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Intervista di Anais Ginori al politologo Yves Mény. «Il sistema francese non ha corpi intermedi per esprimere il malcontento. I meccanismi istituzionali che garantiscono la governabilità mostrano oggi tutti i loro limiti, alimentando la diffidenza rispetto alla classe politica».

La Repubblica, 7 dicembre 2015 (m.p.r.)

Parigi.«È uno tsunami politico sulla Francia ». Il politologo Yves Mény prevede un’onda lunga del voto di ieri. «Quest’elezione è la spia di una crisi all’interno del nostro sistema elettorale e istituzionale», spiega Mény autore di diversi saggi sul populismo e presidente del Consiglio di amministrazione della Scuola Sant’Anna di Pisa.

Quali sono i nuovi rapporti di forza nella politica francese?
«C’è un trionfatore, ovvero il Front National che non aveva mai raggiunto un risultato così alto. Poi c’è un mezzo vincitore, Nicolas Sarkozy che ha fatto meno bene del previsto perché ha subito un’emorragia di voti verso il Fn. E infine c’è un mezzo sconfitto, François Hollande: il partito socialista poteva temere risultati ancora peggiori. In alcune regioni, il crollo è meno duro del previsto, soprattutto se si sommano i voti delle altre liste di sinistra».
È l’avvento di un sistema tripolare?
«Il sistema francese è diventato sociologicamente tripolare, ma con meccanismi elettorali che sono ancora quelli del bipolarismo. La stabilità politica della Quinta Repubblica è fatta con artifici elettorali. Ci deve essere sempre un solo vincitore, che ha maggioranza assoluta e tutti i poteri. Lo vediamo con François Hollande che, nonostante la sua popolarità, è saldamente al comando della Francia. Il successo del Fn evidenzia le contraddizioni del sistema: è primo partito per numero di elettori nelle regionali, ma è praticamente assente dal parlamento».
Ci sarà una crisi istituzionale?
«Intanto abbiamo davanti una crisi morale e politica. Il sistema francese non ha corpi intermedi per esprimere il malcontento. I meccanismi istituzionali che garantiscono la governabilità mostrano oggi tutti i loro limiti, alimentando la diffidenza rispetto alla classe politica. Siamo vicini a un punto di rottura».
Per Marine Le Pen è una nuova tappa verso l’Eliseo?
«Le probabilità che Le Pen arrivi al ballottaggio delle elezioni presidenziali sono oggi forti, mentre non possiamo ancora dire quale sarà l’avversario. Ricordiamoci comunque che un elettore su due non ha votato. Gli elettori del Fn sono quelli che sono andati di più alle urne, con un fenomeno di mobilitazione paragonabile a quello del Movimento Cinque Stelle. È soprattutto un voto di esasperazione. Ma tradurre l’esasperazione in governo è difficile. Questa è la sfida che ha davanti Le Pen».
Il Fn è solo un partito populista o sta cambiando pelle?
«È ancora una forza populista nel senso che non si preoccupa della coerenza nel programma. Se il Front National arrivasse al potere, ci sarebbe una grande disillusione nel suo elettorato. Il programma economico è folle, e quello sociale provocherebbe enormi tensioni. Ma c’è un’evoluzione in corso nel Fn: all’inizio era un movimento, come molte forze populiste, ora è un vero partito che sfrutta appieno il sistema».
Il programma economico è il vero punto debole, come ha denunciato la Confindustria francese?
«Il Fn tende a semplificare una realtà molto più complessa. Propone soluzioni facili quanto azzardate sul piano economico, come l’uscita dall’euro o la pensione a 60 anni. Ricorda le promesse del partito comunista di una volta. Molti punti del suo programma riprendono quelli dell’estrema sinistra».
Come mai Sarkozy non è riuscito a fermare l’avanzata di Le Pen?
«Ha subito una fuga di voti da parte di alcune categorie come i commercianti o i piccoli imprenditori. Sarkozy non è amato nell’elettorato della destra moderata. Ora dovrà affrontare i suoi rivali interni per la candidatura alle presidenziali. Comunque vada la destra repubblicana rischia di uscire indebolita dalle primarie».

Nel secondo turno, i candidati della destra moderata possono ancora battere il Fn?

«Si capirà nelle prossime. Se in alcune regioni resteranno tre liste concorrenti, i candidati socialisti sono paradossalmente favoriti anche se sono arrivati in terza posizione. La sinistra ha infatti una riserva di elettori, tra Verdi o Front de Gauche. Sarkozy invece si è già presentato con una lista di coalizione, insieme ai centristi dell’Udi, e dunque non ha altri bacini di voti in cui andare a pescare».
Sull'episodio più vergognoso del giorno un commento di Adriano Prosperi e una nota di Maria Novella De Luca.

La Repubblica, 5 dicembre 2015




SE IL CARCERE CANCELLA LA COSTITUZIONE
di Adriano Prosperi

Un dialogo con un graduato (un brigadiere) delle forze della polizia carceraria. Gli ha chiesto: «Brigadiere, perché non hai fermato il tuo collega che mi stava picchiando?». Gli è stato risposto: «In questo carcere la Costituzione non c’entra niente». E anche: « Se la Costituzione fosse applicata alla lettera questo carcere sarebbe chiuso da vent’anni».

La cosa stupefacente non è che un detenuto sia stato picchiato. Né che ci siano state quella domanda e quella risposta. La cosa fra tutte più singolare è proprio il nostro stupore. Davvero riusciamo a stupirci? Davvero non sapevamo che ci sono dei luoghi dove la Costituzione non vale? E non sapevamo forse che fra quei luoghi ci sono proprio quelli che si richiamano alla Giustizia? Gli uomini che picchiano ne recano il nome sulla loro divisa. Il loro ministero di riferimento è quello che si chiamava di Grazia e Giustizia. La Grazia se n’è uscita alla chetichella. Ma la parola Giustizia è ancora lì. Non solo: quei luoghi sono governati in nome della Costituzione. La Costituzione è come un cielo che ci copre tutti. Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me, diceva Kant. La Costituzione nasce dalla volontà di sostituire all’illusoria volta di un cielo che, come diceva una canzone di Jacques Brel, “n’existe pas”, la protezione effettiva di un orizzonte comune, quella di princìpi e regole validi dovunque si estendano i confini dello Stato sovrano. È la coscienza di essere coperti da questo cielo che ci fa muovere negli spazi della vita quotidiana.

Ma ora, questo scambio di parole affiora in superficie dal fondo di un carcere e ci sbatte in faccia una verità che abbiamo finto ostinatamente di non conoscere: nelle nostre carceri la Costituzione non esiste. Ma davvero si può dare uno spazio pubblico, addirittura un luogo della giustizia dove la Costituzione non vale? Quando questo accade, è come se sulle mura della casa comune si aprisse una crepa. La crepa, trascurata, si allarga. Come in un celebre racconto di E.A.Poe, minaccia la rovina finale dell’edificio.

Sottrarre una parte dello Stato alle regole costituzionali è un reato. La legge deve punirlo. Ma quando nella comune coscienza si installa la certezza che esiste uno spazio — quello carcerario — dove la Costituzione non vale, quando lo si sa e lo si dice apertamente in difesa di una pratica di vessazioni e torture nelle nostre piccole Guantanamo, allora vuol dire che la crepa sta intaccando le fondamenta. Quel brigadiere ha detto che se la Costituzione valesse in quei luoghi, le carceri sarebbero state chiuse da tempo. Con quel brigadiere siamo in disaccordo totale per le cose che non ha fatto: doveva impedire che il detenuto venisse picchiato e non lo ha fatto. Ma siamo d’accordo con lui su quello che ha detto. Se la Costituzione è in vigore, quelle carceri debbono essere chiuse. Dovevano esserlo da decenni.

È un ritardo da colmare. Rachid Assarag, quali che siano le sue colpe, resterà nella storia italiana per aver smascherato una lunga, non più tollerabile ipocrisia collettiva.

BOTTE IN CARCERE
INDAGA IL MINISTERO
di Maria Novella De Luca

Orlando invia gli ispettori negli istituti coinvolti dalle registrazioni del detenuto ora ricoverato a Torino Manconi: “Abusi anche a Napoli”. Il sindacato: “Tutto da verificare, polizia penitenziaria è istituzione sana”

Le registrazioni di Rachid Assarag sono diventate un caso. Quelle voci che testimoniano botte e sevizie ai detenuti in diverse carceri italiane, violenze definite addirittura «educative» dagli agenti di custodia, hanno spinto ieri il ministro della Giustizia Andrea Orlando a chiedere al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) di inviare gli ispettori nei diversi istituti di pena dove gli abusi sarebbero avvenuti. Gli audio raccolti di nascosto da Rachid Assarag, detenuto marocchino condannato per stupro, che ha registrato decine di conversazioni con le guardie che lo picchiavano in cella, hanno fatto tornare in primo piano il dramma della violenza nelle carceri.

Rachid Assarag, detenuto dal 2009, ha già cambiato undici istituti di pena. Dopo aver subito le prime violenze nel penitenziario di Parma («fui picchiato da quattro agenti con la stampella a cui mi appoggiavo per camminare») Rachid prova a denunciare l’accaduto. Ma la risposta è il silenzio. Così trasferito di prigione in prigione, Rachid inizia a registrare di nascosto ogni abuso che lo riguarda. Gli audio, resi pubblici dall’associazione “A buon diritto”, di cui è presidente Luigi Manconi e pubblicati ieri da Repubblica. it, sono agghiaccianti. «Brigadiere — chiede Rachid — perché non hai fermato l’agente che mi picchiava?». «Fermarlo? No, io vengo e ti do altre botte», la risposta. E poi: «Il detenuto — afferma il cosiddetto “brigadiere” nella prigione di Prato — quando esce da qui è più delinquente di prima, perché è l’istituzione carcere che non funziona ». Ma c’è di peggio. Come quando lo stesso interlocutore afferma che per i detenuti le botte sono «educative » e, accusato dall’abile Rachid di non rispettare la Costituzione, risponde: «Se la Costituzione fosse applicata alla lettera questo carcere sarebbe chiuso da vent’anni. Qui tutto è illegale...».

Commenta Fabio Anselmo, legale di Assarag. « I fatti sono gravissimi. In alcuni casi di parla anche delle morti dei detenuti. Rachid sa di aver sbagliato, ma si chiede perché il carcere debba infliggergli anche una ulteriore pena. Le sue registrazioni comunque sono già state ammesse da due giudici a Firenze e a Parma».

Scettico invece sulle prove degli abusi subiti da Rachid, Donato Capece, segretario del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria. «Non so come sia possibile che un detenuto tenga con sé un registratore. Sarà necessario verificare tutto, ma deve essere chiaro che la polizia penitenziaria è una istituzione sana».

Conferma al contrario il racconto del detenuto marocchino Francesco Maisto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna. «Sapevamo delle sue denunce, informammo il sostituto procuratore di Parma che si attivò. E in quel carcere, allora, il clima era sicuramente di intimidazione». Avverte Luigi Manconi: «Il caso di Rachid non è isolato. Noi continuiamo a ricevere segnalazioni di violenze e abusi. E tra queste le più preoccupanti arrivano da Poggioreale, dove in due padiglioni già noti, Milano e Napoli, sembra che accadono fatti su cui si dovrebbe indagare». Intanto Rachid ormai in sedia a rotelle, dopo aver perso 18 kg per lo sciopero della fame iniziato un mese fa, è stato ricoverato nel Centro clinico del carcere di Torino.

«Un paese che ha ripreso a camminare, non certo a correre”: sintetizza così il rapporto annuale Censis , con un messaggio venato di chiaroscuri». Che cosa c'è sotto al fumo della propaganda di Renzi e dei renzichenecchi in giro nelle piazze d'Italia (quelle vere, e soprattutto quelle virtuali).

La Repubblica, 5 dicembre 2015

UN Paese in cui gli indicatori volgono al segno “più” ma con grande fatica (una “Italia dello 0 virgola”): ancora portato a rinchiudersi in un “recinto tranquillizzante ma inerte”; immerso “in un clima di mediatica attesa e di annuncio della ripresa che però non si tramutano in un forte investimento collettivo”. Un Paese che rimane esposto al rischio di un “letargo esistenziale” ma che si è comunque rimesso in movimento, sia pur in modo stentato e contradditorio: segnale non irrilevante se si pensa al Paese sfiduciato e sfibrato disegnato ancora l’anno scorso dal Censis (“dopo anni di trepida attesa la ripresa non è arrivata e non è data per imminente”). È davvero lungo il tunnel che abbiamo percorso: già nel 2007 del resto, alla vigilia della grande bufera, il Censis aveva parlato di “malattia dell’anima”, di una società ripiegata su se stessa e sempre più attraversata da un’illegalità quotidiana e diffusa. Una società indebolita e quasi incapace di reagire alla prolungata emergenza provocata poi dalla crisi internazionale. Esposta da allora all’erosione continua di redditi, consumi e — soprattutto — speranze: nel 2010 il rapporto delineava un’Italia “senza più legge né desiderio” e “incapace di sognare”, e ne diventavano simbolo i moltissimi giovani che non studiano, non hanno lavoro e non lo cercano neppure (un macigno che tuttora permane, come il rapporto di quest’anno ricorda).

Veniva così alla luce un “disastro antropologico” di più lunga durata, annotava il Censis alla fine del 2011. L’anno in cui l’irresponsabilità berlusconiana aveva fatto intravedere anche per l’Italia un “rischio greco”: mesi difficilissimi, segnati anche da un deterioramento della nostra immagine internazionale “vissuto un po’ con dolore e un po’ con vergogna”. Il fondo più buio di una deriva che l’azione del governo Monti arrestò quasi sull’orlo del baratro senza riuscire però a ridare slancio al Paese (“non è scattata la magia dello sviluppo fatto da governo e popolo” si annotava alla fine del 2012): di qui le difficoltà degli anni successivi, segnati dal “problema della sopravvivenza” e dall’incapacità di far interagire e rendere trainanti gli elementi di vitalità pur presenti in settori dell’economia, della società, della cultura.

Di “sospensione delle aspettative” il Censis parlava ancora l’anno scorso, e in questo quadro possono essere meglio apprezzati i primi segnali di ritrovata fiducia di quest’anno, dalla crescita dell’acquisto di beni durevoli al dinamismo del mercato immobiliare, in un panorama di più generale ripresa dei consumi ma segnato al tempo stesso da nuovi squilibri sociali (alimentati anche dal restringimento del welfare). Segnato da una ripresa dell’occupazione che non coinvolge ancora i giovani, che pur pensano al futuro con maggior ottimismo (un altro dato da capire meglio). Rimane molto rilevante inoltre il denaro non investito ma immobilizzato in un “risparmio cautelativo” volto a fronteggiare le emergenze (non senza ragioni, dato che l’anno scorso vi hanno dovuto attingere più di tre milioni di famiglie).

Permangono insomma i tratti di una “società a bassa consistenza e quindi con scarsa autopropulsione”, poco dinamica. Vi è certo stato un “volontarismo della politica”, si osserva - in positiva controtendenza rispetto a rassegnazione e pessimismo - ma non è riuscito a ridare slancio all’economia e alla società per l’assenza di un progetto generale, di un’idea di futuro capace di radicarsi nel corpo vivo del Paese. Per una enfatizzazione della decisione di vertice, a partire dall’azione di governo, che non ha saputo costruire una vera “catena di comando”. Non ha saputo penetrare nelle pieghe reali della società: non vi è stata dunque quella “osmosi tra primato della politica e mondi vitali sociali” che ha caratterizzato le fasi più espansive della nostra storia.

E questa mancata dialettica fra politica e società ha lasciato la cultura collettiva “prigioniera della cronaca”, del giorno per giorno e dei messaggi più negativi. Ha lasciato ancora isolati gli elementi e i fattori più dinamici, troppo spesso lontani dalla luce dei riflettori. Troppo spesso sottovalutati o considerati solo marginalmente: “il resto”, per dirla con il Censis, rispetto agli ingannevoli pilastri delle narrazioni prevalenti. Eppure è proprio a questo “resto” che occorre guardare, sottolinea il rapporto: ai settori capaci di vincere le sfide internazionali, ai nostri tradizionali punti di forza nella stessa manifattura e soprattutto alle sinergie e alla “ibridazione” di differenti comparti e competenze, capaci di dar vita ad un nuovo Italian style (dall’abbigliamento all’agroalimentare e al turismo).

Si aggiungano altri elementi significativi, relativi ad esempio all’immigrazione: su di essa ha certo agito il peso della crisi, si annota, ma hanno operato anche significativi elementi di “integrazione molecolare” capaci di evitare, forse, il “rischio banlieue”.

Non mancano altri segnali positivi, pur “minori”, connessi anche agli stili di vita. Né mancano, sul versante opposto, le forti inquietudini connesse alla crescente sfiducia nei confronti delle istituzioni politiche e dell’Europa. Vi è in realtà una grande domanda sottesa all’intero rapporto: qual è il Paese che esce dagli anni della crisi? Quali ne sono le potenzialità e le modificazioni profonde, le propensioni generali e le pulsioni particolaristiche? Non siamo rimasti uguali, il Censis ce lo ricorda, e questa domanda non può essere elusa.

«Libertà di stampa. Direttore e caporedattore di "Cumhuriyet" accusati di spionaggio per un articolo sul traffico d'armi in Siria. Incarcerati su denuncia del presidente turco». Appello degli intellettuali.

Il manifesto, 3 dicembre 2015

Can Dündar, direttore del quotidiano Cumhuriyet è stato arrestato il 26 novembre scorso dalle autorità turche insieme ad Erdem Gül, capo della redazione di Ankara dello stesso giornale. I due sono stati fermati con l’accusa di aver divulgato lo scorso maggio notizie sul sequestro e la perquisizione di alcuni camion appartenenti ai servizi segreti turchi (Mit) carichi di armi e diretti in Siria. L’accusa a carico dei due giornalisti è di spionaggio politico e militare, divulgazione di informazioni coperte da segreto di stato e propaganda a favore di organizzazioni terroristiche, più precisamente quella che fa capo al predicatore islamico Fetullah Gülen. Esule da anni negli Stati Uniti, Gülen è stato un tempo alleato del presidente Recep Tayyip Erdogan, ma oggi è accusato di essere l’architetto del cosiddetto «stato parallelo» contro cui le operazioni di polizia si contano ormai a centinaia.

In particolare, i giornalisti di Cumhuriyet sono accusati di aver costruito notizie false attraverso informazioni ricevute dall’organizzazione di Gülen, allo scopo di dare un’immagine della Turchia come collaboratrice di gruppi terroristi.

L’arresto è l’esito di un’indagine lanciata a fine maggio scorso, quando Cumhuriyet aveva pubblicato un articolo dal titolo «Ecco le armi che Erdogan sostiene non esistano», in cui si rendeva pubblico il sequestro, avvenuto nel gennaio 2014 da parte della polizia, di tre camion carichi di armi nascoste sotto casse di medicinali diretti in Siria. L’arsenale includeva munizioni per artiglieria e mitragliatrici, colpi di mortaio e munizioni per contraerea, contenuti in casse con scritte in cirillico e partite dall’aeroporto Esenboga di Ankara.

L’operazione di polizia, avviata da una soffiata ricevuta dal procuratore generale di Adana che aveva quindi autorizzato le indagini ed il sequestro, rischiava di porre nuovamente la Turchia sul banco degli imputati per l’atteggiamento ambiguo nei confronti dello scenario siriano e dei gruppi armati che vi combattono. Non è mai stato chiarito a chi fosse destinato il carico di armi.

La circolazione della notizia sui media nazionali era poi stata immediatamente bloccata da un’ordinanza del tribunale di Adana, che aveva disposto il bando di ogni materiale scritto, audio video e online sulla perquisizione dei camion, mentre i contenuti già online venivano cancellati.

Erdogan stesso aveva commentato l’episodio sostenendo che i responsabili della divulgazione avrebbero pagato un prezzo salato. Il presidente turco aveva sporto personale denuncia contro Dündar, chiedendone due ergastoli più 42 anni di carcere per aver minato gli interessi dello stato attraverso l’uso di falso materiale giornalistico.

Dopo il blocco delle indagini e la restituzione dei camion al personale del Mit (i Servizi segreti turchi), grazie all’intervento diretto del governatore di Adana, diversi membri ed ufficiali delle forze di polizia erano stati posti in stato di accusa ed espulsi. Durante la propria deposizione, l’autista Murat Kislakci dichiarò che per diverso tempo aveva guidato camion da Ankara alla cittadina di Reyhanli, sul confine turco-siriano, e che sapeva perfettamente di lavorare per il Mit. L’avvocato Hasan Tok, legale rappresentante del comandante delle forze di polizia di Adana colonnello Ozkan Çokay, aveva poi rilasciato una dichiarazione secondo la quale, nel corso di un’udienza, il procuratore di Adana Ali Dogan avrebbe dichiarato che «oltre duemila camion sono stati inviati in Siria dalla Turchia».

L’arresto di Dündar e Gül ha scatenato le proteste di diverse personalità di spicco del mondo politico e dei sindacati. Manifestazioni in segno di solidarietà si sono svolte in questi giorni a Istanbul di fronte alla sede di Cumhuriyet.

L'APPELLO
dii Noam Chomsky, Edgar Morin, Fr,Carl Bernstein, Günter Wallraff, Zülfü Livaneli, Ali Dilem, Thomas Piketty...

Prima di tutto, come primo ministro e ora come presidente, Recep Tayyip Erdogan ha disposto una repressione metodica dei media in Turchia per anni. Erdogan sta perseguendo giornalisti di tutti i colori politici in maniera sempre più feroce nel nome della lotta al terrorismo e per la difesa della sicurezza dello stato. Gli arresti del regime di Erdogan, le minacce e intimidazioni non sono degni di una democrazia.

Can Dündar, direttore del quotidiano , e il capo-redattore del suo ufficio di Ankara, Erdem Gül, sono in prigione dallo scorso 26 novembre. Sono accusati di spionaggio e terrorismo perché lo scorso maggio hanno pubblicato le prove delle consegne di armi da parte dei Servizi di Intelligence turchi a gruppi islamisti in Siria. Sono entrambi giornalisti esemplari nella ricerca della verità e nella difesa delle libertà. Il presidente Erdogan ha detto pubblicamente che Dündar «pagherà per questo». Ma i giornalisti di Cumhuriyet hanno fatto solo il loro lavoro, pubblicando informazioni che erano di interesse generale.
In un momento in cui il terrorismo internazionale è al centro delle preoccupazioni di tutti, è inaccettabile che le accuse politiche siano usate per sopprimere il giornalismo investigativo.
L’arresto dei due giornalisti è l’esempio più estremo dell’uso della giustizia a fini politici per mano della magistratura turca.
Molti giornalisti sono in prigione con accuse pretestuose di propaganda terroristica e insulti al presidente Erdogan. Il regime usa anche leve economiche per mettere pressione crescente sui media, mentre vengono approvate leggi draconiane. Noi, in qualità di figure pubbliche, sindacati per la libertà di stampa e ong, rifiutiamo la clamorosa erosione delle libertà di stampa in Turchia. Il paese è al 149esimo posto su 180 nell’indice di libertà dell’informazione di Reporters Without Borders.
Facciamo appello alle autorità turche perché liberino Can Dundar e Erdem Gul senza indugio, di far cadere tutte le accuse a loro carico, e di liberare tutti i giornalisti al momento il prigione per la loro attività giornalistica e le opinioni che hanno espresso.
Sollecitiamo le istituzioni e i governi dei paesi democratici di prendersi le proprie responsabilità e rispondere agli eccessi sempre più autoritari del presidente Erdogan.
Primi firmatari:

Noam Chomsky, linguista, Usa; Edgar Morin, sociologo, Francia; Carl Bernstein, giornalista, Usa; Günter Wallraff, giornalista, Germania; Zülfü Livaneli, scrittore, Turchia; Ali Dilem, fumettista, Algeria; Thomas Piketty, economista, Francia; Claudia Roth, politico, Germania; Paul Steiger, giornalista, Usa; Kamel Labidi, giornalista, Tunisia; John R McArthur, media executive, Usa; Jack Lang, ex ministro, Francia; Reporters Without Borders (Rsf); Committee to Project Journalists, (Cpj); International Press Institute (Ipi); World Association of Newspapers and News Publishers (Wanifra); International Federation of Journalists (Ifj); European Federation of Journalists (Efj); Ethical Journalism Network (Ejn); Global Editors Network (Gen); Turkish Association of Journalists (Tgc); Turkish Union of Journalists (Tgs)…

«Per il momento quello che si può dire con certezza è che se in precedenza l’Europa aveva fama di continente in cui i muri cadevano, oggi è il continente in cui tornano a sorgere». La Repubblica, 2 dicembre 2015
SORGONO muri in tutta Europa. In Ungheria hanno la forma fisica di recinzioni in rete metallica, filo spinato e lamette, un po’ come la vecchia Cortina di ferro. In Francia, Germania, Austria e Svezia i muri sono i controlli alle frontiere, momentaneamente ripristinati nello spazio senza confini di Schengen.

E ovunque in Europa sorgono muri mentali, sempre più alti ogni giorno che passa, cementati da un misto di paure — del tutto comprensibili dopo i massacri di Parigi da gente che poteva circolare a suo piacimento tra Francia e Belgio — e di beceri pregiudizi alimentati da politici xenofobi e giornalisti irresponsabili.

Nel 2015 assistiamo a un 1989 alla rovescia. Non dimentichiamo che la demolizione fisica della Cortina di ferro iniziò con il taglio della recinzione di filo spinato che separava l’Ungheria dall’Austria. Ora è l’Ungheria che per prima ha eretto nuove recinzioni ed è il suo premier, Viktor Orbán, il primo ad alimentare i pregiudizi. Bisogna chiudere le porte ai migranti musulmani, ha detto quest’autunno, «per mantenere l’Europa cristiana». Si unisce al coro anche una buona cristiana dello stampo di Marine le Pen, la rappresentante del Front National che detta il passo della politica francese.

Molti europei ora sostengono che i loro paesi devono ripristinare i controlli alle frontiere, anche all’interno dell’area Schengen. Lasciando perdere i dubbi circa l’efficacia di un simile atto sotto il profilo della sicurezza, chiudendo le frontiere interne all’Europa si rischia di distruggere ciò che gli europei apprezzano di più dell’Unione. Non è solo retorica. Nell’ultimo sondaggio Eurobarometer, condotto in tutti i paesi UE, alla domanda “Qual è secondo voi il maggior beneficio derivante dall’Unione Europea”, il 57% degli intervistati ha risposto “la libera circolazione delle persone, dei beni e dei servizi”.

Si è tornati ai muri per tre ordini di motivi. Innanzitutto, in paesi come la Gran Bretagna ma anche in altre parti dell’Europa del nord, hanno influito le pure e semplici dimensioni della circolazione di persone entro i confini dell’Ue. Gli est europei sono arrivati soprattutto dopo il grande allargamento del 2004, simbolicamente incarnato dall’”idraulico polacco”; a loro si è aggiunto lo stuolo degli immigrati dall’Europa meridionale, da quando la crisi dell’Eurozona ha spinto laureati spagnoli, portoghesi e greci a spostarsi a Londra o a Berlino per fare i camerieri.

Il secondo motivo è la crisi dei profughi. Secondo le stime Unhcr (Agenzia Onu per i rifugiati) al 19 novembre erano 850.571 “i profughi e i migranti” giunti quest’anno via mare in Europa, altri 3.485 sarebbero morti o dispersi. Il Mediterraneo è diventato orizzonte di speranza per i disperati e una tomba d’acqua.

Poco più del 50% degli arrivati via mare proviene dalla Siria, il 20% dall’Afghanistan. Moltiquelli che ce la fanno sono profughi nella piena accezione del termine, ossia nutrono “fondato timore di persecuzione” nel proprio paese. Ma, come indica l’Unhcr, tra loro inevitabilmente c’è chi fugge dalle intollerabili condizioni materiali degli stati falliti.

Poi ci sono i terroristi islamici, ultimamente dediti a falciare innocenti spettatori di concerti e avventori dei bistrot parigini. In gran parte sono cresciuti in Europa anche se alcuni apprendono il mestiere di assassini in Siria o in Afghanistan. Almeno uno dei killer di Parigi probabilmente si è intrufolato nell’Europa senza confini di Schengen come “profugo” (reale o presunto) con passaporto siriano. Per certo i killer potevano spostarsi liberamente tra Parigi e Bruxelles.

Così nell’attuale bouillabaisse dei timori europei, mescolata dai demagoghi, tutto si confonde: il migrante regolare, cittadino dell’Unione; il migrante irregolare, che viene da fuori; il migrante mezzo migrante economico e mezzo rifugiato; il profugo di guerra dalla Siria; il classico rifugiato politico dall’Eritrea; il musulmano; il terrorista. In un certo senso si passa, senza soluzione di continuità, dall’idraulico polacco al kamikaze siriano.

Nel frattempo il nuovo governo dell’idraulico polacco, composto principalmente da buoni cristiani, si è allineato a Ungheria e Slovacchia dichiarando che non accoglierà immigrati musulmani. Niente samaritani, grazie, siamo cristiani. Oltre al divario tra il nord e il sud d’Europa creato dalla crisi dell’Eurozona, emerge una nuova divisione tra Est e Ovest. L’Europa dell’Est rifiuta la solidarietà così spesso richiesta ai partner europei sotto altri aspetti. L’Europa sud orientale è tra due fuochi. Presto potrebbe succedere qualcosa di molto grave nei Balcani se non si renderanno meno permeabili i confini esterni dell’Ue soprattutto per chi proviene dalla Turchia, mentre il Nord Europa dice “basta”.

Angela Merkel ha detto una volta che per far apprezzare ai giovani la libertà di cui gode l’Europa aperta si dovrebbero chiudere le frontiere nazionali per un paio di giorni, e la cancelliera sa bene cosa significhi vivere dietro una Cortina di ferro. Beh, è probabile che ci tocchi fare questo esperimento, in parte proprio per il generosissimo errore di calcolo fatto dalla Merkel nel dichiarare benaccetti in Germania tutti i rifugiati senza prima essersi assicurata che gli altri Paesi europei avrebbero seguito il suo esempio. Se l’esperimento avrà o meno l’effetto desiderato è un’altra questione. Per il momento quello che si può dire con certezza è che se in precedenza l’Europa aveva fama di continente in cui i muri cadevano, oggi è il continente in cui tornano a sorgere.

Traduzione di Emilia Benghi

Sembra che con l'Italicum Matteo Renzi e il suo partiti rischino di perdere, a vantaggio di M5S. Ecco le varie ipotesi sulle quali si ragiona

Il manifesto, 1 dicembre 2015, con postilla

I sondaggi elettorali confermano che, in un probabile ballottaggio, sulla base dell’attuale versione dell’Italicum, Pd e M5S si trovano sostanzialmente alla pari. Tutto ciò contribuisce ad alimentare voci e ipotesi su un possibile, ulteriore ripensamento dell’impianto di questo sistema elettorale. Al centro, l’alternativa tra il premio alla lista, previsto nell’attuale versione della legge, e il ritorno ad un premio assegnato alla coalizione vincente.

Sull’onda dell’euforia per il 40% delle Europee, il premio alla lista è divenuto la pietra angolare di una visione fondata sull’idea di un partito «pigliatutti»; non ci voleva molto a capire la natura estremamente volatile del voto europeo e la fragilità del disegno strategico che veniva incardinato nel nuovo sistema elettorale. Da molti mesi, oramai, con qualche oscillazione, i sondaggi danno stabile il Pd intorno al 31–33% (una percentuale alta, ma fragile, in assenza di un qualche bacino potenziale di voti a cui fare ricorso in caso di ballottaggio); il M5S è solidamente ben oltre il 25%, mentre, a destra, (come aveva mostrato il voto regionale in Liguria o in Umbria), le possibilità di un rapido ricompattamento sono tutt’altro che remote. Una geografia statica, peraltro, quella fotografata oggi dai sondaggi, che non può considerare ancora gli effetti che potrebbero derivare dalla presenza sul mercato elettorale di una nuova formazione di sinistra potenzialmente a doppia cifra.

In questo quadro, lo spettro di un ballottaggio a rischio agita i sogni del Pd renziano, e riemerge così l’ipotesi di una modifica che reintroduca il premio alla coalizione: certo, non mancano coloro che esortano Renzi a «tenere la barra dritta». La tesi che dovrebbe indurre a conservare il premio alla lista si fonda su un argomento: in sede di elezioni politiche, l’elettorato moderato del centro-destra non voterà mai per il M5S o, viceversa, l’elettorato grillino non potrebbe mai votare per un fronte Salvini-Berlusconi. Questa lettura è illusoria, perché ignora il fatto che l’attuale elettorato della destra è tutt’altro che moderato: le quote di elettorato centrista, che avevano scelto Monti nel 2013, sono già transitate nel Pd; altri spezzoni si stanno riciclando, e così hanno fatto e stanno facendo vari notabilati locali. E perché ignora anche altri dati: quelli che mostrano (ad esempio, in Veneto) un’elevata contiguità e mobilità tra il voto alla Lega e quello al M5S. E perché, infine, sembra non considerare quello che si sta rivelando il capolavoro politico di Grillo: riuscire a conservare un posizionamento del suo partito che lo mette in grado tuttora di catalizzare tutti gli umori anti-sistema (con una provenienza equamente distribuita da destra e da sinistra, e dal non-voto, come mostrano le indagini sull’«auto-collocazione» degli elettori del M5S). Nell’uno o nell’altro caso di un possibile ballottaggio, segmenti consistenti di elettorato potranno confluire e sovrapporsi. A ciò si aggiunga che, nelle condizioni attuali, appare probabile un alto tasso di astensione: il che rende ancora più aleatorio ogni calcolo razionale.

Ultimo appello alle minoranze

D’altra parte, per il Pd, il dilemma è serio: tornare al premio di coalizione significa rinnegare tutte le scelte compiute fin qui, ripensare la strategia della terra bruciata alla propria sinistra, tornare a pensarsi solo come una parte di un più largo schieramento di centro-sinistra, accettando l’idea di avere altri interlocutori in quest’area. Certo, con la disinvoltura tattica di Renzi, non si può escludere nulla; ma le scelte sull’Italicum si riveleranno decisive e irreversibili. Restare ancorati al premio alla lista implica una logica per molti versi avventurista: una logica da «rischiatutto» puntando su un ricatto (non si sa quanto credibile) nei confronti di un elettorato di sinistra costretto a scegliere tra Renzi e Grillo (o Salvini).

Non sappiamo se si possono creare condizioni tali da riaprire veramente la partita. Certo è che le scelte sull’Italicum saranno decisive anche per coloro che ritengono ancora possibile una battaglia interna al Pd, per ridefinirne la collocazione. Una sorta di ultimo appello per le minoranze del Pd: rassegnarsi al premio alla lista significherebbe infatti sanzionare definitivamente il ruolo neocentrista e neotrasformista del Pd. Chi spera ancora che il Pd possa restare uno spazio, se non ospitale, quanto meno abitabile, per una qualche posizione di sinistra, potrebbe individuare qui un terreno su cui cercare di far pesare le sue forze residue: non puntando su questioni marginali e assai dubbie, come quella del voto di preferenza, ma riproponendo con forza la questione del premio alla coalizione e mettendo al centro la grave questione democratica che viene posta dal nesso tra la riforma costituzionale che è stata approvata e il sistema elettorale..

Lo spettro dell’Unione
Non mancano gli argomenti: anche coloro che, con ottime ragioni, contestano l’intero impianto di un sistema elettorale fondato sulla logica del premio, possono convenire che un premio alla coalizione vincente, specie dopo un ballottaggio, costituisce comunque un male minore. E soprattutto, si può rispondere con nettezza anche all’unico argomento che può avere una qualche presa, anche nell’elettorato democratico: ossia, che «non si può tornare ai tempi dell’Unione», cioè alle coalizioni ampie e rissose. Per evitare questo pericolo, si può proporre un semplice accorgimento: prevedere che, nel conteggio dei voti validi di una coalizione, siano esclusi i voti delle liste che rimangono sotto-soglia (che può essere fissata anche al 3 o al 4%). Questa clausola può avere effetti significativi: scoraggia la frammentazione «in entrata», mentre i partiti maggiori non avrebbero alcun incentivo ad aggregare una sfilza di micro-liste, ma solo quello di creare un’alleanza politica solida con soggetti di una qualche consistenza.

E vi sono anche considerazioni tattiche, di cui tener conto. Si potrebbero anche creare condizioni tali per cui il famoso coltello dalla parte del manico potrebbe ritrovarsi nella mani di coloro che si oppongono all’Italicum: in caso di una crisi o di una rottura, la minaccia di elezioni anticipate potrebbe anche rivelarsi un’arma spuntata. Si dovrebbe votare, infatti, con il sistema proporzionale residuale, emerso dalla sentenza della Corte costituzionale: e chissà che, da questo maledetto imbroglio, non possa nascere stavolta anche un effetto imprevisto positivo, ovvero il famigerato ritorno al proporzionale. Ma qui si dovrebbe aprire una vera discussione politica, e un confronto serio anche tra gli esperti, che finalmente metta a nudo uno dei tanti falsi idoli che hanno avvelenato l’indefinita transizione italiana, ovvero che la «governabilità» possa essere assicurata solo da un sistema elettorale maggioritario. Ritengo che non sia così e che anzi, nelle condizioni in cui ci troviamo, una sorta di nuovo anno zero per la ricostruzione della democrazia italiana, il ritorno ad un serio sistema proporzionale costituisca un passaggio ineludibile e necessario.

postilla

Non vogliamo essere troppo pessimisti, ma cominciamo a temere che il punto d'approdo (o almeno l'obiettivo strategico) di Renzi è una legge elettorale di un solo articolo: "Sono indette le elezioni. Ha vinto il partito di Matteo Renzi"

Romano Prodi, intervistato da Giampiero Calapà, commenta la decisione dell'Isis di stabilire la sua capitale in Libia raccontando come la guerra contro Gheddafi del 2011 sia stata “una scelta incomprensibile”.

Il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2015

Ha un grande rammarico Romano Prodi in questi giorni, non è il Quirinale né Palazzo Chigi: “Avrei voluto finire la mia attività aiutando un processo di pace, ma non mi è stato possibile. Forse avrei potuto concretamente dare una mano per tentare di portare la pace in Libia ma non mi è stato permesso”. Nel suo sobrio ufficio, alla Fondazione per la cooperazione dei popoli, a Bologna, legge con preoccupazione le notizie su Sirte e sul tentativo di spostare la capitale del Califfato del terrore da Raqqa, Siria, in Libia, a soli 600 chilometri dalla Sicilia: “Avrei davvero voluto lavorare per impedirlo, ma non me lo hanno permesso”.

Per il New York Times l’intero gruppo dirigente dell’Isis in Libia viene dall’estero, da Siria e Iraq… com’è stato possibile permetterglielo?
«Non mi stupisce: Sirte è strutturata per essere sede di un potere centrale, non per niente è stato l’ultimo bastione di Gheddafi. E ha un alto valore simbolico proprio perché era la capitale reale del Colonnello, la città degli incontri bilaterali, delle strette di mano che contavano. L’Isis, a parte Siria e Iraq, ha almeno altre due grandi aree territoriali nelle sue mani che sono il Sahel, a sud della Libia, e il Sinai. Ricordo che quando facevo il giro delle “sette chiese” come inviato Onu per chiedere risorse per il Sahel, l’unico Paese che manifestò la sua opposizione all’argine francese contro i jihadisti fu l’Egitto governato in quel momento dai Fratelli musulmani».

Come andò?
«L’allora presidente Morsi in un colloquio mi disse che quella francese in Mali era una guerra coloniale, poi prima di salutarmi, però, preoccupato mi chiese: “Pensa che i terroristi del Sahel possano arrivare nel Sinai?”. Gli risposi che non lo sapevo ma che sapevo bene che quantità grandi di armi si spostavano in Egitto dalla Libia. L’arsenale di Gheddafi ha fornito armi a tutti: gli esperti dell’Onu parlavano di 4 milioni di kalashnikov. La guerra di Libia è stata un totale disastro».

Quella guerra, nel 2011, fu voluta fortemente anche da Giorgio Napolitano.
«Non so chi l’abbia voluta perché non ero io al potere. So solo che è incomprensibile e incompreso come l’Italia abbia potuto prendere una decisione di quel tipoı.

La consultarono?
«Mai stato consultato né prima né durante né dopo».

Intanto in Siria le bombe russe colpiscono mercati, case di civili… La strategia di Putin è quella giusta?
«No. I bombardamenti possono essere uno strumento provvisorio ma non ricordo una volta in cui siano davvero serviti a portare la pace. E continuo a non comprendere perché si bombardino le città e non i pozzi e le auto-cisterne. Vorrei ricordare che, Russia a parte, sul fronte Nato il 70 per cento dei bombardamenti rimane americano in Siria e Iraq, questo nonostante l’esposizione e l’impegno della Francia».

E il regime di Erdogan in Turchia incassa 3 miliardi di euro dall’Ue per sigillare i confini ai profughi.
«Era l’unica carta in mano agli europei, a cominciare dalla Merkel, per tenere a bada le tensioni interne che possono derivare da un flusso incontrollato di migranti. Una carta, però, giocata in modo spregiudicato. È un errore mettere questo discorso insieme a quello dell’ingresso della Turchia in Europa. Motivare una decisione così seria e importante che prosegue da anni su un’emergenza è sbagliato. Le due cose non vanno messe assieme e si facciano procedere i negoziati secondo le sacre regole dei negoziati stessi».

L’Isis ha bilanci più floridi di molti Paesi arabi.
«La metà di quella ricchezza arriva dal petrolio, il resto da estorsioni, traffico di esseri umani e dall’esercizio di un’autorità statale. Poi ci sono i finanziamenti che passano per fondazioni dei paesi dell’area del Golfo Persico».

Putin, Erdogan, sauditi, Iran, Assad, Hezbollah: chi i nemici e chi gli amici?
«Quando si sbaglia la prima volta, penso alla guerra tra l’Iraq e l’Iran, si continua a sbagliare, errore dopo errore, fino alle guerre a Saddam e Gheddafi. Tutti contro tutti: c’è una vignetta di Kal sull’ultimo numero dell’Economist che rende bene l’idea».

La guerra a Saddam nel 2003. Si racconta di un G8 con un furibondo scontro a cena tra Blair e Putin…
«Putin si alzò dal tavolo e gridò a Blair: “You are not God” (tu non sei dio). Vede, la guerra in Iraq spaccò l’Europa, frantumò tutte le alleanze. Io dovetti rinunciare al secondo mandato alla presidenza della Commissione europea. Ascoltare oggi Blair scusarsi perché quelle maledette armi di distruzione di massa non esistevano lascia un peso enorme».

L’Europa esclusa da Israele per i colloqui di pace. Tel Aviv procederà solo con bilaterali con Regno Unito, Francia e Germania. Italia neppure citata. Siamo irrilevanti?
«Israele pensa non sia importante trattare con l’Italia, è più che essere irrilevanti. Nonostante la nostra natura di Paese del Mediterraneo. È un segno di ingratitudine: tra l’altro le nostre forze armate proteggono i loro confini in Libano. Il discorso così filoisraeliano di Renzi a Gerusalemme nel luglio scorso pensavo che sarebbe servito. Il conflitto israelo-palestinese rimane l’origine e la madre di tutti i conflitti, ma finché al governo di Israele ci sarà Netanyahu la pace è impossibile».

Intanto in Francia crescono i consensi per Marine Le Pen. È più pericolosa lei di suo padre Jean-Marie?
«Sì, perché il padre le elezioni le perdeva. Adesso il Front national al populismo di destra (legge, ordine e xenofobia) unisce quello anticasta di sinistra e per farlo Marine ha ucciso politicamente il padre».

Gli Usa hanno “allertato” i loro concittadini in Italia a stare lontani da Colosseo, Vaticano e Scala di Milano.
«È isteria collettiva, dopo l’11 settembre non abbiamo sconsigliato i viaggi in America. Serve un rafforzamento dell’intelligence, questo sì: ci vorrebbe un’autorità di coordinamento europea e ne avrebbe bisogno proprio la Francia, che si è sempre opposta a esercito e difesa europea comune».

Che effetto le fa la Capitale d’Italia commissariata nell’anno del Giubileo?
«Mi ha scioccato molto. Ma il Giubileo, come l’apertura della Porta Santa a Bangui in Centrafrica mostra, non è un fatto solo romano e va oltre l’esistenza di un sindaco. L’immagine di Roma nel mondo, purtroppo, peggio di così non può essere, non possiamo che risalire».

Per il ministro Padoan la mancata crescita economica e le stime al ribasso sono colpa dell’Isis. È possibile?
«Già alla vigilia della strage di Parigi c’erano segnali di allarme. Mi hanno perciò un poco sorpreso le dichiarazioni del ministro Padoan che, in un certo senso, mettono le mani avanti riguardo a un possibile peggioramento dell’economia. Spero che non abbia notizie ancora più cattive. Io ritengo poco probabile che eventi pur così tragici possano avere conseguenze molto negative sull’economi».

Non ha più rinnovato la tessera del Pd?
«Da tre anni ormai».

Molti militanti l’hanno seguita, pare che l’emorragia di tessere non si fermi.
«Un partito è fatto per dibattere e discutere, il calo delle tessere dipende dal calo politico, non ne è la causa».

Cosa vuol fare da grande, Professore?
«Quello che faccio adesso. Sono fuori dalla politica ma posso permettermi il lusso di tenere contatti in giro per il mondo e parlare ai giovani e ai meno giovani di quello che sta accadendo. La rottamazione non mi ha preoccupato perché se sono stato rottamato può volere dire che ero fatto di ferro. Se fossi stato di legno mi avrebbero o segato o bruciato. Ma mai rottamato».

Per convincere sul suo “basta guerra” Renzi deve spiegare almeno tre agende: l'atteggiamento del suo governo su Afghanista, Israele, Libia. Altrimenti il suo rifiuto di rispondere alla chiamata alle armi di Holland non significa un cambio d'orizzonte, ma di casacca. Il manifesto, 28 novembre 2015

Ma allora è possibile? E’ possibile che un governo occidentale diserti una nuova guerra, dica no ad aggiungere un intervento armato alla litania di conflitti nei quali siamo presenti militarmente? Matteo Renzi da Hollande a Parigi e Paolo Gentiloni al vertice parlamentare della Nato a Firenze, dicono no alla partecipazione all’ennesima coalizione di volenterosi impegnati più o meno in una nuova guerra di vendetta in Siria che nulla risolverà creando ulteriori stragi, rovine e divisioni, producendo alla fine nuova guerra

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Qualcuno rimarrà stupito da questo nostro riconoscimento al governo italiano, ma diversamente non diremmo la verità. Soprattutto noi che siamo strenuamente e senza ritegno contro ogni guerra, impegnati nella difesa della Costituzione, che all’articolo 11 recita: «L’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Un articolo spesso cancellato da chi, come l’ex presidente Napolitano, avrebbe dovuto salvaguardarlo come presidio prezioso di democrazia. E’ possibile dunque contraddire quel “militarismo umanitario” che ha modificato alla radice la natura stessa della sinistra, italiana e internazionale.

Per questo corriamo il rischio di essere smentiti, a ore o a giorni. Perché, come denuncia il papa, questo mondo di trafficanti di armi “delinquenti” (a Finmeccanica devono essere fischiate le orecchie) «non riconosce la strada della pace ma vive per fare la guerra, con il cinismo di dire di non farla»: e qui Renzi (con tutto il Pd) deve essersi sentito chiamato in causa. Se il no alla guerra fosse convinto, perché allora restiamo in guerra in molti scenari internazionali?

L’affermazione di Renzi: «Non solo impegno militare ma cultura», propone uno scambio ineguale tra F-35 e biblioteche davvero riprovevole. E il ministro Gentiloni, quando in parlamento dichiara: «Ma noi siamo solo il sesto partner commerciale con Riyadh», non risponde certo alle interrogazioni che gli chiedono ragione del commercio di armi italiane con la petromonarchia — medioevale e criminale quanto a diritti umani — dell’Arabia saudita che, proprio con le nostre bombe sta massacrando gli sciiti in Yemen. Proprio quando i regimi del Golfo dovrebbero essere isolati per il loro sostegno alla guerra e allo Stato islamico.

Per convincere su “basta guerra” Renzi deve spiegare almeno tre agende. Quella dell’Afghanistan, dove abbiamo deciso di allungare la missione militare con un “signorsì” alle pressioni della Casa bianca, nello stesso giorno in cui il premier canadese Trudeau ritirava il contingente di Ottawa: un’altra guerra di vendetta dopo l’11 Settembre – dura ormai da 14 anni, più del Vietnam , con i talebani all’offensiva e massacri di civili. A proposito, si è fatto sentire l’assordante silenzio del governo italiano sulla strage Nato di Kunduz, di medici e paramedici di Médecins Sans Frontières.
Inoltre diamo rinnovato sostegno militare ad Israele, «sola luminosa democrazia del Medio Oriente», dice Renzi, dimenticando l’occupazione in armi dei Territori palestinesi dal 1967, come denunciano due Risoluzioni storiche dell’Onu, mentre il governo d’estrema destra di Netayahu ha ultimato la trasformazione dei Territori occupati in un alveare di colonie, presidi militari, Muri, ghetti e blocchi che rendono impossibile la nascita dello Stato di Palestina, al di là delle chiacchiere sui due Stati. Infine, non è confortante la dichiarazione «non vogliamo una Libia bis», quando invece della “guerra in comune” in Siria prepariamo una nuova avventura in Libia «contro gli scafisti», mentre si annuncia a priori, come ha fatto Mister Pesc Federica Mogherini, i «dolorosi effetti collaterali che produrrà». Il fallimento del lavorio per un governo unitario, utile solo a trovare un interlocutore che prepari universi concentrazionari per profughi e migranti, dice che il disastro della guerra a Gheddafi è incolmabile. E che rischiamo di fare proprio in Libia un’altra Libia bis.

Resta da chiedersi perché il governo Renzi stavolta diserti. C’è probabilmente la consapevolezza che la distruzione con le guerre occidentali di tre Stati mediorientali fondamentali, come Iraq, Siria e Libia sia all’origine del radicalismo islamista estremo; come l’evidenza del peso insopportabile della spesa annuale militare italiana: 29,2 miliardi di euro, equivalenti a 80 milioni di euro al giorno, a fronte dei tagli “necessari” a sanità e lavoro, con ormai l’impossibilità di convincere i governati su questa spending vergognosa. Senza escludere il peso tutto politico della “rifondazione cristiana” avviata da Bergoglio, che non può non riecheggiare al presidente del consiglio l’ amato La Pira. Purtuttavia resta fortissima la tentazione della guerra e della politica ridotte ad alleanza militare “umanitaria”.

Visto il ruolo atlantico dell’Italia, non è un cambiamento d’orizzonte, ma di casacca. Andiamo a vedere, con l’iniziativa dei movimenti, cosa c’è sotto il nuovo vestito di scena del potere. Oggi chi lotta per la pace è più forte non più debole
«Cgil, Cisl minoranza Dem e 5 Stelle: “Sostituzioni ingiustificate, il governo rischia di dismettere il servizio pubblico”».

La Repubblica, 27 novembre 2015 (m.p.r.)

Roma. Azzerato il vertice di Ferrovie dello Stato. Nel cda decisivo di ieri mattina si è consumato l’atto finale del lungo addio dell’amministratore delegato Michele Mario Elia e del presidente Marcello Messori. Dopo mesi di incertezza e pressione del governo sul vertice del gruppo ferroviario, sono arrivate le dimissioni della maggioranza dei consiglieri del cda. Una mossa che ha costretto, di fatto, anche il resto del consiglio alla resa, dopo le resistenze di Messori e Elia al passo indietro.

Ora, nei piani di Matteo Renzi e del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, si schiudono le porte verso una privatizzazione senza le resistenze del vertice di Fs a partire dal 2016. Al posto dei due dirigenti dimissionari nelle prossime ore potrebbero essere indicati i nomi di Renato Mazzoncini (ad di Busitalia, società del gruppo) e Simonetta Giordani come presidente. Per quest’ultima potrebbero schiudersi in alternativa le porte di Rfi o Trenitalia, i cui cda andranno rinnovati assieme a quello di Fs.
Anche sul numero dei consiglieri nelle ultime ore si sarebbe aperta una riflessione all’interno dell’esecutivo. Il cda di Ferrovie è infatti l’unico ad avere 9 consiglieri contro i 5 delle altre società partecipate dal Tesoro. Possibile dunque un taglio di quattro posti. Allo stesso modo anche il cda di Rfi - che ieri ha acquisito la società Bari Fonderie Meridionali con 100 dipendenti per 6,5 milioni - e quello di Trenitaliapotrebbero passare a 3 consiglieri concentrando in un’unica poltrona ad e presidente.
I sindacati però cominciano a fare la voce grossa. Dopo la minaccia di mobilitazione di tutta la categoria, lanciata pochi giorni fa dalla Cisl, il responabile dei Trasporti Giovanni Luciano chiede che le Fs «vengano tutelate: non si mette a rischio un’impresa solida e competitiva per ipotetici introiti economici tra l’altro modesti. Chi vuole fare affari sulle Fs?». Duro anche il commento della Cgil che con il segretario della Filt Franco Nasso parla di «fatto irrituale, difficile da comprendere e non giustificato dalle condizioni dell’azienda. La discontinuità nei vertici, collegata all’ancora confuso progetto di privatizzazione, sono ragione di forte preoccupazione». E per Claudio Tarlazzi della Uil «è bagliato affrontare una scelta così complessa e strategica per il Paese con mere logiche di far cassa».
Anche il fronte politico è in fibrillazione a partire dal Pd. Pier Luigi Bersani chiede un percorso di maggiore «trasparenza» sul caso Ferrovie. Più a sinistra si fa sentire Stefano Fassina per Sinistra italiana: «Il governo - dice l’ex vice ministro all’Economia col Pd - conferma la volontà di disinvestimento nei confronti del servizio pubblico di mobilità delle persone, un vero e proprio “bene comune”». Dai 5 Stelle, infine, critiche durissime: «Le dimissioni in massa sono tabula rasa per dare mano libera a Renzi. È la fine di ogni velleità di promozione e sviluppo del trasporto pubblico locale».

Un'intelligente analisi di ciò che si muove sul teatrino della politica italiana, tra destra, "sinistra" e il rampante M5S. Con due commenti in postilla. La Repubblica, 25 novembre 2015

LA FORBICE tra Pd e Movimento 5Stelle si restringe. Come ha evidenziato Ilvo Diamanti, in un eventuale ballottaggio, la vittoria dell’uno o dell’altro dipende dallo spostamento di appena un 2% di elettori. Come è possibile che il partito fondato da Beppe Grillo abbia guadagnato tanti consensi da sfiorare la maggioranza assoluta, e sia considerato una vera alternativa di governo?

L’avanzata grillina dipende tra tre fattori che si intersecano. Il primo riguarda la debolezza dell’offerta politica di destra. Il declino di Berlusconi, unito all’ascesa di un personaggio irruento e tranchant come Salvini, disorientano l’elettorato moderato- conservatore. Di fronte alla ripetitività di slogan vecchi vent’anni da parte del Cavaliere e di dichiarazioni reboanti quanto irrealistiche e velleitarie da parte del leader leghista, gli elettori orientati a destra tenderanno ad astenersi. Non tutti, ovviamente, ma una certa quota rimarrà alla finestra per vedere se si ripresenta una offerta politica degna di interesse ( e del loro voto). Quindi esiste oggi un elettorato fluttuante in cerca di casa. Matteo Renzi ha puntato molto sullo scongelamento del blocco moderato ma ha dimenticato l’ostilità profonda, prodotta da vent’anni di scontri all’arma bianca, che il mondo di destra nutre nei confronti della sinistra. E Renzi è il leader del più grande partito della sinistra italiana, piaccia o non piaccia ai dissidenti e scissionisti vari. Il segretario democrat si è sempre proclamato membro della famiglia socialista e appartenente al mondo della sinistra tanto da portare il partito ad aderire al Pse. Agli occhi di grandissima parte dell’elettorato moderato continua ad essere l’avversario di sempre. La rottamazione, la rottura dei tabù della sinistra storica, un certo adeguamento a idee e proposte di stampo neoconservatore, non bastano a smuovere coloro che si sono attestati da sempre sull’altra sponda.

L’obiettivo strategico di Renzi — attrarre gli elettori del fronte avversario — rischia quindi di infrangersi contro l’indisponibilità a muoversi dei moderati. Anche perché molti di quelli che vengono definiti moderati in realtà non lo sono per nulla: oltre ad essere animati da una avversione radicale nei confronti della sinistra, sono anche attraversati da pulsioni anti- istituzionali e da un sentimento di estraneità e alterità rispetto al sistema. Non altrimenti si spiegherebbe l’impennata di consensi ad un capopopolo come Salvini. Allora è possibile che questo elettorato senta più vicino un partito come i 5Stelle, fuori dagli schemi e contro tutto. E questo è il secondo punto: la capacità del M5S di attrarre consensi da ogni parte, anche da destra.

Ma c’è un terzo aspetto che può costituire il vero salto di qualità del partito di Grillo: propio il fatto che non è più il partito di Grillo. La cancellazione del suo nome dal simbolo può essere semplice cosmesi, ma può anche indicare il passaggio verso una vera e propria istituzionalizzazione, in cui le sorti del partito non dipendono più dal capo bensì emergono da un processo decisionale interno più complesso e articolato, animato da vari leader. Questa trasformazione non è senza costi, però. Dato che lo porterà ad essere più simile ad un partito tradizionale scontenterà il suo elettorato più arrabbiato e antipolitico. Ma nello scontro finale con il Pd anche costoro finiranno per scegliere il “ movimento”. Così come faranno quelli di destra, in odio alla sinistra.

Infine, il M5S gode di un vantaggio inarrivabile rispetto agli avversari su temi che coinvolgono molto i cittadini ( al di là del picco di questi giorni sulla sicurezza, destinato a calare passata l’emozione): l’onestà e l’affidabilità della classe politica. Su questo il M5S non teme confronti: la destra ha uno strascico infinito di guai con la giustizia da non essere nemmeno presa in considerazione, e il Pd ha molti fronti aperti e sta pasticciando troppo ( a partire dal caso De Luca) per ergersi in autorità morale.

L’indisponibilità degli elettori di destra a votare per il Pd nonostante Renzi, pur di attrarli, abbia scontentato una parte suo elettorato tradizionale, e la capacità di un M5S istituzionalizzato di intercettare domande pressanti e ampiamente condivise sulla legalità e l’onestà, rendono lo “ scontro finale” tra Partito democratico e Movimento 5 stelle molto più incerto del passato.


Due commenti all'intelligente (come al solito) contributo di Ignazi. (1) È proprio vero che nei discorsi correnti le etichette prevalgono sulle idee, e le apparenze (o meglio, i camuffamenti) sulla realtà. È proprio giusto parlare di "teatrino della politica", se dove si parla di politica, anche da pulpiti egregi, Matteo Renzi può ancora essere considerato uomo di sinistra. Non si comprende che cosa debba ancora fare per apparire agli elettori di destra come un personaggio affidabile, dopo tutto ciò che ha fatto "di destra". (2) Non stupisce tanto, ahimè, che dallo scenario disegnato da Ignazi manchi del tutto una sinistra "vera". Infatti quella di cui danno conto le cronache (e che si manifesta nel "teatrino") è la sinistra dilaniata tra personalismi, interessi di poltrona, rancori, fedeltà a rassicuranti gusci, o quella incerta, dubbiosa, ambigua che "turbila e non appare".

Comunicato stampa de "l'Altra Europa con Tsipras", dopo un altro passo dell'escalation bellica. 24 novembre 2015

Il salto di gravità dell’offensiva terroristica guidata dall’Isis continua a dare i suoi terribili frutti velenosi.

Oltre a spingere la Francia verso l’instaurazione di uno stato di emergenza che porta alla sospensione dei diritti civili e verso logiche di coinvolgimento degli altri paesi europei in atti di guerra, con il beneplacito formale degli organi della Ue, scatena antichi contrasti, rivalità e regolamenti di conti.

Il governo turco - che ha finora utilizzato la guerra al terrorismo per farla contro i Curdi che si battono contro l'Isis difendendo loro territori che la comunità internazionale continua a negargli, riconquistando città e posizioni che sembravano perse - ha deciso con un atto di guerra vero e proprio di abbattere un aereo russo.

Non si tratta qui di disputare di quanto e se il velivolo russo abbia violato lo spazio aereo turco. Si tratta di fermare una spirale che ci può portare verso il baratro di una guerra generale. La Turchia ha chiesto la convocazione immediata del Consiglio della Nato Nord. Dal canto suo Putin reagisce parlando di crimine e di conseguenze tragiche.

Chiediamo che l’Onu si occupi immediatamente della questione per fermare il crescendo dello scontro e le sue possibili ripercussioni militari su larga scala. L’Unione europea è chiamata direttamente in causa e deve svolgere finalmente un’iniziativa di pacificazione. Altrimenti assisteremo al trionfo contemporaneo delle strategie terroristiche e di guerra secondo una spirale che ben conosciamo e che ha già portato milioni di morti dalla prima guerra del Golfo, passando per la guerra in Afghanistan, in Iraq, in Libia, fino alla tragedia siriana.

Un contributo decisivo deve e può giungere dai popoli di tutto il mondo, dai movimenti per la pace, da parte di tutti coloro che sono contro il terrorismo e la guerra, due aspetti della stessa barbarie.

Sono riusciti nel loro intento i terroristi del 13 novembre se riescono a instaurare in Europa un regime quale quello che Hollande ha instaurato in Francia, Nasce il sospetto che il mandante non sia in Siria.

Il manifesto, 24 novembre 2015

Dopo Parigi, le strade deserte di Bruxelles ci pongono con drammatica evidenza la domanda se la libertà sia un giusto prezzo per la sicurezza.

La Francia ha affrontato la questione con la legge 2015–1501 del 20 novembre, che ha approvato la proroga dello stato di emergenza dichiarato dal governo il 14 novembre, con modifiche e integrazioni («renforçant l’efficacité») della legge 55–385 del 1955 che disciplina lo stato di emergenza.

Per tre mesi si applicano pesanti limitazioni ai diritti e alle libertà, con provvedimenti adottati dalle autorità amministrative e senza intervento del giudice. Fa impressione che in forza di generici richiami all’ordine pubblico e alla sicurezza ministro dell’interno e prefetti possano disporre domicili coatti, arresti domiciliari, accompagnamenti, divieti di contatto con persone individuate, ritiro del passaporto, divieti di circolazione, di assemblea, di riunione, scioglimenti di associazioni (misura che sopravvive alla cessazione dell’emergenza).

Si può dubitare che un arsenale così imponente sia conforme alla Costituzione. Ma era già presente nella originaria legge del 1955, e nel 1985 fu portato al vaglio del Conseil constitutionnel dai parlamentari dell’opposizione, con la legge di proroga dello stato di emergenza dichiarato per la Nuova Caledonia. Si eccepiva la mancanza di un fondamento costituzionale, richiamando la Costituzione solo lo stato d’assedio. Con la decisione 85–187 DC del 25.01.1985 il Conseil diede disco verde con ampia formula.

Oggi si aggiunge la possibilità di perquisizioni a qualunque ora del giorno o della notte in ogni luogo, incluso il domicilio, quando esistono «ragioni serie di pensare che il luogo sia frequentato da persona il cui comportamento costituisce una minaccia per la sicurezza e l’ordine pubblico» (art. 11, come modificato).

Per vedersi invasi, potrebbe bastare un amico di famiglia in contatto epistolare o sui social con persona sospetta. Rimangono esclusi solo i luoghi «affecté à l’exercice» di un mandato parlamentare, o dell’attività professionale di avvocati, magistrati e giornalisti. La perquisizione consente la copia integrale delle memorie di cellulari, computer e apparecchi connessi, anche in remoto.

È una previsione da grande fratello. Ma è improbabile che ne venga rovesciato il giudizio di conformità dato dal Conseil nel 1985, se vi si giungerà.

In apparente controtendenza è la soppressione dei controlli sulla stampa e l’informazione previsti nella legge 55–385.

Ma si cancella uno strumento perché non serve. La voce dei terroristi passa oggi non per i tradizionali mezzi di comunicazione ma per i più sofisticati strumenti tecnologici e del mondo virtuale. E la Francia del dopo Charlie Hebdo ha già adottato sull’informazione la legge 912 del 24 luglio 2015, fortemente restrittiva. Si va dai dispositivi di ascolto, alla vigilanza e chiusura di siti Internet, alla installazione presso i gestori di «scatole nere» che filtrano ogni comunicazione.

Anche qui, senza intervento del giudice.

Una legge volta non solo a combattere il terrorismo, ma a tutelare un ampio spettro di interessi strategici (v. art. 2). Solo per pochi limitati profili il Conseil constitutionnel ne ha dichiarato l’incostituzionalità (dec. 2015–713 DC del 23.07.2015). Mentre sono risuonate dure accuse di spionaggio di massa sul modello «Patriot Act» e NSA, e di radicale incostituzionalità.

Deve far riflettere che invece la legge sull’emergenza passi oggi nel sostanziale silenzio di critiche e dissensi e con ampio favore dell’opinione pubblica. Su tutto vince la domanda di sicurezza.

Un vento analogo soffia in Italia. Nei sondaggi cresce il numero di chi accetterebbe uno scambio tra diritti e sicurezza. È una tendenza comprensibile, ma pericolosa. Tutti affermano di voler mantenere il nostro modello di vita. Ma la garanzia di diritti e libertà è la rete invisibile che rende quel modello possibile e vitale.

Sappiamo che nessuno è a rischio zero.

Ma dobbiamo dire con forza che in Italia una legge come quella francese sull’emergenza sarebbe incostituzionale. Ne verrebbero violate la riserva di legge e la riserva di giurisdizione. Garanzie essenziali per cui i poteri del governo e delle autorità amministrative rimangono in ogni caso precisamente limitati, sia nel formulare le regole, sia nell’applicarle.

Deve essere l’assemblea elettiva a consentire alle limitazioni di libertà e diritti; dev’essere il giudice – autonomo, indipendente, imparziale — a valutare i concreti provvedimenti limitativi.

Questo discrimine costituzionale tra legalità e arbitrio va mantenuto. Si può – e dunque si deve — rispettarlo senza affatto sminuire l’efficacia dell’intelligence.

La storia del nostro paese ha già conosciuto tensioni su diritti e libertà. Per le leggi sul terrorismo interno, sulle misure di prevenzione, sulla violenza negli stadi. La Corte costituzionale ha complessivamente assolto la legislazione, e si può dire che ha tenuto ferma la barra del timone. Dobbiamo rimanere in rotta.

Per tre mesi la Francia è un paese sotto tutela. Un paese di sospettati. Poi si vedrà. In Assemblea Nazionale è stato suggerito che il régime d’exception diventi un droit commun: un diritto ordinario dell’emergenza, perché la minaccia durerà oltre il termine della proroga concessa. È molto probabile.

Ma non dimentichiamo che può essere facile assuefarsi a un regime di semilibertà.

Analogie non tanto paradossali. Servono almeno a ricordare a noi stessi quanti sepolcri imbiancati popolino i media e i palazzi che forgiano il pensiero comune.

Il Fatto Quotidiano, 22 novembre 2015

Magari fa comodo dimenticarlo, ma in Italia ètuttora viva e vegeta un’organizzazione terroristica che per un secolo ha fattomigliaia di morti ammazzati, che 13 e 12 anni fa mise l’Italia a ferro e afuoco con stragi mai viste in Europa e nel mondo (salvo la Colombia e il Libano)e che da vent’anni non spara più perché ha avuto quasi tutto ciò che chiedeva:la revoca di centinaia di 41-bis per i detenuti e l’ammorbidimento progressivodel carcere duro per chi ci è rimasto, una legge più blanda sui pentiti,l’omertà legalizzata con la sostanziale depenalizzazione della falsatestimonianza, la chiusura delle supercarceri di Pianosa e Asinara, ladelegittimazione scientifica di magistrati e pentiti, continui limiti alleintercettazioni e alle indagini, grandi opere da subappaltare agli amici degliamici, mano libera sugli affari da Sud a Nord, condoni fiscali per ripulire isoldi sporchi direttamente con lo Stato, addirittura (dal 1999 al 2001)l’abolizione dell’ergastolo, leggi col buco su voto di scambio eautoriciclaggio, ora persino l’innalzamento del limite ai pagamenti in contantida mille a 3 mila euro (così da poter spendere i proventi delle estorsionispicciole senza dare nell’occhio).

Questa organizzazione terroristica, essendoformata da italiani doc, quasi tutti cattolici e molto devoti, non suscita lostesso allarme di quelle di origine maghrebina e mediorientale. Eppurecontrolla da decenni un vasto territorio: non fra Siria e Iraq, ma fra Sicilia,Calabria e Campania, con propaggini non in Libia o in Mali, ma in Lazio, EmiliaRomagna, Piemonte, Lombardia, Val d’Aosta e altre regioni. Non si è maiproclamata Stato solo perché non ne aveva bisogno: diversamente dall’Isis,fortunatamente isolato, esecrato e combattuto dall’intero consesso civile,questa organizzazione terroristica ha sempre avuto ottimi rapporti con quellogià esistente, attraverso premier, ministri, sottosegretari, politici,governatori, sindaci, funzionari, poliziotti, carabinieri, 007, avvocati,banchieri, commercialisti, giornalisti, medici e prelati, ottenendo trattative,leggi di favore, impunità, assunzioni, appalti, finanziamenti, licenze, curesanitarie e sacramenti. Senza tutti questi agganci (i “concorsi esterni”), dopodue secoli di vita, sarebbe stata sconfitta da un pezzo.
Un sette volte presidente del Consiglio, GiulioAndreotti, è risultato associato a essa fino al 1980 (e aveva cominciato nel1946). Il n. 3 del Sisde, Bruno Contrada, era pagato dallo Stato ma lavoravaper essa, infatti fu condannato a 10 anni.

Un tre volte presidente del Consiglio, Silvio B.,leader del centrodestra, intratteneva con essa affettuosi e fruttuosi rapportitramite l’amico Marcello Dell’Utri, che nel 1992-’93 s’inventò Forza Italia eora sconta una condanna a 7 anni per mafia nel carcere di Parma, a qualchecella di distanza da Totò Riina. Un duevolte presidente della Repubblica,Giorgio Napolitano, ora senatore a vita, ha appena rifiutato di testimoniarenel quarto processo su una delle stragi da essa perpetrata, dove morirono ilgiudice Paolo Borsellino e gli uomini della scorta (il primo processo fudepistato da uomini della polizia, che confezionarono ai giudici un pacchettocompleto di falsi colpevoli per risparmiare quelli veri).

Il pm che sostiene l’accusa nel processosull’ultima trattativa fra l’organizzazione e pezzi dello Stato, Nino DiMatteo, è stato condannato a morte dal Riina con un piano stragista giunto altrasporto dell’esplosivo a Palermo, ed è costretto a viaggiare su un bombjammer, ma soprattutto a subire l’isolamento dalle istituzioni e dalla suacategoria, il dileggio dei pennivendoli berlusconiani e l’indifferenza diquelli “progressista”. Invece l’attuale ministro dell ’Interno Angelino Alfano,responsabile dell’ordine pubblico e della lotta al terrorismo, passa per ilnuovo Kennedy (nel senso di JFK) per le intercettazioni ambientali in cui sisentono alcuni mafiosi augurargli una morte violenta per non aver abrogato il41bis. Ora, il 41bis non è stato abolito non solo da Alfano, ma da tutti igoverni succedutisi da quando fu istituito (decreto Scotti-Martelli, 6.8.1992).Ed è di competenza del ministro della Giustizia Andrea Orlando. Perché, allora,i mafiosi vogliono farla pagare a quello dell’Interno Alfano?Perché essi stessispiegano che, diversamente da altri, Alfano è stato “portato qua con i votidegli amici. È andato a finire con Berlusconi e poi si sono dimenticati tutti”.Cioè è stato eletto da loro e poi s’è scordato di loro. Ma di questo passaggiocruciale delle intercettazioni non c’è traccia nei titoli dei giornali e deitg, così Alfano può tirarsela da martire ambulante che “rischia ogni giorno lavita per la lotta alla mafia”. Purtroppo i mafiosi dicono ben altro: più checome Kennedy, è come Salvo Lima.

Ora sostituiamo la parola “mafia” con “Isis” eproviamo a immaginare che accadrebbe, in un qualunque paese d’Europa, se siscoprisse che: un ex premier era iscritto all’Isis; un altro – tuttora leaderdel centrodestra – è amico dell’Isis e ha il suo braccio destro in galera percomplicità con l’Isis; pezzi dello Stato hanno trattato con l’Isis per smetteredi combatterla; l’ex presidente della Repubblica rifiuta di testimoniare alprocesso su una strage dell’Isis; e il ministro dell’Interno è stato elettodall’Isis e poi non s’è più fatto trovare. Dovrebbero tutti dimettersi ecorrere a nascondersi, per evitare la lapidazione. Invece, in Italia, l’Isisnon ha (ancora) una sede né un indirizzo. Infatti i nostri eroi sono sempreandati sul classico, cioè su Cosa Nostra. Quindi tranquilli: siamo in buonemani.

Fiaccole di speranza e solidarietà sotto la cupola nera del terrorismo e della paura.

Il manifesto, 23 novembre 2014

Una giornata particolare. Sotto un cielo nero di pioggia e di paura, tra negozi vuoti e strade semideserte. È la Roma che ha accompagnato le due manifestazioni «per la pace e il lavoro», quella della Fiom, per la fratellanza tra le religioni, «Not in my name», quella dei musulmani. Una capitale timorosa perché la paura ormai ha varcato le mura romane e abita nella città indicata, tra allarmi veri e fasulli, come l’obiettivo prediletto dai terroristi.

Per questo, la Fiom in piazza del Popolo e le associazioni italiane dei musulmani in piazza s. Apostoli, sono state innanzitutto una grande prova di coraggio. Coraggiosi e fieri, le donne e gli uomini musulmani insieme ai figli a dire «no al cancro terrorista» (a Roma come a Milano). E coraggiosi le donne e gli uomini del sindacato, tanto più che molte persone, come quelle che di solito si organizzano con le famiglie per le manifestazioni nazionali dei metalmeccanici, questa volta sono rimaste a casa. Perché «è normale avere paura», come ha detto il leader sindacale Maurizio Landini.

Perché è normale chiudersi in casa e rinunciare alla più elementare forma di partecipazione democratica proprio quando, guerra e crisi economica, si danno la mano per cambiare le nostre società fin nei loro fondamenti, a cominciare dalle costituzioni del Dopoguerra.

Succede oggi nella Francia ferita dal terrorismo, come potrebbe accadere domani in Europa se a farsi sentire sarà solo la voce delle bombe, e se la risposta sarà la chiusura delle frontiere. In un colpo solo torneremmo indietro d’un secolo, ai tempi dei nazionalismi, degli scontri tra gli imperi coloniali. E del resto, scendere in piazza per la pace e il lavoro, per la democrazia e la tolleranza ci spiega proprio questo: che la trincea tra progresso e barbarie è tornata ad essere la prima linea del confronto e del conflitto. In un momento storico che vede la massima estensione delle guerre e, insieme, la più grande concentrazione del potere finanziario globale.

Dal palco di piazza del Popolo hanno parlato anche due sindacaliste della Cgt, il maggior sindacato francese, allarmate per un paese trascinato «in una guerra che moltiplica morte e distruzione, impoverisce le popolazioni, alimenta il terrorismo». Hollande «sbaglia strada e la Francia — hanno ricordato — è il terzo produttore di armi dopo la Russia e la Cina».

Ieri è rientrata in Italia la salma di Valeria Solesin, la ragazza uccisa dai kalachnikov dei terroristi dell’Isis. La sua vita di cittadina europea, la sua esperienza di studio e di impegno sociale è la testimonianza forte di una generazione che rappresenta il futuro possibile. E in quel dialogo ravvicinato tra i lavoratori e i musulmani, in quelle due piazze pacifiche e partecipate, insieme alla drammaticità del momento c’erano anche gli anticorpi per resistere alla ferocia del terrorismo e al cinismo di chi, mentre si nutre di armi e di petrolio, sventola la bandiera della libertà.

Grazie alla Lega di Salvini e Calderoli e al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, da oggi per scongiurare il

tentato furto della tua automobilole puoi uccidere. In Italia. Il Fatto quotidiano, 14 novembre 2015

Sventurato il popolo che ha bisogno di eroi” recita un verso, abusato, di Bertold Brecht. L’ultimo eroe della Lega di Salvini si chiama Antonio Monella. Nel 2006 ha sparato e ucciso un ragazzo albanese di 19 anni che voleva rubargli il SUV. Era stato condannato a 6 anni e 2 mesi di carcere per omicidio volontario. Ieri la figura eroica di Monella è stata celebrata dalle istituzioni nazionali: il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, gli ha concesso la grazia su parere positivo del ministero della Giustizia, guidato dal dem Andrea Orlando. Una grazia parziale: la pe- na di Monella viene decurtata di due anni. Poiché gliene restano da scon- tare meno di tre, ora può uscire di galera e accedere ai servizi sociali o agli arresti domiciliari. L’ultima parola spetterà comunque al tribunale di Sorveglianza.

MONELLA È IN CARCERE dal settembre del 2014. Per l’uccisione di Ervis Hoxha, il ragazzo che aveva tentato di portargli via la Mercedes parcheggiata in giardino, la notte tra il 5 e il 6 settembre 2006, ha passato dietro le sbarre circa 14 mesi.

La sua vicenda, per la Lega, si è trasformata in un trionfo politico. A fine agosto, nel pieno della bagarre che ha preceduto il voto sulla riforma Costituzionale, il senatore del Carroccio Roberto Calderoli aveva proposto di rinunciare ai suoi 600 mila emendamenti proprio in cambio della grazia. La valanga di proposte di modifica che poteva rallentare il percorso delle riforme è poi effettivamente scomparsa. La pratica Monella invece si è sbloccata pochi mesi più tardi, dopo un’attesa durata oltre un anno (la richiesta era stata inoltrata al momento dell- carcerazione). Il regista dell’operazione, oltre allo stesso Calderoli, è il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri (che ieri infatti ha parlato di “atto giusto ed equilibrato”). Ma pure Salvini in questi mesi si è speso in un lungo – evidentemente fruttuoso – pressing sul ministro della Giustizia Orlando.

L’8 settembre il segretario leghista si vantava di aver ottenuto la stretta di mano decisiva: “Il ministro mi ha assicurato che entro settembre manderà avanti la richiesta con parere favorevole”.

L’ISTRUTTORIA del guardasigilli è arrivata all’attenzione di Mattarella non prima di novembre. Ieri il presidente ha sciolto le riserve. Dal Quirinale spiegano la decisione così: Monella è stato un detenuto impeccabile, ha dimostrato di essersi ravveduto, prima dellacondanna era incensurato. Ha pesato, soprattutto, il parere positivo delministero della Giustizia. Lo stesso Orlando che era stato criticato a lungodalla Lega per aver rallentato il percorso della grazia. Inutile, ieri, provarea chiedergli per quale motivo abbia cambiato idea: ogni tentativo – con lui econ il suo staff – è stato infruttuoso.La scelta del Quirinale, su un caso così delicato econtroverso, potrebbe aver creato un precedente pericoloso. La propagandaleghista sembrava non aspettare altro.

Salvini, cheda mesi nei suoi comizi si dedica all’apologia di commercianti e cittadini dalgrilletto facile, ha esultato su twitter, in un crescendo di enfasi e puntiesclamativi: “Grazia per Antonio Monella! In carcere da oltre un anno per averucciso un rapinatore, oggi è finalmente libero! Vittoria dei cittadini perbene,della Lega e del diritto di difendersi!”.

Calderoli si è spinto più in là: “Si è stabilito unprincipio – ha detto al Fatto – e adesso bisogna cancellare il reato di eccessodi legittima difesa. Il senso di questa decisione mi sembra chiaro: se entri a casa mia per rubare, ho il diritto diproteggermi”. E anche di uccidere.

D

Come era facilmente prevedibile il tentativo del presidente del Portogallo, Anibal Cavaco Silva, di operare un vero e proprio strappo alla democrazia affidando l’incarico di governo a chi aveva perso la maggioranza assoluta nelle elezioni e non aveva visibilmente i numeri in parlamento per costruire intese sufficienti a sostenere un esecutivo, è stato subito affondato. Infatti l’alleanza già in campo fra il Partido socialista Ps), il Bloco de Esquerda (Be, una formazione che fa parte del Partito della Sinistra Europea, di cui è membro anche la greca Syriza), il Partido ecologista os verdes (Pev) e il Partido comunista portugues (Pcp) ha liquidato l’esecutivo di minoranza guidato da Pedro Passos Coelho con 123 voti su 230.

Resta da chiedersi perché mai il Presidente del Portogallo si sia infilato in una simile mission impossibile, essendo i numeri già chiari in partenza. Certamente per dimostrarsi il più solerte – del resto lo aveva apertamente dichiarato – nei confronti dei desiderata dei mercati finanziari e delle elite che attualmente comandano nella Unione europea. Ma forse questa spiegazione da sola non basta. In realtà Cavaco Silva sperava che i socialisti ci ripensassero. Che cioè retrocedessero dall’idea di costruire un’alleanza di governo che le altre tre forze della sinistra. Invece l’accordo, messo nero su bianco ed estremamente articolato, ha retto. Ed ha anche ricevuto l’assenso di dirigenti del Partito socialista europeo.

E questo è certamente un elemento di novità nel quadro continentale. Non dimentichiamo che la formazione di punta della socialdemocrazia europea, la germanica Spd, pur avendo avuto a suo tempo i numeri per costituire un governo alleandosi con le formazioni alla propria sinistra, non lo ha mai fatto, preferendo in anticipo la Grosse Koalition con il partito di Angela Merkel. Né si può dire che i socialisti di Hollande abbiano dato grande prova di sé in termini di politiche alternative al neoliberismo da quando si sono insediati all’Eliseo.

La vicenda portoghese diventa quindi estremamente interessante anche per valutare se nella socialdemocrazia e tra i socialisti europei si sta aprendo un nuovo varco, una prima rottura nel monolitismo filo neoliberista, capace di aprire almeno una seria discussione nelle loro fila, oppure se si tratta di un episodio isolato, che magari qualcuno spera finisca male per proseguire imperterrito nelle politiche centriste.

Dopo il voto del Parlamento, il Presidente portoghese potrebbe in teoria dare vita ad un esecutivo tecnico che cerchi di guadagnare tempo, cioè i sei mesi previsti dalla Costituzione lusitana, perché sia possibile convocare nuove elezioni. Ma non appare la soluzione più probabile, poiché è molto dubbio che le destre ne trarrebbero vantaggio tale da riconquistare la maggioranza assoluta.

Fatti i necessari passaggi, Cavaco Silva dovrebbe quindi affidare l’incarico per il nuovo governo ad Antonio Costa, leader dei socialisti portoghesi, forte dell’appoggio delle altre forze della sinistra. “Il nostro obiettivo è chiudere con l’austerità rimanendo nel’euro”, ha dichiarato l’esponente socialista. L’analogia con l’impostazione politica e programmatica di Syriza su questo punto è evidente. Entrambi sono per un cambiamento radicale delle politiche della Ue, senza scegliere la strada della fuoriuscita dall’euro, che del resto è quella che il ministro delle finanze tedesco, Schauble aveva indicato alla Grecia. La famosa Grexit.

Un programma come quello stilato dalle sinistre portoghesi, che sul terreno sociale è l’esatto contrario di quello imposto dalla Troika in cambio degli “aiuti” forniti - tra i molti punti si può ricordare l’innalzamento graduale dello stipendio minimo, il ripristino della contrattazione collettiva, lo scongelamento dell’adeguamento delle pensioni, il ristabilimento delle festività abolite – e che avrebbe la forza di aprire un nuovo fronte di lotta contro l’austerità in un altro paese del Sud dell’Europa. Questo aiuterebbe sia la Grecia, nel suo tentativo di resistere alle misure più odiose contenute nel ricatto che ha dovuto subire, sia le sinistre spagnole che il 20 dicembre prossimo saranno chiamate a una decisiva prova elettorale. Il tutto rafforzerebbe la possibilità di imporre un cambiamento nelle politiche economiche, sociali e istituzionali della intera Unione Europea.

Mentre in Portogallo si apre questa concreta possibilità, in Gran Bretagna i conservatori guidati da David Cameron rilanciano la proposta di un Referendum sulla adesione alla Ue, previsto nella seconda metà dell’anno prossimo. Lo fanno con una lettera a Donald Tusk, Presidente del Consiglio della Ue, in cui formulano quattro richieste cui condizionare le scelte del Regno Unito per quanto riguarda la sua permanenza nella Ue. C’è chi considera questa di Cameron una mossa da spericolato giocatore. Spara ad alzo zero per strappare un accordo comunque vantaggioso per il suo paese. Cameron chiede la facoltà di rinuncia (opt-out) alla clausola dei Trattati su una Unione sempre più stretta; invoca tutele per il mercato interno di chi è fuori dall’Eurozona (a principale beneficio della sterlina, ovviamente); insiste su un maggiore ruolo dei parlamenti nazionali; pretende la sospensione per quattro anni dai benefici del welfare per gli immigrati extracomunitari. Misura, quest’ultima, quanto mai odiosa.

Come si vede i pericoli di implosione dell’Europa e di allargamento dell’antieuropeismo non derivano affatto dalle sinistre portoghesi, o di altri paesi, che vogliono combattere l’austerità, ma proprio dai paladini di quest’ultima, fra i quali militano i conservatori inglesi.

«L’autista Manuel Araya racconta gli ultimi giorni del poeta cileno “Dal processo aspetto la verità”»Una testimonianza sull'inizio dell'ascesa del dominio globale del finanzcapitalismo.

La Repubblica, 11 novembre 2015, con postilla

Circa quattro ore prima che Pablo Neruda morisse per “cancro alla prostata”, la domenica del 23 settembre del 1973, l’uomo che si prendeva cura di lui non riuscì a realizzare la sua penultima missione, perché i militari glielo impedirono: acquistare «un farmaco che avrebbe forse alleviato il dolore del poeta». Quarantadue anni dopo, Manuel Araya crede di dover portare a termine la sua ultima missione per Neruda: «Contribuire a dimostrare che fu assassinato». È convinto che il poeta non morì per le cause dichiarate ufficialmente. Ed è l’unico testimone diretto degli ultimi giorni del Nobel per la Letteratura. Aveva 27 anni allora.

Oggi, a 69 anni, dal suo Cile, ricorda per telefono quei giorni. Mentre andava a comprare quella medicina soldati armati di mitra lo fermarono. Fu insultato, picchiato, torturato. Poi lo trasferirono allo Stadio Nazionale, dove la dittatura spediva i suoi oppositori. Il giorno dopo, l’arcivescovo Raúl Silva Henríquez lo riconobbe: «Ma lo sa, Manuel? Pablito è morto ieri sera, alle dieci e mezzo». Araya esclamò: «Assassini!». L’arcivescovo chiese ai militari di lasciare uscire l’autista dallo stadio. Fu possibile solo 42 giorni dopo, col peso ridotto a 33 chili.

Araya forse si salvò per la seconda volta dalla morte quando, il 22 marzo 1976, suo fratello Patrick - scambiato per lui, assicura - fu fatto scomparire. Non se ne seppe più nulla. A sostegno della sua teoria, ricorda che uccisero Homero Arce, segretario personale di Pablo Neruda, nel 1977. «Tutti i collaboratori furono fatti sparire. Io sono l’unico rimasto vivo. Vivevo nascosto in casa di amici. Nessuno mi dava lavoro, finché nel 1977 cominciai a fare il tassista».

La dittatura finì nel 1990. Si mantenne in contatto con Matilde Urrutia, la terza moglie di Neruda, morta nel 1985. «Non volle mai parlare dell’omicidio. Ho smesso di vederla per questo. Siamo diventati nemici. Ho bussato a tante porte. Anche a quella del presidente Eduardo Lagos. Nessuno mi ha dato ascolto. Nè i politici, né i media». Finché, nel 2011, un giornalista della rivista messicana Proceso non pubblicò la sua storia. Allora, il partito comunista e Rodolfo Reyes, nipote di Neruda, presentarono una denuncia in base alla sua testimonianza.

Nel 2013 il cadavere dello scrittore venne riesumato, ma i medici forensi non trovarono tracce di veleno. Il caso si è riacceso in occasione della biografia Neruda. El príncipe de los poetas dello storico Mario Amorós, la cui principale rivelazione è il rapporto segreto del Programma per i diritti umani del ministero dell’Interno, inviato il 25 marzo 2015, al magistrato Mario Carroza Espinosa, responsabile del procedimento. Il documento, sulla base di testimonianze e prove documentali, segnala che «risulta chiaramente possibile e altamente probabile l’intervento di terzi» nella morte del Nobel. Inoltre, un team forense internazionale indaga sulla presenza dello staffilococco aureo nel corpo del poeta. Un batterio che, geneticamente modificato e applicato in dosi elevate, può essere letale.

Araya è nato il 29 aprile del 1946. «Nel 1972, quando Neruda torna in Cile per aiutare Allende nel caos che sta attraversando il paese, il partito Unidad Popular mi assegna a lui. Divento la sua guardia del corpo, il suo segretario e il suo autista. Ho vissuto con lui nella casa di Isla Negra. Neruda aveva una flebite alla gamba destra e zoppicava, a volte. Era in terapia per un cancro alla prostata, ma non era agonizzante. Era un uomo che pesava più di cento chili, robusto, che amava la buona tavola e le feste. L’11 settembre 1973, quando Pinochet mise in atto il colpo di Stato, ci troviamo a Isla Negra. Rimaniamo senza telefono. Il giorno dopo, ci mettono davanti una nave da guerra con i cannoni. Il giorno 14, arrivano i militari e perquisiscono la casa. Neruda parla con il suo medico, il dottor Roberto Vargas Salazar, che gli dice che il 19 settembre, presso la Clinica Santa Maria, si sarebbe liberata la stanza 406».

«Il 19 lasciamo Isla Negra in macchina e ci rechiamo a Santiago. Arriviamo verso le sei del pomeriggio. Non lasciammo mai Neruda da solo. Rimasi tutti i giorni lì a dormire. Domenica 23 Neruda mi dice di andare con Matilde a Isla Negra per prendere i bagagli. Stiamo per tornare quando chiede che dicano a Matilde di recarsi di corsa in clinica. Quando arriviamo, vedo che Neruda è rosso in viso. “Che succede?”, gli chiedo. “Mi hanno fatto un’iniezione sulla pancia e mi sento bruciare dentro”, mi rispose. In quel momento, entra un medico e mi dice: “Lei, che è l’autista, vada a comprare una confezione di Urogotan”. Non sapevo che cosa fosse, solo dopo ho saputo che è un farmaco per la gotta».

Uscì e non riuscì più a tornare. «Mentre sono in macchina, mi intercettano due automobili. Mi portano alla stazione di polizia, mi interrogano e mi torturano. Volevano che gli dicessi dov’erano i leader comunisti, e chi vedeva Neruda. Alla fine, mi portano allo Stadio Nazionale». Nel 2011, Manuel Araya dice che Pablo Neruda è stato assassinato. Si apre l’inchiesta. Ora Araya aspetta il verdetto. La sua ultima missione per Pablo Neruda è compiuta. Lo hanno ascoltato. Nel 2016, ormai settantenne, saprà come è andata a finire. In Cile adesso è primavera, come in quei giorni del 1973, ma lui ha freddo e dice: «Sono più tranquillo che mai».

© El País / LENA, Leading European Newspaper Alliance Traduzione di Luis E. Moriones


postilla


Quanti ricordano, o sanno, che la sanguinosa vicenda della soppressione della Repubblica cilena governata da Salvador Allende, fu il primo atto dell'instaurazione del potere mondiale del finanzcapitalismo? Quell'atto criminoso fu la sperimentazione e l'avvio del dominio mondiale di cui la NATO, l'Unione europea e i governi europei - giù giù fina all'Italia di Matteo Renzi) sono l'espressione. L'occasione della testimonianza sulla morte del grande poeta è un invito a leggere, o rileggere, la breve storia del neoliberalismo, di David Harvey (vedi, su eddyburg, la recensione di Ilaria Boniburini), su un altro piano, i tre saggi di Enrico Berlinguer del 1973 (riuniti su eddyburg con il titolo Il Cile, l'Italia e il compromesso storico )

Un'analisi preoccupata della destra di Salvini e Meloni. Ma una moderata in Italia c'è: è il renzismo, e il suo partito.

La Repubblica, 11 novembre 2015
OLLEVA in realtà molti problemi la discesa in campo ufficiale del centrodestra post-berlusconiano: questo ha rappresentato la manifestazione di Bologna, pur con la residuale presenza dell’ex Cavaliere, e su questo occorre soffermarsi con attenzione. Per quel che ci dice della destra italiana e per le questioni che pone, o dovrebbe porre, ad un centrosinistra che appare ormai inafferrabile. Se così non fosse, e se si trattasse solo di una vicenda nostra, non ci dovremmo preoccupare più del dovuto per quel che si è visto domenica. Ci potremmo sin consolare per la sostanziale “mancanza di egemonia” di quella piazza, per la sua incapacità di rappresentare davvero una parte ampia del Paese. In realtà la speranza che possa emergere in Italia una “destra normale” è svanita da tempo e le ragioni non affondano solo nella storia del nostro Paese.

È sufficiente volger lo sguardo all’Europa per comprenderlo: dalla Francia di Marine Le Pen, da tempo interlocutrice di Matteo Salvini, a Paesi ex comunisti come l’Ungheria e la Polonia (senza dimenticare il voto di domenica in Croazia) e sino alla Danimarca o ad altre nazioni ancora. Nella crisi dell’Europa, questa è la destra.
Certo, a un primo sguardo non c’è paragone fra i toni sostanzialmente “monocordi” di Bologna e la capacità di egemonia messa in campo nel 1994 (anche allora però ce ne accorgemmo tardi). Confluirono in Forza Italia propensioni molto differenti del Paese: dagli umori degli anni Ottanta a quel misto di conformismo e di qualunquismo che era potuto crescere all’ombra stessa della Dc; dalle illusioni di un “secondo miracolo italiano” alla ripulsa dei vincoli collettivi; dalla speranza di un “futuro sregolato” alla fiducia nella propria capacità di affermazione, personale e di gruppo; e sino all’estraneità, se non alla ostilità, nei confronti dello Stato e dei valori civici. Senza tralasciare quella modernità intrisa di “predominio del sé”, quell’anticonformismo infastidito da egualitarismi e da solidarietà sociali che era cresciuto all’ombradel socialismo craxiano. Si aggiunga la forza di seduzione del linguaggio comunicativo di allora, maturato anch’esso negli anni Ottanta, e si comprenderà meglio quanto è stata diversa la “discesa in campo” di domenica.
Non si ironizzi però più del dovuto sullo sforzo di Salvini di dismettere la felpa o di rendere un po’ più morbida l’evocazione delle ruspe: la cultura delle ruspe e dei muri si è diffusa e si sta diffondendo, e con la “destra smoderata” occorrerà fare i conti sino in fondo. Conta poco allora la miserevole qualità del comizio urlato di Giorgia Meloni, quasi un aggiornamento degli umori missini prima di Fiuggi. Conta pochissimo l’immagine patetica che l’ex Cavaliere ha dato di sé. E conta ancor meno l’assenza in quella piazza di qualche disperso frammento del centrodestra, ormai in pericoloso avvicinamento al centrosinistra o impegnato in una ricerca di visibilità senza sbocchi. Conta molto di più, per altri versi, l’incombere dell’onda montante del Movimento Cinque Stelle: e conta, paradossalmente, soprattutto perche esso appare incapace di proporsi come alternativa politica credibile. Perché si aggiunge alle derive dell’astensionismo anziché convogliarle nel proprio progetto (parola grossa, in questo caso, ma non ne esistono altre); e perché si assomma alla marea della destra smoderata.

Lungi dal rallegrarsi per le autostrade che il “centrodestra di Bologna” le spalancherebbe, come qualcuno ha suggerito, il centrosinistra dovrebbe considerare con urgenza ancor maggiore — e con un senso del dramma ancor più acuto — le incertezze e l’impasse di cui sembra da tempo prigioniero. Quasi paralizzato nel suo frenetico eludere alcuni nodi di fondo o nel pensare che la partita principale, la vera “resa dei conti”, si svolga nel proprio campo e nelle sue immediate vicinanze. Anche per questo lo stesso dibattito sul profilo della sinistra, assolutamente fondamentale, appare oggi sterile e privo di sbocchi, nella divaricazione fra chi lo considera irrilevante — se non dannoso — e chi si attarda su formule malamente invecchiate. In questo scenario inoltre appaiono largamente assenti le questioni poste dalla crisi internazionale del 2008 e dalla sua onda lunga. Davvero dopo di essa e dopo le trasformazioni globali che sono intervenute la “ripresa” riproporrà i precedenti modi di vivere e di produrre? Davvero potremo ritornare a modelli noti? A terre incognite siamo in realtà giunti ed esse esigono scelte inedite e lungimiranti dei Parlamenti e dei cittadini.

Diventano ancor più decisive in questo quadro alcune bussole fondamentali della sinistra, a partire dall’equità sociale: dovrebbe essere un faro splendente, dopo i marosi che abbiamo attraversato, eppure nel dibattito politico non sembra avere la centralità necessaria. Si consideri anche il nodo delle compatibilità economiche: qual è il confine fra la necessità di ridare fiducia all’economia e ai soggetti sociali e il ritorno all’irresponsabilità degli anni berlusconiani? Terre incognite, davvero, e non è possibile inoltrarsi in esse senza quel rinnovamento della politica che era stato alla base della “spinta propulsiva” del Pd di Renzi e di cui però — difficile negarlo — non si vedono proprio le tracce. A due anni da quella proposta e da quell’impegno il panorama è sotto gli occhi di tutti: sia per quel che riguarda le modalità generali dell’agire politico sia per quel che riguarda il modo di essere del Pd, quasi abbandonato alle proprie derive. Le macerie del partito romano non hanno origini recenti: ed è silente su questi temi la minoranza interna, occupata in frantumazioni sempre nuove (e sempre identiche a se stesse) e con rilevanti responsabilità per il passato. Terre incognite e al tempo stesso avvolte da presagi sempre più preoccupanti: c’è solo da sperare che la consapevolezza del dramma inizi ad affacciarsi anche nei più convinti araldi dell’ottimismo.

«Anche lo sport, come svelarono senza pudore Hitler, Mussolini, i gerarchi sovietici e i tedeschi dell’Est, può essere l’anticipazione della guerra con altri mezzi».

La Repubblica, 10 novembre 2015 (m.p.r.)

Mancavano l’accusa di “doping di Stato” e la richiesta di cacciare la Russia dal paradiso a cinque cerchi per riportare le lancette della nuova Guerra Fredda ancora più indietro nel tempo. Agli anni delle virili discobole, delle nuotatrici artefatte della Ddr e del commissario politico del Kbg al seguito delle squadre.

La frontiera mobile e multidimensionale del nuovo confronto globale fra la Russia di Putin e l’Occidente si estende. Si muove ormai dalla Siria al Donbass, dai cieli del nord Europa dove caccia russi fischiano attorno ad aerei Nato ai boicottaggi commerciali. Arriva alla sovraproduzione deliberata del petrolio per far crollare il prezzo del petrolio, fonte principale di ricchezza per i russi, per raggiungere il medagliere olimpico, la corruzione di Sochi 2014 e le colossali code di paglia di tutto il business, politico e commerciale, dello sport.
L’accusa, durissima, avanzata dalla Wada, l’agenzia mondiale creata per contenere la pandemia del doping nello sport e in particolare nell’atletica, diventa quindi involontariamente, ma inesorabilmente, un gesto politico. Va ben oltre il dubbio che un atleta russo o un’atleta americana o cinese si pompassero per vincere medaglie olimpiche, che sarebbe la triste, quanto classica scoperta dell’acqua calda e del verminaio che si nascondono dietro la mistica dello “sport separato dalla politica”.
Parla, in maniera esplicita, di doping sistematico, della “bomba di Stato” di una situazione di regime condonata o favorita dal governo della Federazione Russa, dunque da Putin, attraverso ministri e funzionari del nuovo Kgb ribattezzato Fsb. Un Villaggio Potemkin della superiorità atletica costruito esattamente per le stesse ragioni che, nell’Europa d’oltre muro, spingevano i governi a gestire quei tragici allevamenti di bambini trasformati in atleti e atlete in batteria capaci di portare un incredibile totale di 102 medaglie a una nazione di 16 milioni di abitanti, come la Repubblica Democratica Tedesca nell’ultima Olimpiade alle quale partecipò come tale, Seoul 1988.
La sostanza dell’assalto allo sport olimpico e all’atletica russa in particolare è diretta quindi contro il cuore stesso del “putinismo”, che non pulsa nella forza militare, nello stato dell’economia, nella mitologia putrefatta del Socialismo Reale, ma vive in qualche cosa che ogni cittadino russo, indipendentemente dalla propria condizione sociale o dalle propria opinioni politiche, considera irrinunciabile: l’orgoglio nazionale. Il prestigio della “Ròdina” della madre patria considerata, da sempre, come esposta alle minacce, alle umiliazioni, all’assedio del mondo esterno.
Espellere gli atleti russi dalle competizioni internazionali e soprattutto da quei Giochi Olimpici del 2016 ormai imminenti sarebbe più di una battaglia perduta per Putin. Sarebbe un affronto alla Russia intera che il piccolo zar non potrebbe tollerare per non incrinare la propria leggenda, come i suoi predecessori nei palazzi del Cremlino non poterono subire senza reagire il boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca 1980, boicottando Los Angeles 1984. Se non potrebbe essere considerato come un atto di guerra, sarebbe vissuto come una sfida letale all’onore della Patria e aumenterebbe la temperatura di un confronto che ha sempre meno voglia di restare freddo.
I russi, nel racconto epico voluto da Putin, si sentono più che mai assediati e presi dalla storica paranoia della minaccia esterna, dicono i sondaggi. Vedono nell’Ucraina, che pure ha perduto e sta perdendo pezzi di territorio inghiottiti dalla Russia, come il grande avamposto dell’espasionismo neoimperialista americano e dei neonazi tedeschi. La Nato, canta la narrativa degli agit prop putiniani, sta meticolosamente preparando una guerra vera, per mettere definitivamente in ginocchio la Madre Russia.
Obama dispiega nuovi reparti americani in Polonia e nei Paesi Baltici, in realtà poche migliaia di soldati, batterie missilistiche e artiglierie del tutto insufficienti per lanciare qualsiasi azione offensiva, ma simbolicamente rappresentativi del continuo riposizionamento avanzato del “nemico” sulla porta di casa. E Dick Pound, l’avvocato che ha condotto gli 11 mesi di inchiesta sul “doping di Putin” è canadese, dunque sicuramente parte della trama nordamericana, per la paranoia popolare.
In questo grande balzo all’indietro verso il buio a mezzogiorno che ha avuto nel massacro dei turisti russi sul Metrojet l’ultima e atroce conferma della nuova esposizione e quindi vulnerabilità globale della Russia, la decapitazione dell’orgoglio nazionalistico sportivo sarebbe un insulto difficile da accettare per un pubblico russo convinto, come tanti, e non a torto, che in materia di doping sportivo la discriminante non sia fra chi si pompa o non si pompa. Ma tra chi viene scoperto e chi la fa franca. Alimenterebbe la sensazione che il mondo esterno, quello che sta oltre i confini occidentali, stia ricadendo nella dinamica politica del “containment” che guidò la strategia americana nel dopoguerra, del limitare e contenere le ambizioni e l’espansionismo di Mosca a ogni costo, resi allarmanti dall’annessione dell’Ucraina e ora dall’intervento militare per puntellate l’ultimo satellite russo in Medio Oriente, il regime siriano di Bashar al-Assad. È solo sport, sono solo medagliette, son soltanto “pere”, truffe sleali per correre più forte e saltare più in un alto, ma non è vero. Anche lo sport, come svelarono senza pudore Hitler, Mussolini, i gerarchi sovietici e i tedeschi dell’Est, può essere l’anticipazione della guerra con altri mezzi.

IHuffington Post, 7 novembre 2015

IL DOCUMENTO DI “SINISTRA ITALIANA”

1. Noi ci siamo, lanciamo la sfida
Riteniamo non solo necessario ma non più procrastinabile avviare ORA il processo costituente di un soggetto politico di sinistra innovativo, unitario, plurale, inclusivo, aperto alle energie e ai conflitti dei movimenti dei lavoratori e delle lavoratrici, dei movimenti sociali, dell’ambientalismo, dei movimenti delle donne, dei diritti civili, della cittadinanza attiva, del cattolicesimo sociale.

Un soggetto politico in grado di lanciare in modo autorevole e credibile la propria sfida al governo Renzi e a un PD ridotto sempre più chiaramente a "partito personale del leader", in rappresentanza del variegato universo del lavoro subordinato e autonomo, degli strati sociali che più soffrono il peso della crisi, dei loro diritti negati e delle loro domande inascoltate, orientato a valorizzare la funzione dei governi territoriali e dei corpi intermedi. Dobbiamo rispondere in modo adeguato - con la forza, il livello di unità e la chiarezza necessarie - alla domanda sempre più preoccupata di quel popolo di democratici e della sinistra che non si rassegna alla manomissione del nostro assetto democraticocostituzionale, alla liquidazione dei diritti del lavoro e alla cancellazione del residuo welfare.

L'obbiettivo è lavorare fin d’ORA, in un contesto di dimensione europea contro le politiche neoliberiste, all’elaborazione di un programma comune con cui candidarsi alle prossime elezioni politiche alla guida del Paese, con una proposta politica autonoma e in competizione con tutti gli altri poli politici presenti (la destra, il M5S e il PD), nella consapevolezza che in Italia la stagione del centro-sinistra è finita. In Europa è evidente la crisi profonda delle tradizionali famiglie socialiste.

Ogni giorno che passa aumenta il disagio e il disastro nel Paese. Renzi ha declinato il tema della vocazione maggioritaria come politica dell'uomo solo al comando, alibi per un partito trasformista pigliatutto in realtà dominato dall'agenda liberista dell'Eurozona. Noi vogliamo al contrario costruire una sinistra in grado di animare un ampio movimento di partecipazione popolare e di realizzare alleanze sociali e politiche che mettano radicalmente in discussione le “ricette” nazionali ed europee che hanno caratterizzato il governo della crisi da parte di Popolari e Socialisti. Sappiamo perfettamente che non è sufficiente unire quel che c’è a sinistra del Partito Democratico, o autoproclamarsi alternativi, per costruire un progetto all'altezza della sfida, davvero in grado di cambiare la vita delle persone. Ma siamo altrettanto convinte/i che senza questa unità il processo nascerebbe parziale, o non nascerebbe affatto. Per questo noi questa sfida la lanciamo oggi. Insieme.

2. Definzioni del soggetto
Il Soggetto politico che vogliamo sarà: democratico, sia nel suo funzionamento interno (una testa un voto regola guida, strumenti e momenti di partecipazione diretta e online, pratiche di co-decisione tra rappresentanti istituzionali e cittadini, costruzione dal basso del programma politico) sia perché deve essere il punto di riferimento e di azione di tutte/i i democratici italiani di tutte e tutti, perché deve essere il luogo in cui tutte/i coloro che si contrappongono alle politiche neoliberiste, alla distruzione dell’ambiente e dei beni comuni, alla svalutazione del lavoro, alla crescente xenofobia, alle guerre, all’attacco alla democrazia possono ritrovarsi e organizzarsi in un corpo collettivo capace di superare antiche divisioni nell’apertura e nel coinvolgimento delle straordinarie risorse fuori dal circuito tradizionale della politica. Alternativo e autonomo rispetto alle culture politiche prevalenti d’impronta neoliberista che ci condannano al declino sociale e culturale, di cui oggi il PD tende ad assumere il ruolo di principale propulsore e diffusore. Innovativo sia nelle forme sia per la rottura con il quadro politico precedente, così come sta avvenendo in molti paesi europei. Differente dal sistema politico corrotto e subalterno di cui siamo avversari. Europeo in quanto parte di una sinistra europea dichiaratamente antiliberista, che, con crescente forza e nuove forme, sta lottando per cambiare un quadro europeo insostenibile.

3. L'anno che verra' - il 2016
Il 2016 ci presenta passaggi politici di grande importanza: le amministrative che coinvolgono le principali grandi città, il referendum sullo stravolgimento della Costituzione e la possibile campagna referendaria contro le leggi del governo Renzi.
In coerenza con il nostro obbiettivo principale per la scadenza delle amministrative vogliamo lavorare alla rinascita sociale, economica e morale del territorio, valutando in comune ovunque la possibilità di individuare candidati, di costruire e di sostenere liste nuove e partecipate in grado di raccogliere le migliori esperienze civiche e dal basso e di rappresentare una forte proposta di governo locale in esplicita discontinuità con le politiche dell’attuale esecutivo. Fondamentale è la costruzione di una forte campagna per il NO nel referendum sulla manomissione della Costituzione attuata dal governo Renzi e il sostegno alle campagna referendarie in via di definizione contro le leggi approvate in questi 2 anni.

4. Quindi...
Al fine di avviare il processo Costituente di questo soggetto politico, convochiamo per il XX xx dicembre 2015 una assemblea nazionale aperta a tutti gli uomini e le donne interessati a costruire questo progetto politico. Da lì parte la sfida che ci assumiamo e li definiremo la nostra carta dei valori. L'assemblea darà avvio alla Carovana dell'Alternativa, individuando le forme di partecipazione al progetto politico. Si tratta di definire il nostro programma, le nostre campagne e la nostra proposta politica in un cammino partecipato e dal basso che con assemblee popolari e momenti di studio e approfondimento coinvolga movimenti, associazioni, gruppi formali e informali unendo competenze individuali e collettive.
Entro l’autunno del 2016 ci ritroveremo per concludere questa prima fase del processo e dare vita al soggetto politico della sinistra.

LETTERA DI NADIA URBINATI

La formazione di un gruppo parlamentare della sinistra alla Camera e al Senato, che il documento di Carlo Galli esplicita nelle motivazioni e nelle ragioni, è una scelta necessaria anche se non facile e rischiosa. Non è facile perchè la sinistra che la promuove proviene da una tradizione che è ostile al frazionismo e allo scissionismo. E’ tuttavia necessaria, perchè questo Pd rappresenta un problema, non solo per la sinistra ma anche per il pluralismo politico, a causa della sua esplicita vocazione personalistica e plebiscitaria e dell’uso a dir poco cinico del compromesso politico – nel documento si parla di togliattismo senza idealità.

E’ necessaria anche perchè in materia di contenuti, ovvero di diritti sociali fondamentali (del e nel lavoro, dell’istruzione pubblica, della sicurezza sociale, e della salute), questo Pd non si distingue da un ordinario partito moderato e a tratti conservatore, comunque genuflesso al liberalismo economico. Non ha un’autonoma visione di giustizia sociale, che infatti identifica con la carità per i perdenti della lotta sociale e la filantropia privata di chi può verso chi non può. Questo linguaggio è estraneo sia alla cultura politica della sinistra sia alla democrazia, le quali assegnano centralità all’eguaglianza nei diritti e nella dignità politica di tutti i cittadini. E’ una scelta necessaria, infine, perchè sono molti gli elettori di sinistra privi di riferimenti politici credibili e validi, indotti per questa ragione a disertare le urne, una scelta sofferta e gravissima per un cittadino.

Certo, questa è anche una scelta rischiosa. Vi è il rischio che si tratti di una scelta tardiva (e sotto molti aspetti lo è) e soprattutto che resti una formazione solo parlamentare, senza la capacità di radicarsi nel paese, di diventare cioè un partito. Questi sono due rischi che nessuno può ragionevolmente sottovalutare perchè la sinistra parlamentare non ha una leadership fuori dal Parlamento. Tuttavia, l’agire politico democratico è naturalmente associato al rischio, al fallibilismo, al coraggio di fare scelte; e proprio per questo è aperta negli esiti e nelle possibilità. Occorre osare e lanciare una sfida da sinistra, con l’obiettivo di guadagnare ad essa consenso e autorevolezza in corso d’opera (le forze si acquistano camminando), due condizioni che non possono che far bene alla politica (e allo stesso Pd).

La critica sottesa a questa vostra scelta, come si evince molto chiaramente dal documento di Galli, è naturalmente rivolta al Pd, per quel che sta diventando o che non vuole più cercare di essere. Nonostante gli sforzi di intellettuali rappresentativi che hanno dato volto alla sinistra di ieri, associare questo Pd al “novello Principe” è anacronistico, a meno di non adattare il progetto gramsciano ad ogni formazione partitica che aspiri e rierca a dominare la società con qualunque metodo: tramite un partito cioè o per mezzo di un plebiscito dell’audience. Oltre a ciò, il valore del processo democratico sta nella sua capacità di regolare il conflitto politico consentendo un’aperta competizione per il governo del paese. Fino a quando chi perde un’elezione ha la forza di far sentire a chi vince la sua presenza e la possibilità di un’alternanza c’è vitalità politica e controllo democratico.

La democrazia non è unanimità o consensualismo dell’audience, ma dialettica tra maggioranza e opposizione, lotta politica non futile. Queste sono le ragioni che mi portano a sostenere questo progetto. Il pluralismo e il conflitto stanno in relazione simbiotica e sono entrambi a repentaglio in questa fase plebiscitaria a guida renziana. Il Pd è nato con un’ambiguità che nel corso del tempo si è ingigantita: indebolire le strutture di democrazia interna al partito ha facilitato la formazione di leader plebiscitari e la fuga degli iscritti o di chi cercava un luogo di partecipazione politica.

Questo Pd è generatore di un progetto di “partito totale” o “partito unico” che sembra adattarsi bene ad una società spoliticizzata e docile, a una cittadinanza che accetta di monetarizzare i diritti. Il Partito della Nazione suggerisce, in questo senso, analogie con le esperienze maggioritariste che si stanno affermando in alcuni paesi europei, se non altro per la vocazione a cercare di creare un dominio largo della maggioranza e neutralizzare il più possibile il pluralismo e il rischio dell’alternanza (in questo senso procede la riforma elettorale unitamente a quella della Costituzione). Non è stato questo l’ideale per il quale i resistenti hanno combattuto contro il plebiscitarismo fascista e che ha ispirato i costituenti che hanno siglato il nobile compromesso, la Costituzione della Repubblica Italiana del 1948.

Vi auguro buon lavoro e, senza retorica, buona fortuna.

Mentre una parte della vecchia sinistra si accorge che il PD è di destra e vuole costruire una formazione alternativa, altri seguono la strada di Syriza e di Podemos e mobilitano il disagio sociale, a<articoli di Angelo Mastrandrea e Corrado Oddi.

Il manifesto, 7 novembre 2015



UN'AGORA PER L'ACQUA PUBBLICA
di Angelo Mastrandrea

Movimenti. Due giorni di dibattito a Roma tra comitati, militanti ed esperti, anche internazionali Per delineare le alternative di gestione dei beni comuni e opporsi alle privatizzazioni
<Appena tre giorni fa, il Tar del Lazio ha dato torto al sin­daco di Cas­sino che aveva ordi­nato di rial­lac­ciare l’acqua a un cit­ta­dino moroso, acco­gliendo un ricorso dell’Acea. I giu­dici ammi­ni­stra­tivi hanno sta­bi­lito che «il sin­daco non può inter­ve­nire con un’ordinanza» per­ché «in que­sto caso si rea­lizza uno svia­mento di potere, che vede il Comune estra­neo al rap­porto con­trat­tuale gestore-utente» e quindi non può impe­dire «al mede­simo gestore di azio­nare i rimedi di legge tesi a inter­rom­pere la som­mi­ni­stra­zione di acqua nei con­fronti di utenti non in regola con il paga­mento della tariffa, e ciò a pre­scin­dere dall’imputabilità di sif­fatto ina­dem­pi­mento a ragioni di ordine sociale». Si tratta di un pre­ce­dente signi­fi­ca­tivo, che testi­mo­nia quanto sia impor­tante non lasciare nelle mani degli ammi­ni­stra­tori (e dun­que dei giu­dici ammi­ni­stra­tivi) la patata bol­lente delle sof­fe­renze sociali, e l’importanza di avere leggi chiare al pro­po­sito. Una di que­ste (ne abbiamo par­lato a più riprese sul mani­fe­sto) è quella appro­vata dalla Regione Sici­lia, che pre­vede il minimo garan­tito di 50 litri gior­na­lieri a testa, che per l’Oms sono «il quan­ti­ta­tivo minimo per vivere una vita digni­tosa». Baste­rebbe, se appli­cata sull’intero ter­ri­to­rio nazio­nale, a evi­tare che le per­sone in dif­fi­coltà pos­sano tro­varsi da un giorno all’altro con i rubi­netti a secco.

Quello di Cas­sino è solo uno degli effetti col­la­te­rali, non diretti, della man­cata appli­ca­zione del refe­ren­dum che ha detto no alla pri­va­tiz­za­zione dei ser­vizi idrici nel nostro Paese. Fosse stato real­mente appli­cato, anche il costo del ser­vi­zio e la gestione dei distac­chi sarebbe stata diversa. In realtà, in que­sto caso sarebbe bastato che l’Ato5 (cui fa rife­ri­mento Cas­sino) avesse isti­tuito il Fondo per le per­sone indi­genti pre­vi­sto dalla legge Galli e finan­ziato con i pro­venti delle bol­lette, cosa che non è mai acca­duta. Di Cas­sino e delle vicende mes­si­nesi (e pure Gela, in que­sti giorni pure rima­sta a secco), delle man­cate ripub­bli­ciz­za­zioni e di come difen­dere i diritti e i ser­vizi essen­ziali in que­sta sta­gione di «pri­vato è bello», ma pure di come imma­gi­nare delle alter­na­tive rea­liz­za­bili alle forme di governo dei beni comuni si par­lerà, oggi e domani a Roma, nell’Agorà orga­niz­zata dal Forum ita­liano dei movi­menti per l’acqua al cowor­king Mil­le­piani a Gar­ba­tella. Il movi­mento per i beni comuni si con­fron­terà con ospiti inter­na­zio­nali come l’europarlamentare irlan­dese Lynn Boy­lan e l’ex pre­si­dente della società Eau de Paris (tor­nata in mani inte­ra­mente pub­bli­che) Anne Le Strat, con giu­ri­sti, ricer­ca­tori, sin­daci e atti­vi­sti (tra i par­te­ci­panti, padre Alex Zano­telli e il segre­ta­rio della Fiom Mau­ri­zio Landini).

«Imma­gi­niamo que­sto incon­tro come un pas­sag­gio utile a foca­liz­zare le tema­ti­che e la defi­ni­zione del diritto all’acqua e la difesa dei beni comuni mediante una loro gestione diretta e par­te­ci­pa­tiva; a capire dove i beni comuni, natu­rali ed imma­te­riali, costrui­scono una con­nes­sione con un nuovo wel­fare; ad affer­mare la neces­sa­ria fuo­riu­scita dalla finan­zia­riz­za­zione dell’economia e della società; ad inten­dere un sistema natu­rale in maniera oli­stica, di cui siamo parte e che va tute­lato, tro­van­doci di fronte ad una crisi ambien­tale senza pre­ce­denti», scri­vono gli organizzatori.

Più dif­fi­cile a farsi che a dirsi, se è vero che a quat­tro anni dal refe­ren­dum le ripub­bli­ciz­za­zioni si con­tano sulla punta delle dita. Dov’è acca­duto, come in Sici­lia, la bat­ta­glia è appena comin­ciata e gli esiti non sono scon­tati, come dimo­stra la vicenda di Mes­sina. Il sot­to­se­gre­ta­rio alla Pre­si­denza del Con­si­glio Clau­dio De Vin­cenzi ne ha infatti appro­fit­tato per soste­nere la neces­sità di «cam­biare musica sulla gestione del ser­vi­zio idrico» e il Forum gli ha ricor­dato che è stata pro­prio la gestione di Sici­lia­que (spa al 75 per cento nelle mani dei fran­cesi di Veo­lia) a pro­vo­care que­sta situa­zione e a dimo­strare il fal­li­mento delle privatizzazioni.

Che il vento spiri in tutt’altra dire­zione rispetto a quella auspi­cata dai movi­menti lo dimo­stra pure il caso Cam­pa­nia di que­sti giorni: è cam­biata la mag­gio­ranza poli­tica (dal cen­tro­de­stra al cen­tro­si­ni­stra), ma la legge sul rior­dino del ser­vi­zio idrico in discus­sione in con­si­glio regio­nale è con­te­stata dai comi­tati. Motivo: pre­vede la costi­tu­zione di un Ambito ter­ri­to­riale unico per i 550 comuni della regione, «dele­gando le scelte fon­da­men­tali in mate­ria di acqua, quali la defi­ni­zione della tariffa, il piano d’ambito e la forma di gestione a un comi­tato ese­cu­tivo com­po­sto da soli venti mem­bri». In buona sostanza, esclu­dendo le comu­nità locali.

LA GALASSIA DEI BENI COMUNI
di Corrado Oddi

i riparte dal basso. Le nostre battaglie nel progetto di nuove connessioni con tutti i soggetti che lavorano per i diritti sociali

A più di 4 anni di distanza dalla straor­di­na­ria vit­to­ria refe­ren­da­ria del giu­gno 2011 e dalla sua suc­ces­siva mano­mis­sione, il movi­mento per l’acqua riprende il cam­mino e rilan­cia la sua ini­zia­tiva sul bene comune pri­ma­rio per la vita del pia­neta e dell’umanità.
E stretta è la rela­zione tra pre­ser­va­zione dell’acqua e cam­bia­mento cli­ma­tico. Non solo per­ché quest’ultimo accre­sce for­te­mente lo stress idrico in vaste aree del mondo, ma, ancor più, per­ché rende l’acqua risorsa sem­pre più scarsa, e dun­que sem­pre più appe­ti­bile dalle logi­che del mer­cato e del pro­fitto cau­sando con­flitti e guerre. Per que­sto il tema della costi­tu­zio­na­liz­za­zione del diritto all’acqua e dei diritti della natura supera un’idea pura­mente aggiun­tiva dell’elencazione dei diritti per diven­tare fon­da­tiva di una let­tura con­tem­po­ra­nea e ricca dell’attività umana nella vita nel nostro pianeta.
Dall’altra parte, diventa ancora più rav­vi­ci­nato il rap­porto tra la rispo­sta neo­li­be­ri­sta alla crisi eco­no­mica e sociale e le logi­che di pri­va­tiz­za­zione e finan­zia­riz­za­zione che inve­stono il ser­vi­zio idrico e tutti i ser­vizi pub­blici, sna­tu­ran­done le radici di fondo ( basta guar­dare, per stare all’attualità, la vicenda delle Poste).

Il nuovo ciclo di privatizzazione/finanziarizzazione del ser­vi­zio idrico si con­nota sia sul ver­sante dell’inserimento a pieno titolo nell’ “eco­no­mia del debito”, sia nell’incrementare la water poverty, cioè l’incidenza della spesa per l’accesso all’acqua sul red­dito delle per­sone. C’è una chiara rela­zione tra il rias­setto in corso nel set­tore, affi­dan­dolo alle 4 “grandi sorelle” quo­tate in Borsa (le mul­tiu­ti­li­ties Iren, A2A, Hera e Acea) la cui fina­liz­za­zione è sem­pre più orien­tata alla distri­bu­zione dei divi­dendi ai soci sem­pre più pri­vati (basta pen­sare al fatto che, negli ultimi 5 anni hanno ero­gato divi­dendi addi­rit­tura supe­riori agli utili che hanno rea­liz­zato!) con un inde­bi­ta­mento pro­gres­sivo, e il fatto che, come testi­mo­niato da una recente ricerca della Con­far­ti­gia­nato, le tariffe dell’acqua nel nostro Paese dal 2004 al 2014 sono aumen­tate media­mente del 95,8%, il tri­plo del rin­caro medio dei prezzi nei Paesi dell’Eurozona, che si aggira, per lo stesso periodo, attorno al 35%.
Con­ti­nue­remo a con­tra­stare que­ste scelte, come abbiamo fatto in tutti i que­sti anni: con la mobi­li­ta­zione, avan­zando pro­po­ste alter­na­tive. La rifles­sione di que­ste due gior­nate potrà arric­chire e raf­for­zare la pro­spet­tiva della tutela e della pre­ser­va­zione dell’acqua e quella della ripub­bli­ciz­za­zione del ser­vi­zio idrico.

Vogliamo farlo sapendo che non sarà pos­si­bile se non si acqui­si­sce la con­sa­pe­vo­lezza che quello in corso è un ten­ta­tivo gene­rale, sia pure illu­so­rio, di “moder­niz­za­zione”, di cui il governo Renzi è il più fedele inter­prete. Ovvero l’importazione coe­rente del modello neo­li­be­ri­sta di stampo anglo­sas­sone nel nostro Paese. La com­pres­sione dei diritti del lavoro, che toglie la tutela dai licen­zia­menti. I colpi al con­tratto nazio­nale di lavoro, attac­cando scuola e sanità, con l’intenzione non solo di ridi­men­sio­nare l’intervento pub­blico ma ancor più di pro­porre un modello azien­da­li­sta. La deva­sta­zione ambien­tale dei ter­ri­tori, di cui il rilan­cio delle tri­vel­la­zioni petro­li­fere costi­tui­sce l’elemento più ecla­tante, accom­pa­gnata non casual­mente dal rilan­cio della pri­va­tiz­za­zione dei beni comuni natu­rali, a par­tire dall’acqua e dal ser­vi­zio idrico. Tutti tas­selli di un dise­gno che mira a riaf­fer­mare la cen­tra­lità del mer­cato come unico rego­la­tore sociale.

Siamo per­ciò chia­mati a rima­nere fedeli alle nostre bat­ta­glie ma soprat­tutto a rea­liz­zare nuove con­nes­sioni tra i sog­getti e i movi­menti, a par­tire da quelli sociali, per supe­rare sepa­ra­tezze e indi­vi­duare per­corsi e obiet­tivi con­ver­genti. Non a caso abbiamo pen­sato di con­clu­dere le nostre due gior­nate di lavoro chia­mando a con­fron­tarsi con noi il movi­mento per la scuola pub­blica, quello con­tro lo Sblocca Ita­lia, la Fiom, la coa­li­zione che si riu­ni­sce attorno allo scio­pero sociale. Non sem­pli­ce­mente per un rico­no­sci­mento reci­proco del ruolo e della fun­zione che ogni realtà eser­cita, ma pro­vando ad espli­ci­tare i ter­reni su cui, nella pros­sima fase, può essere pos­si­bile met­tere in campo ini­zia­tive che coin­vol­gano l’insieme di que­sti e altri soggetti.

Cer­ta­mente, l’opposizione alla legge di sta­bi­lità del governo lo è, visto il carat­tere clas­si­sta e regres­sivo che la ispira e che inve­ste l’insieme della con­di­zione sociale e della cit­ta­di­nanza. Ma non si potrà sfug­gire dalla neces­sità di can­cel­lare, con gli stru­menti oppor­tuni, anche di carat­tere refe­ren­da­rio, e in modo coor­di­nato, la legi­sla­zione che in quest’ultimi anni – dallo Sblocca Ita­lia al Jobs Act, dalla “buona scuola” all’incentivo alle pri­va­tiz­za­zioni– sta facendo venire meno diritti fon­da­men­tali e, ancor più, prova a met­tere da parte qua­lun­que idea di pro­get­tare un modello sociale più soli­dale ed inclusivo.

* Forum Ita­liano Movi­menti per l’Acqua
Ciò che è accaduto e accade a Roma in Comune e al Parlamento è il segno palese che la politica ha svuotato di ragioni istituzioni. Allora, a che serve votare?

Il manifesto, 5 novembre 2015

Davanti ad un notaio s’è cer­ti­fi­cata la fine di un’esperienza poli­tica, senza che ne venisse coin­volta l’istituzione rap­pre­sen­ta­tiva. Nulla di ille­git­timo può essere rile­vato. Il caso di auto-scioglimento del con­si­glio per dimis­sioni della mag­gio­ranza dei con­si­glieri rien­tra tra quelli pre­vi­sti dal testo unico sugli enti locali (art. 141). Così come è indi­cata la pos­si­bi­lità di revo­care le dimis­sioni pre­sen­tate dal sin­daco entro il ter­mine di 20 giorni (art. 53).

Dun­que, entrambi gli atti che hanno carat­te­riz­zato la vicenda romana sono stati pos­si­bili ai sensi di legge. Eppure, per via legale, si è pro­dotto un vul­nus al sistema della rap­pre­sen­tanza democratica.

Non aver coin­volto il con­si­glio comu­nale, non aver espresso il pro­prio dis­senso in quella sede, assu­men­dosi — cia­scun con­si­gliere — la respon­sa­bi­lità poli­tica della pre­sen­ta­zione di una mozione moti­vata di sfi­du­cia, come indi­cato sem­pre dalla stessa legge (art. 52), appare una scelta signi­fi­ca­tiva della con­ce­zione di demo­cra­zia che ormai domina. Non è solo il caso di Roma, bensì un modo di ope­rare che rivela una cul­tura poli­tica del tutto insof­fe­rente al ruolo delle isti­tu­zioni. Una poli­tica che si fa altrove, all’esterno dei palazzi della poli­tica, den­tro le stanze chiuse dei potenti.

Basta riper­cor­rere le più rile­vanti vicende degli ultimi mesi e ci si avvede come tutti i pas­saggi più impor­tanti si siano con­su­mati fuori da ogni regola isti­tu­zio­nale e non nelle sedi pro­prie. Anzi­tutto il cam­bio di governo, deciso dalla dire­zione di un par­tito, senza alcun coin­vol­gi­mento parlamentare.

Ma anche l’accordo per la modi­fica della costi­tu­zione e sulla legge elet­to­rale, prima con­cor­dato in un incon­tro tra due lea­der (Ber­lu­sconi e Renzi) svolto in un luogo riser­vato senza alcuna pub­bli­cità e tra­spa­renza, poi — a seguito delle con­vulse e note vicende — rine­go­ziato tra pochi espo­nenti di un unico par­tito e con l’aiuto di una drap­pello di sena­tori senza partito.

I riflessi di que­sto modo di pro­ce­dere hanno por­tato ad un sostan­ziale svuo­ta­mento dei luo­ghi della rappresentanza.

Si pensi al (non) dibat­tito par­la­men­tare tanto sulla legge elet­to­rale quanto sulla riforma costi­tu­zio­nale: s’è fatto di tutto per evi­tare il con­fronto nel merito. In Par­la­mento, venute meno le con­di­zioni per una discus­sione sulle diverse visioni di demo­cra­zia che pote­vano por­tare a legit­ti­mare le sin­gole pro­po­ste, ci si è limi­tati a inter­pre­tare il rego­la­mento e ad uti­liz­zarlo nel modo più disin­volto (a volte ben oltre il pos­si­bile) al solo fine di con­se­guire il risul­tato (le forze di mag­gio­ranza) ovvero limi­tan­dosi ad urlare alla luna (le forze di opposizione).

Così abbiamo assi­stito ad un ben tri­ste spet­ta­colo: rimo­zioni in massa di par­la­men­tari dalle com­mis­sioni, richie­ste di disci­plina in mate­rie di coscienza, fis­sa­zione di tempi che impe­di­vano alle com­mis­sioni di svol­gere il pro­prio ruolo istrut­to­rio per arri­vare diret­ta­mente in aula senza rela­tori, senza testo base, senza parole medi­tate. In un arena ove l’unico obiet­tivo era quello di sfi­dare la sorte dei numeri, facendo asse­gna­mento sulla pro­pria capa­cità tat­tica, non certo con­fi­dando sulla forza della per­sua­sione e sulla capa­cità di con­se­guire un nobile com­pro­messo par­la­men­tare nel merito delle proposte.

D’altronde, anche l’opposizione ha mostrato il pro­prio sban­da­mento. Par­te­ci­pando a que­sta spet­ta­co­la­riz­za­zione anch’essa, a volte, non ha preso troppo sul serio la dignità del Par­la­mento. Un po’ come Marino, anche l’opposizione si “dimet­teva” a giorni alterni. Un giorno un po’ di Aven­tino, il giorno dopo un po’ d’Aula. Non mi sem­bra si sia riu­sciti in tal modo a far chia­ra­mente emer­gere le reali ragioni di una bat­ta­glia poli­tica di con­tra­sto così impor­tante, a tutto van­tag­gio dell’uso reto­rico delle isti­tu­zioni per­se­guito dalla maggioranza.

Due pas­saggi mi sem­brano pos­sano sin­te­tiz­zare — anche in ter­mini meta­fo­rici — lo stato di crisi delle isti­tu­zioni rap­pre­sen­ta­tive. Da un lato la pre­sen­ta­zione da parte del sena­tore Cal­de­roli di milioni di emen­da­menti incon­sulti ela­bo­rati da un algo­ritmo, dall’altro l’interpretazione disin­volta (a mio parere ille­git­tima) dei rego­la­menti par­la­men­tari che hanno impe­dito la discus­sione su tutto, in par­ti­co­lare con l’invenzione del cosid­detto “can­guro”. Una riforma costi­tu­zio­nale dun­que affi­data ad un metodo di cal­colo e ad un ani­male della fami­glia dei macro­po­didi. Credo ci si sia fatti pren­dere la mano.

Eppure die­tro tutte que­ste for­za­ture c’è una spie­ga­zione: la per­dita del senso delle isti­tu­zioni. Nes­suno sem­bra più cre­dere in esse. La poli­tica si svolge altrove, non pos­siede più forme. La deci­sione è assunta tra pochi, in luo­ghi e con mezzi inde­ter­mi­nati: sms, dia­lo­ghi diretti, mes­saggi indi­retti, affi­da­menti indi­vi­duali o garan­zie pre­state da gruppi d’interesse. Poi, fatta in tal modo la scelta, essa viene divul­gata attra­verso una stra­te­gia ad effetto che non pre­vede pas­saggi isti­tu­zio­nali, bensì mero spet­ta­colo. A que­sto punto, il pas­sag­gio isti­tu­zio­nale, se non può essere evi­tato, diventa però uni­ca­mente un intral­cio, che deve essere gestito con qual­che insof­fe­renza. Sop­por­tato come un “costo” della demo­cra­zia, non certo come sua essenza e valore.

Un atteg­gia­mento psi­co­lo­gico, carat­te­riale e cul­tu­rale, prima ancora che espres­sione di una con­sa­pe­vole stra­te­gia poli­tica poten­zial­mente ever­siva. Il nuovo ceto poli­tico ha costan­te­mente teso ad elu­dere il con­fronto isti­tu­zio­nale, anche quello interno alle istanze di par­tito. Pri­ma­rie “aperte”, per scon­fig­gere le buro­cra­zie e rove­sciare gli equi­li­bri interni; dire­zioni in stree­ming, per par­lare con l’opinione pub­blica, non certo per tes­sere una stra­te­gia con­di­visa entro una comu­nità poli­tica; rap­porti diretti con i poli­tici locali da soste­nere (Pisa­pia e il “modello mila­nese” dell’Expo) ovvero da abban­do­nare (Marino e la man­canza di anti­corpi romani).

I com­por­ta­menti extrai­sti­tu­zio­nali dif­fusi, che carat­te­riz­zano il ritorno della poli­tica oggi, sono stati favo­riti dalle poli­ti­che di ieri. Sono anni che si denun­cia la crisi del Par­la­mento, delle rap­pre­sen­tanze locali, del ruolo isti­tu­zio­nale dei par­titi. Ciò nono­stante, per­lo­più, si è pre­fe­rito caval­care l’insofferenza, rac­co­gliere un facile con­senso sca­gliando pie­tre con­tro i Palazzi della poli­tica, nes­suno volendo rac­co­gliere la sfida com­plessa di un reale cam­bia­mento delle isti­tu­zioni ope­rando al loro interno, nel rispetto delle regole del gioco democratico.

Una sot­to­va­lu­ta­zione imper­do­na­bile che rischia di svuo­tare di ogni ruolo la rap­pre­sen­tanza. Ci si potrebbe alla fine chie­dere per­ché tor­nare a votare per un con­si­glio comu­nale che non conta nulla, nulla decide e nulla può fare. Meglio affi­darsi ad un com­mis­sa­rio pre­fet­ti­zio. In fondo la sto­ria ci ha già detto che esi­ste una “isti­tu­zione” in grado di ope­rare in situa­zioni di emer­genza: il dic­ta­tor com­mis­sa­rio ha sal­vato più di una volta Roma. Poi è arri­vato Giu­lio Cesare e la dit­ta­tura è diven­tata sovrana, ponendo fine alla repubblica.

L'attuale confusione che regna nell'ambito delle diverse formazioni politiche che popolano il palcoscenico italiano non giustificano le pretese di porsi "al di sopra delle parti". La politiche richiede compiere scelte, in chi governa come nel singolo cittadino. La Repubblica, 5 novembre 2025

GIUDICARE in politica è tenere una parte o prendere parte, scriveva Hannah Arendt commentando Aristotele. Non si può giudicare senza stare da una qualche parte o schierarsi. Questo vale soprattutto per i cittadini nelle loro considerazioni ordinarie sulle cose relative alla loro città o al loro Paese; anche quando dichiarano di volersi astenere dal giudicare o si professano indifferenti alle parti politiche. È a partire dalla natura fallibile del giudizio politico che i governi liberi vantano di essere quelli nei quali la ricerca del giudizio migliore trova la propria sede, poiché garantiscono le libertà civili grazie alle quali il giudicare pro e contro si dipana in un clima di tranquillità e rispetto. Giudizio e politica stanno in stretta connessione. Un narratore della condizione politica, Thomas Mann, diceva che, per questo, la democrazia è tra tutti i regimi quello più compiutamente politico, perché qui anche chi vuole tirarsi fuori da ogni giudizio politico deve fatalmente schierarsi, facendo della propria posizione impolitica un giudizio di parte.

Le pretese che oggi si levano contro il giudizio politico destano quindi legittimo sospetto. Un candidato possibile alla poltrona di sindaco del Comune di Roma, Alfio Marchini, si propone come al di sopra delle parti politiche — né di destra, né di sinistra.

È un imprenditore, parte della società civile intraprendente, ed è romano. Due ragioni certo rilevanti, la seconda soprattutto, ma non sufficienti.

Perché amministrare una città non è lo stesso che amministrare un’azienda, anche se le città hanno bisogno di buoni amministratori che sappiano ragionare in termini di prudenza, opportunità ed efficienza. Ma non basta. Poiché, contrariamente alle aziende private, l’amministratore di una città deve rendere conto delle sue decisioni, non ai suoi azionisti ma a tutti i cittadini, residenti che hanno diversissime condizioni sociali, economiche e culturali, tutte rappresentate nel voto che esprimono, pro o contro. Solo la politica può rappresentare questa generalità e insieme partigianeria.

E torniamo così al punto di partenza, al giudizio politico. Presentarsi come candidato né di destra né di sinistra è una strategia molto politica, che cerca di capitalizzare a partire dai fallimenti delle precedenti amministrazioni, di destra e di sinistra, le quali — per ragioni e con responsabilità molto diverse tra loro — hanno generato i problemi che portano ora al voto anticipato, dopo essere passati per una gestione commissariale della città capitale d’Italia. Ma si deve dubitare di questo ecumenismo poiché se Marchini diventasse sindaco dovrà pur scegliere dove investire o disinvestire le risorse pubbliche, se occuparsi delle periferie e come, se occuparsi del malgoverno e come, se prediligere il trasporto pubblico e come, eccetera. In tutti i casi, egli dovrà scegliere e si rivolgerà a una parte del consiglio comunale per avere sostegno e voti.

Destra/sinistra sono distinzioni generali che servono a orientare elettori ed eletti. Sono sempre più approssimative e sempre più liminali, ma esistono. La confusione prodotta in questi mesi non aiuta a distinguerle, è vero: la destra parlamentare spesso alleata del partito di centro-sinistra che governa, il quale ha una sua sinistra interna, e un’opposizione grillina che si definisce in ragione di chi contrasta, senza chiarezza sulle proprie posizioni. Tanta confusione disorienta. Ma non elimina le distinzioni di giudizio sulle politiche, che esistono. Rinunciare ad esse o pretendere che non esistano non è indice di oggettiva chiarezza, ma di strategica ambiguità — la speranza di capitalizzare dalla memoria vecchia e recente dei fallimenti della politica.

Scriveva John Stuart Mill — un liberale diffidente verso i partiti—che il sistema rappresentativo non può evitare divisioni di schieramento ideale o ideologico: la divisione tra “progressisti” e “conservatori” (alla quale egli pensava), ovvero tra “sinistra” e “destra”, corrisponde a due modi di giudicare, relativi a due criteri o principi generali non identici e nemmeno interscambiabili. Uno di essi orientato direttamente verso la promozione del benessere della maggioranza con scelte amministrative volte a risolvere i bisogni più urgenti e a includere quanti più possibile nel godimento del benessere generale; l’altro orientato a pensare che favorendo l’interesse dei pochi che hanno risorse da investire ne verrà giovamento per molti, eventualmente. Si tratta, come si vede, di divisioni molto meno esplicite di quelle che la vecchia terminologia ideologica offriva. Ma sono abbastanza chiare nonostante tutto, e corrispondono a due modi di intendere e di amministrare il bene pubblico.
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