta di Mattarella, invece, oltre che al Paese, è utile a Renzi. Perché lo rafforza. Lo àncora alla storia politica del Centrosinistra, mentre lo disàncora da ogni alleanza stabile. Fuori e dentro il partito.
Renzi: è il premier dei tempi liquidi. Un “premier liquido”. Capace di cambiare forma. E di adattarsi a un sistema politico liquefatto. Renzi. Solo e veloce. Senza veri amici (politici). Questa è la sua forza. Ma anche il suo problema. Perché non ha vincoli. Ma neppure appigli e approdi stabili. Non ha neppure futuro. In questi tempi liquidi: esiste solo il presente. Ogni giorno: un porto nuovo. Un equipaggio diverso. E nuove insidie, nuovi nemici. Il viaggio potrebbe diventare faticoso. E rischioso. Anche per un navigatore liquido.

Il Fatto Quotidiano, 2 febbraio 2015

Montepulciano d’Abruzzo. Vino DOCG, prodotto nelle province di Chieti, l’Aquila, Pescara e Teramo. Colore: rosso rubino intenso con lievi sfumature violacee, tendenza al granato con l’invecchiamento. Odore: profumi di frutti rossi, spezie, intenso, etereo. Sapore: pieno, asciutto, armonico, giustamente tannico. Solitamente si abbina a piatti dal gusto forte, selvaggina, carni rosse, formaggi stagionati. Ha una gradazione minima di 12,5°. Di particolare pregio il vitigno Montepulciano d'Abruzzo Colline Teramane, da coltivarsi con estrema cura e a debita distanza da impianti di ricerca di idrocarburi! Etichetta certificata #NOTRIV.

Mesi fa il Parlamento ha convertito in legge lo Sblocca Italia. Un provvedimento che mirava a rilanciare l’economia e accelerare la realizzazione di grandi opere, ad aprire inceneritori e a dare il via libera agli interventi paralizzati da piccoli comuni e comitati particolarmente resistenti. Il premier l’aveva twittato forte e chiaro: «#basta-comitatini, stanco di fare figuracce quando parlo di energia con i leader della pianeta».

Tra le grandi idee c’è un’intuizione moderna come il motore a scoppio! Aprire una stagione di trivellazioni in tutto il Paese: dalla Basilicata alla Sicilia, dalla Lombardia all’Emilia Romagna. Dalla Puglia, all’Abruzzo, alle Marche, lungo tutto l’Adriatico. Poco importa se il made in Italy ne pagherà le conseguenze. Per tenerne alto il morale basterà il sito verybello.it. Ma esistono comitatini e piccoli comuni che non vogliono perdere i beni comuni. E sanno essere tenaci. Soprattutto quelli abruzzesi. Forse per via dell’ottimo vitigno dall’odore etereo. Così, in Provincia di Teramo, i sindaci dei Comuni di Bellante, Campli e Mosciano S.Angelo, insieme ai comitatini NOTRIV e al giovane costituzionalista Enzo Di Salvatore, non si sono rassegnati al futuro che attendeva la terra su cui cresce il Montepulciano DOCG decantato sulle etichette che viaggiano per il mondo. E hanno detto “no!” allo skyline in cui le trivelle dovrebbero prendere il posto dei filari su un territorio di ben 83 km quadrati.

Assemblee, raccolte di firme, manifestazioni, interrogazioni, pressioni politiche su parlamentari, su consiglieri regionali. Tutto pareva inutile. La grande mobilitazione sembrava destinata ad essere ammutolita dalle decisioni del Ministero dello Sviluppo e della Regione Abruzzo. Sembrava. Perché come una doccia fredda sui cacciatori di giacimenti è arrivata la decisione del Tar del Lazio che ha annullato il permesso di ricerca di idrocarburi denominato romanticamente “Colle dei Nidi”. Una sentenza che potrebbe essere il classico granellino che inceppa la macchina. Perché è la prima sentenza di annullamento di un permesso di ricerca di idrocarburi in terraferma. Perché si è voluto imporre, senza consentire la partecipazione di sindaci e cittadini, un modello vecchio e obsoleto per produrre energia. Il Montepulciano d’Abruzzo, per ora, è salvo. Ma l’Italia è piena di vitigni, di bellezza e di sapori da tutelare. E la sentenza ha cominciato a girare ad alta velocità.

La Repubblica, 1 febbraio 2015 (m.p.r.)

Inevitabile che la Panda grigia di Sergio Mattarella che sfila fino alle Fosse Ardeatine, ultimo gesto privato e insieme primo gesto pubblico del nuovo presidente, si imprima nella retina del pubblico, vasto o meno vasto, che ancora guarda a Roma non come a un enorme detrito o a un incomprensibile groviglio di cinismo e di intrallazzi, ma come alla capitale del paese. L’utilitaria grigia di famiglia, non la berlina blu di Stato, trasporta l’uomo che incarna le istituzioni, e tanto basterebbe ad accendere l’attenzione.

La politica è fatta (anche) di simboli e ai simboli si aggrappa soprattutto quando si sente impoverita di significati e svuotata di prestigio. Del presidente uruguagio Pepe Mujica è proverbiale e notissimo il Maggiolino parcheggiato davanti alla porta di casa; magari meno l’opera politica, significativa almeno quanto l’automobile. Ma parole e gesti possono essere simbolici tanto quanto lo “stile”. E in questo senso la scelta di Mattarella di andare alle Fosse Ardeatine è stata potente e spiazzante, anche per l’impressionante scarto tra quel luogo tragico e solenne e lo scadente calibro che la politica per prima sembra concedersi, sfibrata da una crisi che in Italia non è solo economica. Il rischio retorico non è stato neppure considerato, è stato semplicemente polverizzato dal gesto di Mattarella: come se la misura della politica e delle sue istituzioni non fosse, per la persona che sale al Quirinale, neppure in discussione.
L’equazione nazismo-terrorismo non è nuova, Parigi l’ha appena fatta sua dopo le stragi islamiste, e anche in quel caso l’unità della Nazione (là soprattutto con la imponente comunità di musulmani francesi) è stata evocata, anzi rievocata come solo antidoto efficace allo smarrimento e alla paura, come negli anni terribili della guerra e dell’occupazione nazista. In una brevissima dichiarazione, raccolta dai pochi presenti e non in favore di telecamere, il nuovo presidente ha citato “l’alleanza tra Nazioni e popolo che seppe battere l’odio nazista, razzista, antisemita e totalitario” aggiungendo che “la stessa unità in Europa e nel mondo saprà battere chi vuole trascinarci in una nuova stagione di terrore”.
Che le radici della nostra democrazia e della Repubblica, e subito dopo dell’unità europea, affondino nella sconfitta del nazifascismo non è un’opinione, sono pagine di storia (italiana ed europea). Però sbiadite, per quasi l’intero corso della seconda Repubblica; e spesso rilette come ragione non di unità nazionale, ma di divisione. L’antifascismo defalcato da sentimento fondante (e politicamente plurale) della nostra comunità nazionale a causa di lite tra opposte fazioni, quasi una vecchia bega che il trascorrere degli anni rende sempre più immotivata, anacronistica, ridicola. Il breve pellegrinaggio del dodicesimo presidente della Repubblica alle Fosse Ardeatine, per quanto informale, prende di petto quella impostazione, tra l’altro molto tipica dei nuovi partiti e movimenti populisti. E sottolinea, al contrario, la vitalità non solo simbolica ma anche politica delle radici antifasciste e antitotalitarie dalle quali nacque la stagione costituente: non si combatte il nuovo terrore se ci si dimentica come si è combattuto, sconfiggendolo, quello vecchio.

Sarà interessante capire se la prima sortita di Sergio Mattarella da presidente verrà intesa da tutti come “unitaria”, e da quanti tra gli attori della politica italiana, media compresi. O se qualcuno la considererà “divisiva” per il solo fatto che rimette l’accento dell’identità politica nazionale, e continentale, sull’antitotalitarismo e l’antirazzismo, ovvero sulla democrazia. E’ come se i primi, timidi abbozzi di una Terza Repubblica trovassero ispirazione più nel dna politico della Prima che nella confusa vitalità della Seconda. Si presume che il dodicesimo presidente, andando con mezzi propri e idee proprie alle Fosse Ardeatine, sapesse che non è un gesto qualunque e forse, alla luce della nostra storia politica recente, neppure un gesto neutrale.

Il manifesto, 31 gennaio 2015

«Men­tre Pier­santi come capo dello Stato avrebbe potuto asso­mi­gliare più a Per­tini, Ser­gio lo vedo più simile a Einaudi. Due grandi pre­si­denti con i quali Mat­ta­rella comun­que con­di­vide le stesse posi­zioni rispetto alla Costi­tu­zione repub­bli­cana, al plu­ra­li­smo della poli­tica, all’equilibrio delle isti­tu­zioni, alla cen­tra­lità del par­la­mento, e molto altro». Guido Bodrato, classe 1933, più volte depu­tato, mini­stro ed euro­de­pu­tato, non nasconde il suo entu­sia­smo nel pre­gu­stare la salita al Colle del suo amico e com­pa­gno di tanti anni di bat­ta­glie nelle fila della sini­stra Dc. E, a dif­fe­renza di Napo­li­tano, dice, non occu­perà «la scena poli­tica, di una poli­tica diven­tata spettacolo».

In sostanza, lei vede Mat­ta­rella come un difen­sore d’altri tempi dei ruoli costituzionali…
«Io sono un elet­tore del Pd, ma non sono un iscritto per­ché fin­ché que­sto par­tito non avrà una posi­zione asso­lu­ta­mente coe­rente sui valori della Costi­tu­zione del ’48 - sic­come que­sto è il para­me­tro con cui più di ogni altro giu­dico una posi­zione poli­tica - io non lo sento pie­na­mente come il mio par­tito. Mat­ta­rella sarà l’uomo che rispet­terà più le isti­tu­zioni, atten­tis­simo agli aspetti della lega­lità e al rispetto della Costi­tu­zione, d’altronde non a caso è giu­dice costituzionale».

Que­sta sua cul­tura poli­tica secondo lei lo dif­fe­ren­zia molto dal pre­si­dente Napolitano?
«Ho più di 80 anni e sono in poli­tica da quando ne avevo 18, ma non cono­sco più l’assemblea par­la­men­tare. Sono cam­biate tante cose, quindi fare il con­fronto è dif­fi­cile. Però men­tre Napo­li­tano, anche se è della prima repub­blica, occupa in qual­che modo la scena poli­tica di una poli­tica che è diven­tata spet­ta­colo, invece Mat­ta­rella secondo me sarà bene accetto dall’opinione pub­blica per­ché è uomo con­vin­cente e tra­spa­rente. Par­lando di ciò che espri­mono poli­ti­ca­mente credo non ci sia una sostan­ziale dif­fe­renza, ma se par­liamo dell’immagine pub­blica, Mat­ta­rella è uomo riser­vato, silen­zioso, non è un grande ora­tore, men­tre Napo­li­tano lo è».

Ed è anche il grande pro­tet­tore del governo di lar­ghe intese non eletto e del patto del «Nazareno…
Vede, vor­rei dire a Ven­dola - per­sona di cui ho grande sim­pa­tia e con cui con­di­vido molte opi­nioni - che ho visto sod­di­sfat­tis­simo come se fosse lui il vin­ci­tore, che è cam­biato il qua­dro di rife­ri­mento. Usando un lin­guag­gio da prima repub­blica: il patto del Naza­reno in que­sti giorni non è nau­fra­gato, è supe­rato. Per­ché le cose che hanno fatto sulla base di quel patto credo che reste­ranno, sarà molto dif­fi­cile cam­biarle. Però è altret­tanto vero che quel tipo di intesa poli­tica costruita su due per­so­naggi molto diversi per certi aspetti e molto uguali per altri, non fun­zio­nerà più in quei ter­mini. Biso­gna vedere cosa cam­bierà, ma non credo che si possa tor­nare indie­tro per rifare la partita».

Ma Mat­ta­rella non è un soste­ni­tore del presidenzialismo?
«No, ecco, pre­si­den­zia­li­sta Mat­ta­rella pro­prio non lo è. Se è vero che Renzi ha pre­fe­rito Mat­ta­rella a Prodi, è per­ché Prodi, da ex pre­mier, come capo dello Stato avrebbe sicu­ra­mente invaso l’area del pre­si­dente del Con­si­glio, cosa che Mat­ta­rella non farà. Per que­sto dico che Ser­gio sarà più Einaudi: resterà uomo della Costi­tu­zione, pro­ba­bil­mente in un modo che potrà appa­rire tradizionale».

Siamo, come qual­cuno sostiene, alla fine della seconda repub­blica tor­nando alla prima?
«No, que­sto non lo credo. Sono cam­biate tal­mente tante cose, sono cam­biati i par­titi. Il modo con cui que­sto par­la­mento ha affron­tato la riforma del senato, con i sena­tori eletti dai con­si­gli regio­nali, mostra una cul­tura che per me è inim­ma­gi­na­bile. Io che da gio­vane ho fatto anche il docente uni­ver­si­ta­rio, se avessi dovuto esa­mi­nare chi ha soste­nuto le cose con le quali il par­la­mento quasi una­ni­me­mente si è mosso, li avrei boc­ciati tutti. Non vedo la coe­renza con l’ordinamento costi­tu­zio­nale.
«Però è così, è cam­biato il modo di pen­sare delle nuove gene­ra­zioni poli­ti­che, ma non si può far finta che que­ste cose non siano acca­dute. I muta­menti sono stati così pro­fondi che imma­gi­nare che si torni indie­tro, addi­rit­tura alla Dc, è un non senso. Anche se mi fa molto pia­cere che si rico­no­sca che tutti i par­titi della prima repub­blica, non solo la Dc, hanno pro­dotto una classe diri­gente che è rima­sta in piedi e che con­ti­nua a essere utile al paese».

Nel luglio 1990 venne varata la legge Mammì sul sistema radio­te­le­vi­sivo pri­vato: Craxi minac­ciava di far cadere il governo se non fosse pas­sata men­tre la sini­stra Dc si oppo­neva, tanto che cin­que vostri mini­stri si dimi­sero. Andreotti però accolse le dimis­sioni, pose la fidu­cia e andrò avanti come un treno.…
«E io mi dimisi dalla segre­te­ria del par­tito… Credo che l’ostilità di Ber­lu­sconi venga soprat­tutto da lì. Un epi­so­dio che allora fu fon­da­men­tale per­ché al di là della dispo­ni­bi­lità delle fre­quenze ave­vamo la pre­oc­cu­pa­zione di come si stava costruendo un’egemonia del sistema infor­ma­tivo sulla vita demo­cra­tica, con un’impronta che - come poi è diven­tato lam­pante - met­teva fuori gioco il plu­ra­li­smo demo­cra­tico e intro­du­ceva ten­denze auto­ri­ta­rie molto forti. Per que­sto abbiamo fatto quella bat­ta­glia. E l’abbiamo persa. La sini­stra demo­cri­stiana, prima e più pro­fon­da­mente di altri, aveva capito che si stava affer­mando una cul­tura sem­pre meno rispet­tosa dei valori della Costi­tu­zione. E anche delle norme defi­nite a livello euro­peo. Poi in effetti Ber­lu­sconi ha rea­liz­zato quasi un blitz elet­to­rale con que­gli stru­menti, ma anche per­ché ha saputo caval­care un modo di fare poli­tica che stava già dilagando».

Quindi secondo lei Ber­lu­sconi non è affatto con­tra­riato solo dal metodo con cui Renzi ha impo­sto il nome di Mattarella…
«Ora­mai diventa dif­fi­cile distin­guere. Però sì. Ber­lu­sconi secondo me sta sba­gliando nel con­cen­trare que­sta osti­lità su Mat­ta­rella. Leggo che in defi­ni­tiva lui con­si­dera la sini­stra demo­cri­stiana il suo prin­ci­pale avver­sa­rio. Forse sto­ri­ca­mente ha anche ragione, ma oggi tante cose sono cambiate».

Voi, e lei in par­ti­co­lare, però vi oppo­ne­ste sem­pre all’ingresso di Forza Ita­lia nel Ppe.
«Prima Casta­gnetti e poi io che ero respon­sa­bile del pic­colo gruppo dei Popo­lari ita­liani… Ora­mai tutti fanno coin­ci­dere il Ppe e Ber­lu­sconi, ma in verità lui quando arrivò al par­la­mento euro­peo non entrò subito nel gruppo del Ppe. Lo fece solo suc­ces­si­va­mente. Loro ave­vano più di 20 par­la­men­tari, noi era­vamo meno di 10 e il Ppe aveva l’obiettivo di diven­tare il primo par­tito del par­la­mento euro­peo. Per noi invece evi­den­te­mente il pro­blema era squi­si­ta­mente poli­tico. Pur­troppo adesso tutti si defi­ni­scono popo­lari, ma per la verità nel 2004 con Fra­nçois Bay­rou, (lea­der del Movi­mento demo­cra­tico fran­cese, ndr) por­tammo il gruppo Schu­man fuori dal Ppe pro­prio per­ché i popo­lari euro­pei ave­vano scelto, solo per ragioni di quan­tità, l’accordo con i con­ser­va­tori inglesi, così come ave­vano fatto cin­que anni prima con Ber­lu­sconi. Come si vede, quindi, le occa­sioni di scon­tro sono state diverse e sostan­zial­mente erano sem­pre tra una visione cattolico-democratica e una conservatrice».

Il manifesto, 30 gennaio 2015

Unione. Il Grexit non è del tutto escluso, malgrado la volontà del governo greco e dei cittadini del paese di non uscire dall’euro

Il con­fronto tra la Gre­cia e la Ue, viste le prime rea­zioni dopo la vit­to­ria di Syriza e la for­ma­zione del nuovo governo Tsi­pras, rischia di inca­gliarsi in fretta in un brac­cio di ferro distrut­tivo per tutti, se non si riu­scirà a tro­vare un’uscita verso l’alto dalla crisi. La disoc­cu­pa­zione cre­sce, non solo in Gre­cia (gli ultimi dati fran­cesi sono estre­ma­mente pre­oc­cu­panti, con un aumento con­si­de­re­vole nel 2014: 3,5 milioni di senza lavoro, cifra che sale a 5,2 milioni se si con­teg­giano coloro che sono costretti a un part time, un aumento di 190mila disoc­cu­pati nel 2014, che sarà seguito, se nulla cam­bia, da un altro eser­cito di 100mila per­sone senza lavoro in più nel 2015).

Solo un New Deal euro­peo, con un col­le­ga­mento tra solu­zione della crisi del debito e piano di inve­sti­menti di Junc­ker (finan­ziato per dav­vero e non solo con i 21 miliardi pro­messi a mol­ti­pli­carsi fino a 315), potrà far uscire la zona euro dal pan­tano, sosten­gono molti eco­no­mi­sti (gli Eco­no­mi­stes atter­rés hanno appena pub­bli­cato il loro Nou­veau Manifeste).

Ma le regole della zona euro impon­gono che ogni pro­gramma della Bei sia cofi­nan­ziato dagli stati almeno al 50% e per la Gre­cia anche que­sta è una solu­zione al ribasso, visto che Dra­ghi ha legato l’accesso alla liqui­dità pro rata alla par­te­ci­pa­zione nel capi­tale della Bce (2% per la Gre­cia). Un cir­colo vizioso, per paesi senza mar­gini di mano­vra finanziaria.

In que­sti primi giorni di governo Tsi­pras, la Gre­cia è stata lasciata sola di fronte ai movi­menti della finanza: come c’era da aspet­tarsi, la Borsa di Atene è crol­lata (mer­co­ledì meno 9% in seguito alla sospen­sione delle pri­va­tiz­za­zioni impo­ste dalla tro­jka, i titoli delle ban­che gre­che sono pre­ci­pi­tati del 26%), i capi­tali con­ti­nuano a fug­gire, men­tre le Borse euro­pee viag­giano per conto loro, senza subire con­trac­colpi greci con­si­stenti. I tassi di inte­resse sul debito pri­vato sono volati a più del 10%. L’irrazionalità potrebbe pren­dere il sopravvento.

Il Gre­xit non è del tutto escluso, mal­grado la volontà del governo greco e dei cit­ta­dini del paese di non uscire dall’euro. L’uscita dall’euro, inol­tre, non è con­tem­plata dai trat­tati: il Trat­tato di Lisbona pre­vede l’uscita dalla Ue, per Atene signi­fi­che­rebbe abban­do­nare prima l’Unione per poi rien­trarvi (con un voto all’unanimità dei part­ner), ma senza euro.

Per la Gre­cia, sarebbe ogget­ti­va­mente un disa­stro, con la sva­lu­ta­zione che ne con­se­gui­rebbe men­tre il debito reste­rebbe in euro, per oltre­pas­sare il 200% del pil. Nes­suno vor­rebbe più pre­stare denaro alla Gre­cia. Un’uscita dall’euro della Gre­cia, che pesa solo per il 2% del pil euro­peo, viene con­si­de­rata da Bru­xel­les al limite eco­no­mi­ca­mente gesti­bile, ma poli­ti­ca­mente esplo­siva: l’instabilità potrebbe rag­giun­gere altri paesi, a comin­ciare dalla Spagna.

Ma le isti­tu­zioni euro­pee si stanno inte­star­dendo sulla sola que­stione del debito. Ricor­dano che la Gre­cia ha avuto 240 miliardi in aiuti diversi dai part­ner, anche se si dimen­ti­cano di dire che una parte con­si­stente è tor­nata nelle casse dei cre­di­tori, che la cifra colos­sale è ser­vita per sal­vare le ban­che e non per sol­le­vare la vita quo­ti­diana dei cit­ta­dini greci. Gli euro­pei si ripa­rano die­tro il para­vento della mini­miz­za­zione del “con­ta­gio”. Con la crisi, sono stati isti­tuiti vari para­ful­mini, che limi­tano la pro­pa­ga­zione del crollo ad altri paesi inde­bi­tati, dal Mes all’Unione ban­ca­ria, fino al quan­ti­ta­tive easing lan­ciato da Mario Dra­ghi il 22 gen­naio. Ma tutte que­ste misure sono state con­ce­pite per pro­teg­gere i mer­cati, non le popolazioni.

Nei fatti, mal­grado i due Memo­ran­dum e gli «aiuti» di 240 miliardi, dal 2010 al 2014 il debito greco è dimi­nuito sol­tanto di una man­ciata di miliardi (da 330 a 321,7), men­tre, a causa del calo della pro­du­zione di ric­chezza nazio­nale, la per­cen­tuale del peso del debito è aumen­tata, dal 146 al 175% del Pil.

Ma i part­ner, Ger­ma­nia in testa, si inte­star­di­scono sui numeri: non devono essere i con­tri­buenti degli altri paesi a pagare. Il debito greco è a più del 70% nella mani di cre­di­tori pub­blici, 32 miliardi dell’Fmi, più di 141 miliardi dell’Fesf (fondo euro­peo di sta­bi­lità) e 53 miliardi di pre­stiti bila­te­rali da parte degli stati mem­bri (40 miliardi per la sola Fran­cia, ad esem­pio, una cifra ana­loga per l’Italia, un po’ supe­riore per la Ger­ma­nia).

Que­sti sono miliardi a cui i part­ner hanno dato una «garan­zia» e per que­sto sono stati cal­co­lati nei rispet­tivi defi­cit. Gli euro­pei vanno valere di aver già abbas­sato note­vol­mente i tassi di inte­resse impo­sti alla Gre­cia e di aver allun­gato i tempi del rim­borso (fino a 30 anni). Insi­stono sul fatto che, sot­traendo gli inte­ressi che la Bce riversa alla Gre­cia sui titoli del debito che detiene, il «peso» del ser­vi­zio del debito è infe­riore per Atene (2,6% secondo il think tank Brue­ghel) che per l’Italia (4,7%) o per il Por­to­gallo (5%). Per Bru­xel­les, quindi, il mar­gine di mano­vra di Tsi­pras sarebbe minimo, se decide di non rispet­tare gli «impe­gni» dei pre­de­ces­sori, sof­fo­cato dalla man­canza di liqui­dità e asse­diato dai mer­cati. La Ue cal­cola che i biso­gni della Gre­cia per quest’anno siano intorno ai 36 miliardi e spera così, con visione miope, di met­tere Tsi­pras con le spalle al muro e di far­gli pie­gare la testa sotto le for­che cau­dine del rispetto dell’austerità.

Ue da un lato e Tsi­pras dall’altro hanno in mano un’arma nucleare: Gre­xit e default (rinun­cia a rim­bor­sare). Ci vor­rebbe un Salt I e II, uno Start e un tele­fono rosso tra Atene e Bruxelles

Lettera 42 online, 30 gennaio 2015

DOMANDA. Ma questa vittoria di Syriza è di destra o di sinistra?
RISPOSTA. È prima di tutto una vittoria importantissima per la Grecia, perché è un riscatto dopo anni di miseria e impoverimento, ma anche di umiliazione. Il Paese è stato usato come una cavia per le politiche di austerità.

D. Che ripercussioni può avere sull'Europa?
R. Può avere un'importanza enorme perché in questi sei anni la terapia anti-crisi, basata sul contenimento della spesa pubblica ed essenzialmente sulla riduzione del reddito dei cittadini, è fallita. Siamo di nuovo caduti in una profondissima deflazione.
D. Eppure c'è chi ci crede ancora: «Gli impegni per la Grecia restano gli stessi», ha ribadito il vice presidente della Commissione Ue, il falco rigorista finlandese Jyrki Katainen.
R. Invece se l'Europa fosse intelligente questa sarebbe davvero la grande occasione per dire: proviamo altre ricette, altre visioni della crisi, altri modi di uscirne.

D. Per ora sono più quelli che parlano di Grexit: di fare uscire la Grecia dall'euro.
R. La cosa interessante e promettente è che questa di Syriza è la vittoria di una forza radicalmente critica delle politiche europee, ma intenzionata a restare nell'Ue. Quindi non ha vinto un partito che vuole uscire dall'euro.

D. In un momento in cui si parla di radicalizzazione solo in termini negativi (politici e religiosi), quella di Syriza può rappresentare un'eccezione positiva?
R. Sì, perché in fondo siamo abituati a pensare che la sinistra radicale sia contro il capitalismo, contro l'Unione europea. Invece qui abbiamo una sinistra che è radicale perché vuole cambiamenti e miglioramenti nella conduzione dell'economia capitalistica. E allo stesso tempo crede nelle istituzioni comunitarie.

D. Tanto da volere anche un'Europa federale?
R. Sì, i principali dirigenti del partito, da Tsipras al vice presidente dell'europarlamento Dimitris Papadimoulis, sono tutti adepti del Manifesto di Ventotene. Che è anche il tema del primo capitolo del libro che sta scrivendo l'eurodeputato Manolis Glezos.

D. In Europa chi può andare nella stessa direzione?
R. La Spagna è già molto avanti. Con Podemos ha una sinistra simile, in un certo modo anche più libera di Syriza.

D. Perché?
R. Perché Syriza ha messo insieme dei pezzetti un po' vecchi della sinistra radicale con parti nuove. Podemos è completamente nuova, non si basa più sul contrasto destra-sinistra, ma si rivolge a tutto l'elettorato, senza etichette politiche. E a questa radicalità non eravamo abituati.

D. In che cosa consiste esattamente?
R. Nel salvare il welfare state, nell'essere fedeli alle conquiste sociali che l'Europa ha fatto nel Dopoguerra e che non sono state fatte solo dalla sinistra, ma da tutti: italiani, francesi... Si tratta quindi di salvare quello che teneva insieme l'Ue.

D. In Italia e Francia questa radicalità esiste?
R. La sua affermazione sarà un processo più lento, perché c'è una sinistra socialdemocratica moderata ancora molto forte, che ha finito con l'adottare le politiche dell'austerità e che quindi dovrebbe lei stessa cambiare.

D. E se non ci riesce?
R. Si dovrebbero formare delle forze alternative a Hollande e a Renzi.

D. L'economista francese Thomas Piketty ha invitato i socialisti francesi e italiani a unirsi a Tsipras prima di sparire definitivamente. È uno scenario possibile?
R. Sì, ma prima questi partiti di centrosinistra dovrebbero fare un mea culpa: ammettere di essersi
sbagliati, che il trattato sui bilanci adottato nel 2012 è stato un fallimento.

D. Troppo orgogliosi per farlo?
R. Che lo facciano o no dipende da loro, per ora hanno fatto delle aperture a Syriza, ma solo a parole.

D. L'Italia ha fatto una battaglia sulla flessibilità però.
R. Era tutta aria fresca, perché flessibilità vuol dire combattere per delle percentuali. Invece è proprio il meccanismo del fiscal compact che va rinegoziato tutto. Oggi in Europa, più che la divisione tra destra e sinistra, c'è quella tra debitori e creditori: uno squilibrio che non deve più esistere.

D. La Germania non sembra essere molto favorevole al cambiamento.
R. La battaglia culturale sulle dottrine economiche buone contro la crisi deve partire invece proprio dalla Germania, perché senza di loro un'altra Europa non la potremo avere. E non sarebbe nemmeno giusto.

D. Ma la cancellazione del debito chiesta da Syriza non ha molti sostenitori a Berlino.
R. Non dico di ripetere la stessa Conferenza del 1953. Che tra l'altro non ha cancellato il debito tedesco, ma lo ha talmente diluito nel tempo e legato a una ripresa economica della Germania che alla fine una parte non è stata pagata perché si trattava di decenni di rinvio.

D. E cosa propone allora?
R. Ci si deve sedere tutti insieme intorno a un tavolo e discutere il debito greco, ristrutturandone una parte, rinviando i rimborsi, con l'idea che è in gioco la ricreazione di una solidarietà ormai perduta. E
che è uno dei fondamenti dell'Ue.

D. È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago?
R. La Germania non chiuderà in maniera drastica a qualsiasi negoziato. Molte regioni ormai sono governate dai socialdemocratici e dalla sinistra radicale, Linke. E nella prossima legislatura non è escluso che tra loro ci possa essere un'alleanza chiamata rossa-rossa.

D. Invece in Grecia Tsipras ha preferito fare un'alleanza rosso-nero con la destra di Anel. È delusa?
R. No. Purtroppo Tsipras ha tentato varie alleanze: il Kke, partito comunista estremamente stalinista ha subito detto di no, e Potami, partito liberale, ha detto sì, ma a patto che si annacquasse la parte anti-austerity.

D. Meglio allora sacrificare un ideale politico?
R. Il problema di Tsipras è che deve dare risultati economici nell'immediato, deve far respirare di nuovo la popolazione greca. Un po' come fece François Mitterand quando aumentò subito il salario minimo. Anel è un conglomerato di forze diverse, ma per il momento la maggioranza è anti-austerity. Questo è il link.

D. Un compromesso storico alla greca?
R. No, il compromesso storico è qualcosa di più strutturato e di lungo periodo. Ed era talmente strutturato che poi anche Enrico Berlinguer lo rinnegò. Questo è più un compromesso strategico, che potrebbe anche saltare perché in realtà Tsipras ha bisogno solo di altri due deputati per avere la maggioranza assoluta.

D. E che siano di destra non conta?
R. No, in Grecia oggi la divisione è tra chi è a favore e chi è contro il memorandum della Troika.

D. Così si è sostituito un ideale economico a uno politico?
R. Considerata l'enormità della crisi e il prezzo pagato da milioni di cittadini, sì. Oggi l'economia passa davvero al primo posto. Poi bisogna vedere anche cos'è la destra e cos'è la sinistra.

D. Nel suo ultimo libro, Sottomissione, Michel Houllebeck ha scritto «l'opposizione sinistra-destra struttura il gioco politico da così tanto tempo che ci sembra impossibile superarla. Eppure in fondo non c'è nessuna difficoltà». È d'accordo?
R. Dipende, in Italia per esempio difficilmente vedo possibile un accordo tra sinistra radicale e Lega Nord.

D. Anche perché in Italia la sinistra radicale è praticamente estinta.
R. Non sono d'accordo, diciamo che è in letargo. Bisogna fare come Tsipras, che ha preso tante cellule dormienti della vecchia sinistra e ne ha fatto qualcosa di nuovo.

D. Andando con Anel ha più che altro fatto una chimera.
R. La sinistra in molti Paesi è sociologicamente minoritaria, se vuole governare, per forza deve andare a pescare voti nel centro e nella destra.

D. Insomma come ha fatto Renzi?
R. No, il centrosinistra in Italia ha tagliato fuori la parte radicale, Syriza invece si è assicurata prima di avere tutti i voti della sinistra e poi ha aperto ad altri.

D. In questo caso il fine giustifica i mezzi?
R. In Grecia la situazione è talmente grave - siamo ai livelli della depressione americana degli Anni 30 - che per forza saltano divisioni vecchie tra destra e sinistra. E poi i Greci indipendenti più che alla destra mi fanno pensare al Movimento 5 stelle, che sull'immigrazione è prudente mentre sul sociale e sui diritti è più aperto.

D. Ma quali sono i rischi che Tsipras corre con questa alleanza?
R. Di cedere su alcuni diritti fondamentali, in particolare sui temi dell'immigrazione. Questo è un periodo in cui l'Ue sta combattendo una guerra economica interna, ma all'esterno è circondata da guerre che portano migliaia di richiedenti asilo, non più immigrati, alle nostre porte. E il pericolo è che l'Ue si chiuda in una fortezza.

D. Adesso a controllare quella porta c'è proprio un greco, Dimitris Avramopoulos, commissario europeo con il portafoglio per le Migrazioni, gli Affari interni e la Cittadinanza.
R. Sì ma Avramopoulos, che è di destra, forse andrà a fare il presidente della Repubblica. Una scelta che ha creato scontenti, ma è una mossa strategica molto astuta.

D. Perché?
R. Syriza pensa sia più importante avere un proprio uomo a Bruxelles come commissario all'immigrazione che averne uno presidente della Repubblica, un ruolo che tra l'altro non ha un gran peso come invece in altri Paesi.

D. In Italia ne ha tanto per esempio. Chi le piacerebbe?
R. Tra quelli usciti nessuno, anche se sicuramente il migliore è Romano Prodi. Ma il mio candidato ideale è Gustavo Zagrebelsky, che però non candideranno mai.

Il manifesto, 30 gennaio 2015

SPIANATAMATTARELLA

Norma Rangeri,

Se fos­simo in un altro paese, la can­di­da­tura di Luciana Castel­lina non sarebbe sol­tanto una testi­mo­nianza - a noi molto vicina e cara - ma qual­cosa di sim­bo­li­ca­mente forte. Resterà però come un omag­gio a chi è nel cuore della sini­stra italiana.

Tutt’altro rispetto a quanto è suc­cesso ieri. Per­ché die­tro la ban­diera di Ser­gio Mat­ta­rella, il demo­cri­stiano per­bene, sof­fiano le trombe della rot­tura del patto del Naza­reno e dell’unità ritro­vata del Pd. Rie­merge dalla pol­vere in cui era stato tra­sci­nato per­sino il fan­ta­sma del vec­chio cen­tro­si­ni­stra di ber­sa­niana memo­ria con Nichi Ven­dola che, dopo Luciana, sosterrà Mat­ta­rella. E tira un sospiro di sol­lievo la varie­gata mino­ranza del Pd men­tre davanti alle tele­ca­mere bran­di­sce la can­di­da­tura del giu­dice costi­tu­zio­nale come la prova della rot­tura del patto con Ber­lu­sconi. Mat­ta­rella ha come spia­nato divi­sioni e divergenze.

Si esi­bi­sce come con­tro­prova il no della squa­dra di Arcore al poli­tico sici­liano, già fiero avver­sa­rio delle leggi (Mammì, ma anche Gasparri) a favore del mono­po­li­sta tele­vi­sivo. E per giunta fermo oppo­si­tore dell’entrata di Forza Ita­lia nella fami­glia euro­pea del Par­tito popo­lare. Un no, quello dell’ex Cava­liere, appena ammor­bi­dito dall’esibito fair play di una gen­tile tele­fo­nata al can­di­dato. E poi mani­fe­stato non con un voto con­tra­rio ma con la scheda bianca (come per l’elezione di Napolitano).

È anche curioso che in que­sto tor­neo qui­ri­na­li­zio si repli­chi quel che accadde ai tempi di Ciriaco De Mita. Il lea­der della sini­stra demo­cri­stiana che, come Renzi oggi, era segre­ta­rio del par­tito e capo del governo. De Mita fu il regi­sta dell’elezione di Fran­ce­sco Cos­siga: riunì, ancora una volta, governo e pre­si­denza della repub­blica sotto il tetto di piazza Del Gesù.

Una replica della sto­ria che, dopo trent’anni, ieri pome­rig­gio, è tor­nata improv­vi­sa­mente d’attualità con una vec­chia, sto­rica coper­tina del mani­fe­sto, esi­bita nell’aula di Mon­te­ci­to­rio e in tv dal leghi­sta Cal­de­roli. Quel “Non mori­remo demo­cri­stiani” che cam­peg­giava sulla nostra prima pagina del 1983, rife­rito al tra­collo elet­to­rale della Dc demitiana.

Un titolo che allu­deva a «una spe­ranza - scri­veva Luigi Pin­tor - se la sini­stra ita­liana non dilapiderà un risul­tato a suo favore come mai prima era acca­duto». Tra prima e seconda repub­blica, quel patri­mo­nio è stato orgo­glio­sa­mente espulso dal cuore del nuovo Pd ren­ziano e oggi, se il dodi­ce­simo pre­si­dente della repub­blica sarà Ser­gio Mat­ta­rella, avremo ai ver­tici del paese, Palazzo Chigi e Qui­ri­nale, l’accoppiata di un qua­ran­tenne e un set­tan­tenne pro­ve­nienti dalla sto­ria demo­cri­stiana. E’ un dato di fatto che porta a com­pi­mento, anche sim­bo­li­ca­mente, quell’opera di rot­ta­ma­zione della radice comu­ni­sta dallo sce­na­rio poli­tico ita­liano per rin­ver­dire, con spre­giu­di­cati inne­sti, la pianta degasperiana.

Non che il voto una­nime dei grandi elet­tori del Pd per Ser­gio Mat­ta­rella pre­si­dente della repub­blica, sia un cer­ti­fi­cato di garan­zia con­tro un altro “Pro­di­ci­dio”. Tut­ta­via que­sta volta la “carica dei 101″ sem­bra piut­to­sto impro­ba­bile. Renzi ha già il piede schiac­ciato sull’acceleratore della nuova costru­zione media­tica del pre­si­dente «l’antimafia, le dimis­sioni per un ideale, i col­legi per i par­la­men­tari, l’abolizione della naja» che signo­reg­gia su gior­nali e televisioni.

Sfac­cia­ta­mente sosti­tuita a quella che ci ha bom­bar­dato fino a ieri sulla neces­sità di eleg­gere un capo dello stato di leva­tura inter­na­zio­nale, di grandi rela­zioni nel mondo di eco­no­mia e finanza. Tanto da spin­gere per la nomina del nuovo pre­si­dente della Repub­blica entro il week-end per non urtare la «suscet­ti­bi­lità» dei mer­cati. A Ser­gio Mat­ta­rella manca almeno la metà delle qua­lità impre­scin­di­bili che dove­vano carat­te­riz­zare la figura pre­si­den­ziale. Una evi­dente presa in giro. Tra le tante a cui ci ha abi­tuato il funam­bo­lico capo del governo.

Ma se alla quarta vota­zione Renzi riu­scirà a eleg­gere Mat­ta­rella per il par­tito di Ber­lu­sconi sarà una Capo­retto. Dopo aver steso la sua rete di pro­te­zione attorno al governo del Pd, assi­cu­rando numeri legali in aula, votando la legge elet­to­rale, soste­nendo la con­tro­ri­forma costi­tu­zio­nale, dovrà fare buon viso a cat­tivo gioco, sop­por­tando la vit­to­ria ren­ziana sul Quirinale.

Se le cose andranno come sem­bra, il capo del governo ne uscirà raf­for­zato. Tut­ta­via resterà l’impressione di aver assi­stito a una par­tita decisa a tavo­lino, dalla segre­te­ria di un par­tito, senza alcun dibat­tito e con­fronto interno. E senza pas­sione, coin­vol­gi­mento, emo­zione per gli ita­liani, per­ché quanto è acca­duto in que­sti giorni segna ancora di più il distacco tra i par­titi e i cittadini.



37VOLTE LUCIANA CASTELLINA
SCHEDA ROSSA LA TRIONFERÀ
di Tommaso Di Francesco

Ieri in Par­la­mento è stato un pic­colo tri­pu­dio per il mani­fe­sto. C’è stata la pre­sunta pro­te­sta leghi­sta con­tro gli inciuci renzian-berlusconiani, con Cal­de­roli che issava la nostra prima pagina del 1983, «Non mori­remo demo­cri­stiani», il bel titolo fatto da Luigi Pin­tor; poi la Bol­drini che ha allon­ta­nato leghi­sti e prime pagine, invece avrebbe fatto bene a cac­ciare i leghi­sti e a tenere in aula «il mani­fe­sto».

Sì, per­ché di lì a poco i depu­tati di Sel - e non solo - hanno comin­ciato, nella prima seduta desti­nata all’elezione del nuovo pre­si­dente della Repub­blica, dopo l’uscita di scena del compact-presidente Napo­li­tano, a votare per la nostra Luciana Castel­lina. Giusto.

Invece di votare scheda bianca, sta­volta è stata scheda rossa, una bella ban­diera issata per 37 volte. La vota­zione pur­troppo è sim­bo­lica, ma c’è poco da scher­zare. E poi metti che tra una recita e l’altra qual­cuno nel dispo­si­tivo sba­glia e allora esce dav­vero Luciana Castellina? Pur­troppo non acca­drà come nell’estate del 1978 quando pro­prio il drap­pello dei depu­tati dell’allora Pdup pro­pose il nome fino a quel momento mino­ri­ta­rio di San­dro Per­tini e alla fine fu una valanga di «Per­tini presidente».

Fon­da­trice con Ros­sana Ros­sanda, Luigi Pin­tor, Aldo Natoli, Valen­tino Par­lato, Lucio Magri prima dell’esperienza della rivi­sta «Il Mani­fe­sto», che fu poi causa della radia­zione dal Pci, poi pro­ta­go­ni­sti della nascita di que­sto giornale. Lo meri­te­rebbe eccome Luciana Castel­lina, donna, ex depu­tata, comu­ni­sta sem­pre in prima fila, anche con la parola e la scrit­tura. Capace di attra­ver­sare le sta­gioni poli­ti­che e le capi­tali del mondo come fosse a casa, cosmo­po­lita prima che la glo­ba­liz­za­zione fosse realtà. Con lei il Qui­ri­nale sarebbe un avam­po­sto della nuova Europa, una casa aperta, attenta e ospi­tale verso gli ultimi e i biso­gni della società.

Lo meri­te­rebbe dav­vero, sarebbe l’immagine dell’Italia che ha lot­tato, che non ha smesso di farlo. Ma che non ha vinto. E allora…

La Repubblica, 29 gennaio 2015 (m.p.r.)

«Mattarella? Ma se lei va a domandare ai deputati chi è, le risponderanno: chi, il cugino dell’onorevole Mattarellum?». Forse ha ragione Pino Pisicchio, che conosce bene i suoi colleghi parlamentari: a Montecitorio lo conoscono in pochi, l’uomo che potrebbe diventare il dodicesimo presidente della Repubblica. Perché in Transatlantico lui non si fa vedere da sette anni, e da allora qui dentro è cambiato quasi tutto: a cominciare dalle facce dei deputati. Però si fa presto a descriverlo. Avete presente Renzi? Bene, Sergio Mattarella è il suo esatto contrario. E’ uno che ama il grigio, evita le telecamere, parla a bassa voce e coltiva le virtù della pacatezza, dell’equilibrio e della prudenza. «In confronto a lui, Arnaldo Forlani è un movimentista » disse una volta Ciriaco De Mita, che lo conosce meglio di tutti perché 28 anni fa lo nominò ministro.

Ma proprio De Mita sa che sotto quel vestito grigio e dietro quei modi felpati c’è un uomo con la schiena dritta, un hombre vertical capace di discutere giorni interi per trovare un compromesso con l’avversario, ma anche di diventare irremovibile se deve difendere un principio, una regola o un imperativo morale. Come fece la sera del 26 luglio 1990, quando – con un gesto che ancora oggi Berlusconi ricorda – si dimise da ministro della Pubblica Istruzione perché Andreotti aveva posto la fiducia sulla legge Mammì, quella che sanava definitivamente le tre reti televisive del Cavaliere. Si dimisero in cinque (c’erano anche Martinazzoli, Fracanzani, Misasi e Mannino) ma fu lui a spiegare quel gesto di rottura senza precedenti, e lo fece a bassa voce e senza usare un solo aggettivo polemico: «Riteniamo che porre la fiducia per violare una direttiva comunitaria sia, in linea di principio, inammissibile…». Poi, quella sera, incrociò Martinazzoli e gli chiese: «Hai consegnato la lettera di dimissioni?». «Certo, l’ho appena fatto». «E hai fatto una fotocopia?». «No, perché? ». «Perché Andreotti è capace di mangiarsela, la tua lettera, pur di farla scomparire…».

Nato settantaquattro anni fa a Palermo, figlio di Bernardo che era stato ministro, deputato e potente democristiano in Sicilia, Sergio Mattarella voleva fare il professore di diritto pubblico. L’eredità politica del padre era stata raccolta dal fratello maggiore, Piersanti, che era rapidamente arrivato alla poltrona più potente dell’isola: la presidenza della Regione. Ma quando la mafia capì che quel politico quarantacinquenne non si sarebbe piegato alle sue regole, decise di toglierlo di mezzo con il piombo di una pistola. Sergio vide morire il fratello tra le sue braccia – era il 6 gennaio 1980 – e fu forse in quel momento che fece la sua scelta: avrebbe fatto politica per non darla vinta a chi aveva ordinato l’assassinio.
Così tre anni dopo fu eletto deputato (in quota Zaccagnini), e l’anno dopo De Mita – diventato segretario – scelse proprio lui come plenipotenziario del partito in Sicilia. La missione era chiara: doveva bonificare la Dc di Lima e Ciancimino. La mossa di Mattarella arrivò quando si trattò di scegliere il nuovo sindaco di Palermo. Lui scelse, e riuscì a far eleggere, un giovane professore che era stato tra i consiglieri del fratello: Leoluca Orlando. Poi De Mita, quando arrivò a Palazzo Chigi, lo richiamò a Roma. Ministro dei Rapporti col Parlamento. Andreotti lo nominò alla Pubblica Istruzione, e finì come sappiamo. Mattarella tornò a fare il deputato. Ripensarono a lui quando si trattò di riscrivere la legge elettorale per adeguarla all’esito del referendum di Mario Segni. Così nacque quell’incastro tra collegi uninominali e quote proporzionali che fu poi battezzato da Giovanni Sartori con il nome del suo autore: Mattarellum.
Il destino volle che fosse proprio quella legge, sotto il ciclone di Tangentopoli, a far crollare il partito di Mattarella, la Dc. Ma lui fu uno dei pochi che sopravvissero alla Prima Repubblica, perché l’unica macchia che erano riusciti a trovargli era una vecchia storia di buoni benzina regalatigli da un costruttore siciliano (assoluzione piena, «il fatto non sussiste»). Nel Partito popolare che prende il posto della Dc, Mattarella fu uno degli oppositori della linea filo-berlusconiana di Buttiglione («Vuole uccidere il partito» disse) e anche uno dei sottoscrittori della candidatura a premier di Romano Prodi, schierando il partito con il centro-sinistra. Poi vennero l’Ulivo, la Margherita e infine il Partito democratico, del quale Mattarella scrisse (con Pietro Scoppola e altri quattro) il manifesto fondativo.
Non fu Prodi però a farlo tornare al governo, ma Massimo D’Alema. A Mattarella toccava la guida del gruppo dei ministri del Ppi, e dunque la vicepresidenza del Consiglio. Poi arrivò anche il ministero: la Difesa. E lui realizzò l’impresa che non era riuscita a nessuno dei suoi predecessori: l’abolizione della naja, il servizio militare obbligatorio. Restò anche con il governo Amato, poi lasciò il governo e, nel 2008, anche il Parlamento. Che però si è ricordato di lui quando, quattro anni fa, bisognava trovare il nome di un giudice costituzionale che avesse un ampio consenso. E lui fu eletto. Sembrava che non ce l’avesse fatta, che avesse mancato il quorum per un solo voto, ma quando le schede furono ricontate si scoprì che quel voto in più c’era. Era il 5 ottobre 2011. Dopo tre anni e quattro mesi, si voterà ancora una volta sul suo nome. E lui non sarà il solo ad aspettare lo spoglio con il fiato sospeso.

Il manifesto, 29 gennaio 2015

I primi segni del nuovo corso elle­nico sono minimi, sim­bo­lici, ma già signi­fi­ca­tivi. Da ieri mat­tina, primo giorno di lavoro del nuovo governo Tsi­pras, sono spa­rite le tran­senne davanti al Par­la­mento e con loro i Mat, le forze spe­ciali anti­som­mossa che pre­si­dia­vano i mini­steri, in par­ti­co­lare quello della Cul­tura. Il nuovo inqui­lino della sede di Exar­chia ha poco da temere da anar­chici e ribelli vari.

Si tratta di Ari­sti­dis Bal­tas e gode di un pre­sti­gio asso­luto: filo­sofo althus­se­riano, è con­si­de­rato uno dei mag­giori pen­sa­tori mar­xi­sti in Gre­cia, pro­viene dall’Istituto Nikos Pou­lan­tzas (di cui è pre­si­dente) ed è noto per i suoi studi su Wittng­stein, Der­rida, Spi­noza, Ben­ja­min. Ad affian­carlo, come sot­to­se­gre­tari, ci saranno un noto gior­na­li­sta, Nikos Xio­la­kis, respon­sa­bile delle pagine cul­tu­rali del quo­ti­diano Kathi­me­rini, e Tas­sos Kou­ra­kis, un docente della Facoltà di Medi­cina di Salo­nicco sem­pre pre­sente alle mani­fe­sta­zioni con­tro l’austerità e nelle lotte sociali (in par­ti­co­lare quella con­tro l’estrazione dell’oro nella peni­sola Calcidica).

Un segnale meno sim­bo­lico è invece arri­vato dal primo con­si­glio dei mini­stri. Al ter­mine Pana­io­tis Lafa­za­nis, un mate­ma­tico che abban­donò il Kke nel ’91 quando i «rin­no­va­tori» per­sero la bat­ta­glia con­tro gli «orto­dossi» e lea­der della cor­rente di sini­stra di Syriza, Ari­ste­ria Plat­forma (Piat­ta­forma di sini­stra), che Tsi­pras ha messo alla testa del super­mi­ni­stero alla Rior­ga­niz­za­zione pro­dut­tiva, all’Ambiente e all’Energia, ha annun­ciato il blocco della pri­va­tiz­za­zione del porto del Pireo. I por­tuali avranno anche un sot­to­se­gre­ta­rio a loro molto vicino. Si tratta di Tho­do­ris Dri­tsas: pireota doc, impie­gato nella far­ma­cia di fami­glia, durante la dit­ta­tura mili­tava in un gruppo deno­mi­nato «Rivo­lu­zione socia­li­sta» ed è tra i fon­da­tori di Syriza. Di lui si ricor­dano le man­ga­nel­late prese dalla poli­zia ita­liana al porto di Bari nel luglio 2001, quando la nave degli anti-G8 diretti a Genova fu respinta in Grecia.

Nel suo primo giorno di lavoro il mini­stro delle Finanze Yan­nis Varou­fa­kis, eco­no­mi­sta di fama inter­na­zio­nale, ha incon­trato davanti al mini­stero le donne delle puli­zie che da un anno e mezzo chie­dono di essere rein­te­grate, dive­nute un sim­bolo della lotta con­tro l’austerità. «Taglie­remo le spese al mini­stero e le rias­su­me­remo», ha pro­messo loro. Ma Varou­fa­kis non rimarrà da solo ad affron­tare i nodi prin­ci­pali che il governo dovrà scio­gliere: la rine­go­zia­zione del debito e la solu­zione dei gra­vis­simi pro­blemi sociali cau­sati dalla crisi.

Per que­sto Tsi­pras ha pre­di­spo­sto una vera e pro­pria linea di fuoco. A coor­di­narla ci sarà il vice­pre­si­dente del Con­si­glio Yan­nis Dra­ga­sa­kis, un altro per­so­nag­gio di asso­luto spes­sore. Eco­no­mi­sta, già mini­stro dell’Economia nel governo di unità nazio­nale del 1989, fino al ’91 espo­nente di spicco del Kke, che abban­donò quando perse la segre­te­ria per appena quat­tro voti (57 a 53), Dra­ga­sa­kis è con­si­de­rato l’ispiratore della poli­tica eco­no­mica di Syriza. Il terzo espo­nente della troika di Tsi­pras è Yor­gos Sta­fa­kis. Il neo­ti­to­lare dell’Economia pro­viene da una fami­glia dell’alta bor­ghe­sia, è un pupillo di Dra­ga­sa­kis dai tempi del Kke (all’epoca era nel Kne, i Gio­vani comu­ni­sti), ma nel tempo si è spo­stato su posi­zioni rifor­mi­ste, susci­tando anche mugu­gni per alcune ester­na­zioni, come quando affermò che il «debito odioso» dei greci, vale a dire quello pro­vo­cato dalla spe­cu­la­zione finan­zia­ria, non supera il 5 per cento. Tsi­pras l’ha voluto al governo per le sue posi­zioni fer­ma­mente con­tra­rie al ritorno alla dracma e per­ché è con­si­de­rato un pro­fondo cono­sci­tore dell’economia reale.

Al ter­zetto di eco­no­mi­sti il neo­pre­mier ha affian­cato due sot­to­se­gre­tari che rispon­dono diret­ta­mente a lui: quello alle Rela­zioni eco­no­mi­che inter­na­zio­nali, affi­dato a Euclide Tha­ka­lo­tos, un rap­pre­sen­tante del par­tito degli «inglesi» (si è lau­reato a Oxford e ha inse­gnato a Cam­bridge, men­tre Varou­fa­kis si è for­mato nell’Università dell’Essex così come la Gover­na­trice dell’Attica Rena Dou­rou, brac­cio destro di Tsi­pras, e il depu­tato di Corfù Fotini Vaki), e l’altro agli Affari euro­pei, messo nelle mani di Nikos Kun­dos, un euro­de­pu­tato dell’ala comu­ni­sta di Syriza, noto per il suo atti­vi­smo a Bru­xel­les (di lui si con­tano 300 inter­venti e un migliaio di inter­ro­ga­zioni, anche su argo­menti molto scot­tanti come quello della sven­dita dell’aeroporto di Atene e sul caso Siemens). Tha­ka­lo­tos, for­ma­tosi nei gio­vani labu­ri­sti inglesi, è invece un key­ne­siano puro. Ottimo cono­sci­tore di Gram­sci, soste­ni­tore del com­mer­cio equo e soli­dale, è con­vinto che il debito della Gre­cia non sia soste­ni­bile e che la ricetta per l’uscita dalla crisi abbia un solo nome: socialdemocrazia.

Il secondo pila­stro del governo, dopo l’economia, è quello sociale. Alla testa tro­viamo Nikos Vou­tzis, a capo del secondo super­mi­ni­stero (dopo l’Economia): agli Interni e alla rior­ga­niz­za­zione dell’amministrazione sta­tale. Vou­tzis, pro­ve­niente dal Par­tito comu­ni­sta dell’interno ed ex capo della segre­te­ria poli­tica di Syriza, sarà affian­cato da un mini­stro ad hoc per la lotta alla cor­ru­zione, l’ex magi­strato (dalla fama di duro) Pana­io­tis Nico­lou­dis, un indi­pen­dente voluto diret­ta­mente da Tsi­pras. Prima pro­messa: la chiu­sura delle car­ceri spe­ciali. Con­tem­po­ra­nea­mente la sua vice­mi­ni­stra con delega all’Immigrazione, Tasia Chri­sto­dou­lo­pou­lou, si è impe­gnata a dare la cit­ta­di­nanza a tutti i figli degli immi­grati nati in Grecia.

Tra­la­sciando le con­ces­sioni all’Anel (l’istrionico e discusso segre­ta­rio Panos Kam­me­nos alla Difesa, un sot­to­se­gre­ta­rio con delega alla Mace­do­nia e un’ex cam­pio­nessa di salto in alto e 100 metri a osta­coli che la Cnn nel ’91 scelse tra le migliori dieci modelle al mondo alla quale è stata affi­data la delega al Turi­smo), il terzo pila­stro del governo Tsi­pras sarà il lavoro. Tra i pri­mis­simi prov­ve­di­menti ci saranno il ritorno alla con­trat­ta­zione col­let­tiva e l’aumento del sala­rio minimo a 751 euro. Anche qui la squa­dra messa in campo è di tutto rispetto. Il nuovo mini­stro, Panos Skou­le­tis, è stato per anni respon­sa­bile della comu­ni­ca­zione di Syriza. Sarà affian­cato da Teano Fotiou (con delega alla Soli­da­rietà sociale), una docente di Archi­tet­tura al Poli­tec­nico attiva in Solidarity4all, la rete che gesti­sce gli ambu­la­tori e le mense sociali, e da Mania Anto­no­pou­lou (con delega spe­ci­fica per la lotta alla disoc­cu­pa­zione). Docente alla New York Uni­ver­sity e al Bard Col­lege, con­si­gliere all’Onu sui temi dell’uguaglianza di genere, Anto­no­pou­lou è defi­nita “la signora dei 300 mila posti di lavoro” per aver cri­ti­cato dura­mente i fondi euro­pei per la riqua­li­fi­ca­zione pro­fes­sio­nale (poi­ché, ha soste­nuto, il pro­blema in que­sto momento è l’assenza di offerta di lavoro), e per aver teo­riz­zato, in uno stu­dio per il Levy Insti­tute, il ruolo dello Stato come datore di lavoro di ultima istanza per garan­tire la piena occu­pa­zione. Ora è chia­mata a met­terlo in pratica.

Il manifesto, 29 gennaio 2015

Aiuti imme­diati alle fami­glie povere, rias­sun­zioni dei licen­ziati dalla Troika e dai governi pre­ce­denti, blocco alle pri­va­tiz­za­zioni del porto di Pireo e di Salo­nicco, allon­ta­na­mento della rin­ghiera che cir­con­dava il par­la­mento, desti­tu­zione dei poli­ziotti in tenuta anti­som­mossa dagli ate­nei, attri­bu­zione di cit­ta­di­nanza a tutti i figli di migranti nati in Grecia.

Sono alcune delle misure che già sono state prese o sono in corso di essere rea­liz­zate dal dream team di Ale­xis Tsi­pras, che comin­cia ad incon­trarsi con i mas­simi diri­genti dell’ Ue per discu­tere sul pro­gramma del nuovo governo. Il pre­mier ha poi pro­po­sto Zoi Kon­stan­to­pou­lou, figlia di un ex lea­der del Syna­spi­smos (Coa­li­zione della sini­stra), ascen­dente del Syriza, e nota diri­gente della sini­stra radi­cale come can­di­data alla pre­si­denza del parlamento.

Nell’ epi­cen­tro dei col­lo­qui del governo - oggi con il pre­si­dente dell’ euro­par­la­mento, Mar­tin Schulz e domani con il pre­si­dente dell’ euro­gruppo, Jeroen Dijs­sel­bloem - il taglio del debito e l’annulamento del memo­ran­dum. «Non vogliamo andare allo scon­tro fron­tale con i nostri cre­di­tori, ma que­sta cata­strofe sociale non può andare avanti. Siamo con­trari a un con­flitto distrut­tivo» ha detto Ale­xis Tsi­pras nel suo discorso di aper­tura del primo con­si­glio dei mini­stri. Per aggiun­gere poi che «siamo un governo di sal­vezza sociale, il popolo ci chiede di lavo­rare dura­mente per difen­dere la sua dignità».

Sono appena pas­sati tre giorni dalle ele­zioni, nem­meno 24 ore dal giu­ra­mento dei mini­stri di Syriza e Anel e un’ aria diversa, di otti­mi­smo e di spe­ranza, di rivo­lu­zione (con o senza vir­go­lette), di dignitá e di grinta, sta attra­ver­sando la capi­tale greca. Si sente nei discorsi della gente, nelle dichia­ra­zioni dei neo ministri. Anche se appa­ren­te­mente nulla ancora è cam­biato e non man­cano le lamen­tele da parte di chi ha ancora paura di per­dere il suo sti­pen­dio o la pen­sione «per­ché c’é il peri­colo che le ban­che chiu­dono», i greci sono di nuovo in mar­cia, per­ché se ne ren­dono conto che - parole loro - «que­sti qui al governo non scher­zano», «il modo che hanno di fare poli­tica è diverso». Gli unici nella capi­tale greca a rea­gire nega­ti­va­mente - un segnale per le trat­ta­tive in corso da oggi - sono i mer­cati. La Borsa di Atene ha chiuso regi­strando un calo di 9,24% (le azioni delle ban­che hanno con­ti­nuato a colare a picco, meno 27%), men­tre il ren­di­mento dei titoli di stato a tre anni ha supe­rato il 16%.

«I greci sanno che non potremo cam­biare lo stato della nostra eco­no­mia in un giorno. Ma di una cosa pos­sono essere certi: l’unico punto di rife­ri­mento di que­sto governo é il popolo» ha sot­to­li­neato il nuovo pre­mier greco. Stessa lun­ghezza d’onda anche al primo discorso del mini­stro delle finanze, Yanis Varoufakis.

«I col­lo­qui con i nostri cre­di­tori saranno dif­fi­cili, ma rite­niamo che i nostri part­ner ci pos­sano dare una chance». Varou­fa­kis che ha già par­lato tele­fo­ni­ca­mente con il pre­si­dente dell’eurogruppo e la set­ti­mana pros­sima si incon­trerà con i suoi omo­lo­ghi ita­liano e fran­cese. Il neo mini­stro ha affer­mato che ci sono «diversi punti di accordo» e non «di scon­tro» con gli altri mem­bri dell’ euro­gruppo, ma se le cose vanno male Atene «non accet­terà più i trat­tati dell’Ue».

La rea­zione é arri­vata pro­prio ieri prima da Bru­xel­les e poi da Ber­lino. La Com­mis­sione europea, con il vice-presidente dell’ ese­cu­tivo, Jyrki Katai­nen, fede­lis­simo della can­cel­liera Ankela Mer­kel, ha ripe­tuto che Atene «si é assunta degli impe­gni e ci aspet­tiamo che man­tenga le pro­messe», men­tre il mini­stro dell’economia tede­sco, Sig­mar Gabriel, ha ricor­dato ad Atene che «il nuovo governo deve essere giu­sto verso i con­tri­buenti in Ger­ma­nia e in Europa che hanno mostrato solidarietà». Tutti i part­ner euro­pei chie­dono al governo Tsi­pras di man­te­nere i patti, esclu­dendo ogni dia­logo per un even­tuale taglio del debito pub­blico greco. Un atteg­gia­mento che, se da una parte serve le politiche di rigore di Ber­lino, dall’altra nasconde due fat­tori non trascurabili.

Innan­zi­tutto ciò che sot­to­li­neano tutti gli eco­no­mi­sti del mondo e che die­tro le quinte ammet­tono pure i diri­genti euro­pei: il debito non è soste­ni­bile, non solo in Gre­cia, ma anche in Ita­lia, in Spa­gna e altrove. Per­ciò - ed è que­sta la pro­po­sta di Atene - biso­gna affron­tare la que­stione in una con­fe­renza euro­pea. In secondo luogo, rife­ren­dosi ai con­tri­buenti euro­pei, Ale­xis Tsi­pras che si incon­trerà anche con il pre­si­dente fran­cese, Fran­cois Hol­lande, varie volte ha sot­to­li­neato che un even­tuale hair-cut del debito pub­blico non toc­cherà i con­tri­buti dei pri­vati. «L’Europa e la Gre­cia pos­sono avan­zare insieme» ha detto più cauto ieri il com­mis­sa­rio euro­peo agli Affari eco­no­mici, Pierre Mosco­vici. Infine, a Tsi­pras, è arri­vata anche la tele­fo­nata di Obama, che si è detto dispo­sto ad aiu­tare il paese: «Pure io ero gio­vane come te quando sono stato eletto e ora ho i capelli grigi», avrebbe detto al lea­der greco il pre­si­dente Usa.

Il manifesto, 28 gennaio 2015

La prima viene dal «super­can­guro». L’approvazione dell’emen­da­mento 01.103, a firma Espo­sito, ha fatto cadere – a quanto si legge — decine di migliaia di emen­da­menti. Magia par­la­men­tare? In realtà il trucco c’è, e si vede. In prin­ci­pio, un emen­da­mento sosti­tui­sce un con­te­nuto nor­ma­tivo. Da qui la tipica for­mula: «sosti­tuire le parole A, B, C con le parole D, E, F». Per l’art. 72 Cost. la legge elet­to­rale è neces­sa­ria­mente discussa e appro­vata in assem­blea arti­colo per arti­colo. Per l’art. 100 del rego­la­mento senato gli emen­da­menti seguono la stessa logica.

L’emendamento 01.103 pre­met­teva all’art. 1 dell’Italicum un arti­colo 01 recante in sin­tesi indi­rizzi gene­rali per l’intera pro­po­sta. Non richia­mava altri arti­coli, commi, emen­da­menti, e non ne toc­cava quindi il con­te­nuto nor­ma­tivo spe­ci­fico. Nem­meno poneva norme auto­no­ma­mente appli­ca­bili. Né infine rispet­tava il prin­ci­pio della discus­sione e appro­va­zione arti­colo per arti­colo, come è pro­vato pro­prio dalla deca­denza di emen­da­menti a mol­te­plici arti­coli del dise­gno di legge.

Come è stato detto in Aula, al più avrebbe potuto con­fi­gu­rarsi come ordine del giorno.

Seguendo la logica dell’emendamento Espo­sito baste­rebbe — sotto le men­tite spo­glie di emen­da­mento — ante­porre a qual­siasi dise­gno di legge un rias­sunto dei suoi con­te­nuti e appro­varlo per far rite­nere pre­clusi tutti gli emen­da­menti. Un bava­glio istan­ta­neo e, se fatto dal governo, una sostan­ziale ghi­gliot­tina dispo­ni­bile ad libi­tum. Basta e avanza a pro­vare il tra­di­mento della let­tera e dello spi­rito della Costi­tu­zione e del rego­la­mento, e per di più in una mate­ria cru­ciale, come è quella elet­to­rale. L’emendamento 01.103 doveva essere dichia­rato inam­mis­si­bile, in quanto privo di «reale por­tata modi­fi­ca­tiva» (art. 100.8 reg. sen.). Appro­vato, avve­lena l’intero testo, aggiun­gendo motivi a una futura impu­gna­tiva davanti alla Corte costituzionale.

La seconda macro­sco­pica vio­la­zione viene dalla con­cla­mata inos­ser­vanza della sen­tenza della Con­sulta 1/2014, che si incar­dina nella indi­scu­ti­bile natura del voto libero e uguale come diritto fon­da­men­tale e invio­la­bile. Even­tuali limiti devono essere neces­sari per il rag­giun­gi­mento di fini costi­tu­zio­nal­mente rile­vanti, pro­por­zio­nati ad essi, e giu­sti­fi­cati dall’assenza di alter­na­tive meno lesive.

Tali prin­cipi sono lesi dai capi­li­sta bloc­cati. Di fatto, solo gli elet­tori dei mag­giori par­titi potranno espri­mere util­mente la pre­fe­renza. Ciò rende il voto dise­guale, tra elet­tori di par­titi diversi, e lo rende altresì per tutti non libero, con­cor­rendo comun­que il voto ad eleg­gere un capo­li­sta che potrebbe essere non voluto. In ultima ana­lisi, è la stessa lesione cen­su­rata dalla Corte nel por­cel­lum. E il con­trollo della rap­pre­sen­tanza che la norma per­se­gue non è obiet­tivo costi­tu­zio­nal­mente apprezzabile.

Inol­tre, nell’Italicum non è neces­sa­ria e pro­por­zio­nata la ridu­zione della rap­pre­sen­ta­ti­vità dell’assemblea. Anche assu­mendo la stabilità/governabilità come inte­resse costi­tu­zio­nal­mente rile­vante e bilan­cia­bile con il diritto di voto – e per­so­nal­mente non con­cordo con l’avviso in tal senso della Corte – è ovvio che l’obiettivo si rag­giunge pie­na­mente già con il mega­pre­mio e il bal­lot­tag­gio. È certo che una mag­gio­ranza par­la­men­tare esi­ste. Postic­cia magari, e con l’aggiunta di seggi non con­qui­stati nelle urne: ma c’è. Que­sto rende le soglie di sbar­ra­mento, ancor­ché abbas­sate, un limite inu­tile ed eccessivo.

La sem­pli­fi­ca­zione del sistema poli­tico non è un obiet­tivo costi­tu­zio­nal­mente apprez­za­bile, e anzi si pone in con­tra­sto con l’art. 49 Cost. Lo stesso argo­mento vale per il pre­mio alla sola lista, che col­pi­sce altresì il voto uguale. Nel caso di una coa­li­zione vin­cente, l’elettore – pur avendo scelto lo stesso schie­ra­mento — si tro­verà sotto o sovra rap­pre­sen­tato a seconda che abbia votato per il par­tito mag­giore o quello minore. Sarà inol­tre favo­rita l’invenzione di listoni unici di fac­ciata buoni solo per il voto. E che però accen­tue­ranno la deci­sione oli­gar­chica e cen­tra­li­stica delle can­di­da­ture, posto che listoni sif­fatti richie­dono media­zioni com­ples­sive impos­si­bili in periferia.

Esi­ste­vano alter­na­tive meno dannose? Cer­ta­mente sì. Abbiano assi­stito a una distru­zione voluta per obiet­tivi non con­di­vi­si­bili e motivi abietti. Se tutto que­sto andasse avanti, diremmo addio alla Repub­blica demo­cra­tica e alla Costi­tu­zione come le abbiamo cono­sciute. Addo­lora che ciò accada nel disin­te­resse dell’opinione pub­blica, per mano di un par­la­mento dele­git­ti­mato per l’incostituzionalità dichia­rata della legge elet­to­rale, sele­zio­nato al peg­gio da tre turni con­se­cu­tivi di Por­cel­lum, e ormai privo di qua­lità e di nerbo.

Durante il ven­ten­nio tanti non vol­lero vedere, ascol­tare, par­lare. Ma nac­que anche un ceto poli­tico che seppe rischiare il pro­prio futuro, e per­sino la vita, anche quando sem­brava non esserci speranza. Se que­gli uomini e quelle donne aves­sero sof­ferto le debo­lezze di quelli che oggi popo­lano le isti­tu­zioni, saremmo ancora tutti in cami­cia nera

Il manifesto, 28 gennaio 2015

È molto stretta l’inquadratura del pro­getto delle sini­stre unite. Rita­glia le facce note, lea­der di pic­coli par­titi, di cor­renti di un grande par­tito, di asso­cia­zioni. Un rac­conto cono­sciuto, bat­tuta per bat­tuta, e non è solo abi­tuale pigri­zia da sistema media­tico. È vera­mente que­sta la sini­stra unita – tutta di uomini – che in Ita­lia si mette in cammino?

C’è una dire­zione posi­tiva nel coor­di­na­mento delle sini­stre pro­po­sto Nichi Ven­dola, cam­bia il clima dopo il risul­tato con­se­guito con la lista L’Altra Europa con Tsi­pras, ori­gi­nato dalla giu­sta intui­zione dell’Europa come reale spa­zio dei con­flitti, e la bat­tuta d’arresto suc­ces­siva. Ma cosa garan­ti­sce – al di là delle inten­zioni – che non si per­cor­rano le solite strade di ste­rili patti tra ceti politici?

Pro­viamo a rove­sciare l’inquadratura e il rac­conto. A quale popolo si rivolge la sini­stra? Sì, popolo, uso per scelta una parola diven­tata un tabù, come se popolo fosse di per sé sino­nimo di destra, di pul­sioni rea­zio­na­rie. E la uso, que­sta parola, per­ché il sociale – nell’uso cor­rente e quasi auto­ma­tico dei dibat­titi poli­tici – rischia di essere senza carne e san­gue. E soprat­tutto rischia di lasciare senza corpo chi fa poli­tica, come è capi­tato nei cam­bia­menti che hanno segnato le grandi orga­niz­za­zioni di un tempo. Per­fino i movi­menti – che del sociale dovreb­bero essere l’espressione — rischiano di per­dere la spinta ori­gi­na­ria che li ha resi tali, chiusi in un’autorappresentazione che con­ti­nua ad ali­men­tarsi di stessa.

Allora, popolo. Popolo di sini­stra. Per me sono donne e gio­vani, prima di tutto. Pre­cari e pre­ca­rie che com­bat­tono con un lavoro fram­men­tato e sot­to­pa­gato. Madri sin­gle che comuni sem­pre più impo­ve­riti non rie­scono più a soste­nere, nean­che con gli asili. Chi vede minac­ciato il pro­prio posto di lavoro. E natu­ral­mente pen­sio­nati a cui ven­gono erosi passo dopo passo i diritti. Per­sone che con affitti che non rie­scono più a pagare, ma anche case di pro­prietà troppo costose per red­diti sem­pre più bassi. E costi sani­tari sem­pre più alti. Oppure fami­glie costrette a con­di­vi­dere spazi pic­coli, o con­vi­venze di estra­nei nean­che gio­vani, in una cul­tura che non pre­vede i mono­lo­cali a basso costo. Sono povertà che ven­gono nasco­ste dalla nar­ra­zione cor­rente dei media, ma anche dalla poli­tica mainstream.

Det­ta­gli, mi si potrebbe obiet­tare, una per­dita di tempo. Que­sto è il punto. Non si tratta di minu­zie da lasciare alle asso­cia­zioni, al più alla pas­sione più o meno soli­ta­ria di mili­tanti di base. Que­sta è vita. Que­ste sono le per­sone, que­ste è il popolo con cui fare poli­tica. Que­sto è lo spa­zio lasciato vuoto da un Pd sem­pre più sepa­rato dal mondo del lavoro.

È un popolo che ha paura, come sanno bene Mat­teo Sal­vini e tutte le destre popu­li­ste euro­pee. È a loro che vogliamo lasciarlo? Più che la paura, del popolo oggi temo l’indifferenza. Come difesa dalla man­canza di spe­ranza. Spe­ranza di cam­biare. Per­ché esi­stono forme di reci­proco aiuto, una rete di affetti – tra i gio­vani ma non solo – che regge l’urto vio­lento del neo-liberismo. È che non basta più. È un po’ come il Distretto 12 di Hun­ger Games, prima che Kat­niss par­te­cipi ai gio­chi. Il potere per­vade tutto. Si può riu­scire a non morire di fame, ci si vuole molto bene, ma non basta. Occorre una spe­ranza, occorre lottare.

Fare poli­tica oggi è lavo­rare per creare spazi comuni, in cui tutti pos­sano incon­trarsi. Chi lotta per la casa, come chi sa tutto delle poli­ti­che di genere, o del Ttip. Chi orga­nizza cam­pa­gne o rac­co­glie firme, come chi è se stesso, con la pro­pria fatica di vivere e di rico­no­scersi nei pro­blemi comuni. Aspetto non secon­da­rio di una pro­po­sta e una pra­tica poli­tica. Spazi sparsi nelle città, nei quar­tieri. Luo­ghi fisici, in cui incon­trarsi, scam­biare, orga­niz­zare e orga­niz­zarsi. Acco­gliere ciò che esi­ste senza inglo­barlo, ela­bo­rare idee, soste­nere lotte, ren­dere visi­bili nuove facce, di donne e anche di uomini. Luo­ghi sim­bo­lici delle mol­te­plici con­nes­sioni in Ita­lia e in Europa, a cui inter­net può dare stru­menti uti­lis­simi di con­fronto, comu­ni­ca­zione e demo­cra­zia. Senza pre­ten­dere di gui­dare dall’alto, senza lasciare tutto all’irresponsabilità del caso. C’è un enorme lavoro da fare. Ne vale la pena

«Una cosa è certa: la troika, dovrà abituarsi al fatto che il salvataggio della Grecia non è solo una questione di tassi d’interesse, bond, rate di prestiti, sostenibilità dell’esposizione e rapporti debito/Pil. Tsipras, Varoufakis & C. metteranno sul tavolo delle trattative anche le lacrime dell’interprete senzatetto. Sono quelle il nuovo parametro su cui la Ue dovrà imparare a ridisegnare la sua politica economica». La Repubblica, 28 gennaio 2015

Prima gli auguri formali al nuovo governo greco, seppur fatti pervenire con due giorni di ritardo. Subito dopo, riunita con i vertici del suo partito, Angela Merkel tiene il punto: la Germania è contraria ad ogni revisione del debito ellenico. Così come il presidente dell’Europarlamento, il socialista Martin Schulz, che domani incontrerà Tsipras: «Bisogna attenersi agli impegni presi». Una doppia risposta al nuovo viceministro dell’Esteri Euclid Tsakalotos che poche ore prima aveva ribadito la linea di Syriza: «Sappiamo tutti che ripagare il nostro debito pubblico è irrealistico». E così nel giorno della nomina dei ministri lo scontro tra i rigoristi e gli anti-austerity sembra già surriscaldarsi.

Ma il neo presidente e i suoi tirano dritto, almeno a parole. «Altro che spread e troika, il mio primo pensiero andrà ai nostri nuovi poveri», si presenta il nuovo ministro delle Finanze greco, l’economista Yanis Varoufakis. Il dicastero più importante del governo è andato a questo professore universitario di 53 anni fuori dagli (attuali) schemi: un comunista a metà tra utopia e pragmatismo, passaporto greco e australiano, capace di giurare davanti al capo dello Stato con il look di sempre, giacca e camicia fuori dai pantaloni. E che, prima ancora della nomina ufficiale, ha commentato così la notizia sul proprio blog: «Volete sapere cosa penserò quando varcherò per la prima volta l’ingresso del ministero? Alla troika? Allo spread? Sbagliato. Nel mio cuore — scrive Varoufakis — ci sarà il ricordo dell’interprete che ho incontrato nei giorni scorsi. Prima di congedarsi è scoppiata in lacrime: “Facevo l’insegnante di lingue ma sono rimasta senza lavoro. Ora vivo per strada, me la cavo con lavoretti saltuari, mi hanno tolto il figlio che vedo una volta al mese. Non le chiedo di fare qualcosa per me. Per me è finita. Ma fate quel che potete per chi riesce a stare ancora in piedi”. Da ministro mi occuperò di questo». Come a dire: dietro ai vincoli e agli indici economici ci sono le persone in carne e ossa e noi penseremo a quelle.

L’esecutivo varato da Alexis Tsipras è composto da dieci ministri (nessuno è donna), un taglio di sei rispetto a quelli del suo predecessore Antonis Samaras. E a parte la Difesa, che come previsto è andata all’alleato di governo Anel e al suo leader Panos Kammenos (sognava quel posto da una vita), sono tutti esponenti vicini a Syriza. Anche se due di loro provengono dal Pasok; nomine che, insieme ovviamente all’alleanza ibrida con i nazionalisti di Anel, hanno creato qualche malumore nella base del partito, che da sempre guarda con sospetto gli ex socialisti folgorati sulla via di Tsipras. Il quale ha nominato «ministro di Stato» — una sorta di sottosegretario alla presidenza del Consiglio — Nikos Pappas, prima amico e poi uomo ombra del premier praticamente da sempre, sin dai tempi dei social forum a cavallo del Duemila.

È una donna Zoi Constantopoulou, che diventa presidente del Parlamento. Alla sinistra interna di Syriza, quella che una volta era la minoranza anti-euro, va il ministero dell’Ambiente con Panayotis Lafazanis. Nella lista poi ci sono due ministri filo-russi. Non a caso sulle sanzioni a Mosca per il caso ucraino il nuovo esecutivo ha subito espresso il proprio dissenso rispetto alla posizione della Ue. A conti fatti Tsipras ha scelto un profilo di governo rispettoso di tutti i delicati equilibri interni al partito e alla maggioranza. Una cosa è certa: la troika, conosciuti i suoi avversari, dovrà abituarsi al fatto che il salvataggio della Grecia non è solo una questione di tassi d’interesse, bond, rate di prestiti, sostenibilità dell’esposizione e rapporti debito/Pil. Tsipras, Varoufakis & C. metteranno sul tavolo delle trattative anche le lacrime dell’interprete senzatetto. Sono quelle il nuovo parametro su cui la Ue dovrà imparare a ridisegnare la sua politica economica.

Tsipras ha fatto davvero la cosa giusta. Perché le decisioni greche riguardano tutti noi». Il manifesto, 28 gennaio 2015, con postilla, rafforzativa

Appena rice­vuto l’incarico per for­mare il nuovo governo, Tsi­pras ha fatto due cose per niente for­mali: è andato a Kesa­rianì, dove, nel 1944 200 par­ti­giani greci furono fuci­lati da fasci­sti e nazi­sti, e si è rifiu­tato — primo pre­si­dente del con­si­glio nella sto­ria del paese – di baciare la Bib­bia e ingi­noc­chiarsi davanti al capo della Chiesa Orto­dossa. Tanto per chia­rire gli equi­voci che avreb­bero potuto nascere sulla scelta com­piuta: l’accordo con Panos Kam­me­nos, lea­der di Anel, i greci indi­pen­denti fuo­ru­sciti da «Nuova Demo­cra­zia», 13 depu­tati deci­sa­mente di destra e osse­quienti alla religione.
Equi­voci infatti nell’immediato ce ne sono stati. Quando la noti­zia della deci­sione ha comin­ciato a dif­fon­dersi ero ancora ad Atene e ho così potuto con­di­vi­dere con qual­che com­pa­gno di Siryza le rea­zioni all’accaduto. Inu­tile negare: sor­presa, imba­razzo, anche incom­pren­sione. Peg­gio quando ho incro­ciato gli ita­liani della Bri­gata Kali­mera che si erano attar­dati a rien­trare in patria dopo la festosa not­tata di dome­nica. Dio mio, il patto del Nazareno?

Io credo che il nostro com­pa­gno Ale­xis abbia fatto la cosa giu­sta. E da quel che mi dicono al tele­fono gli stessi che lunedì mat­tina mani­fe­sta­vano le loro per­ples­sità mi sem­bra che, nel suo insieme, il par­tito, pas­sato il primo momento, abbia capito il senso della scelta com­piuta da Tsipras-primo mini­stro. Che peral­tro non tra­di­sce il man­dato del comi­tato cen­trale di Siryza, l’ultimo prima del voto: nes­sun com­pro­messo con chi ha fir­mato l’odioso Memo­ran­dum della Troika. Gli unici a non averlo fatto – se si esclu­dono i fasci­sti di Alba dorata – sono pro­prio quelli di Anel. Anche il Kke, natu­ral­mente, che con i suoi ben 15 depu­tati avrebbe potuto costi­tuire la più ovvia delle alleanze. Ma sapete tutti che gli ultimi filo­so­vie­tici (chissà di quale Urss), sin dall’inizio hanno detto che non avreb­bero mai col­la­bo­rato con un governo di Siryza per­ché pro-europea. Salvo, subito dopo la sua cla­mo­rosa vit­to­ria, aprire uno spi­ra­glio ad un voto posi­tivo su sin­goli prov­ve­di­menti che «il popolo» (cioè il Kke) giu­di­cherà buoni. Troppo poco per for­mare il governo, che aveva biso­gno, subito, di almeno altri due depu­tati, non male in prospettiva.

Lasciamo da parte l’equazione più assurda ( quella Tsi­pras = Renzi), pur evo­cata da qual­che scon­si­de­rato twit­ter, e per due buone ragioni: Siryza ha fatto una cam­pa­gna elet­to­rale in cui la sua iden­tità di sini­stra è stata sem­pre riaf­fer­mata con grande forza e , coe­ren­te­mente, il suo pro­gramma è tutto mirato a dare rap­pre­sen­tanza agli inte­ressi dei più poveri (il con­tra­rio del job act, come è stato scritto). Inol­tre il com­pro­messo con Anel è lim­pido e «di scopo»: chia­ra­mente limi­tato alla duris­sima con­trat­ta­zione con la troika.

Si tratta di una scelta molto dura, corag­gio­sis­sima e anche rischiosa come tutto ciò che si fa per corag­gio. Sarebbe stata più facile una pru­dente alleanza con i cen­tri­sti, che avreb­bero però con­di­zio­nato il governo pesan­te­mente, spin­gen­dolo ad una logo­rante media­zione, e poi a un par­ziale cedi­mento. Era quello che auspi­cava Bru­xel­les. Tsi­pras ha deciso invece di andare al brac­cio di ferro. Per­chè quello che Siryza chiede non è un aggiu­sta­mento un po’ meno rigo­roso, ma un muta­mento sostan­ziale della linea di poli­tica eco­no­mica dell’Unione Euro­pea. Per que­sto non si è limi­tata a chie­dere una dila­zione nel paga­mento del pro­prio debito ma una Con­fe­renza straor­di­na­ria che affronti il pro­blema della crisi, non solo della Gre­cia, in tutta la sua com­ples­sità. Vale a dire l’occasione per affron­tare non solo le maga­gne gre­che, ma anche quelle degli altri paesi, per varare regole nuove e diverse da quelle sta­bi­lite nel 2012 dal trat­tato sui bilanci. A comin­ciare da una uni­fi­ca­zione della poli­tica fiscale, per porre fine alla pra­tica del dum­ping alle­gra­mente usata dai più forti, e di un più intel­li­gente rap­porto fra livello del defi­cit e livello degli investimenti.

È ben para­dos­sale che la troika, e con lei tutti i c.d. ben­pen­santi euro­pei­sti, stia facendo due cose asso­lu­ta­mente con­trad­dit­to­rie: accu­sare la Gre­cia di aver sper­pe­rato danaro e per­fino di aver fal­si­fi­cato i pro­pri bilanci e insieme auspi­care che restino al comando pro­prio gli stessi col­pe­voli di que­sta ban­ca­rotta frau­do­lenta.

Non potrebbe esserci prova migliore che quanto inte­ressa Bru­xel­les non è la sorte dell’Europa, ma la sal­va­guar­dia degli inte­ressi che difen­dono, gli stessi che serve Sama­ras e i governi che oggi det­tano legge nell’Unione. I quali sono respon­sa­bili di gran parte del debito accu­mu­lato da Atene: la tra­ge­dia di Ace­bes, dove un F16 greco è pre­ci­pi­tato pro­du­cendo un disa­stro, è dram­ma­ti­ca­mente lì a ricor­dar­celo nel giorno in cui Ale­xis diventa primo mini­stro. Chi mai ha insi­stito per­ché que­gli aerei venis­sero acqui­stati? La logica è sem­pre la stessa, da quando il pro­blema del debito, negli anni ’80, è esploso in Africa e Ame­rica latina: i governi occi­den­tali hanno agito come i «puscher» con la droga, aprendo le loro borse al cre­dito per­ché paesi che ave­vano ben altre prio­rità acqui­stas­sero merci e ser­vizi super­flui, impe­gnan­dosi il patri­mo­nio pub­blico.

Ho detto che la scelta di non annac­quare il con­fronto con Bru­xel­les è molto corag­giosa, per­chè c’è da atten­dersi una rispo­sta duris­sima. Le prove per Tsi­pras e l’intera sini­stra greca saranno dif­fi­ci­lis­sime e la nostra soli­da­rietà — se saprà essere det­tata dalla testa oltre che dal cuore — essen­ziale. Ben sapendo tutti che per vin­cere non basterà respin­gere il dik­tat della troika, ma avviare un modello di pro­du­zione, di con­sumo, di orga­niz­za­zione della società diverso da quello attuale: una mag­giore liqui­dità se si con­ti­nue­ranno a fare le stesse cose — super­mar­ket, spe­cu­la­zione edi­li­zia, spreco — non ser­virà a molto. Per que­sto non basta invo­care poli­ti­che key­ne­siane di inter­vento pub­blico, occorre anche indi­care quale e per quale tipo di svi­luppo. A que­sto pro­getto Anel non ser­virà, ma c’è tempo per creare, nella società oltre che in par­la­mento, un con­senso sui pro­getti di più lungo periodo. È un tema che dovrà essere al cen­tro della rifles­sione di tutta «L’altra Europa», per­ché non riguarda solo la Gre­cia, ma tutti noi. Ne abbiamo abba­stanza per i pros­simi anni.

Intanto, forza com­pa­gni di Siryza, per ora si è almeno sve­lata la stu­pi­dità di Bru­xel­les che si com­porta come Buri­dano (o Mel­chi­se­decco, non ricordo) col suo asino: «Che pec­cato — aveva escla­mato — pro­prio ora che gli avevo inse­gnato a non man­giare, è morto».
P.S. Il mini­stero della difesa in mano ad Anel? Vista la tra­di­zione greca, crearsi qual­che punto d’appoggio con­tro even­tuali avven­ture dei mili­tari, non è un brutta idea.

postilla

Parole di saggezza quelle di Castellina. Anzi, di semplice buonsenso. La priorità assoluta della politica di Syriza non può non essere una trattativa vincente con l'Unione europea: se in questa trattativa Tsipras non porta a casa un successo il suo governo non è in grado di mantenere nessuno degli altri impegni. Se l'Anel è l'unico dei gruppi parlamentari contrario all'austerity, e se il PKK ha risposto "forse domani, chissà" che altro si poteva fare? Del resto, in un accordo politico (in un compromesso tattico) il confronto tra i 149 deputati di Syriza e i 13 di Anel non lascia dubbi sulla direzione di marcia del governo Tsipras. Chi poi faccia confronti tra l'alleanza parlamentare di Tsipas e le "larghe intese"di <renzu non ha capito nè chi è l'uno nè chi è l'altro.

La Repubblica, 27 gennaio 2015 (m.p.r.)

Il trionfo elettorale di Syriza in Grecia potrebbe capovolgere la situazione dell’Europa e farla finita con l’austerità che mette a rischio la sopravvivenza del nostro continente e dei suoi giovani. Tanto più che le elezioni previste per la fine del 2015 in Spagna potrebbero produrre un risultato simile, con l’ascesa di Podemos. Ma perché questa rivoluzione democratica venuta dal Sud possa riuscire a modificare davvero il corso delle cose, bisognerebbe che i partiti di centrosinistra attualmente al potere in Francia e in Italia adottino un atteggiamento costruttivo e riconoscano la loro parte di responsabilità nella situazione attuale.

Concretamente, queste forze politiche dovrebbero approfittare dell’occasione per dire con voce alta e forte che il trattato sui bilanci adottato nel 2012 è stato un fallimento, e per mettere sul tavolo nuove proposte, tali da consentire una vera rifondazione democratica della zona euro. Nel quadro delle istituzioni europee esistenti, ingabbiate da criteri rigidi sul deficit e dalla regola dell’unanimità sulla fiscalità, è semplicemente impossibile portare avanti politiche di progresso sociale. Non basta lamentarsi di Berlino o di Bruxelles: bisogna proporre regole nuove.
Per essere chiari: a partire dal momento in cui si condivide una stessa moneta, è più che giustificato che la scelta del livello di deficit, così come gli orientamenti generali della politica economica e sociale, siano coordinati. Semplicemente, queste scelte comuni devono essere fatte in modo democratico, alla luce del sole, al termine di un dibattito pubblico e con contraddittorio. E non applicando regole meccaniche e sanzioni automatiche, che dal 2011-2012 hanno prodotto una riduzione eccessivamente rapida dei deficit e una recessione generalizzata della zona euro. Risultato: la disoccupazione è esplosa mentre altrove scendeva (sia negli Stati Uniti che nei Paesi esterni all’area dell’euro), e i debiti pubblici sono aumentati, in contraddizione con l’obbiettivo proclamato.
La scelta del livello di deficit e del livello di investimenti pubblici è una decisione politica, che deve potersi adattare rapidamente alla situazione economica. Dovrebbe essere fatto democraticamente, nel quadro di un Parlamento dell’Eurozona in cui ogni Parlamento nazionale sarebbe rappresentato in proporzione alla popolazione del rispettivo Paese, né più né meno. Con un sistema del genere, avremmo avuto meno austerità, più crescita e meno disoccupazione. Questa nuova governance democratica consentirebbe anche di riprendere in mano la proposta di mettere in comune i debiti pubblici superiori al 60 per cento del Pil (per condividere lo stesso tasso di interesse e per prevenire le crisi future) e istituire un’imposta sulle società unica per tutta la zona euro (il solo modo per mettere fine al dumping fiscale).
Purtroppo, oggi il rischio è che i governi di Francia e Italia si accontentino di trattare il caso greco come un caso specifico, accettando una leggera ristrutturazione del debito del Paese ellenico senza rimettere in discussione alla radice l’organizzazione della zona euro. Perché? Perché hanno passato un mucchio di tempo a spiegare ai loro cittadini che il trattato di bilancio del 2012 funzionava, e oggi sono reticenti a ritrattare quanto detto. E quindi vi spiegheranno che è complicato cambiare i trattati, anche se nel 2012 gli bastarono sei mesi per riscriverli, e anche se è evidente che nulla impedisce di prendere misure di emergenza in attesa che entrino in vigore nuove regole. Ma farebbero meglio a riconoscere gli errori finché sono in tempo, piuttosto che aspettare nuovi scossoni politici, stavolta dall’estrema destra. Se la Francia e l’Italia oggi tendessero la mano alla Grecia e alla Spagna per proporre un’autentica rifondazione democratica della zona euro, la Germania non potrebbe fare a meno di accettare un compromesso. Tutto dipenderà anche dall’atteggiamento dei socialisti spagnoli, attualmente all’opposizione. Meno falcidiati e screditati dei loro omologhi greci, devono tuttavia accettare il fatto che faranno molta fatica a vincere le prossime elezioni senza allearsi con Podemos, che stando agli ultimi sondaggi potrebbe perfino arrivare al primo posto.
E non dobbiamo pensare, soprattutto, che il nuovo piano annunciato dalla Bce basterà a risolvere i problemi. Un sistema di moneta unica con 18 debiti pubblici e 18 tassi di interesse diversi è fondamentalmente instabile. La Bce cerca di giocare il suo ruolo, ma per rilanciare l’inflazione e la crescita in Europa c’è bisogno di un rilancio della spesa pubblica. Senza di esso, il pericolo è che i nuovi miliardi di euro stampati dalla Bce finiscano per creare bolle speculative su certe attività, invece di far ripartire l’inflazione dei prezzi al consumo. Oggi la priorità dell’Europa dovrebbe essere investire su innovazione e formazione. Per fare questo c’è bisogno di un’unione politica e di bilancio della zona euro più stringente, con decisioni prese a maggioranza all’interno di un Parlamento autenticamente democratico. Non si può chiedere tutto a una Banca centrale.
Traduzione di Fabio Galimberti

La Repubblica, 27 gennaio 2014 (m.p.r.)

Grosseto. Al suo posto, una sedia vuota. Francesco Schettino non si è presentato ieri in aula al teatro Moderno di Grosseto, ma il conto è arrivato lo stesso. Il pm Maria Navarro, si ferma un momento nella requisitoria, mezzogiorno passato da poco. Riprende fiato, un sorso d’acqua da un bicchiere e comincia l’affondo: chiede una condanna a 26 anni per il comandante di Costa Concordia, più tre mesi di arresto, più una misura cautelare «per il pericolo di fuga». «Schettino ha girato il mondo, potrebbe non avrebbe difficoltà a trovare un appoggio fuori dall’Italia» spiega alla corte.

Su quella sedia vuota pesa l’assenza del comandante, nei momenti difficili lui non c’è. È stato così anche la notte del 13 gennaio 2012, «quando pensava che la nave si sarebbe potuta ribaltare, è salito con gli ufficiali sulla lancia abbandonando i passeggeri al loro destino» ha detto uno dei tre pm nelle udienze che hanno portato qui. Nove anni per naufragio colposo, «solo per caso o per la provvidenza» quel disastro costato 32 morti, centinaia di feriti e milioni di danni, «non è sfociato in un’ecatombe» ha aggiunto Navarro ricordando che a bordo del transatlantico c’erano 4.229 persone. Quattordici anni per omicidio e lesioni plurime colpose (la pena più grave, la morte della piccola Dayana Arlotti), tre per abbandono di incapaci e della nave (delitti dolosi). Infine tre mesi di arresto per le bugie alla capitaneria: «Abbiamo un black out a bordo» fece dire ai suoi ufficiali quando la pancia della nave era già squarciata dalla roccia del basso fondale dell’isola del Giglio sul quale Concordia arrivò a 16 nodi.
«Dio abbia pietà di Schettino perché noi non possiamo averne alcuna» ha scandito il pm Stefano Pizza. Le «menzogne spudorate», la «mancanza di pentimento», l’aver cercato «di scaricare la responsabilità sui suoi collaboratori o sul timoniere che non aveva eseguito gli ultimi confusi ordini», la rotta cambiata per «fare un favore al capocameriere », l’emergenza data in ritardo, gli estranei in plancia, la violazione di altre regole, sono alcune delle cause che hanno portato al disastro e che sono state ricostruite dai tre pm (aveva cominciato Alessandro Leopizzi due udienze fa).
Schettino è stato definito ieri da Pizza «un incauto idiota », il pubblico ministero ha sottolineato che «l’abbandonare per ultimo la nave da parte del comandante non è solo un obbligo dettato dall'antica arte marinaresca, ma un dovere giuridico per ridurre al minimo i danni alle persone ». Ha persino citato Gramsci e i Quaderni del carcere. L’elenco delle violazioni contestate è lungo e approda alla richiesta complessiva di 26 anni di reclusione: «Quasi un ergastolo - ha commentato uno dei legali di Schettino, Donato Laino - Siamo rimasti tutti quanti sorpresi, qui si dà addosso a uno solo, è un processo snaturato. E poi la Cassazione ha già respinto tre anni fa la richiesta di arresto per pericolo di fuga». Laino parlerà nell’udienza del 5 febbraio. La sentenza potrebbe arrivare la settimana del 9.
Fra rabbia e dolore, le reazioni dei familiari delle vittime: «Dovevano chiedere 32 anni di reclusione, uno per ogni morto» ha scritto su Facebook, Brigitte Litzler, madre di Mylene Litzler, 23 anni, fidanzata di Michel Blemand, 25 anni, scomparsi nel naufragio. «Ventisei anni forse sono pochi» ha aggiunto il padre di Giuseppe Girolamo, il musicista pugliese che era sceso da una scialuppa per far posto a un bambino. E il marito di Maria Grazia Trecarichi, Elio Vincenzi dice sconsolato: «Ho provato per mesi a capire Schettino, ma credo abbia ragione il pm quando lo definisce un menefreghista», uno che pensa prima a se stesso.

fiscal compact». Lavoce.info, 26 gennaio 1014 (m.p.r.)

Chi ha "votato" per Syriza. E cho no

Certo, grazie all’euro, il mondo è diventato un posto ben singolare. Un partito di sinistra estrema prende il potere in Grecia, e di fatto la sua vittoria viene salutata positivamente da vari ambienti finanziari e accademici main stream, oltre che da governi e partiti politici europei che più lontani di così sul piano ideologico da Alexis Tsipras non potrebbero essere. Perfino il Financial Times – un giornale non esattamente noto per le sue posizioni filo-marxiste – ha di fatto caldeggiato la vittoria di Syriza, così come un serissimo economista dell’università di Oxford, per non dire di Thomas Piketty che ha affermato: «Syriza vuole costruire un’Europa democratica, che è proprio quello di cui tutti abbiamo bisogno».

Specularmente, alla faccia del riserbo e della correttezza istituzionale che dovrebbe caratterizzarne l’azione, il primo a esprimersi ufficialmente in merito ai risultati dell’elezioni greche non è stato un politico, ma il governatore della Bundesbank, Jens Weidmann, ovviamente solo per dire che le elezioni greche non cambiano nulla e che pacta sunt servanda da qualsiasi governo. Un altro elemento paradossale è che tutto ciò c’entra relativamente poco con la Grecia e anche con la questione della fondatezza o meno della richiesta di Syriza di ristrutturare il debito. Su questo punto, e sul come eventualmente realizzarlo sotto il profilo tecnico, le opinioni divergono ancora.
La spiegazione è un’altra. La verità è che a parte un gruppo di inossidabili (ma assai influenti in patria) economisti ordo-liberali tedeschi, la stragrande maggioranza degli accademici e degli ambienti economici internazionali, compresi i principali governi dei paesi occidentali non appartenenti all’euro, si sono oramai convinti che così com’è l’Unione monetaria europea non va da nessuna parte, salvo che verso l’abisso.

La filosofia dell’austerity si è tradotta in politiche fiscali pro-cicliche (cioè eccessivamente restrittive) in un momento in cui ci sarebbe bisogno di tutt’altro, come non si stanca di ripetere Mario Draghi. È un’Unione monetaria sempre sull’orlo della deflazione e della recessione, che in due anni (2013-2014) ha buttato via circa il 10 per cento del suo Pil aggregato e lasciato a casa molti milioni di lavoratori in più di quanti “necessari” a mantenere il tasso di inflazione al 2 per cento (oggi siamo allo 0,3 per cento). Oltretutto, un’Unione monetaria sempre a rischio di dissolversi al suo interno, con impatti devastanti sul resto del mondo, non conviene a nessuno. La piccola Grecia, con tutti i suoi problemi e anche le sue responsabilità, è diventata dunque il simbolo di una modifica possibile nella conduzione della politica economica europea.

Le difficoltà di un compromesso possibile

Ma proprio questo è il problema. Ci sono ovvie ragioni economiche e di buon senso per trovare un accordo tra le richieste del nuovo governo greco, la Troika - cioè la Commissione europea, la Bce e il Fondo monetario - e il resto dei paesi europei. Del resto, da quello che si capisce dal programma di Syriza, le sue proposte non sono poi molto dissimili da quelle che erano già state considerate da funzionari dell’area euro nel 2012 e che sono più volte riemerse nella discussione successiva, cioè la cancellazione di parte del debito e un allungamento delle scadenze per il residuo (una sorta di piano Brady). Non sappiamo quanto sia chiaro a qualche plaudente o preoccupato politico di casa nostra, ma Tsipras non pretende (o almeno non pretende più e non pretende ora) un default totale della Grecia sul debito con soggetti esteri, quindi tutto a carico degli altri paesi europei. Default che sarebbe invece l’ovvia conseguenza di una eventuale (ma non desiderata da Syriza) uscita o “espulsione” della Grecia dall’euro (ammesso e non concesso che una espulsione sia possibile).

Di fatto, nessuno capisce davvero come la Grecia, anche con interessi artificialmente bassi e scadenze allungate, potrà mai restituire un debito che viaggia attorno al 180 per cento del Pil. Ma il punto è che tutti sanno che non si sta discutendo affatto della Grecia, e che un allentamento dei programmi di risanamento per questo paese si porterebbe inevitabilmente dietro una revisione delle politiche per tutta l’area, rimettendo in discussione i capisaldi del fiscal compact europeo e di conseguenza rilanciando l’idea di una politica espansiva, coordinata a livello europeo, che vada oltre il fumoso piano Juncker e i piccoli passi in merito alla flessibilità introdotti dalla Commissione europea.

Sul piano politico, questa revisione toglierebbe il fiato ai vari movimenti anti-euro nei paesi del Sud d’Europa, ma ne amplificherebbe i toni nel Nord e soprattutto in Germania, una cosa che non è chiaro se Angela Merkel può permettersi, dopo aver già dovuto ingoiare il Quantitative easing della Bce e dovendo fronteggiare i possibili veti della Corte costituzionale tedesca. Dunque, la partita è aperta e non è affatto detto che un compromesso, per quanto ragionevole sarebbe sperarlo, alla fine si trovi.
Resta il rammarico che tutto questa complessa battaglia politica ed economica avvenga sulle spalle di un paese che ha già pagato duramente per il sostegno dell’ortodossia economica europea.

La Repubblica, 26 gennaio 2015

«Quando lo scorso autunno, invitato da Alexis, sono andato ad Atene alla festa di Syriza mi ha colpito il fatto che quel movimento non è nato con l’idea di dar vita a un nuovo partito, bensì dalla necessità di dare risposte materiali (le cure sanitarie, i pasti quotidiani) alle persone. Questa è la grande novità. Questa è la forza di Syriza ma anche di Podemos in Spagna».

Maurizio Landini, leader della Fiom, è da molti considerato lo “Tsipras italiano”, pensa che pure in Italia si debba fare qualcosa di simile, porsi l’obiettivo - come dice - «di cambiare i processi e, contemporaneamente, puntare a governare il Paese con un progetto alternativo a quello della Bce e della Troika». In questo processo («che va oltre i partiti») - assicura - la Fiom ed egli stesso ci saranno.

Cosa significa, dal suo punto di vista, la vittoria di Tsipras per l’Europa e per l’Italia?
«Che finalmente, con un voto popolare e libero, si dimostra che le politiche di austerity della Troika non hanno il consenso delle persone. Questo non può non riaprire una discussione non sull’uscita dall’euro ma sulla costruzione di un’Europa fondata sull’uguaglianza e la giustizia sociale, cioè sui bisogni e le condizioni reali delle persone».

E per l’Italia cosa può voler dire?
«Il popolo greco ha scelto una piattaforma che è esattamente opposta a quella del governo italiano. Il governo Renzi sta completando il programma indicato dalla Bce nella famosa lettera dell’agosto 2011 e avviato con il governo Monti. Non c’è stata alcuna discontinuità. E d’altra parte Renzi è stato il presidente di turno dell’Europa ma nessuno se n’è accorto».

Lei ha inviato un messaggio alla convention di Sel sostenendo che serve «un progetto di cambiamento che nasca dalla società». Sta pensando a un nuovo partito o movimento della sinistra?
«In Italia è innanzitutto necessario recuperare la partecipazione delle persone alla politica. Poi bisogna ridare una rappresentanza ai problemi sociali ed essere in grado di porsi obiettivi di maggioranza».

Sembra Syriza... Ma la Fiom cosa c’entra? Non è un sindacato?
«Nella sua autonomia la Fiom, che continua ad essere e a fare il sindacato, è dentro questo processo perché è interesse anche della Fiom un cambiamento radicale delle politiche europee».

Dunque la Fiom e Landini potrebbero aderire al coordinamento della sinistra che ha lanciato Vendola?
«Non è questo il punto, non è questo che mi interessa. Guardi, l’unica iniziativa che è stata in grado di esprimere una opposizione alle politiche economiche e sociali del governo è stato lo sciopero generale della Cgil del 12 dicembre scorso. Ecco, si deve dare continuità a quella mobilitazione ».

Lei si candida a diventare lo Tsipras italiano?
«Non ci ho mai pensato».

Pensa, in ogni caso, che l’esperienza di Syriza possa essere replicata in Italia?
«Ogni Paese ha la sua storia, le cose non si replicano mai. Ma certo anche in Italia non c’è consenso sulle politiche di austerity. Ecco io mi domando: cosa posso fare, cosa può fare la Fiom per cambiare le politiche di un governo che non ha scelto nessuno e che ha fatto i patti con i poteri forti? ».

Una scissione nel Pd aiuterebbe la formazione di un movimento alternativo di sinistra?
«Non so, né mi interessa. I processi nei partiti li decideranno i partiti stessi. Voglio dirlo in maniera secca: la ragione della crisi della sinistra risiede nel fatto che non c’è più la sinistra».

Dunque il Pd di Renzi non è di sinistra?
«Beh, è di sinistra chi cancella lo Statuto dei lavoratori? Chi dice che si può liberamente licenziare? Chi propone e poi ritira la depenalizzazione della frode fiscale? Tutto questo non ha nulla a che fare con la sinistra. La sinistra o è sociale o non è».

Il Financial Times si è domandato se Tsipras è un realista o un radicale. Secondo lei?
«Mi sembra un realista radicale. Mentre radicali ed estremiste sono le politiche di austerity frutto del pensiero unico europeo».

Il manifesto, 26 gennaio 2015

Per tutta la vita Glazo si è sfor­zato di imma­gi­nare l’inimmaginabile: «Da tanto tempo ho il desi­de­rio di andare a vedere Ausch­witz, dove è morto il bisnonno, e le zie, e le cugine… dove è stata ster­mi­nata parte della mia fami­glia. L’anno che viene ci andrò». Per quest’anno Glazo si accon­tenta di posare quei suoi occhi, azzurri come il vetro del bic­chiere da cui viene il suo nome sinto-tedesco, sulle foto che il più gio­vane dei suoi figli gli mostra al ritorno del Viag­gio della memo­ria, orga­niz­zato dalla Regione Toscana. Come suo figlio, molti dei 650 stu­denti e inse­gnanti imbar­cati lunedì scorso sul treno Firenze/Auschwitz hanno rico­no­sciuto il nome di qual­che parente, nel lungo elenco espo­sto nel Blocco 13 del primo Campo.

In fuga perenne

Fu suo zio a sopran­no­mi­narlo Glazo, «da glas, bic­chiere, per­ché i sinti sono come gli indiani d’America, danno alle per­sone il nome delle cose che li cir­con­dano». Ma c’è stato un tempo in cui quelli come Paolo Gal­liano, classe 1949, di Prato ma mila­nese di nascita, per sal­varsi la vita hanno dovuto pren­dersi un cognome a caso. Così fece suo padre, il liu­taio Nello Leh­mann, sce­gliendo il nome di un vio­lino di ori­gine napo­le­tana e sfug­gendo così al Por­ra­j­mos, la «Deva­sta­zione», lo ster­mi­nio delle mino­ranze rom e sinte. Suo nonno Carlo Ludo­vico Leh­mann, anch’egli liu­taio, all’inizio del ’900 lasciò Ber­lino con i suoi cin­que figli per sfug­gire alla repres­sione della poli­zia tede­sca. Discen­dente della nume­rosa fami­glia Lehmann-Reinhardt che ancora oggi «conta circa 3500 per­sone in tutta Ita­lia e alcune cen­ti­naia in giro per l’Europa», Paolo Gal­liano è cre­sciuto giro­vago tra arti­sti, arti­giani e musi­ci­sti, e si è sta­bi­liz­zato a Prato solo una tren­tina di anni fa, «per i miei figli». Per tutta la vita ha ascol­tato le sto­rie dei suoi parenti dai nomi tede­schi — anche Rosen­feld, Win­ter, Hof­f­mann — impri­gio­nati nei campi di con­cen­tra­mento per zin­gari di Agnone o di Bol­zano e poi spe­diti a Mathau­sen o diret­ta­mente ad Ausch­witz. «Non è tor­nato nes­suno, solo una volta ho cono­sciuto una cugina di mio padre che aveva sul brac­cio il numero degli inter­nati e mi rac­con­tava di aver visto tutta la sua fami­glia in fila verso i forni cre­ma­tori». La parente del signor Gal­liano è una dei rari testi­moni diretti del “geno­ci­dio degli zin­gari”, mira­co­lo­sa­mente scam­pata e libe­rata dai sovie­tici nel giorno di cui ricorre domani il set­tan­te­simo anniversario.

Lo ster­mi­nio

Una sto­ria quasi sco­no­sciuta, quella del Por­ra­j­mos, rispetto alla Shoa ebraica. Eppure, come spiega Luca Bravi, ricer­ca­tore di Sto­ria presso l’Università di Chieti che ha accom­pa­gnato in viag­gio gli stu­denti toscani, «sono morti in tutto circa mezzo milione di Rom e Sinti, circa l’80% della popo­la­zione pre­sente nei ter­ri­tori occu­pati dal Reich in quel periodo». E «non è un con­teg­gio pre­ciso per­ché all’inizio del 1942, prima dei campi di ster­mi­nio veri e pro­pri, come gli ebrei, gli zin­gari veni­vano fuci­lati sul posto, appena arre­stati». Solo «ad Ausch­witz sono morti in 23 mila e lo sap­piamo per­ché un pri­gio­niero riu­scì a sal­vare il libro mastro dove veni­vano anno­tati i nomi delle per­sone che vive­vano nello Zigeu­ner­la­ger di Bir­ke­nau prima della sua liqui­da­zione totale, che avvenne nella notte del 2 ago­sto 1944 con l’uccisione in massa di circa 2 mila persone».

La «razza pericolosa»

Abo­mini com­messi in nome dell’«igiene raz­ziale» garan­tita in Ger­ma­nia dalle unità del Reich dirette dallo psi­chia­tra infan­tile Robert Rit­ter che, rac­conta ancora Bravi, «dedicò anni a stu­diare la peri­co­lo­sità sociale di que­ste popo­la­zioni, indi­vi­duata in una carat­te­ri­stica ere­di­ta­ria che era l’istinto al noma­di­smo e l’asocialità». Stesse tesi soste­nute in Ita­lia dall’antropologo Guido Lan­dra, i cui “studi” soste­ne­vano le leggi raz­ziali di Mus­so­lini.

Tra il 1940 e il ’43 il regime fasci­sta emana l’ordine di arre­sto di tutti i Rom e Sinti ita­liani e non, e il loro tra­sfe­ri­mento in spe­ci­fici campi di con­cen­tra­mento. «Se non fosse arri­vato l’8 set­tem­bre quelle per­sone sareb­bero sicu­ra­mente tran­si­tate verso i campi di ster­mi­nio tede­schi, i col­le­ga­menti c’erano e i docu­menti pro­vano que­sta linea­rità - spiega Bravi - Molti rom e sinti però anche dopo il ’43, quando il sistema dei campi fasci­sti salta com­ple­ta­mente, rie­scono a fug­gire e vanno verso il nord. Qui, nelle zone di com­pe­tenza della Repub­blica sociale, ven­gono arre­stati, messi sui vagoni e inviati nei campi austriaci, tra i quali Mathau­sen». Qual­cuno, però, «fa in tempo ad unirsi ai par­ti­giani, come dimo­strano le sto­rie del pie­mon­tese sinto Amil­care Debar o di Wal­ter Vampa Cat­ter, Lino Ercole Festini e Renato Mastini, i tre cir­censi, gio­strai e tea­tranti tru­ci­dati dalle Ss tra i dieci mar­tiri nell’eccidio del Ponte dei Marmi di Vicenza».

Una memo­ria taciuta

Eppure del Pur­ra­j­mos restano poche tracce nella memo­ria col­let­tiva. Per­ché, fa notare Bravi, «la memo­ria ha biso­gno di un con­te­sto sociale dispo­sto ad ascol­tare». In Ger­ma­nia, «lo ster­mi­nio raz­ziale degli zin­gari è stato rico­no­sciuto solo negli anni ’90 e il primo memo­riale è stato inau­gu­rato alla pre­senza di Angela Mer­kel vicino al Rei­ch­stag di Ber­lino solo due anni fa». In Ita­lia invece «la per­ma­nenza dello ste­reo­tipo dei Rom come nomadi, e quindi come peri­co­losi, ali­menta la poli­tica dei campi che con­ti­nua a tenere que­ste per­sone distanti, ad esclu­derle, anche dai diritti di cit­ta­di­nanza. I pre­giu­dizi di oggi sono esat­ta­mente lineari con quelli di allora». Ecco perché anche la ricerca sto­rica è «par­tita in ritar­dis­simo»: «Da noi i docu­menti c’erano ma solo nel 2013 sono venuti fuori, gra­zie al pro­getto Memors finan­ziato dall’Unione euro­pea che ha per­messo anche l’apertura del primo museo vir­tuale ita­liano sul tema, www.porrajmos.it».

Eppure, con­clude Bravi, «il rac­conto del geno­ci­dio dei Sinti e dei Rom c’è sem­pre stato all’interno delle comu­nità ma dif­fi­cil­mente viene ripor­tato all’esterno. Una volta chiesi a Glazo il perché di que­sta memo­ria taciuta, e lui mi rispose: “Perché non vogliamo che que­sta nostra sto­ria possa essere trat­tata come spaz­za­tura, come trat­tano noi”».

La Repubblica, 26 gennaio 2015, con postilla

Sventolano ad Atene le bandiere rosse, si levano i pugni chiusi, si cantano “Bella Ciao” e altri inni partigiani. C’è molta Italia a festeggiare Alexis Tsipras e del resto il leader oggi trionfante aveva attraversato l’Adriatico e offerto se stesso, in occasione del voto europeo, per fare opera di contaminazione. Poi tutto era stato ridimensionato dal 40,8 per cento di Renzi, con quella promessa di «cambiare verso all’Europa» che in quel momento aveva fatto del giovane premier in carica da tre mesi lo Tsipras italiano.

In realtà la nuova sinistra che guarda adesso alla Grecia come a un ricostituente, magari a un bagno di gioventù, è reduce da una lunga serie di insuccessi. Per cui non basterà gridare «facciamo come loro» per sentirsi pervasi da un benefico flusso di energia greca. Luciana Castellina ha detto con un filo di ironia che assistere agli straordinari eventi ateniesi equivale a «farsi una canna politica». Senza dubbio è così, ma quando si esaurisce l’effetto allucinogeno delle emozioni, resta un bilancio amaro.

Se si vuole riavvolgere il nastro, si incontrano le varie tappe di una storia italiana che è ben diversa da quella greca. La non-vittoria di Bersani nelle elezioni del 2013, il progressivo appannamento della sinistra del Pd, il fallimento della lista Ingroia (Rivoluzione Civile), l’esclusione della sinistra radicale dal Parlamento nel 2008, quando l’alleanza Arcobaleno, mal pensata e mal costruita, rimase al di sotto della soglia. Per trovare una storia di successo bisogna tornare a Bertinotti e agli anni d’oro di Rifondazione Comunista, in una cornice storica forse non ripetibile. Poi fu lo stesso Bertinotti a capire che quell’esperienza si era esaurita e che nel futuro occorreva un’intuizione, un colpo d’ala. Ma l’idea l’ha avuta Tsipras in Grecia - aiutato dalle circostanze - invece di uno dei tanti piccoli leader delle varie sinistre italiane.

Ieri Nichi Vendola, a lungo considerato un fantasioso costruttore di geometrie politiche, ha concluso i tre giorni di Human Factor, tentativo di fare del “surf” sull’onda greca e di accendere qualche entusiasmo anche qui da noi. Ma non sembra che l’operazione abbia dato i frutti sperati. Si è capito che la nascita di un nuovo raggruppamento alla sinistra del Pd, in grado di riunire tanti spezzoni incapaci di espandersi, non è per domani e nemmeno per dopodomani.

Gli stessi scissionisti del Pd sono entità misteriose, a cominciare da Civati che preferisce restare nel partito renziano alla pari di Bersani e di tanti altri. E poi nessuno è sicuro che l’ennesima scissione ovvero una nuova alleanza tra personaggi più o meno logorati sia la ricetta giusta. Probabilmente sarebbe solo un’altra edizione della Sinistra Arcobaleno già sconfitta nelle urne: magari stavolta sarebbe salvata dalla soglia del 3 per cento, ma c’è da credere che non è questo il sogno dei sostenitori nostrani di Tsipras.

La verità è che il leader greco ha completamente rovesciato il paradigma politico, non si è limitato a battere vecchie strade. Che mantenga o no le sue promesse, lo vedremo. Il fatto che il terzo partito ad Atene siano i neo-nazisti di Alba Dorata è inquietante per tutti e soprattutto per il vincitore. In ogni caso Syriza non è una riedizione di Rifondazione Comunista, come vorrebbero suggerire alcune bandiere esposte nella serata della vittoria. Syriza è un esperimento che ha puntato tutte le carte sulla lotta alla politica tedesca dell’austerità e del rigore economico.

In Italia nessuno ha avuto il coraggio di imboccare lo stesso cammino con altrettanta determinazione. Del resto, al di là dei giochi di prestigio mediatici, la linea italiana non è e non può essere quella greca. Così come il renzismo è una prassi politica assai diversa da quella a cui pensa il vincitore di Atene. Semmai l’abilità di Renzi è di impedire che nasca qualcosa di rilevante alla sua sinistra, una Syriza italiana.

postilla

Di questa analisi, indubbiamente acuta, del confronto tra l'evento greco e la sinistra italiana, colpiscono due cose: 1) nella descrizione della sinistra italiana si trascura del tutto il successo, alle elezioni europee, della lista "L'altra Europa con Tsipras"; 2) si attribuisce a Renzi un ruolo e una posizione confrontabili con quelli di Alexis Tsipras.

1)Oscurare il ruolo della formazione politica guidata da Barbara Spinelli è un peccato ricorrente dei mass media italiani i quali, aiutando l'infame normativa italiana per le elezioni europee, hanno contribuito a rendere particolarmente arduo il raggiungimento del risultato elettorale nel maggio scorso. Occorre dire che la confusione che regna nell'azione dei successori di quella lista aiuta gli osservatori esterni a persistere nell'errore.
2) Sostenere invece che il renzismo sia solo «una prassi politica assai diversa» da quella di Tsipras è un grave errore di lettura della realtà. Tra Renzi e Tsipras c'è un profondo abisso culturale e pienamente politico: sono l'opposto l'uno dell'altro per quanto riguarda ideologia, strategia, proposta politica, schieramento nell'orizzonte locale, europeo e globale. Scusate se è poco.
ne presentiamo tre: di Norma Rangeri, Pavlos Nerantzis e Jacopo Rosatelli. Il manifesto, 26 gennaio 2015
MISSIONE POSSIBILE
di Norma Rangeri

Per cam­biare il voca­bo­la­rio poli­tico dell’Europa dell’era neo­li­be­ri­sta, per tagliare il ramo secco dell’austerity e tor­nare alle radici euro­pee ori­gi­na­rie, fonte della demo­cra­zia, dob­biamo tor­nare alla scuola di Atene che oggi vive la sto­rica vit­to­ria della sini­stra nuova di Syriza e del suo gio­vane lea­der Ale­xis Tsipras.

Le cro­na­che rac­con­tano che nella piazza Omo­nia di Atene, dove Tsi­pras ha tenuto l’ultimo grande comi­zio della vigi­lia, c’era tanta gente comune, lon­tana dalla poli­tica attiva, senza ban­diere né slo­gan. Era il segnale tan­gi­bile che qual­cosa si era mosso nelle pro­fon­dità della società greca. Del resto i son­daggi delle ultime ore indi­ca­vano che la vit­to­ria di Tsi­pras sarebbe stata ali­men­tata da un voto che arri­vava a Syriza da tutta la popo­la­zione, anche da quei greci che alle ultime ele­zioni del 2012 ave­vano votato per la destra spe­rando di tro­vare così una via d’uscita alle loro sof­fe­renze. C’era chi pre­ve­deva che un 10 per cento dei con­sensi sareb­bero venuti da quella parte di Nuova Demo­cra­zia ostile all’estremismo libe­ri­sta del pre­mier uscente Sama­ras. Gente per nulla di sini­stra, ma che, que­sta volta, voleva punire un governo col­pe­vole di avere decur­tato pen­sioni e sti­pendi por­tan­doli a livelli di sussidi.

D’altra parte quando superi il 35 per cento dei con­sensi vuol dire che i voti ti arri­vano un po’ da tutti i ceti sociali, almeno da tutti quelli che la crisi ha messo con le spalle al muro, da quel 30 per cento di fami­glie ridotte in povertà, da quei cit­ta­dini che in massa fanno la fila per rime­diare medi­ci­nali e cibo. Se la nostra media della disoc­cu­pa­zione è al 12 per cento e ci fa paura, quella greca ha sfon­dato il 26 per cento, più del dop­pio, e si cal­cola che un milione e mezzo di occu­pati abbia sulle spalle otto milioni e mezzo di con­na­zio­nali ridotti alla sussistenza.

Ormai si orga­niz­zano viaggi di stu­dio per vedere e capire come Syriza sia riu­scita a orga­niz­zare 400 cen­tri di ero­ga­zione di ser­vizi sociali in tutto il paese. Si resta incre­duli a sen­tire che si può com­prare un appar­ta­mento per 5.000 euro, che il cata­sto è inser­vi­bile, ma che gli arma­tori sono ancora i poten­tis­simi padroni di Atene.

Que­sto paese distrutto dalla guerra eco­no­mica e gover­nato dalla Troika oggi trova la forza di riac­ciuf­fare la speranza. Dando fidu­cia a una forza di sini­stra nuova, impe­gnata in tutto il ter­ri­to­rio nazio­nale a fianco dei più deboli, con un pro­gramma poli­tico che fa della rine­go­zia­zione del debito e la can­cel­la­zione dei Memo­ran­dun la leva a cui aggan­ciare un’agenda di prov­ve­di­menti molto pre­cisi: tetto minimo di 700 euro agli sti­pendi, tre­di­ce­sima per le pen­sioni minime, can­cel­la­zione di tasse sulla casa e blocco delle aste giu­di­zia­rie, ban­che con­trol­late dallo stato, patri­mo­niale sulle grandi ric­chezze cre­sciute all’ombra della crisi.

Una pro­po­sta di governo ormai cono­sciuta come il “pro­gramma di Salo­nicco” che Tsi­pras ha pro­messo di per­se­guire a pre­scin­dere da come andrà la trat­ta­tiva con le isti­tu­zioni europee. Di fronte allo sfa­scio di un paese che nella sua sto­ria recente ha cono­sciuto pagine dram­ma­ti­che fino al colpo di stato dei colon­nelli negli anni ’70, il fatto che Syriza abbia sbar­rato la strada alla destra ever­siva è un risul­tato che sarebbe imper­do­na­bile sot­to­va­lu­tare anche solo sem­pli­ce­mente sotto il pro­filo della difesa democratica.

Una destra sem­pre pre­sente (con i neo­na­zi­sti di Alba Dorata che con­ten­dono il terzo posto al rag­grup­pa­mento di cen­tro­si­ni­stra To Potami), per­ché se Tsi­pras dovesse fal­lire, in Gre­cia arri­verà l’estrema destra. Lo sanno bene le can­cel­le­rie inter­na­zio­nali che si spin­gono a pur caute aper­ture verso una trat­ta­tiva, come dimo­stra la linea aper­tu­ri­sta del Finan­cial Times.

Perché quello che sta vivendo oggi l’Europa, dalla Fran­cia all’Ucraina, con la natura vio­lenta, iso­la­zio­ni­sta, xeno­foba, nazio­na­li­sta delle destre che si stanno rior­ga­niz­zando, potrà essere fer­mato solo da un rapido, bene­fico con­ta­gio del vento greco, da una cosmo­po­lita sini­stra euro­pea di nuova gene­ra­zione (fis­sata nell’immagine, a piazza Omo­nia, dell’abbraccio tra Tsi­pras e Igle­sias, lea­der di Podemos).

Una sini­stra che cita molto Gram­sci, che ha solide radici a sini­stra ma che intende lasciarsi alle spalle le zavorre nove­cen­te­sche, capace di rin­no­vare radi­cal­mente modelli par­ti­tici, lea­der­ship e cul­ture politiche. La vit­to­ria di Syriza è solo l’inizio di un per­corso pieno di trap­pole, osta­coli, con­trad­di­zioni. Pren­dersi la respon­sa­bi­lità di gover­nare un paese distrutto sem­bra quasi una mis­sione impossibile.

Nel libro di Teo­doro Andrea­dis Syn­ghel­la­kis, “Ale­xis Tsi­pras, la mia sini­stra”, il lea­der di Syriza spiega molto bene che si tratta «di una scom­messa enorme, simile a quella del Bra­sile di Lula» e avverte che «non pos­siamo per­met­terci il lusso di igno­rare che gran parte della società greca, e anche una per­cen­tuale dei nostri soste­ni­tori, abbia assor­bito idee con­ser­va­trici». Dun­que con­sa­pe­vo­lezza della prova che l’attende e deter­mi­na­zione nel per­se­guire l’obiettivo «che oggi non è il socia­li­smo ma la fine dell’austerità».

Ma que­sti sono i momenti della festa, della svolta, della vit­to­ria con­tro­mano, della bel­lis­sima rivin­cita che la Gre­cia si prende dopo sei anni vis­suti come una pic­cola cavia nel grande labo­ra­to­rio tede­sco. Un paese da punire in modo esem­plare per edu­care tutti gli altri: se non volete finire come la Gre­cia ingo­iate l’amara medi­cina dei tagli a salari e pen­sioni (anche noi abbiamo assag­giato que­sta fru­sta e ingo­iato que­sta pil­lola). Il debito vis­suto come colpa (avete voluto vivere al di sopra delle vostre pos­si­bi­lità) con tutto l’armamentario dei luo­ghi comuni che ancora oggi sen­tiamo ripe­tere in tv e leg­giamo sui giornali.

Ora dob­biamo atten­derci un ampio fuoco di sbar­ra­mento con­tro la svolta sociale di Syriza che appunto ribalta la pro­spet­tiva e rimette la realtà con i piedi per terra.

Quando nel feb­braio dello scorso anno Tsi­pras venne in Ita­lia in vista delle ele­zioni euro­pee, come prima tappa fece visita alla reda­zione del mani­fe­sto (Renzi non trovò il tempo di rice­verlo). Ci parlò a lungo del cam­mino verso una sini­stra unita e di quello che poi sarebbe diven­tato il pro­gramma di governo. Ci regalò una pic­cola barca di por­cel­lana della col­le­zione del museo Benaki, quasi un auspi­cio, un pro­no­stico. Due colo­ra­tis­sime vele gonfie. Un anno fa il vento in poppa era un auspi­cio e forse un pro­no­stico. Ora è una realtà sulla quale la sini­stra ita­liana dovrebbe riflet­tere molto. E anche in fretta.

NIKISSAME! È UNAVITTORIA NETTA

di Pavlos Nerantzis

«Nikis­same! Nikis­same!», «Abbiamo vinto! Abbiamo vinto», festeg­gia­vano ieri i greci radu­nati nei vari cen­tri elet­to­rali di Syriza ad Atene, a Salo­nicco, dal nord al sud del paese. Una svolta radi­cale, un vento pro­gres­si­sta in Gre­cia, un mes­sag­gio per un’altra Europa da riflet­tere al resto del vec­chio continente.

Alle 7 di dome­nica sera, subito dopo la chiu­sura delle urne, la buona noti­zia: Syriza appa­riva chia­ra­mente come il par­tito vin­cente, secondo i primi exit-poll. La sini­stra radi­cale ha otte­nuto una vit­to­ria di dimen­sioni sto­ri­che in Gre­cia, in Europa, rac­co­gliendo tra il 35,5% e il 39,5% con 146–158 seggi, senza avere la cer­tezza di poter for­mare un governo monocolore. Scon­fitta la Nea Dimo­kra­tia che rac­co­glieva, sem­pre secondo gli exit-pool, tra il 23% e il 27% con 65–75 seggi.

Nelle ele­zioni più impor­tanti degli ultimi decenni, ha vinto la spe­ranza nel cam­bia­mento e con essa la dignità, l’ orgo­glio per il giorno dopo di un popolo che ha subito tanti sacri­fici negli ultimi anni. Hanno vinto la demo­cra­zia, la giu­sti­zia sociale, la solidarietà.

Hanno perso la paura pro­mossa dai con­ser­va­tori, dai cre­di­tori inter­na­zio­nali, da chi vede nelle sini­stre il dia­volo rosso; hanno perso tutti coloro che nel nome di un risa­na­mento eco­no­mico del Paese hanno pro­vo­cato que­sta crisi uma­ni­ta­ria senza pre­ce­denti, la reces­sione, la depres­sione col­let­tiva, la vio­la­zione di leggi e di vite umane.

Verso le 10 di sera i risul­tati non erano ancora defi­ni­tivi. 36,5% per il Syriza con 150 seggi, 27,7% per i con­ser­va­tori della Nea Dimo­kra­tia con 76 seggi. Al terzo posto i nazi­sti di Alba dorata (Chrysi Avghi) con 6,3% e 17 seggi, il Fiume (To Potami) con 5,9% e 16 seggi, i comu­ni­sti del Kke con 5,6% e 15 seggi, il Pasok con 4,8% e 13 seggi e i Greci indi­pen­denti (Anel) con 4,7% e 13 seggi.

Non sono riu­sciti a supe­rare la soglia del 3% e riman­gono fuori dal par­la­mento il Movi­mento dei socia­li­sti demo­cra­tici, fon­dato dall’ ex pre­mier Yor­gos Papan­dreou (2,5%, la Sini­stra demo­cra­tica, gia com­po­nente del Syriza e ex part­ner del governo di coa­li­zione di Anto­nis Sama­ras (0,5%) e Antar­sya, for­ma­zione della sini­stra (0,6%).

Oltre alla pre­oc­cu­pa­zione che ha pro­vo­cato a tutti il man­te­ni­mento della forza elet­to­rale dei nazi­sti, la domanda che si poneva fino a tarda serata era se Syriza sarebbe riu­scita a for­mare un governo mono­co­lore e in secondo luogo se Ale­xis Tsi­pras avrebbe pre­fe­rito una mag­gio­ranza debole (150–151 seggi sui 300) e la dimi­nu­zione della sua forza di trat­tat­tiva nei con­fronti dei cre­di­tori inter­na­zio­nali, oppure una col­la­bo­ra­zione con un’ altra forza poli­tica che di fatto avrebbe limi­tato la sua forza poli­tica nell’applicazione del suo programma. «Faremo un altro invito al Kke» ha detto Dimi­tris Stra­tou­lis, diri­gente del Syriza, «ma se con­ti­nuano a rispon­dere nega­ti­va­mente, trat­te­remo con altre forze politiche».

Secondo fonti di Syriza, la sini­stra radi­cale esclude ogni col­la­bo­ra­zione con le forze pro-memorandum (Nea Dimo­kra­tia, Pasok, To Potami), lasciando aperta l’ even­tua­lità di una coo­pe­ra­zione con i Greci indi­pen­denti, il par­tito di destra nazio­na­li­stico, l’ unico ad essere chia­ra­mente anti-memorandum.

A parte le even­tuali alleanze post-elettorali, a sen­tire i diri­genti di spicco del Syriza ai talk-show tele­vi­sivi «i greci, e non solo quei che hanno votato per la sini­stra radi­cale, hanno preso una grande boc­cata di ossi­geno». Non certo tutti, ma almeno una parte sono con­sa­pe­voli delle dif­fi­coltà, che il nuovo governo dovrà affron­tare; ma a sen­tire que­sta gente che ieri gri­dava vit­to­ria per le strade di Atene, «Tsi­pras durante i nego­ziati con la troika avra un ottimo alleato».

Piena sod­di­sfa­zione tra gli atti­vi­sti della «Bri­gata kali­mera» radu­nata in piazza Kla­th­mo­nos nel pieno cen­tro di Atene. Smen­tita la tele­fo­nata di Mat­teo Renzi a Tsi­pras, men­tre la prima rea­zione da Ber­lino è arri­vata da Jens Weid­mann, pre­si­dente della Bun­de­sbank, la Banca cen­trale tede­sca, da sem­pre custode del rigore del bilan­cio e avver­sa­rio di Mario Dra­ghi, il quale ha detto con toni minac­ciosi che «gli aiuti eco­no­mici verso Atene con­ti­nue­ranno sol­tanto se la Gre­cia rispetta i patti». La rispo­sta di Syriza è stata imme­diata. «Par­le­remo e trat­te­remo a livello poli­tico con la lea­der­ship euro­pea, non con i suoi rap­pre­sen­tanti» ha detto ieri il vice-presidente dell’ euro­par­la­mento, Dimi­tris Papa­di­mou­lis, anti­ci­pando l’ atteg­gia­mento del nuovo governo di Atene nei con­fronti della troika (Fmi, Ue, Bce).

Il risul­tato otte­nuto dalla Nea Dimo­kra­tia dif­fi­cil­mente sarà gestito dal pre­mier uscente Anto­nis Sama­ras. Sama­ras ha usato un lin­guag­gio nazio­na­li­stico adot­tato pure da Alba dorata, come per esem­pio lo slo­gan della cam­pa­gna elet­to­rale «patria, reli­gione, fami­glia» che ha fatto allon­ta­nare molti elet­tori di destra. Pro­blemi e lamen­tele si sono sen­tite ieri anche nel quar­tier gene­rale dei socia­li­sti del Pasok. Il vice-presidente del governo di coa­li­zione e lea­der del Pasok, Evan­ghe­los Veni­ze­los pro­ba­bil­mente si allon­ta­nerà, ma «non come scon­fitto» secondo i suoi stretti collaborattori.
ESPLODE LA GIOIA DELL’ALTRA EUROPA
di Jacopo Rosatelli

L’Unione euro­pea è quella del ten­done di piazza Klaf­th­mo­nos, dove Syriza ha chia­mato a rac­colta i suoi soste­ni­tori. Pieno all’inverosimile, caldo quasi insop­por­ta­bile, pochi istanti prima delle 7 ore locale la ten­sione si taglia con il col­tello: facce con­cen­trate, cenni di inco­rag­gia­mento reci­proco. Poi l’annuncio degli exit polls, e ci si scio­glie in un abbrac­cio collettivo.

Greci, tede­schi, spa­gnoli, fran­cesi, inglesi, ita­liani, e chissà da quante altre parti del Vec­chio con­ti­nente: un enorme, corale urlo di gioia can­cella l’ansia e la fatica. Ora si può festeg­giare. Esi­ste un’altra Europa, è quella che si è data appun­ta­mento qui, nel cen­tro di Atene.

«Que­sto è uno di quei momenti in cui si dimo­stra che anche i pic­coli pos­sono fare la sto­ria, pos­sono cam­biare il mondo» ci dice subito, tra lacrime di gioia, Raf­faella Bolini, l’infaticabile orga­niz­za­trice della Bri­gata Kali­mera e di mille altre avven­ture poli­ti­che inter­na­zio­nali. «C’è chi ha iro­niz­zato sul nostro viag­gio per cri­ti­carci, ma noi siamo venuti a immer­gerci nella realtà greca: non tor­ne­remo in Ita­lia uguali a come era­vamo alla par­tenza, per­ché que­sta espe­rienza ci ha dav­vero arric­chiti», afferma una rag­giante Rosa Rinaldi, tra le prin­ci­pali arte­fici del «mira­colo» della fon­da­men­tale rac­colta firme in Valle d’Aosta per la lista delle euro­pee. «Ora la spe­ranza si mate­ria­lizza: vale per i greci, ma vale anche per noi, per­ché Syriza al governo ad Atene signi­fica una rivo­lu­zione demo­cra­tica per l’intera Europa. Per­sino il nostro pusil­la­nime pre­mier Mat­teo Renzi potrà ora avere più mar­gini di mano­vra nei con­fronti dei part­ner con­ti­nen­tali, e a noi a sini­stra spetta il com­pito di costruire una vera alter­na­tiva di società: senza copiare modelli di altri Paesi, ma cogliendo la straor­di­na­ria occa­sione di que­sto momento», con­clude Rinaldi.

«Il mes­sag­gio di dome­nica sera – riflette Maso Nota­rianni, anima dell’Altra Europa a Milano – è che nella sini­stra ita­liana dob­biamo final­mente abban­do­nare un atteg­gia­mento mino­ri­ta­rio ancora troppo dif­fuso: qui in Gre­cia ci dimo­strano che si può fare. Biso­gna essere con­vinti che un’utopia può diven­tare realtà».

La sod­di­sfa­zione in piazza Klaf­th­mo­nos è ovvia­mente di tutti, indi­pen­den­te­mente dalla nazionalità. Cia­scuno ha però un com­pito diverso nel pro­prio Paese.

In Spa­gna lo sce­na­rio poli­tico più simile a quello greco: «La svolta nella poli­tica euro­pea è pos­si­bile. La sfida per noi è pren­dere ad esem­pio Syriza e met­tere da parte per­so­na­li­smi o divi­sioni infon­date, con­cen­tran­doci nella cosa più impor­tante, che è unire le forze», ragiona Alberto Gar­zón, il nuovo (e gio­vane) lea­der di Izquierda unida. Il mes­sag­gio che invia dal ten­done ate­niese è diretto a Pode­mos, che finora nic­chia sulla pos­si­bi­lità di costruire un car­tello uni­ta­rio alle ele­zioni di autunno.

Parole simili da Enest Urta­sun, bril­lante euro­de­pu­tato della sini­stra eco­lo­gi­sta cata­lana, «pon­tiere» fra i Verdi e il gruppo del Gue (Sini­stra uni­ta­ria euro­pea) nel par­la­mento di Stra­sburgo: «La scelta giu­sta è quella fatta a Bar­cel­lona per le pros­sime muni­ci­pali: lista uni­ta­ria di tutti quelli che si bat­tono con­tro l’austerità». Di diverso avviso è l’attivista di Pode­mos Ramón Arana: «non voglio alleanze con i par­titi del ‘vec­chio sistema’, ma parlo a titolo per­so­nale». Pen­sio­nato 64enne, Ramón è venuto ad Atene da Madrid «per assi­stere alla presa della Basti­glia del ven­tu­ne­simo secolo».

I tede­schi della Linke – muniti di car­telli ine­qui­vo­ca­bili: «La nuova Europa comin­cia in Gre­cia» – usano toni meno enfa­tici, ma la sostanza è la stessa: niente potrà essere più come prima. «La can­cel­liera Angela Mer­kel dice sem­pre che non ci sono alter­na­tive alle attuali poli­ti­che, ma la vit­to­ria di Syriza mostra che è falso» ci dice Katha­rina Dahme della dire­zione nazio­nale del par­tito. «Il nostro com­pito sarà mostrare ai cit­ta­dini del nostro Paese che la poli­tica del nuovo governo di Atene non sarà solo nell’interesse dei greci, ma anche dei lavo­ra­tori in Ger­ma­nia, che hanno biso­gno di salari più alti e di una poli­tica sociale dif­fe­rente», con­clude la diri­gente del prin­ci­pale par­tito dell’opposizione tedesca.

Il Fatto quotidiano, 25 gennaio 2015

Mentre gli occhi sono puntati sul voto in Grecia, sulla tre giorni vendoliana a Milano e sulla “brigata Kalimera” ad Atene, il dibattito a sinistra in Italia ha anche altri protagonisti. Di peso, anche se ora in sordina.

La testa pensante è Stefano Rodotà ma accanto a lui ci sono nomi del calibro di Maurizio Landini, Gino Strada, don Luigi Ciotti. Mentre i “kalimeriani”, vendoliani, rifondazionisti, “tsiprasiani” più o meno doc, sperano di importare in Italia il soffio di Tsipras e mentre oggi a Human Factor Nichi Vendola, Pippo Civati, Paolo Ferrero, Stefano Fassina spiegheranno la loro idea di sinistra, quegli altri studiano altre strade. Senza strappi o scontri. Senza divergenze sul ruolo catalizzatore che potrebbe avere la vittoria di Syriza. Ma con altre priorità.

Nichi Vendola, oggi, assicurerà che non ci sarà nessuna “ora X”. Ma l’ora X è nelle cose e la decisione di Sergio Cofferati di abbandonare il Pd ha accelerato l’attesa e il vorticoso rito delle riunioni. Tutti in cerca di un possibile rimescolamento dei gruppi dirigenti che si conoscono da decenni. Sotto traccia, però, la discussione è più complicata.

Il perché lo spiega una intervista a Stefano Rodotà, già parte della “sinistra indipendente” quando c’era il Pci, candidatura illustre, per quanto snobbata, alla presidenza della Repubblica, che su Micromega espone una idea molto diversa dell’ipotesi assemblativa presentata finora. «La sinistra italiana ha alle spalle due fallimenti» risponde Rodotà: la lista Arcobaleno e Rivoluzione Civile di Ingroia. Due esperienze inopportune nate per mettere insieme i cespugli esistenti ed offrire una scialuppa a frammenti e a gruppi perdenti della sinistra». Qui il giudizio è spietato: «Chi pensa di ricostruire un soggetto di sinistra o socialmente insediato guardando a Sel, Rifondazione, Alba e minoranza Pd sbaglia. Lo dico senza iattanza, ma hanno perduto una capacità interpretativa e rappresentativa della società. Nulla di nuovo può nascere portandosi dietro queste zavorre».

Giudizi così sferzanti spiegano, forse, perché Rodotà non sia presente alla kermesse milanese. «Rifondazione è un residuo di una storia - continua l’ex candidato al Quirinale - Sel ha avuto mille vicissitudini, la Lista Tsipras mi pare si sia dilaniata subito dopo il voto alle Europee. Ripeto: cercare di creare una nuova soggettività assemblando quel che c’è nel mondo propriamente politico secondo me è una via perdente».

Rodotà non rinuncia ad avanzare proposte: «Bisogna partire da quel che definisco “coalizione sociale”. Mettere insieme le forze maggiormente vivaci ed attive: Fiom, Libera, Emergency
- che ha creato ambulatori dal basso - movimenti per i beni comuni, reti civiche e associazionismo diffuso. Da qui, per ridisegnare il nodo della rappresentanza».

La linea del professore ha un retroterra teorico nel suo ultimo libro, Solidarietà, il cui titolo è già un programma. Ma si nutre anche dei rapporti con i soggetti indicati anch’essi assenti dalla tre giorni vendoliana. LaFiom ha inviato alcuni suoi rappresentanti ma non Maurizio Landini che non vuole più vedere associato il suo nome, e quello del suo sindacato, alla ricostruzione della sinistra politica. Ma anche Libera di don Ciotti non è presente e così anche molti dei costituzionalisti che avevano lanciato la manifestazione “La via maestra”. La Fiom, ad esempio, sta riflettendo seriamente sulla tematica del mutuo soccorso quella che ha portato Syriza a realizzare mense autogestite o ambulatori popolari . Ci sono già collaborazioni avviate in questo senso tra Libera ed Emergency e la stessa Fiom potrebbe realizzare qualcosa di simile.

Da segnalare, poi, il canale diretto aperto da don Ciotti con Beppe Grillo, incontrato due giorni fa e con il quale l’associazione che si batte contro le mafie, ma anche contro la miseria, sta pensando di predisporre una proposta parlamentare sul reddito di cittadinanza.

C’è quindi un altro racconto a sinistra. Parla più il linguaggio del “sociale” e non si appassiona molto alle riunificazioni di altri tempi. Anche questa è una novità.

Il manifesto, 25 gennaio 2015

“Noi alle ele­zioni ci pre­sen­tiamo”. Da Siena a Prato, dall’Empolese Val­delsa a Pisa, i comi­tati toscani dell’Altra Europa annun­ciano la discesa in campo per le regio­nali di fine mag­gio. Con la spe­ranza, espli­ci­tata già in par­tenza, di far parte di un’ampia coa­li­zione unita di forze asso­cia­tive, poli­ti­che e di base: “In alter­na­tiva a chi sostiene le poli­ti­che neo­li­be­ri­ste e di auste­rità”. Com­preso il Pd, che dovrebbe rican­di­dare Enrico Rossi. Die­tro la cui figura si sta­glia però l’ingombrante sagoma di Mat­teo Renzi. E di un par­tito, gui­dato sal­da­mente dal fede­lis­simo Dario Par­rini, le cui stra­te­gie d’azione guar­dano al cen­tro. Non a sini­stra. Vedi il gelo con Sel e l’accordo, già rag­giunto, con “Toscana civica rifor­mi­sta”, nuova for­ma­zione com­pren­dente ex di Psi, Udc e Idv. Per non par­lare della nuova, più che fan­ta­siosa, legge elet­to­rale. Con­te­sta­tis­sima, denun­ciata per inco­sti­tu­zio­na­lità, e redatta insieme lo scorso autunno da Par­rini e dal for­zi­sta Mas­simo Parisi, pro­con­sole locale di Denis Verdini.

I comi­tati dell’Altra Europa guar­dano peral­tro alla con­cre­tezza della vita quo­ti­diana. E qui, nono­stante il buon lavoro della giunta uscente sul piano urbanistico-paesaggistico, sulla difesa del mani­fat­tu­riero in una regione dove la crisi con­ti­nua a far chiu­dere realtà pro­dut­tive pic­cole e grandi, e su un (tar­divo) ripen­sa­mento delle poli­ti­che cul­tu­rali e turi­stico com­mer­ciali, il bic­chiere è più vuoto che pieno.

A turno, il senese Ales­san­dro Vigni e la pisana Tiziana Nada­lutti, il pra­tese Leo­nardo Becheri e l’empolese Tibe­rio Tan­zini, ricor­dano le spe­ranze disat­tese dopo il refe­ren­dum sull’acqua, ser­vizi e altri beni comuni. Lo sfrut­ta­mento delle risorse natu­rali, da quelle geo­ter­mi­che al marmo apuano, con effetti col­la­te­rali anche dram­ma­tici come le eson­da­zioni di Car­rara. La ricon­fer­mata volontà del Pd di andare avanti su grandi opere inu­tili come la Tav sot­ter­ra­nea fio­ren­tina e l’Autotirrenica. L’insulto al buon­senso del futuro aero­porto inter­con­ti­nen­tale fio­ren­tino, in una zona for­te­mente urba­niz­zata e a for­tis­simo rischio ambien­tale come la Piana. I cin­que, sei ince­ne­ri­tori già in fun­zione per poco più di tre milioni e mezzo di abi­tanti, e la costru­zione di un set­timo grande impianto sem­pre nella mar­ti­riz­zata Piana. Infine le poli­ti­che sani­ta­rie, un tempo fiore all’occhiello ma ormai impaz­zite nella cami­cia di forza dei tagli nazio­nali, tanto da indi­riz­zarsi sem­pre più verso il “pri­vato sociale”.

“Il nostro obiet­tivo – sot­to­li­neano ancora i comi­tati — è quello di met­terci a dispo­si­zione per costruire un’unica lista alter­na­tiva”. Nel solco del posi­tivo risul­tato toscano dell’Altra Europa lo scorso mag­gio, visto come ideale tram­po­lino di lan­cio per decli­nare sul ter­ri­to­rio il pro­getto com­ples­sivo di un’ “altra” Toscana pos­si­bile. E con la dop­pia varia­bile delle deci­sioni di Sel, attese per la metà di feb­braio, e delle rifles­sioni dei civici di Buon­giorno Livorno. Per i quali, natu­ral­mente, le porte della lista alter­na­tiva sono spalancate.

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