«Questi partiti tornati potenti si impoveriscono procedendo per espulsioni e promozioni non dei migliori ma dei fedeli. Trovare nuove forme di partecipazione e di rappresentanza è fondamentale, se non vogliamo rassegnarci a una politica ridimensionata a una questione per pochi intimi». Corriere della sera, 12 marzo 2015
Quante volte abbiamo celebrato il funerale dei partiti? Invece sono più vivi che mai. Meglio, sono più che mai le leve per il potere. Renzi è arrivato a Palazzo Chigi dopo aver scalato il Pd. Salvini ha conquistato la segreteria della Lega, con l’accordo che Tosi sarebbe stato il candidato premier, e ora l’ha cacciato. La nuova legge elettorale mette i partiti al centro di tutto: il partito più votato avrà il premio di maggioranza, i capi partito designeranno gran parte degli eletti. Eppure non ci sono né le regole, né le garanzie, forse neppure la volontà necessarie ad aprire i partiti alla partecipazione dei cittadini.
Chi si iscrive oggi a un partito, e perché? Quanti tra i giovani fanno politica? Sono davvero i migliori coloro che si avvicinano alla cosa pubblica? È lecito dubitarne. I partiti sono molto diversi da quelli di un tempo: non hanno sezioni, non hanno giornali, non hanno scuole di formazione e di pensiero, non hanno ideologie, forse non hanno neppure idee forti. Però non hanno mai avuto tanta influenza. Neppure i segretari della Dc e del Pci ricevevano premi di maggioranza e nominavano i propri parlamentari; e quasi mai il leader e il presidente del Consiglio erano la stessa persona (com’è accaduto a Berlusconi e come accade a Renzi). Eppure la Prima Repubblica era la Repubblica dei partiti. «Il partito, questo incredibile strumento del potere che da un giorno all’altro ti innalza ai vertici dello Stato, ti dà poteri economici decisionali anche se fino a ieri hai scritto libri di nessun valore, anche se sei un economista di cui nelle università dei Paesi avanzati riderebbero…»: così ha scritto Giorgio Bocca a proposito dell’ascesa di Fanfani; fin troppo severamente, visti i successori. «Partitocrazia» la chiamò Pannella.
Poi il sistema ricalcato sul mondo diviso in blocchi fu travolto dalla fine della Guerra Fredda, e dal dilagare insopportabile della corruzione. Una buona legge che portava il nome dell’attuale capo dello Stato creò collegi uninominali, in cui non si votava più un simbolo ma una persona. Si ironizzò sulle variazioni botaniche e floreali di partiti che erano stati potenti. Cominciò la stagione dei sindaci, che seppero interpretare la loro città e parvero offrire una nuova visione della politica, più aperta e vicina ai cittadini. E anche loro provarono a fondare un partito.
Oggi i sindaci non hanno più un soldo e sono ai minimi storici: Orsoni arrestato, de Magistris reintegrato dal Tar, Doria sbertucciato per strada, ora Tosi espulso; di Zedda e Merola si sono perse le tracce; a Palermo e a Catania ci sono gli stessi di oltre vent’anni fa; Pisapia non si ricandida (Marino purtroppo sì).
È vero che un ex sindaco mai passato dal Parlamento siede a Palazzo Chigi. Ma Renzi è salito al potere prendendosi il Pd e usandolo come una leva per scalzare Letta e insediarsi al suo posto. Ora, dopo aver concordato con Berlusconi una legge che enfatizza il ruolo dei partiti, annuncia di volerne uno «meno leggero di quello che pensavo», in cui iscritti e tessere tornino a pesare.
È difficile credere che Renzi desideri un improponibile ritorno al passato. Ma il futuro è tutto da costruire. La Costituzione all’articolo 49 prevede che all’interno dei partiti debba valere «il metodo democratico». Da decenni si discute di una legge che fissi regole per il funzionamento interno delle forze politiche (e sindacali); ora si parla di regolamentare per legge le primarie. Parliamoci chiaro: sarà molto difficile che queste norme vedano la luce. Ma non per questo il problema può essere eluso.
La semplificazione che le riforme di Renzi imprimeranno al sistema, sia pure al prezzo di qualche forzatura, può essere salutare. Ma proprio per questo servono regole chiare. Spesso le primarie, comprese le ultime in Campania, hanno creato più problemi di quelli che hanno risolto. I partiti rischiano di diventare club elettorali del capo e comitati d’affari, che inevitabilmente alimentano una corruzione tanto diffusa da non destare neppure più scandalo. E i social network sono una scorciatoia più semplice ma alla lunga più fragile del lavoro culturale e organizzativo che occorre per costruire movimenti attorno a energie e a interessi.
Oggi la politica non attrae i talenti e le intelligenze. Non forma quadri dirigenti e bravi amministratori. Disgusta o annoia, come confermano i dati d’ascolto dei talk-show . Il confronto delle idee langue, il livello della discussione pubblica non è all’altezza della gravità della situazione. Questi partiti tornati potenti si impoveriscono procedendo per espulsioni e promozioni non dei migliori ma dei fedeli. Trovare nuove forme di partecipazione e di rappresentanza è fondamentale, se non vogliamo rassegnarci a una politica ridimensionata a una questione per pochi intimi, con i militanti ridotti a clientes arraffoni o a fondale plaudente con bandiere a favore di telecamera .
Il manifesto, 12 marzo 2015
Non è gentile chiedere l’età a una donna e i supremi giudici della Cassazione non hanno potuto dimostrare che l’ottantenne presidente del consiglio sapesse che la ragazza scappata da una casa famiglia aveva appena diciassette anni quando si fermava la notte nel villa di Arcore. Un vero gentiluomo.
Per gli ermellini del Palazzaccio non deve essere stato facile nemmeno arrivare a una sentenza di assoluzione che infatti li ha impegnati per nove ore prima di giungere alla conclusione della beata ignoranza dell’ex cavaliere. Non solo. Hanno anche giudicato che la telefonata notturna del capo del governo italiano, impegnato in un vertice a Parigi, per chiedere di liberare la nipote di Mubarak fermata in questura, non era un atto di concussione del funzionario di polizia. Bisognava essere degli antiberlusconiani accecati dall’odio per non capire che se il politico più potente del paese si interessava alla ragazza certamente si trattava di un nobile sentimento di paterna preoccupazione per la sorte dell’illustre nipote. Infatti Ruby uscì dalla questura per ritrovarsi a casa di una prostituta dopo essere passata per le cure di una delle frequentatrici delle cene eleganti, Nicole Minetti, già promossa a consigliere regionale per evidenti meriti acquisiti sul campo.
Eppure per non fare la figura di un Ghedini qualsiasi, perfino l’avvocato Franco Coppi deve ammetterlo davanti ai cronisti: «Berlusconi non me ne voglia ma non posso calarmi il velo davanti agli occhi». Il luminare del foro milanese lo dice a proposito delle serate con le prostitute che l’allora presidente del consiglio spacciava per convivi musicali. Un giro vorticoso di donne a pagamento nella casa del capo del governo. Un «fatto prostitutivo», confermato da giudici e avvocati.
Tuttavia, come dicono gli addetti ai lavori, non si sono ravvisate «le fattispecie di reato» e tanto basta alla grande famiglia berlusconiana per far festa. Se ieri avete acceso la televisione avete visto piccole folle armate di bandiere davanti l’abitazione romana di Berlusconi. Avete ascoltato l’attuale ministro dell’interno di Renzi, confessare la propria felicità per aver sempre creduto nell’innocenza del suo leader, e con lui tutti i berlusconiani che ieri, invece di minacciare i giudici del tribunale di Milano con manifestazioni fuori e dentro il palazzo di giustizia, si sono limitati a chiedere il risarcimento per il loro amato capo.
E pazienza se resta sempre un condannato in via definitiva per frode fiscale, se deve affrontare a Napoli un processo per compravendita di parlamentari, se deve stare attento al processo di Bari sui traffici di prostitute dell’amico Tarantini, se deve tremare per il cosiddetto Ruby-ter sulla corruzione di atti giudiziari (le olgettine pagate per tacere). Piccole, fastidiose fissazioni della magistratura che non impediranno a un politico in declino di sentirsi di nuovo a cavallo, pronto a rimboccarsi le maniche per darci «un’Italia migliore». Quell’Italia che lo ha votato per vent’anni, che oggi non lo vota più anche perché una parte di quell’elettorato avverte una profonda sintonia con il giovane leader di palazzo Chigi che sembra volerne replicare successi e consensi.
Verranno giorni migliori ma la morale della favola di questa assoluzione del condannato eccellente l’abbiamo imparata da uno dei grandi maestri della letteratura americana che ci aveva avvertito per tempo: «Non c’è motivo per cui il bene non possa trionfare sul male, se solo gli angeli si dessero un’organizzazione ispirata a quella della mafia»
Il pane e le rose, 11 marzo 2015
Ieri è stata la sua grande giornata. E' passato alla storia ed ha coronato venti anni di attività politica di primissimo piano nella quale non c'è stato un solo giorno nel quale abbia giocato di rimessa e non sia stato l'attore principale. Aveva detto all'inizio: " Rivolterò l'Italia" come un calzino". L'ha fatto. E' stato il più rigoroso ideologo dell'anticomunismo che l'Italia abbia mai avuto al potere. Tutto quello che non è riuscito a fare pur creandone l'humus, il contesto è stato fatto dal suo legittimo successore: Matteo Renzi che sebbene non uscito dai saloni di Villa Arcore è il suo erede spirituale, colui che ha portato a compimento la sua opera.
Berlusconi si presenta venti anni fa al potere del Paese come la parte sconfitta dalla Resistenza, la parte cancellata e costretta a rifugiarsi nelle fogne,che ribalta la sua condizione in quella del vincitore. Sdogana Fini e lancia un segnale a tutta l'area fascista del Paese che non era riuscita a riciclarsi con Almirante. Assume di fatto la guida degli industriali italiani anche se all'inizio questi erano assai diffidenti e scostanti verso di lui. Quando scoppia una delle tante crisi della Fiat si presenta allo appuntamento con l'avvocato Gianni Agnelli a bordo di possenti auto straniere esibite al pubblico italiano.
Perchè ieri è stata la sua apoteosi, la sua assunzione in cielo, la sua divinizzazione? Perchè un parlamento trattato a staffilate dal suo successore approva una legge che sfascia la Costituzione deformandone il contenuto e perchè la Magistratura italiana che è stata la nemica con la quale si è confrontata per venti anni realizza un imbarazzante autogol: la Cassazione lo assolve di una gravissima accusa formulata dal Tribunale di Milano riguardante la corruzione di una minorenne e la concussione di funzionari di questura. Era stato condannato a sette anni, pubblico ministero accusatore Ilda Boccassini che fiammeggiava con la spada della giustizia nelle mani nelle requisitorie contro di lui.
Si dice che però ieri Berlusconi ha perso Forza Italia, il suo Partito perchè lo ha indotto a votare contro Renzi. Il fatto non ha nessuna importanza dal momento che il suo scaltro successore non avrà più bisogno dei suoi voti per andare avanti. Non ha neppure importanza se ci sarà un Nazareno secondo. Il PD è il suo partito, la sua Forza Italia. L'ideologia berlusconiana è penetrata profondamente in tutte le strutture della politica e dello Stato e si è inverata in un avventuriero di grande fortuna quale è Matteo Renzi.
Berlusconi ha vinto perchè ha fatto di quello che fu il PCI il suo partito: il PD è lo strumento che ha sfasciato la classe lavoratrice, ha ridotto il sindacato alla obbedienza al governo, ha portato avanti un programma di riforme costituzionali riducendo ad una sorta di ''dopolavoro'' il Senato e cancellando i valori resistenziali contenuti nella Costituzione a cominciare da quelli che tutelavano il lavoro.
Aveva ragione ieri il professore Marino a parlare della vittoria del berlusconismo alla fine di Berlusconi. E' proprio così. Naturalmente non è stato solo merito suo perchè i grandi cambiamenti della storia non sono mai merito di una sola causa. La Bolognina è una lontana sorgente dell'ideologia liberista che ha dato linfa e cultura al berlusconismo. L'assetto iperliberista e soffocante dell' Unione Europea ne è con causa importante.
La sconfitta della classe operaia è assoluta: perde la sua identità di classe perchè il lavoro non è più un diritto e la forza che conta è quella della impresa, perde il suo contesto culturale nella demolizione della Costituzione, perde il suo partito che ha avuto una mutazione maligna ed è diventato il partito del suo mortale nemico.
Una sconfitta destinata a pesare a lungo e che ha azzerato i diritti di due generazioni prive di diritti ed ingannate dalla Job Act che precarizza per sempre il lavoro. Non ci sarà mai più impiego a tempo indeterminato per nessuno. I pochi diritti sopravvissuti sono destinati ad essere cancellati.
Perché fanno così? Certo, c'è chi ha una poltrona da difendere e se la perdesse finirebbe a spasso dal momento che non ha mai lavorato in vita sua. Ma non solo. C'è chi ci crede davvero. Gente che viene ancora dal Pci e ha conservato un profondo senso di fedeltà al partito. C'è chi è sinceramente convinto che l'unità sia un bene da preservare. Non sono valori da disprezzare. Eppure proprio a queste persone che puntellano e legittimano il renzismo verrebbe da porre alcune domande: conta più la fedeltà al Pd oppure ai propri ideali e ai programmi sui quali si è avuto il consenso? Che valore ha un partito nel momento in cui i suoi interessi confliggono con quelli di una regione, di un Paese e dei cittadini? Non sarebbe il momento di uno scatto di orgoglio e coraggio anche a costo di un sacrificio personale?"Il Pd non è solo un partito di potere, ci sono tanti uomini e donne che ci credono". Vero, ha ragione l'alto dirigente democratico che ti agita davanti una copia del Fatto Quotidiano. Ma ha anche torto. E la colpa non è solo di Matteo Renzi e della sua corte selezionata premiando l'ossequio più che i meriti.
No, la deriva del maggiore partito italiano - sempre più simile al Psi craxiano, ma forse ancora più insidioso - è responsabilità soprattutto di quella zona grigia di dirigenti e onorevoli che nasconde il proprio dissenso, che ha il coraggio di manifestarlo soltanto nel chiuso di stanze e corridoi. Non intendiamo i D'Alema che vorrebbero scalzare Renzi per riproporre il loro decrepito sistema di potere. Parliamo di gente talvolta capace e perbene. Che prova sincero disagio. Eppure tace, al massimo si limita a criptiche - e magari penose - manifestazioni di dissenso.
Perché fanno così? Certo, c'è chi ha una poltrona da difendere e se la perdesse finirebbe a spasso dal momento che non ha mai lavorato in vita sua. Ma non solo. C'è chi ci crede davvero. Gente che viene ancora dal Pci e ha conservato un profondo senso di fedeltà al partito. C'è chi è sinceramente convinto che l'unità sia un bene da preservare. Non sono valori da disprezzare. Eppure proprio a queste persone che puntellano e legittimano il renzismo verrebbe da porre alcune domande: conta più la fedeltà al Pd oppure ai propri ideali e ai programmi sui quali si è avuto il consenso? Che valore ha un partito nel momento in cui i suoi interessi confliggono con quelli di una regione, di un Paese e dei cittadini? Non sarebbe il momento di uno scatto di orgoglio e coraggio anche a costo di un sacrificio personale?
Il manifesto, 11 marzo 2015
Addio solidarietà. A rimettere in discussione il fondamento della nostra sanità pubblica sono quelle Regioni che Ivan della Mea nel 1969 avrebbe catalogato tra le cose che si stingono cambiando di colore «il rosso è diventato giallo» e che oggi altro non sono se non Regioni senza scrupoli che colpiscono alle spalle l’etica egualitaria del welfare. Sono le stesse Regioni che rispetto all’universalismo sono state di esempio a tutti. Vale a dire Emilia Romagna e Toscana, ma anche Liguria e anche altre.
Messe alle corde dalle restrizioni finanziarie, stanno aprendo la strada alla privatizzazione della sanità, incapaci di trovare soluzioni alternative pur avendone a disposizione un bel po’. Tradimenti quindi, cioè controriforme, in nulla giustificati dai contesti avversi e che si spiegano con la malafede politica, la disonestà intellettuale, i limiti culturali, lo spirito controriformatore del tempo e un cedimento al pensiero speculativo dell’intermediazione finanziaria.
La Toscana, la regione con il più alto tasso di copayment cioè di compartecipazione alla spesa pubblica da parte dei cittadini, è anche la Regione che di fatto ha praticamente appaltato la diagnostica e buona parte della specialistica ambulatoriale ai privati, incoraggiandoli a proporsi con prezzi competitivi e promozionali per battere il pubblico, oggi alle prese con un riordino esplicitamente contro riformatore.
L’Emilia Romagna, da tempo al lavoro per costruire fondi integrativi, recentemente ha raggiunto un’intesa con Coop e Unipol per fornire sistemi assistenziali paralleli e lo stesso presidente Bonaccini nel suo programma politico ha dichiarato di voler «spezzare la concezione ideologica che contrappone pubblico e privato». La Liguria è sulla medesima strada e da tempo.
Che senso hanno queste politiche? Mettere in conflitto due generi di solidarietà: quella mutualistica che dipende dai redditi delle persone e che per sua natura è discriminativa e quella pubblica che dipende dai diritti delle persone e che per sua natura è egualitaria. Cioè stanno contrapponendo la diseguaglianza alla eguaglianza facendo della prima un valore e della seconda un disvalore. Un gioco apertamente neoliberista a somma negativa.
C’è da chiedersi con una certa urgenza cosa fare per combattere queste tendenze. Rodotà recentemente con un suo libro (“Solidarietà, un’utopia necessaria” Laterza 2014) dice che oggi «è necessario…riprendere con determinazione il tema dei principi». Ma cosa vuol dire «seguire la via del costituzionalismo» per ribadire «la connessione tra principi e diritti» per non «rassegnarsi alla subordinazione alle compatibilità economiche»? A che serve ribadire il valore della solidarietà quale “principio generale” quando esso è già normato, e quando il vero problema che abbiamo è la sua inosservanza se non la sua negazione? Temo che la strada dei principi non basti.
In sanità come dimostrano le “Regioni gialle” la rottura del legame solidaristico inizia dai limiti anche culturali di una classe dirigente che non è capace di provvedere ad un pensiero riformatore e che vede nella controriforma l’ unica possibilità di gestire un limite economico. In sanità la solidarietà è in crisi per tante ragioni: economiche , culturali, sociali filosofiche e antropologiche, politiche . Il più grande sindacato dei medici di medicina generale al suo ultimo congresso si è dichiarato favorevole a ridurre la solidarietà dello Stato ai soli indigenti. Il sindacato confederale si trova dentro una contraddizione imbarazzante: da una parte difende il sistema sanitario solidale e universale e dall’altra per via contrattuale stipula per le “categorie forti” accordi per l’assistenza mutualistica.
La più grande rottura della solidarietà nel mio campo si ha con la crescita esponenziale del conflitto tra società e sanità, definita altrimenti “contenzioso legale”. I cittadini malati portano i medici in tribunale cioè rompono i legami di solidarietà che li ha sempre giustapposti ai propri terapeuti per millenni. Questi antichi legami si sono rotti anche perché l’uso della medicina oggi è fortemente condizionata da comportamenti apertamente antisolidaristici degli operatori come sono quelli agiti in modo opportunistico a difesa dei rischi professionali (medicina difensiva).
La solidarietà sino ad ora in sanità è stata vista, soprattutto da sinistra, come di tipo fondamentalmente fiscale ma in realtà di solidarietà ve ne sono tante e quello che ci manca è un pensiero riformatore in grado di ricomprenderle in un nuovo discorso che oltre che di diritti parli anche di doveri proprio nel senso indicato dall’art 2 della Costituzione. Non sono d’accordo con le “Regioni gialle” che riconducono tutto ad una questione di scarsità delle risorse ma neanche con coloro che parlano del controllo delle risorse come una priorità costituzionale.
Lorenza Carlassare, ad esempio, ci propone di distinguere «fondi doverosi» «destinazioni consentite» e «destinazione vietate»(Costituzionalismo.it,1,2013)…ma in sanità le differenze tra necessario/essenziale/utile/primario/secondario costituiscono un campo minato e poi allocare risorse con questa logica non è molto diverso da chi propone di finanziare la sanità per priorità che come è noto è il presupposto di partenza dell’universalismo selettivo. Se ragioniamo per “priorità” addio solidarietà.
Penso che la contraddizione solidarietà/risorse sia innegabile ma non giustifica il “tradimento” delle regioni nei confronti dell’universalismo. L’art 2 della costituzione ci invita a considerare la solidarietà come «dovere», mentre le regioni si sottraggono a questo dovere
«La volontà di concentrare tutti gli sforzi sull’Italicum offre l’impressione di una scaramuccia di retroguardia». La Sinistra Tremula risale in disordine e senza speranza le valli dell'opposizione interna al PD di Matteo Renzi. Il futura di una sinistra vera non è lì. La Repubblica, 11 marzo 2015
«Ho votato sì per l’ultima volta» dice Bersani dopo aver dato il suo consenso alla riforma del Senato. In realtà l’ex segretario del Pd, oggi figura di riferimento della minoranza anti-Renzi, racchiude in sé tutte le contraddizioni di un fronte che un passo dopo l’altro sta perdendo la guerra.
Del resto, non c’è nulla che alimenti il successo come il successo medesimo. Renzi si è costruito la fama del vincitore, una specie di «veni, vidi, vici» moderno. Finché la sorte lo assiste, è difficile credere che la minoranza del suo partito riesca a rovesciare il tavolo. Certo, l’argomento di Bersani e dei suoi amici non è irrilevante. In sostanza, si ritiene che la legge elettorale — l’Italicum — sia inadeguata per via dei numerosi deputati «nominati» dalle segreterie e non realmente eletti in un confronto nei collegi. Soprattutto il combinato disposto dell’Italicum e di un sistema monocamerale, prodotto dalla riforma che trasforma il Senato in un’assemblea di «secondo grado», cioè non eletta dal popolo, appare agli occhi degli oppositori un vulnus democratico. Un tema molto vicino alla posizione espressa dai vendoliani di Sel.
Il problema è che la minoranza non ha la forza e nemmeno una linea coerente per tentare di vincere la battaglia. Quando la riforma costituzionale era a Palazzo Madama in prima lettura, gli anti-Renzi del Pd — salvo alcune eccezioni — non seppero o non vollero impegnarsi all’unisono per bloccarla. Lasciarono intendere che il vero scontro sarebbe stato a Montecitorio, dove peraltro i numeri sono molto più favorevoli al premier- segretario. In realtà, come si è visto, alla Camera Bersani e quasi tutti i suoi hanno votato secondo la disciplina interna, sia pure «per l’ultima volta».
A questo punto la riforma è a due passi dalla sua definitiva approvazione ed è davvero arduo immaginare che possa essere insabbiata, nonostante l’esiguo margine di voti al Senato. Inoltre, come è noto, la linea del Pd è storicamente favorevole al sistema monocamerale e ciò spiega perché l’attenzione della minoranza si è già spostata verso la legge elettorale. L’obiettivo minimo è modificare lo schema delle liste bloccate, ma anche il premio alla lista anziché alla coalizione non piace.
Questa volontà di concentrare tutti gli sforzi sull’Italicum, in vista di ottenere modifiche significative all’impianto della legge, è in sé legittima, ma non si sfugge all’impressione che si tratti di una scaramuccia di retroguardia. Qualcosa a cui forse non tutti credono negli stessi ranghi della minoranza del Pd. Vale per la legge elettorale quello che si è detto per la riforma costituzionale: perché non c’è stato un maggiore impegno quando forse era possibile spuntare un risultato? Anche l’Italicum è già passato sotto le forche caudine del Senato ed è stato approvato. Eravamo in gennaio, prima che le Camere si riunissero per eleggere il capo dello Stato, e Renzi giocò abilmente sia Berlusconi sia la sua minoranza interna, ottenendo il «sì» alla riforma.
Anche allora i bersaniani annunciarono lotta senza quartiere, ma solo pochi di loro tennero fede ai propositi e alla fine furono comunque sconfitti dai numeri. Gli altri, per varie ragioni, si defilarono. Adesso l’Italicun si sta avviando verso Montecitorio per la seconda e definitiva lettura. Bersani chiede di non perdere l’ultima occasione di modificarne la sostanza ed è andato anche da Mattarella per illustrargli il suo punto di vista. Ma se è una battaglia per la rappresentanza democratica, il «pathos» è purtroppo assente. E di nuovo il terreno scelto — l’assemblea di Montecitorio — è il meno propizio per ribaltare i rapporti di forza con i renziani.
Peraltro il presidente del Consiglio già da tempo è dedito a dividere l’opposizione interna, portando dalla sua spezzoni più o meno consistenti. E lasciando intendere, invece, che per gli intransigenti non ci sarà futuro nelle liste elettorali dell’Italicum. I bersaniani ortodossi, più che vincere un braccio di ferro tardivo, non dovranno sembrare interessati solo a salvare il seggio in Parlamento.
Il manifesto, 10 marzo 2015
La legge di revisione costituzionale che oggi sarà approvata dalla camera modifica 47 articoli sui 134 che compongono l’attuale Costituzione. Più del 35%: l’intera seconda parte (Ordinamento della Repubblica) e un solo articolo, il 48, della prima parte (Diritti e doveri dei cittadini). Il disegno di legge porta la firma di Matteo Renzi e Maria Elena Boschi ed è stato gestito come un affare di stretta competenza del governo (con una sorta di questione di fiducia: «Se il parlamento non fa le riforme va a casa») attraverso tempi contingentati, «canguri» (emendamenti cancellati a blocchi) e una seduta fiume alla camera. Dovrà tornare al senato — che però potrà discutere solo i 10 articoli modificati dalla camera — e, dopo la pausa di riflessione di tre mesi, dovrà passare per il voto conforme a maggioranza assoluta dei due rami del parlamento. Poi il referendum confermativo, con il quale si chiederà ai cittadini un voto prendere o lasciare su tutta la riforma. Non ci sarà cioè quel referendum «omogeneo» per materia prescritto dalla Corte Costituzionale e considerato ormai un punto fermo dai costituzionalisti, al punto da essere stato previsto nella precedente ipotesi di riforma «larghe intese» (governo Letta).
Le principali modifiche alla Costituzione possono essere riassunte in otto punti; tre invece sono le parole d’ordine scelte dal governo: fine del bicameralismo, semplificazione, risparmio. Tre slogan finiti in un solo articolo, il nuovo 55 della Costituzione, che cresce da 5 a 35 righe: d’ora in poi solo i deputati «rappresentano la nazione» mentre il nuovo senato «rappresenta le istituzioni territoriali». Secondo Renzi l’abolizione del senato elettivo e delle province produrrà un taglio di spesa di un miliardo, secondo la Ragioneria generale dello stato risparmieremo solo 49 milioni.
1 — Senato non elettivo. In luogo di 315 senatori eletti da tutti i cittadini che hanno compiuto 25 anni, a palazzo Madama siederanno in 95 scelti dai consiglieri regionali all’interno dei consigli e tra i sindaci della regione. Altri cinque senatori potranno essere scelti «per altissimi meriti» dal presidente della Repubblica per un incarico di sette anni. Le modalità di elezione all’interno dei consigli regionali sono tutte da scrivere: una buona simulazione è rappresentata dalla recente selezione dei delegati per l’elezione del presidente della Repubblica: il Pd da solo si è aggiudicato circa il 60% dei posti. La composizione del senato cambierà con il succedersi delle consiliature regionali, e anche il numero totale dei senatori potrà aumentare o diminuire in caso di novità nei censimenti. Il senato non vota la fiducia al governo.
2 — Procedimento legislativo. L’articolo 70 della Costituzione è attualmente di una sola riga: «La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due camere». Il nuovo è di oltre cinquanta righe. Prevede in sintesi quattro procedure: 1) Le leggi costituzionali sono approvate da entrambe le camere. 2) Sulle leggi ordinarie il senato può eventualmente esprimersi dopo che la camera le abbia approvate, ma la camera ha l’ultima parola a maggioranza semplice. 3) Per alcune leggi comprese in un elenco di materie (tutela dell’interesse nazionale) se il senato si esprime a maggioranza assoluta la camera può ignorare la deliberazione ma votando anche lei a maggioranza assoluta. 4) Il senato può proporre una legge alla camera votandola a maggioranza assoluta, ma la camera può ignorare la proposta a maggioranza semplice. Su eventuali, prevedibilissimi, conflitto di attribuzione tra le due camere «decidono i presidenti delle camere d’intesa tra loro». Nulla si dice nel caso di mancata intesa.
3 — Voto a data certa. Il governo potrà chiedere alla camera di votare in maniera definitiva entro settanta giorni una legge che considera «essenziale per l’attuazione del programma». Il termine include i tempi necessari per l’eventuale esame del senato. Il nuovo istituto non sostituisce i decreti legge, per i quali vengono solo previsti in Costituzione quei limiti per materia (leggi costituzionali, leggi elettorali e altre) che già sono previsti oggi dalla legge ordinaria.
4 — Giudizio preventivo di costituzionalità. È previsto solo per le leggi elettorali, compresa quella che sarà eventualmente approvata (Renzi se lo augura) nelle legislatura in corso (l’Italicum). Un terzo dei senatori o un quarto dei deputati potranno chiedere alla Consulta di valutare la legittimità delle nuove norme elettorali una volta concluso l’esame delle camere e prima che la legge venga promulgata dal capo dello stato. Si dovrebbero così evitare nuovi casi «Porcellum».
5 — Strumenti di democrazia diretta. Il governo ha detto di volerli agevolare, le modifiche vanno nel senso opposto. Per una legge di iniziativa popolare occorreranno il triplo delle firme (da 50mila a 150mila), viene enunciato il principio che il parlamento deve garantirne l’esame, rinviandolo però ai regolamenti parlamentari. Vengono citati in costituzione i referendum propositivi e di indirizzo, ma anche in questo caso c’è un rinvio: a una prossima legge costituzionale. Infine cambiano i numeri del referendum abrogativo: se la proposta è sottoscritta dagli attuali 500mila elettori continuerà a essere richiesta la partecipazione del 50% più uno degli aventi diritto al voto perché il referendum sia valido. Se invece le firme saranno 800mila basterà il 50% più uno dei votanti alle ultime elezione per la camera.
6 — Deliberazione dello stato di guerra. Passa dalla competenza bicamerale e quella della sola camera, che dovrà decidere a maggioranza assoluta. Ma la legge elettorale in arrivo (Italicum) garantisce quella maggioranza a un solo partito. Resta previsto che una legge semplice può prorogare la durata della camera in caso di guerra. E così, almeno in teoria, viene messo in mano a un solo partito lo strumento per rinviare le elezioni politiche.
7– Elezione del presidente della Repubblica. Perde buona parte della carica bipartisan per effetto della diminuzione dei senatori e dell’abolizione dei delegati regionali. Sono previsti tre quorum: due terzi dei componenti per i primi tre scrutini, tre quinti dei componenti dal quarto scrutinio e tre quinti dei votanti dal settimo. A conti fatti (con l’Italicum) il primo partito potrebbe contare su 410 grandi elettori, dovendone mettere insieme dal quarto scrutinio appena 438.
8 — Titolo V. Viene soppressa la competenza concorrente tra stato e regioni, cresce rispetto alla Costituzione vigente l’elenco delle materie di competenza esclusiva dello stato (l’articolo 117 mette in fila 21 grandi capitoli, dalla politica estera ai porti e aeroporti). Viene introdotta la «clausola di supremazia» in base alla quale il parlamento può legiferare anche in materie di competenza regionale «quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero l’interesse nazionale». Ma a decidere di far scattare la clausola potrà essere solo il governo.
Il manifesto, 8 marzo 2015
Settimana lavorativa di 35 ore, permesso di paternità equiparato a quello di maternità, scuole infantili e ospizi gratuiti. Sono solo alcune delle proposte contenute in un documento che potrebbe gettare le basi per una rivoluzione culturale nella gestione delle politiche assistenziali. A firmarlo l’esperta fiscale Maria Pazos e l’economista Bibiana Madialdea, che su incarico di Podemos, hanno elaborato una proposta di taglio femminista per riformare un settore dello stato sociale congenitamente «obsoleto, ingiusto, insufficiente e insostenibile», come spiega María Pazos Morán, 61 anni, attivista della piattaforma internazionale per la parità di genere Plent e ricercatrice dell’Istituto nazionale di studi fiscali, dove dirige il programma di politiche pubbliche e uguaglianza di genere.
La proposta si basa su principi di solidarietà, proporzionalità, cittadinanza universale e individualizzazione dei diritti. Quasi un’utopia nel clima neoliberista spagnolo…
«In realtà si tratta di proposte concrete e attuabili, che sul medio termine porterebbero notevoli benefici economici e potrebbero contribuire al superamento della crisi. Riorganizzare le politiche assistenziali vuol dire anche razionalizzare la spesa e ridurre il rischio di esclusione sociale e povertà, attualmente i principali ostacoli al consumo. In questi anni si è agito in senso contrario e i tagli e l’individualismo neoliberista hanno contribuito al deterioramento dello stato sociale, anche se il problema va oltre l’insufficienza di risorse: non c’è dubbio che siano necessari più investimenti, ma altrettanto necessario è riorganizzare strutturalmente e ideologicamente il sistema».
Da dove bisogna cominciare?
«Il cuore del problema sono le politiche di conciliazione della vita familiare e lavorativa. Attualmente si incentiva l’abbandono totale o parziale del lavoro per chi si fa carico di mansioni si assistenza: così si dispensa lo stato dall’assistenza dei più bisognosi per relegarla all’ambito familiare, ovvero, per ragioni culturali e sociali, a quello femminile. Questa impostazione perpetua una concezione dicotomica dei ruoli di genere, e crea ingiustizie che hanno un alto costo sociale. In primo luogo per le donne stesse, che sono ostacolate nella loro realizzazione lavorativa, discriminate nella ricerca d’impiego e pertanto più soggette alla dipendenza economica e all’esclusione sociale.
«Ma anche per gli uomini, che vengono costretti al margine dell’ambito familiare e delle cure. Inoltre la rinuncia al lavoro non è compensata: l’assistenza non è considerata come un lavoro, non gode degli stessi diritti e protezioni, e dà luogo a fenomeni di segregazione e di economia sommersa».
La vostra è una proposta femminista contro un welfare maschilista?
«Più che maschilista direi patriarcale, basato su un modello disequilibrato uomo-capofamiglia/sposa dipendente. Il nostro modello vorrebbe ristabilire un’uguaglianza di diritti e doveri che è vantaggiosa per tutta la società: basti pensare al capitale umano che questa discriminazione disperde. Pertanto la nostra è una proposta femminista nel senso che punta a correggere un ordine che allo stato attuale pregiudica soprattutto le donne».
Su quali basi dovrebbe fondarsi un sistema assistenziale egualitario?
È imprescindibile che l’assistenza esca dall’alveo della famiglia, dove sarà sempre la donna a farsene carico: perciò abbiamo insistito sull’individualizzazione e l’intrasferibilità dei diritti. Ma non è solo una questione di uguaglianza e di emancipazione femminile.
«I dati demografici lo dimostrano: la popolazione invecchia e nel 2040 il numero delle persone bisognose d’assistenza saranno il doppio che nel 2008. E se si aggiunge che meno del 20% dei bambini sotto i 3 anni va all’asilo per più di 30 ore alla settimana, risulta chiaro che il cambio di paradigma è urgente. D’altra parte non si tratta di affidare tutto allo stato, ma di creare corresponsabilità e garantire diritti affinché uomini e donne possano dedicare indistintamente tempo all’assistenza familiare senza dover trascurare altri ambiti. In Svezia queste riforme sono state fatte verso la fine degli anni 60, in una società meno avanzata di quanto non lo sia quella spagnola di oggi».
E perché, invece, in Spagna, come in molti altri paesi mediterranei, si è fatto poco o nulla?
«Perché è necessaria un precisa volontà politica e un colpo di timone ideologico, come quello che diede Zapatero con la riforma sul matrimonio omosessuale. Non si sta parlando solo di un cambio di norme, ma anche di mentalità e di valori.
«Una riforma come questa è possibile solo all’interno di una catarsi sociale che sostituisca individualismo e consumismo con solidarietà, educazione, cultura, apertura all’altro. D’altra parte il fermento politico e le istanze di cambiamento che vengono dalla cittadinanza fanno pensare che i tempi siano maturi».
Quali sono le misure chiave del vostro programma?
Nell’ambito della cura degli anziani, garantire a ogni persona il diritto all’indipendenza e a essere assistita in strutture statali. Per quanto riguarda la maternità/paternità, la progressiva introduzione del permesso retribuito al 100% e di uguale durata per entrambi i genitori indipendentemente dal sesso e dall’orientamento sessuale. Le sole due settimane di permesso per i papà (a fronte delle 16 materne, ndr) sono costate solo 200 milioni di euro nel 2014.
Estenderle avrebbe un costo relativamente basso, ma inestimabili vantaggi: metterebbe fine, in primo luogo, alla discriminazione delle donne nella ricerca d’impiego e apporterebbe evidenti benefici nella cura del neonato. Per quanto riguarda l’educazione infantile, proponiamo asili gratis fino a 3 anni, e settimana lavorativa di 35 ore».
La misura più urgente?
«Direi l’equiparazione dei congedi parentali. È la più emblematica».
«La seduzione dello Stato Islamico poggia sul concetto di appartenenza e per chi non ce la fa più a sgomitare e cerca nei suoi simili un gruppo al quale appartenere». Il Fatto Quotidiano online, blog "Economia occulta", 8 marzo 2015
Lo Stato Islamico è diventato un business, come lo divenne il terrorismo all’indomani dell’11 settembre. Dai giornalisti ai professori, dagli esperti alle think tank specializzate nel processo di radicalizzazione, persino il comune cittadino, grazie ai social media, esprime le proprie opinioni e così facendo promuove se stesso o attacca chi la pensa diversamente. E’ questo un bene? Lo sapremo tra 50 anni quando i posteri scriveranno di come abbiamo gestito questo periodo buio della storia della nostra civiltà.
Ma se fermiamo per un momento tutta questa ‘caciara’ opinionista e cerchiamo di capire cosa succede usando non gli strumenti del presente, la tecnologia informatica che mette tutti a contatto con gli altri, ma quelli del passato, l’analisi del male, le cose cambiano. La storia europea ci offre un esempio di comportamento malvagio e disumano recente, la soppressione a livello industriale degli ebrei, l’olocausto. Anche Hitler faceva pulizia etnica, sopprimeva gli omossessuali e distruggeva scientificamente la diversità. Spogliava dell’umanità il diverso. E lo faceva con un esercito ben addestrato e con il consenso della popolazione. Ce lo siamo dimenticato? Eppure ogni anno celebriamo il giorno della memoria per ricordare gli orrori di cui questo continente è stato capace.
Il Papa, unica luce in questo buio esistenziale nel quale siamo piombati, ha il coraggio di mettere in dubbio la consuetudine ideologica-religiosa della nostra normalità. “Quando siamo schiavi dell’autoreferenzialità finiamo per coltivare una ‘spiritualità di etichetta': ‘Io sono Cl'; e cadiamo nelle mille trappole che ci offre il compiacimento autoreferenziale, quel guardarci allo specchio che ci porta a disorientarci e a trasformarci in meri impresari di una Ong”. Queste le sue parole.
In fondo anche i giovani mussulmani che vengono sedotti dal messaggio dello Stato Islamico sono schiavi di un’ideologia totalmente autoreferenziale che gli fa credere di appartenere alla normalità di un mondo monolitico, dove tutti sono uguali agli altri. La storia di Jihadi John, un ragazzino che non riusciva a trovare una sua collocazione nell’Inghilterra contemporanea, vessato dai servizi segreti che lo volevano trasformare in una spia, assomiglia molto a quella di Abu Mussaq al Zarqawi, il proletario giordano, bulletto di quartiere che in prigione scopre la ‘normalità’ del salafismo radicale. Ed anche quella delle promesse spose dei guerrieri jihadisti, che sognano un marito con la sciabola alla cintura ed una famiglia a Raqqa, rientra in questa ‘normalità’. Accettare la diversità è quasi diventato impossibile in un mondo sovrappopolato dove per farsi spazio bisogna lavorare di gomito costantemente.
La seduzione dello Stato Islamico poggia sul concetto di appartenenza e di normalità per chi non ce la fa più a sgomitare e cerca nei suoi simili, i deboli, un gruppo al quale appartenere. La celebrazione dell’individualismo che lo smembramento del socialismo e la vittoria del neo-liberismo ci ha regalato ha prodotto anche questo, la solitudine esistenziale di chi non ha i numeri per emergere dalla massa. Questo sicuramente non lo abbiamo letto da nessuna parte.
Un incontro casuale su un treno che da Amsterdam mi portava a Parigi qualche settimana fa ben illustra questo concetto. Nel vagone ristoro c’era un ragazzo di vent’anni che leggeva la versione olandese del mio libro sull’ Isis.
Mi sono avvicinata ed abbiamo iniziato a chiacchierare. Era iracheno, di Baghdad, ed era sunnita. La famiglia si era trasferita ad Amsterdam quando aveva 12 anni perché sfollati, la loro casa è stata requisita da una delle tante milizie sciite ed hanno avuto la fortuna di trovare asilo in Olanda. Una storia come tante altre, simile a quella di mia suocera, ebrea fuggita da Berlino nel 1938 a soli 14 anni con la madre grazie ad uno sponsor di New York. Anche per loro l’impatto con il nuovo paese è stato traumatico, il padre del ragazzo era professore di chimica adesso fa il tassista e lui, laureatosi in ingegneria non trova lavoro ed è stanco di aiutare il padre con il tassi. Anche la nonna di mio marito è finita a fare la cameriera in un albergo mentre a Berlino lavorava in borsa. Ma nel 1940 per i giovani ebrei in America era possibile costruirsi un futuro, nell’Europa contemporanea per i giovani mussulmani diventa sempre più difficile, quasi impossibile, farlo.
Il ragazzo iracheno mi ha raccontato di alcuni suoi amici che un paio d’anni fa hanno deciso di andare in Siria a combattere, chissà forse qualcuno è finito anche nelle file dell’Isis o di al Nusra, lui non lo sa o almeno così mi ha detto. Ma capisce l’attrazione, la seduzione che l’idea di andarsene esercita sui suoi coetanei. Una normalità frutto della scelta comune e della vita da sogno prospettata dai reclutatori dello Stato islamico. E’ un’illusione, gli ho detto. E lui mi ha risposto che è vero ma qual è l’alternativa?
Nel 1961 Hanna Arendt descrisse la banalità del male, attribuendo ai nazisti un comportamento da automa dettato da codici di normalità che li hanno portati a commettere un genocidio. La tesi fu duramente criticata ed oggi viene accettata come una delle interpretazioni più autentiche della tragedia dell’olocausto.
La banalità del male è ancora oggi la chiave di lettura delle barbarie perpetrate dallo Stato Islamico. A prescindere dalle esecuzioni degli ostaggi, che senso ha distruggere monumenti di un’era antecedente alla nascita del profeta? Domandiamoci questo, come possono le statue Assiro babilonesi essere idoli dal momento che chi le ha costruite non conosceva la parola del profeta? Fare tabula rasa del passato aiuta la costruzione della normalità del presente, è per questo che Hitler voleva sterminare gli ebrei tedeschi, si stratta di uno sfoggio di debolezza da parte di chi non ha più il coraggio di pensare e di scegliere, individui alienati da una società che secondo loro non li vuole.
Le radici della radicalizzazione sono sempre le stesse ed affondano nel nostro subconscio. Uccidere e distruggere sono atti contro natura ma se questa si rivela nemica allora è facile costruirne un’altra, monolitica ad immagine e somiglianza della propria debolezza.
Il ragazzo iracheno mi ha dato ragione, la seduzione dello Stato Islamico altro non è che la normalità dei deboli che nella violenza si illudono di essere forti. E più l’esercito dei deboli cresce, più questa normalità diventa realtà. In fondo questa era anche la seduzione del nazismo.
Ci siamo salutati quando il treno entrava a Bruxelles. Mi ha chiesto di firmargli il libro, ho scritto “in bocca al lupo” ne abbiamo tutti bisogno.
Il manifesto, 8 marzo 2015
UN CORPO FUORI CONTROLLO
di Geraldina Colotti
Diritti. Libertà sessuali e riproduttive, educazione, agibilità politica, il manifesto di Amnesty. Medici senza frontiere mette l’accento sui problemi sanitari delle adolescenti
Il corpo e i diritti, My body: my right. S’intitola così il manifesto diffuso da Amnesty International per la giornata delle donne. Contiene 7 principi e una domanda: chi controlla il tuo corpo? I principi che Amnesty chiede di sottoscrivere attengono alle libertà sessuali e riproduttive, ma anche all’educazione e all’informazione necessarie per compiere scelte consapevoli e agli spazi di agibilità politica per influire sulle leggi e sui decisori. La presenza del punto 2 — «Cercare di abortire — o aiutare qualcuno a farlo — NON ci rende criminali» — la dice lunga sui passi indietro compiuti, anche in Italia, in questo ambito.
La sovranità della donna sul proprio corpo — bandiera insindacabile negli anni che hanno prodotto leggi avanzate e garantiste — è diventata un fortino da difendere da costrizioni economiche e pressioni simboliche dovute al ritorno di familismo e marianesimo. E così, fa riflettere anche il punto 3: «I servizi sanitari di qualità, a costi sostenibili e nel rispetto della riservatezza compreso l’accesso alla contraccezione, non sono un lusso, sono un diritto umano». Parlare di welfare e gratuità dei servizi è diventata quasi una bestemmia.
A 104 anni dall’8 marzo del 1857, quando morirono nell’incendio le operaie in sciopero in una fabbrica tessile di New York, nelle fabbriche ad alto sfruttamento si continua però a morire: è successo in Bangladesh solo 3 anni fa, quando 110 operaie che producevano per la Disney hanno perso la vita in un incendio. Epperò, non ci sono più le comuniste e le socialiste che, guidate da Clara Zetkin, allora dedicarono alle operaie un 8 marzo di lotta e la speranza di un’altra società.
Invece, anche analizzando i dati contenuti nell’ultimo Rapporto di Amnesty sui diritti (edito da Castelvecchi), emerge l’urgenza di coniugare libertà e giustizia sociale, anticorpo indispensabile contro guerre, soprusi e impunità. Medici senza frontiere mette l’accento sui problemi sanitari delle adolescenti e rileva che il 95% delle gravidanze precoci avviene nei paesi in via di sviluppo e che la mortalità materna è la seconda causa di morte tra i 15 e i 19 anni. «In molti paesi — scrive — ragazze e giovani donne in particolare, spesso non ricevono un’educazione sessuale di base né informazioni sulla salute riproduttiva e devono affrontare notevoli barriere per accedere all’assistenza sanitaria. In alcune culture le donne non hanno la possibilità di prendere le proprie decisioni sulla salute».
Certo, il patriarcato viene prima del capitalismo, ma nei paesi in cui le donne hanno accesso ai diritti elementari, prima di tutto al lavoro e all’istruzione, la loro condizione cambia. E laddove hanno più potere — potere di sé e di poter fare — la differenza di genere diventa forza. «Se non fossi stata ministra della Difesa non avrei mai potuto essere eletta presidente», ha detto Michelle Bachelet. La presidente cilena, che in precedenza ha diretto Onu Mujer, a fine febbraio ha organizzato in Cile un incontro internazionale di alto livello dal titolo: «Le donne nel potere e nelle decisioni: costruendo un mondo differente». Bachelet ha presentato i progressi compiuti dal suo governo per sostenere le donne «in particolare le più povere» e per aumentare l’assistenza ai bambini e agli anziani «in modo che questo non pesi più su di loro e possano trovare un lavoro e realizzarsi». Ha illustrato l’indirizzo adottato per modificare leggi e istituzioni. «Certo — ha detto -, il Cile ha eletto per la seconda volta una donna alla presidenza, la nostra presidente del Senato è una donna, la leader dei lavoratori, Barbara Figueroa, è una donna, e varie dirigenti del movimento degli studenti sono donne. Tuttavia, il Cile non è il paradiso per le donne». Infatti, il parlamento è ancora composto all’84% da uomini, e con quella composizione verrà discussa la proposta di legge sull’aborto.
Le cose non vanno certo meglio per le donne di altri continenti. Amnesty segnala che, in Afghanistan, i primi sei mesi del 2014 hanno fatto registrare 4.154 casi di violenza contro le donne. Violenze di genere commesse all’interno delle famiglie, ciò che ha reso impossibile l’azione giudiziaria.Oggi, il popolo curdo dedica l’8 marzo alla rivoluzione delle donne del Rojava e alla resistenza delle Unità di difesa delle donne (Ypj), che in Siria «combattono la loro guerra di Liberazione dall’Isis e difendono anche la nostra libertà». Lo Sciopero globale delle donne lancia invece una petizione internazionale per «Un salario degno per le madri e per altre lavoratrici di cura».
E, in Italia, la Rete Nazionale dei centri anti-violenza (DiRe) affida alla giornata una domanda per il governo Renzi: «Che fine ha fatto Piano Nazionale contro la violenza alle donne annunciato da oltre un anno?».
UN NUOVO MODELLO DI RIVOLTA
di Bia Sarasini
Neppure nel 1977, anno piuttosto turbolento. Allora l’arma fu il gesto femminista, in piazza, le mani unite in alto, nel triangolo che indica il vuoto e la potenza del sesso femminile. («Il gesto femminista», a cura di Ilaria Bussoni e Raffaella Perna, Derive&Approdi). Atto forte, sovversivo. Mi è venuto in mente nel guardare la foto della ragazza che qualche giorno fa è andata in giro da sola per Kabul, coperta da una specie di armatura, indossata sopra gli abiti e comunque con il velo in testa, che disegnava il corpo nudo di una donna. Lei però era sola, in mezzo agli uomini esagitati che l’hanno circondata e semi-aggredita. La donna armata dice qualcosa di nuovo, segnala un cambiamento. La foto è stata scelta con cura, la ragazza non punta l’arma e non alimenta lo stereotipo della bella guerrigliera. L’invito delle donne curde dice: «Organizziamo la resistenza ovunque nel mondo le donne subiscano violenza. Diffondiamo insieme lo spirito di resistenza che ci unisce e ci rafforza contro ogni manifestazione del sistema di dominio patriarcale».
Un invito politico, che non trasporta in Occidente la guerra che viene combattuta dalle donne peshmerga in prima persona, sui campi di battaglia. Una lotta che è entrata con forza nel nostro immaginario da settembre, prima con i combattimenti e poi la successiva liberazione di Kobane. E così sono venuti i reportage, le interviste in tutti i media mainstream, soprattutto i femminili. Senza dubbio le combattenti hanno acceso l’immaginazione, hanno attivato un fuoco latente. Suscitano un’enorme ammirazione, combattono per la libertà loro e delle loro figlie, contro un esercito, quello dell’Isis, per il quale essere donne è una colpa, e fonte di contaminazione, all’interno di un’organizzazione, il Pkk, che ha fatto dell’uguaglianza tra donne e uomini un proprio valore.
Eppure. Come la mettiamo con la non violenza? Con la convinzione femminista che la guerra è una vicenda maschile? L’Isis è un nemico che mette a tacere qualunque dubbio, a proposito di guerra? Sono domande aperte, tutte da affrontare. E inquieta che non ci sia nessuna (e nessuno) che le raccolga. Ma non è il caso di confondere i piani. Non tutte le manifestazioni in Italia dedicate alla lotta delle donne curde mettono direttamente in scena una donna armata. In ogni caso un conto è un popolo in guerra, che difende la propria vita, altra è la situazione qui, in Italia.
Ma bisogna dirlo. In tutte queste manifestazioni si avverte un inedito spirito di rivolta. E non solo tra le più giovani e radicali.
Ci si ribella anche contro l’eterna ripetizione della donna vittima. Non che il femminicidio, o i maltrattamenti, siano un’invenzione. Eppure il martellamento implacabile dei dati, la ripetizione compiaciuta di storie di crudeltà e sopraffazione senza indicare vie d’uscita, è ormai insostenibile. Una generazione che ha scoperto di essere donna – differente dai propri coetanei – nel rifiuto della violenza contro il proprio genere, e ha dato vita alle prime manifestazioni del 25 novembre dieci anni fa, sperimenta ora la necessità di partire da sé, di non aspettare soluzioni da fuori, da altri. E anche la grande fiammata, ormai spenta, di Se non ora quando, la grande manifestazione del 13 febbraio 2011 che ha dato voce a un’enorme rabbia femminile, si è sedimentata. Siamo oltre, anche oltre la delusione.
Le donne sono dappertutto, dice la Libreria delle donne di Milano. È certamente vero Non siamo più in regime di scarsità, e sia pure con tutte le ben note mancanze, non c’è settore della vita pubblica, politica e professionale, in cui non ci siano donne. Che parlano, anche in Italia. La presidente della camera Laura Boldrini ha di nuovo ricordato la necessità di usare bene le parole, di declinarle sempre anche al femminile. Ottima battaglia, le reazioni sgangherate dicono quanto sia necessaria. Ma questo significa che il femminismo gode di buona salute? Che è disponibile all’elaborazione comune una visione politica che permetta di agire in questi tempi di crisi?
Ecco, la crisi. È la crisi che ha rimescolato le carte, che ha obbligato a guardare con occhi diversi le storie di ciascuna e ciascuno. Se la parità di retribuzione tra donne e uomini è un problema aperto, e giustamente rivendicato, che deve dire chi si trova incatenata al meccanismo dei piccoli lavori precari equamente mal retribuiti? Per non dire sottopagati? Lo spirito di rivolta nasce qui, in condizioni materiali di esistenza in cui si è imparato a vedere che differenze ci sono, tra donne e uomini, anche nella precarietà. Che non è una categoria indifferenziata, come in tante avevano rivendicato, scagliandosi contro l’ostinazione di pensarsi differenti delle femministe d’antan. Che il post-patriarcato non prescinde dai corpi e dalle loro differenze. Anzi li mette al lavoro in nuove forme peculiari, per esempio nella maternità surrogata, in un biolavoro schiavizzante che ha molte affinità con lo sfruttamento della natura, della terra. È su questo terreno che vanno ridefinite le relazioni, tra donne e uomini. E le protezioni sociali, quelle che l’austerità europea ha fatto sparire, vanno ripensate sulla base di nuovi modelli, di una nuova pratica della cura, che certo non potranno basarsi sul capofamiglia di un tempo. In un intreccio tra economia, bisogni, relazioni, sentimenti e affetti tutto da ripensare.
Insomma, è una speranza la ribellione alle trappole fabbricate dalla crisi. Fa piazza pulita delle zone fin troppo comode, fin troppo separate, che nel tempo si sono costruite. La crisi non ha pietà. Richiede tutta la nostra capacità di sognare grandi imprese.
La Repubblica, 7 marzo 2015
Professore, questa vicenda è anche diventata una guerra di parole. Ma è proprio sicuro che Tsipras e Varoufakis non sbaglino nell’annunciare ad ogni piè sospinto che il loro Paese è in bancarotta ed è urgente un nuovo haircut? Non creano ulteriori e inutili tensioni mentre tutti stanno affannosamente cercando di trovare un accordo?
«Macchè. Yanis (Varoufakis, ndr) è anche troppo misurato. Ha solo agli occhi dell’Europa un torto: quello di parlar chiaro. E questa nei vertici ingessati ad alto tasso di ipocrisia cui gli europei sembrano abituati, è una grande novità e apparentemente una colpa imperdonabile. Invece alzare gli standard di sincerità di questi consessi è un merito, una cosa da cui tutti trarranno vantaggi. L’accanimento della Bce e anche della Commissione nel mantenere un alto livello di ansia e tensione non lo capisco proprio. E mi induce quasi a pensar male».
Cosa sospetta?
«Diciamo che non sospetto niente. Solo che uno con un minimo di visione storica potrebbe anche essere, lontanamente, indotto a pensare che ci sia una manovra per estromettere l’attuale governo greco e tornare a schieramenti più vicini al mainstream europeo, visto che l’alternativa di un’uscita della Grecia non conviene neanche a loro. Non sarebbe la prima volta nella storia. Nel 1955 gli americani manipolarono il Fondo Monetario e alla fine un golpe rovesciò Peron e i suoi descamisados. Ed è solo un esempio».
Cosa dovrebbe fare l’Europa?
«Non avere un atteggiamento costantemente negativo. E la Bce non deve minacciare la Grecia di escluderla dal quantitative easing. Al contrario, deve ripristinare subito il waiver , cioè l’accettazione dei buoni di Atene per rifinanziarla, senza rifugiarsi nello stillicidio dei fondi di aiuto o degli emergency liquidity agreement concessi qualche miliardo oggi e qualche miliardo domani. Insomma tutti devono confermare che stanno agendo genuinamente allo scopo di stabilizzare il Paese e aiutare Atene ad uscire dalla crisi. Evitando gli sbandamenti verbali di questi giorni che sono tremendamente controproducenti e del tutto inappropriati».
Lei tornerà ad Atene ad aiutare Varoufakis?
«Sì, partirò molto presto. I sette punti di ieri mi sembrano una buona base di partenza. Se ne aggiungeranno altri a breve. Vorrei che fosse chiaro a tutti che Syriza un accordo lo vuole, perché senza accordo ci sarebbero i controlli sui movimenti bancari, i fallimenti, alla fine l’uscita dall’euro. L’unica cosa inaccettabile era un’estensione secca delle condizioni fin qui applicate come quel 4,5% di surplus primario che era assurdo oppure le forzature sulle privatizzazioni, alle quali nessuno si oppone ma rischiavano di smantellare il patrimonio pubblico della Grecia senza un’adeguata contropartita. Bisogna lavorare tutti in buona fede e con un unico obiettivo in mente, evitando gli equivoci. La Grecia è un piccolo Paese che ha pagato un prezzo umano immenso, non è possibile che non si riesca a trovare unità e accordo politico per rimetterla in piedi».
Giorgia Meloni, Michaela Biancofiore, Nunzia De Girolamo evidentemente non lo sanno. La Repubblica, 6 marzo 2015
Ereditato il posto di Gianfranco Fini, Laura Boldrini fece cambiare subito la carta intestata (era scritto: il presidente). Questione vecchia, obiettivo alto: «Adeguare il linguaggio parlamentare al ruolo istituzionale, sociale e professionale assunto dalle donne». Dal web arrivano ora proteste e insulti: «Certo che hai un sacco di lavoro da fare per pensare a queste s.». E ancora: «Brava e intelligenta!». Lei tira avanti, abituata alla «misoginia» dei social di cui è stata più volte bersaglio. Il termine al femminile sarebbe cacofonico? «Affermazione da smontare - dice Boldrini - la lingua evolve con la società. E’ brutto dire la sindaca, l’assessora ma va benissimo dire la maestra, la contadina... smontiamola questa cosa!».
Una parte del mondo femminile è prudente forse perché ministro evoca più attributi metaforici di ministra, forse perché secoli di estromissione dai ruoli di vertice hanno reso le donne «conservatrici nella lingua». Andando a spulciare i resoconti parlamentari, ci imbattiamo negli interventi di Giorgia Meloni, Michaela Biancofiore, Nunzia De Girolamo. Si rivolgono tutte a Boldrini con un tuonante «signor presidente!». Mara Carfagna è in linea: «Non mi sono mai offesa quando mi chiamavano ministro. Il linguaggio è importante ma le priorità sono altre». «A quelli che mi dicono che “i problemi sono altri”, che “non è questo è il momento” - ribatte ferma la presidente - rispondo che tutto si tiene: l’immagine, la parola, il riconoscimento delle donne e il loro ruolo nella società. Se rimandiamo sempre, il momento non viene mai». Quindi tutti/tutte in riga.
L’Accademia della Crusca sembra appoggiare la “necessaria” rivoluzione. Leggete l’analisi di Cecilia Robustelli sull’«androcentrismo» linguistico. L’ostilità al nuovo? Nasce anche da una valutazione estetica: ministra è considerato meno bello di ministro; ingegnera fa davvero i brividi. Tuttavia dietro queste ritrosie, secondo la professoressa Robustelli, si celano «ragioni di tipo culturale». A farla breve, il mondo è ancora maschio. Altro che «impuntatura tardofemminista». Boldrini invidia la Francia dove la signora presidente dell’Assemblea nazionale francese, Sandrine Mazetier, ha inflitto una multa da 1378 euro a un deputato che continuava ostinatamente a chiamarla «il presidente».
Il manifesto, 5 Marzo 2015 (m.p.r.)
Chi inquina, finalmente, paga. Anche con la galera. Con l’approvazione al Senato del disegno di legge sui reati ambientali potrebbe chiudersi nel migliore dei modi un percorso sofferto che per decenni è stato condiviso da tutto il mondo ambientalista. Il provvedimento, dopo aver subito delle modifiche a Palazzo Madama, adesso dovrà tornare alla Camera per la terza lettura.
L’inedito fronte politico che ha sostenuto il ddl è composto da Pd, Sel, Ncd e M5S (primi firmatari Ermete Realacci del Pd, Salvatore Micilli del M5S e Serena Pellegrino di Sel). 165 i voti favorevoli, 49 contrari, 18 astenuti. L’altra notizia è che il governo, per la prima volta, non si è piegato a Confindustria. L’esito, come dicono tutte le associazioni ecologiste, è positivo. Il vuoto normativo è stato colmato, anche se queste norme rischiano di perdere efficacia in un quadro legislativo ancora confuso e contraddittorio, soprattutto quando si tratta di reati ambientali.
In sintesi, il ddl introduce nuovi reati di inquinamento ambientale, di disastro ambientale, i delitti colposi contro l’ambiente, il traffico e l’abbandono di materiale radioattivo e il reato di impedimento di controllo. Tra le altre, è stata introdotta anche una norma che vieta le esplosioni in mare per attività di ricerca ed ispezione dei fondali, una questione che l’altro giorno aveva visto il governo battuto in aula. Si tratta di un pacchetto particolarmente indigesto per le cosiddette ecomafie che in Italia, ogni anno, impunite, “fatturano” cifre astronomiche.
Sono soddisfatti i due ministri direttamente coinvolti. «Si tratta di un segnale di grande sensibilità nei confronti di un tema di stringente urgenza per il paese — ha commentato il ministro dell’Ambiente Gianluca Galletti — e ormai siamo all’ultimo miglio di un passaggio storico: chiedo alla Camera di fare presto e di approvare questo testo senza ulteriori modifiche, c’è assoluta necessità di stroncare i business criminali che si arricchiscono inquinando il nostro territorio». Per il ministro della Giustizia Andrea Orlando (già ministro per l’Ambiente) questa è la risposta del governo «alle molte ferite che hanno colpito il paese”. Orlando ci tiene a mettere l’accento non solo sull’impianto punitivo delle norme ma anche alla riduzione delle pene per chi si impegna a ripristinare lo stato dei luoghi inquinati, il cosiddetto “ravvedimento operoso».
Entrando nei dettagli, il testo inserisce nel codice penale il nuovo delitto di inquinamento ambientale (art.452 bis) che punisce con la reclusione da 2 a 6 anni, e una multa da 10 mila a 100 mila euro, chiunque provochi un danno significativo alle acque, all’aria, al suolo, al sottosuolo e più in generale alla biodiversità, alla vegetazione o agli animali. C’è anche una norma che prevede la detenzione, quella di disastro ambientale: da 5 a 15 anni per chi inquina provocando danni irreversibili per l’ambiente e per le persone esposte al pericolo. Vengono in mente i rifiuti tossici in Campania, l’Ilva di Taranto, o l’Eternit in Piemonte.
«L’approvazione del ddl — ha detto il presidente del Senato Pietro Grasso — è la risposta al dolore di persone come il poliziotto della terra dei fuochi che si è ammalato di tumore in seguito alle sue indagini sui rifiuti in Campania, o dei familiari delle persone che hanno perso la vita a Casale Monferrato”. Per Titti Palazzetti, sindaco di Casale, questa è “una promessa mantenuta».
Il delitto di “abbandono di materiale ad alta radioattività” viene punito con la reclusione da 2 a 6 anni e con una multa che va da 10 a 50 mila euro, pena estesa anche a chi acquista, riceve, importa, esporta, trasporta o detiene il materiale in questione. Per il delitto di “impedimento al controllo”, invece, le pene vanno da 6 mesi a 3 anni. Mano pesante per l’aggravante di “associazione mafiosa”: verrà applicata anche ai pubblici ufficiali che si renderanno complici di qualunque tipo di agevolazione in materia di concessioni o autorizzazioni. Pene più severe anche per chi ispeziona i fondali marini utilizzando tecniche esplosive (da 1 a 3 anni di reclusione). Tra i nuovi reati è stato introdotto anche quello di “omessa bonifica” per chi non ottempera all’ordine di recuperare l’area inquinata.
Uno degli adeguamenti più significativi del codice penale permette inoltre di poter contare sull’allungamento dei termini di prescrizione del reato. «Ricordiamo a tale proposito - sottolinea il WWf con una nota - il caso Eternit: l’intervenuta prescrizione che ha mandato assolti gli imputati è dipesa dall’esistenza di reati assolutamente inadeguati rispetto alla gravità dei fatti. Se le disposizioni contenute nella proposta di legge fossero già entrate in vigore, il processo si sarebbe prescritto in quindici anni».
Il vicepresidente di Legambiente, Stefano Ciafani, e il coordinatore nazionale di Libera, Enrico Fontana, ieri hanno assistito al voto in Senato in rappresentanza di quelle 23 associazioni e di quei 70 mila cittadini che hanno sottoscritto il loro appello intitolato «In nome del popolo inquinato: subito i delitti ambientali nel codice penale». Adesso hanno fretta, vogliono che la Camera approvi al più presto un decreto legge atteso da più di venti anni. «Grazie a questo voto - hanno aggiunto - è stata finalmente cancellata la non punibilità dei reati colposi in caso di bonifica, tanto cara a Confindustria, e sono stati apportati ulteriori miglioramenti al testo grazie al voto favorevole della maggioranza, del M5S e di Sel».
Ermete Realacci, presidente della Commissione ambiente e territorio alla Camera, primo firmatario della proposta di legge, si augura che il via libera definitivo avvenga «senza cambiare nemmeno una virgola». E’ questa la preoccupazione di tutti gli ambientalisti. Vista la larga e inedita maggioranza, non dovrebbero esserci brutte sorprese. Anche perché, ha spiegato Realacci, «quelli contro l’ambiente sono crimini particolarmente odiosi e molto pericolosi, basti pensare che stando al rapporto Ecomafia di Legambiente fruttano alla malavita organizzata circa 15 miliardi all’anno».
spremuto, non ha senso cercare altro succo». Francesca Pilla intervista Ermanno Rea, a proposito delle significative "primarie" di Napoli e del partito di Renzi. Il manifesto, 4 marzo 2015
Non conosco De Luca, di certo non mi può piacere qualcuno che viene definito sindaco sceriffo. E di sicuro non si può cambiare la legge Severino ad personam. Ma non credo che attualmente sia questo il problema. Nel nostro paese non abbiamo una sinistra e Renzi è un pompiere che ha spento gli ultimi fuocherelli». La vede così Ermanno Rea, secco e deciso. Lui, classe 1927, che alle scorse europee si è candidato al Sud per la Lista Tsipras, da giornalista e autore di grandi successi come Mistero Napoletano (premio Campiello 1996) e Napoli Ferrovia (premio Strega 2008), ha vissuto la politica italiana intensamente, senza mai tirarsi indietro o risparmiare critiche ai dirigenti che dal dopoguerra in poi hanno contribuito a fare la storia di questo paese. Forse proprio per questo è distaccato e restio a parlare di rottamatori e di primarie al sapore di pasticcio Dem.
Professore, ha seguito le consultazioni del Pd in Campania?
Ovviamente, ma ormai non voto più a Napoli e non conosco nessuno dei personaggi che sono stati candidati. Ho letto qualcosa su Vincenzo De Luca. Viene chiamato ’il sindaco sceriffo’, usa degli slogan sindacabili e ha un piglio decisionista molto lontano dalla mia idea di politica.
Però nel Pd lo hanno votato e in tanti, non solo a Salerno.
I campani, ma in special modo i napoletani, sono disperatamente alla ricerca di un individuo carismatico che riesca a risolvere i problemi strutturali e radicati che ci sono in una regione del Mezzogiorno. In loro si accende un lumicino di speranza e si aggrappano all’uomo del momento. È successo con de Magistris, oggi con De Luca, ma dietro questa corsa disperata finiscono irrimediabilmente per impattare in personaggi che disattendono le aspettative. Questa voglia di rinnovamento deve invece essere incanalata, ricominciare dal basso con una guida capace di grande magistero etico e in grado di mettere a frutto le energie e le possibilità di questo popolo.
Un nome alternativo non emerge, De Luca potrebbe essere sospeso il giorno dopo l’elezione. Non sarebbe uno spreco lasciare la Campania ancora alla destra?
La legge Severino c’è e non si discute, anche se mi pare che il reato di abuso d’ufficio di cui è accusato De Luca sia ben diverso da quello di Berlusconi, condannato in via definitiva per ben altre ragioni. Ma è inutile buttarsi su queste microstorie. De Luca correrà e se vincerà, nel caso in cui dovesse essere sollevato dall’incarico, ricorrerà al Tar. Al massimo si rifaranno le elezioni. Il problema è che in Campania è forte e urgente la domanda di democrazia e rinnovamento. C’è un grande desiderio tra le persone che non viene appagato per mancanza di responsabilità, per la corruzione dilagante e per la disfatta morale.
Nel Pci sarebbe potuto accadere?I
l paragone non regge, era tutta un’altra cosa, con una struttura diversa, le primarie non erano nemmeno in calendario. Anche perché non è che nel Pci di democrazia ce ne fosse davvero tanta.
Parliamo al presente. Come vede il Pd di Renzi?
È un limone spremuto dove non ha senso andare a cercare altro succo. Credo di aver descritto bene la situazione attuale in un mio libretto La fabbrica dell’obbedienza, il lato oscuro e complice degli italiani (ed. Feltrinelli, ndr). Renzi ha abbagliato l’opinione pubblica che riesce sempre a innamorarsi in fretta dei personaggi sbagliati, ma anche a farli cadere presto in disgrazia. È già finito il suo tempo. Credo che il premier non sia in grado di incantare più nessuno e vada avanti con qualche illusione che aveva messo in scena all’inizio. Per il nostro paese è stato un pompiere in grado di spegnere le ultime fiammelle di sinistra nel sistema partitico.
Non ci sono speranze di avere una rappresentanza a sinistra?
Noi veniamo da anni di berlusconismo e manchiamo di senso di responsabilità sottratto da santa romana chiesa. La sinistra italiana non è mai stata capace di amalgamarsi, unirsi ed esprimere se stessa. Qui non riesce nemmeno a venir fuori una Syriza o una Podemos. Così sono pessimista a breve distanza. Ma ottimista sul lungo periodo. La situazione oggi è disperata, ma gli uomini hanno superato ostacoli enormi. Qualcosa di positivo accadrà. Io non vedrò l’aurora perché ho 88anni, la vedranno i figli dei figli.
Ha in mente qualcuno capace di traghettarci fuori da questo immobilismo?
Non credo ai nomi e cognomi ma a tante persone di qualità e alla capacità di organizzare il dissenso.
La Repubblica, 4 marzo 2015
«VOI siete in un programma. Le elezioni non cambiano il programma». In questa frase rivolta dal ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble al collega greco Yanis Varoufakis, che gli faceva notare come il suo governo avesse ottenuto un mandato popolare per rinegoziare gli accordi con i partner dell’Eurozona, sta il cuore del rapporto fra economia e politica. Meglio, fra moneta e impero, giusto il titolo della Festa di Limes che si inaugura venerdì prossimo, 6 marzo, al Palazzo Ducale di Genova, e dell’ultimo volume dell’omonima rivista di geopolitica.
Un evento ormai consolidato, che raduna per tre giorni di pubblico dibattito, studiosi, analisti e protagonisti del mondo finanziario, economico e politico, per affrontare insieme questioni di strettissima attualità. Si va dal destino dell’euro e dell’Italia nell’Eurozona, su cui duelleranno venerdì pomeriggio Enrico Letta e Maurizio Landini, alla potenza geofinanziaria delle mafie, dal tesoro del “califfo” al- Baghdadi a quello della Chiesa cattolica, dal primato del dollaro ai paradisi fiscali, dalla crisi del rublo connessa alla guerra in Ucraina al (mal) funzionamento dei mercati.
Tutte partite trattate nel contesto delle crisi e dei conflitti in corso, dove geofinanza e geopolitica si incrociano e scontrano, producendo effetti spesso imprevisti o indesiderati. E nelle quali la politica, intesa come governo della cosa pubblica, sembra oggi soccombere a favore di meccanismi apparentemente semiautomatici, financo algoritmici, che spostano ricchezza e quindi potere in qualche frazione di secondo. Suscitando oscure dietrologie, radicate nella certezza che «money makes the world go around», che sono i soldi a far girare il mondo, come cantava Liza Minnelli in Cabaret .
Che cosa resta oggi dell’Europa neocarolingia battezzata alla fonte dell’euro? Per tentare di capirlo, conviene ripartire dallo scontro Schäuble-Varoufakis. Fra il gigante e il nano economico dell’Eurozona. Due paesi totalmente asimmetrici per cultura monetaria e politica, ma dotati della (ingabbiati nella) stessa valuta. Il campione delle “formiche” contro il capofila delle “cicale”, per usare una vieta ma diffusa classificazione che rende il clima dominante nella famiglia europea. Dietro Berlino si riparano i paesi (nordici) che credono nelle virtù salvifiche dell’austerità, dietro Atene quelli (mediterranei, Francia inclusa) che agognano flessibilità, ovvero marcano l’urgenza di sostenere la domanda.
Quello che può parere un conflitto di scuole economico-monetarie è soprattutto uno scontro geopolitico e culturale che investe l’Europa intera. Fino a metterne in questione le radici democratiche e i valori liberali. Al centro, l’idea stessa di sovranità. Il progetto euro ci era stato offerto come un percorso nel quale ciascun contraente, cedendo il diritto sovrano di battere la propria moneta nazionale, avrebbe contribuito ad armonizzare le economie europee, a vantaggio di tutti e di ciascuno. Per poi produrre, in un futuro non invisibile, quello Stato europeo - federale, confederale o d’altra forma - che avrebbe coronato il processo unitario avviato nel 1957 a Roma. Oggi scopriamo che non è così. Anziché unirci, sull’euro ci dividiamo. E ne facciamo fattore di demonizzazione reciproca, i cui limiti estremi si toccano nella disputa greco- germanica, ma che investono tutti i popoli europei, compreso il nostro.
La materia del contendere sembra di natura contabile, di politica monetaria e fiscale, ma in effetti è culturale. Nell’approccio al supremo simbolo fiduciario che è la moneta ci scopriamo diversi. E tendiamo spesso ad attribuire tale diversità a fattori “genetici”, dunque irrazionali e innegoziabili - i greci barano perché sono greci, i tedeschi vogliono “germanizzare” gli altri perché sono tedeschi - invece che storico-politici, ossia calcolabili e disputabili. Un peculiare razzismo intraeuropeo. Risultato: anziché produrre un nuovo impero europeo - democratico, liberale e aperto al mondo - l’euro offre il pretesto per la chiusura e l’imbarbarimento dello spazio europeo. Per la sua disgregazione. Tanto che in ognuna delle crisi in corso, dall’Ucraina al caos nordafricano e mediorientale da cui germina lo Stato Islamico, i Ventotto si offrono rigorosamente divisi, quando non in aperto conflitto.
Di qui parte la tre giorni di Palazzo Ducale. Da Genova, capostipite del capitalismo finanziario italiano e mondiale, sede di quella banca centrale avanti lettera che fu dal 1407 la Casa di San Giorgio, oltre che centro di sperimentazione della “lira di buona moneta”, la divisa stabile che contribuì al primo ciclo di accumulazione del capitale. Dove, se non qui, esplorare la relazione fra moneta e impero?
La Repubblica, 4 marzo 2015, con piccola postilla
SEe allo stesso tempo si vuole aumentare la partecipazione alla vita del partito e l’incremento degli iscritti, allora si affacciano seri dubbi. Se infine attraverso questo processo di selezione si vuole aumentare la democraticità interna del partito, non c’è mezzo peggiore: perché seguendo la strada delle primarie sempre e comunque si rafforza una visione plebiscitaria della democrazia deprimendo quella delegata. E si arriva così al pasticcio della Campania: dove si candida, e vince nell’imbarazzo generale, un candidato come De Luca, che il Pd non ha avuto la forza di far desistere. E ora il partito che aveva votato la legge Severino dovrà votare per un candidato governatore contro quella stessa legge.
Quando le primarie vennero introdotte per la prima volta a livello nazionale, nel 2005, si trattava in realtà di incoronare il prescelto, Romano Prodi. All’epoca quella iniziativa serviva soprattutto a legittimare un candidato che non rappresentava i maggiori partiti. Tuttavia emerse anche un effetto laterale: la partecipazione massiccia dei sostenitori, più di 4 milioni. Quella mobilitazione straordinaria, da un lato, costituiva una sorta di esibizione muscolare nei confronti dell’avversario, ma, dall’altro, evidenziava un grande desiderio, fin lì represso, di poter decidere direttamente. Nessuna iniziativa politica aveva mai coinvolto tante persone in Italia.
Le primarie apparvero quindi un efficace strumento per mobilitare l’elettorato e, in una fase di montante antipolitica — il successo del vaffa day di Grillo è di appena due anni dopo — , recuperare legittimità alla politica e ai partiti. Vi era poi un retropensiero in molti dei sostenitori delle primarie: sottraendo alla classe dirigente il potere di scelta dei candidati ai vari livelli si potevano modificare gli assetti interni e avviare un radicale rinnovamento del personale politico. In realtà questo obiettivo è stato raggiunto solo negli ultimi anni sia a livello di partito con la vittoria di Renzi, sia a livello politico con l’affermazione di sindaci e governatori estranei ai gruppi dirigenti consolidati — Pisapia a Milano e Doria a Genova i casi più eclatanti, oltre a Vendola in Puglia già nel 2005. Nel Pd il mito delle primarie è alimentato da una valutazione precisa, ripetuta come un mantra: la maggior “democraticità” di questo sistema.
Il ragionamento è limpido: aumentando il numero delle persone coinvolte nel processo di selezione, il cosiddetto “selettorato”, aumenta anche il grado di democraticità del partito. È evidente che un processo decisionale opaco e concentrato insindacabilmente in poche mani non può essere soddisfacente. Ma la decisione del Pd di estendere il selettorato sempre e comunque a tutti gli elettori — procedura adottata invece in pochissime occasioni da altri partiti europei — contiene in sé due handicap: dispossessa gli iscritti di una funzione che dovrebbe essere qualificante per l’appartenenza ad un partito, e stimola il virus plebiscitario all’interno del partito e, per estensione, nel sistema di rappresentanza italiano.
postilla
Non parliamo poi della pesante distorsione che avviene quando la primaria del raggruppamento Rosa è aperta anche ai Celeste, e quindi gli elettori Celeste possono determinare la scelta del candidato Rosa.
Senz'appello la bocciatura del premio Nobel statunitense per la politica economica dell'Eurozona.: Il Fmi ha già ammesso i suoi fallimenti politici e intellettuali, la Troika ancora no. Il manifesto, 3 marzo 2015
Secondo i dati economici più recenti, sia gli Stati uniti che l’Europa stanno mostrando segnali di ripresa, anche se è presto per dichiarare la fine dalla crisi. Nella maggior parte dei paesi dell’Unione europea, il Pil pro capite è ancora inferiore al periodo precedente la crisi: un intero decennio perduto. Dietro alle fredde statistiche, ci sono vite rovinate, sogni svaniti e famiglie andate a pezzi (o mai formatesi), un futuro quanto mai precario per le generazioni più giovani, mentre la stagnazione – in Grecia la depressione – avanza anno dopo anno. L’Ue vanta persone di talento e con un alto grado di istruzione. I paesi membri contano su forti quadri giuridici e società ben funzionanti.
Prima della crisi, la maggior parte aveva persino economie ben funzionanti. In alcuni paesi, la produttività oraria – o il suo tasso di crescita – era tra le più alte del mondo. Ma l’Europa non è una vittima di errori altrui, come spesso si legge.
Certo, l’America ha mal gestito la propria economia, ma il malessere dell’Ue è in massima parte auto-inflitto, a causa di una lunga serie di pessime decisioni di politica economica, a partire dalla creazione dell’euro. Sebbene l’intento sia stato quello di unire l’Europa, alla fine l’euro l’ha divisa: i paesi più deboli (quelli che già nel 1980 in un lavoro per l’Ocse, Fuà individuava nei paesi europei di più recente sviluppo – tutti con alta inflazione, dualismo territoriale, deficit della bilancia dei pagamenti e di bilancio pubblico, alta disoccupazione e notevole quota di economia sommersa — e che ora sono con malcelata arroganza identificati come Piigs) sono riusciti, per ora, a rimanere nell’euro a prezzo di disoccupazione e deflazione salariale, crollo della domanda interna e aumento del “sommerso”.
In assenza della volontà politica di creare istituzioni in grado di far funzionare una moneta unica — innanzi tutto una politica fiscale unica — nuovi danni si aggiungeranno ai danni già prodotti. Gli squilibri in Europa sono aggravati dalla divergenza nelle esportazioni nette, e solo una politica fiscale comune può far in modo che i flussi commerciali del Portogallo verso l’Olanda abbiano la stessa importanza (cioè nulla) di quelli, ad esempio, dell’Oregon verso il Missouri o del Brandeburgo verso la Baviera.
La Grande Recessione deriva in parte dalla convinzione che il liberismo di mercato avrebbe riportato le economie su di un sentiero di crescita “adeguato”. Tali speranze si sono rivelate sbagliate non perché i paesi dell’Ue non sono riusciti a realizzare le politiche prescritte, ma perché i modelli su cui hanno poggiato quelle politiche sono gravemente viziati.
In Grecia, ad esempio, le misure intese a ridurre il peso debitorio hanno di fatto lasciato il paese più indebitato di quanto non fosse nel 2010: il rapporto debito-Pil è aumentato a causa dello schiacciante impatto dell’austerità fiscale sulla produzione. Il Fondo monetario internazionale ha ammesso questi fallimenti politici e intellettuali. Verrà anche il giorno in cui anche la Troika riconoscerà il fallimento delle politiche di austerità e della teoria che l’hanno ispirate. A noi non resta che continuare ad impegnarci perché questo avvenga il prima possibile risparmiando inutili sofferenze ai popoli dell’Europa.
I leader europei restano convinti che la priorità debba essere la riforma strutturale. Ma i problemi che menzionano erano evidenti negli anni precedenti la crisi, e non avevano fermato la crescita allora. All’Europa serve più che una riforma strutturale all’interno dei paesi membri. All’Europa serve una riforma della struttura dell’eurozona stessa, e l’inversione delle politiche di austerity, che non sono riuscite a riaccendere la crescita economica.
Condividere una moneta unica costituisce ovviamente un problema poiché così facendo si rinuncia a due dei meccanismi di aggiustamento: i tassi d’interesse ed il cambio. Se si aderisce a una moneta unica, la rinuncia ad alcuni strumenti di politica economica può essere compensata sostituendoli però con qualcosa d’altro, come una politica fiscale comune e condivisione dei debiti, mentre ad oggi l’Europa non ha messo in campo altro che il Fiscal compact. Serve un cambiamento strutturale dell’Eurozona se si vuole che l’euro possa sopravvivere: o ci sarà l’Europa politica (Stati uniti d’Europa) o non ci sarà l’euro. Coloro che pensavano che l’euro non sarebbe potuto sopravvivere si sono ripetutamente sbagliati. Ma i critici hanno ragione su una cosa: a meno che non venga riformata la struttura dell’Eurozona, e fermata l’austerity, l’Europa non si riprenderà.
Il dramma dell’Europa è ben lungi dall’essere concluso. Uno dei punti forza dell’Ue è la vitalità delle sue democrazie. Ma l’euro ha lasciato i cittadini – soprattutto nei Paesi in crisi – senza voce in capitolo sul destino delle loro economie. Gli elettori hanno ripetutamente mandato a casa i politici al potere, scontenti della direzione dell’economia – ma alla fine il nuovo governo continua sullo stesso percorso dettato da Bruxelles, Francoforte e Berlino.
Ma per quanto tempo può durare questa situazione? E come reagiranno gli elettori? In tutta Europa, abbiamo assistito a un’allarmante crescita di partiti nazionalistici estremi, mentre in alcuni Paesi sono in ascesa forti movimenti separatisti. E potranno le economie dei paesi periferici sopravvivere ad una unione monetaria incompleta e asimmetrica?
Ora la Grecia sta ponendo un altro test all’Europa. Il calo del Pil greco dal 2010 è un fattore ben più grave di quello registrato dall’America durante la Grande Depressione degli anni ‘30. La disoccupazione giovanile è oltre il 50%. Il governo del primo ministro Alexis Tsipras ha ottenuto che venga abbandonato l’insano obiettivo – assunto dal precedente governo Samaras – di triplicare l’avanzo primario, anche recuperando parte dell’evasione fiscale. Forse Syriza aveva acceso aspettative diverse sul piano interno. Ma l’Europa tutta deve ora cogliere l’occasione greca per completare il disegno dell’euro.
Il problema non è la Grecia. È l’Europa. Se l’Europa non cambia – se non riforma l’Eurozona e continua con l’austerity – una forte reazione sarà inevitabile. Forse la Grecia ce la farà questa volta. Ma questa follia economica non potrà continuare per sempre. La democrazia non lo permetterà. Ma quanta altra sofferenza dovrà sopportare l’Europa prima che torni a parlare la ragione?
* In collaborazione con Mauro Gallegari Parziale copyright Project Syndic
Il Los Angeles Police Department è di nuovo al centro della cronaca degli abusi di polizia dopo la morte di un uomo freddato a colpi di pistola da tre agenti nel sobborgo di Skid Row. L’episodio avvenuto domenica è stato ripreso da un video divenuto virale in rete in cui si vedono sei poliziotti che circondano un uomo in evidente stato di agitazione. All’inizio del filmato gli agenti gli stanno attorno e l’uomo comincia a dimenarsi roteando le braccia nella loro direzione.
I poliziotti gli saltano addosso, un paio di essi lasciano cadere in terra i manganelli che avevano impugnato; una donna minuta, magrissima e, si direbbe, anziana, ne raccoglie uno, due agenti che la sovrastano di almeno 40 centimetri lasciano la mischia e si lanciano sulla esile donna afroamericana ammanettandola bruscamente a terra. Nel frattempo sullo sfondo i quattro rimanenti poliziotti continuano la colluttazione con l’uomo, identificato solo col nomignolo “Africa”. Pure lui, ad un certo punto, atterra sulla schiena. Volano dei pugni, si sente il ticchettio caratteristico della scarica elettrica dei taser poi d’improvviso un paio di agenti balzano in piedi con pistole puntate a terra e si sentono esplodere 5 colpi. Sono tre alla fine i poliziotti con l’arma puntata.
Nel video si vede e si sente anche la reazione dei numerosi astanti che urlano all’indirizzo degli agenti: «L’avete ammazzato, bastardi!» «Era disarmato, qui nessuno ha una pistola!» «Sei contro uno, vigliacchi figli di puttana!».
Nel coro d’indignazione spontanea dei presenti arrivano altre volanti e rinforzi che si dispongono a cordone e intimano alla gente di allontanarsi. Si conclude così l’ultimo, ennesimo, film di violenza omicida poliziesca destinata a puntare nuovamente i riflettori su una piaga cronica con cui gli Stati uniti stentano a fare i conti e in cui ancora una volta si intersecano letalmente annosi problemi sociali. Il razzismo — ancora una volta la vittima è nera — ma anche uno dei poliziotti che apparentemente ha fatto fuoco lo è.
Le condizioni di impressionante emarginazione sono frutto in gran parte della completa mancanza di rete di assistenza sociale e psico sanitaria. Una grande percentuale degli homeless di Skid row soffre infatti di disturbi psichici, pazienti bipolari o psicotici “orfani” di strutture preposte, abbandonati alla strada (qualche anno fa venne perfino documentata la pratica di ospedali del Nevada di dimettere pazienti psicolabili con ambulanze scaricandoli nottetempo nella zona). Era questo il caso anche di “Africa” giunto sui marciapiedi del quartiere dopo un soggiorno decennale in un ospedale psichiatrico.
In mancanza di strutture terapeutiche adeguate, le “cure” di questi malati sono “appaltate” alla polizia e alla loro tolleranza zero. Nel caso dell’uomo ucciso domenica avrebbe preso la forma di un’ intimazione a smantellare una tenda. Quando questi, in stato confusionale, si sarebbe rifiutato i poliziotti lo avrebbero estratto con la forza dal rifugio – il resto lo racconta il video.
Subissato di proteste, il dipartimento ha invitato i cittadini a «non formarsi preconcetti» annunciando una «indagine approfondita» sull’accaduto e prefigurando comunque già da ora l’ipotesi di una «azione difensiva» degli agenti in seguito al tentativo della vittima di afferrare una delle loro armi: in altre parole l’abituale copione impiegato in questi casi che finiscono regolarmente con l’assoluzione degli agenti. Il Lapd non è nuovo a questo tipo di episodio, dal 2000 ad oggi i “morti per polizia” sono stati oltre 600. Difficilmente l’uccisione di Africa avrà un esito diverso
«Su Avvenire appello a Renzi da quarantaquattro deputati della maggioranza: “Occasione irripetibile per una svolta epocale” La norma inserita nel decreto messo a punto dalla Giannini. Ma servono quattrocento milioni. Domani il Consiglio dei ministri». La Repubblica, 2 marzo 2015
Gli sgravi fiscali per le famiglie che pagano una retta agli istituti paritari sono previsti nel decreto “La buona scuola”, appena licenziato dal ministero dell’Istruzione. Il ministro Stefania Giannini nel fine settimana ha inviato l’intero articolato a Palazzo Chigi. Oggi il premier Matteo Renzi lo prenderà in esame e domani discuterà in Consiglio dei ministri, all’interno della corposa riforma scolastica centrata sulle assunzioni dei precari, del provvedimento più politico: gli sgravi a chi frequenta scuole non di Stato. Allo Stato costerebbero, s’ipotizza, 400 milioni.
Decide Renzi, ecco, ma alla vigilia del Cdm un pezzo del centrosinistra (e un pezzo consistente del Pd) chiede al premier di aiutare una quota del mondo scolastico – le paritarie – che oggi attraversa la sua crisi più profonda dal dopoguerra. Un pressing che già divide la maggioranza. Quarantaquattro deputati, ieri, hanno pubblicato sul quotidiano cattolico Avvenire una lettera lunga due cartelle in cui chiedono l’approvazione del provvedimento sugli sgravi: “La Buona scuola”, scrivono al premier, «rappresenta il più importante tentativo di riforma dall’epoca della riforma gentiliana» ed è quindi «un’occasione irripetibile per superare lo storico gap della scuola in tema di pluralismo e libertà di educazione». Dall’unità nazionale in poi, si legge, «si è trasformata una scuola a vocazione comunitaria in una scuola per ricchi e si sono costrette le famiglie che optano per la scuola non statale a una doppia imposizione, quella della tassazione generale e quella delle rette».
Nella lettera si ricorda che la paritaria in Italia è fatta di 13mila istituti e accoglie un milione e 300 mila alunni, che con 478 milioni l’anno di finanziamento lo Stato risparmia oltre 7 miliardi di potenziali spese. Citando Antonio Gramsci, don Milani a Maria Montessori, si evidenzia come la scuola pubblica non statale sia «in lenta asfissia, una morte lenta», che numerosi istituti, «talora storici», hanno chiuso mentre «le scuole che resistono sono costrette ad aumentare le rette». Quindi, «un sistema fondato sulla detrazione fiscale, accompagnato dal buono scuola per gli incapienti, potrebbe essere un primo significativo passo verso una soluzione di tipo europeo».
Fra le 44 firme ci sono, ovviamente, i centristi della maggioranza: cinque di Area popolare tra cui Buttiglione e la Binetti, cinque del Centro democratico, uno di Scelta civica. Trentadue i deputati del Pd, fra cui l’ex ministro Fioroni, il teorico del no profit Patriarca e Simona Malpezzi, ex insegnante vicina agli attuali responsabili scuola del partito. Dice la Malpezzi: «Sono profondamente laica e credo che tutti debbano essere liberi di scegliere. Le paritarie quasi sempre suppliscono ai posti non creati dallo Stato. Non possiamo investire, come faremo, 100 milioni nelle materne e poi non consentire alle paritarie di fare la loro parte. Ho vissuto all’estero: in Francia la parità tra pubbliche e private è completa».
Il sottosegretario Gabriele Toccafondi, Ncd, ex Forza Italia, a Firenze sempre all’opposizione di Renzi, nelle ultime settimane ha lavorato agli sgravi fiscali, al buono scuola per i redditi bassi e all’estensione del 5 per mille anche agli istituti privati. Tutto questo, di concerto con il ministro Giannini. La proposta di sgravio prevede una detrazione del 19 per cento modulata sui redditi. Dice Toccafondi: «Non aiutiamo le scuole paritarie, a cui non diamo un euro in più, aiutiamo le famiglie che le frequentano. Non tutte oggi riescono a pagare la retta mensile, che alle materne e alle elementari viaggia tra i duecento e i quattrocento euro. La scuola è una sola: se cede la gamba delle paritarie cede anche quella delle statali, che certo non potrebbero sostenere un altro milione di studenti. Il fondo per le paritarie nel 2015 resta a 478 milioni, già tagliato di ventidue».
L’Unione degli studenti scrive: «La lettera dei 44 parlamentari è vergognosa, i fondi alle paritarie private sono uno spreco e uno schiaffo a una scuola pubblica che sta vivendo una situazione drammatica».
LE MANIFESTAZIONI DI ROMA
di Gad Lerner
Salvini porta in piazza il popolo fascio-leghista tra vaffa e croci celtiche “Renzi servo dell’Europa”. A Roma con i militanti “verdi” anche Casapound e Alba Dorata Attacco ai rom. E sui ladri: se mi entri in casa, poi esci steso
Il camaleonte verdenero ce l’ha fatta. Al termine della sua notevole esibizione di maschia oratoria fascioleghista condita di turpiloquio e sottolineata — lo spiega lui stesso — da un “linguaggio del corpo che è importante”, con ricambio mirato di t-shirt pro-benzinaio veneto che ha ucciso il rapinatore a favore di felpa “Marò liberi subito”, piazza del Popolo lo incorona capo di una nuova destra nazionale.
Se non Duce, almeno ducetto. Glielo concede il portavoce di CasaPound, Simone Di Stefano: “Questa è la più bella piazza che io abbia mai visto a Roma. Oggi nasce un grande fronte politico che riconosce in Matteo Salvini il suo unico leader”. Stampato su uno striscione di fronte al palco, Mussolini fa il saluto romano e dice: “Salvini ti aspettavo”.
Lui li ricambia con l’appello a “tirare fuori le palle” rivolto ai “non omologati alla cultura di sinistra”, perché “io non distinguo gli uomini fra destra e sinistra ma fra produttori e parassiti”. E’ qui che lancerà il suo grido: “Vaffanculo alla Fornero e a chi l’ha portata al governo. Cazzo”, suscitando il tripudio della folla, eccitata anche dall’afrore dei fumogeni da stadio e dai crescendo corali di una musica gotica incalzante.
La nuova destra nazionale trova la sua intelaiatura in una Lega calata dal Nord facendo attenzione a non pronunciare mai la parola “Padania”. Archiviata. Qui si forgia “un popolo fiero” (Giorgia Meloni) pronto a difendere l’Italia da un Renzi che — digrigna i denti Salvini — altri non è se non “il servo sciocco di qualcuno che non ha nome e cognome a Bruxelles”. Un popolo pronto a dire “Stop immigrazione”, anzi, “non passa lo straniero”, come mormorava il Piave cento anni fa.
Ho incontrato decine di leghisti che si godevano la primavera romana, mentre nell’attesa i maxischermi trasmettevano un ininterrotto talk-blob con Salvini one man show . Qualcuno, pochi per la verità, aveva già attaccato un tricolore sotto la bandiera con l’Alberto da Giussano. Vi sentite italiani o padani? “Italo-padani”, mi rispondono dalla provincia di Brescia. Fra loro trovo le uniche due camicie verdi, arrivate da Borgo San Giacomo: “Con tanta gente del Sud abbiamo comuni ideali”. Più entusiasta una varesotta che milita da vent’anni col Carroccio: “Che sollievo, sono felice che apriamo ai meridionali, mi piacciono i loro sentimenti”. Anche se il sollievo riguarda soprattutto l’aver ritrovato un leader: “E’ un puro, Salvini. Puoi rivoltarlo come un calzino e non trovi niente a quel ragazzo lì”.
Alla fine registrerò solo un militante di Monza coi capelli rossi disposto a confidare: “Mi spiace ma non sono d’accordo. Salvini va a dare l’appoggio ai pescatori siciliani, ma secondo me quelli lì non hanno mai pagato le tasse”.
Dettagli marginali. La piazza leghista che si riscalda nell’attesa del gran finale, è già inebriata dall’amalgama a cui Salvini la destina: integrare al suo interno una porzione rilevante della destra romana. Li riconosci per le bandiere tricolori o per gli striscioni “Roma con Salvini”, segnali di una forza attrattiva reale esercitata su una Forza Italia in disgregazione. Per lo più sono ex missini, dallo stato d’animo un po’ interdetto: “Sa come diciamo nelle Marche? In mancanza di meglio si va a letto con la moglie. Di Salvini non è che ci piaccia tutto, ma la confluenza è possibile”.
Fermento sul palco, fra poco si comincia. Alt. Alle 15,15 in punto dal colle del Pincio, inquadrati in una coreografia militaresca studiata al millimetro, discende a serpentina la schiera imbandierata di CasaPound con le tre spighe del suo nuovo brand: “Sovranità”. E con le bandiere dell’Unione Europea sovrastate da una X rossa. Ci sono anche attivisti di Alba Dorata. Ora la piazza è ancor più fascioleghista.
si promette l’uscita dall’euro e un’aliquota fiscale ridotta al 15%, “così saranno gli svizzeri a esportare da noi i loro capitali”.
E’ qui che Matteo Salvini rivela le sue doti camaleontiche. Con tutte quelle migliaia di leghisti davanti non poteva certo ripetere che ha sbagliato a parlar male dei napoletani. Non dirà neppure “voglio bene a Roma, amo Venditti, a casa mi capita pure di cantare Roma Capoccia”, come testualmente dichiarato in precedenza, per ammorbidire una capitale finora troppo vilipesa. E allora il nostro camaleonte trascolora usando la formula: “Difendiamo l’Italia, anzi, le Italie, perché l’Italia è bella quando rispetta le differenze da Nord a Sud”. A Roma direbbero: un vero paraculo. Ma siccome agli italiani la faccia tosta non dispiace, e qui tutti lo vogliono a capo di una destra che per tutto il pomeriggio Berlusconi non lo nomina neanche più una volta, la formula “L’Italia, le Italie” gliela fanno passare volentieri.
Il camaleonte è velocissimo nell’adattarsi al progetto della nuova destra nazionalista. Se appena eletto segretario della Lega auspicava la deportazione “in un’isola deserta del Pacifico circondata da squali” di Rutelli, Veltroni e Alemanno — colpevoli di aver cumulato un deficit di 16 miliardi al Campidoglio — sentite come ha risposto a un intervistatore romano nei giorni scorsi: “Non voteremo più contro i fondi per Roma Capitale, purché vengano usati bene”.
Precipita così nell’irrilevanza lo scontro politico veneto fra Zaia e Flavio Tosi. Qui, con la benedizione di Marine Le Pen, si annuncia la prossima cacciata del governo Renzi e l’inizio di un’offensiva continentale contro Bruxelles, figuriamoci se qualcuno si abbassa a trattare di beghe locali. In piazza, i veneti sembrano tutti convinti che alla fine Tosi si adeguerà e rientrerà nei ranghi. Ma il non detto di quella lacerazione è un sintomo: cambiare pelle alla Lega, pur nell’ebbrezza del successo, non sarà faccenda indolore. Perché da quasi tre decenni il Carroccio è composto da un delicato equilibrio di localismi, e quindi il leghismo che diventa partito nazionale snatura un modo di essere leghisti di territorio che è stato anche un patrimonio di militanza, oltre che di clientele. Quando Giuseppe Berta, nel suo ultimo saggio “La via del Nord” (Il Mulino) annuncia la fine della questione settentrionale, perché la società del Nord non è più il motore dello sviluppo del Paese, forse sta spiegandoci anche la scelta di Salvini: “L’offerta politica ormai è uguale a tutte le latitudini”, tanto vale smetterla di fare i padani, meglio occupare l’enorme spazio lasciato vuoto a destra.
Quando lo speaker alla fine grida “Siete in centomila, fatevi sentire!”, l’avrà anche sparata grossa. Ma l’energia sotterranea della destra italiana ieri si è davvero condensata in piazza del Popolo, sviluppando una capacità d’attrazione sui delusi di Forza Italia e del M5S che potrebbe dare esiti sorprendenti. Il ducetto camaleontico Salvini sospinto da una corrente reazionaria fino a Palazzo Chigi? Oggi ci appare assurdo, ma provate a contare quante volte il nostro paese si è già misurato con esiti assurdi. A Roma il fascioleghismo ha celebrato il suo battesimo ufficiale. Sottovalutarne il pericolo equivarrebbe a ignorare la storia d’Italia.
di Corrado Zunino
Sono tanti nelle strade di Roma, gli anti-Salvini. Ventimila almeno, quando la Piazza del Popolo fascio-leghista si mostra per metà vuota e con larghi spazi. La battaglia delle presenze l’hanno vinta gli “anti” (fascisti, leghisti, razzisti). Non sono i trentacinquemila urlati dal camioncino che ritma i passi e dà gli aggiornamenti — «... hanno arrestato una compagna dei senza casa... Nella notte a Napoli dieci fascisti hanno attaccato due dei nostri...» —, ma il fiume di persone la cui testa è alla fine di via Cavour non lascia vedere la sua coda, che ancora curva in piazza dell’Esquilino: ottocento metri di folla lenta e divertita.
«Salvini, hai detto che siamo quattro squadristi: contaci uno a uno, non ci riesci manco se resti qui una settimana». La bella giornata, 18 gradi alle due del pomeriggio, e la buona vittoria in strada — sì che gli antagonisti giocano in casa, la capitale, ma sono stati gli altri, i leghisti nazionali, ad aver fatto le prime convocazioni e allestito treni e pullman — hanno tolto micce e aggressività a una delle sfilate più temute dell’anno. Alla fine, si è risolta nel corteo più pacifico degli ultimi dieci. Non c’è stato un assalto alle vetrine delle banche, dei postamat, non si sono visti cappucci alzati né sgraffittate sui muri. Qualche fumogeno, niente bomboni: «Con i numeri ti abbiamo respinto, Salvini, noi abbiamo memoria della tua storia e ti diciamo: “Roma te schifa”». Era venuti qui con buone intenzioni — pochi caschi allacciati alla cinta, dal primo pomeriggio — e le hanno mantenute.
Ad aprire la marcia il fumettone di Zerocalcare, #Maiconsalvini, ma anche contro tutte le politiche di austerity: «Sono il problema del paese e dell’Europa, non gli immigrati ». Renzi non piace di là, sul palco del Popolo, né di qua. Ma qua l’urgenza è dare una risposta antifascista immediata: i vecchi e meno vecchi dell’Anpi, che sullo striscione portano una foto seppiata di ragazzi partigiani con le munizioni a tracolla e la Piramide alle spalle, ballano al ritmo dei percussionisti de “la murga”.
Tre canotti grigi, servono per respingere il leader leghista, vengono issati e portati da piazza Vittorio fino a Sant’Andrea della Valle, tre chilometri lontano. Una ragazza recupera il dark di Siouxsie and the Banshees, nel gruppo si canta: “Qui non si sgombera, Roma si barrica”. La rappresentanza di Sel, lo striscione di Rifondazione, sì, c’è ancora. La Banda Bassotti che vuole il Donbass, in Ucraina, libero dai nazisti.
Si teme, in avvio, davanti ai magazzini allo Statuto chiusi, che i conti non tornino, che i pochi, frustrati, possano diventare aggressivi, ma all’altezza della Basilica di Santa Maria Maggiore il corteo è già raddoppiato e svelenito. Ancora una brutta notizia — in cinque, a Termini, hanno picchiato uno dei nostri —, ma la sostanza è quella di un sabato senza violenza, dopo un venerdì di assalti in Piazza del Popolo e scontri con la polizia in Piazzale Flaminio. La mattina sono stati segnalati alcuni cassonetti bruciati sulla Tiburtina e sulla Nomentana, all’altezza del raccordo, ma ora il corteo sfila davanti a bar, gelaterie, ristoranti, minimarket, librerie aperte. Su due ruote quelli di “Biciclissima”.
Lungo i Fori imperiali vanno al microfono le star del reggaeton italiano: musica dal vivo, camminante. Poi gli Assalti frontali: “Roma meticcia”. Piazza Venezia, quindi davanti alle vecchie Botteghe Oscure e Largo Argentina: «Siamo troppi per entrare in Campo de’ Fiori». Allora retromarcia, con la coda che diventa testa e i troppi in corteo che adesso si mischiano con quelli delle domeniche pedonali. Al tramonto, le diciotto e trenta, il corteo dei movimenti romani si scioglie davanti al Colosseo, ecco i primi petardi. Un gruppo prosegue fino a San Lorenzo: «Non vogliamo andar via da soli». Il leone di San Marco è ancora incappucciato. A fianco, la scritta: “Odio la Lega”.
Il manifesto, 28 febbraio 2015
Le cose non sono affatto facili per Alexis Tsipras, promotore di un piano anti-austerity che mette in dubbio le fondamenta dell’Europa neoliberale. Il fatto che il negoziato all’Eurogruppo si sia concluso con l’approvazione dell’elenco delle riforme non vuol dire che la tensione ad Atene sia calata. Anzi, dopo l’ottimismo dei primi giorni il clima si fa pesante e tra oggi e domani si aspetta un dibattito acceso alla riunione del comitato centrale di Syriza.
Il premier deve fare i conti non solo con i problemi di liquidità già presenti nelle finanze dello stato, i ricatti dei partner europei e le critiche da parte dei conservatori, socialisti, comunisti del Kke compresi, ma deve confrontarsi con il suo alter-ego: le sue promesse durante la campagna elettorale, i suoi compagni all’ interno del Syriza secondo i quali l’ austerity avrebbe dovuto finire il giorno dopo le elezioni.
L’aveva promesso pure Tsipras un anno fa. Voci che si moltiplicano giorno dopo giorno per esprimere il loro dissenso all’accordo di Bruxelles, nonostante il governo continui a raccogliere il sostegno della stragrande maggioranza dei greci (oltre l’ 80%).
Alexis Tsipras per evitare che il suo esecutivo sia una «parentesi di sinistra», come vorrebbero i suoi avversari a Bruxelles e ad Atene, e per guadagnare tempo ha preferito la svolta. Che sia una «retromarcia di destra» oppure solo realismo ha poca importanza per un semplice motivo. L’ alternativa sarebbe uno scontro frontale ancora più duro tra il neo governo e i creditori internazionali, la chiusura dei rubinetti dalla Bce, il default, ovvero il tracollo finanziario, l’ uscita obbligata del Paese dalla zona euro.
Una situazione che sempre ha provocato un dibattito acceso in Syriza come alternativa per sganciarsi dalla taneglia del debito pubblico e dai creditori, ma che oggi esprime una minoranza. Il programma della sinistra radicale greca è chiaro: combattere per un cambiamento all’ interno dell’ eurozona.
Alexis Tsipras ha ottenuto un difficile equilibrio tra le richieste dei creditori internazionali e il suo piano anti-austerity; tra la necessità di retrocedere momentaneamente, accettando parte del programma precedente e il bisogno di affrontare la crisi umanitaria, riavviare l’economia e promuovere la giustizia fiscale, riconquistare l’occupazione, trasformare il sistema politico per rafforzare la democrazia.
Ora facendo un resoconto all’ interno della sinistra radicale, dopo l’ accordo di Bruxelles, questo equilibrio non piace. Non piace - si sapeva a priori - al potente Aristero Revma (Corrente di sinistra) o Aristeri Platforma (Piattaforma di sinistra) che ha caraterizzato il piano approvato dall’Eurogruppo «un accordo indovinello». Non piace all’eurodeputato del Syriza, Manolis Glezos, figura emblematica e simbolo della resistenza greca contro l’ occupazione nazista. Le parole di Glezos sono state paragonate con una bomba alle fondamenta del neo governo Syriza-Anel, un attacco personale contro Alexis Tsipras. «L’accordo all’ Eurogruppo é una vergogna» ha scritto il 91enne Glezos al suo blog. E poi ha chiesto «scusa al popolo greco».
La riunione del gruppo parlamentare di Syriza di giovedì è durata dieci ore. Una maratone durante la quale il premier ha chiesto ai parlamentari di esprimersi apertamente sul contenuto dell’ accordo e di votare per alzata di mano. «Il risultato dell’accordo dipenderà e sarà giudicato dal modo in cui lavoreremo come governo» ha detto Tsipras.
Niente da fare. Le anime non si calmano, i dissaccordi rimangono, i dissidenti insistono. Il ministro della Ricostruzione e dell’ Ambiente, Panagiotis Lafazanis e la presidente della Camera, Zoe Konstantopoulou, ambedue esponenti della «Corrente di sinistra» hanno detto che l’accordo è, in sostanza, un’estensione del pre-esistente memorandum (stessa critica è stata mossa anche da Nea Dimokratia). Contrari anche ex socialisti, come il professore del Diritto di lavoro, Alexis Mitropoulos, esponente di spicco di Syriza. Alla fine la votazione: 20 (secondo altri più di 30) deputati sui 149 avrebbero votato contro o scheda bianca all’ accordo di Bruxelles, mentre un numero maggiore sarebbe contrario a presentare tale proposta in parlamento per la ratifica come invece chiede da giorni l’opposizione. E la domanda che ci si pone è «come un ministro (Lafazanis) contrario all’accordo di Bruxelles applicherà il suo contenuto?».
Come se non bastasse tutto questo, giovedì in un documento reso pubblico il professore di economia, Yannis Milios, responsabile tuttora della politica economica del Syriza, e altri due dirigenti del partito, criticano aspramente l’operato del ministro delle finanze Yanis Varoufakis. Lo scontro ideologico tra un dirigente considerato marxista e il ministro dichiaratamente marxista, ma di tendenza keynsiana, è evidente. L’accordo di Bruxelles si riferisce ai «controlli da parte dei creditori internazionali, e non ad uno scambio di valutazioni sull’ andamento dell’economia greca… accetta gli aiuti economici del precedente accordo, non fa riferimento alla ristrutturazione del debito pubblico, ma parla di un programma di sostenibilità… non garantisce la liquidità delle finanze» e tutto sommato «poco ricorda ciò che Syriza prometeva prima del voto del 25 gennaio».
Le trattative da parte del governo greco erano «un salto a occhi chiusi», «non c’era un piano ben preciso”, l’accordo «offre tempo ad Atene, ma la scena è soffocante» conclude Milios.
Mancanza di esperienza di governo da parte della sinistra greca? Atteggiamento suicida, lotta continua oppure spirito autocritico affinché si vada avanti? Il realismo politico del premier greco, espresso dopo l’estate scorsa e la trasformazione rapida della sinistra radicale in una forza governativa che deve gestire la realtà, in fondo non è mai piaciuto a quelle correnti, comuniste e non, in seno al partito, che preferirebbero Syriza al 4%, ma «pura e rivoluzionaria».
Non a caso nessuno tra quelli che criticano l’ operato di Tsipras e di Varoufakis dicono cosa avrebbero fatto se fossero presenti loro alle trattative con i «18» dell’eurozona.
Lo scontro sarebbe ancora più forte, la rottura con i partner europei immediata, il ritorno alla dracma sembrerebbe quasi l’unica alternativa per un Paese che continua a produrre poco. Uno scenario che ancora non viene escluso del tutto.
Il manifesto, 27 febbraio 2015
La Liga è sempre una sicurezza: prima le guerre intestine, poi il Veneto. E paradossalmente si capirà domani a Roma l’esito del braccio di ferro fra il governatore Luca Zaia e il sussidiario sindaco di Verona Flavio Tosi. In 48 ore Matteo Salvini si gioca la faccia nella capitale e la leadership nel gran consiglio, che dovrà mettere fine alla «guerra del Nord Est».
Si vota a maggio per le Regionali, ma le grandi manovre nel centrodestra partono dall’implosione di Forza Italia orfana di Giancarlo Galan (ai domiciliari per lo scandalo Mose). Se davvero esplodesse anche la Lega, si riaprirebbe lo scenario politico dopo un ventennio. Ci conta Alessandra Moretti che già batte a tappeto ogni angolo del Veneto: il Pd di Renzi ha l’ambizione di replicare il modello Serracchiani, tanto da imbarcare perfino gli «autonomisti» di Franco Rocchetta.
Ma la vera partita si sta giocando a Venezia. Il 15 marzo sono fissate le Primarie del centrosinistra: in lizza per la candidatura a sindaco l’ex pm e senatore «dissidente» Felice Casson, il giornalista Nicola Pellicani e l’ultrà renziano Jacopo Molina. Sull’altro fronte, invece, domani mattina all’hotel Russott di Mestre rompe gli indugi Francesca Zaccariotto: «Il nostro domani inizia oggi» è lo slogan su sfondo arancio e grigio dell’ex presidente (ed ex leghista) della Provincia.
È la maratona elettorale che mette in palio la poltrona di Ca’ Farsetti con l’ingombrante eredità di Giorgio Orsoni (a processo sempre causa Mose, uno spettro che si allunga sull’intero vertice Pd di fe
de bersaniana). Intanto il Carnevale ha regalato il corteo in Canal Grande di maschere, barche allegoriche e vele spiegate contro le lobby che cannibalizzano la laguna. Il Comitato No Grandi Navi non molla, anzi. E alla presentazione di «Se Venezia muore» di Salvatore Settis si è registrato un significativo «pienone».
La città-cartolina da sogno sembra inghiottita dal buco nero di affari & politica. Il Mose — la grande opera della Repubblica per antonomasia, con 5,5 miliardi di euro solo di lavori pubblici – è scivolato ai margini del circo mediatico. Come se l’architettura della «fatturazione parallela» (messa a punto fra la sede del Consorzio Venezia Nuova a Castello 2737/f e la succursale di Piazza San Lorenzo in Lucina 26) non fosse stata clonata altrove.
Venezia come nel 1630, all’epoca della peste nera: è certificato dalla Procura alle prese con un «sistema» che spazia dalle autostrade ai nuovi ospedali, dalle bonifiche all’urbanistica.
Intanto, il Comune sopravvive nell’interregno dell’ordinaria amministrazione. Il commissario straordinario Vittorio Zappalorto consegnerà un bilancio pesante, nonostante la mannaia da 47 milioni abbattutasi su servizi sociali e buste paga dei dipendenti. Gli affari, però, non si fermano. C’era una volta il nuovo palazzo del cinema: vero e proprio buco al Lido, costato 40 milioni. E Zappalorto ha messo in vendita Villa Hèriot alla Giudecca (10 milioni), con annessa «opportunità» di trasformarla in albergo.
In attesa del voto, ogni lobby lavora a pieno regime. Lo testimonia in modo inequivocabile la relazione della Guardia di Finanza che riproduce la «mobilitazione» in vista dello scavo del canale Contorta. È la mini-Grande opera indispensabile a dirottare le gigantesche navi da crociera. A marzo 2014, Piergiorgio Baita (ex presidente Mantovani Spa, appena scarcerato) insieme ad Attilio Adami (presidente di Protecno Srl di Noventa Padovana) si «attiva» con Mazzacurati del Cvn affinché Paolo Costa (presidente dell’Autorità portuale) assegni il cantiere alle imprese del «giro Mose». Intercettazioni agli atti.
In terraferma, invece, si vola. Nel quadrante Tessera si profila la seconda pista dell’aeroporto caldeggiata dal presidente di Save Enrico Marchi, ma il masterplan rulla su ben altre rotte. Contempla un tunnel per il Tav e addirittura la metropolitana sublagunare; contabilizza oltre 3 milioni di metri cubi di cemento nelle stesse aree «salvate» dal piano comunale; fa scattare l’«imbonimento» delle barene per interesse pubblico. Infine, si ricicla l’Expo con il padiglione Antares a ridosso del Parco Vega. Michele De Lucchi, l’architetto del «padiglione zero» di Milano, replica in laguna la struttura polifunzionale realizzata da Condotte Immobiliare. Una «rigenerazione» a Marghera che vale 30 milioni. Ma si conta sull’arrivo di 156 milioni che il governo deve aggiungere in tre anni per la «nuova fiera del Nord Est». A gestirla fino al 2027 sarà Expo Venice, Spa a cavallo fra istituzioni, categorie economiche e privati.
Dal Mose all’Expo, dunque: Venezia doget?
«La dialettica tra locale e nazionale assume contorni virtuosi, se si incarna in candidature legate a movimenti di resistenza dispiegati sui territori, e unificate da un disegno complessivo di cambiamento politico». Il manifesto, 27 febbraio 2015
La sfida portata dal renzismo è a tutto campo, e a poco serve la denuncia, è più che mai urgente la ridefinizione del campo dell’alternativa. Magari cominciando, in prossimità di un’importante tornata di elezioni amministrative, proprio dal livello locale. Il potere esercitato dal partito unico delle classi dirigenti, e dai suoi cacicchi, sugli enti locali è infatti uno dei puntelli principali del nuovo assetto del potere centrale. Da lì si esercita l’arte del bastone e della carota. Il potere esercitato dal partito unico delle classi dirigenti, e dai suoi cacicchi è uno dei puntelli del nuovo assetto del potere centrale.
Da lì si esercita l’arte del bastone e della carota. Il bastone delle privatizzazioni, degli appalti anti-economici, della precarietà e delle sue forme estreme, che Antonio Bevere di recente riformulava come nuove schiavitù (il “lavoro gratis”). E la carota del clientelismo, della “consulenza” maxi e mini come scorciatoia alla ri-creazione di un blocco sociale in via di progressivo sfarinamento. Anche approfittando del battage pubblicitario delle “archistar” amiche, chiamate a dar lustro al regime tramite opere di dubbio impatto sociale.
E sì che la storia del movimento operaio del nostro Paese sarebbe in tal senso ricca di fermenti da riproporre, aggiornati alla nuova stagione di lotte. Non solo di “buona amministrazione” si sta qui parlando. Anche di questo, certo: l’orgoglio che anche i subalterni potessero dar prova di sapienza amministrativa, apprendendo a farsi classe dirigente attraverso la palestra del “comune democratico”, costituì una potente leva per il municipalismo socialista e poi comunista. Ed un profondo rinnovamento del personale amministrativo si rende necessario ancor oggi, a fronte del più sfrenato trasformismo e dell’infeudamento dei gruppi dirigenti locali al partito-dello-Stato e agli interessi delle élite economico-finanziarie che lo sostengono.
Se poi dal Comune di passa alla Regione, il giudizio sugli indirizzi perseguiti nell’attuale stagione varia di poco. Sempre è stata viva, a sinistra, la preoccupazione che l’istituto regionale si configurasse come una sommatoria di burocrazie meramente sovrapposte a quelle dello Stato centrale. Per ovviare a questi rischi, la battaglia regionale fu da subito legata da un lato a quella per la pianificazione economica e territoriale — fu in questo senso il Pli di Malagodi il più aspro e conseguente avversario del varo delle regioni; dall’altro ad una esigenza di maggiore partecipazione popolare — è significativo che alle regioni si arrivi al culmine del “secondo biennio rosso” (1968–1969). Il rovesciamento a cui oggi assistiamo in questi campi è totale: i consigli regionali ridotti a casse di compensazione per un ceto politico ipertrofico e desideroso di banchettare sulle spoglie dello Stato; deregulation economica ed urbanistica promossa in concerto tanto dallo Stato centrale quanto dalle amministrazioni periferiche; leggi elettorali regionali che in molti casi mortificano la libera espressione della volontà elettorale, ben oltre i limiti già scandalosi del modello nazionale su cui vengono ricalcate.
Non basta tuttavia ispirarsi alla lettera della lezione della storia per invertire le attuali tendenze regressive; né denunciare moralisticamente lo stato di cose esistente. E’ la stessa riflessione critica sul passato del nostro movimento operaio a consegnarci una duplice eredità, da tener di conto ora più che mai. Gli avanzamenti del potere popolare a livello locale, infatti, sempre sono stati in connessione con lo sviluppo delle grandi mobilitazioni sociali, e con l’emergere di gruppi dirigenti nuovi in simbiosi con le aspirazioni emerse dal conflitto. E sempre si sono rilevati assai fragili, in assenza di una strategia nazionale al cui interno potessero essere inquadrati.
Ancor oggi, i rischi dell’irrilevanza politica e del rifugio nel localismo procedono di pari passo. La dialettica tra il momento locale e quello nazionale nella sfida politica di alternativa può assumere però contorni virtuosi, a patto che si incarni in una serie di candidature legate a movimenti di resistenza concretamente dispiegati sui territori, ed allo stesso tempo unificate da un disegno complessivo di cambiamento politico.
La Repubblica 27 febbraio 2015
Lo schiaffo è fragoroso, visto che metà dei parlamentari del Pd diserterà oggi la riunione convocata da Matteo Renzi nella sede del Pd. Uno strappo clamoroso, il primo passo di un’escalation studiata a tavolino e condotta da Pierluigi Bersani. «Il metodo Mattarella - è la cruda fotografia di Alfredo D’Attorre - si è chiuso rapidamente». La guerra nel Pd, insomma, è sempre meno fredda. E lo ammette anche il leader: «Sono stupito - attacca - Nessuno vuole ricominciare con i caminetti ristretti vecchia maniera: noi siamo per il confronto, sempre. Non sprechiamo neanche un minuto in polemiche sterili e ingiustificate persino sugli orari e sulle modalità di convocazione di incontri informali. Il nostro popolo, quello che ci ha dato il 41% dopo tante sconfitte, non le merita».
L’origine del duello, a dire il vero, va rintracciata nella scelta di Palazzo Chigi di ignorare il parere delle commissioni competenti sul Jobs act. Per dirla con Bersani, «così si pone fuori dall’ordinamento costituzionale». A poco serve che Renzi si sgoli: «Tutte le principali decisioni di questi 15 mesi sono state discusse e votate negli organismi di partito». La competizione tra i cattorenziani e i renziani ortodossi, infatti, ha ridato vigore alle minoranze, spingendole a muoversi compattamente per disertare l’appuntamento di oggi.
A Montecitorio il clima è pessimo. I renziani provano a convincere i “dubbiosi del venerdì”. Fermano i peones, ricordano che è sconveniente saltare l’incontro con il segretario. Gridano pure alla struttura parallela dei bersaniani, denunciano il partito nel partito. Anche a palazzo Madama va in onda lo stesso film, con venti senatori della minoranza pronti a lamentarsi con il capogruppo Zanda dell’atteggiamento del segretario.
L’elenco di chi oggi volterà le spalle al premier, comunque, è lunghissimo. Molti dei Giovani turchi, in allarme per le grandi manovre in area renziana. E tantissimi deputati di peso, da Nico Stumpo a Pippo Civati, Rosy Bindi, Stefano Fassina e Gianni Cuperlo. «Sono in Sardegna - dice quest’ultimo - ma non ci sarei andato comunque».
Stessa linea di Ileana Argentin: «Sinistra Dem non va alla riunione. Sa perché? Non è che tu vieni un’ora, parli e noi applaudiamo. Un’assemblea è una cosa diversa». Ci sarà invece Francesco Boccia, ma solo per picchiare duro sul premier. «Invece di sabotare - reagisce il vicesegretario Lorenzo Guerini - colgano l'occasione per confrontarsi». Eppure, a sentire Massimo D’Alema la sensazione è che i rapporti interni possano addirittura peggiorare. «C'è una discussione vivace. E io spero che si faccia ancora più vivace»