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«Questi partiti tornati potenti si impoveriscono procedendo per espulsioni e promozioni non dei migliori ma dei fedeli. Trovare nuove forme di partecipazione e di rappresentanza è fondamentale, se non vogliamo rassegnarci a una politica ridimensionata a una questione per pochi intimi». Corriere della sera, 12 marzo 2015

Quante volte abbiamo celebrato il funerale dei partiti? Invece sono più vivi che mai. Meglio, sono più che mai le leve per il potere. Renzi è arrivato a Palazzo Chigi dopo aver scalato il Pd. Salvini ha conquistato la segreteria della Lega, con l’accordo che Tosi sarebbe stato il candidato premier, e ora l’ha cacciato. La nuova legge elettorale mette i partiti al centro di tutto: il partito più votato avrà il premio di maggioranza, i capi partito designeranno gran parte degli eletti. Eppure non ci sono né le regole, né le garanzie, forse neppure la volontà necessarie ad aprire i partiti alla partecipazione dei cittadini.

Chi si iscrive oggi a un partito, e perché? Quanti tra i giovani fanno politica? Sono davvero i migliori coloro che si avvicinano alla cosa pubblica? È lecito dubitarne. I partiti sono molto diversi da quelli di un tempo: non hanno sezioni, non hanno giornali, non hanno scuole di formazione e di pensiero, non hanno ideologie, forse non hanno neppure idee forti. Però non hanno mai avuto tanta influenza. Neppure i segretari della Dc e del Pci ricevevano premi di maggioranza e nominavano i propri parlamentari; e quasi mai il leader e il presidente del Consiglio erano la stessa persona (com’è accaduto a Berlusconi e come accade a Renzi). Eppure la Prima Repubblica era la Repubblica dei partiti. «Il partito, questo incredibile strumento del potere che da un giorno all’altro ti innalza ai vertici dello Stato, ti dà poteri economici decisionali anche se fino a ieri hai scritto libri di nessun valore, anche se sei un economista di cui nelle università dei Paesi avanzati riderebbero…»: così ha scritto Giorgio Bocca a proposito dell’ascesa di Fanfani; fin troppo severamente, visti i successori. «Partitocrazia» la chiamò Pannella.

Poi il sistema ricalcato sul mondo diviso in blocchi fu travolto dalla fine della Guerra Fredda, e dal dilagare insopportabile della corruzione. Una buona legge che portava il nome dell’attuale capo dello Stato creò collegi uninominali, in cui non si votava più un simbolo ma una persona. Si ironizzò sulle variazioni botaniche e floreali di partiti che erano stati potenti. Cominciò la stagione dei sindaci, che seppero interpretare la loro città e parvero offrire una nuova visione della politica, più aperta e vicina ai cittadini. E anche loro provarono a fondare un partito.

Oggi i sindaci non hanno più un soldo e sono ai minimi storici: Orsoni arrestato, de Magistris reintegrato dal Tar, Doria sbertucciato per strada, ora Tosi espulso; di Zedda e Merola si sono perse le tracce; a Palermo e a Catania ci sono gli stessi di oltre vent’anni fa; Pisapia non si ricandida (Marino purtroppo sì).

È vero che un ex sindaco mai passato dal Parlamento siede a Palazzo Chigi. Ma Renzi è salito al potere prendendosi il Pd e usandolo come una leva per scalzare Letta e insediarsi al suo posto. Ora, dopo aver concordato con Berlusconi una legge che enfatizza il ruolo dei partiti, annuncia di volerne uno «meno leggero di quello che pensavo», in cui iscritti e tessere tornino a pesare.

È difficile credere che Renzi desideri un improponibile ritorno al passato. Ma il futuro è tutto da costruire. La Costituzione all’articolo 49 prevede che all’interno dei partiti debba valere «il metodo democratico». Da decenni si discute di una legge che fissi regole per il funzionamento interno delle forze politiche (e sindacali); ora si parla di regolamentare per legge le primarie. Parliamoci chiaro: sarà molto difficile che queste norme vedano la luce. Ma non per questo il problema può essere eluso.

La semplificazione che le riforme di Renzi imprimeranno al sistema, sia pure al prezzo di qualche forzatura, può essere salutare. Ma proprio per questo servono regole chiare. Spesso le primarie, comprese le ultime in Campania, hanno creato più problemi di quelli che hanno risolto. I partiti rischiano di diventare club elettorali del capo e comitati d’affari, che inevitabilmente alimentano una corruzione tanto diffusa da non destare neppure più scandalo. E i social network sono una scorciatoia più semplice ma alla lunga più fragile del lavoro culturale e organizzativo che occorre per costruire movimenti attorno a energie e a interessi.

Oggi la politica non attrae i talenti e le intelligenze. Non forma quadri dirigenti e bravi amministratori. Disgusta o annoia, come confermano i dati d’ascolto dei talk-show . Il confronto delle idee langue, il livello della discussione pubblica non è all’altezza della gravità della situazione. Questi partiti tornati potenti si impoveriscono procedendo per espulsioni e promozioni non dei migliori ma dei fedeli. Trovare nuove forme di partecipazione e di rappresentanza è fondamentale, se non vogliamo rassegnarci a una politica ridimensionata a una questione per pochi intimi, con i militanti ridotti a clientes arraffoni o a fondale plaudente con bandiere a favore di telecamera .

Il manifesto, 12 marzo 2015
Non è gen­tile chie­dere l’età a una donna e i supremi giu­dici della Cas­sa­zione non hanno potuto dimo­strare che l’ottantenne pre­si­dente del con­si­glio sapesse che la ragazza scap­pata da una casa fami­glia aveva appena dicias­sette anni quando si fer­mava la notte nel villa di Arcore. Un vero gentiluomo.

Per gli ermel­lini del Palaz­zac­cio non deve essere stato facile nem­meno arri­vare a una sen­tenza di asso­lu­zione che infatti li ha impe­gnati per nove ore prima di giun­gere alla con­clu­sione della beata igno­ranza dell’ex cava­liere. Non solo. Hanno anche giu­di­cato che la tele­fo­nata not­turna del capo del governo ita­liano, impe­gnato in un ver­tice a Parigi, per chie­dere di libe­rare la nipote di Muba­rak fer­mata in que­stura, non era un atto di con­cus­sione del fun­zio­na­rio di poli­zia. Biso­gnava essere degli anti­ber­lu­sco­niani acce­cati dall’odio per non capire che se il poli­tico più potente del paese si inte­res­sava alla ragazza cer­ta­mente si trat­tava di un nobile sen­ti­mento di paterna pre­oc­cu­pa­zione per la sorte dell’illustre nipote. Infatti Ruby uscì dalla que­stura per ritro­varsi a casa di una pro­sti­tuta dopo essere pas­sata per le cure di una delle fre­quen­ta­trici delle cene ele­ganti, Nicole Minetti, già pro­mossa a con­si­gliere regio­nale per evi­denti meriti acqui­siti sul campo.

Eppure per non fare la figura di un Ghe­dini qual­siasi, per­fino l’avvocato Franco Coppi deve ammet­terlo davanti ai cro­ni­sti: «Ber­lu­sconi non me ne voglia ma non posso calarmi il velo davanti agli occhi». Il lumi­nare del foro mila­nese lo dice a pro­po­sito delle serate con le pro­sti­tute che l’allora pre­si­dente del con­si­glio spac­ciava per con­vivi musi­cali. Un giro vor­ti­coso di donne a paga­mento nella casa del capo del governo. Un «fatto pro­sti­tu­tivo», con­fer­mato da giu­dici e avvocati.

Tut­ta­via, come dicono gli addetti ai lavori, non si sono rav­vi­sate «le fat­ti­spe­cie di reato» e tanto basta alla grande fami­glia ber­lu­sco­niana per far festa. Se ieri avete acceso la tele­vi­sione avete visto pic­cole folle armate di ban­diere davanti l’abitazione romana di Ber­lu­sconi. Avete ascol­tato l’attuale mini­stro dell’interno di Renzi, con­fes­sare la pro­pria feli­cità per aver sem­pre cre­duto nell’innocenza del suo lea­der, e con lui tutti i ber­lu­sco­niani che ieri, invece di minac­ciare i giu­dici del tri­bu­nale di Milano con mani­fe­sta­zioni fuori e den­tro il palazzo di giu­sti­zia, si sono limi­tati a chie­dere il risar­ci­mento per il loro amato capo.

E pazienza se resta sem­pre un con­dan­nato in via defi­ni­tiva per frode fiscale, se deve affron­tare a Napoli un pro­cesso per com­pra­ven­dita di par­la­men­tari, se deve stare attento al pro­cesso di Bari sui traf­fici di pro­sti­tute dell’amico Taran­tini, se deve tre­mare per il cosid­detto Ruby-ter sulla cor­ru­zione di atti giu­di­ziari (le olget­tine pagate per tacere). Pic­cole, fasti­diose fis­sa­zioni della magi­stra­tura che non impe­di­ranno a un poli­tico in declino di sen­tirsi di nuovo a cavallo, pronto a rim­boc­carsi le mani­che per darci «un’Italia migliore». Quell’Italia che lo ha votato per vent’anni, che oggi non lo vota più anche per­ché una parte di quell’elettorato avverte una pro­fonda sin­to­nia con il gio­vane lea­der di palazzo Chigi che sem­bra volerne repli­care suc­cessi e consensi.

Ver­ranno giorni migliori ma la morale della favola di que­sta asso­lu­zione del con­dan­nato eccel­lente l’abbiamo impa­rata da uno dei grandi mae­stri della let­te­ra­tura ame­ri­cana che ci aveva avver­tito per tempo: «Non c’è motivo per cui il bene non possa trion­fare sul male, se solo gli angeli si des­sero un’organizzazione ispi­rata a quella della mafia»

Il pane e le rose, 11 marzo 2015

Ieri è stata la sua grande giornata. E' passato alla storia ed ha coronato venti anni di attività politica di primissimo piano nella quale non c'è stato un solo giorno nel quale abbia giocato di rimessa e non sia stato l'attore principale. Aveva detto all'inizio: " Rivolterò l'Italia" come un calzino". L'ha fatto. E' stato il più rigoroso ideologo dell'anticomunismo che l'Italia abbia mai avuto al potere. Tutto quello che non è riuscito a fare pur creandone l'humus, il contesto è stato fatto dal suo legittimo successore: Matteo Renzi che sebbene non uscito dai saloni di Villa Arcore è il suo erede spirituale, colui che ha portato a compimento la sua opera.

Berlusconi si presenta venti anni fa al potere del Paese come la parte sconfitta dalla Resistenza, la parte cancellata e costretta a rifugiarsi nelle fogne,che ribalta la sua condizione in quella del vincitore. Sdogana Fini e lancia un segnale a tutta l'area fascista del Paese che non era riuscita a riciclarsi con Almirante. Assume di fatto la guida degli industriali italiani anche se all'inizio questi erano assai diffidenti e scostanti verso di lui. Quando scoppia una delle tante crisi della Fiat si presenta allo appuntamento con l'avvocato Gianni Agnelli a bordo di possenti auto straniere esibite al pubblico italiano.

Perchè ieri è stata la sua apoteosi, la sua assunzione in cielo, la sua divinizzazione? Perchè un parlamento trattato a staffilate dal suo successore approva una legge che sfascia la Costituzione deformandone il contenuto e perchè la Magistratura italiana che è stata la nemica con la quale si è confrontata per venti anni realizza un imbarazzante autogol: la Cassazione lo assolve di una gravissima accusa formulata dal Tribunale di Milano riguardante la corruzione di una minorenne e la concussione di funzionari di questura. Era stato condannato a sette anni, pubblico ministero accusatore Ilda Boccassini che fiammeggiava con la spada della giustizia nelle mani nelle requisitorie contro di lui.

Si dice che però ieri Berlusconi ha perso Forza Italia, il suo Partito perchè lo ha indotto a votare contro Renzi. Il fatto non ha nessuna importanza dal momento che il suo scaltro successore non avrà più bisogno dei suoi voti per andare avanti. Non ha neppure importanza se ci sarà un Nazareno secondo. Il PD è il suo partito, la sua Forza Italia. L'ideologia berlusconiana è penetrata profondamente in tutte le strutture della politica e dello Stato e si è inverata in un avventuriero di grande fortuna quale è Matteo Renzi.

Berlusconi ha vinto perchè ha fatto di quello che fu il PCI il suo partito: il PD è lo strumento che ha sfasciato la classe lavoratrice, ha ridotto il sindacato alla obbedienza al governo, ha portato avanti un programma di riforme costituzionali riducendo ad una sorta di ''dopolavoro'' il Senato e cancellando i valori resistenziali contenuti nella Costituzione a cominciare da quelli che tutelavano il lavoro.

Aveva ragione ieri il professore Marino a parlare della vittoria del berlusconismo alla fine di Berlusconi. E' proprio così. Naturalmente non è stato solo merito suo perchè i grandi cambiamenti della storia non sono mai merito di una sola causa. La Bolognina è una lontana sorgente dell'ideologia liberista che ha dato linfa e cultura al berlusconismo. L'assetto iperliberista e soffocante dell' Unione Europea ne è con causa importante.

La sconfitta della classe operaia è assoluta: perde la sua identità di classe perchè il lavoro non è più un diritto e la forza che conta è quella della impresa, perde il suo contesto culturale nella demolizione della Costituzione, perde il suo partito che ha avuto una mutazione maligna ed è diventato il partito del suo mortale nemico.

Una sconfitta destinata a pesare a lungo e che ha azzerato i diritti di due generazioni prive di diritti ed ingannate dalla Job Act che precarizza per sempre il lavoro. Non ci sarà mai più impiego a tempo indeterminato per nessuno. I pochi diritti sopravvissuti sono destinati ad essere cancellati.

Il Fatto quotidano, 9 marzo 2015

"Il Pd non è solo un partito di potere, ci sono tanti uomini e donne che ci credono". Vero, ha ragione l'alto dirigente democratico che ti agita davanti una copia del Fatto Quotidiano. Ma ha anche torto. E la colpa non è solo di Matteo Renzi e della sua corte selezionata premiando l'ossequio più che i meriti.
No, la deriva del maggiore partito italiano - sempre più simile al Psi craxiano, ma forse ancora più insidioso - è responsabilità soprattutto di quella zona grigia di dirigenti e onorevoli che nasconde il proprio dissenso, che ha il coraggio di manifestarlo soltanto nel chiuso di stanze e corridoi. Non intendiamo i D'Alema che vorrebbero scalzare Renzi per riproporre il loro decrepito siste
ma di potere. Parliamo di gente talvolta capace e perbene. Che prova sincero disagio. Eppure tace, al massimo si limita a criptiche - e magari penose - manifestazioni di dissenso. Ti ritorna in mente quel pezzo grosso del partito che paonazzo di sdegno si scaglia - in privato - contro Davide Serra e il clan di finanzieri che stringono un nuovo Nazareno alla corte di Mediolanum. O magari quel membro del Governo che, sussurrando, giura e spergiura quanto per lui sarebbero importanti le riforme quelle vere - della giustizia: corruzione e falso in bilancio. Ma alla prova dei fatti sembra liquefarsi. E ancora quel sindaco di una grande città che punta il dito su Debora Serracchiani che passa le giornate a Roma dividendosi tra la poltrona del direttivo Pd e quelle degli studi televisivi, quando ha già un compito da governatrice del Friuli Venezia Giulia che da solo basterebbe a far tremare i polsi. O infine quel consigliere regionale della Toscana: in privato critica le cementificazioni selvagge firmate Pd e poi in consiglio presenta emendamenti che rischiano di vanificare il coraggioso Piano Paesaggistico dell'assessore Anna Marson.

Perché fanno così? Certo, c'è chi ha una poltrona da difendere e se la perdesse finirebbe a spasso dal momento che non ha mai lavorato in vita sua. Ma non solo. C'è chi ci crede davvero. Gente che viene ancora dal Pci e ha conservato un profondo senso di fedeltà al partito. C'è chi è sinceramente convinto che l'unità sia un bene da preservare. Non sono valori da disprezzare. Eppure proprio a queste persone che puntellano e legittimano il renzismo verrebbe da porre alcune domande: conta più la fedeltà al Pd oppure ai propri ideali e ai programmi sui quali si è avuto il consenso? Che valore ha un partito nel momento in cui i suoi interessi confliggono con quelli di una regione, di un Paese e dei cittadini? Non sarebbe il momento di uno scatto di orgoglio e coraggio anche a costo di un sacrificio personale?"Il Pd non è solo un partito di potere, ci sono tanti uomini e donne che ci credono". Vero, ha ragione l'alto dirigente democratico che ti agita davanti una copia del Fatto Quotidiano. Ma ha anche torto. E la colpa non è solo di Matteo Renzi e della sua corte selezionata premiando l'ossequio più che i meriti.

No, la deriva del maggiore partito italiano - sempre più simile al Psi craxiano, ma forse ancora più insidioso - è responsabilità soprattutto di quella zona grigia di dirigenti e onorevoli che nasconde il proprio dissenso, che ha il coraggio di manifestarlo soltanto nel chiuso di stanze e corridoi. Non intendiamo i D'Alema che vorrebbero scalzare Renzi per riproporre il loro decrepito sistema di potere. Parliamo di gente talvolta capace e perbene. Che prova sincero disagio. Eppure tace, al massimo si limita a criptiche - e magari penose - manifestazioni di dissenso.

Ti ritorna in mente quel pezzo grosso del partito che paonazzo di sdegno si scaglia - in privato - contro Davide Serra e il clan di finanzieri che stringono un nuovo Nazareno alla corte di Mediolanum. O magari quel membro del Governo che, sussurrando, giura e spergiura quanto per lui sarebbero importanti le riforme quelle vere - della giustizia: corruzione e falso in bilancio. Ma alla prova dei fatti sembra liquefarsi.
E ancora quel sindaco di una grande città che punta il dito su Debora Serracchiani che passa le giornate a Roma dividendosi tra la poltrona del direttivo Pd e quelle degli studi televisivi, quando ha già un compito da governatrice del Friuli Venezia Giulia che da solo basterebbe a far tremare i polsi. O infine quel consigliere regionale della Toscana: in privato critica le cementificazioni selvagge firmate Pd e poi in consiglio presenta emendamenti che rischiano di vanificare il coraggioso Piano Paesaggistico dell'assessore Anna Marson.

Perché fanno così? Certo, c'è chi ha una poltrona da difendere e se la perdesse finirebbe a spasso dal momento che non ha mai lavorato in vita sua. Ma non solo. C'è chi ci crede davvero. Gente che viene ancora dal Pci e ha conservato un profondo senso di fedeltà al partito. C'è chi è sinceramente convinto che l'unità sia un bene da preservare. Non sono valori da disprezzare. Eppure proprio a queste persone che puntellano e legittimano il renzismo verrebbe da porre alcune domande: conta più la fedeltà al Pd oppure ai propri ideali e ai programmi sui quali si è avuto il consenso? Che valore ha un partito nel momento in cui i suoi interessi confliggono con quelli di una regione, di un Paese e dei cittadini? Non sarebbe il momento di uno scatto di orgoglio e coraggio anche a costo di un sacrificio personale?

Il manifesto, 11 marzo 2015

Addio soli­da­rietà. A rimet­tere in discus­sione il fon­da­mento della nostra sanità pub­blica sono quelle Regioni che Ivan della Mea nel 1969 avrebbe cata­lo­gato tra le cose che si stin­gono cam­biando di colore «il rosso è diven­tato giallo» e che oggi altro non sono se non Regioni senza scru­poli che col­pi­scono alle spalle l’etica egua­li­ta­ria del wel­fare. Sono le stesse Regioni che rispetto all’universalismo sono state di esem­pio a tutti. Vale a dire Emi­lia Roma­gna e Toscana, ma anche Ligu­ria e anche altre.

Messe alle corde dalle restri­zioni finan­zia­rie, stanno aprendo la strada alla pri­va­tiz­za­zione della sanità, inca­paci di tro­vare solu­zioni alter­na­tive pur aven­done a dispo­si­zione un bel po’. Tra­di­menti quindi, cioè con­tro­ri­forme, in nulla giu­sti­fi­cati dai con­te­sti avversi e che si spie­gano con la mala­fede poli­tica, la diso­ne­stà intel­let­tuale, i limiti cul­tu­rali, lo spi­rito con­tro­ri­for­ma­tore del tempo e un cedi­mento al pen­siero spe­cu­la­tivo dell’intermediazione finanziaria.

La Toscana, la regione con il più alto tasso di copay­ment cioè di com­par­te­ci­pa­zione alla spesa pub­blica da parte dei cit­ta­dini, è anche la Regione che di fatto ha pra­ti­ca­mente appal­tato la dia­gno­stica e buona parte della spe­cia­li­stica ambu­la­to­riale ai pri­vati, inco­rag­gian­doli a pro­porsi con prezzi com­pe­ti­tivi e pro­mo­zio­nali per bat­tere il pub­blico, oggi alle prese con un rior­dino espli­ci­ta­mente con­tro riformatore.

L’Emilia Roma­gna, da tempo al lavoro per costruire fondi inte­gra­tivi, recen­te­mente ha rag­giunto un’intesa con Coop e Uni­pol per for­nire sistemi assi­sten­ziali paral­leli e lo stesso pre­si­dente Bonac­cini nel suo pro­gramma poli­tico ha dichia­rato di voler «spez­zare la con­ce­zione ideo­lo­gica che con­trap­pone pub­blico e pri­vato». La Ligu­ria è sulla mede­sima strada e da tempo.

Che senso hanno que­ste poli­ti­che? Met­tere in con­flitto due generi di soli­da­rietà: quella mutua­li­stica che dipende dai red­diti delle per­sone e che per sua natura è discri­mi­na­tiva e quella pub­blica che dipende dai diritti delle per­sone e che per sua natura è egua­li­ta­ria. Cioè stanno con­trap­po­nendo la dise­gua­glianza alla egua­glianza facendo della prima un valore e della seconda un disva­lore. Un gioco aper­ta­mente neo­li­be­ri­sta a somma negativa.

C’è da chie­dersi con una certa urgenza cosa fare per com­bat­tere que­ste ten­denze. Rodotà recen­te­mente con un suo libro (“Soli­da­rietà, un’utopia neces­sa­ria” Laterza 2014) dice che oggi «è necessario…riprendere con deter­mi­na­zione il tema dei prin­cipi». Ma cosa vuol dire «seguire la via del costi­tu­zio­na­li­smo» per riba­dire «la con­nes­sione tra prin­cipi e diritti» per non «ras­se­gnarsi alla subor­di­na­zione alle com­pa­ti­bi­lità eco­no­mi­che»? A che serve riba­dire il valore della soli­da­rietà quale “prin­ci­pio gene­rale” quando esso è già nor­mato, e quando il vero pro­blema che abbiamo è la sua inos­ser­vanza se non la sua nega­zione? Temo che la strada dei prin­cipi non basti.

In sanità come dimo­strano le “Regioni gialle” la rot­tura del legame soli­da­ri­stico ini­zia dai limiti anche cul­tu­rali di una classe diri­gente che non è capace di prov­ve­dere ad un pen­siero rifor­ma­tore e che vede nella con­tro­ri­forma l’ unica pos­si­bi­lità di gestire un limite eco­no­mico. In sanità la soli­da­rietà è in crisi per tante ragioni: eco­no­mi­che , cul­tu­rali, sociali filo­so­fi­che e antro­po­lo­gi­che, poli­ti­che . Il più grande sin­da­cato dei medici di medi­cina gene­rale al suo ultimo con­gresso si è dichia­rato favo­re­vole a ridurre la soli­da­rietà dello Stato ai soli indi­genti. Il sin­da­cato con­fe­de­rale si trova den­tro una con­trad­di­zione imba­raz­zante: da una parte difende il sistema sani­ta­rio soli­dale e uni­ver­sale e dall’altra per via con­trat­tuale sti­pula per le “cate­go­rie forti” accordi per l’assistenza mutualistica.

La più grande rot­tura della soli­da­rietà nel mio campo si ha con la cre­scita espo­nen­ziale del con­flitto tra società e sanità, defi­nita altri­menti “con­ten­zioso legale”. I cit­ta­dini malati por­tano i medici in tri­bu­nale cioè rom­pono i legami di soli­da­rietà che li ha sem­pre giu­stap­po­sti ai pro­pri tera­peuti per mil­lenni. Que­sti anti­chi legami si sono rotti anche per­ché l’uso della medi­cina oggi è for­te­mente con­di­zio­nata da com­por­ta­menti aper­ta­mente anti­so­li­da­ri­stici degli ope­ra­tori come sono quelli agiti in modo oppor­tu­ni­stico a difesa dei rischi pro­fes­sio­nali (medi­cina difensiva).

La soli­da­rietà sino ad ora in sanità è stata vista, soprat­tutto da sini­stra, come di tipo fon­da­men­tal­mente fiscale ma in realtà di soli­da­rietà ve ne sono tante e quello che ci manca è un pen­siero rifor­ma­tore in grado di ricom­pren­derle in un nuovo discorso che oltre che di diritti parli anche di doveri pro­prio nel senso indi­cato dall’art 2 della Costi­tu­zione. Non sono d’accordo con le “Regioni gialle” che ricon­du­cono tutto ad una que­stione di scar­sità delle risorse ma nean­che con coloro che par­lano del con­trollo delle risorse come una prio­rità costituzionale.

Lorenza Car­las­sare, ad esem­pio, ci pro­pone di distin­guere «fondi dove­rosi» «desti­na­zioni con­sen­tite» e «desti­na­zione vietate»(Costituzionalismo.it,1,2013)…ma in sanità le dif­fe­renze tra necessario/essenziale/utile/primario/secondario costi­tui­scono un campo minato e poi allo­care risorse con que­sta logica non è molto diverso da chi pro­pone di finan­ziare la sanità per prio­rità che come è noto è il pre­sup­po­sto di par­tenza dell’universalismo selet­tivo. Se ragio­niamo per “prio­rità” addio solidarietà.

Penso che la con­trad­di­zione solidarietà/risorse sia inne­ga­bile ma non giu­sti­fica il “tra­di­mento” delle regioni nei con­fronti dell’universalismo. L’art 2 della costi­tu­zione ci invita a con­si­de­rare la soli­da­rietà come «dovere», men­tre le regioni si sot­trag­gono a que­sto dovere

«La volontà di concentrare tutti gli sforzi sull’Italicum offre l’impressione di una scaramuccia di retroguardia». La Sinistra Tremula risale in disordine e senza speranza le valli dell'opposizione interna al PD di Matteo Renzi. Il futura di una sinistra vera non è lì. La Repubblica, 11 marzo 2015

«Ho votato sì per l’ultima volta» dice Bersani dopo aver dato il suo consenso alla riforma del Senato. In realtà l’ex segretario del Pd, oggi figura di riferimento della minoranza anti-Renzi, racchiude in sé tutte le contraddizioni di un fronte che un passo dopo l’altro sta perdendo la guerra.

Del resto, non c’è nulla che alimenti il successo come il successo medesimo. Renzi si è costruito la fama del vincitore, una specie di «veni, vidi, vici» moderno. Finché la sorte lo assiste, è difficile credere che la minoranza del suo partito riesca a rovesciare il tavolo. Certo, l’argomento di Bersani e dei suoi amici non è irrilevante. In sostanza, si ritiene che la legge elettorale — l’Italicum — sia inadeguata per via dei numerosi deputati «nominati» dalle segreterie e non realmente eletti in un confronto nei collegi. Soprattutto il combinato disposto dell’Italicum e di un sistema monocamerale, prodotto dalla riforma che trasforma il Senato in un’assemblea di «secondo grado», cioè non eletta dal popolo, appare agli occhi degli oppositori un vulnus democratico. Un tema molto vicino alla posizione espressa dai vendoliani di Sel.

Il problema è che la minoranza non ha la forza e nemmeno una linea coerente per tentare di vincere la battaglia. Quando la riforma costituzionale era a Palazzo Madama in prima lettura, gli anti-Renzi del Pd — salvo alcune eccezioni — non seppero o non vollero impegnarsi all’unisono per bloccarla. Lasciarono intendere che il vero scontro sarebbe stato a Montecitorio, dove peraltro i numeri sono molto più favorevoli al premier- segretario. In realtà, come si è visto, alla Camera Bersani e quasi tutti i suoi hanno votato secondo la disciplina interna, sia pure «per l’ultima volta».

A questo punto la riforma è a due passi dalla sua definitiva approvazione ed è davvero arduo immaginare che possa essere insabbiata, nonostante l’esiguo margine di voti al Senato. Inoltre, come è noto, la linea del Pd è storicamente favorevole al sistema monocamerale e ciò spiega perché l’attenzione della minoranza si è già spostata verso la legge elettorale. L’obiettivo minimo è modificare lo schema delle liste bloccate, ma anche il premio alla lista anziché alla coalizione non piace.

Questa volontà di concentrare tutti gli sforzi sull’Italicum, in vista di ottenere modifiche significative all’impianto della legge, è in sé legittima, ma non si sfugge all’impressione che si tratti di una scaramuccia di retroguardia. Qualcosa a cui forse non tutti credono negli stessi ranghi della minoranza del Pd. Vale per la legge elettorale quello che si è detto per la riforma costituzionale: perché non c’è stato un maggiore impegno quando forse era possibile spuntare un risultato? Anche l’Italicum è già passato sotto le forche caudine del Senato ed è stato approvato. Eravamo in gennaio, prima che le Camere si riunissero per eleggere il capo dello Stato, e Renzi giocò abilmente sia Berlusconi sia la sua minoranza interna, ottenendo il «sì» alla riforma.

Anche allora i bersaniani annunciarono lotta senza quartiere, ma solo pochi di loro tennero fede ai propositi e alla fine furono comunque sconfitti dai numeri. Gli altri, per varie ragioni, si defilarono. Adesso l’Italicun si sta avviando verso Montecitorio per la seconda e definitiva lettura. Bersani chiede di non perdere l’ultima occasione di modificarne la sostanza ed è andato anche da Mattarella per illustrargli il suo punto di vista. Ma se è una battaglia per la rappresentanza democratica, il «pathos» è purtroppo assente. E di nuovo il terreno scelto — l’assemblea di Montecitorio — è il meno propizio per ribaltare i rapporti di forza con i renziani.

Peraltro il presidente del Consiglio già da tempo è dedito a dividere l’opposizione interna, portando dalla sua spezzoni più o meno consistenti. E lasciando intendere, invece, che per gli intransigenti non ci sarà futuro nelle liste elettorali dell’Italicum. I bersaniani ortodossi, più che vincere un braccio di ferro tardivo, non dovranno sembrare interessati solo a salvare il seggio in Parlamento.

Il manifesto, 10 marzo 2015
La legge di revi­sione costi­tu­zio­nale che oggi sarà appro­vata dalla camera modi­fica 47 arti­coli sui 134 che com­pon­gono l’attuale Costi­tu­zione. Più del 35%: l’intera seconda parte (Ordi­na­mento della Repub­blica) e un solo arti­colo, il 48, della prima parte (Diritti e doveri dei cit­ta­dini). Il dise­gno di legge porta la firma di Mat­teo Renzi e Maria Elena Boschi ed è stato gestito come un affare di stretta com­pe­tenza del governo (con una sorta di que­stione di fidu­cia: «Se il par­la­mento non fa le riforme va a casa») attra­verso tempi con­tin­gen­tati, «can­guri» (emen­da­menti can­cel­lati a bloc­chi) e una seduta fiume alla camera. Dovrà tor­nare al senato — che però potrà discu­tere solo i 10 arti­coli modi­fi­cati dalla camera — e, dopo la pausa di rifles­sione di tre mesi, dovrà pas­sare per il voto con­forme a mag­gio­ranza asso­luta dei due rami del par­la­mento. Poi il refe­ren­dum con­fer­ma­tivo, con il quale si chie­derà ai cit­ta­dini un voto pren­dere o lasciare su tutta la riforma. Non ci sarà cioè quel refe­ren­dum «omo­ge­neo» per mate­ria pre­scritto dalla Corte Costi­tu­zio­nale e con­si­de­rato ormai un punto fermo dai costi­tu­zio­na­li­sti, al punto da essere stato pre­vi­sto nella pre­ce­dente ipo­tesi di riforma «lar­ghe intese» (governo Letta).

Le prin­ci­pali modi­fi­che alla Costi­tu­zione pos­sono essere rias­sunte in otto punti; tre invece sono le parole d’ordine scelte dal governo: fine del bica­me­ra­li­smo, sem­pli­fi­ca­zione, rispar­mio. Tre slo­gan finiti in un solo arti­colo, il nuovo 55 della Costi­tu­zione, che cre­sce da 5 a 35 righe: d’ora in poi solo i depu­tati «rap­pre­sen­tano la nazione» men­tre il nuovo senato «rap­pre­senta le isti­tu­zioni ter­ri­to­riali». Secondo Renzi l’abolizione del senato elet­tivo e delle pro­vince pro­durrà un taglio di spesa di un miliardo, secondo la Ragio­ne­ria gene­rale dello stato rispar­mie­remo solo 49 milioni.

1 — Senato non elet­tivo. In luogo di 315 sena­tori eletti da tutti i cit­ta­dini che hanno com­piuto 25 anni, a palazzo Madama sie­de­ranno in 95 scelti dai con­si­glieri regio­nali all’interno dei con­si­gli e tra i sin­daci della regione. Altri cin­que sena­tori potranno essere scelti «per altis­simi meriti» dal pre­si­dente della Repub­blica per un inca­rico di sette anni. Le moda­lità di ele­zione all’interno dei con­si­gli regio­nali sono tutte da scri­vere: una buona simu­la­zione è rap­pre­sen­tata dalla recente sele­zione dei dele­gati per l’elezione del pre­si­dente della Repub­blica: il Pd da solo si è aggiu­di­cato circa il 60% dei posti. La com­po­si­zione del senato cam­bierà con il suc­ce­dersi delle con­si­lia­ture regio­nali, e anche il numero totale dei sena­tori potrà aumen­tare o dimi­nuire in caso di novità nei cen­si­menti. Il senato non vota la fidu­cia al governo.

2 — Pro­ce­di­mento legi­sla­tivo. L’articolo 70 della Costi­tu­zione è attual­mente di una sola riga: «La fun­zione legi­sla­tiva è eser­ci­tata col­let­ti­va­mente dalle due camere». Il nuovo è di oltre cin­quanta righe. Pre­vede in sin­tesi quat­tro pro­ce­dure: 1) Le leggi costi­tu­zio­nali sono appro­vate da entrambe le camere. 2) Sulle leggi ordi­na­rie il senato può even­tual­mente espri­mersi dopo che la camera le abbia appro­vate, ma la camera ha l’ultima parola a mag­gio­ranza sem­plice. 3) Per alcune leggi com­prese in un elenco di mate­rie (tutela dell’interesse nazio­nale) se il senato si esprime a mag­gio­ranza asso­luta la camera può igno­rare la deli­be­ra­zione ma votando anche lei a mag­gio­ranza asso­luta. 4) Il senato può pro­porre una legge alla camera votan­dola a mag­gio­ranza asso­luta, ma la camera può igno­rare la pro­po­sta a mag­gio­ranza sem­plice. Su even­tuali, pre­ve­di­bi­lis­simi, con­flitto di attri­bu­zione tra le due camere «deci­dono i pre­si­denti delle camere d’intesa tra loro». Nulla si dice nel caso di man­cata intesa.

3 — Voto a data certa. Il governo potrà chie­dere alla camera di votare in maniera defi­ni­tiva entro set­tanta giorni una legge che con­si­dera «essen­ziale per l’attuazione del pro­gramma». Il ter­mine include i tempi neces­sari per l’eventuale esame del senato. Il nuovo isti­tuto non sosti­tui­sce i decreti legge, per i quali ven­gono solo pre­vi­sti in Costi­tu­zione quei limiti per mate­ria (leggi costi­tu­zio­nali, leggi elet­to­rali e altre) che già sono pre­vi­sti oggi dalla legge ordi­na­ria.

4 — Giu­di­zio pre­ven­tivo di costi­tu­zio­na­lità. È pre­vi­sto solo per le leggi elet­to­rali, com­presa quella che sarà even­tual­mente appro­vata (Renzi se lo augura) nelle legi­sla­tura in corso (l’Italicum). Un terzo dei sena­tori o un quarto dei depu­tati potranno chie­dere alla Con­sulta di valu­tare la legit­ti­mità delle nuove norme elet­to­rali una volta con­cluso l’esame delle camere e prima che la legge venga pro­mul­gata dal capo dello stato. Si dovreb­bero così evi­tare nuovi casi «Por­cel­lum».

5 — Stru­menti di demo­cra­zia diretta. Il governo ha detto di volerli age­vo­lare, le modi­fi­che vanno nel senso oppo­sto. Per una legge di ini­zia­tiva popo­lare occor­re­ranno il tri­plo delle firme (da 50mila a 150mila), viene enun­ciato il prin­ci­pio che il par­la­mento deve garan­tirne l’esame, rin­vian­dolo però ai rego­la­menti par­la­men­tari. Ven­gono citati in costi­tu­zione i refe­ren­dum pro­po­si­tivi e di indi­rizzo, ma anche in que­sto caso c’è un rin­vio: a una pros­sima legge costi­tu­zio­nale. Infine cam­biano i numeri del refe­ren­dum abro­ga­tivo: se la pro­po­sta è sot­to­scritta dagli attuali 500mila elet­tori con­ti­nuerà a essere richie­sta la par­te­ci­pa­zione del 50% più uno degli aventi diritto al voto per­ché il refe­ren­dum sia valido. Se invece le firme saranno 800mila basterà il 50% più uno dei votanti alle ultime ele­zione per la camera.

6 — Deli­be­ra­zione dello stato di guerra. Passa dalla com­pe­tenza bica­me­rale e quella della sola camera, che dovrà deci­dere a mag­gio­ranza asso­luta. Ma la legge elet­to­rale in arrivo (Ita­li­cum) garan­ti­sce quella mag­gio­ranza a un solo par­tito. Resta pre­vi­sto che una legge sem­plice può pro­ro­gare la durata della camera in caso di guerra. E così, almeno in teo­ria, viene messo in mano a un solo par­tito lo stru­mento per rin­viare le ele­zioni poli­ti­che.

7– Ele­zione del pre­si­dente della Repub­blica. Perde buona parte della carica bipar­ti­san per effetto della dimi­nu­zione dei sena­tori e dell’abolizione dei dele­gati regio­nali. Sono pre­vi­sti tre quo­rum: due terzi dei com­po­nenti per i primi tre scru­tini, tre quinti dei com­po­nenti dal quarto scru­ti­nio e tre quinti dei votanti dal set­timo. A conti fatti (con l’Italicum) il primo par­tito potrebbe con­tare su 410 grandi elet­tori, doven­done met­tere insieme dal quarto scru­ti­nio appena 438.

8 — Titolo V. Viene sop­pressa la com­pe­tenza con­cor­rente tra stato e regioni, cre­sce rispetto alla Costi­tu­zione vigente l’elenco delle mate­rie di com­pe­tenza esclu­siva dello stato (l’articolo 117 mette in fila 21 grandi capi­toli, dalla poli­tica estera ai porti e aero­porti). Viene intro­dotta la «clau­sola di supre­ma­zia» in base alla quale il par­la­mento può legi­fe­rare anche in mate­rie di com­pe­tenza regio­nale «quando lo richieda la tutela dell’unità giu­ri­dica o eco­no­mica della Repub­blica ovvero l’interesse nazio­nale». Ma a deci­dere di far scat­tare la clau­sola potrà essere solo il governo.

Il manifesto, 8 marzo 2015

Set­ti­mana lavo­ra­tiva di 35 ore, per­messo di pater­nità equi­pa­rato a quello di mater­nità, scuole infan­tili e ospizi gra­tuiti. Sono solo alcune delle pro­po­ste con­te­nute in un docu­mento che potrebbe get­tare le basi per una rivo­lu­zione cul­tu­rale nella gestione delle poli­ti­che assi­sten­ziali. A fir­marlo l’esperta fiscale Maria Pazos e l’economista Bibiana Madial­dea, che su inca­rico di Pode­mos, hanno ela­bo­rato una pro­po­sta di taglio fem­mi­ni­sta per rifor­mare un set­tore dello stato sociale con­ge­ni­ta­mente «obso­leto, ingiu­sto, insuf­fi­ciente e inso­ste­ni­bile», come spiega María Pazos Morán, 61 anni, atti­vi­sta della piat­ta­forma inter­na­zio­nale per la parità di genere Plent e ricer­ca­trice dell’Istituto nazio­nale di studi fiscali, dove dirige il pro­gramma di poli­ti­che pub­bli­che e ugua­glianza di genere.

La pro­po­sta si basa su prin­cipi di soli­da­rietà, pro­por­zio­na­lità, cit­ta­di­nanza uni­ver­sale e indi­vi­dua­liz­za­zione dei diritti. Quasi un’utopia nel clima neo­li­be­ri­sta spa­gnolo…
«In realtà si tratta di pro­po­ste con­crete e attua­bili, che sul medio ter­mine por­te­reb­bero note­voli bene­fici eco­no­mici e potreb­bero con­tri­buire al supe­ra­mento della crisi. Rior­ga­niz­zare le poli­ti­che assi­sten­ziali vuol dire anche razio­na­liz­zare la spesa e ridurre il rischio di esclu­sione sociale e povertà, attual­mente i prin­ci­pali osta­coli al con­sumo. In que­sti anni si è agito in senso con­tra­rio e i tagli e l’individualismo neo­li­be­ri­sta hanno con­tri­buito al dete­rio­ra­mento dello stato sociale, anche se il pro­blema va oltre l’insufficienza di risorse: non c’è dub­bio che siano neces­sari più inve­sti­menti, ma altret­tanto neces­sa­rio è rior­ga­niz­zare strut­tu­ral­mente e ideo­lo­gi­ca­mente il sistema».

Da dove biso­gna comin­ciare?
«Il cuore del pro­blema sono le poli­ti­che di con­ci­lia­zione della vita fami­liare e lavo­ra­tiva. Attual­mente si incen­tiva l’abbandono totale o par­ziale del lavoro per chi si fa carico di man­sioni si assi­stenza: così si dispensa lo stato dall’assistenza dei più biso­gnosi per rele­garla all’ambito fami­liare, ovvero, per ragioni cul­tu­rali e sociali, a quello fem­mi­nile. Que­sta impo­sta­zione per­pe­tua una con­ce­zione dico­to­mica dei ruoli di genere, e crea ingiu­sti­zie che hanno un alto costo sociale. In primo luogo per le donne stesse, che sono osta­co­late nella loro rea­liz­za­zione lavo­ra­tiva, discri­mi­nate nella ricerca d’impiego e per­tanto più sog­gette alla dipen­denza eco­no­mica e all’esclusione sociale.

«Ma anche per gli uomini, che ven­gono costretti al mar­gine dell’ambito fami­liare e delle cure. Inol­tre la rinun­cia al lavoro non è com­pen­sata: l’assistenza non è con­si­de­rata come un lavoro, non gode degli stessi diritti e pro­te­zioni, e dà luogo a feno­meni di segre­ga­zione e di eco­no­mia sommersa».

La vostra è una pro­po­sta fem­mi­ni­sta con­tro un wel­fare maschi­li­sta?

«Più che maschi­li­sta direi patriar­cale, basato su un modello dise­qui­li­brato uomo-capofamiglia/sposa dipen­dente. Il nostro modello vor­rebbe rista­bi­lire un’uguaglianza di diritti e doveri che è van­tag­giosa per tutta la società: basti pen­sare al capi­tale umano che que­sta discri­mi­na­zione disperde. Per­tanto la nostra è una pro­po­sta fem­mi­ni­sta nel senso che punta a cor­reg­gere un ordine che allo stato attuale pre­giu­dica soprat­tutto le donne».

Su quali basi dovrebbe fon­darsi un sistema assi­sten­ziale egua­li­ta­rio?
È impre­scin­di­bile che l’assistenza esca dall’alveo della fami­glia, dove sarà sem­pre la donna a far­sene carico: per­ciò abbiamo insi­stito sull’individualizzazione e l’intrasferibilità dei diritti. Ma non è solo una que­stione di ugua­glianza e di eman­ci­pa­zione femminile.

«I dati demo­gra­fici lo dimo­strano: la popo­la­zione invec­chia e nel 2040 il numero delle per­sone biso­gnose d’assistenza saranno il dop­pio che nel 2008. E se si aggiunge che meno del 20% dei bam­bini sotto i 3 anni va all’asilo per più di 30 ore alla set­ti­mana, risulta chiaro che il cam­bio di para­digma è urgente. D’altra parte non si tratta di affi­dare tutto allo stato, ma di creare cor­re­spon­sa­bi­lità e garan­tire diritti affin­ché uomini e donne pos­sano dedi­care indi­stin­ta­mente tempo all’assistenza fami­liare senza dover tra­scu­rare altri ambiti. In Sve­zia que­ste riforme sono state fatte verso la fine degli anni 60, in una società meno avan­zata di quanto non lo sia quella spa­gnola di oggi».

E per­ché, invece, in Spa­gna, come in molti altri paesi medi­ter­ra­nei, si è fatto poco o nulla?
«Per­ché è neces­sa­ria un pre­cisa volontà poli­tica e un colpo di timone ideo­lo­gico, come quello che diede Zapa­tero con la riforma sul matri­mo­nio omo­ses­suale. Non si sta par­lando solo di un cam­bio di norme, ma anche di men­ta­lità e di valori.
«Una riforma come que­sta è pos­si­bile solo all’interno di una catarsi sociale che sosti­tui­sca indi­vi­dua­li­smo e con­su­mi­smo con soli­da­rietà, edu­ca­zione, cul­tura, aper­tura all’altro. D’altra parte il fer­mento poli­tico e le istanze di cam­bia­mento che ven­gono dalla cit­ta­di­nanza fanno pen­sare che i tempi siano maturi».

Quali sono le misure chiave del vostro pro­gramma?
Nell’ambito della cura degli anziani, garan­tire a ogni per­sona il diritto all’indipendenza e a essere assi­stita in strut­ture sta­tali. Per quanto riguarda la maternità/paternità, la pro­gres­siva intro­du­zione del per­messo retri­buito al 100% e di uguale durata per entrambi i geni­tori indi­pen­den­te­mente dal sesso e dall’orientamento ses­suale. Le sole due set­ti­mane di per­messo per i papà (a fronte delle 16 materne, ndr) sono costate solo 200 milioni di euro nel 2014.
Esten­derle avrebbe un costo rela­ti­va­mente basso, ma ine­sti­ma­bili van­taggi: met­te­rebbe fine, in primo luogo, alla discri­mi­na­zione delle donne nella ricerca d’impiego e appor­te­rebbe evi­denti bene­fici nella cura del neo­nato. Per quanto riguarda l’educazione infan­tile, pro­po­niamo asili gra­tis fino a 3 anni, e set­ti­mana lavo­ra­tiva di 35 ore».

La misura più urgente?
«Direi l’equiparazione dei con­gedi paren­tali. È la più emblematica».

«La seduzione dello Stato Islamico poggia sul concetto di appartenenza e per chi non ce la fa più a sgomitare e cerca nei suoi simili un gruppo al quale appartenere». Il Fatto Quotidiano online, blog "Economia occulta", 8 marzo 2015

Lo Stato Islamico è diventato un business, come lo divenne il terrorismo all’indomani dell’11 settembre. Dai giornalisti ai professori, dagli esperti alle think tank specializzate nel processo di radicalizzazione, persino il comune cittadino, grazie ai social media, esprime le proprie opinioni e così facendo promuove se stesso o attacca chi la pensa diversamente. E’ questo un bene? Lo sapremo tra 50 anni quando i posteri scriveranno di come abbiamo gestito questo periodo buio della storia della nostra civiltà.

Ma se fermiamo per un momento tutta questa ‘caciara’ opinionista e cerchiamo di capire cosa succede usando non gli strumenti del presente, la tecnologia informatica che mette tutti a contatto con gli altri, ma quelli del passato, l’analisi del male, le cose cambiano. La storia europea ci offre un esempio di comportamento malvagio e disumano recente, la soppressione a livello industriale degli ebrei, l’olocausto. Anche Hitler faceva pulizia etnica, sopprimeva gli omossessuali e distruggeva scientificamente la diversità. Spogliava dell’umanità il diverso. E lo faceva con un esercito ben addestrato e con il consenso della popolazione. Ce lo siamo dimenticato? Eppure ogni anno celebriamo il giorno della memoria per ricordare gli orrori di cui questo continente è stato capace.

Il Papa, unica luce in questo buio esistenziale nel quale siamo piombati, ha il coraggio di mettere in dubbio la consuetudine ideologica-religiosa della nostra normalità. Quando siamo schiavi dell’autoreferenzialità finiamo per coltivare una ‘spiritualità di etichetta': ‘Io sono Cl'; e cadiamo nelle mille trappole che ci offre il compiacimento autoreferenziale, quel guardarci allo specchio che ci porta a disorientarci e a trasformarci in meri impresari di una Ong”. Queste le sue parole.

In fondo anche i giovani mussulmani che vengono sedotti dal messaggio dello Stato Islamico sono schiavi di un’ideologia totalmente autoreferenziale che gli fa credere di appartenere alla normalità di un mondo monolitico, dove tutti sono uguali agli altri. La storia di Jihadi John, un ragazzino che non riusciva a trovare una sua collocazione nell’Inghilterra contemporanea, vessato dai servizi segreti che lo volevano trasformare in una spia, assomiglia molto a quella di Abu Mussaq al Zarqawi, il proletario giordano, bulletto di quartiere che in prigione scopre la ‘normalità’ del salafismo radicale. Ed anche quella delle promesse spose dei guerrieri jihadisti, che sognano un marito con la sciabola alla cintura ed una famiglia a Raqqa, rientra in questa ‘normalità’. Accettare la diversità è quasi diventato impossibile in un mondo sovrappopolato dove per farsi spazio bisogna lavorare di gomito costantemente.

La seduzione dello Stato Islamico poggia sul concetto di appartenenza e di normalità per chi non ce la fa più a sgomitare e cerca nei suoi simili, i deboli, un gruppo al quale appartenere. La celebrazione dell’individualismo che lo smembramento del socialismo e la vittoria del neo-liberismo ci ha regalato ha prodotto anche questo, la solitudine esistenziale di chi non ha i numeri per emergere dalla massa. Questo sicuramente non lo abbiamo letto da nessuna parte.

Un incontro casuale su un treno che da Amsterdam mi portava a Parigi qualche settimana fa ben illustra questo concetto. Nel vagone ristoro c’era un ragazzo di vent’anni che leggeva la versione olandese del mio libro sull’ Isis.

Mi sono avvicinata ed abbiamo iniziato a chiacchierare. Era iracheno, di Baghdad, ed era sunnita. La famiglia si era trasferita ad Amsterdam quando aveva 12 anni perché sfollati, la loro casa è stata requisita da una delle tante milizie sciite ed hanno avuto la fortuna di trovare asilo in Olanda. Una storia come tante altre, simile a quella di mia suocera, ebrea fuggita da Berlino nel 1938 a soli 14 anni con la madre grazie ad uno sponsor di New York. Anche per loro l’impatto con il nuovo paese è stato traumatico, il padre del ragazzo era professore di chimica adesso fa il tassista e lui, laureatosi in ingegneria non trova lavoro ed è stanco di aiutare il padre con il tassi. Anche la nonna di mio marito è finita a fare la cameriera in un albergo mentre a Berlino lavorava in borsa. Ma nel 1940 per i giovani ebrei in America era possibile costruirsi un futuro, nell’Europa contemporanea per i giovani mussulmani diventa sempre più difficile, quasi impossibile, farlo.

Il ragazzo iracheno mi ha raccontato di alcuni suoi amici che un paio d’anni fa hanno deciso di andare in Siria a combattere, chissà forse qualcuno è finito anche nelle file dell’Isis o di al Nusra, lui non lo sa o almeno così mi ha detto. Ma capisce l’attrazione, la seduzione che l’idea di andarsene esercita sui suoi coetanei. Una normalità frutto della scelta comune e della vita da sogno prospettata dai reclutatori dello Stato islamico. E’ un’illusione, gli ho detto. E lui mi ha risposto che è vero ma qual è l’alternativa?

Nel 1961 Hanna Arendt descrisse la banalità del male, attribuendo ai nazisti un comportamento da automa dettato da codici di normalità che li hanno portati a commettere un genocidio. La tesi fu duramente criticata ed oggi viene accettata come una delle interpretazioni più autentiche della tragedia dell’olocausto.

La banalità del male è ancora oggi la chiave di lettura delle barbarie perpetrate dallo Stato Islamico. A prescindere dalle esecuzioni degli ostaggi, che senso ha distruggere monumenti di un’era antecedente alla nascita del profeta? Domandiamoci questo, come possono le statue Assiro babilonesi essere idoli dal momento che chi le ha costruite non conosceva la parola del profeta? Fare tabula rasa del passato aiuta la costruzione della normalità del presente, è per questo che Hitler voleva sterminare gli ebrei tedeschi, si stratta di uno sfoggio di debolezza da parte di chi non ha più il coraggio di pensare e di scegliere, individui alienati da una società che secondo loro non li vuole.

Le radici della radicalizzazione sono sempre le stesse ed affondano nel nostro subconscio. Uccidere e distruggere sono atti contro natura ma se questa si rivela nemica allora è facile costruirne un’altra, monolitica ad immagine e somiglianza della propria debolezza.

Il ragazzo iracheno mi ha dato ragione, la seduzione dello Stato Islamico altro non è che la normalità dei deboli che nella violenza si illudono di essere forti. E più l’esercito dei deboli cresce, più questa normalità diventa realtà. In fondo questa era anche la seduzione del nazismo.

Ci siamo salutati quando il treno entrava a Bruxelles. Mi ha chiesto di firmargli il libro, ho scritto “in bocca al lupo” ne abbiamo tutti bisogno.

Il manifesto, 8 marzo 2015

UN CORPO FUORI CONTROLLO
di Geraldina Colotti

Diritti. Libertà sessuali e riproduttive, educazione, agibilità politica, il manifesto di Amnesty. Medici senza frontiere mette l’accento sui problemi sanitari delle adolescenti

Il corpo e i diritti, My body: my right. S’intitola così il mani­fe­sto dif­fuso da Amne­sty Inter­na­tio­nal per la gior­nata delle donne. Con­tiene 7 prin­cipi e una domanda: chi con­trolla il tuo corpo? I prin­cipi che Amne­sty chiede di sot­to­scri­vere atten­gono alle libertà ses­suali e ripro­dut­tive, ma anche all’educazione e all’informazione neces­sa­rie per com­piere scelte con­sa­pe­voli e agli spazi di agi­bi­lità poli­tica per influire sulle leggi e sui deci­sori. La pre­senza del punto 2 — «Cer­care di abor­tire — o aiu­tare qual­cuno a farlo — NON ci rende cri­mi­nali» — la dice lunga sui passi indie­tro com­piuti, anche in Ita­lia, in que­sto ambito.

La sovra­nità della donna sul pro­prio corpo — ban­diera insin­da­ca­bile negli anni che hanno pro­dotto leggi avan­zate e garan­ti­ste — è diven­tata un for­tino da difen­dere da costri­zioni eco­no­mi­che e pres­sioni sim­bo­li­che dovute al ritorno di fami­li­smo e maria­ne­simo. E così, fa riflet­tere anche il punto 3: «I ser­vizi sani­tari di qua­lità, a costi soste­ni­bili e nel rispetto della riser­va­tezza com­preso l’accesso alla con­trac­ce­zione, non sono un lusso, sono un diritto umano». Par­lare di wel­fare e gra­tuità dei ser­vizi è diven­tata quasi una bestem­mia.

A 104 anni dall’8 marzo del 1857, quando mori­rono nell’incendio le ope­raie in scio­pero in una fab­brica tes­sile di New York, nelle fab­bri­che ad alto sfrut­ta­mento si con­ti­nua però a morire: è suc­cesso in Ban­gla­desh solo 3 anni fa, quando 110 ope­raie che pro­du­ce­vano per la Disney hanno perso la vita in un incen­dio. Epperò, non ci sono più le comu­ni­ste e le socia­li­ste che, gui­date da Clara Zet­kin, allora dedi­ca­rono alle ope­raie un 8 marzo di lotta e la spe­ranza di un’altra società.

Invece, anche ana­liz­zando i dati con­te­nuti nell’ultimo Rap­porto di Amne­sty sui diritti (edito da Castel­vec­chi), emerge l’urgenza di coniu­gare libertà e giu­sti­zia sociale, anti­corpo indi­spen­sa­bile con­tro guerre, soprusi e impu­nità. Medici senza fron­tiere mette l’accento sui pro­blemi sani­tari delle ado­le­scenti e rileva che il 95% delle gra­vi­danze pre­coci avviene nei paesi in via di svi­luppo e che la mor­ta­lità materna è la seconda causa di morte tra i 15 e i 19 anni. «In molti paesi — scrive — ragazze e gio­vani donne in par­ti­co­lare, spesso non rice­vono un’educazione ses­suale di base né infor­ma­zioni sulla salute ripro­dut­tiva e devono affron­tare note­voli bar­riere per acce­dere all’assistenza sani­ta­ria. In alcune cul­ture le donne non hanno la pos­si­bi­lità di pren­dere le pro­prie deci­sioni sulla salute».

Certo, il patriar­cato viene prima del capi­ta­li­smo, ma nei paesi in cui le donne hanno accesso ai diritti ele­men­tari, prima di tutto al lavoro e all’istruzione, la loro con­di­zione cam­bia. E lad­dove hanno più potere — potere di sé e di poter fare — la dif­fe­renza di genere diventa forza. «Se non fossi stata mini­stra della Difesa non avrei mai potuto essere eletta pre­si­dente», ha detto Michelle Bache­let. La pre­si­dente cilena, che in pre­ce­denza ha diretto Onu Mujer, a fine feb­braio ha orga­niz­zato in Cile un incon­tro inter­na­zio­nale di alto livello dal titolo: «Le donne nel potere e nelle deci­sioni: costruendo un mondo dif­fe­rente». Bache­let ha pre­sen­tato i pro­gressi com­piuti dal suo governo per soste­nere le donne «in par­ti­co­lare le più povere» e per aumen­tare l’assistenza ai bam­bini e agli anziani «in modo che que­sto non pesi più su di loro e pos­sano tro­vare un lavoro e rea­liz­zarsi». Ha illu­strato l’indirizzo adot­tato per modi­fi­care leggi e isti­tu­zioni. «Certo — ha detto -, il Cile ha eletto per la seconda volta una donna alla pre­si­denza, la nostra pre­si­dente del Senato è una donna, la lea­der dei lavo­ra­tori, Bar­bara Figue­roa, è una donna, e varie diri­genti del movi­mento degli stu­denti sono donne. Tut­ta­via, il Cile non è il para­diso per le donne». Infatti, il par­la­mento è ancora com­po­sto all’84% da uomini, e con quella com­po­si­zione verrà discussa la pro­po­sta di legge sull’aborto.

Le cose non vanno certo meglio per le donne di altri con­ti­nenti. Amne­sty segnala che, in Afgha­ni­stan, i primi sei mesi del 2014 hanno fatto regi­strare 4.154 casi di vio­lenza con­tro le donne. Vio­lenze di genere com­messe all’interno delle fami­glie, ciò che ha reso impos­si­bile l’azione giudiziaria.Oggi, il popolo curdo dedica l’8 marzo alla rivo­lu­zione delle donne del Rojava e alla resi­stenza delle Unità di difesa delle donne (Ypj), che in Siria «com­bat­tono la loro guerra di Libe­ra­zione dall’Isis e difen­dono anche la nostra libertà». Lo Scio­pero glo­bale delle donne lan­cia invece una peti­zione inter­na­zio­nale per «Un sala­rio degno per le madri e per altre lavo­ra­trici di cura».

E, in Ita­lia, la Rete Nazio­nale dei cen­tri anti-violenza (DiRe) affida alla gior­nata una domanda per il governo Renzi: «Che fine ha fatto Piano Nazio­nale con­tro la vio­lenza alle donne annun­ciato da oltre un anno?».

UN NUOVO MODELLO DI RIVOLTA
di Bia Sarasini


Post-patrarcato - Contro il solito otto marzo ridotto a un san Valentino

Vediamo solo le trecce nere, della donna cer­ta­mente gio­vane che ha un fucile mitra­glia­tore in spalla, il viso è tutto girato dall’altra parte. Una com­bat­tente, imma­gine forte per una delle tante mani­fe­sta­zioni in Ita­lia che oggi hanno accolto l’invito delle donne curde di dedi­care la gior­nata inter­na­zio­nale delle donne 2015 alla loro lotta. Non è mai suc­cesso, che io mi ricordi, che donne armate siano state scelte a rap­pre­sen­tare l’8 marzo.

Nep­pure nel 1977, anno piut­to­sto tur­bo­lento. Allora l’arma fu il gesto fem­mi­ni­sta, in piazza, le mani unite in alto, nel trian­golo che indica il vuoto e la potenza del sesso fem­mi­nile. («Il gesto fem­mi­ni­sta», a cura di Ila­ria Bus­soni e Raf­faella Perna, Derive&Approdi). Atto forte, sov­ver­sivo. Mi è venuto in mente nel guar­dare la foto della ragazza che qual­che giorno fa è andata in giro da sola per Kabul, coperta da una spe­cie di arma­tura, indos­sata sopra gli abiti e comun­que con il velo in testa, che dise­gnava il corpo nudo di una donna. Lei però era sola, in mezzo agli uomini esa­gi­tati che l’hanno cir­con­data e semi-aggredita. La donna armata dice qual­cosa di nuovo, segnala un cam­bia­mento. La foto è stata scelta con cura, la ragazza non punta l’arma e non ali­menta lo ste­reo­tipo della bella guer­ri­gliera. L’invito delle donne curde dice: «Orga­niz­ziamo la resi­stenza ovun­que nel mondo le donne subi­scano vio­lenza. Dif­fon­diamo insieme lo spi­rito di resi­stenza che ci uni­sce e ci raf­forza con­tro ogni mani­fe­sta­zione del sistema di domi­nio patriarcale».

Un invito poli­tico, che non tra­sporta in Occi­dente la guerra che viene com­bat­tuta dalle donne pesh­merga in prima per­sona, sui campi di bat­ta­glia. Una lotta che è entrata con forza nel nostro imma­gi­na­rio da set­tem­bre, prima con i com­bat­ti­menti e poi la suc­ces­siva libe­ra­zione di Kobane. E così sono venuti i repor­tage, le inter­vi­ste in tutti i media main­stream, soprat­tutto i fem­mi­nili. Senza dub­bio le com­bat­tenti hanno acceso l’immaginazione, hanno atti­vato un fuoco latente. Susci­tano un’enorme ammi­ra­zione, com­bat­tono per la libertà loro e delle loro figlie, con­tro un eser­cito, quello dell’Isis, per il quale essere donne è una colpa, e fonte di con­ta­mi­na­zione, all’interno di un’organizzazione, il Pkk, che ha fatto dell’uguaglianza tra donne e uomini un pro­prio valore.

Eppure. Come la met­tiamo con la non vio­lenza? Con la con­vin­zione fem­mi­ni­sta che la guerra è una vicenda maschile? L’Isis è un nemico che mette a tacere qua­lun­que dub­bio, a pro­po­sito di guerra? Sono domande aperte, tutte da affron­tare. E inquieta che non ci sia nes­suna (e nes­suno) che le rac­colga. Ma non è il caso di con­fon­dere i piani. Non tutte le mani­fe­sta­zioni in Ita­lia dedi­cate alla lotta delle donne curde met­tono diret­ta­mente in scena una donna armata. In ogni caso un conto è un popolo in guerra, che difende la pro­pria vita, altra è la situa­zione qui, in Italia.

Ma biso­gna dirlo. In tutte que­ste mani­fe­sta­zioni si avverte un ine­dito spi­rito di rivolta. E non solo tra le più gio­vani e radi­cali.

Con­tro il solito otto­marzo, ridotto a un San Valen­tino con le mimose. Anche con­tro il cata­logo dei risul­tati rag­giunti, o dei suc­cessi man­cati. Che sono sem­pre gli stessi. Il gap retri­bu­tivo, tra donne e uomini, indi­cato a gran voce anche nelle élite, da donne come Chri­stine Lagarde, la pre­si­dente del Fmi, uno degli orga­ni­smi che con­trol­lano l’economia mon­diale. O da attrici famose come Patri­cia Arquette, che nel suo discorso alla con­se­gna dell’ Oscar come attrice non pro­ta­go­ni­sta per Boy­hood, ha dedi­cato il pre­mio a: «tutte le donne che hanno par­to­rito, tutte le cit­ta­dine e le con­tri­buenti di que­sta nazione: abbiamo com­bat­tuto per i diritti di tutti gli altri, adesso è ora di otte­nere la parità di retri­bu­zione una volta per tutte, e la parità di diritti per tutte le donne negli Stati Uniti».

Ci si ribella anche con­tro l’eterna ripe­ti­zione della donna vit­tima. Non che il fem­mi­ni­ci­dio, o i mal­trat­ta­menti, siano un’invenzione. Eppure il mar­tel­la­mento impla­ca­bile dei dati, la ripe­ti­zione com­pia­ciuta di sto­rie di cru­deltà e sopraf­fa­zione senza indi­care vie d’uscita, è ormai inso­ste­ni­bile. Una gene­ra­zione che ha sco­perto di essere donna – dif­fe­rente dai pro­pri coe­ta­nei – nel rifiuto della vio­lenza con­tro il pro­prio genere, e ha dato vita alle prime mani­fe­sta­zioni del 25 novem­bre dieci anni fa, spe­ri­menta ora la neces­sità di par­tire da sé, di non aspet­tare solu­zioni da fuori, da altri. E anche la grande fiam­mata, ormai spenta, di Se non ora quando, la grande mani­fe­sta­zione del 13 feb­braio 2011 che ha dato voce a un’enorme rab­bia fem­mi­nile, si è sedi­men­tata. Siamo oltre, anche oltre la delusione.

Le donne sono dap­per­tutto, dice la Libre­ria delle donne di Milano. È cer­ta­mente vero Non siamo più in regime di scar­sità, e sia pure con tutte le ben note man­canze, non c’è set­tore della vita pub­blica, poli­tica e pro­fes­sio­nale, in cui non ci siano donne. Che par­lano, anche in Ita­lia. La pre­si­dente della camera Laura Bol­drini ha di nuovo ricor­dato la neces­sità di usare bene le parole, di decli­narle sem­pre anche al fem­mi­nile. Ottima bat­ta­glia, le rea­zioni sgan­ghe­rate dicono quanto sia neces­sa­ria. Ma que­sto signi­fica che il fem­mi­ni­smo gode di buona salute? Che è dispo­ni­bile all’elaborazione comune una visione poli­tica che per­metta di agire in que­sti tempi di crisi?

Ecco, la crisi. È la crisi che ha rime­sco­lato le carte, che ha obbli­gato a guar­dare con occhi diversi le sto­rie di cia­scuna e cia­scuno. Se la parità di retri­bu­zione tra donne e uomini è un pro­blema aperto, e giu­sta­mente riven­di­cato, che deve dire chi si trova inca­te­nata al mec­ca­ni­smo dei pic­coli lavori pre­cari equa­mente mal retri­buiti? Per non dire sot­to­pa­gati? Lo spi­rito di rivolta nasce qui, in con­di­zioni mate­riali di esi­stenza in cui si è impa­rato a vedere che dif­fe­renze ci sono, tra donne e uomini, anche nella pre­ca­rietà. Che non è una cate­go­ria indif­fe­ren­ziata, come in tante ave­vano riven­di­cato, sca­glian­dosi con­tro l’ostinazione di pen­sarsi dif­fe­renti delle fem­mi­ni­ste d’antan. Che il post-patriarcato non pre­scinde dai corpi e dalle loro dif­fe­renze. Anzi li mette al lavoro in nuove forme pecu­liari, per esem­pio nella mater­nità sur­ro­gata, in un bio­la­voro schia­viz­zante che ha molte affi­nità con lo sfrut­ta­mento della natura, della terra. È su que­sto ter­reno che vanno ride­fi­nite le rela­zioni, tra donne e uomini. E le pro­te­zioni sociali, quelle che l’austerità euro­pea ha fatto spa­rire, vanno ripen­sate sulla base di nuovi modelli, di una nuova pra­tica della cura, che certo non potranno basarsi sul capo­fa­mi­glia di un tempo. In un intrec­cio tra eco­no­mia, biso­gni, rela­zioni, sen­ti­menti e affetti tutto da ripen­sare.

Insomma, è una spe­ranza la ribel­lione alle trap­pole fab­bri­cate dalla crisi. Fa piazza pulita delle zone fin troppo comode, fin troppo sepa­rate, che nel tempo si sono costruite. La crisi non ha pietà. Richiede tutta la nostra capa­cità di sognare grandi imprese.

La Repubblica, 7 marzo 2015

«Mi sembra assurdo quest’atteggiamento prevenuto, che porta a comportamenti abbastanza paradossali. L’altro giorno a Nicosia Draghi si è abbandonato a uno sproloquio contro la Grecia proprio mentre accusava i governanti di Atene di parlare troppo. E lui allora? Adesso la Commissione accoglie con freddezza la lettera di Varoufakis». James Galbraith sarà anche un distinto economista bostoniano (ora insegna in Texas), ma di sicuro non ha remore nell’esprimere il suo pensiero. E quando gli si tocca la Grecia, e il suo amico-collega Varoufakis, si arrabbia veramente. «Avete visto? Il piano è arrivato, ora mi auguro che venga almeno discusso seriamente e senza prevenzioni».

Professore, questa vicenda è anche diventata una guerra di parole. Ma è proprio sicuro che Tsipras e Varoufakis non sbaglino nell’annunciare ad ogni piè sospinto che il loro Paese è in bancarotta ed è urgente un nuovo haircut? Non creano ulteriori e inutili tensioni mentre tutti stanno affannosamente cercando di trovare un accordo?
«Macchè. Yanis (Varoufakis, ndr) è anche troppo misurato. Ha solo agli occhi dell’Europa un torto: quello di parlar chiaro. E questa nei vertici ingessati ad alto tasso di ipocrisia cui gli europei sembrano abituati, è una grande novità e apparentemente una colpa imperdonabile. Invece alzare gli standard di sincerità di questi consessi è un merito, una cosa da cui tutti trarranno vantaggi. L’accanimento della Bce e anche della Commissione nel mantenere un alto livello di ansia e tensione non lo capisco proprio. E mi induce quasi a pensar male».

Cosa sospetta?
«Diciamo che non sospetto niente. Solo che uno con un minimo di visione storica potrebbe anche essere, lontanamente, indotto a pensare che ci sia una manovra per estromettere l’attuale governo greco e tornare a schieramenti più vicini al mainstream europeo, visto che l’alternativa di un’uscita della Grecia non conviene neanche a loro. Non sarebbe la prima volta nella storia. Nel 1955 gli americani manipolarono il Fondo Monetario e alla fine un golpe rovesciò Peron e i suoi descamisados. Ed è solo un esempio».

Cosa dovrebbe fare l’Europa?
«Non avere un atteggiamento costantemente negativo. E la Bce non deve minacciare la Grecia di escluderla dal quantitative easing. Al contrario, deve ripristinare subito il waiver , cioè l’accettazione dei buoni di Atene per rifinanziarla, senza rifugiarsi nello stillicidio dei fondi di aiuto o degli emergency liquidity agreement concessi qualche miliardo oggi e qualche miliardo domani. Insomma tutti devono confermare che stanno agendo genuinamente allo scopo di stabilizzare il Paese e aiutare Atene ad uscire dalla crisi. Evitando gli sbandamenti verbali di questi giorni che sono tremendamente controproducenti e del tutto inappropriati».

Lei tornerà ad Atene ad aiutare Varoufakis?
«Sì, partirò molto presto. I sette punti di ieri mi sembrano una buona base di partenza. Se ne aggiungeranno altri a breve. Vorrei che fosse chiaro a tutti che Syriza un accordo lo vuole, perché senza accordo ci sarebbero i controlli sui movimenti bancari, i fallimenti, alla fine l’uscita dall’euro. L’unica cosa inaccettabile era un’estensione secca delle condizioni fin qui applicate come quel 4,5% di surplus primario che era assurdo oppure le forzature sulle privatizzazioni, alle quali nessuno si oppone ma rischiavano di smantellare il patrimonio pubblico della Grecia senza un’adeguata contropartita. Bisogna lavorare tutti in buona fede e con un unico obiettivo in mente, evitando gli equivoci. La Grecia è un piccolo Paese che ha pagato un prezzo umano immenso, non è possibile che non si riesca a trovare unità e accordo politico per rimetterla in piedi».

Giorgia Meloni, Michaela Biancofiore, Nunzia De Girolamo evidentemente non lo sanno. La Repubblica, 6 marzo 2015

Ereditato il posto di Gianfranco Fini, Laura Boldrini fece cambiare subito la carta intestata (era scritto: il presidente). Questione vecchia, obiettivo alto: «Adeguare il linguaggio parlamentare al ruolo istituzionale, sociale e professionale assunto dalle donne». Dal web arrivano ora proteste e insulti: «Certo che hai un sacco di lavoro da fare per pensare a queste s.». E ancora: «Brava e intelligenta!». Lei tira avanti, abituata alla «misoginia» dei social di cui è stata più volte bersaglio. Il termine al femminile sarebbe cacofonico? «Affermazione da smontare - dice Boldrini - la lingua evolve con la società. E’ brutto dire la sindaca, l’assessora ma va benissimo dire la maestra, la contadina... smontiamola questa cosa!».

Una parte del mondo femminile è prudente forse perché ministro evoca più attributi metaforici di ministra, forse perché secoli di estromissione dai ruoli di vertice hanno reso le donne «conservatrici nella lingua». Andando a spulciare i resoconti parlamentari, ci imbattiamo negli interventi di Giorgia Meloni, Michaela Biancofiore, Nunzia De Girolamo. Si rivolgono tutte a Boldrini con un tuonante «signor presidente!». Mara Carfagna è in linea: «Non mi sono mai offesa quando mi chiamavano ministro. Il linguaggio è importante ma le priorità sono altre». «A quelli che mi dicono che “i problemi sono altri”, che “non è questo è il momento” - ribatte ferma la presidente - rispondo che tutto si tiene: l’immagine, la parola, il riconoscimento delle donne e il loro ruolo nella società. Se rimandiamo sempre, il momento non viene mai». Quindi tutti/tutte in riga.

L’Accademia della Crusca sembra appoggiare la “necessaria” rivoluzione. Leggete l’analisi di Cecilia Robustelli sull’«androcentrismo» linguistico. L’ostilità al nuovo? Nasce anche da una valutazione estetica: ministra è considerato meno bello di ministro; ingegnera fa davvero i brividi. Tuttavia dietro queste ritrosie, secondo la professoressa Robustelli, si celano «ragioni di tipo culturale». A farla breve, il mondo è ancora maschio. Altro che «impuntatura tardofemminista». Boldrini invidia la Francia dove la signora presidente dell’Assemblea nazionale francese, Sandrine Mazetier, ha inflitto una multa da 1378 euro a un deputato che continuava ostinatamente a chiamarla «il presidente».

Il manifesto, 5 Marzo 2015 (m.p.r.)

Chi inquina, final­mente, paga. Anche con la galera. Con l’approvazione al Senato del dise­gno di legge sui reati ambien­tali potrebbe chiu­dersi nel migliore dei modi un per­corso sof­ferto che per decenni è stato con­di­viso da tutto il mondo ambien­ta­li­sta. Il prov­ve­di­mento, dopo aver subito delle modi­fi­che a Palazzo Madama, adesso dovrà tor­nare alla Camera per la terza lettura.

L’inedito fronte poli­tico che ha soste­nuto il ddl è com­po­sto da Pd, Sel, Ncd e M5S (primi fir­ma­tari Ermete Rea­lacci del Pd, Sal­va­tore Micilli del M5S e Serena Pel­le­grino di Sel). 165 i voti favo­re­voli, 49 con­trari, 18 aste­nuti. L’altra noti­zia è che il governo, per la prima volta, non si è pie­gato a Con­fin­du­stria. L’esito, come dicono tutte le asso­cia­zioni eco­lo­gi­ste, è posi­tivo. Il vuoto nor­ma­tivo è stato col­mato, anche se que­ste norme rischiano di per­dere effi­ca­cia in un qua­dro legi­sla­tivo ancora con­fuso e con­trad­dit­to­rio, soprat­tutto quando si tratta di reati ambientali.

In sin­tesi, il ddl intro­duce nuovi reati di inqui­na­mento ambien­tale, di disa­stro ambien­tale, i delitti col­posi con­tro l’ambiente, il traf­fico e l’abbandono di mate­riale radioat­tivo e il reato di impe­di­mento di con­trollo. Tra le altre, è stata intro­dotta anche una norma che vieta le esplo­sioni in mare per atti­vità di ricerca ed ispe­zione dei fon­dali, una que­stione che l’altro giorno aveva visto il governo bat­tuto in aula. Si tratta di un pac­chetto par­ti­co­lar­mente indi­ge­sto per le cosid­dette eco­ma­fie che in Ita­lia, ogni anno, impu­nite, “fat­tu­rano” cifre astronomiche.

Sono sod­di­sfatti i due mini­stri diret­ta­mente coin­volti. «Si tratta di un segnale di grande sen­si­bi­lità nei con­fronti di un tema di strin­gente urgenza per il paese — ha com­men­tato il mini­stro dell’Ambiente Gian­luca Gal­letti — e ormai siamo all’ultimo miglio di un pas­sag­gio sto­rico: chiedo alla Camera di fare pre­sto e di appro­vare que­sto testo senza ulte­riori modi­fi­che, c’è asso­luta neces­sità di stron­care i busi­ness cri­mi­nali che si arric­chi­scono inqui­nando il nostro ter­ri­to­rio». Per il mini­stro della Giu­sti­zia Andrea Orlando (già mini­stro per l’Ambiente) que­sta è la rispo­sta del governo «alle molte ferite che hanno col­pito il paese”. Orlando ci tiene a met­tere l’accento non solo sull’impianto puni­tivo delle norme ma anche alla ridu­zione delle pene per chi si impe­gna a ripri­sti­nare lo stato dei luo­ghi inqui­nati, il cosid­detto “rav­ve­di­mento operoso».

Entrando nei det­ta­gli, il testo inse­ri­sce nel codice penale il nuovo delitto di inqui­na­mento ambien­tale (art.452 bis) che puni­sce con la reclu­sione da 2 a 6 anni, e una multa da 10 mila a 100 mila euro, chiun­que pro­vo­chi un danno signi­fi­ca­tivo alle acque, all’aria, al suolo, al sot­to­suolo e più in gene­rale alla bio­di­ver­sità, alla vege­ta­zione o agli ani­mali. C’è anche una norma che pre­vede la deten­zione, quella di disa­stro ambien­tale: da 5 a 15 anni per chi inquina pro­vo­cando danni irre­ver­si­bili per l’ambiente e per le per­sone espo­ste al peri­colo. Ven­gono in mente i rifiuti tos­sici in Cam­pa­nia, l’Ilva di Taranto, o l’Eternit in Piemonte.

«L’approvazione del ddl — ha detto il pre­si­dente del Senato Pie­tro Grasso — è la rispo­sta al dolore di per­sone come il poli­ziotto della terra dei fuo­chi che si è amma­lato di tumore in seguito alle sue inda­gini sui rifiuti in Cam­pa­nia, o dei fami­liari delle per­sone che hanno perso la vita a Casale Mon­fer­rato”. Per Titti Palaz­zetti, sin­daco di Casale, que­sta è “una pro­messa mantenuta».

Il delitto di “abban­dono di mate­riale ad alta radioat­ti­vità” viene punito con la reclu­sione da 2 a 6 anni e con una multa che va da 10 a 50 mila euro, pena estesa anche a chi acqui­sta, riceve, importa, esporta, tra­sporta o detiene il mate­riale in que­stione. Per il delitto di “impe­di­mento al con­trollo”, invece, le pene vanno da 6 mesi a 3 anni. Mano pesante per l’aggravante di “asso­cia­zione mafiosa”: verrà appli­cata anche ai pub­blici uffi­ciali che si ren­de­ranno com­plici di qua­lun­que tipo di age­vo­la­zione in mate­ria di con­ces­sioni o auto­riz­za­zioni. Pene più severe anche per chi ispe­ziona i fon­dali marini uti­liz­zando tec­ni­che esplo­sive (da 1 a 3 anni di reclu­sione). Tra i nuovi reati è stato intro­dotto anche quello di “omessa boni­fica” per chi non ottem­pera all’ordine di recu­pe­rare l’area inquinata.

Uno degli ade­gua­menti più signi­fi­ca­tivi del codice penale per­mette inol­tre di poter con­tare sull’allungamento dei ter­mini di pre­scri­zione del reato. «Ricor­diamo a tale pro­po­sito - sot­to­li­nea il WWf con una nota - il caso Eter­nit: l’intervenuta pre­scri­zione che ha man­dato assolti gli impu­tati è dipesa dall’esistenza di reati asso­lu­ta­mente ina­de­guati rispetto alla gra­vità dei fatti. Se le dispo­si­zioni con­te­nute nella pro­po­sta di legge fos­sero già entrate in vigore, il pro­cesso si sarebbe pre­scritto in quin­dici anni».

Il vice­pre­si­dente di Legam­biente, Ste­fano Cia­fani, e il coor­di­na­tore nazio­nale di Libera, Enrico Fon­tana, ieri hanno assi­stito al voto in Senato in rap­pre­sen­tanza di quelle 23 asso­cia­zioni e di quei 70 mila cit­ta­dini che hanno sot­to­scritto il loro appello inti­to­lato «In nome del popolo inqui­nato: subito i delitti ambien­tali nel codice penale». Adesso hanno fretta, vogliono che la Camera approvi al più pre­sto un decreto legge atteso da più di venti anni. «Gra­zie a que­sto voto - hanno aggiunto - è stata final­mente can­cel­lata la non puni­bi­lità dei reati col­posi in caso di boni­fica, tanto cara a Con­fin­du­stria, e sono stati appor­tati ulte­riori miglio­ra­menti al testo gra­zie al voto favo­re­vole della mag­gio­ranza, del M5S e di Sel».

Ermete Rea­lacci, pre­si­dente della Com­mis­sione ambiente e ter­ri­to­rio alla Camera, primo fir­ma­ta­rio della pro­po­sta di legge, si augura che il via libera defi­ni­tivo avvenga «senza cam­biare nem­meno una vir­gola». E’ que­sta la pre­oc­cu­pa­zione di tutti gli ambien­ta­li­sti. Vista la larga e ine­dita mag­gio­ranza, non dovreb­bero esserci brutte sor­prese. Anche per­ché, ha spie­gato Rea­lacci, «quelli con­tro l’ambiente sono cri­mini par­ti­co­lar­mente odiosi e molto peri­co­losi, basti pen­sare che stando al rap­porto Eco­ma­fia di Legam­biente frut­tano alla mala­vita orga­niz­zata circa 15 miliardi all’anno».

spremuto, non ha senso cercare altro succo». Francesca Pilla intervista Ermanno Rea, a proposito delle significative "primarie" di Napoli e del partito di Renzi. Il manifesto, 4 marzo 2015

Non cono­sco De Luca, di certo non mi può pia­cere qual­cuno che viene defi­nito sin­daco sce­riffo. E di sicuro non si può cam­biare la legge Seve­rino ad per­so­nam. Ma non credo che attual­mente sia que­sto il pro­blema. Nel nostro paese non abbiamo una sini­stra e Renzi è un pom­piere che ha spento gli ultimi fuo­che­relli». La vede così Ermanno Rea, secco e deciso. Lui, classe 1927, che alle scorse euro­pee si è can­di­dato al Sud per la Lista Tsi­pras, da gior­na­li­sta e autore di grandi suc­cessi come Mistero Napo­le­tano (pre­mio Cam­piello 1996) e Napoli Fer­ro­via (pre­mio Strega 2008), ha vis­suto la poli­tica ita­liana inten­sa­mente, senza mai tirarsi indie­tro o rispar­miare cri­ti­che ai diri­genti che dal dopo­guerra in poi hanno con­tri­buito a fare la sto­ria di que­sto paese. Forse pro­prio per que­sto è distac­cato e restio a par­lare di rot­ta­ma­tori e di pri­ma­rie al sapore di pastic­cio Dem.

Pro­fes­sore, ha seguito le con­sul­ta­zioni del Pd in Campania?
Ovvia­mente, ma ormai non voto più a Napoli e non cono­sco nes­suno dei per­so­naggi che sono stati can­di­dati. Ho letto qual­cosa su Vin­cenzo De Luca. Viene chia­mato ’il sin­daco sce­riffo’, usa degli slo­gan sin­da­ca­bili e ha un piglio deci­sio­ni­sta molto lon­tano dalla mia idea di politica.

Però nel Pd lo hanno votato e in tanti, non solo a Salerno.
I cam­pani, ma in spe­cial modo i napo­le­tani, sono dispe­ra­ta­mente alla ricerca di un indi­vi­duo cari­sma­tico che rie­sca a risol­vere i pro­blemi strut­tu­rali e radi­cati che ci sono in una regione del Mez­zo­giorno. In loro si accende un lumi­cino di spe­ranza e si aggrap­pano all’uomo del momento. È suc­cesso con de Magi­stris, oggi con De Luca, ma die­tro que­sta corsa dispe­rata fini­scono irri­me­dia­bil­mente per impat­tare in per­so­naggi che disat­ten­dono le aspet­ta­tive. Que­sta voglia di rin­no­va­mento deve invece essere inca­na­lata, rico­min­ciare dal basso con una guida capace di grande magi­stero etico e in grado di met­tere a frutto le ener­gie e le pos­si­bi­lità di que­sto popolo.

Un nome alter­na­tivo non emerge, De Luca potrebbe essere sospeso il giorno dopo l’elezione. Non sarebbe uno spreco lasciare la Cam­pa­nia ancora alla destra?
La legge Seve­rino c’è e non si discute, anche se mi pare che il reato di abuso d’ufficio di cui è accu­sato De Luca sia ben diverso da quello di Ber­lu­sconi, con­dan­nato in via defi­ni­tiva per ben altre ragioni. Ma è inu­tile but­tarsi su que­ste micro­sto­rie. De Luca cor­rerà e se vin­cerà, nel caso in cui dovesse essere sol­le­vato dall’incarico, ricor­rerà al Tar. Al mas­simo si rifa­ranno le ele­zioni. Il pro­blema è che in Cam­pa­nia è forte e urgente la domanda di demo­cra­zia e rin­no­va­mento. C’è un grande desi­de­rio tra le per­sone che non viene appa­gato per man­canza di respon­sa­bi­lità, per la cor­ru­zione dila­gante e per la disfatta morale.

Nel Pci sarebbe potuto accadere?I
l para­gone non regge, era tutta un’altra cosa, con una strut­tura diversa, le pri­ma­rie non erano nem­meno in calen­da­rio. Anche per­ché non è che nel Pci di demo­cra­zia ce ne fosse dav­vero tanta.

Par­liamo al pre­sente. Come vede il Pd di Renzi?
È un limone spre­muto dove non ha senso andare a cer­care altro succo. Credo di aver descritto bene la situa­zione attuale in un mio libretto La fab­brica dell’obbedienza, il lato oscuro e com­plice degli ita­liani (ed. Fel­tri­nelli, ndr). Renzi ha abba­gliato l’opinione pub­blica che rie­sce sem­pre a inna­mo­rarsi in fretta dei per­so­naggi sba­gliati, ma anche a farli cadere pre­sto in disgra­zia. È già finito il suo tempo. Credo che il pre­mier non sia in grado di incan­tare più nes­suno e vada avanti con qual­che illu­sione che aveva messo in scena all’inizio. Per il nostro paese è stato un pom­piere in grado di spe­gnere le ultime fiam­melle di sini­stra nel sistema partitico.

Non ci sono spe­ranze di avere una rap­pre­sen­tanza a sinistra?
Noi veniamo da anni di ber­lu­sco­ni­smo e man­chiamo di senso di respon­sa­bi­lità sot­tratto da santa romana chiesa. La sini­stra ita­liana non è mai stata capace di amal­ga­marsi, unirsi ed espri­mere se stessa. Qui non rie­sce nem­meno a venir fuori una Syriza o una Pode­mos. Così sono pes­si­mi­sta a breve distanza. Ma otti­mi­sta sul lungo periodo. La situa­zione oggi è dispe­rata, ma gli uomini hanno supe­rato osta­coli enormi. Qual­cosa di posi­tivo acca­drà. Io non vedrò l’aurora per­ché ho 88anni, la vedranno i figli dei figli.

Ha in mente qual­cuno capace di tra­ghet­tarci fuori da que­sto immobilismo?
Non credo ai nomi e cognomi ma a tante per­sone di qua­lità e alla capa­cità di orga­niz­zare il dissenso.

La Repubblica, 4 marzo 2015

«VOI siete in un programma. Le elezioni non cambiano il programma». In questa frase rivolta dal ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble al collega greco Yanis Varoufakis, che gli faceva notare come il suo governo avesse ottenuto un mandato popolare per rinegoziare gli accordi con i partner dell’Eurozona, sta il cuore del rapporto fra economia e politica. Meglio, fra moneta e impero, giusto il titolo della Festa di Limes che si inaugura venerdì prossimo, 6 marzo, al Palazzo Ducale di Genova, e dell’ultimo volume dell’omonima rivista di geopolitica.

Un evento ormai consolidato, che raduna per tre giorni di pubblico dibattito, studiosi, analisti e protagonisti del mondo finanziario, economico e politico, per affrontare insieme questioni di strettissima attualità. Si va dal destino dell’euro e dell’Italia nell’Eurozona, su cui duelleranno venerdì pomeriggio Enrico Letta e Maurizio Landini, alla potenza geofinanziaria delle mafie, dal tesoro del “califfo” al- Baghdadi a quello della Chiesa cattolica, dal primato del dollaro ai paradisi fiscali, dalla crisi del rublo connessa alla guerra in Ucraina al (mal) funzionamento dei mercati.

Tutte partite trattate nel contesto delle crisi e dei conflitti in corso, dove geofinanza e geopolitica si incrociano e scontrano, producendo effetti spesso imprevisti o indesiderati. E nelle quali la politica, intesa come governo della cosa pubblica, sembra oggi soccombere a favore di meccanismi apparentemente semiautomatici, financo algoritmici, che spostano ricchezza e quindi potere in qualche frazione di secondo. Suscitando oscure dietrologie, radicate nella certezza che «money makes the world go around», che sono i soldi a far girare il mondo, come cantava Liza Minnelli in Cabaret .

Per noi italiani ed europei, il nesso fra moneta e impero è inscritto nell’euro. Una divisa che scegliemmo non tanto per ragioni economiche, quanto perché la considerammo premessa dell’Europa come entità geopolitica unitaria. Attore globale a pieno titolo, dotato dello stesso rango e delle medesime ambizioni di Stati Uniti e Cina. L’Unione Europea come moderna forma di impero. Sicché fra i cantori della nostra nuova moneta si evocava nientemeno che Carlo Magno quale paradigma di tanta impresa.

Che cosa resta oggi dell’Europa neocarolingia battezzata alla fonte dell’euro? Per tentare di capirlo, conviene ripartire dallo scontro Schäuble-Varoufakis. Fra il gigante e il nano economico dell’Eurozona. Due paesi totalmente asimmetrici per cultura monetaria e politica, ma dotati della (ingabbiati nella) stessa valuta. Il campione delle “formiche” contro il capofila delle “cicale”, per usare una vieta ma diffusa classificazione che rende il clima dominante nella famiglia europea. Dietro Berlino si riparano i paesi (nordici) che credono nelle virtù salvifiche dell’austerità, dietro Atene quelli (mediterranei, Francia inclusa) che agognano flessibilità, ovvero marcano l’urgenza di sostenere la domanda.

Quello che può parere un conflitto di scuole economico-monetarie è soprattutto uno scontro geopolitico e culturale che investe l’Europa intera. Fino a metterne in questione le radici democratiche e i valori liberali. Al centro, l’idea stessa di sovranità. Il progetto euro ci era stato offerto come un percorso nel quale ciascun contraente, cedendo il diritto sovrano di battere la propria moneta nazionale, avrebbe contribuito ad armonizzare le economie europee, a vantaggio di tutti e di ciascuno. Per poi produrre, in un futuro non invisibile, quello Stato europeo - federale, confederale o d’altra forma - che avrebbe coronato il processo unitario avviato nel 1957 a Roma. Oggi scopriamo che non è così. Anziché unirci, sull’euro ci dividiamo. E ne facciamo fattore di demonizzazione reciproca, i cui limiti estremi si toccano nella disputa greco- germanica, ma che investono tutti i popoli europei, compreso il nostro.

La materia del contendere sembra di natura contabile, di politica monetaria e fiscale, ma in effetti è culturale. Nell’approccio al supremo simbolo fiduciario che è la moneta ci scopriamo diversi. E tendiamo spesso ad attribuire tale diversità a fattori “genetici”, dunque irrazionali e innegoziabili - i greci barano perché sono greci, i tedeschi vogliono “germanizzare” gli altri perché sono tedeschi - invece che storico-politici, ossia calcolabili e disputabili. Un peculiare razzismo intraeuropeo. Risultato: anziché produrre un nuovo impero europeo - democratico, liberale e aperto al mondo - l’euro offre il pretesto per la chiusura e l’imbarbarimento dello spazio europeo. Per la sua disgregazione. Tanto che in ognuna delle crisi in corso, dall’Ucraina al caos nordafricano e mediorientale da cui germina lo Stato Islamico, i Ventotto si offrono rigorosamente divisi, quando non in aperto conflitto.

Di qui parte la tre giorni di Palazzo Ducale. Da Genova, capostipite del capitalismo finanziario italiano e mondiale, sede di quella banca centrale avanti lettera che fu dal 1407 la Casa di San Giorgio, oltre che centro di sperimentazione della “lira di buona moneta”, la divisa stabile che contribuì al primo ciclo di accumulazione del capitale. Dove, se non qui, esplorare la relazione fra moneta e impero?

La Repubblica, 4 marzo 2015, con piccola postilla

IL PD considera le primarie il mezzo principe per la scelta dei candidati alle cariche pubbliche e di partito. Ma sono veramente il sistema migliore? Dipende dagli obiettivi. Se si vuole aumentare la partecipazione alle decisioni non c’è mezzo migliore (al di là di esperimenti attraverso la rete che però sono ancora in fase embrionale).

SEe allo stesso tempo si vuole aumentare la partecipazione alla vita del partito e l’incremento degli iscritti, allora si affacciano seri dubbi. Se infine attraverso questo processo di selezione si vuole aumentare la democraticità interna del partito, non c’è mezzo peggiore: perché seguendo la strada delle primarie sempre e comunque si rafforza una visione plebiscitaria della democrazia deprimendo quella delegata. E si arriva così al pasticcio della Campania: dove si candida, e vince nell’imbarazzo generale, un candidato come De Luca, che il Pd non ha avuto la forza di far desistere. E ora il partito che aveva votato la legge Severino dovrà votare per un candidato governatore contro quella stessa legge.

Quando le primarie vennero introdotte per la prima volta a livello nazionale, nel 2005, si trattava in realtà di incoronare il prescelto, Romano Prodi. All’epoca quella iniziativa serviva soprattutto a legittimare un candidato che non rappresentava i maggiori partiti. Tuttavia emerse anche un effetto laterale: la partecipazione massiccia dei sostenitori, più di 4 milioni. Quella mobilitazione straordinaria, da un lato, costituiva una sorta di esibizione muscolare nei confronti dell’avversario, ma, dall’altro, evidenziava un grande desiderio, fin lì represso, di poter decidere direttamente. Nessuna iniziativa politica aveva mai coinvolto tante persone in Italia.

Le primarie apparvero quindi un efficace strumento per mobilitare l’elettorato e, in una fase di montante antipolitica — il successo del vaffa day di Grillo è di appena due anni dopo — , recuperare legittimità alla politica e ai partiti. Vi era poi un retropensiero in molti dei sostenitori delle primarie: sottraendo alla classe dirigente il potere di scelta dei candidati ai vari livelli si potevano modificare gli assetti interni e avviare un radicale rinnovamento del personale politico. In realtà questo obiettivo è stato raggiunto solo negli ultimi anni sia a livello di partito con la vittoria di Renzi, sia a livello politico con l’affermazione di sindaci e governatori estranei ai gruppi dirigenti consolidati — Pisapia a Milano e Doria a Genova i casi più eclatanti, oltre a Vendola in Puglia già nel 2005. Nel Pd il mito delle primarie è alimentato da una valutazione precisa, ripetuta come un mantra: la maggior “democraticità” di questo sistema.

Il ragionamento è limpido: aumentando il numero delle persone coinvolte nel processo di selezione, il cosiddetto “selettorato”, aumenta anche il grado di democraticità del partito. È evidente che un processo decisionale opaco e concentrato insindacabilmente in poche mani non può essere soddisfacente. Ma la decisione del Pd di estendere il selettorato sempre e comunque a tutti gli elettori — procedura adottata invece in pochissime occasioni da altri partiti europei — contiene in sé due handicap: dispossessa gli iscritti di una funzione che dovrebbe essere qualificante per l’appartenenza ad un partito, e stimola il virus plebiscitario all’interno del partito e, per estensione, nel sistema di rappresentanza italiano.

PNel momento in cui si offre a tutti (compresi i non cittadini italiani e i non aventi diritto al voto come i sedicenni) il diritto a scegliere, l’incentivo ad iscriversi al partito scende vertiginosamente: rimane solo l’adesione ideale, affettiva. E infatti gli iscritti al Pd, nonostante le brillanti performance elettorali e politiche di quest’anno, sono calati. Ma soprattutto, ben al di là della questione della esasperata personalizzazione, quello che più inquieta è la sottile delegittimazione del principio della rappresentanza e della democrazia delegata: come se procedere alle scelte attraverso rappresentanti sia un male. Indebolimento dei partiti, e contestualmente, indebolimento della democrazia sono gli effetti perversi che un uso debordante delle primarie rischia di provocare.

postilla
Non parliamo poi della pesante distorsione che avviene quando la primaria del raggruppamento Rosa è aperta anche ai Celeste, e quindi gli elettori Celeste possono determinare la scelta del candidato Rosa.

Senz'appello la bocciatura del premio Nobel statunitense per la politica economica dell'Eurozona.: Il Fmi ha già ammesso i suoi fallimenti politici e intellettuali, la Troika ancora no. Il manifesto, 3 marzo 2015
Secondo i dati eco­no­mici più recenti, sia gli Stati uniti che l’Europa stanno mostrando segnali di ripresa, anche se è pre­sto per dichia­rare la fine dalla crisi. Nella mag­gior parte dei paesi dell’Unione euro­pea, il Pil pro capite è ancora infe­riore al periodo pre­ce­dente la crisi: un intero decen­nio per­duto. Die­tro alle fredde sta­ti­sti­che, ci sono vite rovi­nate, sogni sva­niti e fami­glie andate a pezzi (o mai for­ma­tesi), un futuro quanto mai pre­ca­rio per le gene­ra­zioni più gio­vani, men­tre la sta­gna­zione – in Gre­cia la depres­sione – avanza anno dopo anno. L’Ue vanta per­sone di talento e con un alto grado di istru­zione. I paesi mem­bri con­tano su forti qua­dri giu­ri­dici e società ben funzionanti.

Prima della crisi, la mag­gior parte aveva per­sino eco­no­mie ben fun­zio­nanti. In alcuni paesi, la pro­dut­ti­vità ora­ria – o il suo tasso di cre­scita – era tra le più alte del mondo. Ma l’Europa non è una vit­tima di errori altrui, come spesso si legge.

Certo, l’America ha mal gestito la pro­pria eco­no­mia, ma il males­sere dell’Ue è in mas­sima parte auto-inflitto, a causa di una lunga serie di pes­sime deci­sioni di poli­tica eco­no­mica, a par­tire dalla crea­zione dell’euro. Seb­bene l’intento sia stato quello di unire l’Europa, alla fine l’euro l’ha divisa: i paesi più deboli (quelli che già nel 1980 in un lavoro per l’Ocse, Fuà indi­vi­duava nei paesi euro­pei di più recente svi­luppo – tutti con alta infla­zione, dua­li­smo ter­ri­to­riale, defi­cit della bilan­cia dei paga­menti e di bilan­cio pub­blico, alta disoc­cu­pa­zione e note­vole quota di eco­no­mia som­mersa — e che ora sono con mal­ce­lata arro­ganza iden­ti­fi­cati come Piigs) sono riu­sciti, per ora, a rima­nere nell’euro a prezzo di disoc­cu­pa­zione e defla­zione sala­riale, crollo della domanda interna e aumento del “sommerso”.

In assenza della volontà poli­tica di creare isti­tu­zioni in grado di far fun­zio­nare una moneta unica — innanzi tutto una poli­tica fiscale unica — nuovi danni si aggiun­ge­ranno ai danni già pro­dotti. Gli squi­li­bri in Europa sono aggra­vati dalla diver­genza nelle espor­ta­zioni nette, e solo una poli­tica fiscale comune può far in modo che i flussi com­mer­ciali del Por­to­gallo verso l’Olanda abbiano la stessa impor­tanza (cioè nulla) di quelli, ad esem­pio, dell’Oregon verso il Mis­souri o del Bran­de­burgo verso la Baviera.

La Grande Reces­sione deriva in parte dalla con­vin­zione che il libe­ri­smo di mer­cato avrebbe ripor­tato le eco­no­mie su di un sen­tiero di cre­scita “ade­guato”. Tali spe­ranze si sono rive­late sba­gliate non per­ché i paesi dell’Ue non sono riu­sciti a rea­liz­zare le poli­ti­che pre­scritte, ma per­ché i modelli su cui hanno pog­giato quelle poli­ti­che sono gra­ve­mente viziati.

In Gre­cia, ad esem­pio, le misure intese a ridurre il peso debi­to­rio hanno di fatto lasciato il paese più inde­bi­tato di quanto non fosse nel 2010: il rap­porto debito-Pil è aumen­tato a causa dello schiac­ciante impatto dell’austerità fiscale sulla pro­du­zione. Il Fondo mone­ta­rio inter­na­zio­nale ha ammesso que­sti fal­li­menti poli­tici e intel­let­tuali. Verrà anche il giorno in cui anche la Troika rico­no­scerà il fal­li­mento delle poli­ti­che di auste­rità e della teo­ria che l’hanno ispi­rate. A noi non resta che con­ti­nuare ad impe­gnarci per­ché que­sto avvenga il prima pos­si­bile rispar­miando inu­tili sof­fe­renze ai popoli dell’Europa.

I lea­der euro­pei restano con­vinti che la prio­rità debba essere la riforma strut­tu­rale. Ma i pro­blemi che men­zio­nano erano evi­denti negli anni pre­ce­denti la crisi, e non ave­vano fer­mato la cre­scita allora. All’Europa serve più che una riforma strut­tu­rale all’interno dei paesi mem­bri. All’Europa serve una riforma della strut­tura dell’eurozona stessa, e l’inversione delle poli­ti­che di auste­rity, che non sono riu­scite a riac­cen­dere la cre­scita economica.

Con­di­vi­dere una moneta unica costi­tui­sce ovvia­mente un pro­blema poi­ché così facendo si rinun­cia a due dei mec­ca­ni­smi di aggiu­sta­mento: i tassi d’interesse ed il cam­bio. Se si ade­ri­sce a una moneta unica, la rinun­cia ad alcuni stru­menti di poli­tica eco­no­mica può essere com­pen­sata sosti­tuen­doli però con qual­cosa d’altro, come una poli­tica fiscale comune e con­di­vi­sione dei debiti, men­tre ad oggi l’Europa non ha messo in campo altro che il Fiscal com­pact. Serve un cam­bia­mento strut­tu­rale dell’Eurozona se si vuole che l’euro possa soprav­vi­vere: o ci sarà l’Europa poli­tica (Stati uniti d’Europa) o non ci sarà l’euro. Coloro che pen­sa­vano che l’euro non sarebbe potuto soprav­vi­vere si sono ripe­tu­ta­mente sba­gliati. Ma i cri­tici hanno ragione su una cosa: a meno che non venga rifor­mata la strut­tura dell’Eurozona, e fer­mata l’austerity, l’Europa non si riprenderà.

Il dramma dell’Europa è ben lungi dall’essere con­cluso. Uno dei punti forza dell’Ue è la vita­lità delle sue demo­cra­zie. Ma l’euro ha lasciato i cit­ta­dini – soprat­tutto nei Paesi in crisi – senza voce in capi­tolo sul destino delle loro eco­no­mie. Gli elet­tori hanno ripe­tu­ta­mente man­dato a casa i poli­tici al potere, scon­tenti della dire­zione dell’economia – ma alla fine il nuovo governo con­ti­nua sullo stesso per­corso det­tato da Bru­xel­les, Fran­co­forte e Berlino.

Ma per quanto tempo può durare que­sta situa­zione? E come rea­gi­ranno gli elet­tori? In tutta Europa, abbiamo assi­stito a un’allarmante cre­scita di par­titi nazio­na­li­stici estremi, men­tre in alcuni Paesi sono in ascesa forti movi­menti sepa­ra­ti­sti. E potranno le eco­no­mie dei paesi peri­fe­rici soprav­vi­vere ad una unione mone­ta­ria incom­pleta e asimmetrica?

Ora la Gre­cia sta ponendo un altro test all’Europa. Il calo del Pil greco dal 2010 è un fat­tore ben più grave di quello regi­strato dall’America durante la Grande Depres­sione degli anni ‘30. La disoc­cu­pa­zione gio­va­nile è oltre il 50%. Il governo del primo mini­stro Ale­xis Tsi­pras ha otte­nuto che venga abban­do­nato l’insano obiet­tivo – assunto dal pre­ce­dente governo Sama­ras – di tri­pli­care l’avanzo pri­ma­rio, anche recu­pe­rando parte dell’evasione fiscale. Forse Syriza aveva acceso aspet­ta­tive diverse sul piano interno. Ma l’Europa tutta deve ora cogliere l’occasione greca per com­ple­tare il dise­gno dell’euro.

Il pro­blema non è la Gre­cia. È l’Europa. Se l’Europa non cam­bia – se non riforma l’Eurozona e con­ti­nua con l’austerity – una forte rea­zione sarà ine­vi­ta­bile. Forse la Gre­cia ce la farà que­sta volta. Ma que­sta fol­lia eco­no­mica non potrà con­ti­nuare per sem­pre. La demo­cra­zia non lo per­met­terà. Ma quanta altra sof­fe­renza dovrà sop­por­tare l’Europa prima che torni a par­lare la ragione?

* In col­la­bo­ra­zione con Mauro Gal­le­gari Par­ziale copy­right Pro­ject Syndic

Il manifesto, 3 marzo 2015

Il Los Ange­les Police Depart­ment è di nuovo al cen­tro della cro­naca degli abusi di poli­zia dopo la morte di un uomo fred­dato a colpi di pistola da tre agenti nel sob­borgo di Skid Row. L’episodio avve­nuto dome­nica è stato ripreso da un video dive­nuto virale in rete in cui si vedono sei poli­ziotti che cir­con­dano un uomo in evi­dente stato di agi­ta­zione. All’inizio del fil­mato gli agenti gli stanno attorno e l’uomo comin­cia a dime­narsi roteando le brac­cia nella loro direzione.

I poli­ziotti gli sal­tano addosso, un paio di essi lasciano cadere in terra i man­ga­nelli che ave­vano impu­gnato; una donna minuta, magris­sima e, si direbbe, anziana, ne rac­co­glie uno, due agenti che la sovra­stano di almeno 40 cen­ti­me­tri lasciano la mischia e si lan­ciano sulla esile donna afroa­me­ri­cana amma­net­tan­dola bru­sca­mente a terra. Nel frat­tempo sullo sfondo i quat­tro rima­nenti poli­ziotti con­ti­nuano la col­lut­ta­zione con l’uomo, iden­ti­fi­cato solo col nomi­gnolo “Africa”. Pure lui, ad un certo punto, atterra sulla schiena. Volano dei pugni, si sente il tic­chet­tio carat­te­ri­stico della sca­rica elet­trica dei taser poi d’improvviso un paio di agenti bal­zano in piedi con pistole pun­tate a terra e si sen­tono esplo­dere 5 colpi. Sono tre alla fine i poli­ziotti con l’arma puntata.

Nel video si vede e si sente anche la rea­zione dei nume­rosi astanti che urlano all’indirizzo degli agenti: «L’avete ammaz­zato, bastardi!» «Era disar­mato, qui nes­suno ha una pistola!» «Sei con­tro uno, vigliac­chi figli di puttana!».

Nel coro d’indignazione spon­ta­nea dei pre­senti arri­vano altre volanti e rin­forzi che si dispon­gono a cor­done e inti­mano alla gente di allon­ta­narsi. Si con­clude così l’ultimo, enne­simo, film di vio­lenza omi­cida poli­zie­sca desti­nata a pun­tare nuo­va­mente i riflet­tori su una piaga cro­nica con cui gli Stati uniti sten­tano a fare i conti e in cui ancora una volta si inter­se­cano letal­mente annosi pro­blemi sociali. Il raz­zi­smo — ancora una volta la vit­tima è nera — ma anche uno dei poli­ziotti che appa­ren­te­mente ha fatto fuoco lo è.

La men­ta­lità “mili­ta­riz­zata” delle forze dell’ordine che ha nuo­va­mente pro­vo­cato l’escalation vio­lenta di una nor­male situa­zione di ordine pub­blico in tra­ge­dia, e infine la gigan­te­sca disu­gua­glianza in mostra sui mar­cia­piedi delle città ame­ri­cane. Nel caso di Skid Row, un “quar­tiere” di un paio di chi­lo­me­tri qua­drati adia­cente alla zona di gal­le­rie d’arte e loft riqua­li­fi­cati in appar­ta­menti di lusso di Down­town, è adi­bito a a bidonville-dormitorio per migliaia di home­less che bivac­cano in tende, sca­tole di car­tone e altri ripari di for­tuna in abbiette con­di­zioni di squallore.

Le con­di­zioni di impres­sio­nante emar­gi­na­zione sono frutto in gran parte della com­pleta man­canza di rete di assi­stenza sociale e psico sani­ta­ria. Una grande per­cen­tuale degli home­less di Skid row sof­fre infatti di disturbi psi­chici, pazienti bipo­lari o psi­co­tici “orfani” di strut­ture pre­po­ste, abban­do­nati alla strada (qual­che anno fa venne per­fino docu­men­tata la pra­tica di ospe­dali del Nevada di dimet­tere pazienti psi­co­la­bili con ambu­lanze sca­ri­can­doli not­te­tempo nella zona). Era que­sto il caso anche di “Africa” giunto sui mar­cia­piedi del quar­tiere dopo un sog­giorno decen­nale in un ospe­dale psichiatrico.

In man­canza di strut­ture tera­peu­ti­che ade­guate, le “cure” di que­sti malati sono “appal­tate” alla poli­zia e alla loro tol­le­ranza zero. Nel caso dell’uomo ucciso dome­nica avrebbe preso la forma di un’ inti­ma­zione a sman­tel­lare una tenda. Quando que­sti, in stato con­fu­sio­nale, si sarebbe rifiu­tato i poli­ziotti lo avreb­bero estratto con la forza dal rifu­gio – il resto lo rac­conta il video.

Subis­sato di pro­te­ste, il dipar­ti­mento ha invi­tato i cit­ta­dini a «non for­marsi pre­con­cetti» annun­ciando una «inda­gine appro­fon­dita» sull’accaduto e pre­fi­gu­rando comun­que già da ora l’ipotesi di una «azione difen­siva» degli agenti in seguito al ten­ta­tivo della vit­tima di affer­rare una delle loro armi: in altre parole l’abituale copione impie­gato in que­sti casi che fini­scono rego­lar­mente con l’assoluzione degli agenti. Il Lapd non è nuovo a que­sto tipo di epi­so­dio, dal 2000 ad oggi i “morti per poli­zia” sono stati oltre 600. Dif­fi­cil­mente l’uccisione di Africa avrà un esito diverso

«Su Avvenire appello a Renzi da quarantaquattro deputati della maggioranza: “Occasione irripetibile per una svolta epocale” La norma inserita nel decreto messo a punto dalla Giannini. Ma servono quattrocento milioni. Domani il Consiglio dei ministri». La Repubblica, 2 marzo 2015

Gli sgravi fiscali per le famiglie che pagano una retta agli istituti paritari sono previsti nel decreto “La buona scuola”, appena licenziato dal ministero dell’Istruzione. Il ministro Stefania Giannini nel fine settimana ha inviato l’intero articolato a Palazzo Chigi. Oggi il premier Matteo Renzi lo prenderà in esame e domani discuterà in Consiglio dei ministri, all’interno della corposa riforma scolastica centrata sulle assunzioni dei precari, del provvedimento più politico: gli sgravi a chi frequenta scuole non di Stato. Allo Stato costerebbero, s’ipotizza, 400 milioni.

Decide Renzi, ecco, ma alla vigilia del Cdm un pezzo del centrosinistra (e un pezzo consistente del Pd) chiede al premier di aiutare una quota del mondo scolastico – le paritarie – che oggi attraversa la sua crisi più profonda dal dopoguerra. Un pressing che già divide la maggioranza. Quarantaquattro deputati, ieri, hanno pubblicato sul quotidiano cattolico Avvenire una lettera lunga due cartelle in cui chiedono l’approvazione del provvedimento sugli sgravi: “La Buona scuola”, scrivono al premier, «rappresenta il più importante tentativo di riforma dall’epoca della riforma gentiliana» ed è quindi «un’occasione irripetibile per superare lo storico gap della scuola in tema di pluralismo e libertà di educazione». Dall’unità nazionale in poi, si legge, «si è trasformata una scuola a vocazione comunitaria in una scuola per ricchi e si sono costrette le famiglie che optano per la scuola non statale a una doppia imposizione, quella della tassazione generale e quella delle rette».

Nella lettera si ricorda che la paritaria in Italia è fatta di 13mila istituti e accoglie un milione e 300 mila alunni, che con 478 milioni l’anno di finanziamento lo Stato risparmia oltre 7 miliardi di potenziali spese. Citando Antonio Gramsci, don Milani a Maria Montessori, si evidenzia come la scuola pubblica non statale sia «in lenta asfissia, una morte lenta», che numerosi istituti, «talora storici», hanno chiuso mentre «le scuole che resistono sono costrette ad aumentare le rette». Quindi, «un sistema fondato sulla detrazione fiscale, accompagnato dal buono scuola per gli incapienti, potrebbe essere un primo significativo passo verso una soluzione di tipo europeo».

Fra le 44 firme ci sono, ovviamente, i centristi della maggioranza: cinque di Area popolare tra cui Buttiglione e la Binetti, cinque del Centro democratico, uno di Scelta civica. Trentadue i deputati del Pd, fra cui l’ex ministro Fioroni, il teorico del no profit Patriarca e Simona Malpezzi, ex insegnante vicina agli attuali responsabili scuola del partito. Dice la Malpezzi: «Sono profondamente laica e credo che tutti debbano essere liberi di scegliere. Le paritarie quasi sempre suppliscono ai posti non creati dallo Stato. Non possiamo investire, come faremo, 100 milioni nelle materne e poi non consentire alle paritarie di fare la loro parte. Ho vissuto all’estero: in Francia la parità tra pubbliche e private è completa».

Il sottosegretario Gabriele Toccafondi, Ncd, ex Forza Italia, a Firenze sempre all’opposizione di Renzi, nelle ultime settimane ha lavorato agli sgravi fiscali, al buono scuola per i redditi bassi e all’estensione del 5 per mille anche agli istituti privati. Tutto questo, di concerto con il ministro Giannini. La proposta di sgravio prevede una detrazione del 19 per cento modulata sui redditi. Dice Toccafondi: «Non aiutiamo le scuole paritarie, a cui non diamo un euro in più, aiutiamo le famiglie che le frequentano. Non tutte oggi riescono a pagare la retta mensile, che alle materne e alle elementari viaggia tra i duecento e i quattrocento euro. La scuola è una sola: se cede la gamba delle paritarie cede anche quella delle statali, che certo non potrebbero sostenere un altro milione di studenti. Il fondo per le paritarie nel 2015 resta a 478 milioni, già tagliato di ventidue».

L’Unione degli studenti scrive: «La lettera dei 44 parlamentari è vergognosa, i fondi alle paritarie private sono uno spreco e uno schiaffo a una scuola pubblica che sta vivendo una situazione drammatica».

La Repubblica, 1. marzo 2015

LE MANIFESTAZIONI DI ROMA
di Gad Lerner

Salvini porta in piazza il popolo fascio-leghista tra vaffa e croci celtiche “Renzi servo dell’Europa”. A Roma con i militanti “verdi” anche Casapound e Alba Dorata Attacco ai rom. E sui ladri: se mi entri in casa, poi esci steso

Il camaleonte verdenero ce l’ha fatta. Al termine della sua notevole esibizione di maschia oratoria fascioleghista condita di turpiloquio e sottolineata — lo spiega lui stesso — da un “linguaggio del corpo che è importante”, con ricambio mirato di t-shirt pro-benzinaio veneto che ha ucciso il rapinatore a favore di felpa “Marò liberi subito”, piazza del Popolo lo incorona capo di una nuova destra nazionale.

Se non Duce, almeno ducetto. Glielo concede il portavoce di CasaPound, Simone Di Stefano: “Questa è la più bella piazza che io abbia mai visto a Roma. Oggi nasce un grande fronte politico che riconosce in Matteo Salvini il suo unico leader”. Stampato su uno striscione di fronte al palco, Mussolini fa il saluto romano e dice: “Salvini ti aspettavo”.

Lui li ricambia con l’appello a “tirare fuori le palle” rivolto ai “non omologati alla cultura di sinistra”, perché “io non distinguo gli uomini fra destra e sinistra ma fra produttori e parassiti”. E’ qui che lancerà il suo grido: “Vaffanculo alla Fornero e a chi l’ha portata al governo. Cazzo”, suscitando il tripudio della folla, eccitata anche dall’afrore dei fumogeni da stadio e dai crescendo corali di una musica gotica incalzante.

La nuova destra nazionale trova la sua intelaiatura in una Lega calata dal Nord facendo attenzione a non pronunciare mai la parola “Padania”. Archiviata. Qui si forgia “un popolo fiero” (Giorgia Meloni) pronto a difendere l’Italia da un Renzi che — digrigna i denti Salvini — altri non è se non “il servo sciocco di qualcuno che non ha nome e cognome a Bruxelles”. Un popolo pronto a dire “Stop immigrazione”, anzi, “non passa lo straniero”, come mormorava il Piave cento anni fa.

Ho incontrato decine di leghisti che si godevano la primavera romana, mentre nell’attesa i maxischermi trasmettevano un ininterrotto talk-blob con Salvini one man show . Qualcuno, pochi per la verità, aveva già attaccato un tricolore sotto la bandiera con l’Alberto da Giussano. Vi sentite italiani o padani? “Italo-padani”, mi rispondono dalla provincia di Brescia. Fra loro trovo le uniche due camicie verdi, arrivate da Borgo San Giacomo: “Con tanta gente del Sud abbiamo comuni ideali”. Più entusiasta una varesotta che milita da vent’anni col Carroccio: “Che sollievo, sono felice che apriamo ai meridionali, mi piacciono i loro sentimenti”. Anche se il sollievo riguarda soprattutto l’aver ritrovato un leader: “E’ un puro, Salvini. Puoi rivoltarlo come un calzino e non trovi niente a quel ragazzo lì”.

Alla fine registrerò solo un militante di Monza coi capelli rossi disposto a confidare: “Mi spiace ma non sono d’accordo. Salvini va a dare l’appoggio ai pescatori siciliani, ma secondo me quelli lì non hanno mai pagato le tasse”.

Dettagli marginali. La piazza leghista che si riscalda nell’attesa del gran finale, è già inebriata dall’amalgama a cui Salvini la destina: integrare al suo interno una porzione rilevante della destra romana. Li riconosci per le bandiere tricolori o per gli striscioni “Roma con Salvini”, segnali di una forza attrattiva reale esercitata su una Forza Italia in disgregazione. Per lo più sono ex missini, dallo stato d’animo un po’ interdetto: “Sa come diciamo nelle Marche? In mancanza di meglio si va a letto con la moglie. Di Salvini non è che ci piaccia tutto, ma la confluenza è possibile”.

Fermento sul palco, fra poco si comincia. Alt. Alle 15,15 in punto dal colle del Pincio, inquadrati in una coreografia militaresca studiata al millimetro, discende a serpentina la schiera imbandierata di CasaPound con le tre spighe del suo nuovo brand: “Sovranità”. E con le bandiere dell’Unione Europea sovrastate da una X rossa. Ci sono anche attivisti di Alba Dorata. Ora la piazza è ancor più fascioleghista.

Potevano mancare i vessilli della Russia di Putin? Sventolano già sul palco quando incontro la bionda Irina e le chiedo se ha un’opinione sull’assassinio di Boris Nemtsov: “Ormai non contava più nulla, e a noi non importa”. Capisco che la fiancheggiano personaggi importanti nel fare da tramite fra la Lega e Russia Nuova, il partito di Putin. Sono il portavoce di Salvini, Gianluca Savoini, divenuto presidente di un’Associazione Lombardia-Russia, e l’ex deputato Claudio D’Amico che indossa una t-shirt col volto di Putin e spiega: “Ci unisce la lotta in difesa dell’identità dei nostri popoli fondata sui valori della cristianità e della famiglia tradizionale”.
Ora il quadro ideologico del nuovo fascioleghismo, che accantona la secessione padana per farsi destra nazionale, è completo.
Il comizio di Salvini lo riempirà delle robuste dosi di cattiveria richieste a un capo, quando voglia corrispondere al bisogno popolare di “uomo forte”. Eccolo che inizia già con l’esibire i muscoli contro i centri sociali che volevano rovinargli la festa: “Tornatevene là da dove siete usciti”, grida. Inutile dire che “nella nostra Italia non c’è posto per i campi rom”. Qui il tono di voce si altera: “Gli diremo: fra tre mesi arrivano le ruspe, si sgombera. Va a fare il rom da qualche altra parte! E se mi arriva la diffida del Comitato antidiscriminazione — sapete che cosa? — io mi ci soffio il naso”. Ma il culmine deve ancora arrivare: “Per noi non esiste eccesso di legittima difesa. Se entri in casa mia in piedi, devi sapere che puoi uscirne steso”.
La folla è in visibilio, il comizio non fa rimpiangere quelli di Almirante nella piazza del Popolo fascista di quarant’anni fa. Si commuove anche il vecchio signore in sedia a rotelle che sventola una bandiera della Repubblica di Salò. Ora Salvini può strafare. Citando il crollo delle nascite in Italia, rivela che “è in corso un tentativo di sostituzione di popoli”. Chi è il primo ladro in Italia? “Si chiama Stato”. Non arriva a dire — come aveva fatto prima Luca Zaia — che “l’operazione Mare Nostrum ci costa un miliardo”. Ma raccomanda alla Marina militare: “Salvateli pure, i profughi, ma riportateli a casa loro”.
“Prima gli italiani” è la parola d’ordine che suggella il patto politico di piazza del Popolo. Italiani cui

si promette l’uscita dall’euro e un’aliquota fiscale ridotta al 15%, “così saranno gli svizzeri a esportare da noi i loro capitali”.

E’ qui che Matteo Salvini rivela le sue doti camaleontiche. Con tutte quelle migliaia di leghisti davanti non poteva certo ripetere che ha sbagliato a parlar male dei napoletani. Non dirà neppure “voglio bene a Roma, amo Venditti, a casa mi capita pure di cantare Roma Capoccia”, come testualmente dichiarato in precedenza, per ammorbidire una capitale finora troppo vilipesa. E allora il nostro camaleonte trascolora usando la formula: “Difendiamo l’Italia, anzi, le Italie, perché l’Italia è bella quando rispetta le differenze da Nord a Sud”. A Roma direbbero: un vero paraculo. Ma siccome agli italiani la faccia tosta non dispiace, e qui tutti lo vogliono a capo di una destra che per tutto il pomeriggio Berlusconi non lo nomina neanche più una volta, la formula “L’Italia, le Italie” gliela fanno passare volentieri.

Il camaleonte è velocissimo nell’adattarsi al progetto della nuova destra nazionalista. Se appena eletto segretario della Lega auspicava la deportazione “in un’isola deserta del Pacifico circondata da squali” di Rutelli, Veltroni e Alemanno — colpevoli di aver cumulato un deficit di 16 miliardi al Campidoglio — sentite come ha risposto a un intervistatore romano nei giorni scorsi: “Non voteremo più contro i fondi per Roma Capitale, purché vengano usati bene”.

Precipita così nell’irrilevanza lo scontro politico veneto fra Zaia e Flavio Tosi. Qui, con la benedizione di Marine Le Pen, si annuncia la prossima cacciata del governo Renzi e l’inizio di un’offensiva continentale contro Bruxelles, figuriamoci se qualcuno si abbassa a trattare di beghe locali. In piazza, i veneti sembrano tutti convinti che alla fine Tosi si adeguerà e rientrerà nei ranghi. Ma il non detto di quella lacerazione è un sintomo: cambiare pelle alla Lega, pur nell’ebbrezza del successo, non sarà faccenda indolore. Perché da quasi tre decenni il Carroccio è composto da un delicato equilibrio di localismi, e quindi il leghismo che diventa partito nazionale snatura un modo di essere leghisti di territorio che è stato anche un patrimonio di militanza, oltre che di clientele. Quando Giuseppe Berta, nel suo ultimo saggio “La via del Nord” (Il Mulino) annuncia la fine della questione settentrionale, perché la società del Nord non è più il motore dello sviluppo del Paese, forse sta spiegandoci anche la scelta di Salvini: “L’offerta politica ormai è uguale a tutte le latitudini”, tanto vale smetterla di fare i padani, meglio occupare l’enorme spazio lasciato vuoto a destra.

Quando lo speaker alla fine grida “Siete in centomila, fatevi sentire!”, l’avrà anche sparata grossa. Ma l’energia sotterranea della destra italiana ieri si è davvero condensata in piazza del Popolo, sviluppando una capacità d’attrazione sui delusi di Forza Italia e del M5S che potrebbe dare esiti sorprendenti. Il ducetto camaleontico Salvini sospinto da una corrente reazionaria fino a Palazzo Chigi? Oggi ci appare assurdo, ma provate a contare quante volte il nostro paese si è già misurato con esiti assurdi. A Roma il fascioleghismo ha celebrato il suo battesimo ufficiale. Sottovalutarne il pericolo equivarrebbe a ignorare la storia d’Italia.

LACARICA DEGLI ANTI CARROCCIO FESTA PER VENTIMILA
DOPO LA PAURA “SIAMO DI PIÙ, LACAPITALE È NOSTRA”

di Corrado Zunino


Senza casa, migranti, centri sociali e partigiani dell’Anpi contro l’alleanza Lega-CasaPound Balli e concerti per dire “no a razzismo e fascismo” e “al malgoverno che ci ruba la vita”

Sono tanti nelle strade di Roma, gli anti-Salvini. Ventimila almeno, quando la Piazza del Popolo fascio-leghista si mostra per metà vuota e con larghi spazi. La battaglia delle presenze l’hanno vinta gli “anti” (fascisti, leghisti, razzisti). Non sono i trentacinquemila urlati dal camioncino che ritma i passi e dà gli aggiornamenti — «... hanno arrestato una compagna dei senza casa... Nella notte a Napoli dieci fascisti hanno attaccato due dei nostri...» —, ma il fiume di persone la cui testa è alla fine di via Cavour non lascia vedere la sua coda, che ancora curva in piazza dell’Esquilino: ottocento metri di folla lenta e divertita.

«Salvini, hai detto che siamo quattro squadristi: contaci uno a uno, non ci riesci manco se resti qui una settimana». La bella giornata, 18 gradi alle due del pomeriggio, e la buona vittoria in strada — sì che gli antagonisti giocano in casa, la capitale, ma sono stati gli altri, i leghisti nazionali, ad aver fatto le prime convocazioni e allestito treni e pullman — hanno tolto micce e aggressività a una delle sfilate più temute dell’anno. Alla fine, si è risolta nel corteo più pacifico degli ultimi dieci. Non c’è stato un assalto alle vetrine delle banche, dei postamat, non si sono visti cappucci alzati né sgraffittate sui muri. Qualche fumogeno, niente bomboni: «Con i numeri ti abbiamo respinto, Salvini, noi abbiamo memoria della tua storia e ti diciamo: “Roma te schifa”». Era venuti qui con buone intenzioni — pochi caschi allacciati alla cinta, dal primo pomeriggio — e le hanno mantenute.

Ad aprire la marcia il fumettone di Zerocalcare, #Maiconsalvini, ma anche contro tutte le politiche di austerity: «Sono il problema del paese e dell’Europa, non gli immigrati ». Renzi non piace di là, sul palco del Popolo, né di qua. Ma qua l’urgenza è dare una risposta antifascista immediata: i vecchi e meno vecchi dell’Anpi, che sullo striscione portano una foto seppiata di ragazzi partigiani con le munizioni a tracolla e la Piramide alle spalle, ballano al ritmo dei percussionisti de “la murga”.

Tre canotti grigi, servono per respingere il leader leghista, vengono issati e portati da piazza Vittorio fino a Sant’Andrea della Valle, tre chilometri lontano. Una ragazza recupera il dark di Siouxsie and the Banshees, nel gruppo si canta: “Qui non si sgombera, Roma si barrica”. La rappresentanza di Sel, lo striscione di Rifondazione, sì, c’è ancora. La Banda Bassotti che vuole il Donbass, in Ucraina, libero dai nazisti.

Al solito i cortei romani partono pigri e poi si gonfiano. L’antagonismo storico della città è rappresentato da Nunzio D’Erme, un orecchino per lobo. Poi il Fronte della gioventù comunista, cresciuti a cento, manifestazione dopo manifestazione, le solite bandierine rosse e i canti della Resistenza: «Salvini, attento, ancora fischia il vento». Molti migranti, sotto le insegne “La casa si prende”. Quelli dell’abitare sono gli unici con un cordone di sicurezza attorno. «Siamo la Roma che reagisce e non abbassa la testa, che odia i fascisti e i razzisti, quella degli sfruttati e degli studenti che studiano nelle città distrutte da anni di malgoverno: vogliamo riprenderci le strade dalle mani di coloro che stanno rovinando le nostre vite».

Si teme, in avvio, davanti ai magazzini allo Statuto chiusi, che i conti non tornino, che i pochi, frustrati, possano diventare aggressivi, ma all’altezza della Basilica di Santa Maria Maggiore il corteo è già raddoppiato e svelenito. Ancora una brutta notizia — in cinque, a Termini, hanno picchiato uno dei nostri —, ma la sostanza è quella di un sabato senza violenza, dopo un venerdì di assalti in Piazza del Popolo e scontri con la polizia in Piazzale Flaminio. La mattina sono stati segnalati alcuni cassonetti bruciati sulla Tiburtina e sulla Nomentana, all’altezza del raccordo, ma ora il corteo sfila davanti a bar, gelaterie, ristoranti, minimarket, librerie aperte. Su due ruote quelli di “Biciclissima”.

Lungo i Fori imperiali vanno al microfono le star del reggaeton italiano: musica dal vivo, camminante. Poi gli Assalti frontali: “Roma meticcia”. Piazza Venezia, quindi davanti alle vecchie Botteghe Oscure e Largo Argentina: «Siamo troppi per entrare in Campo de’ Fiori». Allora retromarcia, con la coda che diventa testa e i troppi in corteo che adesso si mischiano con quelli delle domeniche pedonali. Al tramonto, le diciotto e trenta, il corteo dei movimenti romani si scioglie davanti al Colosseo, ecco i primi petardi. Un gruppo prosegue fino a San Lorenzo: «Non vogliamo andar via da soli». Il leone di San Marco è ancora incappucciato. A fianco, la scritta: “Odio la Lega”.

Il manifesto, 28 febbraio 2015

Le cose non sono affatto facili per Ale­xis Tsi­pras, pro­mo­tore di un piano anti-austerity che mette in dub­bio le fon­da­menta dell’Europa neo­li­be­rale. Il fatto che il nego­ziato all’Eurogruppo si sia con­cluso con l’approvazione dell’elenco delle riforme non vuol dire che la ten­sione ad Atene sia calata. Anzi, dopo l’ottimismo dei primi giorni il clima si fa pesante e tra oggi e domani si aspetta un dibat­tito acceso alla riu­nione del comi­tato cen­trale di Syriza.

Il pre­mier deve fare i conti non solo con i pro­blemi di liqui­dità già pre­senti nelle finanze dello stato, i ricatti dei part­ner euro­pei e le cri­ti­che da parte dei con­ser­va­tori, socia­li­sti, comu­ni­sti del Kke com­presi, ma deve con­fron­tarsi con il suo alter-ego: le sue pro­messe durante la cam­pa­gna elet­to­rale, i suoi com­pa­gni all’ interno del Syriza secondo i quali l’ auste­rity avrebbe dovuto finire il giorno dopo le ele­zioni.

L’aveva pro­messo pure Tsi­pras un anno fa. Voci che si mol­ti­pli­cano giorno dopo giorno per espri­mere il loro dis­senso all’accordo di Bru­xel­les, nono­stante il governo con­ti­nui a rac­co­gliere il soste­gno della stra­grande mag­gio­ranza dei greci (oltre l’ 80%).

Ale­xis Tsi­pras per evi­tare che il suo ese­cu­tivo sia una «paren­tesi di sini­stra», come vor­reb­bero i suoi avver­sari a Bru­xel­les e ad Atene, e per gua­da­gnare tempo ha pre­fe­rito la svolta. Che sia una «retro­mar­cia di destra» oppure solo rea­li­smo ha poca impor­tanza per un sem­plice motivo. L’ alter­na­tiva sarebbe uno scon­tro fron­tale ancora più duro tra il neo governo e i cre­di­tori inter­na­zio­nali, la chiu­sura dei rubi­netti dalla Bce, il default, ovvero il tra­collo finan­zia­rio, l’ uscita obbli­gata del Paese dalla zona euro.

Una situa­zione che sem­pre ha pro­vo­cato un dibat­tito acceso in Syriza come alter­na­tiva per sgan­ciarsi dalla tane­glia del debito pub­blico e dai cre­di­tori, ma che oggi esprime una mino­ranza. Il pro­gramma della sini­stra radi­cale greca è chiaro: com­bat­tere per un cam­bia­mento all’ interno dell’ eurozona.

Ale­xis Tsi­pras ha otte­nuto un dif­fi­cile equi­li­brio tra le richie­ste dei cre­di­tori inter­na­zio­nali e il suo piano anti-austerity; tra la neces­sità di retro­ce­dere momen­ta­nea­mente, accet­tando parte del pro­gramma pre­ce­dente e il biso­gno di affron­tare la crisi uma­ni­ta­ria, riav­viare l’economia e pro­muo­vere la giu­sti­zia fiscale, ricon­qui­stare l’occupazione, tra­sfor­mare il sistema poli­tico per raf­for­zare la democrazia.

Ora facendo un reso­conto all’ interno della sini­stra radi­cale, dopo l’ accordo di Bru­xel­les, que­sto equi­li­brio non piace. Non piace - si sapeva a priori - al potente Ari­stero Revma (Cor­rente di sini­stra) o Ari­steri Plat­forma (Piat­ta­forma di sini­stra) che ha cara­te­riz­zato il piano appro­vato dall’Eurogruppo «un accordo indo­vi­nello». Non piace all’eurodeputato del Syriza, Mano­lis Gle­zos, figura emble­ma­tica e sim­bolo della resi­stenza greca con­tro l’ occu­pa­zione nazi­sta. Le parole di Gle­zos sono state para­go­nate con una bomba alle fon­da­menta del neo governo Syriza-Anel, un attacco per­so­nale con­tro Ale­xis Tsi­pras. «L’accordo all’ Euro­gruppo é una ver­go­gna» ha scritto il 91enne Gle­zos al suo blog. E poi ha chie­sto «scusa al popolo greco».

La riu­nione del gruppo par­la­men­tare di Syriza di gio­vedì è durata dieci ore. Una mara­tone durante la quale il pre­mier ha chie­sto ai par­la­men­tari di espri­mersi aper­ta­mente sul con­te­nuto dell’ accordo e di votare per alzata di mano. «Il risul­tato dell’accordo dipen­derà e sarà giu­di­cato dal modo in cui lavo­re­remo come governo» ha detto Tsipras.

Niente da fare. Le anime non si cal­mano, i dis­sac­cordi riman­gono, i dis­si­denti insi­stono. Il mini­stro della Rico­stru­zione e dell’ Ambiente, Pana­gio­tis Lafa­za­nis e la pre­si­dente della Camera, Zoe Kon­stan­to­pou­lou, ambe­due espo­nenti della «Cor­rente di sini­stra» hanno detto che l’accordo è, in sostanza, un’estensione del pre-esistente memo­ran­dum (stessa cri­tica è stata mossa anche da Nea Dimo­kra­tia). Con­trari anche ex socia­li­sti, come il pro­fes­sore del Diritto di lavoro, Ale­xis Mitro­pou­los, espo­nente di spicco di Syriza. Alla fine la vota­zione: 20 (secondo altri più di 30) depu­tati sui 149 avreb­bero votato con­tro o scheda bianca all’ accordo di Bru­xel­les, men­tre un numero mag­giore sarebbe con­tra­rio a pre­sen­tare tale pro­po­sta in par­la­mento per la rati­fica come invece chiede da giorni l’opposizione. E la domanda che ci si pone è «come un mini­stro (Lafa­za­nis) con­tra­rio all’accordo di Bru­xel­les appli­cherà il suo contenuto?».

Come se non bastasse tutto que­sto, gio­vedì in un docu­mento reso pub­blico il pro­fes­sore di eco­no­mia, Yan­nis Milios, respon­sa­bile tut­tora della poli­tica eco­no­mica del Syriza, e altri due diri­genti del par­tito, cri­ti­cano aspra­mente l’operato del mini­stro delle finanze Yanis Varou­fa­kis. Lo scon­tro ideo­lo­gico tra un diri­gente con­si­de­rato mar­xi­sta e il mini­stro dichia­ra­ta­mente mar­xi­sta, ma di ten­denza keyn­siana, è evi­dente. L’accordo di Bru­xel­les si rife­ri­sce ai «con­trolli da parte dei cre­di­tori inter­na­zio­nali, e non ad uno scam­bio di valu­ta­zioni sull’ anda­mento dell’economia greca… accetta gli aiuti eco­no­mici del pre­ce­dente accordo, non fa rife­ri­mento alla ristrut­tu­ra­zione del debito pub­blico, ma parla di un pro­gramma di soste­ni­bi­lità… non garan­ti­sce la liqui­dità delle finanze» e tutto som­mato «poco ricorda ciò che Syriza pro­me­teva prima del voto del 25 gennaio».

Le trat­ta­tive da parte del governo greco erano «un salto a occhi chiusi», «non c’era un piano ben pre­ciso”, l’accordo «offre tempo ad Atene, ma la scena è sof­fo­cante» con­clude Milios.

Man­canza di espe­rienza di governo da parte della sini­stra greca? Atteg­gia­mento sui­cida, lotta con­ti­nua oppure spi­rito auto­cri­tico affin­ché si vada avanti? Il rea­li­smo poli­tico del pre­mier greco, espresso dopo l’estate scorsa e la tra­sfor­ma­zione rapida della sini­stra radi­cale in una forza gover­na­tiva che deve gestire la realtà, in fondo non è mai pia­ciuto a quelle cor­renti, comu­ni­ste e non, in seno al par­tito, che pre­fe­ri­reb­bero Syriza al 4%, ma «pura e rivoluzionaria».

Non a caso nes­suno tra quelli che cri­ti­cano l’ ope­rato di Tsi­pras e di Varou­fa­kis dicono cosa avreb­bero fatto se fos­sero pre­senti loro alle trat­ta­tive con i «18» dell’eurozona.

Lo scon­tro sarebbe ancora più forte, la rot­tura con i part­ner euro­pei imme­diata, il ritorno alla dracma sem­bre­rebbe quasi l’unica alter­na­tiva per un Paese che con­ti­nua a pro­durre poco. Uno sce­na­rio che ancora non viene escluso del tutto.

Il manifesto, 27 febbraio 2015

La Liga è sem­pre una sicu­rezza: prima le guerre inte­stine, poi il Veneto. E para­dos­sal­mente si capirà domani a Roma l’esito del brac­cio di ferro fra il gover­na­tore Luca Zaia e il sus­si­dia­rio sin­daco di Verona Fla­vio Tosi. In 48 ore Mat­teo Sal­vini si gioca la fac­cia nella capi­tale e la lea­der­ship nel gran con­si­glio, che dovrà met­tere fine alla «guerra del Nord Est».

Si vota a mag­gio per le Regio­nali, ma le grandi mano­vre nel cen­tro­de­stra par­tono dall’implosione di Forza Ita­lia orfana di Gian­carlo Galan (ai domi­ci­liari per lo scan­dalo Mose). Se dav­vero esplo­desse anche la Lega, si ria­pri­rebbe lo sce­na­rio poli­tico dopo un ven­ten­nio. Ci conta Ales­san­dra Moretti che già batte a tap­peto ogni angolo del Veneto: il Pd di Renzi ha l’ambizione di repli­care il modello Ser­rac­chiani, tanto da imbar­care per­fino gli «auto­no­mi­sti» di Franco Rocchetta.

Ma la vera par­tita si sta gio­cando a Vene­zia. Il 15 marzo sono fis­sate le Pri­ma­rie del cen­tro­si­ni­stra: in lizza per la can­di­da­tura a sin­daco l’ex pm e sena­tore «dis­si­dente» Felice Cas­son, il gior­na­li­sta Nicola Pel­li­cani e l’ultrà ren­ziano Jacopo Molina. Sull’altro fronte, invece, domani mat­tina all’hotel Rus­sott di Mestre rompe gli indugi Fran­ce­sca Zac­ca­riotto: «Il nostro domani ini­zia oggi» è lo slo­gan su sfondo aran­cio e gri­gio dell’ex pre­si­dente (ed ex leghi­sta) della Provincia.

È la mara­tona elet­to­rale che mette in palio la pol­trona di Ca’ Far­setti con l’ingombrante ere­dità di Gior­gio Orsoni (a pro­cesso sem­pre causa Mose, uno spet­tro che si allunga sull’intero ver­tice Pd di fe
de ber­sa­niana). Intanto il Car­ne­vale ha rega­lato il cor­teo in Canal Grande di maschere, bar­che alle­go­ri­che e vele spie­gate con­tro le lobby che can­ni­ba­liz­zano la laguna. Il Comi­tato No Grandi Navi non molla, anzi. E alla pre­sen­ta­zione di «Se Vene­zia muore» di Sal­va­tore Set­tis si è regi­strato un signi­fi­ca­tivo «pienone».

La città-cartolina da sogno sem­bra inghiot­tita dal buco nero di affari & poli­tica. Il Mose — la grande opera della Repub­blica per anto­no­ma­sia, con 5,5 miliardi di euro solo di lavori pub­blici – è sci­vo­lato ai mar­gini del circo media­tico. Come se l’architettura della «fat­tu­ra­zione paral­lela» (messa a punto fra la sede del Con­sor­zio Vene­zia Nuova a Castello 2737/f e la suc­cur­sale di Piazza San Lorenzo in Lucina 26) non fosse stata clo­nata altrove.

Vene­zia come nel 1630, all’epoca della peste nera: è cer­ti­fi­cato dalla Pro­cura alle prese con un «sistema» che spa­zia dalle auto­strade ai nuovi ospe­dali, dalle boni­fi­che all’urbanistica.

Intanto, il Comune soprav­vive nell’interregno dell’ordinaria ammi­ni­stra­zione. Il com­mis­sa­rio straor­di­na­rio Vit­to­rio Zap­pa­lorto con­se­gnerà un bilan­cio pesante, nono­stante la man­naia da 47 milioni abbat­tu­tasi su ser­vizi sociali e buste paga dei dipen­denti. Gli affari, però, non si fer­mano. C’era una volta il nuovo palazzo del cinema: vero e pro­prio buco al Lido, costato 40 milioni. E Zap­pa­lorto ha messo in ven­dita Villa Hèriot alla Giu­decca (10 milioni), con annessa «oppor­tu­nità» di tra­sfor­marla in albergo.

In attesa del voto, ogni lobby lavora a pieno regime. Lo testi­mo­nia in modo ine­qui­vo­ca­bile la rela­zione della Guar­dia di Finanza che ripro­duce la «mobi­li­ta­zione» in vista dello scavo del canale Con­torta. È la mini-Grande opera indi­spen­sa­bile a dirot­tare le gigan­te­sche navi da cro­ciera. A marzo 2014, Pier­gior­gio Baita (ex pre­si­dente Man­to­vani Spa, appena scar­ce­rato) insieme ad Atti­lio Adami (pre­si­dente di Pro­tecno Srl di Noventa Pado­vana) si «attiva» con Maz­za­cu­rati del Cvn affin­ché Paolo Costa (pre­si­dente dell’Autorità por­tuale) asse­gni il can­tiere alle imprese del «giro Mose». Inter­cet­ta­zioni agli atti.

In ter­ra­ferma, invece, si vola. Nel qua­drante Tes­sera si pro­fila la seconda pista dell’aeroporto cal­deg­giata dal pre­si­dente di Save Enrico Mar­chi, ma il master­plan rulla su ben altre rotte. Con­tem­pla un tun­nel per il Tav e addi­rit­tura la metro­po­li­tana subla­gu­nare; con­ta­bi­lizza oltre 3 milioni di metri cubi di cemento nelle stesse aree «sal­vate» dal piano comu­nale; fa scat­tare l’«imbonimento» delle barene per inte­resse pub­blico. Infine, si rici­cla l’Expo con il padi­glione Anta­res a ridosso del Parco Vega. Michele De Luc­chi, l’architetto del «padi­glione zero» di Milano, replica in laguna la strut­tura poli­fun­zio­nale rea­liz­zata da Con­dotte Immo­bi­liare. Una «rige­ne­ra­zione» a Mar­ghera che vale 30 milioni. Ma si conta sull’arrivo di 156 milioni che il governo deve aggiun­gere in tre anni per la «nuova fiera del Nord Est». A gestirla fino al 2027 sarà Expo Venice, Spa a cavallo fra isti­tu­zioni, cate­go­rie eco­no­mi­che e pri­vati.

Dal Mose all’Expo, dun­que: Vene­zia doget?

«La dia­let­tica tra locale e nazio­nale assu­me con­torni vir­tuosi, se si incarna in can­di­da­ture legate a movi­menti di resi­stenza dispie­gati sui ter­ri­tori, e uni­fi­cate da un dise­gno com­ples­sivo di cam­bia­mento politico». Il manifesto, 27 febbraio 2015
La sfida por­tata dal ren­zi­smo è a tutto campo, e a poco serve la denun­cia, è più che mai urgente la ride­fi­ni­zione del campo dell’alternativa. Magari comin­ciando, in pros­si­mità di un’importante tor­nata di ele­zioni ammi­ni­stra­tive, pro­prio dal livello locale. Il potere eser­ci­tato dal par­tito unico delle classi diri­genti, e dai suoi cacic­chi, sugli enti locali è infatti uno dei pun­telli prin­ci­pali del nuovo assetto del potere cen­trale. Da lì si eser­cita l’arte del bastone e della carota. Il potere eser­ci­tato dal par­tito unico delle classi diri­genti, e dai suoi cacic­chi è uno dei pun­telli del nuovo assetto del potere centrale.

Da lì si eser­cita l’arte del bastone e della carota. Il bastone delle pri­va­tiz­za­zioni, degli appalti anti-economici, della pre­ca­rietà e delle sue forme estreme, che Anto­nio Bevere di recente rifor­mu­lava come nuove schia­vitù (il “lavoro gra­tis”). E la carota del clien­te­li­smo, della “con­su­lenza” maxi e mini come scor­cia­toia alla ri-creazione di un blocco sociale in via di pro­gres­sivo sfa­ri­na­mento. Anche appro­fit­tando del bat­tage pub­bli­ci­ta­rio delle “archi­star” ami­che, chia­mate a dar lustro al regime tra­mite opere di dub­bio impatto sociale.

Troppo a lungo le forze di alter­na­tiva si sono illuse di poter lucrare un qual­che van­tag­gio dalla par­te­ci­pa­zione subor­di­nata alla gestione locale del potere, a meno di con­si­de­rare tali le ren­dite di posi­zione di mini-apparati buro­cra­tici auto­re­fe­ren­ziali. La risco­perta del valore popo­lare e con­te­sta­tivo delle auto­no­mie locali dovrebbe entrare di diritto a far parte di un più vasto dise­gno di ripresa dell’alternativa politica.

E sì che la sto­ria del movi­mento ope­raio del nostro Paese sarebbe in tal senso ricca di fer­menti da ripro­porre, aggior­nati alla nuova sta­gione di lotte. Non solo di “buona ammi­ni­stra­zione” si sta qui par­lando. Anche di que­sto, certo: l’orgoglio che anche i subal­terni potes­sero dar prova di sapienza ammi­ni­stra­tiva, appren­dendo a farsi classe diri­gente attra­verso la pale­stra del “comune demo­cra­tico”, costi­tuì una potente leva per il muni­ci­pa­li­smo socia­li­sta e poi comu­ni­sta. Ed un pro­fondo rin­no­va­mento del per­so­nale ammi­ni­stra­tivo si rende neces­sa­rio ancor oggi, a fronte del più sfre­nato tra­sfor­mi­smo e dell’infeudamento dei gruppi diri­genti locali al partito-dello-Stato e agli inte­ressi delle élite economico-finanziarie che lo sosten­gono.

Ma, più in gene­rale, è la teo­riz­za­zione delle auto­no­mie locali come contro-potere a pre­starsi ad un’opera di attua­liz­za­zione. Oggi come allora infatti, per usare le parole di Filippo Turati, l’ente locale appare «servo dello Stato, qual­che volta servo rilut­tante e non mai ribelle; pre­cet­tore, ammi­ni­stra­tore, poli­ziotto, in gran parte per conto dello Stato, quasi tenesse il potere per tol­le­ranza di que­sto; non rea­gi­sce né influi­sce sul governo, non sente biso­gno di auto­no­mie, non lotta per la pro­pria libertà».

Se poi dal Comune di passa alla Regione, il giu­di­zio sugli indi­rizzi per­se­guiti nell’attuale sta­gione varia di poco. Sem­pre è stata viva, a sini­stra, la pre­oc­cu­pa­zione che l’istituto regio­nale si con­fi­gu­rasse come una som­ma­to­ria di buro­cra­zie mera­mente sovrap­po­ste a quelle dello Stato cen­trale. Per ovviare a que­sti rischi, la bat­ta­glia regio­nale fu da subito legata da un lato a quella per la pia­ni­fi­ca­zione eco­no­mica e ter­ri­to­riale — fu in que­sto senso il Pli di Mala­godi il più aspro e con­se­guente avver­sa­rio del varo delle regioni; dall’altro ad una esi­genza di mag­giore par­te­ci­pa­zione popo­lare — è signi­fi­ca­tivo che alle regioni si arrivi al cul­mine del “secondo bien­nio rosso” (1968–1969). Il rove­scia­mento a cui oggi assi­stiamo in que­sti campi è totale: i con­si­gli regio­nali ridotti a casse di com­pen­sa­zione per un ceto poli­tico iper­tro­fico e desi­de­roso di ban­chet­tare sulle spo­glie dello Stato; dere­gu­la­tion eco­no­mica ed urba­ni­stica pro­mossa in con­certo tanto dallo Stato cen­trale quanto dalle ammi­ni­stra­zioni peri­fe­ri­che; leggi elet­to­rali regio­nali che in molti casi mor­ti­fi­cano la libera espres­sione della volontà elet­to­rale, ben oltre i limiti già scan­da­losi del modello nazio­nale su cui ven­gono ricalcate.

Non basta tut­ta­via ispi­rarsi alla let­tera della lezione della sto­ria per inver­tire le attuali ten­denze regres­sive; né denun­ciare mora­li­sti­ca­mente lo stato di cose esi­stente. E’ la stessa rifles­sione cri­tica sul pas­sato del nostro movi­mento ope­raio a con­se­gnarci una duplice ere­dità, da tener di conto ora più che mai. Gli avan­za­menti del potere popo­lare a livello locale, infatti, sem­pre sono stati in con­nes­sione con lo svi­luppo delle grandi mobi­li­ta­zioni sociali, e con l’emergere di gruppi diri­genti nuovi in sim­biosi con le aspi­ra­zioni emerse dal con­flitto. E sem­pre si sono rile­vati assai fra­gili, in assenza di una stra­te­gia nazio­nale al cui interno potes­sero essere inqua­drati.

Ancor oggi, i rischi dell’irrilevanza poli­tica e del rifu­gio nel loca­li­smo pro­ce­dono di pari passo. La dia­let­tica tra il momento locale e quello nazio­nale nella sfida poli­tica di alter­na­tiva può assu­mere però con­torni vir­tuosi, a patto che si incarni in una serie di can­di­da­ture legate a movi­menti di resi­stenza con­cre­ta­mente dispie­gati sui ter­ri­tori, ed allo stesso tempo uni­fi­cate da un dise­gno com­ples­sivo di cam­bia­mento politico.

La Repubblica 27 febbraio 2015
Lo schiaffo è fragoroso, visto che metà dei parlamentari del Pd diserterà oggi la riunione convocata da Matteo Renzi nella sede del Pd. Uno strappo clamoroso, il primo passo di un’escalation studiata a tavolino e condotta da Pierluigi Bersani. «Il metodo Mattarella - è la cruda fotografia di Alfredo D’Attorre - si è chiuso rapidamente». La guerra nel Pd, insomma, è sempre meno fredda. E lo ammette anche il leader: «Sono stupito - attacca - Nessuno vuole ricominciare con i caminetti ristretti vecchia maniera: noi siamo per il confronto, sempre. Non sprechiamo neanche un minuto in polemiche sterili e ingiustificate persino sugli orari e sulle modalità di convocazione di incontri informali. Il nostro popolo, quello che ci ha dato il 41% dopo tante sconfitte, non le merita».

L’origine del duello, a dire il vero, va rintracciata nella scelta di Palazzo Chigi di ignorare il parere delle commissioni competenti sul Jobs act. Per dirla con Bersani, «così si pone fuori dall’ordinamento costituzionale». A poco serve che Renzi si sgoli: «Tutte le principali decisioni di questi 15 mesi sono state discusse e votate negli organismi di partito». La competizione tra i cattorenziani e i renziani ortodossi, infatti, ha ridato vigore alle minoranze, spingendole a muoversi compattamente per disertare l’appuntamento di oggi.

A Montecitorio il clima è pessimo. I renziani provano a convincere i “dubbiosi del venerdì”. Fermano i peones, ricordano che è sconveniente saltare l’incontro con il segretario. Gridano pure alla struttura parallela dei bersaniani, denunciano il partito nel partito. Anche a palazzo Madama va in onda lo stesso film, con venti senatori della minoranza pronti a lamentarsi con il capogruppo Zanda dell’atteggiamento del segretario.

I capofila della rivolta, in ogni caso, militano proprio in Area riformista. «Non ci penso proprio a partecipare oggi - confida ad Avvenire Bersani - Io mi inchino alle esigenze della comunicazione, ma che gli organismi dirigenti debbano diventare figuranti di un film non ci sto». Un attimo dopo l’ex segretario sgancia la bomba: «Il combinato disposto tra ddl Boschi e Italicum rompe l'equilibrio democratico. Se la riforma della Costituzione va avanti così, non accetterò mai di votare la legge elettorale». La controffensiva renziana è immediata e parecchio irriverente: «Se Bersani non vota l’Italicum rileva Ernesto Carbone - significa che preferisce il Porcellum. Nostalgia canaglia».

L’elenco di chi oggi volterà le spalle al premier, comunque, è lunghissimo. Molti dei Giovani turchi, in allarme per le grandi manovre in area renziana. E tantissimi deputati di peso, da Nico Stumpo a Pippo Civati, Rosy Bindi, Stefano Fassina e Gianni Cuperlo. «Sono in Sardegna - dice quest’ultimo - ma non ci sarei andato comunque».

Stessa linea di Ileana Argentin: «Sinistra Dem non va alla riunione. Sa perché? Non è che tu vieni un’ora, parli e noi applaudiamo. Un’assemblea è una cosa diversa». Ci sarà invece Francesco Boccia, ma solo per picchiare duro sul premier. «Invece di sabotare - reagisce il vicesegretario Lorenzo Guerini - colgano l'occasione per confrontarsi». Eppure, a sentire Massimo D’Alema la sensazione è che i rapporti interni possano addirittura peggiorare. «C'è una discussione vivace. E io spero che si faccia ancora più vivace»

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