La Repubblica, 7 dicembre 2015 (m.p.r.)
Parigi.«È uno tsunami politico sulla Francia ». Il politologo Yves Mény prevede un’onda lunga del voto di ieri. «Quest’elezione è la spia di una crisi all’interno del nostro sistema elettorale e istituzionale», spiega Mény autore di diversi saggi sul populismo e presidente del Consiglio di amministrazione della Scuola Sant’Anna di Pisa.
La Repubblica, 5 dicembre 2015
SE IL CARCERE CANCELLA LA COSTITUZIONE
di Adriano Prosperi
Un dialogo con un graduato (un brigadiere) delle forze della polizia carceraria. Gli ha chiesto: «Brigadiere, perché non hai fermato il tuo collega che mi stava picchiando?». Gli è stato risposto: «In questo carcere la Costituzione non c’entra niente». E anche: « Se la Costituzione fosse applicata alla lettera questo carcere sarebbe chiuso da vent’anni».
La cosa stupefacente non è che un detenuto sia stato picchiato. Né che ci siano state quella domanda e quella risposta. La cosa fra tutte più singolare è proprio il nostro stupore. Davvero riusciamo a stupirci? Davvero non sapevamo che ci sono dei luoghi dove la Costituzione non vale? E non sapevamo forse che fra quei luoghi ci sono proprio quelli che si richiamano alla Giustizia? Gli uomini che picchiano ne recano il nome sulla loro divisa. Il loro ministero di riferimento è quello che si chiamava di Grazia e Giustizia. La Grazia se n’è uscita alla chetichella. Ma la parola Giustizia è ancora lì. Non solo: quei luoghi sono governati in nome della Costituzione. La Costituzione è come un cielo che ci copre tutti. Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me, diceva Kant. La Costituzione nasce dalla volontà di sostituire all’illusoria volta di un cielo che, come diceva una canzone di Jacques Brel, “n’existe pas”, la protezione effettiva di un orizzonte comune, quella di princìpi e regole validi dovunque si estendano i confini dello Stato sovrano. È la coscienza di essere coperti da questo cielo che ci fa muovere negli spazi della vita quotidiana.
Ma ora, questo scambio di parole affiora in superficie dal fondo di un carcere e ci sbatte in faccia una verità che abbiamo finto ostinatamente di non conoscere: nelle nostre carceri la Costituzione non esiste. Ma davvero si può dare uno spazio pubblico, addirittura un luogo della giustizia dove la Costituzione non vale? Quando questo accade, è come se sulle mura della casa comune si aprisse una crepa. La crepa, trascurata, si allarga. Come in un celebre racconto di E.A.Poe, minaccia la rovina finale dell’edificio.
Sottrarre una parte dello Stato alle regole costituzionali è un reato. La legge deve punirlo. Ma quando nella comune coscienza si installa la certezza che esiste uno spazio — quello carcerario — dove la Costituzione non vale, quando lo si sa e lo si dice apertamente in difesa di una pratica di vessazioni e torture nelle nostre piccole Guantanamo, allora vuol dire che la crepa sta intaccando le fondamenta. Quel brigadiere ha detto che se la Costituzione valesse in quei luoghi, le carceri sarebbero state chiuse da tempo. Con quel brigadiere siamo in disaccordo totale per le cose che non ha fatto: doveva impedire che il detenuto venisse picchiato e non lo ha fatto. Ma siamo d’accordo con lui su quello che ha detto. Se la Costituzione è in vigore, quelle carceri debbono essere chiuse. Dovevano esserlo da decenni.
È un ritardo da colmare. Rachid Assarag, quali che siano le sue colpe, resterà nella storia italiana per aver smascherato una lunga, non più tollerabile ipocrisia collettiva.
BOTTE IN CARCERE
INDAGA IL MINISTERO
di Maria Novella De Luca
Orlando invia gli ispettori negli istituti coinvolti dalle registrazioni del detenuto ora ricoverato a Torino Manconi: “Abusi anche a Napoli”. Il sindacato: “Tutto da verificare, polizia penitenziaria è istituzione sana”
Le registrazioni di Rachid Assarag sono diventate un caso. Quelle voci che testimoniano botte e sevizie ai detenuti in diverse carceri italiane, violenze definite addirittura «educative» dagli agenti di custodia, hanno spinto ieri il ministro della Giustizia Andrea Orlando a chiedere al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) di inviare gli ispettori nei diversi istituti di pena dove gli abusi sarebbero avvenuti. Gli audio raccolti di nascosto da Rachid Assarag, detenuto marocchino condannato per stupro, che ha registrato decine di conversazioni con le guardie che lo picchiavano in cella, hanno fatto tornare in primo piano il dramma della violenza nelle carceri.
Rachid Assarag, detenuto dal 2009, ha già cambiato undici istituti di pena. Dopo aver subito le prime violenze nel penitenziario di Parma («fui picchiato da quattro agenti con la stampella a cui mi appoggiavo per camminare») Rachid prova a denunciare l’accaduto. Ma la risposta è il silenzio. Così trasferito di prigione in prigione, Rachid inizia a registrare di nascosto ogni abuso che lo riguarda. Gli audio, resi pubblici dall’associazione “A buon diritto”, di cui è presidente Luigi Manconi e pubblicati ieri da Repubblica. it, sono agghiaccianti. «Brigadiere — chiede Rachid — perché non hai fermato l’agente che mi picchiava?». «Fermarlo? No, io vengo e ti do altre botte», la risposta. E poi: «Il detenuto — afferma il cosiddetto “brigadiere” nella prigione di Prato — quando esce da qui è più delinquente di prima, perché è l’istituzione carcere che non funziona ». Ma c’è di peggio. Come quando lo stesso interlocutore afferma che per i detenuti le botte sono «educative » e, accusato dall’abile Rachid di non rispettare la Costituzione, risponde: «Se la Costituzione fosse applicata alla lettera questo carcere sarebbe chiuso da vent’anni. Qui tutto è illegale...».
Commenta Fabio Anselmo, legale di Assarag. « I fatti sono gravissimi. In alcuni casi di parla anche delle morti dei detenuti. Rachid sa di aver sbagliato, ma si chiede perché il carcere debba infliggergli anche una ulteriore pena. Le sue registrazioni comunque sono già state ammesse da due giudici a Firenze e a Parma».
Scettico invece sulle prove degli abusi subiti da Rachid, Donato Capece, segretario del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria. «Non so come sia possibile che un detenuto tenga con sé un registratore. Sarà necessario verificare tutto, ma deve essere chiaro che la polizia penitenziaria è una istituzione sana».
Conferma al contrario il racconto del detenuto marocchino Francesco Maisto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna. «Sapevamo delle sue denunce, informammo il sostituto procuratore di Parma che si attivò. E in quel carcere, allora, il clima era sicuramente di intimidazione». Avverte Luigi Manconi: «Il caso di Rachid non è isolato. Noi continuiamo a ricevere segnalazioni di violenze e abusi. E tra queste le più preoccupanti arrivano da Poggioreale, dove in due padiglioni già noti, Milano e Napoli, sembra che accadono fatti su cui si dovrebbe indagare». Intanto Rachid ormai in sedia a rotelle, dopo aver perso 18 kg per lo sciopero della fame iniziato un mese fa, è stato ricoverato nel Centro clinico del carcere di Torino.
La Repubblica, 5 dicembre 2015
UN Paese in cui gli indicatori volgono al segno “più” ma con grande fatica (una “Italia dello 0 virgola”): ancora portato a rinchiudersi in un “recinto tranquillizzante ma inerte”; immerso “in un clima di mediatica attesa e di annuncio della ripresa che però non si tramutano in un forte investimento collettivo”. Un Paese che rimane esposto al rischio di un “letargo esistenziale” ma che si è comunque rimesso in movimento, sia pur in modo stentato e contradditorio: segnale non irrilevante se si pensa al Paese sfiduciato e sfibrato disegnato ancora l’anno scorso dal Censis (“dopo anni di trepida attesa la ripresa non è arrivata e non è data per imminente”). È davvero lungo il tunnel che abbiamo percorso: già nel 2007 del resto, alla vigilia della grande bufera, il Censis aveva parlato di “malattia dell’anima”, di una società ripiegata su se stessa e sempre più attraversata da un’illegalità quotidiana e diffusa. Una società indebolita e quasi incapace di reagire alla prolungata emergenza provocata poi dalla crisi internazionale. Esposta da allora all’erosione continua di redditi, consumi e — soprattutto — speranze: nel 2010 il rapporto delineava un’Italia “senza più legge né desiderio” e “incapace di sognare”, e ne diventavano simbolo i moltissimi giovani che non studiano, non hanno lavoro e non lo cercano neppure (un macigno che tuttora permane, come il rapporto di quest’anno ricorda).
Veniva così alla luce un “disastro antropologico” di più lunga durata, annotava il Censis alla fine del 2011. L’anno in cui l’irresponsabilità berlusconiana aveva fatto intravedere anche per l’Italia un “rischio greco”: mesi difficilissimi, segnati anche da un deterioramento della nostra immagine internazionale “vissuto un po’ con dolore e un po’ con vergogna”. Il fondo più buio di una deriva che l’azione del governo Monti arrestò quasi sull’orlo del baratro senza riuscire però a ridare slancio al Paese (“non è scattata la magia dello sviluppo fatto da governo e popolo” si annotava alla fine del 2012): di qui le difficoltà degli anni successivi, segnati dal “problema della sopravvivenza” e dall’incapacità di far interagire e rendere trainanti gli elementi di vitalità pur presenti in settori dell’economia, della società, della cultura.
Di “sospensione delle aspettative” il Censis parlava ancora l’anno scorso, e in questo quadro possono essere meglio apprezzati i primi segnali di ritrovata fiducia di quest’anno, dalla crescita dell’acquisto di beni durevoli al dinamismo del mercato immobiliare, in un panorama di più generale ripresa dei consumi ma segnato al tempo stesso da nuovi squilibri sociali (alimentati anche dal restringimento del welfare). Segnato da una ripresa dell’occupazione che non coinvolge ancora i giovani, che pur pensano al futuro con maggior ottimismo (un altro dato da capire meglio). Rimane molto rilevante inoltre il denaro non investito ma immobilizzato in un “risparmio cautelativo” volto a fronteggiare le emergenze (non senza ragioni, dato che l’anno scorso vi hanno dovuto attingere più di tre milioni di famiglie).
Permangono insomma i tratti di una “società a bassa consistenza e quindi con scarsa autopropulsione”, poco dinamica. Vi è certo stato un “volontarismo della politica”, si osserva - in positiva controtendenza rispetto a rassegnazione e pessimismo - ma non è riuscito a ridare slancio all’economia e alla società per l’assenza di un progetto generale, di un’idea di futuro capace di radicarsi nel corpo vivo del Paese. Per una enfatizzazione della decisione di vertice, a partire dall’azione di governo, che non ha saputo costruire una vera “catena di comando”. Non ha saputo penetrare nelle pieghe reali della società: non vi è stata dunque quella “osmosi tra primato della politica e mondi vitali sociali” che ha caratterizzato le fasi più espansive della nostra storia.
Si aggiungano altri elementi significativi, relativi ad esempio all’immigrazione: su di essa ha certo agito il peso della crisi, si annota, ma hanno operato anche significativi elementi di “integrazione molecolare” capaci di evitare, forse, il “rischio banlieue”.
Non mancano altri segnali positivi, pur “minori”, connessi anche agli stili di vita. Né mancano, sul versante opposto, le forti inquietudini connesse alla crescente sfiducia nei confronti delle istituzioni politiche e dell’Europa. Vi è in realtà una grande domanda sottesa all’intero rapporto: qual è il Paese che esce dagli anni della crisi? Quali ne sono le potenzialità e le modificazioni profonde, le propensioni generali e le pulsioni particolaristiche? Non siamo rimasti uguali, il Censis ce lo ricorda, e questa domanda non può essere elusa.
Il manifesto, 3 dicembre 2015
Can Dündar, direttore del quotidiano Cumhuriyet è stato arrestato il 26 novembre scorso dalle autorità turche insieme ad Erdem Gül, capo della redazione di Ankara dello stesso giornale. I due sono stati fermati con l’accusa di aver divulgato lo scorso maggio notizie sul sequestro e la perquisizione di alcuni camion appartenenti ai servizi segreti turchi (Mit) carichi di armi e diretti in Siria. L’accusa a carico dei due giornalisti è di spionaggio politico e militare, divulgazione di informazioni coperte da segreto di stato e propaganda a favore di organizzazioni terroristiche, più precisamente quella che fa capo al predicatore islamico Fetullah Gülen. Esule da anni negli Stati Uniti, Gülen è stato un tempo alleato del presidente Recep Tayyip Erdogan, ma oggi è accusato di essere l’architetto del cosiddetto «stato parallelo» contro cui le operazioni di polizia si contano ormai a centinaia.
In particolare, i giornalisti di Cumhuriyet sono accusati di aver costruito notizie false attraverso informazioni ricevute dall’organizzazione di Gülen, allo scopo di dare un’immagine della Turchia come collaboratrice di gruppi terroristi.
L’arresto è l’esito di un’indagine lanciata a fine maggio scorso, quando Cumhuriyet aveva pubblicato un articolo dal titolo «Ecco le armi che Erdogan sostiene non esistano», in cui si rendeva pubblico il sequestro, avvenuto nel gennaio 2014 da parte della polizia, di tre camion carichi di armi nascoste sotto casse di medicinali diretti in Siria. L’arsenale includeva munizioni per artiglieria e mitragliatrici, colpi di mortaio e munizioni per contraerea, contenuti in casse con scritte in cirillico e partite dall’aeroporto Esenboga di Ankara.
L’operazione di polizia, avviata da una soffiata ricevuta dal procuratore generale di Adana che aveva quindi autorizzato le indagini ed il sequestro, rischiava di porre nuovamente la Turchia sul banco degli imputati per l’atteggiamento ambiguo nei confronti dello scenario siriano e dei gruppi armati che vi combattono. Non è mai stato chiarito a chi fosse destinato il carico di armi.
La circolazione della notizia sui media nazionali era poi stata immediatamente bloccata da un’ordinanza del tribunale di Adana, che aveva disposto il bando di ogni materiale scritto, audio video e online sulla perquisizione dei camion, mentre i contenuti già online venivano cancellati.
Erdogan stesso aveva commentato l’episodio sostenendo che i responsabili della divulgazione avrebbero pagato un prezzo salato. Il presidente turco aveva sporto personale denuncia contro Dündar, chiedendone due ergastoli più 42 anni di carcere per aver minato gli interessi dello stato attraverso l’uso di falso materiale giornalistico.
Dopo il blocco delle indagini e la restituzione dei camion al personale del Mit (i Servizi segreti turchi), grazie all’intervento diretto del governatore di Adana, diversi membri ed ufficiali delle forze di polizia erano stati posti in stato di accusa ed espulsi. Durante la propria deposizione, l’autista Murat Kislakci dichiarò che per diverso tempo aveva guidato camion da Ankara alla cittadina di Reyhanli, sul confine turco-siriano, e che sapeva perfettamente di lavorare per il Mit. L’avvocato Hasan Tok, legale rappresentante del comandante delle forze di polizia di Adana colonnello Ozkan Çokay, aveva poi rilasciato una dichiarazione secondo la quale, nel corso di un’udienza, il procuratore di Adana Ali Dogan avrebbe dichiarato che «oltre duemila camion sono stati inviati in Siria dalla Turchia».
L’arresto di Dündar e Gül ha scatenato le proteste di diverse personalità di spicco del mondo politico e dei sindacati. Manifestazioni in segno di solidarietà si sono svolte in questi giorni a Istanbul di fronte alla sede di Cumhuriyet.
Prima di tutto, come primo ministro e ora come presidente, Recep Tayyip Erdogan ha disposto una repressione metodica dei media in Turchia per anni. Erdogan sta perseguendo giornalisti di tutti i colori politici in maniera sempre più feroce nel nome della lotta al terrorismo e per la difesa della sicurezza dello stato. Gli arresti del regime di Erdogan, le minacce e intimidazioni non sono degni di una democrazia.
E ovunque in Europa sorgono muri mentali, sempre più alti ogni giorno che passa, cementati da un misto di paure — del tutto comprensibili dopo i massacri di Parigi da gente che poteva circolare a suo piacimento tra Francia e Belgio — e di beceri pregiudizi alimentati da politici xenofobi e giornalisti irresponsabili.
Nel 2015 assistiamo a un 1989 alla rovescia. Non dimentichiamo che la demolizione fisica della Cortina di ferro iniziò con il taglio della recinzione di filo spinato che separava l’Ungheria dall’Austria. Ora è l’Ungheria che per prima ha eretto nuove recinzioni ed è il suo premier, Viktor Orbán, il primo ad alimentare i pregiudizi. Bisogna chiudere le porte ai migranti musulmani, ha detto quest’autunno, «per mantenere l’Europa cristiana». Si unisce al coro anche una buona cristiana dello stampo di Marine le Pen, la rappresentante del Front National che detta il passo della politica francese.
Molti europei ora sostengono che i loro paesi devono ripristinare i controlli alle frontiere, anche all’interno dell’area Schengen. Lasciando perdere i dubbi circa l’efficacia di un simile atto sotto il profilo della sicurezza, chiudendo le frontiere interne all’Europa si rischia di distruggere ciò che gli europei apprezzano di più dell’Unione. Non è solo retorica. Nell’ultimo sondaggio Eurobarometer, condotto in tutti i paesi UE, alla domanda “Qual è secondo voi il maggior beneficio derivante dall’Unione Europea”, il 57% degli intervistati ha risposto “la libera circolazione delle persone, dei beni e dei servizi”.
Si è tornati ai muri per tre ordini di motivi. Innanzitutto, in paesi come la Gran Bretagna ma anche in altre parti dell’Europa del nord, hanno influito le pure e semplici dimensioni della circolazione di persone entro i confini dell’Ue. Gli est europei sono arrivati soprattutto dopo il grande allargamento del 2004, simbolicamente incarnato dall’”idraulico polacco”; a loro si è aggiunto lo stuolo degli immigrati dall’Europa meridionale, da quando la crisi dell’Eurozona ha spinto laureati spagnoli, portoghesi e greci a spostarsi a Londra o a Berlino per fare i camerieri.
Il secondo motivo è la crisi dei profughi. Secondo le stime Unhcr (Agenzia Onu per i rifugiati) al 19 novembre erano 850.571 “i profughi e i migranti” giunti quest’anno via mare in Europa, altri 3.485 sarebbero morti o dispersi. Il Mediterraneo è diventato orizzonte di speranza per i disperati e una tomba d’acqua.
Poco più del 50% degli arrivati via mare proviene dalla Siria, il 20% dall’Afghanistan. Moltiquelli che ce la fanno sono profughi nella piena accezione del termine, ossia nutrono “fondato timore di persecuzione” nel proprio paese. Ma, come indica l’Unhcr, tra loro inevitabilmente c’è chi fugge dalle intollerabili condizioni materiali degli stati falliti.
Poi ci sono i terroristi islamici, ultimamente dediti a falciare innocenti spettatori di concerti e avventori dei bistrot parigini. In gran parte sono cresciuti in Europa anche se alcuni apprendono il mestiere di assassini in Siria o in Afghanistan. Almeno uno dei killer di Parigi probabilmente si è intrufolato nell’Europa senza confini di Schengen come “profugo” (reale o presunto) con passaporto siriano. Per certo i killer potevano spostarsi liberamente tra Parigi e Bruxelles.
Così nell’attuale bouillabaisse dei timori europei, mescolata dai demagoghi, tutto si confonde: il migrante regolare, cittadino dell’Unione; il migrante irregolare, che viene da fuori; il migrante mezzo migrante economico e mezzo rifugiato; il profugo di guerra dalla Siria; il classico rifugiato politico dall’Eritrea; il musulmano; il terrorista. In un certo senso si passa, senza soluzione di continuità, dall’idraulico polacco al kamikaze siriano.
Nel frattempo il nuovo governo dell’idraulico polacco, composto principalmente da buoni cristiani, si è allineato a Ungheria e Slovacchia dichiarando che non accoglierà immigrati musulmani. Niente samaritani, grazie, siamo cristiani. Oltre al divario tra il nord e il sud d’Europa creato dalla crisi dell’Eurozona, emerge una nuova divisione tra Est e Ovest. L’Europa dell’Est rifiuta la solidarietà così spesso richiesta ai partner europei sotto altri aspetti. L’Europa sud orientale è tra due fuochi. Presto potrebbe succedere qualcosa di molto grave nei Balcani se non si renderanno meno permeabili i confini esterni dell’Ue soprattutto per chi proviene dalla Turchia, mentre il Nord Europa dice “basta”.
Angela Merkel ha detto una volta che per far apprezzare ai giovani la libertà di cui gode l’Europa aperta si dovrebbero chiudere le frontiere nazionali per un paio di giorni, e la cancelliera sa bene cosa significhi vivere dietro una Cortina di ferro. Beh, è probabile che ci tocchi fare questo esperimento, in parte proprio per il generosissimo errore di calcolo fatto dalla Merkel nel dichiarare benaccetti in Germania tutti i rifugiati senza prima essersi assicurata che gli altri Paesi europei avrebbero seguito il suo esempio. Se l’esperimento avrà o meno l’effetto desiderato è un’altra questione. Per il momento quello che si può dire con certezza è che se in precedenza l’Europa aveva fama di continente in cui i muri cadevano, oggi è il continente in cui tornano a sorgere.
Traduzione di Emilia Benghi
Sembra che con l'Italicum Matteo Renzi e il suo partiti rischino di perdere, a vantaggio di M5S. Ecco le varie ipotesi sulle quali si ragiona
Il manifesto, 1 dicembre 2015, con postilla
I sondaggi elettorali confermano che, in un probabile ballottaggio, sulla base dell’attuale versione dell’Italicum, Pd e M5S si trovano sostanzialmente alla pari. Tutto ciò contribuisce ad alimentare voci e ipotesi su un possibile, ulteriore ripensamento dell’impianto di questo sistema elettorale. Al centro, l’alternativa tra il premio alla lista, previsto nell’attuale versione della legge, e il ritorno ad un premio assegnato alla coalizione vincente.
Sull’onda dell’euforia per il 40% delle Europee, il premio alla lista è divenuto la pietra angolare di una visione fondata sull’idea di un partito «pigliatutti»; non ci voleva molto a capire la natura estremamente volatile del voto europeo e la fragilità del disegno strategico che veniva incardinato nel nuovo sistema elettorale. Da molti mesi, oramai, con qualche oscillazione, i sondaggi danno stabile il Pd intorno al 31–33% (una percentuale alta, ma fragile, in assenza di un qualche bacino potenziale di voti a cui fare ricorso in caso di ballottaggio); il M5S è solidamente ben oltre il 25%, mentre, a destra, (come aveva mostrato il voto regionale in Liguria o in Umbria), le possibilità di un rapido ricompattamento sono tutt’altro che remote. Una geografia statica, peraltro, quella fotografata oggi dai sondaggi, che non può considerare ancora gli effetti che potrebbero derivare dalla presenza sul mercato elettorale di una nuova formazione di sinistra potenzialmente a doppia cifra.
In questo quadro, lo spettro di un ballottaggio a rischio agita i sogni del Pd renziano, e riemerge così l’ipotesi di una modifica che reintroduca il premio alla coalizione: certo, non mancano coloro che esortano Renzi a «tenere la barra dritta». La tesi che dovrebbe indurre a conservare il premio alla lista si fonda su un argomento: in sede di elezioni politiche, l’elettorato moderato del centro-destra non voterà mai per il M5S o, viceversa, l’elettorato grillino non potrebbe mai votare per un fronte Salvini-Berlusconi. Questa lettura è illusoria, perché ignora il fatto che l’attuale elettorato della destra è tutt’altro che moderato: le quote di elettorato centrista, che avevano scelto Monti nel 2013, sono già transitate nel Pd; altri spezzoni si stanno riciclando, e così hanno fatto e stanno facendo vari notabilati locali. E perché ignora anche altri dati: quelli che mostrano (ad esempio, in Veneto) un’elevata contiguità e mobilità tra il voto alla Lega e quello al M5S. E perché, infine, sembra non considerare quello che si sta rivelando il capolavoro politico di Grillo: riuscire a conservare un posizionamento del suo partito che lo mette in grado tuttora di catalizzare tutti gli umori anti-sistema (con una provenienza equamente distribuita da destra e da sinistra, e dal non-voto, come mostrano le indagini sull’«auto-collocazione» degli elettori del M5S). Nell’uno o nell’altro caso di un possibile ballottaggio, segmenti consistenti di elettorato potranno confluire e sovrapporsi. A ciò si aggiunga che, nelle condizioni attuali, appare probabile un alto tasso di astensione: il che rende ancora più aleatorio ogni calcolo razionale.
Ultimo appello alle minoranze
D’altra parte, per il Pd, il dilemma è serio: tornare al premio di coalizione significa rinnegare tutte le scelte compiute fin qui, ripensare la strategia della terra bruciata alla propria sinistra, tornare a pensarsi solo come una parte di un più largo schieramento di centro-sinistra, accettando l’idea di avere altri interlocutori in quest’area. Certo, con la disinvoltura tattica di Renzi, non si può escludere nulla; ma le scelte sull’Italicum si riveleranno decisive e irreversibili. Restare ancorati al premio alla lista implica una logica per molti versi avventurista: una logica da «rischiatutto» puntando su un ricatto (non si sa quanto credibile) nei confronti di un elettorato di sinistra costretto a scegliere tra Renzi e Grillo (o Salvini).
Non sappiamo se si possono creare condizioni tali da riaprire veramente la partita. Certo è che le scelte sull’Italicum saranno decisive anche per coloro che ritengono ancora possibile una battaglia interna al Pd, per ridefinirne la collocazione. Una sorta di ultimo appello per le minoranze del Pd: rassegnarsi al premio alla lista significherebbe infatti sanzionare definitivamente il ruolo neocentrista e neotrasformista del Pd. Chi spera ancora che il Pd possa restare uno spazio, se non ospitale, quanto meno abitabile, per una qualche posizione di sinistra, potrebbe individuare qui un terreno su cui cercare di far pesare le sue forze residue: non puntando su questioni marginali e assai dubbie, come quella del voto di preferenza, ma riproponendo con forza la questione del premio alla coalizione e mettendo al centro la grave questione democratica che viene posta dal nesso tra la riforma costituzionale che è stata approvata e il sistema elettorale..
Lo spettro dell’Unione
Non mancano gli argomenti: anche coloro che, con ottime ragioni, contestano l’intero impianto di un sistema elettorale fondato sulla logica del premio, possono convenire che un premio alla coalizione vincente, specie dopo un ballottaggio, costituisce comunque un male minore. E soprattutto, si può rispondere con nettezza anche all’unico argomento che può avere una qualche presa, anche nell’elettorato democratico: ossia, che «non si può tornare ai tempi dell’Unione», cioè alle coalizioni ampie e rissose. Per evitare questo pericolo, si può proporre un semplice accorgimento: prevedere che, nel conteggio dei voti validi di una coalizione, siano esclusi i voti delle liste che rimangono sotto-soglia (che può essere fissata anche al 3 o al 4%). Questa clausola può avere effetti significativi: scoraggia la frammentazione «in entrata», mentre i partiti maggiori non avrebbero alcun incentivo ad aggregare una sfilza di micro-liste, ma solo quello di creare un’alleanza politica solida con soggetti di una qualche consistenza.
E vi sono anche considerazioni tattiche, di cui tener conto. Si potrebbero anche creare condizioni tali per cui il famoso coltello dalla parte del manico potrebbe ritrovarsi nella mani di coloro che si oppongono all’Italicum: in caso di una crisi o di una rottura, la minaccia di elezioni anticipate potrebbe anche rivelarsi un’arma spuntata. Si dovrebbe votare, infatti, con il sistema proporzionale residuale, emerso dalla sentenza della Corte costituzionale: e chissà che, da questo maledetto imbroglio, non possa nascere stavolta anche un effetto imprevisto positivo, ovvero il famigerato ritorno al proporzionale. Ma qui si dovrebbe aprire una vera discussione politica, e un confronto serio anche tra gli esperti, che finalmente metta a nudo uno dei tanti falsi idoli che hanno avvelenato l’indefinita transizione italiana, ovvero che la «governabilità» possa essere assicurata solo da un sistema elettorale maggioritario. Ritengo che non sia così e che anzi, nelle condizioni in cui ci troviamo, una sorta di nuovo anno zero per la ricostruzione della democrazia italiana, il ritorno ad un serio sistema proporzionale costituisca un passaggio ineludibile e necessario.
postilla
Non vogliamo essere troppo pessimisti, ma cominciamo a temere che il punto d'approdo (o almeno l'obiettivo strategico) di Renzi è una legge elettorale di un solo articolo: "Sono indette le elezioni. Ha vinto il partito di Matteo Renzi"
Il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2015
Per il New York Times l’intero gruppo dirigente dell’Isis in Libia viene dall’estero, da Siria e Iraq… com’è stato possibile permetterglielo?
«Non mi stupisce: Sirte è strutturata per essere sede di un potere centrale, non per niente è stato l’ultimo bastione di Gheddafi. E ha un alto valore simbolico proprio perché era la capitale reale del Colonnello, la città degli incontri bilaterali, delle strette di mano che contavano. L’Isis, a parte Siria e Iraq, ha almeno altre due grandi aree territoriali nelle sue mani che sono il Sahel, a sud della Libia, e il Sinai. Ricordo che quando facevo il giro delle “sette chiese” come inviato Onu per chiedere risorse per il Sahel, l’unico Paese che manifestò la sua opposizione all’argine francese contro i jihadisti fu l’Egitto governato in quel momento dai Fratelli musulmani».
Quella guerra, nel 2011, fu voluta fortemente anche da Giorgio Napolitano.
«Non so chi l’abbia voluta perché non ero io al potere. So solo che è incomprensibile e incompreso come l’Italia abbia potuto prendere una decisione di quel tipoı.
La consultarono?
«Mai stato consultato né prima né durante né dopo».
Intanto in Siria le bombe russe colpiscono mercati, case di civili… La strategia di Putin è quella giusta?
«No. I bombardamenti possono essere uno strumento provvisorio ma non ricordo una volta in cui siano davvero serviti a portare la pace. E continuo a non comprendere perché si bombardino le città e non i pozzi e le auto-cisterne. Vorrei ricordare che, Russia a parte, sul fronte Nato il 70 per cento dei bombardamenti rimane americano in Siria e Iraq, questo nonostante l’esposizione e l’impegno della Francia».
E il regime di Erdogan in Turchia incassa 3 miliardi di euro dall’Ue per sigillare i confini ai profughi.
«Era l’unica carta in mano agli europei, a cominciare dalla Merkel, per tenere a bada le tensioni interne che possono derivare da un flusso incontrollato di migranti. Una carta, però, giocata in modo spregiudicato. È un errore mettere questo discorso insieme a quello dell’ingresso della Turchia in Europa. Motivare una decisione così seria e importante che prosegue da anni su un’emergenza è sbagliato. Le due cose non vanno messe assieme e si facciano procedere i negoziati secondo le sacre regole dei negoziati stessi».
L’Isis ha bilanci più floridi di molti Paesi arabi.
«La metà di quella ricchezza arriva dal petrolio, il resto da estorsioni, traffico di esseri umani e dall’esercizio di un’autorità statale. Poi ci sono i finanziamenti che passano per fondazioni dei paesi dell’area del Golfo Persico».
Putin, Erdogan, sauditi, Iran, Assad, Hezbollah: chi i nemici e chi gli amici?
«Quando si sbaglia la prima volta, penso alla guerra tra l’Iraq e l’Iran, si continua a sbagliare, errore dopo errore, fino alle guerre a Saddam e Gheddafi. Tutti contro tutti: c’è una vignetta di Kal sull’ultimo numero dell’Economist che rende bene l’idea».
La guerra a Saddam nel 2003. Si racconta di un G8 con un furibondo scontro a cena tra Blair e Putin…
«Putin si alzò dal tavolo e gridò a Blair: “You are not God” (tu non sei dio). Vede, la guerra in Iraq spaccò l’Europa, frantumò tutte le alleanze. Io dovetti rinunciare al secondo mandato alla presidenza della Commissione europea. Ascoltare oggi Blair scusarsi perché quelle maledette armi di distruzione di massa non esistevano lascia un peso enorme».
L’Europa esclusa da Israele per i colloqui di pace. Tel Aviv procederà solo con bilaterali con Regno Unito, Francia e Germania. Italia neppure citata. Siamo irrilevanti?
«Israele pensa non sia importante trattare con l’Italia, è più che essere irrilevanti. Nonostante la nostra natura di Paese del Mediterraneo. È un segno di ingratitudine: tra l’altro le nostre forze armate proteggono i loro confini in Libano. Il discorso così filoisraeliano di Renzi a Gerusalemme nel luglio scorso pensavo che sarebbe servito. Il conflitto israelo-palestinese rimane l’origine e la madre di tutti i conflitti, ma finché al governo di Israele ci sarà Netanyahu la pace è impossibile».
Intanto in Francia crescono i consensi per Marine Le Pen. È più pericolosa lei di suo padre Jean-Marie?
«Sì, perché il padre le elezioni le perdeva. Adesso il Front national al populismo di destra (legge, ordine e xenofobia) unisce quello anticasta di sinistra e per farlo Marine ha ucciso politicamente il padre».
Gli Usa hanno “allertato” i loro concittadini in Italia a stare lontani da Colosseo, Vaticano e Scala di Milano.
«È isteria collettiva, dopo l’11 settembre non abbiamo sconsigliato i viaggi in America. Serve un rafforzamento dell’intelligence, questo sì: ci vorrebbe un’autorità di coordinamento europea e ne avrebbe bisogno proprio la Francia, che si è sempre opposta a esercito e difesa europea comune».
Che effetto le fa la Capitale d’Italia commissariata nell’anno del Giubileo?
«Mi ha scioccato molto. Ma il Giubileo, come l’apertura della Porta Santa a Bangui in Centrafrica mostra, non è un fatto solo romano e va oltre l’esistenza di un sindaco. L’immagine di Roma nel mondo, purtroppo, peggio di così non può essere, non possiamo che risalire».
Per il ministro Padoan la mancata crescita economica e le stime al ribasso sono colpa dell’Isis. È possibile?
«Già alla vigilia della strage di Parigi c’erano segnali di allarme. Mi hanno perciò un poco sorpreso le dichiarazioni del ministro Padoan che, in un certo senso, mettono le mani avanti riguardo a un possibile peggioramento dell’economia. Spero che non abbia notizie ancora più cattive. Io ritengo poco probabile che eventi pur così tragici possano avere conseguenze molto negative sull’economi».
Non ha più rinnovato la tessera del Pd?
«Da tre anni ormai».
Molti militanti l’hanno seguita, pare che l’emorragia di tessere non si fermi.
«Un partito è fatto per dibattere e discutere, il calo delle tessere dipende dal calo politico, non ne è la causa».
Cosa vuol fare da grande, Professore?
«Quello che faccio adesso. Sono fuori dalla politica ma posso permettermi il lusso di tenere contatti in giro per il mondo e parlare ai giovani e ai meno giovani di quello che sta accadendo. La rottamazione non mi ha preoccupato perché se sono stato rottamato può volere dire che ero fatto di ferro. Se fossi stato di legno mi avrebbero o segato o bruciato. Ma mai rottamato».
Ma allora è possibile? E’ possibile che un governo occidentale diserti una nuova guerra, dica no ad aggiungere un intervento armato alla litania di conflitti nei quali siamo presenti militarmente? Matteo Renzi da Hollande a Parigi e Paolo Gentiloni al vertice parlamentare della Nato a Firenze, dicono no alla partecipazione all’ennesima coalizione di volenterosi impegnati più o meno in una nuova guerra di vendetta in Siria che nulla risolverà creando ulteriori stragi, rovine e divisioni, producendo alla fine nuova guerra
La Repubblica, 27 novembre 2015 (m.p.r.)
Roma. Azzerato il vertice di Ferrovie dello Stato. Nel cda decisivo di ieri mattina si è consumato l’atto finale del lungo addio dell’amministratore delegato Michele Mario Elia e del presidente Marcello Messori. Dopo mesi di incertezza e pressione del governo sul vertice del gruppo ferroviario, sono arrivate le dimissioni della maggioranza dei consiglieri del cda. Una mossa che ha costretto, di fatto, anche il resto del consiglio alla resa, dopo le resistenze di Messori e Elia al passo indietro.
Un'intelligente analisi di ciò che si muove sul teatrino della politica italiana, tra destra, "sinistra" e il rampante M5S. Con due commenti in postilla. La Repubblica, 25 novembre 2015
LA FORBICE tra Pd e Movimento 5Stelle si restringe. Come ha evidenziato Ilvo Diamanti, in un eventuale ballottaggio, la vittoria dell’uno o dell’altro dipende dallo spostamento di appena un 2% di elettori. Come è possibile che il partito fondato da Beppe Grillo abbia guadagnato tanti consensi da sfiorare la maggioranza assoluta, e sia considerato una vera alternativa di governo?
L’avanzata grillina dipende tra tre fattori che si intersecano. Il primo riguarda la debolezza dell’offerta politica di destra. Il declino di Berlusconi, unito all’ascesa di un personaggio irruento e tranchant come Salvini, disorientano l’elettorato moderato- conservatore. Di fronte alla ripetitività di slogan vecchi vent’anni da parte del Cavaliere e di dichiarazioni reboanti quanto irrealistiche e velleitarie da parte del leader leghista, gli elettori orientati a destra tenderanno ad astenersi. Non tutti, ovviamente, ma una certa quota rimarrà alla finestra per vedere se si ripresenta una offerta politica degna di interesse ( e del loro voto). Quindi esiste oggi un elettorato fluttuante in cerca di casa. Matteo Renzi ha puntato molto sullo scongelamento del blocco moderato ma ha dimenticato l’ostilità profonda, prodotta da vent’anni di scontri all’arma bianca, che il mondo di destra nutre nei confronti della sinistra. E Renzi è il leader del più grande partito della sinistra italiana, piaccia o non piaccia ai dissidenti e scissionisti vari. Il segretario democrat si è sempre proclamato membro della famiglia socialista e appartenente al mondo della sinistra tanto da portare il partito ad aderire al Pse. Agli occhi di grandissima parte dell’elettorato moderato continua ad essere l’avversario di sempre. La rottamazione, la rottura dei tabù della sinistra storica, un certo adeguamento a idee e proposte di stampo neoconservatore, non bastano a smuovere coloro che si sono attestati da sempre sull’altra sponda.
L’obiettivo strategico di Renzi — attrarre gli elettori del fronte avversario — rischia quindi di infrangersi contro l’indisponibilità a muoversi dei moderati. Anche perché molti di quelli che vengono definiti moderati in realtà non lo sono per nulla: oltre ad essere animati da una avversione radicale nei confronti della sinistra, sono anche attraversati da pulsioni anti- istituzionali e da un sentimento di estraneità e alterità rispetto al sistema. Non altrimenti si spiegherebbe l’impennata di consensi ad un capopopolo come Salvini. Allora è possibile che questo elettorato senta più vicino un partito come i 5Stelle, fuori dagli schemi e contro tutto. E questo è il secondo punto: la capacità del M5S di attrarre consensi da ogni parte, anche da destra.
Ma c’è un terzo aspetto che può costituire il vero salto di qualità del partito di Grillo: propio il fatto che non è più il partito di Grillo. La cancellazione del suo nome dal simbolo può essere semplice cosmesi, ma può anche indicare il passaggio verso una vera e propria istituzionalizzazione, in cui le sorti del partito non dipendono più dal capo bensì emergono da un processo decisionale interno più complesso e articolato, animato da vari leader. Questa trasformazione non è senza costi, però. Dato che lo porterà ad essere più simile ad un partito tradizionale scontenterà il suo elettorato più arrabbiato e antipolitico. Ma nello scontro finale con il Pd anche costoro finiranno per scegliere il “ movimento”. Così come faranno quelli di destra, in odio alla sinistra.
Infine, il M5S gode di un vantaggio inarrivabile rispetto agli avversari su temi che coinvolgono molto i cittadini ( al di là del picco di questi giorni sulla sicurezza, destinato a calare passata l’emozione): l’onestà e l’affidabilità della classe politica. Su questo il M5S non teme confronti: la destra ha uno strascico infinito di guai con la giustizia da non essere nemmeno presa in considerazione, e il Pd ha molti fronti aperti e sta pasticciando troppo ( a partire dal caso De Luca) per ergersi in autorità morale.
L’indisponibilità degli elettori di destra a votare per il Pd nonostante Renzi, pur di attrarli, abbia scontentato una parte suo elettorato tradizionale, e la capacità di un M5S istituzionalizzato di intercettare domande pressanti e ampiamente condivise sulla legalità e l’onestà, rendono lo “ scontro finale” tra Partito democratico e Movimento 5 stelle molto più incerto del passato.
Due commenti all'intelligente (come al solito) contributo di Ignazi. (1) È proprio vero che nei discorsi correnti le etichette prevalgono sulle idee, e le apparenze (o meglio, i camuffamenti) sulla realtà. È proprio giusto parlare di "teatrino della politica", se dove si parla di politica, anche da pulpiti egregi, Matteo Renzi può ancora essere considerato uomo di sinistra. Non si comprende che cosa debba ancora fare per apparire agli elettori di destra come un personaggio affidabile, dopo tutto ciò che ha fatto "di destra". (2) Non stupisce tanto, ahimè, che dallo scenario disegnato da Ignazi manchi del tutto una sinistra "vera". Infatti quella di cui danno conto le cronache (e che si manifesta nel "teatrino") è la sinistra dilaniata tra personalismi, interessi di poltrona, rancori, fedeltà a rassicuranti gusci, o quella incerta, dubbiosa, ambigua che "turbila e non appare".
Oltre a spingere la Francia verso l’instaurazione di uno stato di emergenza che porta alla sospensione dei diritti civili e verso logiche di coinvolgimento degli altri paesi europei in atti di guerra, con il beneplacito formale degli organi della Ue, scatena antichi contrasti, rivalità e regolamenti di conti.
Il governo turco - che ha finora utilizzato la guerra al terrorismo per farla contro i Curdi che si battono contro l'Isis difendendo loro territori che la comunità internazionale continua a negargli, riconquistando città e posizioni che sembravano perse - ha deciso con un atto di guerra vero e proprio di abbattere un aereo russo.
Non si tratta qui di disputare di quanto e se il velivolo russo abbia violato lo spazio aereo turco. Si tratta di fermare una spirale che ci può portare verso il baratro di una guerra generale. La Turchia ha chiesto la convocazione immediata del Consiglio della Nato Nord. Dal canto suo Putin reagisce parlando di crimine e di conseguenze tragiche.
Chiediamo che l’Onu si occupi immediatamente della questione per fermare il crescendo dello scontro e le sue possibili ripercussioni militari su larga scala. L’Unione europea è chiamata direttamente in causa e deve svolgere finalmente un’iniziativa di pacificazione. Altrimenti assisteremo al trionfo contemporaneo delle strategie terroristiche e di guerra secondo una spirale che ben conosciamo e che ha già portato milioni di morti dalla prima guerra del Golfo, passando per la guerra in Afghanistan, in Iraq, in Libia, fino alla tragedia siriana.
Un contributo decisivo deve e può giungere dai popoli di tutto il mondo, dai movimenti per la pace, da parte di tutti coloro che sono contro il terrorismo e la guerra, due aspetti della stessa barbarie.
Il manifesto, 24 novembre 2015
Dopo Parigi, le strade deserte di Bruxelles ci pongono con drammatica evidenza la domanda se la libertà sia un giusto prezzo per la sicurezza.
La Francia ha affrontato la questione con la legge 2015–1501 del 20 novembre, che ha approvato la proroga dello stato di emergenza dichiarato dal governo il 14 novembre, con modifiche e integrazioni («renforçant l’efficacité») della legge 55–385 del 1955 che disciplina lo stato di emergenza.
Per tre mesi si applicano pesanti limitazioni ai diritti e alle libertà, con provvedimenti adottati dalle autorità amministrative e senza intervento del giudice. Fa impressione che in forza di generici richiami all’ordine pubblico e alla sicurezza ministro dell’interno e prefetti possano disporre domicili coatti, arresti domiciliari, accompagnamenti, divieti di contatto con persone individuate, ritiro del passaporto, divieti di circolazione, di assemblea, di riunione, scioglimenti di associazioni (misura che sopravvive alla cessazione dell’emergenza).
Si può dubitare che un arsenale così imponente sia conforme alla Costituzione. Ma era già presente nella originaria legge del 1955, e nel 1985 fu portato al vaglio del Conseil constitutionnel dai parlamentari dell’opposizione, con la legge di proroga dello stato di emergenza dichiarato per la Nuova Caledonia. Si eccepiva la mancanza di un fondamento costituzionale, richiamando la Costituzione solo lo stato d’assedio. Con la decisione 85–187 DC del 25.01.1985 il Conseil diede disco verde con ampia formula.
Oggi si aggiunge la possibilità di perquisizioni a qualunque ora del giorno o della notte in ogni luogo, incluso il domicilio, quando esistono «ragioni serie di pensare che il luogo sia frequentato da persona il cui comportamento costituisce una minaccia per la sicurezza e l’ordine pubblico» (art. 11, come modificato).
Per vedersi invasi, potrebbe bastare un amico di famiglia in contatto epistolare o sui social con persona sospetta. Rimangono esclusi solo i luoghi «affecté à l’exercice» di un mandato parlamentare, o dell’attività professionale di avvocati, magistrati e giornalisti. La perquisizione consente la copia integrale delle memorie di cellulari, computer e apparecchi connessi, anche in remoto.
È una previsione da grande fratello. Ma è improbabile che ne venga rovesciato il giudizio di conformità dato dal Conseil nel 1985, se vi si giungerà.
In apparente controtendenza è la soppressione dei controlli sulla stampa e l’informazione previsti nella legge 55–385.
Ma si cancella uno strumento perché non serve. La voce dei terroristi passa oggi non per i tradizionali mezzi di comunicazione ma per i più sofisticati strumenti tecnologici e del mondo virtuale. E la Francia del dopo Charlie Hebdo ha già adottato sull’informazione la legge 912 del 24 luglio 2015, fortemente restrittiva. Si va dai dispositivi di ascolto, alla vigilanza e chiusura di siti Internet, alla installazione presso i gestori di «scatole nere» che filtrano ogni comunicazione.
Anche qui, senza intervento del giudice.
Una legge volta non solo a combattere il terrorismo, ma a tutelare un ampio spettro di interessi strategici (v. art. 2). Solo per pochi limitati profili il Conseil constitutionnel ne ha dichiarato l’incostituzionalità (dec. 2015–713 DC del 23.07.2015). Mentre sono risuonate dure accuse di spionaggio di massa sul modello «Patriot Act» e NSA, e di radicale incostituzionalità.
Deve far riflettere che invece la legge sull’emergenza passi oggi nel sostanziale silenzio di critiche e dissensi e con ampio favore dell’opinione pubblica. Su tutto vince la domanda di sicurezza.
Un vento analogo soffia in Italia. Nei sondaggi cresce il numero di chi accetterebbe uno scambio tra diritti e sicurezza. È una tendenza comprensibile, ma pericolosa. Tutti affermano di voler mantenere il nostro modello di vita. Ma la garanzia di diritti e libertà è la rete invisibile che rende quel modello possibile e vitale.
Sappiamo che nessuno è a rischio zero.
Ma dobbiamo dire con forza che in Italia una legge come quella francese sull’emergenza sarebbe incostituzionale. Ne verrebbero violate la riserva di legge e la riserva di giurisdizione. Garanzie essenziali per cui i poteri del governo e delle autorità amministrative rimangono in ogni caso precisamente limitati, sia nel formulare le regole, sia nell’applicarle.
Deve essere l’assemblea elettiva a consentire alle limitazioni di libertà e diritti; dev’essere il giudice – autonomo, indipendente, imparziale — a valutare i concreti provvedimenti limitativi.
Questo discrimine costituzionale tra legalità e arbitrio va mantenuto. Si può – e dunque si deve — rispettarlo senza affatto sminuire l’efficacia dell’intelligence.
La storia del nostro paese ha già conosciuto tensioni su diritti e libertà. Per le leggi sul terrorismo interno, sulle misure di prevenzione, sulla violenza negli stadi. La Corte costituzionale ha complessivamente assolto la legislazione, e si può dire che ha tenuto ferma la barra del timone. Dobbiamo rimanere in rotta.
Per tre mesi la Francia è un paese sotto tutela. Un paese di sospettati. Poi si vedrà. In Assemblea Nazionale è stato suggerito che il régime d’exception diventi un droit commun: un diritto ordinario dell’emergenza, perché la minaccia durerà oltre il termine della proroga concessa. È molto probabile.
Ma non dimentichiamo che può essere facile assuefarsi a un regime di semilibertà.
Analogie non tanto paradossali. Servono almeno a ricordare a noi stessi quanti sepolcri imbiancati popolino i media e i palazzi che forgiano il pensiero comune.
Il Fatto Quotidiano, 22 novembre 2015
Magari fa comodo dimenticarlo, ma in Italia ètuttora viva e vegeta un’organizzazione terroristica che per un secolo ha fattomigliaia di morti ammazzati, che 13 e 12 anni fa mise l’Italia a ferro e afuoco con stragi mai viste in Europa e nel mondo (salvo la Colombia e il Libano)e che da vent’anni non spara più perché ha avuto quasi tutto ciò che chiedeva:la revoca di centinaia di 41-bis per i detenuti e l’ammorbidimento progressivodel carcere duro per chi ci è rimasto, una legge più blanda sui pentiti,l’omertà legalizzata con la sostanziale depenalizzazione della falsatestimonianza, la chiusura delle supercarceri di Pianosa e Asinara, ladelegittimazione scientifica di magistrati e pentiti, continui limiti alleintercettazioni e alle indagini, grandi opere da subappaltare agli amici degliamici, mano libera sugli affari da Sud a Nord, condoni fiscali per ripulire isoldi sporchi direttamente con lo Stato, addirittura (dal 1999 al 2001)l’abolizione dell’ergastolo, leggi col buco su voto di scambio eautoriciclaggio, ora persino l’innalzamento del limite ai pagamenti in contantida mille a 3 mila euro (così da poter spendere i proventi delle estorsionispicciole senza dare nell’occhio).
Il manifesto, 23 novembre 2014
Per questo, la Fiom in piazza del Popolo e le associazioni italiane dei musulmani in piazza s. Apostoli, sono state innanzitutto una grande prova di coraggio. Coraggiosi e fieri, le donne e gli uomini musulmani insieme ai figli a dire «no al cancro terrorista» (a Roma come a Milano). E coraggiosi le donne e gli uomini del sindacato, tanto più che molte persone, come quelle che di solito si organizzano con le famiglie per le manifestazioni nazionali dei metalmeccanici, questa volta sono rimaste a casa. Perché «è normale avere paura», come ha detto il leader sindacale Maurizio Landini.
Perché è normale chiudersi in casa e rinunciare alla più elementare forma di partecipazione democratica proprio quando, guerra e crisi economica, si danno la mano per cambiare le nostre società fin nei loro fondamenti, a cominciare dalle costituzioni del Dopoguerra.
Succede oggi nella Francia ferita dal terrorismo, come potrebbe accadere domani in Europa se a farsi sentire sarà solo la voce delle bombe, e se la risposta sarà la chiusura delle frontiere. In un colpo solo torneremmo indietro d’un secolo, ai tempi dei nazionalismi, degli scontri tra gli imperi coloniali. E del resto, scendere in piazza per la pace e il lavoro, per la democrazia e la tolleranza ci spiega proprio questo: che la trincea tra progresso e barbarie è tornata ad essere la prima linea del confronto e del conflitto. In un momento storico che vede la massima estensione delle guerre e, insieme, la più grande concentrazione del potere finanziario globale.
Dal palco di piazza del Popolo hanno parlato anche due sindacaliste della Cgt, il maggior sindacato francese, allarmate per un paese trascinato «in una guerra che moltiplica morte e distruzione, impoverisce le popolazioni, alimenta il terrorismo». Hollande «sbaglia strada e la Francia — hanno ricordato — è il terzo produttore di armi dopo la Russia e la Cina».
Ieri è rientrata in Italia la salma di Valeria Solesin, la ragazza uccisa dai kalachnikov dei terroristi dell’Isis. La sua vita di cittadina europea, la sua esperienza di studio e di impegno sociale è la testimonianza forte di una generazione che rappresenta il futuro possibile. E in quel dialogo ravvicinato tra i lavoratori e i musulmani, in quelle due piazze pacifiche e partecipate, insieme alla drammaticità del momento c’erano anche gli anticorpi per resistere alla ferocia del terrorismo e al cinismo di chi, mentre si nutre di armi e di petrolio, sventola la bandiera della libertà.
tentato furto della tua automobilole puoi uccidere. In Italia. Il Fatto quotidiano, 14 novembre 2015
Sventurato il popolo che ha bisogno di eroi” recita un verso, abusato, di Bertold Brecht. L’ultimo eroe della Lega di Salvini si chiama Antonio Monella. Nel 2006 ha sparato e ucciso un ragazzo albanese di 19 anni che voleva rubargli il SUV. Era stato condannato a 6 anni e 2 mesi di carcere per omicidio volontario. Ieri la figura eroica di Monella è stata celebrata dalle istituzioni nazionali: il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, gli ha concesso la grazia su parere positivo del ministero della Giustizia, guidato dal dem Andrea Orlando. Una grazia parziale: la pe- na di Monella viene decurtata di due anni. Poiché gliene restano da scon- tare meno di tre, ora può uscire di galera e accedere ai servizi sociali o agli arresti domiciliari. L’ultima parola spetterà comunque al tribunale di Sorveglianza.
La sua vicenda, per la Lega, si è trasformata in un trionfo politico. A fine agosto, nel pieno della bagarre che ha preceduto il voto sulla riforma Costituzionale, il senatore del Carroccio Roberto Calderoli aveva proposto di rinunciare ai suoi 600 mila emendamenti proprio in cambio della grazia. La valanga di proposte di modifica che poteva rallentare il percorso delle riforme è poi effettivamente scomparsa. La pratica Monella invece si è sbloccata pochi mesi più tardi, dopo un’attesa durata oltre un anno (la richiesta era stata inoltrata al momento dell- carcerazione). Il regista dell’operazione, oltre allo stesso Calderoli, è il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri (che ieri infatti ha parlato di “atto giusto ed equilibrato”). Ma pure Salvini in questi mesi si è speso in un lungo – evidentemente fruttuoso – pressing sul ministro della Giustizia Orlando.
L’8 settembre il segretario leghista si vantava di aver ottenuto la stretta di mano decisiva: “Il ministro mi ha assicurato che entro settembre manderà avanti la richiesta con parere favorevole”.
L’ISTRUTTORIA del guardasigilli è arrivata all’attenzione di Mattarella non prima di novembre. Ieri il presidente ha sciolto le riserve. Dal Quirinale spiegano la decisione così: Monella è stato un detenuto impeccabile, ha dimostrato di essersi ravveduto, prima dellacondanna era incensurato. Ha pesato, soprattutto, il parere positivo delministero della Giustizia. Lo stesso Orlando che era stato criticato a lungodalla Lega per aver rallentato il percorso della grazia. Inutile, ieri, provarea chiedergli per quale motivo abbia cambiato idea: ogni tentativo – con lui econ il suo staff – è stato infruttuoso. La scelta del Quirinale, su un caso così delicato econtroverso, potrebbe aver creato un precedente pericoloso. La propagandaleghista sembrava non aspettare altro.
Calderoli si è spinto più in là: “Si è stabilito unprincipio – ha detto al Fatto – e adesso bisogna cancellare il reato di eccessodi legittima difesa. Il senso di questa decisione mi sembra chiaro: se entri a casa mia per rubare, ho il diritto diproteggermi”. E anche di uccidere.
D
Resta da chiedersi perché mai il Presidente del Portogallo si sia infilato in una simile mission impossibile, essendo i numeri già chiari in partenza. Certamente per dimostrarsi il più solerte – del resto lo aveva apertamente dichiarato – nei confronti dei desiderata dei mercati finanziari e delle elite che attualmente comandano nella Unione europea. Ma forse questa spiegazione da sola non basta. In realtà Cavaco Silva sperava che i socialisti ci ripensassero. Che cioè retrocedessero dall’idea di costruire un’alleanza di governo che le altre tre forze della sinistra. Invece l’accordo, messo nero su bianco ed estremamente articolato, ha retto. Ed ha anche ricevuto l’assenso di dirigenti del Partito socialista europeo.
E questo è certamente un elemento di novità nel quadro continentale. Non dimentichiamo che la formazione di punta della socialdemocrazia europea, la germanica Spd, pur avendo avuto a suo tempo i numeri per costituire un governo alleandosi con le formazioni alla propria sinistra, non lo ha mai fatto, preferendo in anticipo la Grosse Koalition con il partito di Angela Merkel. Né si può dire che i socialisti di Hollande abbiano dato grande prova di sé in termini di politiche alternative al neoliberismo da quando si sono insediati all’Eliseo.
La vicenda portoghese diventa quindi estremamente interessante anche per valutare se nella socialdemocrazia e tra i socialisti europei si sta aprendo un nuovo varco, una prima rottura nel monolitismo filo neoliberista, capace di aprire almeno una seria discussione nelle loro fila, oppure se si tratta di un episodio isolato, che magari qualcuno spera finisca male per proseguire imperterrito nelle politiche centriste.
Dopo il voto del Parlamento, il Presidente portoghese potrebbe in teoria dare vita ad un esecutivo tecnico che cerchi di guadagnare tempo, cioè i sei mesi previsti dalla Costituzione lusitana, perché sia possibile convocare nuove elezioni. Ma non appare la soluzione più probabile, poiché è molto dubbio che le destre ne trarrebbero vantaggio tale da riconquistare la maggioranza assoluta.
Fatti i necessari passaggi, Cavaco Silva dovrebbe quindi affidare l’incarico per il nuovo governo ad Antonio Costa, leader dei socialisti portoghesi, forte dell’appoggio delle altre forze della sinistra. “Il nostro obiettivo è chiudere con l’austerità rimanendo nel’euro”, ha dichiarato l’esponente socialista. L’analogia con l’impostazione politica e programmatica di Syriza su questo punto è evidente. Entrambi sono per un cambiamento radicale delle politiche della Ue, senza scegliere la strada della fuoriuscita dall’euro, che del resto è quella che il ministro delle finanze tedesco, Schauble aveva indicato alla Grecia. La famosa Grexit.
Un programma come quello stilato dalle sinistre portoghesi, che sul terreno sociale è l’esatto contrario di quello imposto dalla Troika in cambio degli “aiuti” forniti - tra i molti punti si può ricordare l’innalzamento graduale dello stipendio minimo, il ripristino della contrattazione collettiva, lo scongelamento dell’adeguamento delle pensioni, il ristabilimento delle festività abolite – e che avrebbe la forza di aprire un nuovo fronte di lotta contro l’austerità in un altro paese del Sud dell’Europa. Questo aiuterebbe sia la Grecia, nel suo tentativo di resistere alle misure più odiose contenute nel ricatto che ha dovuto subire, sia le sinistre spagnole che il 20 dicembre prossimo saranno chiamate a una decisiva prova elettorale. Il tutto rafforzerebbe la possibilità di imporre un cambiamento nelle politiche economiche, sociali e istituzionali della intera Unione Europea.
Mentre in Portogallo si apre questa concreta possibilità, in Gran Bretagna i conservatori guidati da David Cameron rilanciano la proposta di un Referendum sulla adesione alla Ue, previsto nella seconda metà dell’anno prossimo. Lo fanno con una lettera a Donald Tusk, Presidente del Consiglio della Ue, in cui formulano quattro richieste cui condizionare le scelte del Regno Unito per quanto riguarda la sua permanenza nella Ue. C’è chi considera questa di Cameron una mossa da spericolato giocatore. Spara ad alzo zero per strappare un accordo comunque vantaggioso per il suo paese. Cameron chiede la facoltà di rinuncia (opt-out) alla clausola dei Trattati su una Unione sempre più stretta; invoca tutele per il mercato interno di chi è fuori dall’Eurozona (a principale beneficio della sterlina, ovviamente); insiste su un maggiore ruolo dei parlamenti nazionali; pretende la sospensione per quattro anni dai benefici del welfare per gli immigrati extracomunitari. Misura, quest’ultima, quanto mai odiosa.
Come si vede i pericoli di implosione dell’Europa e di allargamento dell’antieuropeismo non derivano affatto dalle sinistre portoghesi, o di altri paesi, che vogliono combattere l’austerità, ma proprio dai paladini di quest’ultima, fra i quali militano i conservatori inglesi.
La Repubblica, 11 novembre 2015, con postilla
Araya forse si salvò per la seconda volta dalla morte quando, il 22 marzo 1976, suo fratello Patrick - scambiato per lui, assicura - fu fatto scomparire. Non se ne seppe più nulla. A sostegno della sua teoria, ricorda che uccisero Homero Arce, segretario personale di Pablo Neruda, nel 1977. «Tutti i collaboratori furono fatti sparire. Io sono l’unico rimasto vivo. Vivevo nascosto in casa di amici. Nessuno mi dava lavoro, finché nel 1977 cominciai a fare il tassista».
La dittatura finì nel 1990. Si mantenne in contatto con Matilde Urrutia, la terza moglie di Neruda, morta nel 1985. «Non volle mai parlare dell’omicidio. Ho smesso di vederla per questo. Siamo diventati nemici. Ho bussato a tante porte. Anche a quella del presidente Eduardo Lagos. Nessuno mi ha dato ascolto. Nè i politici, né i media». Finché, nel 2011, un giornalista della rivista messicana Proceso non pubblicò la sua storia. Allora, il partito comunista e Rodolfo Reyes, nipote di Neruda, presentarono una denuncia in base alla sua testimonianza.
Araya è nato il 29 aprile del 1946. «Nel 1972, quando Neruda torna in Cile per aiutare Allende nel caos che sta attraversando il paese, il partito Unidad Popular mi assegna a lui. Divento la sua guardia del corpo, il suo segretario e il suo autista. Ho vissuto con lui nella casa di Isla Negra. Neruda aveva una flebite alla gamba destra e zoppicava, a volte. Era in terapia per un cancro alla prostata, ma non era agonizzante. Era un uomo che pesava più di cento chili, robusto, che amava la buona tavola e le feste. L’11 settembre 1973, quando Pinochet mise in atto il colpo di Stato, ci troviamo a Isla Negra. Rimaniamo senza telefono. Il giorno dopo, ci mettono davanti una nave da guerra con i cannoni. Il giorno 14, arrivano i militari e perquisiscono la casa. Neruda parla con il suo medico, il dottor Roberto Vargas Salazar, che gli dice che il 19 settembre, presso la Clinica Santa Maria, si sarebbe liberata la stanza 406».
«Il 19 lasciamo Isla Negra in macchina e ci rechiamo a Santiago. Arriviamo verso le sei del pomeriggio. Non lasciammo mai Neruda da solo. Rimasi tutti i giorni lì a dormire. Domenica 23 Neruda mi dice di andare con Matilde a Isla Negra per prendere i bagagli. Stiamo per tornare quando chiede che dicano a Matilde di recarsi di corsa in clinica. Quando arriviamo, vedo che Neruda è rosso in viso. “Che succede?”, gli chiedo. “Mi hanno fatto un’iniezione sulla pancia e mi sento bruciare dentro”, mi rispose. In quel momento, entra un medico e mi dice: “Lei, che è l’autista, vada a comprare una confezione di Urogotan”. Non sapevo che cosa fosse, solo dopo ho saputo che è un farmaco per la gotta».
Un'analisi preoccupata della destra di Salvini e Meloni. Ma una moderata in Italia c'è: è il renzismo, e il suo partito.
La Repubblica, 11 novembre 2015
OLLEVA in realtà molti problemi la discesa in campo ufficiale del centrodestra post-berlusconiano: questo ha rappresentato la manifestazione di Bologna, pur con la residuale presenza dell’ex Cavaliere, e su questo occorre soffermarsi con attenzione. Per quel che ci dice della destra italiana e per le questioni che pone, o dovrebbe porre, ad un centrosinistra che appare ormai inafferrabile. Se così non fosse, e se si trattasse solo di una vicenda nostra, non ci dovremmo preoccupare più del dovuto per quel che si è visto domenica. Ci potremmo sin consolare per la sostanziale “mancanza di egemonia” di quella piazza, per la sua incapacità di rappresentare davvero una parte ampia del Paese. In realtà la speranza che possa emergere in Italia una “destra normale” è svanita da tempo e le ragioni non affondano solo nella storia del nostro Paese.
Lungi dal rallegrarsi per le autostrade che il “centrodestra di Bologna” le spalancherebbe, come qualcuno ha suggerito, il centrosinistra dovrebbe considerare con urgenza ancor maggiore — e con un senso del dramma ancor più acuto — le incertezze e l’impasse di cui sembra da tempo prigioniero. Quasi paralizzato nel suo frenetico eludere alcuni nodi di fondo o nel pensare che la partita principale, la vera “resa dei conti”, si svolga nel proprio campo e nelle sue immediate vicinanze. Anche per questo lo stesso dibattito sul profilo della sinistra, assolutamente fondamentale, appare oggi sterile e privo di sbocchi, nella divaricazione fra chi lo considera irrilevante — se non dannoso — e chi si attarda su formule malamente invecchiate. In questo scenario inoltre appaiono largamente assenti le questioni poste dalla crisi internazionale del 2008 e dalla sua onda lunga. Davvero dopo di essa e dopo le trasformazioni globali che sono intervenute la “ripresa” riproporrà i precedenti modi di vivere e di produrre? Davvero potremo ritornare a modelli noti? A terre incognite siamo in realtà giunti ed esse esigono scelte inedite e lungimiranti dei Parlamenti e dei cittadini.
Diventano ancor più decisive in questo quadro alcune bussole fondamentali della sinistra, a partire dall’equità sociale: dovrebbe essere un faro splendente, dopo i marosi che abbiamo attraversato, eppure nel dibattito politico non sembra avere la centralità necessaria. Si consideri anche il nodo delle compatibilità economiche: qual è il confine fra la necessità di ridare fiducia all’economia e ai soggetti sociali e il ritorno all’irresponsabilità degli anni berlusconiani? Terre incognite, davvero, e non è possibile inoltrarsi in esse senza quel rinnovamento della politica che era stato alla base della “spinta propulsiva” del Pd di Renzi e di cui però — difficile negarlo — non si vedono proprio le tracce. A due anni da quella proposta e da quell’impegno il panorama è sotto gli occhi di tutti: sia per quel che riguarda le modalità generali dell’agire politico sia per quel che riguarda il modo di essere del Pd, quasi abbandonato alle proprie derive. Le macerie del partito romano non hanno origini recenti: ed è silente su questi temi la minoranza interna, occupata in frantumazioni sempre nuove (e sempre identiche a se stesse) e con rilevanti responsabilità per il passato. Terre incognite e al tempo stesso avvolte da presagi sempre più preoccupanti: c’è solo da sperare che la consapevolezza del dramma inizi ad affacciarsi anche nei più convinti araldi dell’ottimismo.
La Repubblica, 10 novembre 2015 (m.p.r.)
Mancavano l’accusa di “doping di Stato” e la richiesta di cacciare la Russia dal paradiso a cinque cerchi per riportare le lancette della nuova Guerra Fredda ancora più indietro nel tempo. Agli anni delle virili discobole, delle nuotatrici artefatte della Ddr e del commissario politico del Kbg al seguito delle squadre.
IHuffington Post, 7 novembre 2015
IL DOCUMENTO DI “SINISTRA ITALIANA”
1. Noi ci siamo, lanciamo la sfida
Riteniamo non solo necessario ma non più procrastinabile avviare ORA il processo costituente di un soggetto politico di sinistra innovativo, unitario, plurale, inclusivo, aperto alle energie e ai conflitti dei movimenti dei lavoratori e delle lavoratrici, dei movimenti sociali, dell’ambientalismo, dei movimenti delle donne, dei diritti civili, della cittadinanza attiva, del cattolicesimo sociale.
Un soggetto politico in grado di lanciare in modo autorevole e credibile la propria sfida al governo Renzi e a un PD ridotto sempre più chiaramente a "partito personale del leader", in rappresentanza del variegato universo del lavoro subordinato e autonomo, degli strati sociali che più soffrono il peso della crisi, dei loro diritti negati e delle loro domande inascoltate, orientato a valorizzare la funzione dei governi territoriali e dei corpi intermedi. Dobbiamo rispondere in modo adeguato - con la forza, il livello di unità e la chiarezza necessarie - alla domanda sempre più preoccupata di quel popolo di democratici e della sinistra che non si rassegna alla manomissione del nostro assetto democraticocostituzionale, alla liquidazione dei diritti del lavoro e alla cancellazione del residuo welfare.
L'obbiettivo è lavorare fin d’ORA, in un contesto di dimensione europea contro le politiche neoliberiste, all’elaborazione di un programma comune con cui candidarsi alle prossime elezioni politiche alla guida del Paese, con una proposta politica autonoma e in competizione con tutti gli altri poli politici presenti (la destra, il M5S e il PD), nella consapevolezza che in Italia la stagione del centro-sinistra è finita. In Europa è evidente la crisi profonda delle tradizionali famiglie socialiste.
Ogni giorno che passa aumenta il disagio e il disastro nel Paese. Renzi ha declinato il tema della vocazione maggioritaria come politica dell'uomo solo al comando, alibi per un partito trasformista pigliatutto in realtà dominato dall'agenda liberista dell'Eurozona. Noi vogliamo al contrario costruire una sinistra in grado di animare un ampio movimento di partecipazione popolare e di realizzare alleanze sociali e politiche che mettano radicalmente in discussione le “ricette” nazionali ed europee che hanno caratterizzato il governo della crisi da parte di Popolari e Socialisti. Sappiamo perfettamente che non è sufficiente unire quel che c’è a sinistra del Partito Democratico, o autoproclamarsi alternativi, per costruire un progetto all'altezza della sfida, davvero in grado di cambiare la vita delle persone. Ma siamo altrettanto convinte/i che senza questa unità il processo nascerebbe parziale, o non nascerebbe affatto. Per questo noi questa sfida la lanciamo oggi. Insieme.
2. Definzioni del soggetto
Il Soggetto politico che vogliamo sarà: democratico, sia nel suo funzionamento interno (una testa un voto regola guida, strumenti e momenti di partecipazione diretta e online, pratiche di co-decisione tra rappresentanti istituzionali e cittadini, costruzione dal basso del programma politico) sia perché deve essere il punto di riferimento e di azione di tutte/i i democratici italiani di tutte e tutti, perché deve essere il luogo in cui tutte/i coloro che si contrappongono alle politiche neoliberiste, alla distruzione dell’ambiente e dei beni comuni, alla svalutazione del lavoro, alla crescente xenofobia, alle guerre, all’attacco alla democrazia possono ritrovarsi e organizzarsi in un corpo collettivo capace di superare antiche divisioni nell’apertura e nel coinvolgimento delle straordinarie risorse fuori dal circuito tradizionale della politica. Alternativo e autonomo rispetto alle culture politiche prevalenti d’impronta neoliberista che ci condannano al declino sociale e culturale, di cui oggi il PD tende ad assumere il ruolo di principale propulsore e diffusore. Innovativo sia nelle forme sia per la rottura con il quadro politico precedente, così come sta avvenendo in molti paesi europei. Differente dal sistema politico corrotto e subalterno di cui siamo avversari. Europeo in quanto parte di una sinistra europea dichiaratamente antiliberista, che, con crescente forza e nuove forme, sta lottando per cambiare un quadro europeo insostenibile.
3. L'anno che verra' - il 2016
Il 2016 ci presenta passaggi politici di grande importanza: le amministrative che coinvolgono le principali grandi città, il referendum sullo stravolgimento della Costituzione e la possibile campagna referendaria contro le leggi del governo Renzi.
In coerenza con il nostro obbiettivo principale per la scadenza delle amministrative vogliamo lavorare alla rinascita sociale, economica e morale del territorio, valutando in comune ovunque la possibilità di individuare candidati, di costruire e di sostenere liste nuove e partecipate in grado di raccogliere le migliori esperienze civiche e dal basso e di rappresentare una forte proposta di governo locale in esplicita discontinuità con le politiche dell’attuale esecutivo. Fondamentale è la costruzione di una forte campagna per il NO nel referendum sulla manomissione della Costituzione attuata dal governo Renzi e il sostegno alle campagna referendarie in via di definizione contro le leggi approvate in questi 2 anni.
4. Quindi...
Al fine di avviare il processo Costituente di questo soggetto politico, convochiamo per il XX xx dicembre 2015 una assemblea nazionale aperta a tutti gli uomini e le donne interessati a costruire questo progetto politico. Da lì parte la sfida che ci assumiamo e li definiremo la nostra carta dei valori. L'assemblea darà avvio alla Carovana dell'Alternativa, individuando le forme di partecipazione al progetto politico. Si tratta di definire il nostro programma, le nostre campagne e la nostra proposta politica in un cammino partecipato e dal basso che con assemblee popolari e momenti di studio e approfondimento coinvolga movimenti, associazioni, gruppi formali e informali unendo competenze individuali e collettive.
Entro l’autunno del 2016 ci ritroveremo per concludere questa prima fase del processo e dare vita al soggetto politico della sinistra.
LETTERA DI NADIA URBINATI
La formazione di un gruppo parlamentare della sinistra alla Camera e al Senato, che il documento di Carlo Galli esplicita nelle motivazioni e nelle ragioni, è una scelta necessaria anche se non facile e rischiosa. Non è facile perchè la sinistra che la promuove proviene da una tradizione che è ostile al frazionismo e allo scissionismo. E’ tuttavia necessaria, perchè questo Pd rappresenta un problema, non solo per la sinistra ma anche per il pluralismo politico, a causa della sua esplicita vocazione personalistica e plebiscitaria e dell’uso a dir poco cinico del compromesso politico – nel documento si parla di togliattismo senza idealità.
Certo, questa è anche una scelta rischiosa. Vi è il rischio che si tratti di una scelta tardiva (e sotto molti aspetti lo è) e soprattutto che resti una formazione solo parlamentare, senza la capacità di radicarsi nel paese, di diventare cioè un partito. Questi sono due rischi che nessuno può ragionevolmente sottovalutare perchè la sinistra parlamentare non ha una leadership fuori dal Parlamento. Tuttavia, l’agire politico democratico è naturalmente associato al rischio, al fallibilismo, al coraggio di fare scelte; e proprio per questo è aperta negli esiti e nelle possibilità. Occorre osare e lanciare una sfida da sinistra, con l’obiettivo di guadagnare ad essa consenso e autorevolezza in corso d’opera (le forze si acquistano camminando), due condizioni che non possono che far bene alla politica (e allo stesso Pd).
La critica sottesa a questa vostra scelta, come si evince molto chiaramente dal documento di Galli, è naturalmente rivolta al Pd, per quel che sta diventando o che non vuole più cercare di essere. Nonostante gli sforzi di intellettuali rappresentativi che hanno dato volto alla sinistra di ieri, associare questo Pd al “novello Principe” è anacronistico, a meno di non adattare il progetto gramsciano ad ogni formazione partitica che aspiri e rierca a dominare la società con qualunque metodo: tramite un partito cioè o per mezzo di un plebiscito dell’audience. Oltre a ciò, il valore del processo democratico sta nella sua capacità di regolare il conflitto politico consentendo un’aperta competizione per il governo del paese. Fino a quando chi perde un’elezione ha la forza di far sentire a chi vince la sua presenza e la possibilità di un’alternanza c’è vitalità politica e controllo democratico.
Vi auguro buon lavoro e, senza retorica, buona fortuna.
Il manifesto, 7 novembre 2015
Movimenti. Due giorni di dibattito a Roma tra comitati, militanti ed esperti, anche internazionali Per delineare le alternative di gestione dei beni comuni e opporsi alle privatizzazioni
<Appena tre giorni fa, il Tar del Lazio ha dato torto al sindaco di Cassino che aveva ordinato di riallacciare l’acqua a un cittadino moroso, accogliendo un ricorso dell’Acea. I giudici amministrativi hanno stabilito che «il sindaco non può intervenire con un’ordinanza» perché «in questo caso si realizza uno sviamento di potere, che vede il Comune estraneo al rapporto contrattuale gestore-utente» e quindi non può impedire «al medesimo gestore di azionare i rimedi di legge tesi a interrompere la somministrazione di acqua nei confronti di utenti non in regola con il pagamento della tariffa, e ciò a prescindere dall’imputabilità di siffatto inadempimento a ragioni di ordine sociale». Si tratta di un precedente significativo, che testimonia quanto sia importante non lasciare nelle mani degli amministratori (e dunque dei giudici amministrativi) la patata bollente delle sofferenze sociali, e l’importanza di avere leggi chiare al proposito. Una di queste (ne abbiamo parlato a più riprese sul manifesto) è quella approvata dalla Regione Sicilia, che prevede il minimo garantito di 50 litri giornalieri a testa, che per l’Oms sono «il quantitativo minimo per vivere una vita dignitosa». Basterebbe, se applicata sull’intero territorio nazionale, a evitare che le persone in difficoltà possano trovarsi da un giorno all’altro con i rubinetti a secco.
Quello di Cassino è solo uno degli effetti collaterali, non diretti, della mancata applicazione del referendum che ha detto no alla privatizzazione dei servizi idrici nel nostro Paese. Fosse stato realmente applicato, anche il costo del servizio e la gestione dei distacchi sarebbe stata diversa. In realtà, in questo caso sarebbe bastato che l’Ato5 (cui fa riferimento Cassino) avesse istituito il Fondo per le persone indigenti previsto dalla legge Galli e finanziato con i proventi delle bollette, cosa che non è mai accaduta. Di Cassino e delle vicende messinesi (e pure Gela, in questi giorni pure rimasta a secco), delle mancate ripubblicizzazioni e di come difendere i diritti e i servizi essenziali in questa stagione di «privato è bello», ma pure di come immaginare delle alternative realizzabili alle forme di governo dei beni comuni si parlerà, oggi e domani a Roma, nell’Agorà organizzata dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua al coworking Millepiani a Garbatella. Il movimento per i beni comuni si confronterà con ospiti internazionali come l’europarlamentare irlandese Lynn Boylan e l’ex presidente della società Eau de Paris (tornata in mani interamente pubbliche) Anne Le Strat, con giuristi, ricercatori, sindaci e attivisti (tra i partecipanti, padre Alex Zanotelli e il segretario della Fiom Maurizio Landini).
«Immaginiamo questo incontro come un passaggio utile a focalizzare le tematiche e la definizione del diritto all’acqua e la difesa dei beni comuni mediante una loro gestione diretta e partecipativa; a capire dove i beni comuni, naturali ed immateriali, costruiscono una connessione con un nuovo welfare; ad affermare la necessaria fuoriuscita dalla finanziarizzazione dell’economia e della società; ad intendere un sistema naturale in maniera olistica, di cui siamo parte e che va tutelato, trovandoci di fronte ad una crisi ambientale senza precedenti», scrivono gli organizzatori.
Più difficile a farsi che a dirsi, se è vero che a quattro anni dal referendum le ripubblicizzazioni si contano sulla punta delle dita. Dov’è accaduto, come in Sicilia, la battaglia è appena cominciata e gli esiti non sono scontati, come dimostra la vicenda di Messina. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Claudio De Vincenzi ne ha infatti approfittato per sostenere la necessità di «cambiare musica sulla gestione del servizio idrico» e il Forum gli ha ricordato che è stata proprio la gestione di Siciliaque (spa al 75 per cento nelle mani dei francesi di Veolia) a provocare questa situazione e a dimostrare il fallimento delle privatizzazioni.
Il manifesto, 5 novembre 2015
Davanti ad un notaio s’è certificata la fine di un’esperienza politica, senza che ne venisse coinvolta l’istituzione rappresentativa. Nulla di illegittimo può essere rilevato. Il caso di auto-scioglimento del consiglio per dimissioni della maggioranza dei consiglieri rientra tra quelli previsti dal testo unico sugli enti locali (art. 141). Così come è indicata la possibilità di revocare le dimissioni presentate dal sindaco entro il termine di 20 giorni (art. 53).
Dunque, entrambi gli atti che hanno caratterizzato la vicenda romana sono stati possibili ai sensi di legge. Eppure, per via legale, si è prodotto un vulnus al sistema della rappresentanza democratica.
Non aver coinvolto il consiglio comunale, non aver espresso il proprio dissenso in quella sede, assumendosi — ciascun consigliere — la responsabilità politica della presentazione di una mozione motivata di sfiducia, come indicato sempre dalla stessa legge (art. 52), appare una scelta significativa della concezione di democrazia che ormai domina. Non è solo il caso di Roma, bensì un modo di operare che rivela una cultura politica del tutto insofferente al ruolo delle istituzioni. Una politica che si fa altrove, all’esterno dei palazzi della politica, dentro le stanze chiuse dei potenti.
Basta ripercorrere le più rilevanti vicende degli ultimi mesi e ci si avvede come tutti i passaggi più importanti si siano consumati fuori da ogni regola istituzionale e non nelle sedi proprie. Anzitutto il cambio di governo, deciso dalla direzione di un partito, senza alcun coinvolgimento parlamentare.
Ma anche l’accordo per la modifica della costituzione e sulla legge elettorale, prima concordato in un incontro tra due leader (Berlusconi e Renzi) svolto in un luogo riservato senza alcuna pubblicità e trasparenza, poi — a seguito delle convulse e note vicende — rinegoziato tra pochi esponenti di un unico partito e con l’aiuto di una drappello di senatori senza partito.
I riflessi di questo modo di procedere hanno portato ad un sostanziale svuotamento dei luoghi della rappresentanza.
Si pensi al (non) dibattito parlamentare tanto sulla legge elettorale quanto sulla riforma costituzionale: s’è fatto di tutto per evitare il confronto nel merito. In Parlamento, venute meno le condizioni per una discussione sulle diverse visioni di democrazia che potevano portare a legittimare le singole proposte, ci si è limitati a interpretare il regolamento e ad utilizzarlo nel modo più disinvolto (a volte ben oltre il possibile) al solo fine di conseguire il risultato (le forze di maggioranza) ovvero limitandosi ad urlare alla luna (le forze di opposizione).
Così abbiamo assistito ad un ben triste spettacolo: rimozioni in massa di parlamentari dalle commissioni, richieste di disciplina in materie di coscienza, fissazione di tempi che impedivano alle commissioni di svolgere il proprio ruolo istruttorio per arrivare direttamente in aula senza relatori, senza testo base, senza parole meditate. In un arena ove l’unico obiettivo era quello di sfidare la sorte dei numeri, facendo assegnamento sulla propria capacità tattica, non certo confidando sulla forza della persuasione e sulla capacità di conseguire un nobile compromesso parlamentare nel merito delle proposte.
D’altronde, anche l’opposizione ha mostrato il proprio sbandamento. Partecipando a questa spettacolarizzazione anch’essa, a volte, non ha preso troppo sul serio la dignità del Parlamento. Un po’ come Marino, anche l’opposizione si “dimetteva” a giorni alterni. Un giorno un po’ di Aventino, il giorno dopo un po’ d’Aula. Non mi sembra si sia riusciti in tal modo a far chiaramente emergere le reali ragioni di una battaglia politica di contrasto così importante, a tutto vantaggio dell’uso retorico delle istituzioni perseguito dalla maggioranza.
Due passaggi mi sembrano possano sintetizzare — anche in termini metaforici — lo stato di crisi delle istituzioni rappresentative. Da un lato la presentazione da parte del senatore Calderoli di milioni di emendamenti inconsulti elaborati da un algoritmo, dall’altro l’interpretazione disinvolta (a mio parere illegittima) dei regolamenti parlamentari che hanno impedito la discussione su tutto, in particolare con l’invenzione del cosiddetto “canguro”. Una riforma costituzionale dunque affidata ad un metodo di calcolo e ad un animale della famiglia dei macropodidi. Credo ci si sia fatti prendere la mano.
Eppure dietro tutte queste forzature c’è una spiegazione: la perdita del senso delle istituzioni. Nessuno sembra più credere in esse. La politica si svolge altrove, non possiede più forme. La decisione è assunta tra pochi, in luoghi e con mezzi indeterminati: sms, dialoghi diretti, messaggi indiretti, affidamenti individuali o garanzie prestate da gruppi d’interesse. Poi, fatta in tal modo la scelta, essa viene divulgata attraverso una strategia ad effetto che non prevede passaggi istituzionali, bensì mero spettacolo. A questo punto, il passaggio istituzionale, se non può essere evitato, diventa però unicamente un intralcio, che deve essere gestito con qualche insofferenza. Sopportato come un “costo” della democrazia, non certo come sua essenza e valore.
Un atteggiamento psicologico, caratteriale e culturale, prima ancora che espressione di una consapevole strategia politica potenzialmente eversiva. Il nuovo ceto politico ha costantemente teso ad eludere il confronto istituzionale, anche quello interno alle istanze di partito. Primarie “aperte”, per sconfiggere le burocrazie e rovesciare gli equilibri interni; direzioni in streeming, per parlare con l’opinione pubblica, non certo per tessere una strategia condivisa entro una comunità politica; rapporti diretti con i politici locali da sostenere (Pisapia e il “modello milanese” dell’Expo) ovvero da abbandonare (Marino e la mancanza di anticorpi romani).
I comportamenti extraistituzionali diffusi, che caratterizzano il ritorno della politica oggi, sono stati favoriti dalle politiche di ieri. Sono anni che si denuncia la crisi del Parlamento, delle rappresentanze locali, del ruolo istituzionale dei partiti. Ciò nonostante, perlopiù, si è preferito cavalcare l’insofferenza, raccogliere un facile consenso scagliando pietre contro i Palazzi della politica, nessuno volendo raccogliere la sfida complessa di un reale cambiamento delle istituzioni operando al loro interno, nel rispetto delle regole del gioco democratico.
Una sottovalutazione imperdonabile che rischia di svuotare di ogni ruolo la rappresentanza. Ci si potrebbe alla fine chiedere perché tornare a votare per un consiglio comunale che non conta nulla, nulla decide e nulla può fare. Meglio affidarsi ad un commissario prefettizio. In fondo la storia ci ha già detto che esiste una “istituzione” in grado di operare in situazioni di emergenza: il dictator commissario ha salvato più di una volta Roma. Poi è arrivato Giulio Cesare e la dittatura è diventata sovrana, ponendo fine alla repubblica.
GIUDICARE in politica è tenere una parte o prendere parte, scriveva Hannah Arendt commentando Aristotele. Non si può giudicare senza stare da una qualche parte o schierarsi. Questo vale soprattutto per i cittadini nelle loro considerazioni ordinarie sulle cose relative alla loro città o al loro Paese; anche quando dichiarano di volersi astenere dal giudicare o si professano indifferenti alle parti politiche. È a partire dalla natura fallibile del giudizio politico che i governi liberi vantano di essere quelli nei quali la ricerca del giudizio migliore trova la propria sede, poiché garantiscono le libertà civili grazie alle quali il giudicare pro e contro si dipana in un clima di tranquillità e rispetto. Giudizio e politica stanno in stretta connessione. Un narratore della condizione politica, Thomas Mann, diceva che, per questo, la democrazia è tra tutti i regimi quello più compiutamente politico, perché qui anche chi vuole tirarsi fuori da ogni giudizio politico deve fatalmente schierarsi, facendo della propria posizione impolitica un giudizio di parte.
Le pretese che oggi si levano contro il giudizio politico destano quindi legittimo sospetto. Un candidato possibile alla poltrona di sindaco del Comune di Roma, Alfio Marchini, si propone come al di sopra delle parti politiche — né di destra, né di sinistra.
È un imprenditore, parte della società civile intraprendente, ed è romano. Due ragioni certo rilevanti, la seconda soprattutto, ma non sufficienti.
Perché amministrare una città non è lo stesso che amministrare un’azienda, anche se le città hanno bisogno di buoni amministratori che sappiano ragionare in termini di prudenza, opportunità ed efficienza. Ma non basta. Poiché, contrariamente alle aziende private, l’amministratore di una città deve rendere conto delle sue decisioni, non ai suoi azionisti ma a tutti i cittadini, residenti che hanno diversissime condizioni sociali, economiche e culturali, tutte rappresentate nel voto che esprimono, pro o contro. Solo la politica può rappresentare questa generalità e insieme partigianeria.
E torniamo così al punto di partenza, al giudizio politico. Presentarsi come candidato né di destra né di sinistra è una strategia molto politica, che cerca di capitalizzare a partire dai fallimenti delle precedenti amministrazioni, di destra e di sinistra, le quali — per ragioni e con responsabilità molto diverse tra loro — hanno generato i problemi che portano ora al voto anticipato, dopo essere passati per una gestione commissariale della città capitale d’Italia. Ma si deve dubitare di questo ecumenismo poiché se Marchini diventasse sindaco dovrà pur scegliere dove investire o disinvestire le risorse pubbliche, se occuparsi delle periferie e come, se occuparsi del malgoverno e come, se prediligere il trasporto pubblico e come, eccetera. In tutti i casi, egli dovrà scegliere e si rivolgerà a una parte del consiglio comunale per avere sostegno e voti.
Destra/sinistra sono distinzioni generali che servono a orientare elettori ed eletti. Sono sempre più approssimative e sempre più liminali, ma esistono. La confusione prodotta in questi mesi non aiuta a distinguerle, è vero: la destra parlamentare spesso alleata del partito di centro-sinistra che governa, il quale ha una sua sinistra interna, e un’opposizione grillina che si definisce in ragione di chi contrasta, senza chiarezza sulle proprie posizioni. Tanta confusione disorienta. Ma non elimina le distinzioni di giudizio sulle politiche, che esistono. Rinunciare ad esse o pretendere che non esistano non è indice di oggettiva chiarezza, ma di strategica ambiguità — la speranza di capitalizzare dalla memoria vecchia e recente dei fallimenti della politica.