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Assemblea alla Fiat con il leader Fiom e Libera. Prima tappa della coalizione sociale. Il segretario delle tute blu: "Oltre i cancelli per una nuova politica dei diritti e del lavoro. Contro il modello Marchionne-Renzi"». Il manifesto, 26 febbraio 2015

Non la costru­zione di un nuovo par­tito ma di una poli­tica dei diritti e del lavoro all’interno di una coa­li­zione sociale: Mau­ri­zio Lan­dini ieri a Pomi­gliano d’Arco ha messo in fila i fatti che hanno spinto la Fiom a cer­care fuori dalle fab­bri­che, anche oltre gli stru­menti della con­trat­ta­zione, soste­gno e armi per con­tra­stare il dise­gno che uni­sce il governo Renzi e Ser­gio Mar­chionne, Con­fin­du­stria e la Bce.

Si comin­cia dall’hinterland par­te­no­peo, dove ha sede lo sta­bi­li­mento Fiat Chry­sler, per­ché è da qui che nel 2010 è par­tito il modello Mar­chionne: rinun­cia alle pause, ritmi di lavoro ser­ra­tis­simi, azze­ra­mento del con­flitto sin­da­cale fino all’esclusione delle orga­niz­za­zioni dis­sen­zienti, metà della forza lavoro in cassa inte­gra­zione, fuga dal con­tratto nazio­nale col­let­tivo in cam­bio della pro­messa del rien­tro di tutti i lavo­ra­tori sulle linee entro il 2013. A oggi 2mila sono ancora fuori e solo metà di que­sti mette piede in fab­brica sal­tua­ria­mente gra­zie al con­tratto di soli­da­rietà, nes­suna nuova vet­tura da affian­care alla Panda.

Modelli dif­fe­renti di lavoro: la Fiat tiene più tempo sulle linee un gruppo ristretto di ope­rai, spre­muti con turni extra anche gra­zie al governo che detassa gli straor­di­nari; alla Ducati acqui­stata dalla Volk­swa­gen gli ope­rai hanno con­trat­tato una ridu­zione da 40 ore set­ti­ma­nali a 30 in cam­bio di due turni in più, l’accordo ha pro­dotto cento assun­zioni men­tre da Melfi gli ope­rai Fiat scap­pano per­ché non reg­gono alla catena di mon­tag­gio — spiega Lan­dini -. In Fca ogni quat­tro o cin­que ope­rai c’è un team lea­der che li segue, l’operaio è solo di fronte a chi rap­pre­senta l’azienda. Que­sto modello di fab­brica è quello che il governo vuole repli­care nella società azze­rando i corpi inter­medi. C’è stato un gran tram­bu­sto su quella che ho defi­nito “coa­li­zione sociale” per­ché fa paura, non vogliono che riu­niamo ciò che hanno diviso».

Renzi aveva liqui­dato Lan­dini con un secco ha perso nel sin­da­cato, si dà alla poli­tica» dopo l’intervista del lea­der Fiom al Fatto quo­ti­diano, men­tre la lea­der Cgil, Susanna Camusso, ieri ha ripe­tuto: Con Lan­dini non c’è alcuna pole­mica. La Cgil ha un pro­getto di tipo sin­da­cale, non è nostra inten­zione orga­niz­zare for­ma­zioni poli­ti­che o coa­li­zioni sociali o altre moda­lità». Se l’esecutivo approva a colpi di mag­gio­ranza le ricette pre­scritte all’Italia nel 2011 dalla Bce (libe­ra­liz­za­zione dei ser­vizi, abo­li­zione pro­vin­cie, tagli a enti locali e pen­sioni, licen­zia­menti facili, pareg­gio di bilan­cio) ricette che hanno pro­dotto 25milioni di disoc­cu­pati in Europa, c’è pro­prio biso­gno di fare poli­tica» spiega il lea­der Fiom.

Da Pomi­gliano parte la cam­pa­gna per la crea­zione di un fondo in cui i lavo­ra­tori pos­sono devol­vere la mag­gio­ra­zione dello straor­di­na­rio a favore dei col­le­ghi in dif­fi­coltà eco­no­mica, a gestirlo Libera e don Pep­pino Gam­bar­della, il par­roco che con la Cari­tas sostiene già le fami­glie in dif­fi­coltà. È la prima ini­zia­tiva messa in campo dopo lo scio­pero del 14 feb­braio con­tro i tre sabato di straor­di­na­rio (la Fiom chie­deva un turno in più per far rien­trare più ope­rai a lavoro) a cui ave­vano ade­rito solo in cin­que. Il Comi­tato cas­sin­te­grati e licen­ziati Fiat, con Mimmo Mignano, dà il pro­prio soste­gno alla lotta della Fiom ma Lan­dini sba­glia a levare dal tavolo l’arma dello scio­pero. E’ un diritto anche quando lo eser­ci­tano in cin­que, non dob­biamo far­celo togliere. Dob­biamo lot­tare per diven­tare maggioranza».

Con­te­stata invece dal comi­tato la Cgil, rap­pre­senta dal segre­ta­rio regio­nale Franco Tavella, inter­ve­nuto per rilan­ciare la mobi­li­ta­zione con­tro la ven­dita di Alsaldo a Hita­chi e la fuga di Fin­mec­ca­nica dalla Cam­pa­nia. In sala anche i lavo­ra­tori Ale­nia della sede di Napoli, in via di dismissione.

Il governo sman­tella lo Sta­tuto dei lavo­ra­tori, con il Job Act mette soldi in tasca agli impren­di­tori lascian­doli liberi di licen­ziare, non dà il red­dito di cit­ta­di­nanza ma anzi tagli gli ammor­tiz­za­tori sociali, non blocca la catena di appalti e subap­palti che fa pro­li­fe­rare gli affari dei clan, allora va bene tor­nare in piazza ma biso­gna anche tro­vare nuove forme di pro­te­sta — argo­menta Lan­dini — a par­tire dai ter­ri­tori. Dob­biamo scri­vere un nuovo Sta­tuto dei lavo­ra­tori e ricor­rere al refe­ren­dum per abro­gare le leggi sba­gliate». Non è più una que­stione che riguarda le fab­bri­che ma tutti quelli che si oppon­gono alle poli­ti­che di Renzi, che vogliono tute­lare i pro­pri diritti e non si sen­tono rap­pre­sen­tati in par­la­mento. Biso­gna spez­zare il ricatto con­ti­nuo a cui siamo sot­to­po­sti con il para­vento della crisi – con­clude -, far emer­gere pro­po­ste su salute, lavoro, svi­luppo ognuno con il pro­prio ruolo. Ci sono tanti “feno­meni” poli­tici nuovi, come il super­po­li­tico di Firenze, oppure Grillo, o altri. Io resto a fare il sindacalista».

Il manifesto, 26 febbraio 2015, con postilla
La bomba esplode all’alba: il Biscione si man­gia il Cavallo. Il con­si­glio d’amministrazione di Ei Towers, la con­trol­lata di Media­set che a sua volta con­trolla la rete di tra­smis­sione della società, ha appro­vato all’unanimità il lan­cio di un’offerta pub­blica di acqui­sto e scam­bio (Opas) su Rai Way, l’omologa società della tv pub­blica, in parte quo­tata, da novem­bre, in borsa.

Fioc­cano i «l’avevo detto». Per primo quello di Roberto Fico, pen­ta­stel­lato pre­si­dente della com­mis­sione di vigi­lanza Rai che si beccò un «domani mat­tina i miei legali faranno que­rela a que­sto buf­fone» da parte di Sil­vio Ber­lu­sconi per aver affer­mato che la deci­sione del governo di ven­dere le torri della Rai faceva parte del Patto del Naza­reno. Ma anche per gli ana­li­sti, che plau­dono all’iniziativa, era chiaro che l’esito «natu­rale» della pri­va­tiz­za­zione sarebbe stato pro­prio questo.

La ven­dita di una quota di mino­ranza di Rai­way era pre­vi­sta nel decreto Irpef appro­vato nel giu­gno scorso che sot­traeva 150 milioni di euro alle casse di viale Maz­zini per coprire il bonus degli 80 euro. Suc­ces­si­va­mente, il 2 set­tem­bre, il rela­tivo decreto della pre­si­denza del con­si­glio spe­ci­fi­cava «l’opportunità di man­te­nere, allo stato, in capo a Rai, a garan­zia della con­ti­nuità del ser­vi­zio ero­gato da Rai Way a Rai mede­sima, una quota di par­te­ci­pa­zione sociale nel capi­tale di Rai Way non infe­riore al 51%». Tra le con­di­zioni poste da Ei Towers per la sua Opas per man­giarsi le torri Rai, quella che « l’offerente venga a dete­nere una par­te­ci­pa­zione pari almeno al 66,67% del capi­tale sociale di Rai Way». Ma lo stesso cda di Ei Towers spiega che «l’offerente potrà rinun­ciare a una o più delle con­di­zioni di effi­ca­cia dell’offerta ovvero modi­fi­carle, in tutto o in parte». E comun­que, se il Dpcm del 2 set­tem­bre si pre­oc­cu­pava di man­te­nere la mag­gio­ranza pub­blica per garan­tire la con­ti­nuità del
ser­vi­zio, la società del Biscione assi­cura che a sua volta «con­ti­nuerà a garan­tire l’accesso alle infra­strut­ture a tutti gli ope­ra­tori tv», aggiun­gendo che l’Opas ser­virà a «porre rime­dio all’attuale situa­zione di inef­fi­ciente mol­ti­pli­ca­zione infra­strut­tu­rale dovuta alla pre­senza di due grandi operatori».

Ma per­ché l’operazione si possa con­clu­dere ovvia­mente sono neces­sari alcuni pas­saggi. La Rai dovrebbe accet­tare: oggi il cda comin­cerà a affron­tare la que­stione (per ora si fa sapere che si tratta di un’opa «non ami­che­vole»). Qui si inse­ri­sce anche la vicenda — improv­vi­sa­mente diven­tata per il governo urgen­tis­sima — della riforma della gover­nance della tv pub­blica annun­ciata da Renzi, che appunto non ha escluso un decreto (ma il Qui­ri­nale avrebbe con­si­gliato pru­denza). Nel cda di viale Maz­zini sie­dono anche ber­lu­sco­niani di stretta osser­vanza come Anto­nio Verro, quello che tra l’altro avrebbe inviato al Cava­liere un fax sui pro­grammi sgra­diti da addo­me­sti­care, e Anto­nio Pilati, noto come l’ispiratore della legge Gasparri.

Il con­flitto d’interessi non è certo una novità delle ultime ore, ma insomma la fac­cenda si fa parec­chio grossa pro­prio men­tre Ber­lu­sconi viene descritto come un pover uomo alle corde (ma Finin­vest appena l’altra set­ti­mana ha ven­duto quasi 400 milioni di azioni Media­set, pro­prio per avviare altre ope­ra­zioni). E ancora, è neces­sa­rio che l’antitrust, che ha rice­vuto la noti­fica, dia il via libera. E il mini­stero dello svi­luppo deve auto­riz­zare la Rai a con­ti­nuare ad ope­rare con la nuova società.

Al momento, il governo si limita a ricor­dare l’esistenza del decreto della pre­si­denza del con­si­glio sull’opportunità di man­te­nere pub­blico almeno il 51% delle torrri di tra­smis­sione Rai. A borse chiuse (in una gior­nata che vede Rai­Way bal­zare del 9,4% a 4,05 euro verso i 4,5 al quale viene valo­riz­zata nell’offerta, con un +52% dal prezzo della quo­ta­zione, e Ei Towers chiude a +5,2%), il governo sforna la nota. Nella quale comun­que si sot­to­li­nea che «l’offerta pub­blica per Rai Way con­ferma l’apprezzamento da parte del mer­cato della scelta com­piuta a suo tempo di valo­riz­zare la società facen­dola uscire dall’immobilismo nel quale era con­fi­nata. La quo­ta­zione in Borsa si è rive­lata un suc­cesso», insomma.

Prima della nota serale con la quale il governo prova a cal­mare un po’ le acque di fronte alle pro­te­ste, il Pd ren­ziano era stato a dir poco abbot­to­nato, a parte Michele Anzaldi, della vigi­lanza Rai, che anche lui ricor­dava: «La quo­ta­zione in borsa è stata vin­co­lata alla ces­sione di una quota non supe­riore al 49%» e dun­que chie­deva all’Antitrust di valu­tare la vicenda (come ovvia­mente deve fare e sta facendo). Men­tre il gio­vane turco Fran­ce­sco Ver­ducci sot­to­li­neava il primo effetto dell’annuncio: i con­si­stenti gua­da­gni in borsa.

I for­zi­sti si sbrac­ciano invece per­ché l’operazione vada in porto in nome del «libero mer­cato» del Cav. Tor­nano invece a denun­ciare il «patto del Naza­reno tele­vi­sivo» i 5 Stelle e così Arturo Scotto, di Sel: «Non vor­remmo che quel patto del Naza­reno uscito dalla porta rien­trasse dalla finestra».

postilla
Una brutta notizia per che ritiene che il disastro degli italiani e le sue conseguenze politiche sono in grandissima parte dovute al lavaggio del cervello compiuto idal dominio della televisione ,operato nei decenni scorsi. Una notizia che non sorprendie chi, a differenza dell'on. Scotto, ritiene che il patto del Nazareno non sia mai uscito ne dalla porta nè dalla finestra

La Repubblica, 25 febbraio 2015
IL PRESIDENTE del Consiglio lancia l’ambizioso progetto “la buona scuola”. Lo fa alla fine di una consultazione con i diretti interessati (alunni, docenti e famiglie) che egli stesso ha giudicato un evento unico, non solo nel nostro Paese. In una recente puntata di Piazzapulita si è avuto modo di capire che le cose non stanno proprio in questi termini: l’ascolto è stato pilotato e molti temi concreti che le scuole statali hanno urgente bisogno di discutere e risolvere non hanno avuto centralità, anche perché poco attraenti.

In effetti, parlare della mancanza cronica di carta igienica nelle scuole statali di ogni ordine e grado, sapere che i genitori si autotassano ormai abitualmente per coprire le spese ordinarie degli istituti frequentati dai loro figli che lo Stato non copre: tutta questa concretezza non consente di fare spot attraenti sulla buona scuola del futuro. Tuttavia questi sono i problemi. Che non svaniscono con gli slogan: “Sì, serve la carta igienica, ma fateci sognare”. Semmai, si potrebbe dire al presidente Renzi che i sogni li dovrebbero poter fare le scuole, non il governo. E vi è di che dubitare che questi provvedimenti ben propagandati vi riescano.

Prima di tutto perché lo Stato ha dichiarato di non potere coprire le spese delle sue scuole. È come se dicesse: non possiamo garantire i diritti civili perché non abbiamo soldi a sufficienza per sostenere i tribunali. Non ci sono fondi a sufficienza. Ma se lo Stato (e i suoi organi amministrativi) finanziasse solo le sue scuole, come la Costituzione gli comanda, i soldi non sarebbero un problema così emergenziale. A fine gennaio l’Espresso ha dedicato al depauperamento della scuola statale un’inchiesta ben fatta. Eccone il senso: “Settecento milioni l’anno di denaro pubblico vanno ad aiutare gli istituti paritari, mentre lo Stato non ha soldi neppure per rendere sicure le aule. Un flusso che parte dal ministero dell’Istruzione, dalle Regioni e dai Comuni e finisce senza controlli ad enti privati di scarsa qualità o dove i professori ricevono stipendi da fame”. Governatori e sindaci, continua l’Espresso, alimentano un fiume carsico di denaro pubblico per le private, un federalismo scolastico che si somma alla sovvenzione ministeriale. L’articolo 33 della Costituzione è raggirato, e non da oggi, con l’escamotage degli aiuti alle famiglie. La Costituzione sembra non avere forza, sembra parlare la lingua dei sogni, ma non di quelli che piacciono a chi la dovrebbe attuare.

E il progetto detto “buona scuola” non cambia questo trend privatistico, ma lo legittima, lo regolamenta e lo stabilizza. Lo ha confermato proprio il presidente del Consiglio in conferenza stampa: «In futuro chiederemo autonomia anche dal punto di vista economico, così che una parte della dichiarazione dei redditi possa andare a una singola scuola». Ovvero, chi non ha figli si sentirà libero di non dare alcun contributo alla scuola pubblica, trattata come la religione o i partiti politici: oggetto di libera scelta individuale. Benché la scuola sia un bene pubblico, non privato che si può scegliere o non scegliere. La logica che guida questo progetto è opinabile: prima di tutto perché associa la tassazione per beni pubblici al consenso individuale — questo è esattamente quanto dagli anni Settanta sono andati predicando i teorici liberisti; questa è stata la filosofia che ha guidato i governi Reagan. E il reaganomics è la direzione di marcia del nostro governo sulla scuola statale.

Lo Stato si impegna a istituire e sostenere scuole di ogni ordine e grado: lo Stato, non i singoli secondo la loro personale preferenza e decisione. È evidente che il governo cerca di vendere il prodotto appellandosi all’autonomia scolastica. Ma legare il destino della scuola statale alle preferenze individuali non è una condizione di autonomia ma di assoluta dipendenza dal privato. È stupefacente come non si crei un dibattito serio e ragionato su temi così rilevanti, come le rivendicazioni della minoranza nel Pd non sappiano tradursi in contro-proposte che incalzino la maggioranza con argomenti efficaci. La dialettica sarebbe di aiuto al governo che potrebbe voler accettare la sfida della discussione e migliorare la sua proposta. In questo momento, i cittadini restano fuori del palazzo, inascoltati e fortemente critici. Organizzano convegni, lanciano petizioni, firmano documenti, ma la loro voce non ha risonanza. Non hanno rappresentanti nei partiti e non hanno nel Parlamento un interlocutore. Politica costituita e opinione dei cittadini marciano su binari paralleli.

Il manifesto, 25 febbraio 2015



TSIPRAS? «PRAGMATICO E IDEALISTA»
di Pavlos Nerantzis

Grecia. Non mancano critiche ma all’interno di Syriza si loda la «praticità» del premier


La riu­nione del con­si­glio dei mini­stri per discu­tere sull’ accordo di Bru­xel­les e la lista delle riforme pre­sen­tate all’ Euro­gruppo, è stata lunga. Ale­xis Tsi­pras ha dovuto tro­vare un dif­fi­cile equi­li­brio tra le richie­ste dei cre­di­tori inter­na­zio­nali e il suo piano anti-austerity; tra la neces­sità di retro­ce­dere, pun­tando sulla soprav­vi­venza del suo Paese e il biso­gno di appli­care una parte del pro­gramma di Salo­nicco, ovvero del «Piano di rico­stru­zione nazio­nale», basato su quat­tro pila­stri. Affron­tare la crisi uma­ni­ta­ria, riav­viare l’economia e pro­muo­vere la giu­sti­zia fiscale, ricon­qui­stare l’occupazione, tra­sfor­mare il sistema poli­tico per raf­for­zare la democrazia.

Ale­xis Tsi­pras per evi­tare che il suo governo fosse una «paren­tesi di sini­stra», come vor­reb­bero l’ ex pre­mier Sama­ras e la mag­gio­ranza dei part­ner euro­pei, ha pre­fe­rito svol­tare. Una «retro­mar­cia di destra» come viene descritta dagli avver­sari interni al par­tito del pre­mier, rea­li­stica e «di dignità» secondo il Megaro Maxi­mou, sede di governo.

Tra prag­ma­ti­smo e idea­li­smo su una cosa sono d’ accordo ambe­due le cor­renti della sini­stra radi­cale greca. Il pro­lun­ga­mento del nego­ziato e il peri­colo di un tra­collo finan­zia­rio in Gre­cia avreb­bero pro­vo­cato uno scon­tro fron­tale tra il neo governo e i cre­di­tori inter­na­zio­nali. Ad Atene imma­gini simili a quanto era suc­cesso a Cipro nel marzo del 2013 con le lun­ghe file di fronte ai ban­co­mat sareb­bero ine­vi­ta­bili. Al di là di que­sta valu­ta­zione comune, le strade tra le due cor­renti si sepa­rano. Gli «incon­ci­lia­bili» cre­dono che una fuo­riu­scita della Gre­cia dall’Ue met­te­rebbe i greci in salvo, senza tener conto che la com­pe­ti­ti­vità del Paese rimane bas­sis­sima; i rea­li­sti fanno notare che il governo del Syriza-Anel con­ti­nua a trat­tare. «È meglio un Gre­xit che una con­ti­nua­zione perenne dello stato dell’ impo­ve­ri­mento attuale» sostiene l’economista e gior­na­li­sta Leo­ni­das Vati­kio­tis. Per aggiun­gere ciò che si sente molto in que­sti giorni da chi cri­tica l’operato del governo: «il con­te­nuto dell’ accordo di Bru­xel­les non deve essere para­go­nato con il pro­gramma del governo pre­ce­dente, ma con il pro­gramma pre-elettorale del Syriza».

In realtà mini­stri e diri­genti del Syriza vicini al pre­mier non nascon­dono il loro imba­razzo. Ciò che mag­gior­mente ha col­pito a livello morale è stata la rea­zione di Mano­lis Gle­zos. «Pro­ba­bil­mente Gle­zos era deluso per la man­cata ele­zione a pre­si­dente della Repub­blica» sosten­gono alcuni che cono­scono da vicino il sim­bolo della resi­stenza greca con­tro i nazi­sti. Ieri Tsi­pras ha par­lato tele­fo­ni­ca­mente con vari diri­genti del suo par­tito che si sono oppo­sti all’accordo di Bru­xel­les, si è incon­trato con Mikis Teo­do­ra­kis a casa sua, ma non ha voluto scam­biare una parola con il suo mae­stro Manolis.

Cri­ti­che sono arri­vata anche da parte dei comu­ni­sti del Kke, che venerdì pros­simo orga­niz­ze­ranno una mani­fe­sta­zione alla Pla­tia Syn­tag­ma­tos di fronte al par­la­mento per denun­ciare l’accordo di Bru­xel­les, men­tre secondo il Pasok il governo «rimane senza finan­zia­menti fino al giugno».

Con il via libera dell’ Euro­gruppo alla lista delle riforme gre­che la Borsa di Atene ha regi­strato ieri un rialzo record (9,81%), ma que­sta buona noti­zia non viene vista da alcuni media inter­na­zio­nali che fino a ieri con­ti­nua­vano a par­lare della fuga dei capi­tali greci all’ estero. «Negli ultimi giorni sono stati pre­le­vati dalle ban­che gre­che 500 milioni di euro al giorno… i soldi pre­le­vati in fretta in parte sono finiti addi­rit­tura in Sviz­zera, dove i greci avreb­bero depo­siti per 60 miliardi di euro» ha scritto pochi giorni fa il sito de Il sole 24 Ore, senza spie­gare chi sono quelli che hanno que­sti soldi. Il sot­tin­teso è chiaro: «i greci, pic­coli e grandi rispar­mia­tori» per il timore della sini­stra radi­cale riti­rano le pro­prie economie.

Le cose non stanno pro­pria­mente cosi. C’è stato un calo dei depo­siti ban­cari dai 160 miliardi (ultimo dato uffi­ciale del dicem­bre scorso) a 145 miliardi, secondo le stime a metà feb­braio. Ma a sen­tire gli eco­no­mi­sti, «i capi­tali fug­giti all’ estero non appar­ten­gono ai pic­coli cor­ren­ti­sti, bensì ai soliti eva­sori fiscali. I dipen­denti pub­blici e i pen­sio­nati non hanno soldi suf­fi­cienti per soprav­vi­vere, figu­ria­moci se hanno dei soldi a parte».

A con­fer­mare l’identikit dei rispar­mia­tori che hanno fatto fug­gire i loro «risparmi» all’estero è il mini­stro dello Stato, adetto alla lotta con­tro la Cor­ru­zione, Pana­gio­tis Niko­lou­dis, già pro­cu­ra­tore della Corte suprema che ha pre­pa­rato una lunga lista di 3.500 nomi, sospetti di aver evaso fiscal­mente e di aver rici­clato denaro sporco. Si tratta di per­sone sopra ogni sospetto dalla casta dei busi­ness­men (pro­prie­tari di catene di super­mer­cati e di negozi di abbi­glia­mento, arma­tori) e dei liberi pro­fes­sio­ni­sti (medici, far­ma­ci­sti, inge­gneri civili, ecc.) che di crisi ne hanno capito poco, con depo­siti ban­cari che vanno oltre ai dieci milioni, men­tre alle auto­rità si dichia­rano «poveri» con introiti che non supe­rano le poche migliaia di euro. Sono gli stessi che risul­tano irre­pe­ri­bili oppure descritti con il ter­mine gene­rico «greci» nei ser­vizi di una parte della stampa internazionale

GRECIA: SÌ DELL'EUROGRUPPO, MA CON RISERVE
di Anna Maria Merlo

Debito eccessivo. Tsipras guadagna 4 mesi di tempo per ridiscutere il programma. Fmi chiede di più, la Ue pretende di "sviluppare e ampliare la lista". Moscovici: "non significa che siamo d'accordo su queste riforme". E l'accordo dipende ormai dal voto di 4 paesi, tra cui la Germania. Ma per la Grecia gli esami non finiscono mai

Gli esami non fini­scono mai per la Gre­cia. Ieri, l’Eurogruppo ha final­mente appro­vato la “lista” pre­sen­tata da Atene lunedi’ notte, pro­prio allo sca­dere dell’ora limite (“ho rice­vuto una mail alle 23,15” ha pre­ci­sato il pre­si­dente Jeroen Dijs­sel­bloem). L’Eurogruppo ha seguito il parere favo­re­vole dei cre­di­tori — Ue, Bce e Fmi — espresso in mat­ti­nata. Ma, ha spie­gato il com­mis­sa­rio agli Affari eco­no­mici e mone­tari, Pierre Mosco­vici, que­sto “non signi­fica che siamo d’accordo su que­ste riforme, siamo pero’ d’accordo sull’approccio, abbiamo evi­tato una crisi, ma restano nume­rose sfide di fronte a noi”. Sulla carta, la Gre­cia ha quat­tro mesi, fino a fine giu­gno, per ridi­scu­tere la que­stione del debito con le “isti­tu­zioni”, il nuovo nome del trio Ue-Bce-Fmi, che ha sosti­tuito l’odiato ter­mine di “tro­jka”.

Ma, intanto, per avere la cer­tezza che dal 28 feb­braio, data di sca­denza del secondo piano di aiuti (130 miliardi), ci sarà l’estensione di quat­tro mesi, biso­gna che il pro­getto passi nei par­la­menti dei quat­tro paesi che pre­ve­dono un voto ogni volta che ven­gono impe­gnati denari pub­blici. Sono Olanda, Fin­lan­dia, Esto­nia e Ger­ma­nia. Il Bun­de­stag vota venerdi’, Wol­fgang Schäu­ble ha scritto ai depu­tati per invi­tarli ad appro­vare il piano, in caso di via libera da parte dell’Eurogruppo. Ma, ha pre­ci­sato ieri il suo por­ta­voce Mar­tin Jae­ger, “la let­tera di Atene non con­duce a solu­zioni sostan­ziali”.

Riserve sono state emesse anche dall’Fmi: si tratta di un “valido punto di par­tenza”, ma “in vari set­tori” man­cano ras­si­cu­ra­zioni su riforme che erano state impo­ste dal Memo­ran­dum (aumento dell’Iva, abbas­sa­mento delle pen­sioni, pri­va­tiz­za­zioni, riforma al ribasso del lavoro). Anche l’Eurogruppo, dopo l’approvazione, ha voluto aggiun­gere delle rac­co­man­da­zioni: la Gre­cia deve “svi­lup­pare e ampliare la lista delle riforme, sulla base del pre­sente accordo, in stretta coo­pe­ra­zione con le isti­tu­zioni, per per­met­tere una con­clu­sione rapida e favo­re­vole dell’esame”. Difatti, per il ver­sa­mento dell‘ultima tran­che di circa 7 miliardi di euro per la Com­mis­sione “sono attese ulte­riori pre­ci­sa­zioni sulle riforme e saranno con­cor­date fino a fine aprile, in linea con quanto pre­vede la dichia­ra­zione dell’Eurogruppo della scorsa set­ti­mana”. I cre­di­tori sta­ranno attenti sulla pro­messa di lotta alla cor­ru­zione e all’evasione, vec­chie richie­ste della tro­jka e pro­messe che i pre­de­ces­sori di Tsi­pras non erano riu­sciti a met­tere in atto.

Il governo Tsi­pras ha dovuto cor­reg­gere a più riprese la “lista” da pre­sen­tare a Bru­xel­les. Il draft del comu­ni­cato ha fatto varie volte l’andata e ritorno tra Bru­xel­les e Atene, tra venerdi’ e lunedi’. La Gre­cia ha dovuto annac­quare molto la pro­po­sta. Jean-Claude Junc­ker, per esem­pio, ha escluso un aumento del sala­rio minimo. Nel testo resta una frase vaga: si parla di “approc­cio intel­li­gente della nego­zia­zione col­let­tiva sui salari” e “que­sto include la volontà di aumen­tare il sala­rio minimo, pre­ser­vando la com­pe­ti­ti­vità”, men­tre l’ “aumento del sala­rio minimo e il timing saranno decisi in con­cer­ta­zione con le isti­tu­zioni euro­pee e inter­na­zio­nali”. Per Junc­ker, sarebbe stato “inte­ni­bile” poli­ti­ca­mente un sala­rio minimo greco mag­giore di quello “di sei paesi della Ue” (tra cui Slo­vac­chia e Spa­gna), che sono chia­mati a con­tri­buire all’aiuto ad Atene.

La Gre­cia ha incluso nella pro­po­sta dei rife­ri­menti al pro­gramma di Syriza sull’aiuto ai più poveri, ma ha dovuto pre­ci­sare che “la lotta alla crisi uma­ni­ta­ria non avrà effetti nega­tivi sul bilan­cio”. Non ci sono det­ta­gli su que­ste misure, finite in fondo al testo. Inol­tre, sulle pri­va­tiz­za­zioni, Atene ha dovuto accet­tare che non saranno revo­cate quelle già appro­vate e che non tor­nerà indie­tro nep­pure su quelle per le quali è già stato pub­bli­cato il bando. Invece, “rive­drà quelle non ancora lan­ciate, pun­tando a miglio­rare i bene­fici a lungo ter­mine”. Dijs­sel­bloem, che in mat­ti­nata è stato rice­vuto dalla com­mis­sione affari eco­no­mici del Par­la­mento euro­peo, ha pre­ci­sato che la lista è “un primo passo, ma c’è ancora molto da lavo­rare”. Il pre­si­dente dell’Eurogruppo si è anche inter­ro­gato sulla tenuta del governo Tsi­pras: biso­gna vedere se “potrà fare quello che vuole”, ha detto.

L’Eurogruppo si è soprat­tutto pre­oc­cu­pato di otte­nere dalla Gre­cia l’assicurazione che non ver­ranno “prese ini­zia­tive uni­la­te­rali” e che ogni deci­sione sarà presa “in con­sul­ta­zione con le isti­tu­zioni euro­pee”. Dijs­sel­bloem è stato ancora più diretto: “ci deve essere una forte coo­pe­ra­zione, non si pos­sono fare mosse uni­la­te­rali, almeno fino a quando Atene vuole nuovi fondi dall’Eurozona”.

La vera pre­oc­cu­pa­zione è di evi­tare un Gre­xit, che farebbe tre­mare tutto l’edificio dell’euro. Per Chri­stine Lagarde, alla testa dell’Fmi, “l’uscita della Gre­cia dell’euro è fuori discus­sione, faremo di tutto per aiu­tarli” (in que­sto e solo in questo)


A leggere il comunicato di presentazione del corso di “alta formazione!” politico-istituzionale Eunomia in svolgimento in queste settimane a Firenze, c'è da stropicciarsi gli occhi per l'incredulità.

Sembra piuttosto un promo della novella di Ser Ciappelletto nel “Maraviglioso Boccaccio” dei fratelli Taviani in uscita sugli schermi proprio nello stesso periodo: chi chiamare a illustrare la “santità” dei comportamenti che asservono il ruolo degli enti pubblici agli interessi corporativi di aziende, cooperative, gruppi di interesse economico e/o politico-ideologico-religioso, se non coloro che più attivamente si sono adoperati a praticarli nel passato più o meno recente?

Lascio ad altri di articolare la dimostrazione dell'assunto nei campi dell'economia, delle banche, dell'energia (e ognuno credo possa ben capire a quali nomi faccia riferimento) e mi limito al campo di mia competenza: il ruolo degli enti locali territoriali nella gestione del territorio e delle opere pubbliche. Lodovico Meneghetti - che è stato a lungo docente di urbanistica al Politecnico di Milano, ma anche assessore comunale a Novara dove a metà degli anni Sessanta fece approvare uno storico PRG con aree edificabili quasi interamente in piani di iniziativa pubblica – in un recente intervento su eddyburg ricorda come fu proprio Bassanini nel 2001, come ministro delle riforme amministrative nel Governo Amato (due “alti formatori” in un sol colpo!) a far approvare il decreto delegato (si usava anche allora, anche se un po' più pudicamente di oggi) con cui si eliminò l'obbligo di versare gli oneri di urbanizzazione in un conto vincolato alla realizzazione di spazi ed opere pubbliche di urbanizzazione, istituito dalla legge n. 10/77, nota come “Bucalossi”, dal nome del ministro dei lavori pubblici dell'epoca e già Sindaco di Milano col PRI. Per i Comuni si aprì la cassa senza fondo degli ampliamenti edificatori dei PRG e degli accordi in deroga alle norme vigenti, per sostenere con i proventi degli oneri urbanizzativi bilanci comunali dalle spese correnti sempre più traballanti. Certo, come ricorda ancora Meneghetti, furono poi molti i responsansibili delle successive ripetute proroghe di questo andazzo che è ancora in vigore attualmente (da Tremonti che per primo nel 2005 avallò la richiesta delle Tesorerie comunali di “liberalizzare” l'uso dei conti vincolati ad opere urbanizzative al secondo Governo Prodi, partecipato persino dalla sinistra estrema, che ne perpetuò il sistema); eppure è giusto che per illustrarne i pregi ci si rivolga, più che ad altri, ai progenitori originari Amato e Bassanini.

Su questo terreno si è costruita anche la carriera politica di Maurizio Lupi, ancor oggi dirigente in aspettativa per mandato politico di Fiera di Milano Esposizioni, dove era approdato all'epoca dell'incontrastata egemonia ciellina sui vari rami dell'Ente Fiera durante tutta la lunghissima presidenza di Roberto Formigoni alla Regione Lombardia. Questa veste lo ha reso particolarmente indicato a ricoprire il ruolo di assessore all'urbanistica del Comune di Milano nella Giunta Albertini, in modo da poter tutelare particolarmente gli interessi immobiliari di Fondazione Fiera (ente di cui formalmente non faceva parte e pur nell'ambito di una più generale favorevole disposizione d'animo verso l'immobilarismo milanese) promuovendone la migrazione verso il polo esterno di Rho-Pero e aprendo la strada al riuso immobiliare della vecchia sede, concluso dal suo successore ciellino Masseroli durante la Giunta Moratti con la concessione di un milione di metri cubi , metà in tre torri di oltre 200 metri di altezza che in inverno oscureranno le case vicine per l'intera giornata e metà in lussuosi condomini ammassati al loro piede. L'operazione fruttò a Fondazione Fiera il doppio del prezzo corrente atteso (523 milioni di € anziché 250), ma costringendo il Comune a monetizzare più della metà degli spazi pubblici mancanti al prezzo convenzionale di 300€/mq, invece che al prezzo di mercato di 2.000 €/mq ottenuto da Fondazione Fiera. Con quel surplus Fondazione Fiera cominciò ad acquistare a prezzo agricolo le aree contigue al nuovo polo di Rho-Pero, su cui oggi sta per avere inizio l'evento EXPO 2015 e di cui si discute la valorizzazione immobiliare successiva.

Finito di esercitarsi in queste vicende milanesi, dal 2001 Lupi si trasferisce al Parlamento come deputato di FI dove intesse una sino ad allora inedita convergenza bi-partisan col deputato milanese della Margherita, e poi PD, Pierluigi Mantini per proporre un disegno di legge urbanistica ispirato al principio della “consensualità” degli atti amministrativi tra enti pubblici e proprietà fondiario-immobiliare (e da loro connotato come “passaggio dall'urbanistica all'economistica”), desunto dalle istruttive esperienze amministrative e legislative in materia urbanistica milanese e lombarda. Dal 2013, prima con Letta per il PdL e poi con Renzi per NCD, è Ministro delle Infrastrutture e Trasporti distinguendosi non solo per i rapporti cordiali e servizievoli con i concessionari di opere statali, ma anche per essere tornato a proporre un gruppo di studio sull'urbanistica “consensuale” con le proprietà fondiario-immobiliari.

Anche in questo caso, di fronte a tanta capacità di adattamento della subordinazione del ruolo pubblico agli interessi privati, non si può che apprezzare l'opportunità della scelta di Eunomia di chiamarlo a diffondere ad altri la sua esperienza, augurando al Sindaco di Firenze Nardella, nonostante la sua più breve carriera, di saper stare al pari di tanto esperto!

Per capire perché la battaglia del nuovo governo greco di Alexis Tsipras riguarda tutti i cittadini europei – e in particolare quelli della periferia – dobbiamo innanzitutto tenere a mente che la rinegoziazione del debito non è per Syriza un fine a sé stante, combattuto in nome di un astratto principio di giustizia economica, ma piuttosto un mezzo per realizzare un obiettivo molto preciso: la riduzione dell’avanzo primario dal 4-5% richiesto dalla troika (oggi è intorno al 3%) all’1-1.5% del Pil. Per avanzo primario si intende un bilancio pubblico in positivo, esclusa la spesa per interessi sul debito pubblico: sostanzialmente vuol dire che le entrate (le tasse) superano le uscite (la spesa pubblica). Il motivo per cui un governo sceglie di perseguire un avanzo primario è solitamente quello di destinare il surplus di entrate al pagamento degli interessi sul debito, nella speranza di ridurre un po’ alla volta lo stock di debito.

Nel caso della Grecia questi interessi si aggirano intorno al 4% del Pil, a cui bisogna aggiungeregli obiettivi di riduzione del debito previsti dal Fiscal Compact (1/20esimo l’anno della porzione eccedente il 60% del Pil): considerando che la Grecia ha un rapporto debito/Pil pari al 177% si fa presto ad arrivare all’avanzo primario del 4-5% fissato dalla troika per la Grecia, che nel giro di un paio di anni dovrebbe salire addirittura al 7% (almeno fino al 2030). Se così non fosse, e senza una riduzione della spesa annuale per interessi – che è quello che chiede Syriza, attraverso una ricontrattazione del debito –, l’unica alternativa sarebbe quella di indebitarsi ulteriormente per continuare a ripagare gli interessi sul debito pregresso – che, in sostanza, è quello che vorrebbero la Germania e l’Eurogruppo, e che la Grecia si rifiuta di fare (“perché sarebbe come consigliare a un amico di farsi una seconda carta di credito per ripagare i debiti contratti con la prima carta di credito”, ha dichiarato Varoufakis).

E allora perché non fare come dice la troika e cercare di aumentare ulteriormente l’avanzo primario? Perché non potrà mai funzionare. Né dal punto di vista politico e sociale – la Grecia è già stremata da anni di brutali misure di austerità, e un incremento dell’avanzo primario potrebbe solo essere raggiunto attraverso ulteriori tagli alla spesa pubblica e/o aumenti di tasse, e dunque attraverso ulteriori misure di austerità –, né dal punto di vista economico: accumulare ampi avanzi primari è infatti considerato intrinsecamente recessivo, in quanto di fatto consiste nel sottrarre risorse all’economia reale per destinarle ai creditori, nazionali ed esteri (o, per dirla diversamente, nel sottrarre denaro ai più per alimentare le rendite di pochi). Se poi questa politica viene praticata in un contesto come quello europeo – di bassa inflazione (come quello che registra l’Italia) o addirittura di deflazione (come quello che registra la Grecia) e in assenza di una banca centrale in grado di agire da prestatrice di ultima istanza e di intervenire sui mercati sovrani per calmierare i tassi di interesse (e senza chiedere misure di austerità in cambio) – è puro masochismo, in quanto si può “consolidare” quanto si vuole, ma il debito continuerà inevitabilmente a salire sia in termini reali, a causa dell’effetto recessivo-deflattivo del cosiddetto moltiplicatore fiscale (ulteriormente esacerbato dalle misure di austerità), sia in termini assoluti, perché molti stati non sono in grado di accumulare avanzi primari sufficienti a far fronte agli interessi, e sono dunque costretti a indebitarsi ulteriormente solo per ripagare gli interessi sul debito pregresso (anche se con l’entrata in vigore del Fiscal Compact, che impone il pareggio di bilancio strutturale, questa strada in teoria non è più percorribile). E infatti, a fronte di alcune delle misure di austerità più estreme mai sperimentate in Occidente, nella maggior parte dei paesi dell’eurozona (soprattutto quelli della periferia) il debito continua a lievitare a ritmi vertiginosi.

Questo non è un problema che riguarda solo la Grecia, infatti: in tutti i paesi della periferia la spesa per interessi si aggira tra il 3.5 il 5% del Pil. Il caso dell’Italia è paradigmatico: nonostante il paese registri un avanzo primario fin dai primi anni novanta, il nostro debito pubblico è continuato a salire unicamente a causa della spesa per interessi – che oggi si aggira intorno al 4.5% del Pil, pari a poco meno di 80 miliardi l’anno – per poi esplodere negli ultimi anni. Ora, in base al duplice obiettivo del Fiscal Compact – pareggio di bilancio strutturale e riduzione del debito –, questi paesi dovrebbero mantenere da qui al 2030 avanzi primari da capogiro, come si può vedere nel seguente grafico: 7% in Grecia, 6.5% in Italia, 5.5% in Portogallo, 3.5% in Spagna.

Si tratta di una strada palesemente insostenibile – e che infatti non ha precedenti nella storia – sia dal punto di vista economico che dal punto di vista politico e sociale, per l’entità dei tagli alla spesa pubblica o dell’imposizione fiscale che essa comporterebbe: se consideriamo che lo stimolo fiscale implementato da Obama nel 2009 ammontava al 5.5% del Pil e che il New Deal di Roosevelt era pari al 5.9% del Pil, un avanzo primario delle dimensioni previste dal Fiscal Compact equivarrebbe per molti paesi a una sorta di anti-New Deal praticato ogni anno per i prossimi quindici anni (almeno). Una follia.

Ecco perché la battaglia di Syriza – che riguarda non tanto il debito pubblico in sé quanto le assurde imposizioni del Fiscal Compact in termini di avanzi primari – riguarda tutti i paesi della periferia. E soprattutto l’Italia.

«Per il segretario della Fiom "la maggior parte del Paese, quella che per vivere deve lavorare, non è rappresentata". Il sindacato, quindi, "deve porsi il problema di una coalizione sociale"». Il Fatto quotidiano, 22 febbraio 2015

«È cambiato tutto, siamo alla fine di un’epoca. È venuto il momento di sfidare democraticamente Renzi». Le parole di Maurizio Landini, il giorno dopo il varo del Jobs Act, sono molto chiare. Qualcosa sta per avvenire a sinistra e soprattutto nel rapporto tra il sindacato e la rappresentanza politica. Perché il segretario della Fiom ritiene che un limite storico sia stato valicato e ora occorra costruire una risposta adeguata.
Siamo dunque a un cambio d’epoca?
«Non c’è dubbio. Non solo Renzi applica tutto quello che gli ha chiesto Confindustria, ma afferma il principio che pur di lavorare si debba accettare qualsiasi condizione. Non c’è più il concetto che il lavoro è un diritto e la persona deve avere tutti i diritti di cittadinanza. Inoltre, viene messo in discussione un diritto fondamentale: quello di potersi coalizzare e agire collettivamente per contrattare la prestazione lavorativa
».
Lei vede in atto lo smantellamento dello Statuto dei lavoratori?
«Siamo a uno scardinamento sostanziale. Lo Statuto non solo tutelava le singole persone ma riconosceva la contrattazione collettiva e quindi la mediazione sociale come uno dei pilastri delle relazioni sindacali. Oggi questa logica viene messa in discussione. Non a caso Confindustria rilancia chiedendo di realizzare quanto fatto alla Fiat, oggi Fca: cancellare il contratto nazionale. E infatti alla Fca il salario minimo è più basso di quello nazionale».
Renzi, però, sostiene che la sua legge rottamerà la precarietà.
«È una grossa bugia, perché il nuovo contratto non è a tutele progressive. Se si pensa che ogni anno circa il 9% dei lavoratori cambia lavoro, si capisce che nel giro di poco tempo la tutela contro il licenziamento illegittimo non esisterà più».
Eppure, si dice, sono stati aboliti i contratti precari.
«Le forme fondamentali sono rimaste tutte, così come non sono state riviste le partite Iva. E gli ammortizzatori sociali non vengono realmente estesi. La cassa integrazione non lo è e la Naspi, che copre solo chi ha lavorato, sostituisce anche la mobilità. Solo che questa durava fino a tre anni mentre quella sarà portata a 18 mesi. Il demansionamento colpisce il lavoro così come eliminare il reintegro anche nei licenziamenti collettivi rappresenta un regalo alle imprese in un periodo in cui, nonostante si parli molto di ripresa, la crisi non è finita.

Sembra che non stia parlando di un governo di sinistra.
«Renzi dice di essere il nuovo, ma non siamo di fronte alle idee geniali di un giovane rampante. Si tratta, invece, delle direttive impartite dalla Bce con la famosa lettera del 2011 e che il governo sta applicando fedelmente. Bisogna aver chiaro quello che sta succedendo.

Su questo terreno la Cgil si è mobilitata e, visto che parliamo di temi europei, abbiamo visto la vittoria di Tsipras in Grecia. Le risposte, finora, non sono state efficaci.
«La situazione è complicata e difficile, questo è sotto gli occhi di tutti. Credo che ci sia bisogno di un coinvolgimento straordinario di tutti anche fuori dai luoghi di lavoro e una grande consapevolezza di quello che sta avvenendo. Non era mai avvenuto nella storia d’Italia che con leggi si cancellasse il diritto del lavoro. Cambiano radicalmente i rapporti di forza e le relazioni sindacali.

Serve dunque una risposta politica?
Occorre avere consapevolezza della situazione. Noi abbiamo innanzitutto bisogno di riconquistare un vero Statuto dei lavoratori di tutti, davvero tutti, i lavoratori. Per questo la Cgil ha avviato una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare senza escludere la possibilità di un referendum.

Si farà?
«Io penso di sì. Il direttivo ha indicato un percorso scegliendo una consultazione di tutti gli iscritti, che sono oltre 5 milioni. Ma la definizione del nuovo Statuto è un percorso che deve coinvolgere anche i non iscritti, perché parliamo della dignità delle persone. Renzi ha preso il programma di Confindustria e lo sta applicando senza che nessun italiano abbia potuto votarlo. Ma su questi temi non ha il consenso della maggioranza della popolazione. Vorrei sfidare Renzi a una verifica democratica».

Sta dicendo che è pronto a una sfida politica?
«Il problema è che la maggior parte del Paese, quella che per vivere deve lavorare, non è rappresentata. C’è un fatto nuovo nel rapporto tra politica e organizzazione sindacale».

Sta quindi pensando a un partito?

No, sarebbe una semplificazione.

A cosa, allora?
«Occorre la rappresentanza di quegli interessi. Apriamo questa discussione esplicitamente. Per quello che riguarda la Fiom dobbiamo rivolgerci a tutto ciò che è rappresentanza sociale, non solo i lavoratori. C’è tutto un mondo che si deve porre il problema di come affrontare questo nuovo quadro».

È l’idea della coalizione sociale?
«Sì. È un tema che come Fiom abbiamo già posto a settembre nella nostra assemblea dei delegati. Il sindacato si deve porre il problema di una coalizione sociale più larga e aprirsi a una rappresentanza anche politica. Quando un Parlamento cancella lo Statuto dei lavoratori con un colpo di spugna a essere rappresentato è solo l’interesse di uno, del più forte».
La sfida democratica a Renzi passa anche da qui?
P
enso assolutamente di sì».

Il manifesto, 22 febbraio 2015

È evi­dente che, con i decreti attua­tivi della fami­ge­rata carta di espro­pria­zione dei diritti deno­mi­nato Jobs Act, la Costi­tu­zione non è più la stessa. La prima parte, quella dei valori fon­da­men­tali, anche se non ancora toc­cata in modo espli­cito, è inde­bo­lita dalla legi­sla­zione più recente, vera pistola pun­tata con­tro il resi­duale diritto del lavoro. Frutto della seconda costi­tu­zio­na­liz­za­zione, lo Sta­tuto del 1970 era il com­pen­dio di una con­giun­tura sto­rica irri­pe­ti­bile che pre­sen­tava con­di­zioni poli­ti­che più favo­re­voli al mondo del lavoro. L’articolo 18 era in fondo il sim­bolo della rela­tiva potenza accu­mu­lata dal lavoro, rispetto al domi­nio asso­luto del capi­tale, e la dimo­stra­zione dei frutti posi­tivi sca­tu­riti dalla con­giun­zione di con­flitto sociale e grande mano­vra politica.

Ad essere col­pito dalla furia restau­ra­trice del governo Renzi è anzi­tutto il potere del lavoro e di con­se­guenza i diritti dei sin­goli dipen­denti si spen­gono come degli astratti postu­lati morali. Il segno di classe della riforma strut­tu­rale varata dal governo l’ha colto bene l’Ocse che, in uno sper­ti­cato elo­gio delle misure ren­ziane, le ha san­ti­fi­cate come l’eden resu­sci­tato della bella volontà di potenza dell’impresa. Nel docu­mento l’Ocse spiega le ragioni del suo inna­mo­ra­mento totale: «accre­scendo la pre­ve­di­bi­lità la norma riduce i costi reali dei licen­zia­menti, anche quando sono giu­di­cati ille­git­timi dai tri­bu­nali e inco­rag­gia le imprese». Sono felici sol­tanto per­ché il governo ha reso meno costosa la facoltà licenziare.

Quest’assalto nor­ma­tivo alla civiltà del lavoro, con la ridu­zione del costo del licen­zia­mento, secondo l’Ocse, è una divina bene­di­zione che accre­scerà la pro­dut­ti­vità per­ché, eli­mi­nando del tutto la pos­si­bi­lità del rein­te­gro per l’esclusione dall’impiego per motivi ille­git­timi, e ridu­cendo anche l’importo dell’indennizzo dovuto a chi viene get­tato sul lastrico, il Jobs Act sol­le­cita il risve­glio imme­diato degli spi­riti ani­mali del capi­ta­li­smo. Senza la sbri­ga­tiva libertà di licen­ziare, il capi­tale non rie­sce più a inve­stire, a inno­vare, a com­pe­tere. E quindi, il piano della nichi­li­stica espro­pria­zione del lavoro, con­ti­nua ad essere per­se­guito come la variante più allet­tante per rilan­ciare l’accumulazione in un paese che si accasa defi­ni­ti­va­mente nelle peri­fe­rie del capi­ta­li­smo glo­bale e che per il suo de te fabula nar­ra­tur guarda ormai all’Albania.

La filo­so­fia del ren­zi­smo si com­pie nel segno di una inte­grale deco­sti­tu­zio­na­liz­za­zione del lavoro. E la sua genuina essenza ideo­lo­gica è con­te­nuta nella cele­bre for­mula sulla libertà dell’imprenditore di licen­ziare come segno di una grande inno­va­zione desti­nata a fare epoca. La nuova legi­sla­zione, in effetti, è il cuore delle stra­volte riforme post-moderne, quelle capo­volte costru­zioni giu­ri­di­che che sop­pri­mono tutele e pic­cole libertà dal biso­gno e asse­gnano pro­prio al sog­getto già eco­no­mi­ca­mente più forte il diritto di schiac­ciare il con­traente più debole della rela­zione lavorativa.

Le con­di­zioni sociali della moder­nità sono basate gene­ti­ca­mente sul dif­fe­ren­ziale di potere tra capi­tale e lavoro. E il diritto del lavoro, nato dallo scon­tro poli­tico della società di massa, cer­cava di cor­reg­gere con gli inter­venti della legi­sla­zione gli squi­li­bri sociali più macro­sco­pici con­fe­rendo poteri cor­ret­tivi al lavoro come potenza sociale col­let­tiva. Ora il diritto muta di segno. E’ costruito il diritto del più forte, cioè è scol­pito anche sulla norma il potere legale san­zio­na­to­rio del capi­tale sul lavoro. Quando all’impresa si con­cede il diritto di licen­ziare il dipen­dente anche per un solo giorno ingiu­sti­fi­cato di assenza, le si con­se­gna un’arma di coer­ci­zione spro­por­zio­nata rispetto all’entità dell’illecito. E’ la pura forza dell’avere che suc­chia l’essere della per­sona che lavora, nel silen­zio della cor­nice pub­blica. Ma Rous­seau spie­gava che il diritto del più forte non è mai diritto. E quello scritto da Renzi è infatti la pura e sem­plice san­zione uffi­ciale e for­male del domi­nio di fatto dell’impresa sulla forza lavoro ridotta a varia­bile inanimata.

Ad domi­nio del capi­tale, scritto già a chiare let­tere nelle ogget­tive leggi dell’economia e con­fer­mato nelle ano­nime rego­la­rità impo­ste dalla divi­sione sociale del lavoro, si aggiunge anche la norma di stampo clas­si­sta che anni­chi­li­sce la rela­tiva auto­no­mia con­qui­stata nel Nove­cento dalla legi­sla­zione pub­blica nel cor­reg­gere le asim­me­trie del rap­porto sociale con norme det­tate dal senso civile e morale di un’epoca demo­cra­tica. Il giu­dice deve ammai­nare gli stru­menti roman­tici con i quali inse­guiva il mirag­gio della costi­tu­zio­na­liz­za­zione dei rap­porti di lavoro. Seb­bene con stru­menti coer­ci­tivi sca­ri­chi, per­ché privi di san­zione effet­tiva verso l’impresa ina­dem­piente, il giu­dice del lavoro aveva intro­dotto la legge e il con­tratto a più stretto col­le­ga­mento con l’essere del lavo­ra­tore. La bocca del giu­dice, nell’accertare la ade­guata pro­por­zione tra fatto e san­zione, ora si chiude dinanzi alla sover­chiante potenza dell’avere, del capi­tale, che fa ciò che crede della forza lavoro, con il modico prezzo di una indennità.

Si dise­gna una indi­vi­dua­liz­za­zione cre­scente delle rela­zioni eco­no­mi­che impo­nendo un secco rap­porto a due, da una parte sta il potere d’impresa che regna incon­tra­stato e dall’altra il lavoro, sog­getto ancor più pre­ca­rio appeso alla deci­sione d’azienda sui tempi, sui costi delle ristrut­tu­ra­zioni, sull’opportunità di un demen­sio­na­mento di ruolo nel posto di lavoro. Lo scam­bio inde­cente tra un (solo) nomi­na­tivo con­tratto a tempo inde­ter­mi­nato e un effet­tivo potere di licen­ziare senza giu­sta causa cam­bia in pro­fon­dità i rap­porti di forza den­tro i luo­ghi di lavoro. Il sin­da­cato è invi­tato a uscire dalla fab­brica o dall’ufficio, non essendo più rile­vante il potere delle orga­niz­za­zioni nel trat­tare le con­di­zioni delle ristrut­tu­ra­zioni, degli esu­beri, dei tempi, delle mobi­lità, dei licen­zia­menti col­let­tivi.

Lo spie­gava bene Spi­noza: quando un sog­getto cede un potere, non ha più le chiavi per riven­di­care i suoi diritti. Non esi­stono infatti diritti frui­bili senza una potenza col­let­tiva che li sor­regge. E l’attacco del governo è, con qual­che per­versa siste­ma­ti­cità, indi­riz­zato con­tro le con­di­zioni (sociali e sin­da­cali) della potenza del lavoro. Strat­to­nato dalle stra­te­gie d’impresa che lo ren­de­vano una varia­bile sem­pre più pre­ca­ria, il lavoro viene ora reso liquido anche dalla norma giu­ri­dica. Il pub­blico si ada­gia alle esi­genze fun­zio­nali dell’impresa pri­vata e costrui­sce un diritto con moduli, tempi, risar­ci­menti mone­tari richie­sti dal capi­tale. Con il suo turbo governo Renzi pro­cede a passi di gam­bero verso l’Ottocento. Nella sua fab­brica entra solo il car­tello che intima alla mano­do­pera di per­dere ogni spe­ranza di riscatto e di non distur­bare il padrone che dà l’opportunità di lavoro, e quindi va santificato.

Nel regime giu­ri­dico duale, cioè con la com­pe­ti­zione inne­stata dalla norma dise­guale che dif­fe­ren­zia tra vec­chi e nuovi assunti ser­ven­dosi di pro­fili discri­mi­na­tori, l’impresa spera di otte­nere mag­giori poten­ziali di ricatto sul lavoro diviso e sotto minac­cia in virtù di nuovi poteri dispo­si­tivi e san­zio­na­tori. Con il suo Pier delle Vigne, la coman­dante dei vigili urbani di Firenze nomi­nata sul campo capo dell’ufficio legi­sla­tivo di palazzo Chigi, Renzi ha dav­vero posto fine al costi­tu­zio­na­li­smo della repub­blica. Già sepolti i suoi sog­getti poli­tici (i par­titi ideo­lo­gici di massa), ora sono spenti anche i suoi sog­getti sociali, il lavoro come sovrano della costi­tu­zione eco­no­mica. E’ comin­ciata un’altra epoca nel segno della destra eco­no­mica, cioè con lo sfac­ciato potere dell’impresa, con la sua giu­ri­sdi­zione pri­vata spie­tata e senza con­tro­par­tite. Il lavoro è scon­fitto, ma non vinto

il manifesto, 21 febbraio 2015

UN ACCORDO TEMPORANEO
di  Anna Maria Merlo

Eurogruppo . Intesa minima, per evitare un Grexident (un Grexit non voluto e programmato). Entro lunedi' Atene deve precisare gli impegni, giudicati troppo evasivi dai partner, Germania e alleati di ferro in testa, nella lettera di Varoufakis. Schäuble tentato della "lezione" ai trasgressori (Italia e Francia), utilizzando la Grecia come capro espiatorio

C’è un pro­getto di accordo all’Eurogruppo, un testo breve, che ha lo scopo di chia­rire le dif­fe­renze di inter­pre­ta­zione sulla crisi, che hanno por­tato allo scon­tro tra la Gre­cia, ogget­ti­va­mente iso­lata sulla que­stione del «rispetto degli impe­gni presi», e i suoi 18 part­ner della zona euro: la Gre­cia deve pre­sen­tare entro lunedì delle pre­ci­sa­zioni. L’ipotesi di com­pro­messo ha l’obiettivo di pro­teg­gere l’euro non tanto da un Gre­xit, che tutti esclu­dono a parole, ma da un Gre­xi­dent, cioè da un inci­dente che potrebbe arri­vare senza che nes­suno l’abbia vera­mente voluto o pre­pa­rato. Il pre­si­dente del Con­si­glio euro­peo, Donald Tusk, ha escluso ieri sera la con­vo­ca­zione di un ver­tice straor­di­na­rio Ue dome­nica, ma si è detto pronto a con­vo­carlo se neces­sa­rio, come ha chie­sto Tsipras.

Il testo, che dovrebbe ser­vire da base per un pro­lun­ga­mento di quat­tro mesi del piano di aiuti alla Gre­cia, è stato redatto ai mar­gini dell’Eurogruppo, prima che la riu­nione dei 19 mini­stri delle finanze della zona euro si aprisse (con un’ora e mezzo di ritardo). E’ il frutto dei nume­rosi incon­tri bila­te­rali del pome­rig­gio a Bru­xel­les, il più impor­tante dei quali è stato quello tra i due nemici, Wol­fgang Schäu­ble e Yanis Varou­fa­kis, che tutto divide. I due mini­stri si sono visti gra­zie alla media­zione dell’Fmi e di Chri­stine Lagarde, oltre­ché del com­mis­sa­rio Pierre Moscovici.

Per Schäu­ble, che la vigi­lia aveva respinto al mit­tente la let­tera di Varou­fa­kis, giu­di­cata «insuf­fi­ciente», il punto prin­ci­pale «non sono le regole – ha ammesso nell’incontro con il mini­stro por­to­ghese, Maria Luis Albu­ber­que – ma la fidu­cia reci­proca, chi distrugge la fidu­cia distrugge l’Europa». La Ger­ma­nia non ha dige­rito gli attac­chi sul nazi­smo e la richie­sta di ver­sare le ripa­ra­zioni di guerra. Varou­fa­kis, che non cono­sce la diplo­ma­zia, ha affron­tato Schäu­ble dicendo: «Lei non ha il mono­po­lio dell’Europa». Tra i part­ner meno schie­rati con la Ger­ma­nia c’è per­sino il sospetto che Schäu­ble cer­chi di dare una «lezione» a Ita­lia e Fran­cia attra­verso la «puni­zione» della Gre­cia (tro­vando alleati in Spa­gna e Por­to­gallo, dove i governi con­ser­va­tori temono Pode­mos – esi­ste anche una ver­sione por­to­ghese — nel caso di un suc­cesso delle richie­ste di Syriza)? Ha l’appoggio di Jens Weid­mann, pre­si­dente della Bun­den­bank: «La let­tera è com­ple­ta­mente vaga e la comu­ni­ca­zione greca è del tutto diversa a seconda del periodo e dei destinatari».

La gior­nata è stata intensa, con voci incon­trol­late (per­sino quella che Schäu­ble avesse respinto le pro­po­ste gre­che sulla base di un testo falso, che non era la let­tera di Varou­fa­kis). La vigi­lia c’erano state varie tele­fo­nate, Mer­kel e Hol­lande con Tsi­pras (50 minuti per la can­cel­liera tede­sca), Mer­kel con Renzi, ieri Mer­kel era a pranzo all’Eliseo con Hol­lande (ma nell’incontro off con i gior­na­li­sti, l’Eliseo si è rifiu­tato di par­lare della Gre­cia, tanto l’argomento era bol­lente e la divi­sione franco-tedesca forte sulla que­stione). La Com­mis­sione ha cer­cato la media­zione. Per Bru­xel­les, un «accordo è pos­si­bile nel pros­simo futuro se tutti si mostrano ragio­ne­voli». Per la Com­mis­sione ci sono «discus­sioni costrut­tive in corso», anche se, ha pre­ci­sato il por­ta­voce nel pome­rig­gio, «non ci siamo ancora».

Jeroen Dijs­sel­bloem, il pre­si­dente dell’Eurogruppo con cui Varou­fa­kis si è scon­trato dura­mente lunendì scorso, è arri­vato alla riu­nione con­vinto che ci siano «ragioni di essere otti­mi­sti», anche se il nego­ziato è «molto difficile».

Lo scon­tro resta sem­pre lo stesso: la Gre­cia ha fatto molto con­ces­sioni, ha accet­tato l’ «esten­sione» del piano attuale per sei mesi, per avere il tempo di pre­pa­rare un «nuovo con­tratto», per Tsi­pras «è arri­vato il momento di una deci­sione poli­tica sto­rica per l’avvenire dell’Europa», ma per i part­ner difen­sori del risa­na­mento dei conti, Atene deve dare delle «garan­zie». Quelle date finora, a comin­ciare dal rispetto di un bilan­cio in ecce­denza, non sem­brano bastare. E que­ste «garan­zie» erano scritte nero su bianco nel Memo­ran­dum, che Varou­fa­kis non men­ziona nella sua let­tera e sul cui rigetto Syriza ha vinto le ele­zioni. La Gre­cia ha cer­cato un accordo poli­tico, la Ue ha rispo­sto riman­dando agli accordi «tec­nici» e al loro rispetto. Mer­kel ha difatti sot­to­li­neato a Parigi che «c’è un gran numero di que­stioni tec­ni­che da rego­lare». Fra­nçois Hol­lande accetta più di Mer­kel di met­tere la que­stione greca sul piano poli­tico: «Non c’è uno sce­na­rio di uscita della Gre­cia dall’euro» ha ancora ripe­tuto ieri. Anhe la Spa­gna è su que­sta posi­zione: «l’integrità della zona euro è un valore fon­da­men­tale», ha affer­mato il mini­stro Luis De Guindos.

La Ger­ma­nia ha man­dato avanti i suoi alleati di ferro ieri. Il Por­to­gallo ha fatto sapere che rifiuta nuovi pre­stiti alla Gre­cia senza con­di­zioni. Per Maris Lauri, respon­sa­bile delle finanze dell’Estonia, un Gre­xit avrebbe «un debole impatto sull’euro» (lo dicono anche l’agenzia di rating S&P e l’istituto di con­giun­tura tede­sco Ifo). Il mini­stro Janis Reir, della Let­to­nia, ha affer­mato che «atten­diamo docu­menti chiari e com­pren­si­bili dalla Gre­cia». Il primo mini­stro slo­vacco, Robert Fico, non vuole più ver­sare aiuti alla Grecia

UN COMPROMESSO DIGNITOSO
di Pavlos Nerantzis

Alle 7.30 di ieri sera dal Megaro Maxi­mou, sede del governo greco, è arri­vata la buona noti­zia: «Sem­bra ci sia un accordo alla riu­nione dell’Eurogruppo». Il con­te­nuto non era ancora noto, molti i dubbi, — la riu­nione di Bru­xel­les era ancora in corso-, ma la sod­di­sfa­zione era già evidente.

Ale­xis Tsi­pras, intanto, aveva pre­an­nun­ciato poche ore prima che nel caso che le cose sareb­bero andate male, «noi chie­de­remo imme­dia­ta­mente un ver­tice dell’Ue per dome­nica pros­sima». Su que­sto almeno sem­bra che Ber­lino fosse d’ accordo.

Due ore più tardi non era ancora chiaro se Atene insi­steva sul ver­tice e l’attenzione si era spo­stata sul tipo delle riforme che saranno pro­mosse in base all’accordo – a que­sto pro­po­sito fonti gover­na­tive dicono che entro lunedì pros­simo ci sarà una lista -, e sulle misure uni­la­te­rali che il governo greco potrà – o non potrà — appli­care per far fronte alla crisi umanitaria.

Si rea­liz­ze­rano per esem­pio le nuove misure annun­ciate ieri dal vice mini­stro dell’economia, Nadia Vala­vani, che per­met­te­ranno ai cit­ta­dini che hanno accu­mu­lato debiti verso lo stato di poter rego­la­riz­zare la loro posi­zione ricor­rendo sino a cento rate men­sili? Oppure saranno blo­catte dai cre­di­tori inter­na­zio­nali? «Nel momento in cui non aggra­vano il bilan­cio dello stato, la rispo­sta è posi­tiva» affer­mano i mini­stri di Syriza, senza aspet­tare i det­ta­gli dell’ accordo all’Eurogruppo.

Intanto cre­sce il dibat­tito sull’arroganza dimo­strata dalla Ger­ma­nia: «Noi abbiamo fatto tutto quello che era pos­si­bile… Biso­gna che cia­scuno si prenda le pro­prie respon­sa­bi­lità», aveva com­men­tato poche ore prima della riu­nione dell’Eurogruppo il vice-premier greco, Yanis Dra­ga­sa­kis, respon­sa­bile della poli­tica eco­no­mica del nuovo esecutivo.

Atene di fronte all’ultimatum dei suoi part­ner e al peri­colo di un tra­collo finan­zia­rio – le ultime set­ti­mane sono state cri­ti­che per l’economia — ha voluto fare un passo indie­tro per otte­nere un com­pro­messo «digni­toso». Il governo «ha get­tato acqua nel suo vino», come si dice in Gre­cia quando qual­cuno fa un com­pro­messo. Si è reso conto che Ber­lino lo tra­sci­nava in un nego­ziato senza fine con l’obiettivo di inde­bo­lire il suo potere con­trat­tuale. Più si avvi­ci­nava il 28 feb­braio, più la posi­zione di Atene si sarebbe inde­bo­lita. Ecco per­ché Tsi­pras ha deciso di chiu­dere a tutti i costi il nego­ziato nella riu­nione di ieri. Il mini­stro delle Finanze greco aveva chie­sto un emen­da­mento dell’attuale pro­gramma, poi, invece, ha pro­po­sto un’estensione di sei mesi. Del pro­gramma nella sua tota­lità, come vor­reb­bero Ber­lino e altri part­ner euro­pei? No di certo. Varou­fa­kis ha chie­sto l’estensione del Master Finan­cial Assi­stance Faci­lity Agree­ment, il ter­mine legale con cui viene defi­nito l’attuale pro­gramma eco­no­mico, il memo­ran­dum, che scade il 28 feb­braio, senza asso­ciarlo alle misure spe­ci­fi­che di auste­rity. A sca­dere è l’accordo di finan­zia­mento, non le con­di­zioni ad esso asso­ciate, fanno notare fonti di Bru­xel­les. Non si tratta quindi come è stato scritto di una guerra di parole, è una que­stione di sostanza.

Atene, inol­tre, aveva chie­sto un forte hair-cut del debito pub­blico, per­ché inso­ste­ni­bile (180% del Pil), il dimez­za­mento dell’obiettivo dell’ avanzo pri­ma­rio (dal 4% al 1,5% per il 2015) in modo da «otte­nere un po’ di soldi» e far fronte alla crisi uma­ni­ta­ria, la sosti­tu­zione del dia­logo tra i rap­pre­sen­tanti della troika (Fmi, Ue, Bce) e i mini­stri greci con una super­vi­sione poli­tica, ovvero con un dia­logo tra il governo e le isti­tu­zioni europee.

Nella sua let­tera all’Eurogruppo Varou­fa­kis lascia da parte per ora la richie­sta di ridurre il debito, dice sem­pli­ce­mente che dovrà essere soste­ni­bile, parla in modo gene­rico della neces­sità di ridurre l’obiettivo dell’avanzo pri­ma­rio, accet­te­rebbe il moni­to­rag­gio delle isti­tu­zioni inter­na­zio­nali, pro­mette di pun­tare al risa­na­mento del bilan­cio, mette l’accento sulla lotta all’evasione fiscale, pro­mette di non pren­dere misure unilaterali.

«Un segnale posi­tivo» in vista di «un com­pro­messo ragio­ne­vole» ha defi­nito la richie­sta greca il pre­si­dente della Com­mis­sione Jean-Claude Junc­ker. Stesso soste­gno indi­retto anche da Roma e da Parigi. Quello forse che non è noto è il fatto che la let­tera con la richie­sta di Atene era il frutto di una stret­tis­sima col­la­bo­ra­zione tra la Com­mis­sione euro­pea e il governo di Syriza in vista della riu­nione deci­siva. Sem­bra quindi che da parte dei cre­di­tori inter­na­zio­nali c’è la volontà di essere fles­si­bili, di dare tempo e spa­zio ad Atene e il suo neo-governo di orga­niz­zare il suo piano di risanamento.

Ber­lino e lo schie­ra­mento degli «irri­du­ci­bili», invece, cia­scuno per motivi diversi, sono stati cate­go­rici die­tro al nein tede­sco. Temono l’eventualità di un con­ta­gio delle idee “sov­ver­sive” gre­che per i paesi che hanno subito l’austerity. Ber­lino vor­rebbe schiac­ciare Atene. Se ci riu­scirà si vedrà pre­sto, dal con­te­nuto dell’accordo

Il manifesto, 20 febbraio 2015

Le isti­tu­zioni inter­na­zio­nali (Ocse, Fmi, Com­mis­sione euro­pea) sono col­pite da un virus peri­co­loso. Le rile­va­zioni sta­ti­sti­che su cre­scita, occu­pa­zione e mer­cato del lavoro sono dram­ma­ti­che, ma ven­gono pre­sen­tate, con gli stessi dati, come fos­sero l’oro di re Mida. Lo sce­na­rio è quello di sem­pre: ridu­zione del valore dell’euro e del prezzo del petro­lio, Quan­ti­ta­tive easing della Bce e riforme del mer­cato del lavoro favo­ri­scono la cre­scita. Restando alle pre­vi­sioni per l’Italia, il respon­sa­bile Ocse Gur­ria si è spinto a soste­nere che il Jobs Act può essere il motore del cam­bia­mento, men­tre i dati su cre­scita e occu­pa­zione di Ocse e Istat sono peg­giori delle pre­vi­sioni della Com­mis­sione euro­pea e della Legge di Sta­bi­lità di Padoan e Renzi. Serve un psi­co­logo, non un economista.

Lo sce­na­rio di cre­scita deli­neato è pes­simo. Non solo il 2014 è andato peg­gio delle stime ini­ziali, ma le pre­vi­sioni per il 2015 sono ancor più basse di quelle della Com­mis­sione euro­pea. L’Ocse pre­vede una cre­scita dello 0,4%, con­tro uno sce­na­rio “posi­tivo” di governo e Com­mis­sione euro­pea dello 0,6%. La sta­ti­stica con­se­gna un qua­dro dram­ma­tico del Paese, ciò nono­stante Gur­ria sostiene che il governo Renzi «ha scelto chia­ra­mente un team effi­cace… nel 2014 si sono fatti grandi passi in avanti sulle riforme» (Gur­ria, Ocse). Non solo. Le pre­vi­sioni potreb­bero andare meglio appena le libe­ra­liz­za­zioni e pri­va­tiz­za­zioni e, ovvia­mente, il Jobs Act, entre­ranno a regime. Com­ples­si­va­mente una cre­scita aggiun­tiva di 3,2 punti di Pil: 2,6 dalle libe­ra­liz­za­zioni e 0,6 punti dal Jobs Act.

Con­tem­po­ra­nea­mente l’Istat pre­senta i dati su disa­gio sociale e lavoro: il 23,4% delle fami­glie ita­liane vive in una situa­zione di disa­gio eco­no­mico, per un totale di 14,6 milioni di indi­vi­dui, men­tre il 12,4% dei nuclei si trova in grave dif­fi­coltà. Il lavoro? In Ita­lia lavo­rano meno di 6 per­sone su 10, cioè peg­gio di Gre­cia, Croa­zia e Spa­gna, con 2,5 mln di gio­vani che non lavo­rano e non stu­diano. Come per il tasso di occu­pa­zione, solo la Gre­cia ha fatto peg­gio dell’Italia.

Nono­stante il Jobs Act, l’Ocse sostiene la neces­sità di ulte­riori riforme del mer­cato del lavoro (la schia­vitù?). Serve vera­mente uno psi­co­logo da quelle parti.

Pren­dendo i dati dell’Ocse rela­tivi alla legi­sla­zione a pro­te­zione del lavoro (Epl), sco­priamo che dal 1990 al 2013 tutti i paesi hanno con­tratto le tutele a favore del lavoro. La Ger­ma­nia com­prime le tutele da 2,9 del 1990 a 2,0 del 2013, men­tre l’Italia passa da 3,8 del 1990 a 2,3 del 2013. Sostan­zial­mente l’Italia non regi­stra mag­giore o minori livelli di tutela del lavoro rispetto ad altri paesi. Solo la Fran­cia raf­forza la sua posi­zione pas­sando da 2,7 del 1990 a 3 del 2013. Inol­tre, que­sto indi­ca­tore è al netto del Jobs Act.

Una stima di que­sto indice dopo l’introduzione del Jobs Act farebbe pre­ci­pi­tare l’Italia al livello dei paesi emer­genti, con tutte le impli­ca­zioni di poli­tica indu­striale. Un altro e non banale aspetto è legato alla velo­cità dell’Italia nel ridurre le tutele del lavoro. Al netto della Fran­cia che ha alzato il livello delle pro­prie tutele tra il 1990 e il 2013 dell’11,1% (varia­zione 1990–2013), tutti i paesi con­si­de­rati hanno ridotto il pro­prio indice, ma l’Italia ha regi­strato un tasso di ridu­zione del 39,5%. Solo Spa­gna e Gre­cia hanno fatto peg­gio.

Ma il dibat­tito gior­na­li­stico e poli­tico non ama con­fron­tarsi su que­sti dati nasconde que­ste infor­ma­zioni. C’è qual­cosa che inquina la discus­sione poli­tica ed economica.

Spesso si discute a spro­po­sito della pro­dut­ti­vità del lavoro, ma quanti sanno che la pro­dut­ti­vità del capi­tale ita­liano tra il 1992 e il 2012 (Istat, dicem­bre 2013) è una fra­zione della pro­dut­ti­vità del lavoro? Qual­cuno deve pur rac­con­tare che nel periodo con­si­de­rato la pro­dut­ti­vità del capi­tale è stata nega­tiva dello 0,7 men­tre quella del lavoro è stata posi­tiva dello 0,8. Il pro­blema non è se siamo usciti dalla crisi tec­nica, arre­sto dell’arretramento del Pil, piut­to­sto se l’Italia è uscita dalla crisi di struttura.

L’Istat ricorda che la minore cre­scita del 2014 è inte­ra­mente attri­bui­bile alla dimi­nu­zione del valore aggiunto di agri­col­tura e indu­stria, solo in parte com­pen­sato da quello dei ser­vizi. Ma que­sto tipo di con­si­de­ra­zioni non pos­sono rac­con­tare cosa si cela die­tro la crisi ita­liana. Riforme o non riforme, l’Italia tra il 1996 e il 2014 è cre­scita meno della media euro­pea di ben 19 punti di Pil, con una ulte­riore aggra­vante: inve­stiva in media più degli altri paesi e, crisi dopo crisi, aumen­tava il gap annuale di minore cre­scita del Pil rispetto alla media euro­pea. Siamo pas­sati da meno 0,5 punti del 2000 a meno 1,8 punti del 2014. Se poi pen­siamo alla con­tra­zione della pro­du­zione di beni stru­men­tali, la peg­giore tra i paesi euro­pei, pos­siamo com­pren­dere come l’Italia abbia com­pro­messo quel vasto patri­mo­nio di cono­scenze che poteva con­tri­buire all’uscita della crisi di strut­tura. Forse siamo usciti dalla reces­sione, ma aspet­tiamo ben altri segnali. Rela­ti­va­mente alla crisi di strut­tura dob­biamo lavo­rare ancora molto.

«Che fare? O spostiamo l’isola o ci prendiamo la responsabilità di essere uno scoglio nel Mediterraneo». Cartolina da una tragedia senza fine, che il Primo mondo provocato e alimenta con gli affari dei furbi, i rifiuti dei razzisti e i silenzi degli ignavi. Comune.info, 20 febbraio 2015

A Lampedusa oggi c’è il sole.

I morti in mare non ci stanno, i turisti si fanno il giro in barca e io con un mucchietto di persone me ne vado in giro ad intervistare gli abitanti dell’isola per capire come funziona la vita su questo scoglio a un passo dall’Africa.

Ci racconta Veronica, che ha lavorato nel centro di accoglienza e ha “fatto degli incontri che sono rimasti impressi nella mia mente, ma non capivo cosa stava accadendo intorno a me, ma il personale era sempre quello. Sempre sei o sette persone eravamo a gestire tutto quanto… un centro che era per 180 posti doveva bastare per 1000. Chi faceva la fila per la colazione, doveva iniziare quella per il pranzo e poi doveva mettersi in fila per la polizia. Faceva la fila per mangiare, fila per il dottore e fila per la polizia.

Qui vediamo l’aspetto più tragico. Vedere arrivare una barca strapiena di persone che appena scendono… svengono, non è una situazione bella. E loro nemmeno parlano e dagli occhi capisci di cosa hanno bisogno. Di vestiti asciutti, di qualcosa di caldo da bere. Non c’è bisogno di parole per raccontare la propria esperienza.

Rischiano di morire, eppure qui sono solo all’inizio… chissà dove arriveranno. Ma per loro essere a Lampedusa significava essere salvi. Tutto il giorno dicevano: grazie Lampedusa!”

Il prete di Lampedusa, don Mimmo, ci dice “che dobbiamo fare? O spostiamo l’isola o ci prendiamo la responsabilità di essere uno scoglio in mezzo al Mediterraneo”.

Quelli che scappano coi barconi non cercano soldi o lavoro, ma solo una maniera qualunque per non morire. Sappiamo che scapperebbero anche se mandassimo le motovedette a sparargli addosso. Vengono via da una morte sicura e si buttano in braccio a una vita incerta.

Lampedusa non può essere un confine o una periferia, ma un’opportunità per un occidente che è stato per troppo tempo imperialista e violento e che può diventare una porta aperta attraverso la quale far passare esseri umani che cercano di salvarsi la vita.

Quanto ci costa questo pezzetto di umanità riconquistata?

Il manifesto, 20 febbraio 2015

Riunione decisiva. La lettera di Varoufakis fa molte concessioni ma irrita la Germania e gli ortodossi: fa riferimento all'accordo-quadro tra Grecia e Fesf, ma ignora il Memorandum. Lunedi' 16 è stato sfiorato lo scontro fisico da il ministro delle finanze greco e il presidente dell'Eurogruppo, Dijesselbloem. La Grecia è isolata, puo' contare solo sulla mediazione di Commissione, Italia e Francia. Ma, come Renzi, Valls ha fatto passare di forza la legge Macron, liberalizzazioni a vasto raggio come obolo a Bruxelles per evitare la "sanzione" a marzo.

Gli schie­ra­menti sono in posi­zione di bat­ta­glia, in vista dell’Eurogruppo “deci­sivo” di oggi. Sul tavolo dei part­ner della zona euro, c’è la let­tera di Yanis Varou­fa­kis, che accetta l’ “esten­sione” del piano, ma la pre­senta in una forma di inge­gne­ria lin­gui­stica che ieri sera ancora aveva susci­tato un chiaro “nein” del governo tede­sco (anche se, qual­che fis­sura è apparsa a Ber­lino, con Sig­mar Gabriel, vice-cancelliere Spd, che afferma: “ripren­diamo imme­dia­ta­mente la discus­sione con la Gre­cia”). Varou­fa­kis cita il piano con l’acronimo inglese, Mfafa, accetta anche l’articolo 10–1, che ammette “con­trolli” da parte dei cre­di­tori, che ormai non si chia­mano più “tro­jka” – parola invisa, non solo ai greci – ma “isti­tu­zioni” o “trio” (sono sem­pre Bce, Ue e Fmi). Per la Com­mis­sione è “un segnale posi­tivo”, che “apre la strada al com­pro­messo”. Lunedi’ 16, l’Eurogruppo straor­di­na­rio è finito quasi con uno scon­tro fisico, tra l’imponente Varou­fa­kis, ormai para­go­nato a Bruce Wil­lis, e Joe­ren Dijs­sel­bloem, il pre­si­dente dell’Eurogruppo (olan­dese, social-democratico), con Wol­fgand Schäu­ble che schiu­mava ner­vo­si­smo e che pale­se­mente non vuole più ritro­varsi nella stessa stanza con il suo col­lega greco delle finanze. Il malin­teso, su cui insi­ste l’ala rigo­ri­sta del governo tede­sco gui­data da Schäu­ble, è che il Mfafa è l’accordo-quadro di assi­stenza finan­zia­ria e che la Gre­cia vuole limi­tare l’impegno a que­sto aspetto, men­tre la Ger­ma­nia e Bru­xel­les quando si rife­ri­scono agli “impe­gni” presi da Atene pen­sano al Memo­ran­dum in tutti i suoi det­ta­gli.

La let­tera di Varou­fa­kis va comun­que al di là del com­pro­messo pro­po­sto dal com­mis­sa­rio Pierre Mosco­vici lunedi’, testo poi sosti­tuito con una presa di posi­zione più dura da Dijs­sel­bloem, che ha esa­spe­rato Varou­fa­kis e ha rischiato di finire in rissa, anche fisica, quando il mini­stro greco ha urlato un fac­cio all’olandese “bugiardo, bugiardo”, mostrando il pugno e scon­vol­gendo la prassi ovat­tata delle riu­nioni dei 19 mini­stri delle finanze della zona euro.

“Pren­dere o lasciare” ha fatto sapere il governo greco a Bru­xel­les alla vigi­lia dell’Eurogruppo dell’ultima chance. Per Varou­fa­kis oggi “si vedrà chi vuole una solu­zione e chi no”. La Ger­ma­nia arriva forte del suo schie­ra­mento dei rigo­ri­sti: al suo fianco schiera la Slo­vac­chia, i Bal­tici, la Fin­lan­dia, l’Olanda, la Slo­ve­nia e Spa­gna, Por­to­gallo e Irlanda, paesi che hanno subito la mano di ferro della tro­jka e i cui governi ora temono la rivolta degli elet­tori sul modello greco. Tsi­pras puo’ con­tare solo su uno sguardo non troppo arci­gno della Com­mis­sione Junc­ker, che ha pro­messo all’insediamento nel novem­bre scorso di rilan­ciare l’economia (con il pro­gramma ancora fan­ta­sma dei 315 miliardi).

Fran­cia e Ita­lia fanno la parte dei media­tori, ma Mat­teo Renzi con il Jobs Act e Fra­nçois Hol­lande con la legge Macron, hanno ormai pie­gato la testa, con l’obiettivo di evi­tare la “san­zione” Ue – cioè una multa salata – a marzo, per non rispetto degli impe­gni di riforma. Ieri, il primo mini­stro fran­cese, Manuel Valls, ha affer­mato che “la Fran­cia farà di tutto per­ché la Gre­cia resti nell’euro”. Lo ha detto di fronte a un’Assemblea infuo­cata, al momento del voto della “cen­sura” al suo governo, pre­sen­tata, senza spe­ranze di vit­to­ria, dalla destra Ump e Udi dopo che l’esecutivo aveva deciso di far pas­sare con la forza, ricor­rendo al 49–3 (una fidu­cia rove­sciata), la legge Macron, che rischiava una boc­cia­tura al par­la­mento. La legge Macron è un’accozzaglia di circa 300 arti­coli, che vanno dalla libe­ra­liz­za­zione del tra­sporto su auto­bus a delle pic­cole limi­ta­zioni per cor­po­ra­zioni potenti come quella dei notai, ma soprat­tutto lega­lizza il lavoro la dome­nica e riduce ancora il diritto del lavoro ren­dendo più facili i licen­zia­menti. La sini­stra del Ps, la cosid­detta “fronda”, si sarebbe aste­nuta e alcuni avreb­bero votato con­tro: la legge sarebbe pas­sata con il voto del centro-destra, cosa che Valls ha voluto evi­tare. Al prezzo, pero’ di lasciare un campo di rovine a sini­stra: Ps diviso, mag­gio­ranza ine­si­stente, men­tre alcuni del Front de gau­che hanno accet­tato di votare la cen­sura assieme non solo all’Ump di Sar­kozy ma anche ai tre depu­tati del Fronte nazionale.

E’ con que­sti alleati pusil­la­nimi che Varou­fa­kis che oggi si pre­senta al ver­detto dell’Eurogruppo, con impor­tanti con­ces­sioni, come il man­te­ni­mento dell’equilibrio di bilan­cio, l’accettazione della “super­vi­sione” delle “isti­tu­zioni” e la pro­messa di non pren­dere deci­sioni “uni­la­te­rali”. In Ger­ma­nia, il fronte intran­si­gente ha la ten­ta­zione di schiac­ciare Atene con una scon­fitta senza con­di­zioni (a Ber­lino, come in Fin­lan­dia, Olanda e Austria, c’è il ricatto che anche l’ “esten­sione” di sei mesi del piano greco deve essere appro­vata dal par­la­mento e il voto è a rischio). Per l’Ifo (Isti­tuto di con­giuntura tede­sco) e per l’agenzia di rating S&P un Gre­xit “dolce” (soste­nuto anche da Valéry Giscard d’Estaing) sarebbe indo­lore per la Germania.

Il manifesto, 19 febbraio 2015
L'APPELLO DEGLI EUROPEI Intellettuali:
SULLA GRECIA L'UE CAMBI ROTTA

La richiesta Dell'Unione Europea alla Grecia di proseguire con le catastrofiche Politiche di austerità degli Ultimi cinque anni, E UNO schiaffo alla democrazia e ai di sani criteri Economici.

Il popolo greco Attraverso Elezioni Democratiche ha rifiutato QUESTE azioni, Che Hanno Portato alla Contrazione del 26% della propria economia, al 27% del Tasso di disoccupazione e Hanno Portato il 40% della popolazione a vivere Sulla Soglia di Povertà.

Continuare con l'austerità significa tradire la Ue e tradire i Principi di Democrazia, Prosperità e solidarietà. Il Rischio E Che l'austerità finisca per osare un fiato Forze antidemocratiche tanto in Grecia, in Quanto ALTRI PAESI.

Chiediamo alla dirigenza Europea di da rispettare la decisione del popolo greco e di concedere al nuovo Governo il tempo per rimediare alla Crisi Umanitaria e Ripartire con la Necessaria Ricostruzione della devastata economia nazionale.

Costas Douzinas, Jacqueline Rose, Giorgio Agamben, Slavoj Zizek, Lynne Segal, Gayatri Spivak, Etienne Balibar, Judith Butler, Jean-Luc Nancy, Chantal Mouffe, David Harvey, Eric Fassin, Joanna Bourke, Immanuel Wallerstein, Wendy Brown, Sandro Mezzadra, Marina Warner, Drucilla Cornel


G recia, LA MANO TESA DI DRAGHI
di Antonio Sciotto

SEMBRA Che il signal di via libera alla possibilita dell'accordo this volta non Sia Venuto da Bruxelles, ma Direttamente dall'Eurotower di Francoforte: ieri il presidente Mario Draghi ha superato le contrarietà dei paesi Più rigoristi, un dalla Partire Germania, e ha DECISO di concedere altro credito alla Grecia: per Altre dovuto Settimane, elevando il tetto del Programma Ela da 65 a 68,3 miliardi, ma Sono soldi preziosi. Ed e Prezioso also IL MESSAGGIO rivolto all'Europa.

Sì Perché this decisione di Draghi E arrivata nel Momento di Massima Tensione all'interno della trattativa, tuttora aperta, Tra Atene e Bruxelles: sempre ieri il ministro dell'Economia grsco, Yanis Varoufakis, AVEVA Confermato di protagonista Preparando Una lettera di richiesta di Altri sei mesi di Finanziamento da parte della Ue, testo Che però dovrebbe escludere la sottomissione alle rigide direttive della troika.

Sulla linea, per Capirci, del documento Moscovici, Quello sostituito All'ultimo Momento da Uno Più duro, scritto dal presidente dell'Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, e il Che AVEVA: determinato lunedì scorso la rottura. La Proposta del commissario francese, more morbida, era Sicuramente piaciuta Di Più Ai Greci, e Sara proprio su Quella linea Che Atene chiedera alle Cancellerie Europee, Oltre Che alla Commissione, di venirle incontro.

L'incontro decisivo, per discutere delle Richieste greche e delle controproposte di Bruxelles, potrebbe Essere Già Quello di Oggi: tutto dipenderà da venire verranno scritti i Documenti, da entrambe le parti, per arrivare a Una possibile sintesi: da parte greca si punta un osare l'impressione (Soprattutto all'opinione pubblica interna) Che Non Si e Tornati annuncio Accettare diktat rigidi venire Quelli della troika, ma da parte Europea si dovra dimostrare Che Non Si e ceduto troppo: Altrimenti non potrebbe arrivare un ok Dalla Germania. Paese che, vieni si sa bene, conta eccome.

Intanto ieri Berlino ha una Tenuto sottolineare le proprie POSIZIONI: un'estensione degli Aiuti alla Grecia e «inscindibile» dall'impegno a completare le Riforme, ah Detto il Portavoce del Ministero delle Finanze tedesco, Martin Jaeger. Ribadendo Quanto Detto NEGLI Ultimi giorni dall'inflessibile Wolfgang Schaeuble.

Ma il monito Più rilevante è arrivato da Washington: il Segretario al Tesoro Usa Jacob Lew ha chiesto alla Grecia di trovare velocemente un «percorso Costruttivo» per un Accordo con l'Europa e l'Fmi. Secondo quanto riportano i greci dei media, Lew a Una Telefonata con Varoufakis ha espresso le preoccupazioni citare in giudizio per l'attuale fase di stallo, il Che crea incertezze all'Europa. In mancanza di un Accordo, ha Detto il Segretario al tesoro statunitense, la Grecia si troverebbe ad affrontare Difficoltà immediato. Lew ha also said un Varoufakis Che incoraggerà i creditori della Grecia un internacionales trovare Accordo delle Nazioni Unite.

Varoufakis A Sua volta ha dichiarato Che il monito Non E rivolto solista alla Grecia, ma also alla Ue: «Il Segretario del Tesoro Usa mi ha effettivamente said Che un Mancato Accordo danneggerebbe la Grecia», ma «ha aggiunto Che danneggerebbe also l'Europa . Un Avvertimento una entrambe le parti », ha scritto il ministro ellenico in un Tweet.

Subito, una ruota, ë arrivata quindi Una Dichiarazione di Angela Merkel. Che se PUÒ Essere considerata venire un'apertura alla Grecia, Una Conferma Che dall'azione di Draghi in poi Si e imboccata la via per un'intesa, dall'altro lato Precisa Che Non Tutto è concesso: «Se ALCUNI Paesi Sono in difficolta , Allora Daremo Loro la nostra solidarietà - ha said la cancelliera un un congresso del Suo Partito - Ma la solidarietà non e Una strada a senso unico. Piuttosto, Con gli Sforzi dei paesi, e Una Faccia della STESSA medaglia e sara sempre Così ».

Infine da segnalare E un inatteso appoggio pro-Grecia del Bild, il settimanale Più letto in Germania, in mano all'editore Conservatore Axel Springer, sostenitore di Merkel: «Cara Grecia - Scrive in un editoriale - se perdiamo te, non se ne Vanno in fumo assolo I nostri miliardi di euro, ma also Il Nostro cuore. Il greco si parla da 4.000 anni. Dobbiamo Salvare la Grecia: se Salviamo la Grecia Salviamo noi Stessi. Che cosa sono i miliardi Contro Omero, Aristotele, Socrate? La Grecia vale Piu di Tutti i miliardi ».

L '"EUROPA REALE" È IL NUOVO COLOSSO
DAI PIEDI D'ARGILLA
di Roberto Musacchio

Vieni Si Può motivare infatti, con Qualche ragionevolezza, l'idea di arrivare at a possibile rottura con un Paese chiave del Mediterraneo, la Grecia, in Piena Crisi Libica, ndr ucrainica? Appunto Una follia.

E vieni Si Può Rispondere, sempre con Qualche ragionevolezza, alla Constatazione Evidente in sé del Fallimento delle Politiche di austerità in Grecia ma in generale in Europa? In Realtà non PUÒ lo si.

Per this le Strutture dell '"Europa reale", ei Poteri Forti, Nazionali e sovranazionali, Che le sostengono si trincerano Dietro Uno status quo Che sarebbe immodificabile pena il crollo del Sistema.

Uso this verbo, trincerarsi, volutamente. Lo mutuo da Collindrige Che lo uso per criticare le tecnologie Che Sono pensate in modo da risultare irreversibili, Anche di fronte a evidenti Segni di Fallimento. Erano I Tempi del Dibattito sul nucleare. Allora E Prendo a prestito un Termine Dalla fisica, «entropia», per dire Che l'attuale Sistema Europeo di posta Insieme Produttore di caos, entropico, e di rigidità, si Trincera. E 'cioè un Sistema Che assomma i Difetti dei grandi sistemi di Usa e Cina eliminandone i "pregi".

La realtà Ê Che la costruzione della Governance della austerità ha Portato un iperfetazione un Sistema Che VIENE da lontano e il Che ha Portato l'Europa alla attuale Condizione. E 'il modello funzionalistico e intergovernamentale, Quello di Monnet, Che Fino ad Un certo punto ha Avuto il Contrappeso delle FUNZIONI Democratiche statuali e del modello sociale progressivo Ma che poi degenera e fa degenerare il Sistema. Cio avviene Già con l'ingresso della moneta unica, cui non si accompagna Una forma di democrazia Europea, Che VIENE invece soppiantata Dalle Strutture tecnocratiche.

Il tutto si strutturalizza Ancora Di Più con la austerità. Nel minerale QUESTE E squadernato tutto il campionario di assurdità Messo in campo con i vari six pack, bicomponente e fiscal compact. Si e COSTRUITO un mostro istituzionale e Giuridico Che Rende Il Sistema strutturalmente impermeabile Sia alla democrazia Che Agli imput della Realtà. Per Di Più ci Si e mossi sommando il Metodo comunitario, con cui si Sono Fatte le direttive, e Quello intergovernativo, con cui Si e varato il fiscal compact. Con in piu l'eurogruppo Che in materia di austerità funziona Più Come un Consiglio di Amministrazione, Pesando le quote Finanziarie immesse, Che vengono Istituzione Una. Si aggiunga al quadro l'egemonismo della Merkel ei biechi Interessi di ALCUNI Paesi Prossimi annuncio Elezioni, venire la Spagna, per Capire Che l'Azione di Tsipras sta scoperchiando il verminaio.

Un verminaio Che ha inquinato i pozzi della democrazia. Non essendosi costruita Una democrazia Europea, Rolling chi Chiede il RISPETTO del Mandato popolare greco si Risponde, irresponsabilmente, Che C'è il Mandato elettorale tedesco. Lavorando Così, venire fa da tempo this sciagurata classe dirigente Europea, un separare i popoli invece Che ad unirli. Una classe dirigente sciagurata Che in Realta E tenuta in vita da solista dal Compito assegnatole e cioè Quello di favorire il passaggio DELL'EUROPA nell'ambito del Sistema della Globalizzazione capitalistica Finanziaria. Un Costo di distruggerla.

Perciò le Proposte di Tsipras Sono dirompenti e un Accordo Che ne recepisse il senso di marcia sarebbe straordinariamente Importante. E Evidente Che Al di là della Questione delle Cifre Le cose in gioco Sono il modello sociale e La Questione Democratica.

Uscire da Troika e memorandum, le Strutture incardinazione Dalla gestione della austerità per Essere Rese Permanenti, significa APRIRE la grande Questione di un altro modello sociale e di democrazia Una vera. Tsipras ha Avuto la Capacità di Portare lo scontro al Livello colomba Esso si pone e cioè Quello Europeo. E la mobilitazione popolare Che lo sta sostenendo in Tutta Europa dadi Che una this debiti formativi cominciano ad arrivare Anche i Cittadini Europei. Si apre cioè l'unica strada possibile e cioè Quella Di Una Europa Democratica e federale. Ma, per venire Tutte le rivoluzioni, la lotta dura E

Ciò che è realmente in ballo nella trattativa in corso a Bruxelles sul debito della Grecia non sono i soldi, ma chi vincerà nello scontro tra chi vuole un'altra Europa e chi accetta la sottomissione alla Deutche Strasse. Da che parte sta l'Italia?Il manifesto, 18 febbraio 2015

È un dop­pio pres­sing quello con cui deve fare i conti Ale­xis Tsi­pras, alle prese sia con l’ultimatum dei part­ner euro­pei, che gli stanno impo­nendo l’estensione dell’attuale pro­gramma di risa­na­mento, sia con gli avver­sari interni a Syriza, che non sono d’accordo con un even­tuale com­pro­messo con il resto dell’Ue.

Il governo greco mira a una solu­zione van­tag­giosa per tutte le parti, ma a parte il movi­mento di soli­da­rietà che si è espresso nelle piazze del mondo, in seno dell’ Euro­gruppo il suo mini­stro delle Finanze è rima­sto solo con­tro i «18». Nono­stante alcuni, come l’Italia e la Fran­cia, sareb­bero pronti a dare una mano. Yanis Varou­fa­kis è rima­sto solo non per­ché sprov­vi­sto di una pro­po­sta ben arti­co­lata da pre­sen­tare ai suoi col­le­ghi, come hanno scritto alcuni opi­nion makers, bensì per il fatto che ha messo in evi­denza le poli­ti­che cata­stro­fi­che dell’austerity e il modo di fun­zio­nare delle isti­tu­zioni euro­pee (Com­mis­sione, Euro­gruppo, Bce) che fanno il gioco dei mer­cati e del paese eco­no­mi­ca­mente piú forte, la Ger­ma­nia, con­tro i prin­cipi fon­da­tivi dell’Unione europea.

Atene è rima­sta sola per­ché Ber­lino ha rischiato di essere messa con le spalle al muro. Il gioco delle parole — l’estensione del pro­gramma attuale, come vogliono Bru­xel­les e Ber­lino, o l’«emendamento» a cui punta Atene — in realtà rispec­chia uno scon­tro ideo­lo­gico. Ed è quello che ha fatto fal­lire la riu­nione dell’Eurogruppo.

La Ger­ma­nia ha deciso di mostrare i denti alla Gre­cia non solo per­ché la sod­di­sfa­zione di una parte delle richie­ste elle­ni­che potrebbe «sti­mo­lare l’appetito» di altri paesi euro­pei inten­zio­nati a per­se­guire una poli­tica anti-austerity. Né per­ché si sono con­fron­tati due prin­cipi etici diversi: il primo basato su un razio­na­li­smo rigido secondo il quale «i debiti comun­que vanno pagati»; l’altro basato sulla soli­da­rietà, che rifiuta lo stran­go­la­mento eco­no­mico di chi si trova in con­di­zione di biso­gno. Ber­lino ha cer­cato di scre­di­tare la poli­tica del nuovo governo greco per­ché una solu­zione a favore di Tsi­pras potrebbe met­tere in dub­bio la ger­ma­niz­za­zione del vec­chio con­ti­nente e apri­rebbe uno spi­ra­glio a una rifon­da­zione su basi diverse dell’Ue e delle sue isti­tu­zioni. Un’Europa rin­no­vata, dove saranno i popoli a decidere.

Non dimen­ti­chiamo che Ale­xis Tsi­pras è il primo lea­der euro­peo di sini­stra — dopo il cipriota Dimi­tris Chri­sto­fias, lea­der di Akel — che pro­pone un modello diverso di Europa. Syriza, la sini­stra radi­cale greca, nell’arco di poche set­ti­mane è riu­scita da una parte a riu­ni­fi­care la mag­gio­ranza dei cit­ta­dini, resti­tuendo loro spe­ranza e un pezzo della dignità che il memo­ran­dum gli aveva strap­pato, e dall’altra a mobi­li­tare le piazze euro­pee «per un’altra Europa».

Non a caso, nel momento in cui il mini­stro delle Finanze greco espri­meva la sua dispo­ni­bi­lità a fir­mare il comu­ni­cato finale dell’Eurogruppo che gli ha pre­sen­tato in forma di bozza il com­mis­sa­rio agli Affari eco­no­mici Pierre Mosco­vici — dove si parla di un piano inter­me­dio, non di una sem­plice esten­sione — è inter­ve­nuto il mini­stro delle finanze tede­sco per stop­pare il ten­ta­tivo di com­pro­messo fran­cese. «Il neo governo greco è irre­spon­sa­bile» ha sot­to­li­neato Wol­fgang Schau­ble poche ore prima della riu­nione dell’Eurogruppo. Che equi­vale a dire ai part­ner euro­pei: «Non date fidu­cia ai greci, cer­cano di fregarvi».

Ora tocca alla Bce, che ha il potere asso­luto sulla poli­tica mone­ta­ria dell’Ue e che sfugge a qual­siasi con­trollo poli­tico, sta­bi­lire oggi se biso­gna chiu­dere i rubi­netti del finan­zia­mento di emer­genza (Ela) che tiene in piedi le ban­che gre­che. A sen­tire i soliti media che non si stan­cano ogni giorno di ripro­porre gli sce­nari apo­ca­lit­tici del «Gre­xit», se entro venerdì non si rag­giun­gerà un accordo tra Euro­gruppo e governo elle­nico, la Bce non potrà che fer­mare il finan­zia­mento degli isti­tuti di cre­dito greci. Diverso, invece, sem­bra che sia per il momento il parere di Mario Draghi.

Ale­xis Tsi­pras sarebbe pronto a un com­pro­messo, ma senza ricatti: «Il memo­ran­dum ha pro­vo­cato una crisi uma­ni­ta­ria e l’ eco­no­mia si trova in una via senza uscita. Il suo annul­la­mento è l’ unica scelta det­tata non solo dal risul­tato elet­to­rale, ma dalla logica» ha affer­mato ieri il por­ta­voce del governo, rispon­dendo così anche a chi fa notare che entro venerdì il governo greco deve deci­dere se essere o meno abban­do­nato a se stesso. Otti­mi­sta su un accordo — «nei pros­simi due giorni, per­ché non vogliamo arri­vare a un punto morto» — si è detto anche il mini­stro Varoufakis.

E ieri sera fonti del goveno con­fer­ma­vano la noti­zia giunta da Bru­xel­les: Atene chie­derà l’estensione di 6 mesi non del memo­ran­dum, ma del «con­tratto di pre­stito» con i cre­di­tori inter­na­zio­nali; come a dire, rispet­tiamo il pro­gramma attuale, ma non ulte­riori misure restrit­tive della troika. La domanda però resta la stessa: come supe­rare le osses­sioni di Berlino

. Tommaso di Francesco intervista Angelo Del Boca Il manifesto, 17 febbraio 2015 (m.p.r.)
Abbiamo rivolto alcune domande sull’attuale crisi libica ad Angelo Del Boca, sto­rico del colo­nia­limso ita­liano, della Libia e autore di molti saggi sulla figura di Ghed­dafi (com­presa una impor­tante mono­gra­fia, rie­dita in que­sti giorni in una ver­sione più com­pleta da Laterza).
Come giu­di­chi l’affermazione del mini­stro degli esteri Paolo Gen­ti­loni: «Siamo pronti a com­bat­tere in Libia…», per­ché «è uno Stato fal­lito», sem­bra spie­gare Mat­teo Renzi?
È una dichia­ra­zione irre­spon­sa­bile e impru­dente. Per­ché mette l’accento (salvo mar­gi­nal­mente chia­rire il solito rife­ri­mento all’«egida Onu») pro­prio ad un inter­vento mili­tare dell’Italia che non siamo in grado di fare. Per­ché un conto è atti­vare una guerra aerea come abbiamo fatto nel 2011, un altro com­bat­tere con truppe di terra. È una dichia­ra­zione gra­vis­sima, per­ché siamo spinti den­tro uno sce­na­rio di guerra per il quale siamo ina­datti. Baste­rebbe che i nostri gover­nanti inca­paci stu­dias­sero un po’ la sto­ria, per sco­prire le tante scon­fitte libi­che che abbiamo subito. Altro che inviare 5mila uomini come ha evo­cato la mini­stra della difesa Pinotti. Da inviare con­tro chi? Su quale fronte?
Renzi, che rela­zio­nerà su que­sto gio­vedì in Par­la­mento, sem­bra ora fre­nare e parla di «solu­zione poli­tica». Ma è chiaro che, dopo il sì in patria di Ber­lu­sconi, lavora ad una «coa­li­zione di volen­te­rosi». Ma la situa­zione sem­bra pre­ci­pi­tare: l’Egitto del gene­rale gol­pi­sta Al Sisi, bypas­sando l’Italia, ieri notte ha bom­bar­dato le basi dell’Is a Derna; e ieri mat­tina la Fran­cia ha chie­sto la riu­nione urgente del Con­si­glio di sicu­rezza dell’Onu…
È nello stile di Renzi che vuole gio­care su due tavoli. Il primo è quello da «pro­ta­go­ni­sta», di una mis­sione mili­tare a guida ita­liana. Una cosa mai sen­tita, almeno nel dopo­guerra. L’altro è più pru­dente, viste le dif­fi­coltà reali di una tale enor­mità. Insomma: vabbè, lo fac­ciamo con l’Onu. Che è un atteg­gia­mento più mode­rato e più spen­di­bile. Soprat­tutto di fronte all’atteggiamento del Cairo.
Ieri notte l’aviazione egi­ziana ha bom­bar­dato le posta­zioni dello Stato isla­mico a Derna. Quali rea­zioni pro­voca in Libia l’entrata in campo dell’Egitto con l’offensiva mili­tare del generale-presidente Al Sisi? E qual è la situa­zione poli­tica interna al fronte libico, diviso e frammentato?
L’iniziativa mili­tare egi­ziana è rile­vante, anche se va ricor­dato che è ini­ziata da tempo, infatti aveva già bom­bar­dato nei giorni scorsi Ben­gasi. Di fatto il nuovo regime del Cairo appog­gia il governo libico in esi­lio di Tobruk che fa rife­ri­mento al gene­rale Kha­lifa Haf­tar e al suo eser­cito. Haf­tar com­batte già a Ben­gasi con­tro i jiha­di­sti e sta ria­bi­li­tando espo­nenti del regime di Ghed­dafi. E Al Sisi deve dare una prova di forza per­ché se non difende quel con­fine e il Sinai, per lui è finita. Il fatto è che den­tro la Libia a comin­ciare da Tri­poli, di alleati di Al Sisi non se ne vedono, Tri­poli è persa. Anche per­ché il governo legit­timo libico, eletto da ele­zioni suf­fra­gate dagli osser­va­tori inter­na­zio­nali, è nelle mani della coa­li­zione Al Fajr (Alba), for­ma­zione che va dai Fra­telli musul­mani alla mili­zia Scudo di Misu­rata. Come si ricor­derà nel 2013 il gene­rale Al Sisi ha depo­sto il pre­si­dente Morsi, mas­sa­crato e messo fuori legge i Fra­telli musul­mani. E ora le mili­zie del Calif­fato pun­tano alla con­qui­sta di Misu­rata, gover­nata appunto dalle stesse forze di Tripoli.
Non ti sem­bra che, anche sta­volta, venga taciuto l’interesse ita­liano, ormai deci­sivo, riguardo alle nostre fonti di approv­vi­gio­na­mento energetico?
Que­sto aspetto invece è fon­da­men­tale. Ma Renzi lo tace, anche per­ché la situa­zione dell’Eni in que­sto momento è pastic­ciata e inge­sti­bile. Dopo gli scan­dali legati all’Algeria e soprat­tutto per la crisi in Ucraina che, alla fine, ha sostan­zial­mente pena­liz­zato l’Unione euro­pea e in par­ti­co­lare l’Italia, visto il disa­stro della can­cel­la­zione del South Stream, il fon­da­men­tale mega-progetto di gasdotto euro­peo. Secondo me in que­sta fase - e non solo per l’insicurezza deri­vata dalla guerra per bande ma anche per il mer­cato stor­nato verso altri lidi -, l’Eni non è in grado di estrarre nem­meno un litro di petro­lio dai gia­ci­menti libici.
Come mai tanta arro­ganza e mio­pia del governo ita­liano in que­sta fase della crisi mon­diale?
È per­ché, in modo scel­le­rato, manca una poli­tica estera, una vera diplo­ma­zia ita­liana. Renzi dice che la Libia è uno «Stato fal­lito». E chi l’ha fatto fal­lire se non la guerra del 2011 voluta a tutti i costi dalla Fran­cia di Sar­kozy? Dimen­ti­cano che con quella guerra fug­gi­rono milioni di lavo­ra­tori migranti e di libici, dei quali ora un milione è in Egitto e 600mila in Tuni­sia. Voglio ricor­dare che quando gli aerei della Nato bom­bar­da­vano la Libia nel marzo del 2011, io ammo­nivo «la Libia diven­terà una nuova Soma­lia». È quello che è acca­duto. Ora va coin­volto, in una fun­zione di media­zione inter­na­zio­nale l’alta per­so­na­lità di Romano Prodi, già inviato spe­ciale nel Sahel dell’Onu, che ha espresso più volte la sua con­tra­rietà alla solu­zione mili­tare, e che è visto come inter­lo­cu­tore anche dalle attuali auto­rità di Tri­poli. Subito, prima che sia troppo tardi.

Il manifesto, 17 febbraio 2015

Dopo gli incon­tri della scorsa set­ti­mana fra Ue e governo greco, si era sparso un certo otti­mi­smo e ali­men­tata la spe­ranza di un «pro­fumo d’accordo». C’era anche stato chi aveva pen­sato che la riu­nione di ieri all’Eurogruppo sarebbe risul­tata già deci­siva per siglare un’intesa. Al con­tra­rio, pare pro­prio che quel pro­fumo sia rapi­da­mente sva­po­rato. D’altro canto la riu­nione era comin­ciata con le peg­giori pre­messe pre­an­nun­ciando una pesante e dram­ma­tica rot­tura della trattativa.

Il mini­stro della finanze tede­sco Wol­fgang Schau­ble ha bat­tuto con insi­stenza sui tasti dello scet­ti­ci­smo e della intran­si­genza, giun­gendo a qua­li­fi­care il governo greco come «un ese­cu­tivo irre­spon­sa­bile» per­ché rima­sto fermo sulle sue posi­zioni. Non c’è da stu­pirsi. Si tratta solo di una delle tante varianti dello spi­rito a-democratico che anima le éli­tes euro­pee, in par­ti­co­lare quelle tede­sche. Schau­ble aveva già dichia­rato che per lui le ele­zioni gre­che era come se non esi­stes­sero. E oggi riba­di­sce che è irre­spon­sa­bile il governo greco che vuole coe­ren­te­mente appli­care il man­dato elet­to­rale e non accet­tare i dik­tat della Troika.

Dun­que nulla di fatto. Anzi un arre­tra­mento. La Troika che pareva uscita dalla porta, rien­tra dalla fine­stra. Il docu­mento pre­sen­tato al governo greco riba­di­sce infatti che il pro­gramma della Troika resta e andrebbe esteso per sei mesi.

Il governo greco dovrebbe rinun­ciare a qua­lun­que tipo di azione uni­la­te­rale. In altre parole dovrebbe rinun­ciare a gover­nare, se non sotto det­ta­tura. Infatti il docu­mento espli­cita che sono neces­sa­rie intese con i part­ners euro­pei e inter­na­zio­nali per assu­mere ini­zia­tive in par­ti­co­lare sul tema della poli­tica fiscale, delle pri­va­tiz­za­zioni, del mer­cato del lavoro, del set­tore finan­zia­rio, delle pen­sioni. L’analogia con i temi citati dalla fami­ge­rata let­tera della Bce al governo Ber­lu­sconi dei primi di ago­sto del 2011 è molto forte, a dimo­stra­zione per­sino della scarsa fan­ta­sia della buro­cra­zia di Bruxelles.

Infine il docu­mento Ue pre­cisa che ogni age­vo­la­zione finan­zia­ria da parte della Bce e degli altri organi euro­pei avverrà solo a fronte dell' esten­sione di sei mesi del pro­gramma della Troika, che dovranno essere usati per la rica­pi­ta­liz­za­zione delle ban­che e saranno con­cesse sulla base di deci­sioni delle isti­tu­zioni euro­pee e dello stesso Eurogruppo.

Come si vede una pro­po­sta cape­stro che il governo greco ha giu­sta­mente respinto con grande riso­lu­tezza, giu­di­can­dola «assurda e inaccettabile». Il ten­ta­tivo di media­zione avan­zato per conto della Fran­cia dal mini­stro delle Finanze Michel Sapin è andato, per ora, a sbat­tere con­tro il muro della intran­si­genza tedesca.

Tut­ta­via non è l’ultima riu­nione. Altre ce ne saranno. Si tratta di capire se l’irrigidimento tede­sco fa parte di una pura tat­tica o è una posi­zione ina­mo­vi­bile, legata magari anche ai recen­tis­simi insuc­cessi elet­to­rali della Mer­kel ad Amburgo, una scon­fitta sto­rica per la can­cel­liera. Ma molto può fare la mobi­li­ta­zione inter­na­zio­nale comin­ciata con le mani­fe­sta­zioni di san Valentino.

Comune-info, 15 febbraio 2015

L’abbattimento del regime di Gheddafi ha riportato la Libia al clima politico ed economico di due secoli fa, prima della colonizzazione italiana e ancora prima della presenza ottomana. In altre parole, si è tornati a una tribalizzazione del territorio. Scomparsi i confini amministrativi, ogni tribù difende le proprie frontiere e sfrutta le risorse petrolifere. Non c’è alcun dubbio che Muammar Gheddafi sia stato un crudele dittatore, ma nei suoi 42 anni di regno ha mantenuta intatta la nazione libica, l’ha dotata di un forte esercito e di un’eccellente amministrazione al punto che il reddito procapite del libico era il più alto dell’Africa e si avvicinava a quello dei paesi europei. Ma soprattutto ha dato ai libici una fierezza che non avevano mai conosciuto.

A tre anni dal suo assassinio (avrebbe meritato un processo), la Libia è nel caos più completo e già si parla con insistenza di risolvere la questione inviando truppe dall’estero per organizzarvi una seconda, micidiale e sciagurata guerra. Nel corso della prima infausta guerra, voluta soprattutto dalla Francia di Sarkozy, il paese ha subito danni immensi, 25 mila morti e distruzioni valutate dal Fondo Monetario Internazionale in 35 miliardi di dollari.

Poiché le voci di un intervento militare italiano si fanno più frequenti, noi chiediamo alle autorità del nostro Paese di non commettere il gravissimo errore compiuto nel 2011 quando offrimmo sette delle nostre basi aeree e più tardi una flotta di cacciabombardieri per aggredire un paese sovrano, violando, per cominciare, gli articoli 11, 52, 78 e 87 della nostra Costituzione. In un solo caso l’Italia può intervenire, nell’ambito di una missione di pace e dietro la precisa richiesta dei due governi di Tripoli e di Tobruk che oggi si affrontano in una sterile guerra civile.

Ma anche in questo caso l’azione dell’Italia deve essere coordinata con altri paesi europei e l’Unione Africana (Ua), animati soprattutto dal desiderio di riportare la pace in un paese la cui popolazione ha già sofferto abbastanza. Ci appelliamo al nostro ministro degli esteri Gentiloni, che non si faccia catturare dai venti di guerra che stanno soffiando insistenti. Ma sopratutto chiediamo a tutto il movimento per la pace perché faccia pressione sul governo Renzi affinché l’Italia, come ex-potenza coloniale, porti i vari rivali libici attorno a un tavolo. Questo per il bene della Libia, ma anche per il bene nostro e dell’Europa.

Sbilanciamoci.info, 13 febbraio 2015
Winnie Byamyima è la donna che al recente Davos dei potenti rappresentava il controcanto dei poveri; Byamyima è infatti il direttore esecutivo di Oxfam International, la coalizione di Ong che lottano contro la carestia e la fame nel mondo. Winnie Byamyima è condirettore del Forum di Davos dall’anno scorso e quest’anno si è presentata con un conteggio sensazionale. Il suo tema forte è la disuguaglianza nel mondo. Questa modalità dell’economia, da sé sola, è causa di milioni di morti ogni anno; potrebbe senza eccessivi sforzi essere superata, purché non venisse meno la volontà di raggiungere questo risultato.

L’uno per cento degli umani, molto ben rappresentati al Forum di Davos, disponeva alla fine del 2014 del 48% della ricchezza mondiale. Ogni adulto ricco ricompreso in tale aristocrazia risultava disporre in media di 2,7 milioni di dollari. Alcuni fortunati o molto capaci, come si vedrà, disponevano naturalmente di molto di più. In complesso la compagine era in netta risalita. Solo 5 anni prima, nel 2009 la parte di ricchezza mondiale appartenente allo stesso uno per cento valeva solo il 44%. Negli anni di crisi i ricchi avevano dunque dato il meglio di sé, avevano mostrato le proprie capacità e come esempio per tutti avevano saputo crescere del 4%. Non diremo cha abbiano saputo sfruttare la crisi, o addirittura che l’abbiano provocata, perché questo è un peccaminoso pensiero complottista. È certo però che nella nuova prospettiva internazionale il trend spettacolare dell’uno per cento dei ricchi potrebbe raggiungere e superare il 50% della ricchezza del mondo nel 2016.

Sembra di capire che la severa reprimenda dell’Oxfam, i ricconi la intendano in senso capovolto, come fosse l’esortazione: “Francesi ancora uno sforzo”, del marchese de Sade ai tempi della Grande rivoluzione.

Alla dichiarazione di Oxfam è seguito un fantastico fuoco d’artificio di numeri, accompagnati da riflessioni e ragionamenti profondi, impegni e promesse. Ne riferiremo in parte poco più avanti. Ora però è opportuno segnalare che alcuni degli intellettuali che seguono o scortano i re dell’economia e della finanza fino alla tradizionale “montagna incantata” celebrata da Thomas Mann, proprio come gli sciacalli che fiancheggiano i grandi predatori, hanno creduto opportuno svolgere il proprio ruolo di pensatori e di critici mettendo in ridicolo le cifre dell’Oxfam. Il loro intento non era quello di rivendicare - cifre alla mano - l’intelligenza del mercato, cioè la fortuna di disporre di una (o qualche) mano invisibile a reggere tutto. Essi davano per scontato questo e ironizzavano sulla possibilità di arrischiare previsioni, come faceva Oxfam, in tempi tanto calamitosi.

Gli economisti davosiani, per chiamarli così, volevano soprattutto togliere di mezzo il pensiero fastidioso e ostile di chi sostiene, ormai nel nuovo millennio, le ragioni dei poveri. Ancora i poveri, possibile che si parli sempre dei poveri, duecento anni dopo Malthus! L’accusa a Oxfam e ai pietosi colleghi cultori dell’economia misericordiosa era che questi ultimi non tenevano conto dell’esistenza di debiti a fianco degli attivi. In altre parole, le entrate delle persone nella finanza e nell’industria, in genere nelle attività economiche, devono essere depurate dai debiti contratti che possono a volte azzerare o peggio rendere negative le cosiddette ricchezze dei cosiddetti ricchi. «Così, rispondono quelli di Oxfam, voi ritenete che Bill Clinton e Hillary Diane Rodham Clinton, marito e moglie di una coppia notoriamente indebitata, fossero più poveri di una famiglia di contadini cinesi senza debiti?» Ma andando oltre la polemica politica, Oxfam - come riferisce l’articolo del “New Yorker” - accetta di depurare i ricchi, scartando i debitori dall’insieme. Il risultato non cambia di molto.

Le statistiche sui ricchi e sui poveri di Oxfam e sulla loro disparità sono due, una più impressionante dell’altra. La prima è quella segnalata più sopra e che riguarda la ripartizione della ricchezza tra ricchi e poveri: l’uno per cento più ricco della popolazione mondiale adulta e tutta la popolazione mondiale adulta, ricchi compresi. In altre parole, la sproporzione - talmente evidente - considera che l’uno per cento degli umani adulti ha una ricchezza che equivale a quella del 48% di tutti gli adulti del genere umano. Se le cose andranno avanti senza scarti, se le curve non cambieranno traiettoria nel 2016 l’uno per cento della popolazione mondiale avrà raggiunto e superato la ricchezza della metà del genere umano. Difficile dire se il risultato verrà magnificato come un successo del mercato e del capitale, un primato sportivo e umano glorioso, oppure se ne saranno messi in luce gli aspetti contraddittori: ridotto impegno dei più poveri, scarsa crescita delle occasioni per i giovani e i senza lavoro. Fermiamo per un attimo l’attenzione sul dato attuale 2014, l’uno per cento che dispone del 48% della ricchezza totale con una media individuale per adulto di 2,7 milioni di dollari. Il 52% della ricchezza globale che rimane è tutt’altro che ripartita equamente. Infatti il 19% dei quasi ricchiche tallonano il famoso uno per cento, dispone del 46% rimasto, mentre all’80 per cento della popolazione complessiva, pari a 5,6 miliardi di persone, testa più testa meno, resta circa il 5,5% rimasto (il 6% per fare cifra tonda).

Oxfam fa notare come una distribuzione della ricchezza simile non sia solo ingiusta ma anche inefficiente. Ai poveri, a quasi tutti, mancheranno capitali per aumentare la produzione, incentivi e margini per migliorare gli standard di vita. Non sarà possibile o sarà molto difficile, umanamente costosissimo, un risparmio individuale o collettivo. Ne risentiranno in modo assai grave l’istruzione, l’igiene, la salute, la speranza di vita stessa delle popolazioni.

Oxfam, per bocca di Byamyima, suggerisce sette punti d’intervento da sviluppare subito, senza perdersi in chiacchiere. Si tratta in primo luogo di combattere l’evasione fiscale, presente in ogni paese, regime e religione. Se i ricchi sono troppo ricchi è perché non hanno pagato le tasse. Risulta che dei 1.645 miliardari in dollari che “Forbes” ha classificato, oltre un terzo ha ereditato la propria ricchezza: in tutto il mondo le tasse di successione non funzionano o quanto meno favoriscono gli straricchi. Occorre poi rafforzare i servizi pubblici, in modo particolare quelli che riguardano salute e scuola. Occorrono poi più entrate pubblicheattraverso tasse più eque e convincenti. Serve inoltre un salario minimo che sostenga i redditi di donne, giovani, anziani, persone senza lavoro. Le donne in particolare ma anche gli immigrati devono ottenere la parità di salario per uno stesso lavoro. Serve poi una rete di sicurezza che consenta ai poveri di sopravvivere con dignità; quindi un tetto per ciascuno, e poi cibo e acqua. Infine serve un piano generale per combattere le disuguaglianze.

La seconda statistica redatta da Oxfam è ancor più impressionante. Le associazioni di Ong combattono la carestia, la fame, e accusano banchieri e finanzieri, industriali e venditori dei farmaci di gravi delitti e omissioni. Basterebbe poco per ovviare a molti guai, basterebbe l’intervento di pochi. Qui si sviluppa la polemica. Si è fatto cenno al numero dei miliardari in dollari. Oxfam si serve delle classifiche di “Forbes”, che, a beneficio di qualche distratto, è una rivista mensile con annesso un sistema di ricerca molto accreditato, assai stimata in ambiente miliardario, che fissa il numero dei suoi lettori privilegiati in 1.645. Sono persone molto potenti, inserite nei gangli della politica mondiale, ben capaci di farsi valere, di scegliere e di proibire, di procurare le guerre e firmare le paci, non solo nella finanza e nell’economia, loro ambiti propri. Negli anni scorsi, nel 2010, 387 di loro aveva ricchezze pari a quelle del mondo povero, metà di tutti i viventi, costituito da 3,5 miliardi di persone. La ricchezza (?) della metà più povera del mondo, corrispondente a 3,5 miliardi di viventi, equivaleva a quella di 387 miliardari. Un fatto enorme, una misura del mondo intollerabile. Questo però nel 2010. Dopo di allora, per effetto della crisi, le reciproche condizioni sono cambiate rapidamente. Non però con un decadimento della forza finanziaria dei miliardari, ma con un effetto opposto, maggiore ricchezza dei miliardari – la ricchezza dei primi 80 di essi è raddoppiata tra 2009 e 2014 – e contemporaneo disastro esistenziale della povera gente, di 3,5 miliardi persone, collettivamente prese, che certo hanno poco a che fare con borse e titoli derivati. Oggi è sufficiente la ricchezza di 80 miliardari per pareggiare sui piatti della bilancia globale il peso di mezzo mondo, e non per modo di dire, ma facendo riferimento proprio a 3,5 miliardi di esseri umani.

La Nuova Venezia, 13 febbraio 2015 (m.p.r.)

Municipio occupato. Assemblea permanente e «lotta dura a oltranza». I comunali fann sul serio. E dopo la "presa in giro" del nuovo "no" ricevuto dal governo sul Patto di Stabilità alzano il tiro. Corteo in città, as semblea infuocata al teatro Malibran. E nel pomeriggio 1a rabbia esplode e arriva l'occupazione di Ca Farsetti. Le sigle sindacali sono più che mai unite nel proclamare lo stato di agitazione e nell'annunciar proteste clamorose. I confedarali di Cgil, Cisl e Uil, le Rsu e gli autonomi della Diccap, i più ai rabbiati. Giornata di mobilitazione ieri a Ca' Farsetti. Servizi ridotti al minimo per l'assemblea dc lavoratori. Poi la manifestazione e l'assemblea nel pomeriggio.
Applausi a chi ricorda che «da tre anni questa situazione non viene risolta e anzi si è aggravata». «Adesso il Comune a rischio default», grida dal palco del teatro il segretario dell Cgil Sergio Chiloiro. Gli interventi dei sindacalisti a un certo punto vengono sospesi. «Basta! grida il delegato degli autonomi Luca Lombardo», «ci stanno prendendo in giro. Andiamo a Ca' Farsetti e occupiamo».
L'assedio. Alle 16.30 cinquecento lavoratori, compresi i vigi urbani in agitazione, sfilano per San Giovanni Grisostomo e campo San Bartolomeo, arrivano davanti a Ca' Loredan. Tra le colonne decine di poliziotti con scudi e manganelli, carabinieri nelle calli. Palazzo blindato, su ordine del commissario Zappalorto e del direttore generale Agostini. A far da «messaggero» tra le parti un funzionario della Digos. Fischietti, urla, qualche intempranza. I sindacati chiedono di salire, la risposta è «no». Ma il blocco viene aggirato. Ci pensa qualche lavoratore a far passere dalle entrate di servizio un primo gruppo di manifestanti.

Lo striscione. Alle 17.15 sopra 1 teste dei poliziotti in assetto c battaglia viene calato un grande striscione bianco. «Il conto lo paga chi ha rubato», c'è scritto. Sul pennone sventolano le bandiere rosse della Cgil, quelle azzurre di Cisl e Diccap, quella a strisce della Uil. Pian piano salgono altri gruppetti di manifestanti. Finché intorno alle 19 arriva l'annuncio: «Il Comune è occupato, di qui non ci muoviamo».

La protesta. Sale di tono la rabbia dei lavoratori, quando i sindacalisti leggono dal palco le «promesse non mantenute» del governo. Ce l'hanno con Renzi e i suoi ministri, con il commissario Zappalorto e con la giunta precedente. Con i sottosegretari Baretta e Zanetti. «Siamo andati con loro a palazzo Chigi», dice Sergio Chiloiro della Cgil, «ma non ci hanno ascoltato».

Le conseguenze. I sindacalisti ripetono: «Non sono in pericolo solo i nostri stipendi, ma i servizi alla città. È un attacco alla democrazia». «Quest'anno con il commissario è andata ancora peggio», ripetono Mario Ragno della Uil e Andrea Alzetta della Volantino Cobas «I regolamenti? Tocca alla politica». Nel 2014 almeno il Salva Venezia aveva un po' mitigato le sanzioni. Stavolta nemmeno quello. «Se non cambia qualcosa («Ed è questione di pochi giorni, per questo dobbiamo mobilitarci», dice Ragno) le assunzioni di personale saranno bloccate, con conseguenze visibili sui servizi». Bloccato il turn over, bloccati i progetti speciali e una parte consistente dello stipendio. «Io ci ho già perso mille euro», protesta un vigile urbano.

La lotta. Ieri sera almeno un centinaio di lavoratori e sindacalisti erano ancora al piano nobile di Ca' Farsetti, intenzionati a passare lì la notte. «Rifiutiamo ogni tipo di trattativa», dice Chiara Scarpa della Diccap, «da qui non ci muoviamo». A sera arrivano in municipio i candidati alle primarie Felice Casson e Sebastiano Bonzio con l'ex consigliere Beppe Caccia. Esprimono «solidarietà» ai lavoratori.

Il manifesto, 15 febbraio 2015

Venerdì notte, la Camera dei Depu­tati — senza le oppo­si­zioni che ave­vano abban­do­nato l’aula — ha modi­fi­cato, nell’ambito della riforma della seconda parte della Costi­tu­zione, anche l’ex arti­colo 78, quello che norma le moda­lità della dichia­ra­zione dello «stato di guerra».

Ora basterà, con la modi­fica appro­vata, un voto della Camera dei Depu­tati (e non più, anche del Senato), con la mag­gio­ranza asso­luta dei com­po­nenti. Addi­rit­tura in una prima ver­sione, il governo aveva pre­vi­sto la mag­gio­ranza sem­plice, cioè dei pre­senti.

I depu­tati paci­fi­sti ave­vano pro­po­sto che la mag­gio­ranza fosse qua­li­fi­cata, almeno dei due terzi. Visto che l’articolo 11 della Costi­tu­zione ci dice che «l’Italia ripu­dia la guerra come stru­mento di offesa», se que­sta deve essere dichia­rata (evi­den­te­mente in casi ecce­zio­nali, estremi e solo per motivi di difesa dei con­fini), allora che sia una deci­sione il più con­di­visa pos­si­bile. I loro emen­da­menti sono stati bocciati.

Per­ché la modi­fica di venerdì notte è gra­vis­sima? Per­ché la riforma costi­tu­zio­nale è affian­cata da una riforma elet­to­rale (l’Italicum) che pre­vede il pre­mio di mag­gio­ranza al par­tito vin­ci­tore delle ele­zioni. Il com­bi­nato dispo­sto delle due riforme dà di fatto ad un par­tito poli­tico (che potrà avere la mag­gio­ranza asso­luta alla Camera anche con una mag­gio­ranza rela­tiva dei voti dell’elettorato) il potere e la respon­sa­bi­lità di dichia­rare lo «stato di guerra». Un’aberrazione.

Pare che que­sta modi­fica sia stata for­te­mente voluta dai ver­tici delle Forze Armate e dalle mini­stre Roberta Pinotti e Maria Elena Boschi, assi­stite dagli acca­de­mici molto «agguer­riti» della Fon­da­zione Magna Charta, quella di Gae­tano Qua­glia­rello, una cima del pen­siero costi­tu­zio­nale.

Dal 1947 il Par­la­mento non ha mai dichia­rato lo «stato di guerra», anche se di guerre — pre­sen­tate come inter­venti uma­ni­tari e in nome dei diritti umani — ne ha fatte tante: Iraq, Kosovo, Afga­ni­stan e ora forse tra qual­che giorno la Libia. Mai l’articolo 11 della Costi­tu­zione è stato così disat­teso. L’ex arti­colo 78 era di fatto un arti­colo «sim­bo­lico», che dava comun­que al Par­la­mento un ruolo per una deci­sione così dram­ma­tica: la riforma costi­tu­zio­nale voluta da Mat­teo Renzi ha fatto di que­sto arti­colo il sim­bolo di un’altra cosa, la pre­do­mi­nanza del governo sul parlamento.

Mat­teo Renzi sem­bra avere seguito le orme del vec­chio Sid­ney Son­nino quando invo­cava: «Tor­niamo allo Sta­tuto». Il vec­chio Sta­tuto Alber­tino infatti dava al Re il potere di dichia­rare guerra. La modi­fica dell’ex arti­colo 78 di venerdì notte — simil­mente — dà que­sto potere al governo e al suo nuovo Re: il bullo fiorentino

Il manifesto, 14 febbraio 2015

Alla scena rumo­rosa dei tumulti sui ban­chi di Mon­te­ci­to­rio da oggi se ne sosti­tuirà una silen­ziosa ma non per que­sto meno inde­co­rosa. Quella di un’aula par­la­men­tare mezza vuota, abban­do­nata dal varie­gato car­tello delle oppo­si­zioni. Dalla Lega a Fi, da Sel ai 5Stelle, tutti insieme per la scelta estrema di non essere né com­plici, né spet­ta­tori di una riforma che sfi­gura la Costi­tu­zione e inco­rona il pic­colo Cesare.

But­tare giù la Carta della demo­cra­zia par­la­men­tare non è un pranzo di gala e che gli animi si accen­dano è il minimo. Suc­cede dai tempi di Cavour e Gari­baldi, anche se que­sta volta le botte non sono volate tra destra e sini­stra ma tra i depu­tati del Pd e di Sel. Tut­ta­via non si tratta più di una que­stione di buone maniere, dif­fi­cili da man­te­nere tanto più se l’assemblea si vede imporre tempi e modi della “con­tro­ri­forma” da un pre­si­dente del con­si­glio che si aggira di notte come un ladro per i cor­ri­doi di Mon­te­ci­to­rio a rac­cat­tare voti minac­ciando le ele­zioni anticipate.

La scelta dell’Aventino è così solo l’ultimo atto di una brutta sto­ria di pre­va­ri­ca­zione, costante e con­ti­nua, di ogni regola e pro­ce­dura. Tra i tanti esempi dello stil novo ren­ziano baste­rebbe ricor­dare l’episodio della sosti­tu­zione dei sena­tori del Pd che in com­mis­sione non vota­vano come Renzi e Boschi comandavano.

La deci­sione di lasciare che il governo Renzi-Alfano approvi in soli­tu­dine la nuova Costi­tu­zione pur­troppo fa parte di uno sce­na­rio tutt’altro che ine­dito. Il tri­ste spet­ta­colo fu messo in scena quando Ber­lu­sconi varò la sua riforma, oltre­tutto anche molto simile a quella in discus­sione oggi, e per for­tuna poi boc­ciata dal refe­ren­dum (come spe­riamo si ripeta que­sta volta).

Oggi Renzi ne segue le orme inte­stan­do­sene una per­sino peg­giore (per esem­pio sulla com­po­si­zione del nuovo senato: allora dimi­nuiva il numero dei sena­tori ma l’elezione era di primo grado). E in ogni caso ispi­rata da un’idea della poli­tica (e del governo) che risponde alla stessa logica, alle mede­sime priorità.

Se non si stesse gio­cando una par­tita così impor­tante per gli assetti demo­cra­tici saremmo di fronte a una pes­sima farsa, con i par­la­men­tari ber­lu­sco­niani che scen­dono dal carro del vin­ci­tore e sal­gono sulle bar­ri­cate dell’opposizione pro­met­tendo di far vedere a Renzi «i sorci verdi». La minac­cia, che arriva dal pit­to­re­sco capo­gruppo Bru­netta, più che spa­ven­tare gli avver­sari del Pd sem­bra piut­to­sto voler attu­tire le divi­sioni della pro­pria truppa.

Del resto anche la bat­ta­glia delle oppo­si­zioni di sini­stra e dei 5Stelle, aldilà dell’impatto sim­bo­lico, rivela una evi­dente debo­lezza. Chi per bal­danza, chi per un malin­teso senso di respon­sa­bi­lità verso la “ditta” non è riu­scito a fer­mare il treno ora decide di togliersi dai binari.

Restano le mace­rie di un qua­dro poli­tico fran­tu­mato che, oltre­tutto, die­tro l’arroganza ren­ziana non può nem­meno esi­bire la forza del deci­sio­ni­smo cra­xiano ma solo offrire la palude di un potere balcanizzato.

Il manifesto, 13 febbraio 2015 (m.p.r.)

È per la nostra vita che mani­fe­stiamo domani, a Roma, con­tro le poli­ti­che dell’Europa, che ne decide per tutti. Il nuovo governo greco ha il corag­gio e il merito di com­bat­terle per tutte e tutti. Un governo di sini­stra – certo in alleanza con un par­tito di destra come Anel – che per­se­gue un chiaro pro­gramma: pro­teg­gere le per­sone col­pite dalla crisi, miglio­rarne la vita per quanto pos­si­bile. Senza porsi obiet­tivi “finti” e con­fu­sivi, che nei decenni pas­sati hanno preso il nome di riforme e modernizzazione. Con il risul­tato di distrug­gere quell’insieme di norme e wel­fare che ave­vano fatto dell’Europa un esem­pio da addi­tare, un posto dove valeva la pena di vivere.

Oggi a deci­dere è quella spe­cie di super-governo che è la Troika: com­po­sta dai tre orga­ni­smi non demo­cra­tici, mai eletti - Bce, Fmi, e Com­mis­sione Euro­pea - che hanno det­tato i para­me­tri e le regole a cui gli stati e i popoli si devono atte­nere. Anche quando scel­gono diver­sa­mente, attra­verso le ele­zioni, come in Gre­cia. Super-governo senza con­trolli con cui il governo Tsi­pras si rifiuta di trat­tare, vero punto poli­tico di que­sto con­fronto durissimo.

Per que­sto andiamo in piazza. Per ridare fiato alla respon­sa­bi­lità poli­tica, al pro­getto di un’Europa che mette al cen­tro la poli­tica, non l’ottuso per­se­gui­mento del pareg­gio di bilan­cio, ricetta eco­no­mica in salsa tede­sca. Una ricetta pesante: può ucci­dere, invece di sal­vare. Lo vediamo nel nostro mare, con tra­gica rego­la­rità, ogni volta sem­pre peg­gio. Quale logica può spin­gere in mare nel gelo e la tem­pe­sta su impro­ba­bili gom­moni, se non la dispe­ra­zione e la vio­lenza alle spalle? Per con­te­nere le spese, per sanare i debiti, non si può aiu­tare chiun­que ha biso­gno. Que­sto il man­tra euro­peo di cui il governo ita­liano si fa volen­te­roso interprete.

È anche per que­sto che mani­fe­stiamo per la Gre­cia. Per quel nobile e gene­roso impulso che spinge ad andare in soc­corso di chi ha biso­gno, e che solo una radi­cata cru­deltà del cuore può qua­li­fi­care sprez­zante di buo­ni­smo, come se soc­cor­rere per­sone che muo­iono assi­de­rate in mare sia segno di stu­pi­dità o peg­gio, di qual­che oscura colpa, come la parola debito in tede­sco. La seconda spinta, quella che fa met­tere radice alla scelta gene­rosa del soste­gno, è com­pren­dere che tutto que­sto ci riguarda. Qui, in Ita­lia, noi ita­liani e ita­liane. Per­ché l’Europa è il tea­tro della poli­tica, nell’ampio spa­zio comune in cui che si pos­sono dispie­gare i con­flitti che i con­fini nazio­nali ren­dono asfit­tici, schiac­ciati dalla dop­pia pres­sione e del gioco delle parti tra governi nazio­nali e istanze euro­pei. Siamo in Europa, affrontiamola.

La lotta della Gre­cia è la nostra lotta. E, forse può sor­pren­dere, lo dico come donna ita­liana, sfi­dando le cri­ti­che risen­tite di tante donne al governo greco, delu­dente mono­lite della cit­ta­della maschile della poli­tica. Scelta che ovvia­mente non con­di­vido, e ritengo vada tenuta sotto attenzione.

Ancor più del governo mono­ses­suato al maschile, il vero punto di discus­sione sono le prio­rità, il rischio che il gioco duro dell’economia renda tutto il resto secon­da­rio. Com­prese le rela­zioni uomo-donna, e tutta la cri­tica al patriar­cato svi­lup­pata dai diversi fem­mi­ni­smi ne risulti depo­ten­ziata. È un dub­bio, forse anche un timore, che attra­versa molte donne. Di sen­tirsi ricac­ciate alla con­di­zione di pro­blema secondario.

Credo invece che com­bat­tere la crisi sia un’occasione. Un’occasione poli­tica. Pro­prio per­ché è in gioco come si vive, quali sono le rela­zioni tra donne, uomini, gene­ra­zioni, sessi, generi. Nel futuro. Che cosa è la vita, se non que­sto? Il livello ele­men­tare del vivere: avere da man­giare, dove dor­mire, un tetto sulla testa, prov­ve­dere ai pro­pri cari, avviene nelle rela­zioni che si hanno.

La crisi, l’avvento del nuovo mondo del finanz-capitalismo le ha messe tutte sot­to­so­pra. È quello che viene defi­nito bio­po­li­tica, quel patto ori­gi­na­rio su cui si è fon­data la moder­nità sta­tuale e sociale, è stata but­tata all’aria dal neo­li­be­ri­smo. L’unica donna del governo greco, l’unica che appare nella foto­gra­fia è la vice-ministra del lavoro Rania Anto­nou­po­los, (ricavo le infor­ma­zioni dall’articolo di di Roberta Car­lini): pro­pone misure inno­va­tive, di job gua­ran­tee, lavori a basso com­penso e a ter­mine, finan­ziati dallo Stato.

Non è que­sta la sede per discu­terne, c’è più di un’obiezione pos­si­bile. Mi inte­ressa qui indi­care l’approccio inno­va­tivo: che sa che i lavori com­pen­sati nel set­tore dei ser­vizi, gene­rano a loro volta nuovi lavori e ric­chezza. È una visione della vita, delle rela­zioni, molto diversa da quella che fonda tut­tora le nostre poli­ti­che. È un pos­si­bile punto di par­tenza, per pren­dersi cura della vita, e di una poli­tica che parta dalla vita come è, ora. Molte donne, molte fem­mi­ni­ste di diverse gene­ra­zioni (non ne fac­cio l’elenco, non vor­rei dimen­ti­carne nes­suna) hanno fir­mato l’appello, saranno sabato a Roma. Con la Gre­cia, per cer­care lo spa­zio comune della politica.

La Repubblica, 13 febbraio 2015 (m.p.r.)

«È una nuova Angela Merkel davanti ai nostri occhi. Leader, statista capace di trattare come nessun altro». Parola di Michael Stürmer, ex consigliere di Kohl, storico, intellettuale di punta del centrodestra.

Professore, come giudica la performance di “Angie”?
«Ne ammiro non solo la forza in giorni e notti insonni di vertici e voli intercontinentali: ora ha una leadership intelligente, piena di concetti forti. La credevamo eterna temporeggiatrice esitante. Ci siamo sbagliati tutti, ora chi la sottovaluta rischia molto».
Nuova Merkel, che significa?
«È diventata insostituibile, ha giocato un ruolo ben più importante che non Obama. A casa ha un forte consenso. A Minsk ha scritto la Storia. Facendo sì che Putin, non lei, annunciasse l’intesa di cui lei è stata grande moderatrice. Lei tedesca capisce l’anima ferita della Russia che si sente insieme paese sconfitto a Versailles 1918 e vittima di una crisi tipo Weimar. Ha dato a Putin prestigio impegnandolo a patti vincolanti. Gli americani non capiscono l’anima ferita russa, lei sì. Sa che se hai un nemico, devi capirlo».
Il suo stile è peculiare...
«A volte devi mostrarti modesto, secondo violino. È stata splendida moderatrice a Minsk senza cercare luci della ribalta, offrendole a Putin umiliato da tutti come al summit di Brisbane. Lei lo coinvolge, “Vladi, ora tocca a te”, lo richiama nel “grande gioco” mondiale».

Obama oppure Hollande avrebbero saputo farlo?
«Non credo. Lei in Russia ha prestigio enorme, parla russo, ha mostrato auctoritas et gravitas , che mancano agli altri».
Il New York Times la chiama “la nuova Kennedy”, l’Europa gira attorno a lei. È insieme Churchill, Adenauer, Jfk?
«Sì, prima volta mondiale di Berlino senza atomiche e con un miniesercito. Performance tutta carisma sobrio e sottovoce. Un enorme soft power, capacità di conoscere e capire gli altri restando decisa, senza inquietare o umiliare come faceva Thatcher. Adesso tocca alla partita eurozona. Vedremo: il mondo dovrà guardare sempre di più a lei. Usa l’autorità senza sprecarla. Chi altro lo sa fare oggi nel mondo libero?».

Il Fatto Quotidiano, 11 febbraio 2015

C’è chi ha riso, molto, anche senza terremoto. C’è chi ha brindato, molto, a ogni inaugurazione, anche se farlocca. C’è chi ha ottenuto favori, passaggi di carriera, pacche sulle spalle, “ritroviamoci presto”, invece di pagare per le proprie inefficienze volontarie o meno. Tutto questo all’ombra dei Mondiali di calcio di Italia 90, la vetrina del Paese, il “nostro biglietto da visita”, come recitavano dal comitato organizzatore, la chance “per pubblicizzarci all’estero e portare turismo”, insistevano. Il risultato è stato, ed è ancora, una voragine di costi spropositati, moltiplicati in ogni cantiere, come un G8 alla Maddalena, ma alla decima potenza, e sotto la guida, il carisma, il sorriso fiero di Luca Cordero di Montezemolo, che oggi (o al massimo domani) sarà nominato a capo del comitato per le Olimpiadi a Roma del 2024.

Premessa d’obbligo: l’ex numero uno della Ferrari non ha assegnato alcun appalto, ma è lui a metterci la faccia, a ottimizzare, a comparire, a rassicurare, a rilanciare con questo tipo di concetti: «È stato il Mondiale dei record, dall’ascolto televisivo, agli incassi negli stadi e alla stampa accreditata. Sì, è stato un Mondiale da capogiro»; per poi «Grazie al lavoro di tutti abbiamo fatto una gran bella figura». Bene, giusto ricordare il valore e il livello di questa “gran bella figura”, magari da replicare nel prossimo futuro.

Se c'è in'immagine in grado di racchiudere tutta la vicenda dei Mondiali di Italia 90, è quella della stazione della metropolitana di Farneto, a Roma: un binario morto, vetri rotti, telecamere divelte, ingressi sbarrati, bottiglie vuote di birra per terra e graffiti sui muri. Insomma, l’emblema della stazione-fantasma aperta allora solo per il passaggio di 12 convogli e poi chiusa, per sempre, “in quanto il collegamento ferroviario – secondo le FS – usato a pieno regime non avrebbe offerto sufficienti garanzie di sicurezza”, per il rischio-crolli sotto la galleria. Il costo? Appena 82 miliardi di lire per realizzare il duo Farneto-Vigna Clara, pure quest’ultima mai aperta, poi subito abbandonata, quindi utilizzata solo per feste private, mercatini, altre iniziative occasionali.

Ma su Roma torneremo. Nella lista della spesa fu inserita la realizzazione di due nuovi impianti calcistici: il Delle Alpi di Torino e il San Nicola di Bari, Matarrese patron. Per la costruzione del primo il rialzo fu di oltre il 200 per cento rispetto alla cifra iniziale, inaugurato venti giorni prima dell’inizio del Mondiale, solo pochi mesi dopo non risulta agibile per il derby tra Juventus e Torino a causa della neve impossibile da spalare. Non va molto meglio in Puglia: il vento si porta via la copertura di Teflon. Altre città, altri casi: i lavori allo stadio di Bologna costano il 90 per cento in più e quelli all’Olimpico di Roma il 181 per cento oltre il previsto (235 miliardi di lire, la cifra finale); a Firenze il rifacimento dell’Artemio Franchi sarebbe dovuto costare 66,5 miliardi, ma quando viene consegnato il prezzo è lievitato a 87,3 miliardi, inoltre, i lavori per la costruzione del parcheggio e dell’area intorno all’impianto proseguiranno per anni, con altri costi a sorpresa. Alla fine i miliardi sono 111. Quando Montezemolo arriva sui cantieri fiorentini, viene contestato da manifestanti che lo accolgono con lo slogan: “Mondiale uguale morte”, vista la frequenza degli incidenti tra gli operai, l’agenzia Ansa li chiamerà esplicitamente “vittime degli stadi”. In tutto, alla fine, saranno 24.

Non solo stadi. Anche le altre infrastrutture offrono il loro “contributo”, come l’hotel Mundial, tra Milano e Ponte Lambro, mai terminato e infine demolito. Il costo? Dieci miliardi di lire. Già nel 1991 è il settimanale Il Mondo a proporre una stima parziale, e registra: a Milano si sono buttati 160 miliardi, a Torino 187, a Genova 81, a Verona 44 per la sala stampa, altri 4,2 per un campo di pre-riscaldamento, per tre parcheggi 7,6 miliardi, altri 19 per una strada d’accesso a quattro corsie. E all’epoca l’Hellas, squadra principale della città, aveva in media diecimila spettatori. E infine di nuovo Roma: l’Air Terminal Ostiense, 350 miliardi di lire il costo, chiuso nel 2003 perché inadeguato allo scopo. Oggi c’è uno degli Eataly di Oscar Farinetti.

In attesa della nomina di Montezemolo, il leader della Lega Nord, Matteo Salvini, ironizza: «Con lui, sicuro le Olimpiadi si faranno altrove». Ragione o meno, bisogna però riconoscere a Luca Cordero di aver ricoperto in quegli anni, e in pieno, il ruolo di uomo immagine: gli italiani, dopo averlo visto ovunque, fotografato e ripreso, vincente con il cellulare in mano, decisero di far diventare il nostro Paese tra i primi mercati al mondo di telefonia. Peccato che la “bolletta” ci è costata molto cara...

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