«Uno dei protagonisti del vertice uscendo dal Justus Lipsius confida: “Dietro di noi lasciamo macerie, i greci non riusciranno mai a rispettare tutte le condizioni, ci rivedremo tra qualche mese con lo stesso problema sul tavolo”».
La Repubblica, 14 luglio 2015 (m.p.r.)
Bruxelles. Alexis Tsipras si alza dal tavolo, dopo ore di snervanti battibecchi con i leader europei perde le staffe: «Questa non è un’Unione, questa è un’associazione ricattatoria!». Sono le quattro del mattino, è il momento in cui può saltare tutto. Prima che gli altri leader gli rispondano per le rime provocando l’irreparabile, il navigato Jean Claude Juncker precedete i colleghi: «Alexis, ora basta! Non si possono usare questi toni in una riunione del genere, chi si comporta così fa spirare il negoziato». Mentre gli occhi delle venti persone presenti nello stanzone all’ottantesimo piano (in realtà è l’ottavo, ma si chiama così) del Justus Lispius si girano verso il capo della Commissione, il padrone di casa Donald Tusk sfrutta lo sconcerto generale per sospendere la seduta ed evitare il peggio. Tsipras esce scortato da due leader iscritti tra le colombe, si calma in corridoio. Ma la strada che porterà all’accordo sarà ancora lunga.
«Nelle ultime due settimane abbiamo imparato che far parte della zona euro significa che se sgarri i creditori possono annientare la tua economia. Tutto ciò non ha attinenza alcuna con l’implicita economia dell’austerità».
La Repubblica, 14 luglio 2015 (m.p.r.)
«L’accordo in sé è un compromesso che sconta un clima pesante e l’isolamento della Grecia. Tuttavia Tsipras può giustamente dire di avere trattato per tutto il popolo greco. Ha rinunciato a qualche misura sociale che gli stava a cuore per salvaguardare le possibilità di sviluppo futuro per il paese»,
Huffington post, 13 luglio 2015
Angela Merkel entrando nella sala dove si è tenuta la seduta decisiva per l’accordo fra la Grecia e la Ue ha dichiarato che “Trust has been lost”. La fiducia è andata perduta? Sì ma nei confronti dell’Europa più che della Grecia, Tutti nel mondo, a cominciare dagli americani che hanno i loro interessi geopolitici in quella zona del Mar Egeo, sono stupefatti di come la “trattativa” con il paese ellenico è stata portata avanti, soprattutto tenendo conto della relativa esiguità del debito in discussione: 360 miliardi di euro. Pensate che le Borse un lunedì fa ne hanno bruciati 270 solo al mancato annuncio di un accordo che pareva già raggiunto.
La verità è che le questioni economiche c’entrano poco in questa partita, anzi in questa prima guerra di interdipendenza europea. L’aspetto decisivo è sempre stato quello politico. Le elite europee non possono tollerare che si diffonda il messaggio che è possibile condurre politiche economiche anticicliche che fuoriescano dalle regole del neoliberismo e dell’austerità europea a marca tedesca. Questo è il vero contagio temuto. Per cui prima si è cercato di rovesciare Tsipras creandogli vuoto attorno; quindi si sono manipolate le norme dei trattati facendo credere che una Grexit per cinque anni fosse possibile con l’attuale ordinamento europeo; poi, una volta che questo tentativo di golpe bianco è fallito grazie al referendum greco, si cerca di imporre ad Atene un cambiamento di maggioranza, reimbarcando al governo i resti di quei partiti che sono stati complici delle politiche di austerità che hanno affamato il paese e incrementato il debito.
Nello stesso tempo, come apprendiamo da una intervista di Varoufakis al Guardian, lo stato greco non era in condizione di mettere rapidamente a punto tutte le misure necessarie per una uscita regolata e non distruttiva dalla moneta unica. L’uscita dall’euro era quindi, dal fronte greco, una minaccia spuntata. La Grexit era quindi interamente nelle mani altrui, in particolare quelle tedesche.
Ora la parola spetta ai parlamenti nazionali. Sarà decisivo il voto del Parlamento greco. Come per tutti gli accordi questo presenta punti critici, ad esempio sulle pensioni, sul mercato del lavoro, sulle privatizzazioni. E’ quindi fisiologico che una parte di Syriza non sia d’accordo. Vedremo se questo la spingerà a votare contro in Parlamento, lasciando Tsipras senza maggioranza. In questo caso il giovane leader greco o forma un governo di unità nazionale o chiede di andare alle elezioni anticipate, come in fondo gli suggerisce Paul Krugman.
L’accordo in sé è un compromesso che sconta un clima pesante e l’isolamento della Grecia. Tuttavia Tsipras può giustamente dire di avere trattato per tutto il popolo greco. Ha rinunciato a qualche misura sociale che gli stava a cuore per salvaguardare le possibilità di sviluppo futuro per il paese. Infatti ottiene in cambio un finanziamento triennale tra 82 e 86 mld di euro che potranno permettere investimenti all’interno tali da compensare largamente i fattori recessivi derivanti dagli elementi negativi del compromesso. Nello stesso tempo ha salvato le leggi sociali già attuate; ha mantenuto il fondo di garanzia in patria; ha soprattutto posto il tema di una ristrutturazione del debito ellenico.
L’accordo quindi implicitamente riconosce la insostenibilità del debito greco e delle sue attuali forme di pagamento. E’ un punto importante, quello per il quale sia Tsipras che Varoufakis si erano battuti fin dall’inizio.
Questa vicenda ci dimostra che l’attuale governance dell’Europa è del tutto inadatta a condurre avanti il processo di unità europea. L’idea di un’Europa tedesca – neanche più franco-tedesca come agli inizi - confligge con il principio di un’Europa federale, solidale e fattore di pace nel mondo, che erano gli ideali del manifesto di Ventotene di più di settanta anni fa. Come è noto i trattati anche nella forma attuale prevedono che i paesi in surplus dal punto di vista del rapporto esportazioni – importazioni li riducano per non creare dislivelli stabili ed eccessivi fra i vari paesi europei. La Germania è almeno da sei anni che viola tali limiti, senza che nessuno obietti alcunché.
Schäuble «ha sponsorizzato e messo in circolo una visione che sembrava fino a ieri un tabù: che l’appartenenza all’Europa è reversibile. Il che significa che si tratta di un club, anziché di un’unione, nel quale per entrare e starci è necessario accettare alcune regole stabilite dalla Kerneuropa e non egualmente costruite da tutti i partner europei».
La Repubblica, 13 luglio 2015
La divisione delle sinistre corrisponde alla faglia che divide l’Europa in due, con la parte dominante che ha il suo rappresentante nel ministro tedesco delle Finanze, Wolfgang Schäuble, presentato come un figlio politico di Helmut Kohl e sincero europeista, e che ha tuttavia una visione decisamente centro-europea dell’Europa. Nel suo lobbismo per la Grexit ha messo in chiaro che egli non crede ad una integrazione europea, ma a un’Europa a diverse velocità e in sostanza gerachicamente strutturata in relazione alla vicinanza di interesse e di cultura con la Germania. È per questa ragione che egli ha sponsorizzato e messo in circolo una visione che sembrava fino a ieri un tabù: che l’appartenenza all’Europa è reversibile. Il che significa che l’Europa è a tutti gli effetti un club, anziché un’unione, nel quale per entrare e starci è necessario accettare alcune regole stabilite dalla Kerneuropa e non egualmente costruite da tutti i partner europei.
L’Europa come club, ecco la visione tedesca di Kerneuropa : il nucleo europeo rispetto al quale gli altri popoli sono periferici. Parte del “cuore” europeo non sono necessariamente i Paesi fondatori (vi è di che dubitare che vi figuri l’Italia) ma i Paesi vicini per cultura e interesse al centro propulsore del continente, la Germania. Non è un caso se in questa drammatica vicenda greca, la Germania abbia goduto del sostegno dei suoi tradizionali Paesi di riferimento, satelliti o alleati: dalla Finlandia, le repubbliche baltiche e la Slovenia all’Olanda e all’Austria.
Qui il Kerneuropa prende la configurazione geo-politica degli imperi centrali (non a caso il settimanale Bild ha recentemente definito Angela Merkel la “cancelliera di ferro”, il nuovo Bismark).
Come hanno messo in evidenza diversi organi di informazione, da Foreign Affairs al
Guardian , il pregiudizio anti- meridionale che l’ affaire greco ha scatenato si è già tradotto nei fatti.
Il Land austriaco della Carinzia con un indebitamento da “caso Greco” ha chiesto e ottenuto dal governo federale austriaco lo stato di emergenza, condizione per l’accesso al finanziamento federale per ottenere prestiti a tasso agevolato, di fatto una ristrutturazione del debito. La Germania ha concesso questa condizione alla Carinzia. E ora l’Austria è l’alleato di ferro della soluzione Grexit. Perché questa differenza di trattamento?
La ragione l’ha fatta intuire Schäuble avanzando l’ipotesi di un Grexit per cinque anni: non c’è “fiducia” nella Grecia. La fiducia non è lo stesso di garanzia ( una condizione accertabile e quantificabile) e diventa molto importante quando le garanzie sono labili. La fiducia è un’attitudine psicologica, sorretta da un sostrato di valori morali e etici condivisi: presume la messa in conto che gli stessi valori guidino i comportamenti dei partner. Dire che manca la fiducia verso la Grecia equivale a riconoscere che il partner ellenico non è un partner perché non condivide la stessa kultur . È nella stessa condizione dello straniero a tutti gli effetti: e incute diffidenza più che fiducia. Quali che siano le garanzie offerte dal governo di Atene, dunque, i tedeschi non si fidano nello stesso modo in cui si sono fidati della Carinzia. Qui siamo già fuori dell’Unione europea.
Infatti, se per comprendere che cosa gli Stati membri intendono per “Unione europea” occorre fare uno sforzo ermeneutico ciò significa che l’Europa è ormai un concetto contestato, una figura retorica alla quale non corriponde una visione normativa comune. Una possibilità di risolvere questa diaspora sarebbe potuta venire dai partiti socialisti, sorti dopo tutto su principi non nazionalistici e internazional- solidaristici. Per la calorosa accoglienza tributata a Alexis Tsipras, il gruppo socialista del Parlamento europeo ha mostrato di essere ancora sensibile a questi principi. Ma i socialdemocratici tedeschi seguono tutt’altra strada. La Spd, ha scritto Jan-Werner Müeller su Foreign Affairs , ha abbandonato completamente il discorso degli “eurobond” per aiutare i Paesi economicamente in bisogno ed è diventata più merkeliana della Merkel.
Il divorzio interno alla sinistra è anche in Europa un fatto reale e negativo. Dietro l’anti-ellenismo della Spd vi è il timore che Syriza metta in moto un movimento alla sua sinistra capace di erodere il consenso alla grande coalizione. Gli interessi della sinistra dell’establishment e quelli della sinistra non sono dunque gli stessi. Anche su questo conflitto dentro la sinistra sta il problema europeo, il declino di una visione unitaria.
Grecia. Ultimatum a Tsipras con condizioni capestro. "Umilianti e disastrose", risponde il leader greco. Si tratta nella notte, ma per il Guardian è in corso un "waterboarding mentale" nei confronti di Atene.
Il manifesto online, 13 luglio 2015, con postilla
Più che un negoziato, quello di ieri a Bruxelles è stato per Alexis Tsipras un “waterboarding mentale”. E’ stato il quotidiano inglese The Guardian a paragonare il faccia a faccia tra il premier greco, Francois Hollande, Angela Merkel e il presidente di turno dell’Ue, il polacco Donald Tusk, alla famigerata tortura utilizzata dalla Cia per far parlare i presunti terroristi.
Ma, all’esito dell’ennesima estenuante giornata di riunioni a porte chiuse e quando ancora i leader europei erano riuniti per un’altra notte di trattative, le parole forti si sprecavano: il secondo hashtag più twittato al mondo era #thisisacoup (“questo è un colpo di Stato”), sempre il Guardian titolava “L’Europa si vendica di Tsipras”, mentre il quotidiano francese Liberation si chiedeva “a che gioco gioca la Germania” e il tedesco Der Spiegel parlava di “catalogo di atrocità”.
Era accaduto che, nel tardo pomeriggio, al termine di un Eurogruppo aggiornato dalla sera precedente dopo un duro scambio di battute Mario Draghi e il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble (“don’t take me for a fool”, “non prendermi per stupido”, aveva detto quest’ultimo al capo della Bce), era trapelata una bozza di ultimatum che suonava come un’umiliazione per il governo greco, inutilmente vendicativa e mirante a chiudere la “parentesi di sinistra” rappresentata dal governo Syriza. In buona sostanza, si chiedeva alla Grecia di cedere la sua sovranità fiscale (e non solo) in cambio della riapertura delle trattative, in ogni caso non veniva escluso un Grexit, anche temporaneo, e si ponevano condizioni-capestro: alcune riforme da attuare in appena 72 ore, tra cui quella delle pensioni e l’aumento dell’Iva, garanzie in beni statali (architettonici, artistici, infrastrutture, etc.) per 50 miliardi da consegnare all’Agenzia per le privatizzazioni la cui sede sarebbe trasferita in Lussemburgo, la reintroduzione dei licenziamenti collettivi e la riforma della contrattazione.
Infine, l’abolizione immediata di tutte le leggi approvate dal governo Tsipras, tra le quali misure umanitarie come gli aiuti a pagare le bollette dell’elettricità e dell’acqua, lo stop agli sfratti e l’azzeramento del ticket per accedere al servizio sanitario nazionale per le fasce più povere della popolazione, ma anche la riassunzione dei dipendenti pubblici licenziati dal governo Samaras (a partire da quelli della tv di Stato Ert, che è stata riaperta, e delle dipendenti delle pulizie del ministero delle Finanze, primo atto di Yannis Varoufakis al suo insediamento).
Condizioni palesemente inaccettabili, definite “umilianti e disastrose” dai negoziatori greci e che hanno fatto sbottare il ministro della Difesa Panos Kammenos: “Ci vogliono schiacciare, ora basta”, ha detto il leader dell’Anel (Greci Indipendenti), partner di governo di Syriza che, pur non d’accordo con l’ultima proposta presentata da Tsipras all’Eurogruppo, l’aveva votata in Parlamento per il timore che, in caso contrario, sarebbe potuta esplodere una “guerra civile”. Tutto ciò mentre, in serata, ad Atene circolava un sondaggio per il quale il 68 per cento dei greci a questo punto sarebbe a favore del Grexit: un capolavoro politico per i falchi dell’eurozona, che sono riusciti a far perdere totalmente fiducia in loro a una popolazione, compreso l’elettorato di Syriza, assolutamente europeista.
Ma è tutta l’impalcatura comunitaria che scricchiola vistosamente e rischia di venir giù all’emergere del primo vero dissenso politico. Capeggiato dalla Germania (e le cronache raccontano che la più dura contro la Grecia, ieri, fosse Angela Merkel, quasi a smentire le voci di divergenze con il falco Schäuble), il fronte del no si è fatto forza di un voto del Parlamento di Helsinki (dove ha pesato il 21 per cento dell’estrema destra dei Veri finlandesi, in maggioranza) per compattare uno schieramento a favore dell’espulsione di Atene dall’eurozona che comprende pure i paesi baltici e l’Olanda.
Sul fronte opposto la Francia, che aveva dato una mano al governo greco per la presentazione della proposta, e a quanto pare Mario Draghi, mentre è rimasto marginale il ruolo dell’Italia. Hollande era arrivato a Bruxelles sostenendo che non avrebbe mai permesso che la Grecia andasse fuori dall’euro, ma è stato sconfessato dal documento dell’Eurogruppo. E’ a partire da quella base che si è trattato per tutta la notte. Ma, comunque vada, le ferite di questa brutta vicenda rischiano di rimanere aperte a lungo. Una brutta pagina per l’intera Europa.
Durissimo scontro all’Eurogruppo Berlino detta le condizioni, poi eurosummit nella notte.Atene: “Richieste offensive e disastrose”. Non sono falchi quelli che volteggiano ma avvoltoi.
La Repubblica, 13 luglio 2015
BRUXELLES. Tre giorni per riformare la Grecia, e una serie di diktat uno più duro dell’altro. I falchi volteggiano trionfanti sui cieli d’Europa. E dettano a Tsipras un ultimatum impossibile, come quello dell’Austria alla Serbia che innescò la prima guerra mondiale. Le colombe cercano di negoziare sulle briciole per rendere più accettabile un testo che mette comunque sotto i piedi qualsiasi residua sovranità di Atene. E’ questo il clima che si respira alla riunione dei capi di governo dell’eurozona, mentre le discussioni proseguono nella notte. Il vertice che avrebbe dovuto allontanare definitivamente lo spettro di un’uscita della Grecia dall’euro in realtà rende questa ipotesi sempre più credibile e immanente. La Grecia ha definito la proposta europea «umiliante e disastrosa». Come potrà Tsipras accettare un simile schiaffo e restare al suo posto è un mistero. Come possa pensare di riuscire rispettare le condizioni leonine che gli vengono imposte è incomprensibile.
Questa ennesima, drammatica svolta nella crisi greca è maturata nella notte tra sabato e domenica, quando è apparso evidente che una maggioranza di governi dell’eurozona era contraria a varare un nuovo pacchetto di aiuti per salvare il Paese dalla bancarotta e tenerlo nell’euro. La mancanza di fiducia nei confronti del governi greco era totale. Per cercare di evitare il peggio, la Commissione, l’Italia e la Francia hanno dovuto accettare un compromesso: dare tre giorni di tempo a Tsipras e al Parlamento di Atene per mettere alla prova la sua volontà di fare le riforme rifiutate finora. Ma il testo di quattro pagine che ieri mattina i ministri hanno trasmesso ai capi di governo dell’eurozona, senza averlo votato e con ben undici punti controversi, rispecchia in realtà il documento preparato nei giorni scorsi dal ministro delle Finanze tedesco Schaeuble. E tradisce la speranza dei falchi che siano i greci stessi, alla fine, a scegliere di uscire dalla moneta unica per poter negoziare un sostanziale taglio del loro debito ormai insostenibile.
Il documento dà tre giorni di tempo al Parlamento di Atene per approvare la riforma dell’Iva, la riforma delle pensioni anticipate, varare un nuovo codice di procedura civile, ristrutturare l’ufficio nazionale di statistica e creare un’autorità indipendente sul controllo di bilancio. Inoltre il governo greco deve presentare entro il 15 luglio una «roadmap dettagliata » sulla messa in opera a breve termine delle seguenti riforme: azzeramento del deficit del sistema pensionistico; liberalizzazione totale delle professioni e del commercio; privatizzazione della rete elettrica; revisione dei contratti nazionali di lavoro e riconoscimento dei licenziamenti collettivi; accelerazione delle privatizzazioni con la creazione di un fondo indipendente in cui conferire i beni da privatizzare per 50 miliardi; taglio ai costi della pubblica amministrazione e riforma secondo le indicazioni che verranno concordate con i creditori. Inoltre il governo si deve impegnare a far tornare la troika ad Atene; a cancellare o compensare tutte le misure anti-austerità già approvate senza il consenso di Bruxelles, e concordare con la troika tutte le proposte legislative prima di sottoporle al Parlamento. Tutto questo è considerato condizione minima necessaria non per varare il pacchetto di aiuti, ma solo per avviare le trattative in vista della concessione di un nuovo programma di assistenza. «In caso di non accordo- è scritto in una delle frasi rimaste tra parentesi - alla Grecia verrà offerto un rapido negoziato per una temporanea uscita dall’area euro e una possibile ristrutturazione del debito».
Il testo specifica che, contrariamente a quanto Tsipras aveva promesso in Parlamento, il programma prevede «il pieno coinvolgimento del Fmi» e che questa «è una precondizione dell’Eurogruppo ». Valuta il fabbisogno di finanziamento della Grecia «tra 82 e 86 miliardi», di cui sette miliardi da versare entro il 20 luglio e 5 entro metà agosto per consentire ad Atene di far fronte alla scadenze del debito. Prevede la possibilità di studiare una revisione di scadenze del debito e interessi, ma «a condizione della piena messa in opera delle misure concordate » e solo dopo la prima e positiva verifica sul rispetto degli accordi. Qualsiasi ipotesi di “haircut”, cioè di taglio del debito, è esplicitamente esclusa.
La Grecia ha considerato inaccettabili e offensive le condizioni offerte dall’eurogruppo. E ha cercato di negoziare una serie di ammorbidimenti, in particolare sul coinvolgimento del Fmi, sulla clausola di annullamento delle misure già adottate, sull’entità del fondo per le privatizzazioni, sul riferimento esplicito all’uscita dall’euro, sul rinvio dell’apertura del negoziato, senza il quale la Bce non può riaprire i rubinetti e le banche resteranno chiuse. Qualcosa, alla fine, sicuramente riusciranno ad ottenere. Ma il senso dell’ultimatum difficilmente potrà cambiare. E alla fine è difficile prevedere se Tsipras si piegherà davanti ai diktat europei o se preferirà scegliere l’opzione di portare il Paese fuori dall’euro. Che è sicuramente proprio quello che i falchi si augurano.
Al di là delle interpretazioni formulate nei diversi campi del sapere, una cosa è certa: la campana suona anche per noi. E chi ci governa (per sua scelta) non se ne accorge.
Corriere della Sera, 13 luglio 2015 (m.p.r.)
La Grecia è il teatro. Ma al centro del dramma andato in scena ieri sera in Europa è piuttosto la «questione tedesca». O meglio: lo scontro tra Germania e Francia, tra Nord e Sud, tra formiche e cicale, sul destino dell’euro e dell’Unione stessa. La crisi di Atene ha funzionato da detonatore, e il povero Tsipras, che pensava di aver messo l’Europa con le spalle al muro giocando a poker col referendum, è diventato la cavia di un esperimento cui il suo governo, e forse anche il suo Paese, potrebbero non sopravvivere. Non è solo una battaglia politica. La storia dei tedeschi è cominciata nelle foreste. A differenza degli inglesi, degli italiani o degli stessi greci, che hanno dovuto affrontare il mare, temono più di tutto il rischio; la parola chiave del loro stare assieme è «sicurezza». Hanno inventato apposta una teoria, l’ordo-liberalismo, in cui le regole sono l’assicurazione contro i rischi. È così che l’«economia sociale di mercato» garantisce la protezione dei più deboli. Ma per funzionare ha bisogno di fiducia reciproca. Le tasse devono essere pagate, le norme rispettate, i debiti rimborsati. È impossibile per la signora Merkel, meno che mai con il fiato di Schäuble sul collo, concedere all’estero ciò che è vietato in patria .
I tedeschi non si fidano più della Grecia. E hanno le loro ragioni. Tutto sommato già Papandreou e Samaras avevano fatto mirabolanti programmi poi rimasti sulla carta. Dei sessanta miliardi di privatizzazioni garantiti, ne sono entrati appena un paio nelle casse di Atene. E gli armatori miliardari che fuggono le tasse sono fumo negli occhi per la classe media bavarese, che le paga fino all’ultimo euro. I tedeschi si domandano perché mai l’austerità abbia funzionato in Portogallo, in Irlanda, a Cipro, perfino in Spagna, e non in Grecia, nonostante più di trecento miliardi di prestiti.
Solo le persone disinformate o in malafede, possono pensare che gli ostacoli posti a Tsipras derivino dalle ragioni proclamate: la verità è che non si vuole che in Europa ci sia una presenza che testimoni la possibilità di una politica diversa da quella del gruppo di potere dominante.
Il manifesto, 12 luglio 2015
Ancora una volta era sembrato che l’accordo tra Ue e Grecia si potesse fare, raggiungendo così l’obbiettivo di chiudere la battaglia iniziata con la vittoria di Syriza nel gennaio 2015, nonostante l’obbiettivo vero delle autorità europee sia sempre stato l’estromissione di Syriza dal governo. In questi mesi, infatti, quasi mai la posta in gioco dello scontro ha coinciso con le misure discusse. Bensì, da parte europea, ottenere l’adesione alla filosofia del Memorandum. Ma questa sottomissione al Memorandum che l’Eurogruppo voleva non c’è mai stata.
Le «Istituzioni», via via sempre più irritate dalla tattica negoziale di Tsipras, prima attaccarono violentemente Varoufakis per espellerlo dalla trattativa, e poi lanciarono l’ultimatum al governo greco dopo la riunione «segreta» dei quattro (Commissione, Bce, Fmi e Eurogruppo).
A questa richiesta fu risposto no, con durezza, e le trattative ricominciarono. Ma nonostante le differenze nelle misure da adottare si riducessero, appariva chiara la volontà dell’Eurogruppo di accettare solo una resa completa della Grecia.
E crebbero le manovre europee in Grecia per arrivare a una sostituzione del governo di Syriza con uno di unità nazionale. A questo Tsipras rispose col referendum, considerato dagli europei una mossa talmente ostile da dichiarare, sia prima che subito dopo, che il referendum rendeva impossibile la riapertura delle trattative.
Tutti sappiamo che la trattativa si è riaperta solo per l’esito quasi plebiscitario del referendum, e per l’intervento pesante degli Stati Uniti. Dopo il referendum e l’evidenza dei calcoli politici sbagliati, gli Usa hanno ricordato bruscamente agli europei che i vincoli geostrategici non potevano essere un optional subordinato agli obbiettivi politici intra-europei.
Rispetto a questo punto va valutata accuratamente la posta in gioco in questo momento. Che non può che essere che la sopravvivenza del governo di Syriza come obbiettivo assolutamente prioritario. Evidentemente nel lato europeo sta prendendo di nuovo piede la posizione esattamente opposta: che sia assolutamente prioritario invece liberarsi di questo governo; e, in subordine, se questo non fosse possibile, liberarsi della Grecia nell’euro, precipitandola in un caos che comunque sia di monito a chiunque volesse seguire quella via.
Solo così si spiega, infatti, la riapertura violenta dei giochi che sembravano tacitati dall’intervento americano. Evidentemente pesano due motivazioni entrambe vitali per la dirigenza tedesca. La prima che questa rottura «politica» della disciplina dell’austerità era comunque inaccettabile per il contagio che avrebbe potuto provocare, indipendentemente dal contenuto delle misure contenute negli accordi. Ma c’è un secondo lato, fin qui in ombra, che sta venendo in luce. Ed è la stessa stabilità politica tedesca.
È evidente, infatti, che Schäuble sta giocando pesantemente sulla assoluta ostilità dell’opinione pubblica tedesca nei confronti di un qualsiasi accordo con la Grecia, che smuove strati profondi di disprezzo verso il Sud d’Europa. L’incertezza della Merkel nel dare corso alle richieste americane di tener conto degli aspetti geostrategici che l’esito negativo dell’accordo implicherebbe, pare quindi dovuto al timore che questa opinione pubblica, da lei stessa aizzata fino al parossismo, possa reagire violentemente, destabilizzando tutto il quadro politico tedesco.
Non sarebbe più allora il pericolo di formazioni populiste a preoccuparla, ma che forse la stessa Csu bavarese di Schäuble possa scendere sul piede di guerra.
Equilibri tedeschi contro equilibri europei e geostrategici mondiali. Questa è la partita tremenda che si sta giocando. Syriza deve morire, è l’urlo della destra tedesca, e europea.
Che chiarisce anche ai più tardi qual è la posta in gioco. Non certo le percentuali dell’accordo. Ma il potere in Europa. Che, per la prima volta, da Maastricht in poi, è stato messo in discussione dalla formazione politica di un piccolo paese di grande coraggio. Chapeau.
«È una corsa disordinata a fare a pezzi l’Ue; ma anche a segare il ramo su cui sono seduti il suoi governanti. Perché a raccogliere i frutti di questa semina sono e saranno altri: quelli che nazionalismo e razzismo (perché di questo si tratta) sanno coltivarli meglio».
Il manifesto, 12 luglio 2015
Il vero regista di questa strategia suicida è Mario Draghi, che come capo di GoldmanSachs Europa aveva aiutato il Governo greco a truccare il bilancio per entrare nell’euro e indebitarsi a man bassa; e che come capo della BCE gli ha poi presentato il conto per salvare le banche creditrici; e per poi mettere Tsipras con le spalle al muro con il blocco della liquidità (il vero bazooka di cui dispone). Quel suo impegno a salvare la moneta unica “a qualsiasi costo” riguarda infatti l’euro virtuale presente nei libri contabili delle banche; non l’euro reale presente (anzi assente) nelle tasche dei cittadini per fare la spesa: e la Grecia è lì a dimostrarlo.
Ma sono virtuali anche gli euro dei debiti pubblici: sono fatti non per essere restituiti, ma per ricattare i governi. Nessuno si illude di avere indietro il denaro prestato alla Grecia per salvare le banche francesi e tedesche che l’hanno spremuta come un limone: se ne parla solo per alimentare un rancore di sapore razzista.
Tanto è vero che se i membri dell’eurozona dovessero rispettare il Fiscal Compact (di cui nessuno parla più da mesi), i paesi insolventi sarebbero più della metà. Difficilmente però l’Unione europea potrà riprendersi da questo smacco, anche se l’economia dà qualche segno di ripresa. Minacce ben più corpose incombono sui governanti. Perché mentre combattevano sull’aliquota Iva da applicare alle isole dell’Egeo i conti aperti si accumulavano: guerre ai veri confini dell’Ue — dall’Ucraina alla Libia, passando per Siria, Israele, Eritrea, Sud Sudan e Nigeria – e domani forse anche al suo interno; milioni di profughi che premono alle frontiere (e che l’Europa pensa di fermare con cannonate, reticolati e lager); deterioramento del clima, senza alcuna strategia per l’imminente vertice di Parigi; che è anche l’unica chance per rilanciare l’occupazione.
In Europa, come in tutto il mondo, comandano «i mercati», la finanza. Governi e politici sono al loro servizio: i guai della Grecia sono stati provocati prima dall’ingordigia e poi dal salvataggio di poche grandi banche europee. Ma è solo un caso singolo, portato alla luce dalla resistenza del popolo e del suo governo: tutti gli altri sono ancora avvolti nelle nebbie di una dottrina che imputa ai «lussi» di popolazioni immiserite i disastri provocati dalla rapacità della finanza. Mentre avallano questo attacco alle condizioni di vita dei concittadini, governi e partiti cercano di fidelizzare i loro elettorati delusi, disincantati e assenteisti vellicandone orgogli nazionali e risentimenti verso le altre nazioni. «Noi siamo probi; loro spreconi»; «Paghiamo i lussi altrui»; «Noi abbiamo fatto le riforme, loro no»; «Siamo sulla strada della ripresa, sono gli altri a trascinarci a fondo»; «O tuteliamo i nostri cittadini o manteniamo gli immigrati», ecc.
È una corsa disordinata a fare a pezzi l’Ue; ma anche a segare il ramo su cui sono seduti il suoi governanti. Perché a raccogliere i frutti di questa semina sono e saranno altri: quelli che nazionalismo e razzismo (perché di questo si tratta) sanno coltivarli meglio. È questo che paralizza i governi: che cosa mai sta proponendo l’Europa, al di la della «meritata» punizione del popolo greco e di chi volesse imitarlo? Non c’è visione strategica; non c’è condivisione di valori e obiettivi; non c’è capacità né volontà di confrontarsi con la realtà. L’unione politica dell’Europa costruita attraverso i meccanismi di mercato è irrealizzabile: più la si invoca, più si allontana. I primi passi della Comunità europea – Ceca, Euratom (quando nessuno contestava ancora l’uso pacifico del nucleare), mercato comune – non erano che la ricaduta di un ideale, quello di una comunanza di popoli che fino ad allora si erano scannati a vicenda; non l’inizio della sua trasformazione in realtà.
Anche se pochi ne erano coscienti, ad animare quei passi era stato lo spirito di Ventotene, perché la volontà di evitare guerre, conflitti e iniquità era condivisa da tutti. Tutto ciò è scomparso da tempo: l’allargamento dell’Unione è stato condotto sempre più all’insegna di una ripresa della guerra fredda (i nuovi arrivati, o i loro governi, cercano l’Europa non per gli scarsi vantaggi che promette, ma per avere la Nato in casa) e buona parte di quell’allargamento è frutto del macello jugoslavo: una guerra provocata dall’Europa in Europa, ma condotta dagli Usa e per gli Usa.
È l’alta finanza a legittimare i governi europei, come è evidente nel passaggio della Grecia da un governo coccolato da banche e Commissione a uno esecrato da entrambe. Mentre a paralizzarli sono le mosse per tenere a bada i loro elettori. Ma anche una parte, ancora maggioritaria, di questi è paralizzata: dal mito della «ripresa», dell’«uscita dalla crisi», del ritorno alla «normalità», del ristabilimento delle condizioni di prima in fatto di reddito, occupazione, consumi; ma anche di libertà, pace, diritti. Quelle condizioni non torneranno più: bisogna imparare a vivere con quelle vigenti ora e a scavarsi la strada per un mondo diverso. Imparare a convivere con milioni di profughi, dentro e fuori i confini dei nostri paesi; lavorare per sradicare, insieme a loro, aiutandoli a organizzarsi, le cause di guerre e miseria che li hanno fatti fuggire.
Mettere al centro dei programmi la conversione ecologica: per salvare il pianeta ma anche i territori in cui viviamo; e per creare un’occupazione che valorizzi capacità e saperi di tutti, senza soggiacere al ricatto di perdere il reddito se si perde il lavoro. Sostituire un’economia che si regge sulla corsa ai consumi con una convivenza che privilegi qualità e ricchezza dei nostri rapporti con la natura e gli altri. Ma soprattutto, se vogliamo un’altra Europa, costruita su pace e dignità delle persone, prendiamo atto che i suoi confini non sono quelli dell’eurozona né, per quanto allargati, dell’Unione. Sono quelli tracciati da coloro che vedono nell’Europa non un «faro di civiltà» (in fin dei conti nazismo e Shoah li abbiamo covati noi), ma l’opportunità di una vita più ricca, pacifica e diversa. Abbiamo bisogno di un nuovo Manifesto di Ventotene.
«Vent’anni fa, nel 1995, si scrisse l’ultima atroce pagina del ‘900. A Srebrenica, nell’ex Jugoslavia, oltre ottomila uomini musulmani bosniaci furono massacrati su ordine del comandante serbo Mladic. L’opinione pubblica allora fu disattenta, oggi in molti faticano a ricordare dov’erano quell’11 luglio».
Corriere della Sera, 11 luglio 2015 (m.p.r.)
Dove eravamo l’11 luglio del 1995? Molti di noi hanno difficoltà a ricordarlo. In quel giorno d’estate di vent’anni fa è caduta Srebrenica, ed è iniziato il massacro. Così, fra la disattenzione dell’opinione pubblica, le responsabilità di Usa, Francia e Gran Bretagna, e le colpe dell’Onu, è stata scritta l’ultima atroce pagina del libro nero del Novecento.
«Gli abitanti di Srebrenica sono rimasti in pochi e fra quei pochi l’odio non si è stancato. Però ci sono persone che a fare la pace si impegnano davvero. Donne soprattutto: scamparono grazie a quello spirito cavalleresco non solo serbo che insegna a sterminare gli uomini - tutti, dai 13 anni ai 70 e oltre - e a risparmiare le donne, dopo averle stuprate».
La Repubblica, 11 luglio 2015 (m.p.r.)
Srebrenica. Nemanija Zekic ha 27 anni, è il presidente del Centro Giovanile di Srebrenica, ed è, con suo fratello Zarko, un volontario dell’Associazione “Adopt Sarajevo”, ispirata ai pensieri e alle azioni di Alexander Langer. È nato a Srebrenica, ma non c’era nel luglio del 1995, perché dal 1991 la sua famiglia era riparata in Serbia, e quando tornò tutto era successo. Infatti Nemanja è serbo-bosniaco, ed è cresciuto nel culto nazionalista che insegna a esaltare le violenze vittoriose contro il nemico e a negare i crimini troppo orrendi per essere rivendicati.
La Repubblica, 12 luglio 2015
BRUXELLES. Il dietrofont di Alexis Tsipras e del governo greco non basta. Non bastano le misure proposte, perché la situazione economica della Grecia si è molto deteriorata dopo il referendum e la chiusura delle banche. Non bastano, soprattutto, le dichiarazioni fatte in Parlamento a ristabilire un minimo di fiducia tra Atene e i suoi creditori che per troppe volte si sono sentiti ingannati. E’ questo l’umore prevalente emerso dalla riunione dell’Eurogruppo, cominciata ieri pomeriggio a Bruxelles e proseguita nella notte. Oggi toccherà ai capi di governo della Ue decidere quali ulteriori passi siano necessari per aprire eventualmente il negoziato sul terzo pacchetto di aiuti che eviti l’uscita della Grecia dalla moneta unica.
Ieri, ufficialmente, nessuno ha evocato questa ipotesi, che però aleggia su tutti i colloqui europei fin dal momento in cui Tsipras ha rotto le trattative per indire il referendum. Ma il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schaeuble, capofila dei falchi, ha scelto un modo indiretto per sollevare la questione facendo circolare uno studio del suo ministero concordato, a quanto pare, con Angela Merkel. Nel documento si sostiene che Atene dovrebbe varare immediatamente riforme più radicali e conferire beni per 50 miliardi in un fondo vincolato a garanzia dei nuovi finanziamenti, oppure «uscire per cinque anni dall’euro» e approfittare di questo periodo per ristrutturare il proprio debito pubblico. Poiché la sospensione “temporanea” dall’euro è un’ipotesi impercorribile, come hanno subito osservato fonti della Commissione, in realtà il documento prospetta un’alternativa tra il pignoramento dei beni di Atene e una sua uscita dalla moneta unica.
Ieri nella riunione dei ministri la discussione è stata accesa. Da una parte la pattuglia delle “colombe”, ridotta a Francia, Italia, Cipro e Commissione europea, che si è battuta sostenendo che le proposte di Atene costituiscono «una base sufficiente » almeno per avviare trattative sul nuovo pacchetto di aiuti. Dall’altra i “fal- chi” che hanno giudicato le proposte non credibili nè sul piano economico nè su quello politico. Il Parlamento finlandese ha addirittura vincolato il suo ministro a negoziare un Grexit.
Non ha aiutato a dirimere la questione il rapporto presentato ai ministri dalla Troika composta da Commissione, Bce e Fmi sulle proposte di Tsipras. E’ vero che il terzetto dei creditori ha giudicato la posizione greca sufficiente per avviare il negoziato. Ma ha anche evidenziato come la situazione del Paese sia drammaticamente peggiorata nelle ultime settimane. Le necessità di finanziamento di Atene nei prossimi tre anni sarebbero superiori a ottanta miliardi, di cui almeno 25 necessari per tenere in vita le quattro grandi banche che controllano la sua economia. Inoltre la recessione quest’anno e nel 2016 sarebbe superiore al 3%, a fronte di stime che, a primavera, prevedevano una crescita di almeno mezzo punto. Il calo del Pil fa peggiorare tutti i parametri economici, dal debito al deficit all’avanzo primario, rendendo impossibile raggiungere gli obiettivi che erano stati concordati con Bruxelles prima del referendum. E questo renderebbe le proposte avanzate da Atene, sulla falsariga di quelle che erano state bocciate nel referendum, largamente insufficienti.
E poi c’è la mancanza di fiducia politica, evidenziata nelle dichiarazioni non solo di Schaeuble, ma anche di quasi tutti i ministri dell’Europa nord-orientale. Il fatto che un governo respinga le proposte dei creditori, convochi un referendum popolare che ne conferma il rigetto, e poi il giorno dopo riproponga le stesse misure come se fossero una sua idea non ha per nulla convinto governi meno immaginativi di quello greco. Senza contare il fatto che la coalizione ora al potere in Grecia non sembra avere una maggioranza di voti necessaria a sostenere un simile programma. Si parla già di un prossimo rimpasto di governo. E questo apre uno scenario di instabilità politica che certo non rassicura i creditori di Atene.
Per ovviare a queste obiezioni, le “colombe” hanno lanciato l’idea di dare un minimo di tempo ai greci per consentire al Parlamento di approvare alcune delle più significative e delle più controverse tra le riforme annunciate. Sarebbe un pegno di serietà meno umiliante del fondo vincolato proposto da Schaeuble. Resta da vedere se oggi i capi di governo lo riterranno sufficiente, se il Parlamento greco riuscirà a superare la prova. E soprattutto se gli automatismi del default, in un Paese che vive ormai da due settimane in situazione di emergenza, lasceranno il tempo per questo ennesimo tentativo di rianimazione.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Non basta, secondo i “falchi”, il voto del Parlamento greco: “manca ormai la fiducia” Situazione deteriorata negli ultimi mesi: servono 25 miliardi per salvare le banche
«Per il Nobel dell’Economia Joseph Stiglitz, l’accordo sarebbe una vittoria del buon senso: “Washington aiuti la Grecia visto che Bruxelles non fa la sua parte. La Merkel smetta di fare propaganda: Atene non sta per fallire”».
La Repubblica, 11 luglio 2015 (m.p.r.)
«Avete visto? Anche il Fondo Monetario ha detto che il debito greco va ristrutturato ». Veramente ha detto che va ristrutturato quello degli altri, per la sua porzione vuole la restituzione per intero. E Joseph Stiglitz scoppia in una risata: «Ma insomma, ve lo devo spiegare io che quando ci sono più creditori, il gioco è sempre quello di scaricare sugli altri l’onere?». Poi torna serio: «Sono sicuro che come è stato in altri casi come l’Argentina, alla fine ristrutturerà anche il suo credito ». Comincia così una lunga conversazione telefonica con l’economista, premio Nobel 2001, che più si è speso a favore di un aiuto concreto alla Grecia. Stiglitz è appena tornato a New York dal Lago di Como, dove è rimasto un mese a limare il libro Creating a learning society che sta per uscire. «Oggi si studia troppo poco, ma i Paesi dove si studia di più domineranno la gara per lo sviluppo».
?» Il Sole 24 ore, 10 luglio 2015
Se questa è Europa, meglio un taglio netto, Grexit e un nuovo euro, questa volta quello dei migliori.
Questo sillogismo è l'alibi morale che domenica a Bruxelles fornirà la giustificazione ai 28 capi di Governo dell'Unione per decretare con sollievo la cacciata della Grecia e la sua inevitabile discesa agli inferi. A meno che un piano credibile di riforme del Governo Tsipras, le dissuasive pressioni americane e lo scoppio della bolla cinese con i rischi di contagio globale che si porta dietro, non facciano il miracolo di riportare l'Europa alla ragione convincendola a non farsi del male da sola.
Ma davvero le semplificazioni manichee, il trionfo di apodittici luoghi comuni, che oggi guidano gli assalti dei partiti anti-sistema come la paludata propaganda dei partiti “perbene”, offrono un quadro onesto e veritiero della realtà europea? Quando si afferma che la Germania paga troppo per un euro inquinato dalla presenza greca e i suoi cittadini soffrono troppo per i bassi tassi che deprimono conti e risparmi, si tace sui benefici. 90 miliardi, che quei tassi fruttano alle casse dello Stato e all'orgoglio tedesco del pareggio di bilancio per il secondo anno consecutivo. Per non dire dei vantaggi competitivi per le loro imprese.
Non è uno scherzo né uno scambio inconsulto di paese: ironicamente alcuni problemi da risolvere sono gli stessi in Grecia e in Germania. Però la Grecia è irrecuperabile, ricattatrice, diversa da tutti gli altri paesi mediterranei, sbagliato ammetterla nell'euro: «C'è stato un tempo in cui si diceva lo stesso di noi, che non avremmo mai potuto diventare democratici», ricorda Schick. C'è stato anche un tempo in cui il Trattato di Versailles impose alla Germania oneri insostenibili creando risentimenti nazionali che sfociarono nella II guerra mondiale. Ma un altro in cui, era il 1953, le fu rimesso il 60% dei debiti e fu la ricostruzione.
Possibile che chi porta sulla pelle i segni delle ferite inflitte da eccessi, vendette e stupidità altrui non li conosca abbastanza da evitarli? E che chi ha conosciuto anche una solidarietà generosa e decisiva per il suo futuro non sia in grado di uscire dagli schemi contabil-punitivi per abbracciare con la Grecia la stessa logica di riconciliazione che ha fatto la pace e la prosperità dell'Europa nel dopoguerra? Già, ma i greci barano, non rispettano le regole. Le prime a rompere il patto di stabilità nel 2003 furono Francia e Germania. «Eravamo nella stessa situazione dei greci, dovevamo scegliere tra riforme strutturali e obblighi europei di risparmio. Nemmeno noi saremmo stati in grado politicamente di reggere il processo di riforma facendo più risparmi.
Scegliemmo le riforme, lo rifarei anche oggi» ricorda Joschka Fisher, ministro degli Esteri dell'allora Governo Schroeder. La Francia invece ha continuato a violare le regole anti-deficit fino a incorrere nelle multe, che le sono state però risparmiate con spregiudicate contorsioni interpretative. In nome del superiore interesse europeo. Perché nessuna grazia alla Grecia, a dispetto dei cattivi e disinibiti maestri? Il Governo Tsipras è inaffidabile, i greci fannulloni, evasori e truffaldini, lo Stato inesistente, dice la martellante vulgata imperante. Vero? In parte sì. Nel 2014 però la Grecia ha ridotto del 10,7% la spesa pubblica (in Italia è salita dello 0,2), il più alto taglio Ue.
Negli ultimi 5 anni il saldo di bilancio strutturale è migliorato di 20 punti, quello della bilancia corrente di 16. Ma il debito è schizzato dal 120 al 180 %, complice una recessione paurosa figlia della Troika. I Governi precedenti però hanno rispettato solo il 30% degli impegni presi. Ora invece da quello di Tsipras se ne pretende l'attuazione “blindata” del 100% come pre-condizione alla concessione di nuovi aiuti. Perché? Tzipras non appartiene all'establishment politico europeo, è un leader di estrema sinistra che tra i tanti ha il torto di contestare il pensiero unico dominante in nome di una politica di crescita che renda sostenibili i debiti e restituisca fiducia e futuro alla Grecia come all'Europa. Grexit sarà indolore ma esemplare e ricompatterà l'euro: l'ultimo luogo comune di questa vigilia. Finanziariamente è tutto da dimostrare, come economicamente. Gli americani giurano che sarebbe la “Lehman 2” dell'economia mondiale. Politicamente sarebbe il disastro: l'Europa fondata sulla paura è un cemento inconciliabile con la democrazia.
Quella dimostrazione di democrazia diretta e di precisa volontà popolare non li aveva commossi. Eppure questa aveva fatto breccia persino nel mondo degli economisti mainstream. Uno dei più noti, Luigi Zingales, un italiano che insegna negli States, aveva scritto sul Sole24Ore parole di grande rispetto: “La Grecia, però ha sorpreso il mondo. Io non mi sarei mai aspettato che questo referendum potesse avere luogo nella più assoluta normalità nonostante le banche chiuse, tanto meno che il governo Tsipras fosse in grado di vincerlo”. Ma tutto ciò non ha scosso né turbato gli animi e le convinzioni di una Merkel, di un Gabriel, di uno Schulz, di un Draghi, di un Djisselbloem. Chi tiene i cordoni della borsa sa reprimere sentimenti e commozioni, sempre che ne abbia.
Non restava altra mossa a Tsipras che quella di riformulare una proposta, sapendo che questa volta la data del 12 luglio era davvero una dead-line. Lo ha fatto, rischiando molto, soprattutto al proprio interno, ispirandosi ad un antico principio tattico: fare un passo indietro oggi per farne due in avanti domani. E’ una scommessa. Nessuno può sapere se vincente o meno. Non sappiamo al momento la risposta dei creditori, ma è improbabile che prendano a scatola chiusa. I mercati finanziari sembrano tirare un respiro di sollievo, tuttavia è imprudente giudicare sull’onda degli umori volatili di questi ultimi.
"Non ho il mandato del popolo per portare la Grecia fuori dall'euro, ma per trovare un accordo migliore" Con queste parole Tsipras si è rivolto ai deputati nella riunione del Parlamento greco.
La domanda che tutti si pongono è allora questa: l’accordo sarà migliore? Tutti sappiamo bene che un accordo va valutato per il testo e per il contesto, che si tratti di un accordo sindacale o politico. A maggiore ragione in questo caso, ove il contesto è internazionale, addirittura mondiale per i molteplici interessi in gioco.
E questo contesto è tra i più negativi. Almeno per quanto riguarda l’Europa: la Grecia ha dovuto battagliare contro 18 avversari chi più chi meno motivati a stare dall’altra parte. La desiderata alleanza con i paesi più in difficoltà non si è mai verificata. Anzi è avvenuto il contrario: nessuno di quelli che avevano passato le forche caudine dell’austerità era disponibile a fare sconti ai greci. E su questo ci sarà da riflettere a fondo per evitare facili entusiasmi sulla solidarietà tra i popoli. Se un aiuto è giunto è arrivato da oltreoceano. L’amministrazione americana si è spesa esplicitamente perché la Ue trovasse una intesa per evidente ragioni geopolitiche che non permettevano di considerare la Grexit indolore per la strategia americana, in quella zona del mondo così delicata. Anche la Cina, scossa da una crisi da bolla finanziaria che ha altre e proprie ragioni, ha tutto l’interesse, e lo ho fatto sapere, che la Ue si mantenga unita e che non ci siano contraccolpi speculativi nel vecchio continente.
Se ci potessimo basare solo sul nuovo testo inviato da Tsipras e se la trattativa si concludesse senza sostanziali modifiche al medesimo, è indubbio che ci troveremmo di fronte ad un accordo migliore rispetto a quello prospettato dalla controparte e rifiutato dal no referendario e tale da aprire nuove prospettive che fino a qui sembravano precluse.
Ma è altrettanto chiaro che siamo di fronte a un compromesso che arretra in modo sensibile le linee di difesa iniziali del governo ellenico. In particolare su due punti non certo secondari: la questione delle pensioni e quella del mercato del lavoro. Nel primo caso vi è un’ accelerazione nella revisione dei prepensionamenti, nell’aumento dell’età effettiva del pensionamento e nella disponibilità ad assumere altre misure per la “sostenibilità” del sistema pensionistico. Nel secondo caso vi è l’intento a discutere con le istituzioni europee le modifiche da apportare al mercato del lavoro e alla contrattazione collettiva nazionale.
Naturalmente non c’è nulla di ciò che veniva chiesto con forza dalle istituzioni e dai creditori all’inizio di questa lunga partita, come tagli orizzontali e indiscriminati a salari e pensioni, facilità di licenziamenti di massa, nonché elevamento generale delle tassazioni e dell’Iva in particolare.
Non solo, ma la nuova proposta tende a spostare l’asse sui temi più strutturali, una volta affrontata l’emergenza. Capaci di rilanciare su nuove basi l’economia greca, quali un terzo piano di aiuti triennali per circa 53 miliardi e soprattutto la disponibilità da parte della Ue a prendere in considerazione la questione complessiva del debito. La questione della sua sostenibilità sarà definitivamente sul tavolo dell’Eurogruppo, anche su probabilmente non nella forma di un haircut ma di una ristrutturazione del medesimo.
Il piano greco punta quindi a quello che fin dall’inizio era il suo obiettivo vero: guadagnare tempo senza andare a sbattere contro un popolo in acuta sofferenza, per rimettere in piedi l’economia su nuove basi e ammodernare democratizzandola l’inefficiente macchina statale.
E’ tanto, è poco? Aspettiamo qualche ora per un responso più sicuro. C’è però un punto di fondo che non deve sfuggire alla nostra riflessione. Quali sono i margini effettivi per una politica di sinistra, seppure entro i confini di un keynesismo sociale, in questa Europa inchiavardata nelle politiche di austerity? La risposta ora si sposta in Spagna, dove si voterà a novembre, come ha detto Pablo Iglesias di Podemos intervenendo nel Parlamento europeo.
Non sono riusciti a cacciare all'Europa Alexis Tsipras e ad annullare la speranza del cambiamento radicale. L'analisi prosegue sull'entità delle perdite e sulle condizioni del conflitto necessario per proseguire. Non è un problema solo per la Grecia, ma per quanti vogliono un' Europa solidale ed equa. Articoli di Dimitri Deliolanes, Pavlos Nerantzis, Anna Maria Merlo, Paolo Pini e Roberto Romano .
Ilmanifesto, 11 luglio 2015
di Dimitri Deliolanes
Atene. L’economia è paralizzata ma la società ellenica continua a reagire con orgoglio. L’ultima proposta ateniese, molto rigida, è però migliore di quella pre-referendum, più favorevole ai poveri
È giunta per Alexis Tsipras l’ora della politica di governo, delle manovre non lineari allo scopo di portare la Grecia fuori dalla camera a gas a cui l’hanno condannata, per due settimane almeno, Schäuble e Dijsselbloem. Il premier manovra avendo il sostegno di un paese vivace e orgoglioso, consapevole della sua forza ma anche dei suoi limiti. Per risolvere il problema subito, da lunedì.
Con il blocco dei capitali l’economia è paralizzata e quando finirà la liquidità finirà anche la pazienza dei greci. È quello che probabilmente spera il potente partito neoliberista europeo per far fuori i «rossi» di Atene e dimostrare ai popoli europei che l’evasione dall’austerità è impossibile: evitare il grexit ma promuovere l’Alexit, lo tsipras-exit, magari sostituito o affiancato dall’uomo degli oligarchi, l’ex giornalista Stavros Theodorakis.
Tsipras sa come può far fallire questo progetto di «soft golpe». Sa di essere l’unico leader politico del paese, senza opposizione credibile né fuori né dentro il suo partito. Tocca a lui decidere cosa dire ai creditori, come fare le mosse giuste e in quale direzione. Sempre sulla scia delle chiarissime indicazioni che sono emerse dal referendum: continuare a negoziare ma tornare a casa con un accordo, non con un nuovo fallimento. I greci non vogliono austerità ma non vogliono neanche essere cacciati
dall’eurozona. E Tsipras non vuole dare fuoco all’Europa.
Ma ci saranno anche tagli proporzionali alle pensioni, aumenti all’Iva nelle isole, escluse quelle meno turistiche e più isolate, ma anche per tutti gli alimenti, esclusi gli essenziali, e anche i ristoranti.
Inoltre, dopo aver letto le ripetute prese di posizione di Matteo Renzi, personalità centrale negli equilibri europei, Tsipras in persona ha insistito affinché all’abolizione delle baby pensioni fosse data la massima priorità: da oggi fino al 2022 tutti andranno gradualmente in pensione a 67 anni o dopo 40 anni di contributi. Entusiasmo a Palazzo Chigi.
Ma questo sforzo di distribuire il peso in maniera più favorevole agli strati più poveri non è sufficiente a rendere buone queste proposte brutte, di austerità e di recessione, in vista di un compromesso forse onorevole ma sbilanciato verso la parte dei creditori. Il popolo greco continuerà a sanguinare.
Condizione perché l’accordo auspicato si risolva in favore della Grecia è che sia accompagnato da un chiaro e preciso impegno degli europei ad affrontare, in una data precisa, il problema del debito, reso ancora più urgente in vista dei 30 miliardi che Atene ha già chiesto al Mes — un altro passo indietro del governo. Ancora ieri il sempre “flessibile” Schäuble e la stessa Merkel esibivano pubblicamente fortissimi impedimenti amministrativi e normativi a procedere a un deciso taglio del debito greco e dare così soddisfazione a Washington. Per evitare un uso politico dell’ottusità burocratica teutonica (come è successo più volte con Varoufakis), Tsipras ha preferito usare il termine «rendere sostenibile» il debito, facendo capire che anche spalmarlo all’infinito con tassi ridicoli sarebbe una soluzione soddisfacente.
Un ultimo aspetto della vicenda, non secondario: ieri celebri corrispondenti da Bruxelles e meno celebri commentatori di opposizione in Grecia davano per scontata la ribellione dei deputati intransigenti di Syriza, arrivando al punto di definirne perfino il numero: 40 circa. Nel pomeriggio è effettivamente uscito un documento di critica alle proposte del governo, firmato da tre deputati e da tre membri della segreteria, totale sei persone. Probabilmente al momento del voto, attorno a mezzanotte, saranno di più. Ma è difficile che la maggioranza si spacchi.
Stando a Bruxelles, gli acuti osservatori non potevano prevedere che in mattinata Tsipras avrebbe affrontato il suo gruppo parlamentare dicendo che non può ammette fratture sulla strategia da seguire in questo «momento storico»: «Siamo arrivati insieme e ce ne andremo insieme. Dobbiamo governare. Tra una soluzione brutta e una catastrofica, bisogna scegliere la prima. Cerchiamo di dare battaglia sul debito e non siamo soli. E se la maggioranza viene a mancare, allora non farò ricorso agli altri partiti. Io non sono Papademos». Parole chiare, responsabili, senza infingimenti e demagogia.
di Pavlos Nerantzis
Durissima resa dei conti nel partito al governo, ma dopo sei ore di riunione a porte chiuse anche gli aderenti alla «Piattaforma di Sinistra» assicurano il sostegno parlamentare al premier greco Tsipras
La proposta di Tsipras ai creditori ha messo in gioco la sopravvivenza del governo prima e durante il dibattito parlamentare. Mentre scriviamo è in corso il dibattito in parlamento, ma ad eccezione di un paio di membri di Syriza che hanno annunciato il loro no al mandato per Tsipras a trattare, la parte più a sinistra del Partito, «Piattaforma di sinistra» ha annunciato il proprio sostegno al premier.
La palla dunque, ora, passa all’Eurogruppo. Il dilemma per i dirigenti di Syriza era cominciato quando è stato reso noto il contenuto delle proposte greche: dovevano scegliere se far cadere il governo o accettare un terzo programma considerato «lacrime e sangue»; un pacchetto di proposte, secondo i dissidenti, lontano dalle dichiarazioni programmatiche del «programma di Salonicco». Le discussioni nelle riunioni delle componenti del partito sono state accese. Tutti erano consapevoli che un voto contrario alle proposte di Tsipras avrebbe provocato un colpo d’arresto al governo delle sinistre. Una sconfitta per la sinistra greca, un colpo duro per l’Europa della solidarietà e dei diritti. Solo una settimana la Grecia con il «no» aveva dato un chiaro mandato a Tsipras per trattare senza mettere in discussione la permanenza del paese nell’eurozona.
Ora in molti si chiedono se abbia senso accettare nuove misure di austerità. Il primo a reagire è stato, come ci si aspettava, il ministro della Ristrutturazione produttiva e dell’energia, Panayotis Lafazanis, leader della «Piattaforma di sinistra», la potente componente all’interno di Syriza, che mentre scriviamo, ha confermato l’appoggio a Tsipras nel dibattito parlamentare.
La sua prima reazione è stata categorica: «non voteremo, ha detto, un terzo memorandum». Secondo Lafazanis, sibillino, la Grecia «non ha nessuna pistola alla tempia, esistono opzioni alternative» a un nuovo accordo con la troika. Altrettanto dure e scettiche nei confronti della proposta del governo sono state le reazioni di alti dirigenti della sinistra radicale greca.
Il clima è cambiato quando si è sparsa la voce secondo la quale saranno radiati dal partito e dal gruppo parlamentare tutti coloro che si oppongono al piano Tsipras. Quasi 6 ore è durata la riunione a porte chiuse senza la presenza di giornalisti e di telecamere. Sei ore drammatiche che hanno messo alla prova la compattezza del partito.
Tsipras, parlando venti minuti, ha lanciato un appello ai deputati esortandoli ad appoggiare un accordo con i creditori per ottenere un terzo piano di salvataggio in cambio di riforme. Altrimenti, ha detto, «non accetterò che il governo perda la maggioranza» (Syriza possiede 149 seggi sui 300 e Anel, i «Greci indipendenti», l’altro partner di governo, 13 seggi). Il premier greco ha ribadito che il governo «non ha alcun mandato per un Grexit».
«Ci troviamo di fronte a decisioni cruciali, abbiamo un mandato per ottenere un accordo migliore rispetto l’ultimatum che l’Eurogruppo ci aveva posto, non abbiamo un mandato per portare la Grecia fuori dall’eurozona». E poi ha concluso: «o andremo avanti tutti insieme o cadremo tutti insieme».
«L’uscita dall’euro è l’unica soluzione» ha detto uno dei tre rappresentanti del gruppo parlamentare di Syriza, Thanassis Petrakos, mentre l’altro, Nikos Filis si è schierato contro.
«Non abbiamo avuto né un piano preciso alle trattative con i creditori, né una buona squadra di negoziatori» ha sostenuto il vice-presidente della camera, Alexis Mitropoulos, ex socialista del Pasok. Ottimismo, invece, sull’accordo e sull’approvazione del parlamento greco, è stato espresso dal vice-ministro dell’economia, Dimitris Mardas e il ministro degli interni, Nikos Voutsis.
«La scommessa è quella di ottenere la fiducia degli investitori» ha sostenuto l’ex ministro delle finanze, Yanis Varoufakis, mentre il suo successore Euclid Tsakalotos ha fatto notare che «la proposta è migliore rispetto al passato perché tra l’altro parla della necessità di ristrutturare il debito».
La riunione del gruppo parlamentare di Syriza si è conclusa senza votazione e nonostante le tensioni, si ritiene che al momento della votazione non voteranno contro più di 10 deputati.
Nonostante l’approvazione, si fanno insistenti le voci di dimissioni di alcuni ministri facente parte della «Piattaforma di sinistra»: Panayotis Lafazanis, Dimitris Satratoulis, vice-ministro della Previdenza sociale, Kostas Isychos, vice-ministro della difesa e Nikos Chountis, vice-ministro degli esteri.
Un’incognita è rimasta fino all’ultimo la posizione di Panos Kammenos, leader degli Anel, del partito di destra e partner di governo. Kammenos non ha firmato le proposte presentate ai creditori (non ha firmato nemmeno il ministro Lafazanis) perché prevedono la diminuzione delle spese militari e l’annullamento dell’aliquota Iva alle isole. «Non vuol dire niente che il nostro leader non abbia firmato. La Grecia rimarrà in Europa» ha detto il ministro Terence Kouik, braccio destro del leader Anel.
A favore della proposta greca si sono schierati il partito di destra Nea Dimokratia, i socialisti del Pasok e i centristi del Potami, il leader dei quali, Stavoros Teodorakis si è incontrato ieri a Bruxelles con Jean-Claude Juncker. I comunisti del Kke, invece, hanno denunciato «il terzo memorandum promosso dal governo» e ieri hanno organizzato una manifestazione di protesta alla centralissima Platia Syntagmatos di fronte al parlamento.
di Pavlos Nerantzis Grecia. La nuova proposta greca è di oltre i 12 miliardi di euro (quella precedente era di 8 miliardi) per i prossimi due anni, in cambio di un prestito pari a 54 miliardi di euro. Non è escluso, si possa arrivare fino ai 70 miliardi di euro.
Le misure discusse al consiglio dei ministri e presentate ai creditori – prima ancora di essere discusse nel gruppo parlamentare di Syriza e nel parlamento — prevedono nuovi tagli e aumenti delle tasse per far incrementare gli introiti statali, un impegno per la ristrutturazione del debito e un programma pari a 35 miliardi di euro per attirare investimenti e favorire occupazione e crescita. La nuova proposta greca è di oltre i 12 miliardi di euro (quella precedente era di 8 miliardi) per i prossimi due anni, in cambio di un prestito pari a 54 miliardi di euro. Non è escluso, si possa arrivare fino ai 70 miliardi di euro.
Parte di questo maxi-prestito finirà alla ricapitalizzazione delle banche elleniche le quali dovranno rifondersi: dai quattro istituti di credito (National Bank of Greece, Piraeus, Eurobank e Alpha Bank) ne rimarranno due. Il testo ellenico è di 13 pagine e si basa su un recente rapporto di 47 pagine e sulla proposta avanzata dal presidente della Commissione europea Juncker. Il testo prevede modifiche significative ai sistemi fiscali e previdenziali, nel tentativo di convincere le istituzioni che Atene ha adottato un approccio più realistico. Il surplus primario sarà dell’1% nel 2015 e del 2% nel 2016, ma ci sono degli interrogativi su come il governo riuscirà a ottenere l’obiettivo di quest’anno visto che per il momento la crescita è di appena 0,5% a causa dei ritardi per arrivare ad un’intesa.
Nella proposta è prevista una tassazione dell’Iva a tre livelli, con medicinali, libri, spettacoli d’arte e teatrali al 6%; alberghi, energia, prodotti alimentari freschi e generi alimentari di base al 13% (e non al 23% come proponevano i creditori) e degli alimentari lavorati, ristoranti e altro al 23%. Inoltre resta in vigore il 30% di sconto sulle aliquote Iva sulle isole, una vera e propria «linea rossa» per il governo.
L’aumento dell’Iva sugli alimentari significa che i prezzi aumenteranno subito dell’8,85%, mentre quelli degli alberghi potranno aumentare del 6,1%. Inoltre, il governo manterrà la controversa tassa sugli immobili (Enfia) nel 2015 e 2016 (quando Syriza era all’opposizione l’aveva aspramente denunciata) e aumenterà nel contempo gli sforzi per combattere l’evasione fiscale. Previsto anche l’aumento della tassa di solidarietà come pure di quelle sul lusso e sugli introiti delle grandi società dal 26% al 28% e per gli armatori fino ad oggi mai toccati dal fisco.
Per quanto riguarda le riforme previste nel sistema pensionistico sembra che Tsipras abbia intenzione di applicare la legge degli ex ministri del Pasok, Loverdos e Koutroumanis, che forniva una pensione di base e proporzionata per chi ne ha maturato il diritto a partire dal gennaio 2015. In cambio il governo greco insisterà sul rinvio dell’attuazione della «clausola di deficit zero» per le pensioni integrative (ci sarà la graduale riduzione dei benefici dell’Ekas entro il 2019).
Tutto sommato i pensionati saranno lievemente colpiti dalle nuove misure, mentre il nuovo sistema pensionistico avrà anche lo scopo di scoraggiare il pensionamento anticipato con l’introduzione di sanzioni più severe.
La proposta del premier greco prevede anche l’attuazione dei suggerimenti dell’Ocse, che includono l’apertura delle professioni chiuse, come i notai, la revisione della competitività in aree caratterizzate da pratiche di oligopolio e l’adozione di nuove strategie per combattere la corruzione aziendale, in particolare in relazione alle procedure d’appalto pubbliche. Nel campo delle privatizzazioni si parla di un nuovo modello con la partecipazione dello Stato.
I porti del Pireo (la cinese Cosco ha già acquistato una parte degli stabilimenti) e di Salonicco saranno privatizzati, secondo la proposta di Atene, così come andrà avanti l’affitto delle tedesche Fraport e Sientel degli aeroporti di periferia (nel passato Syriza si era opposto). Oggi i creditori dovranno valutare il piano ellenico, ma non è detto che sarà approvato. Tutto dipenderà da Berlino e in particolar modo dal ministro delle finanze Schauble, che controlla la maggioranza dell’Eurogruppo. Quello che interessa è la sostenibilità del debito greco ed eventuali nuove misure che i falchi europei potrebbero chiedere all’ultimo momento.
di Anna Maria Merlo
Crisi dell'Europa. Tecnici francesi hanno aiutato i greci a redarre un testo di impegni in grado di convincere i creditori. Prudenza tedesca. Oggi l'Eurogruppo, i vertici di domenica (a 19 e a 28) potrebbero venire annullati. Il piano di Atene deve poi passare al vaglio di almeno 8 parlamenti della zona euro. L'appello dei sindacati europei perché i cittadini non siano "penalizzati dal voto"
François Hollande è stato il primo a reagire dopo la presentazione della proposta greca, giovedì in tarda serata. «Serie e credibili, volontà di concludere», per il presidente francese. Per il primo ministro, Manuel Valls, «solide, serie, concrete». Non c’è da stupirsi della reazione francese: sono tecnici di Bercy (ministero delle Finanze) che hanno consigliato i greci e suggerito le migliori formule per arrivare a un’approvazione, che dovrebbe arrivare oggi all’Eurogruppo (sempre che ad Atene la proposta passi al parlamento).
Ieri, il fronte dei creditori ha cercato una risposta comune. Juncker (Commissione), Draghi (Bce), Dijsselbloem (Eurogruppo) e Lagarde (Fmi), in una video-conferenza, hanno discusso per presentare una analisi comune, che riceverà il via libera all’Eurogruppo di oggi e dovrebbe aprire i nuovi negoziati per un terzo piano di aiuti alla Grecia. Per il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, oggi ci sarà una «decisione importante», perché il testo greco è «tra i più approfonditi» presentati ai ministri delle finanze. Se tutto fila liscio, come spera Renzi, potrebbe essere reso inutile il vertice dei capi di stato e di governo di domenica.
Ma a Bruxelles insistono sul fatto che il Consiglio a 19, previsto domenica, dovrebbe comunque riflettere sulla richiesta greca di un «ri-profilamento» del debito, in sostanza una ristrutturazione. Inoltre, il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk, ha anche convocato, sempre domenica, un Consiglio dei capi di stato e di governo della Ue, a 28, che ha in programma una decisione sugli «aiuti umanitari» alla Grecia – alimentari, medicinali. La commissaria al Budget, Kristalina Gorgieva, ha dichiarato: «stiamo organizzando un programma di sostegno di emergenza» che potrebbe raggiungere i 7 miliardi in un anno.
In Germania nessun entusiasmo. Solo l’Spd ha visto nelle proposte greche «un grande passo avanti», anche se Axel Schäfer sottolinea che «avrebbe potuto essere fatto da tempo». La Cdu, il partito di Angela Merkel, si interroga: «quale credibilità ha questa lista? sarà applicata?», si chiede il vicepresidente del gruppo Ralph Brinkhaus. Peggio gli alleati bavaresi della Csu, che giudicano il programma greco ancora «insufficiente».
Prudenza tedesca, ottimismo francese, italiano e persino slovacco, un’accoglienza favorevole a Bruxelles: ma la strada non è ancora spianata per un’uscita dalla crisi.
Intanto, c’è l’attesa per il voto al parlamento greco. Poi, altri parlamenti dovranno pronunciarsi su un terzo piano di aiuti: Valls lo ha promesso alla Francia questa settimana, poi come sempre la Germania, la Finlandia, l’Austria, l’Estonia, la Lettonia e la Slovacchia. In Olanda saranno i deputati a decidere se il piano richiede un voto, che potrebbe anche essere deciso in Irlanda. In Slovenia, il paese che in proporzione al pil è il più esposto con la Grecia, ci potrebbe essere un voto se verrà decisa una ristrutturazione del debito.
I sindacati europei hanno inviato una lettera alle istituzioni e all’europarlamento a favore di «negoziati in buona fede con l’obiettivo di trovare «un accordo socialmente giusto ed economicamente sostenibile con il governo greco», per «mantenere la Grecia nella zona euro e nella Ue».
di Paolo Pini e Roberto Romano
Durante l’ultima settimana è stato un continuo stillicidio di ipotesi tra l’irresponsabilità e la stupidità, con la Francia nella parte del poliziotto buono che ha tenuto un dialogo aperto all’ipotesi del No-Grexit con un nuovo Memorandum in continuazione dei precedenti, e la Germania nella parte del poliziotto cattivo che puntava ad alleggerirsi del fardello greco dall’Eurozona; gli altri paesi erano comparse di poco conto, appoggiando gli uni o gli altri, con l’Italia che neppure ciò riusciva a fare.
Tsipras ha avuto il merito di trasformare il «no» in una unica voce dietro la quale ha raccolto tutti i partiti greci che erano per il Sì, e così si è presentato di nuovo in Europa, al Parlamento Europeo per chiedere di proseguire il negoziato. Così facendo ha sgombrato il tavolo per quanti puntavano alle dimissioni del suo governo come condizione politica sine qua non per la negoziazione.
Ma non è riuscito ad evitare che sul tavolo rimanesse, nella migliore dei casi, solo l’ipotesi di un Memorandum che sancisce (a) nessuna concessione alle richieste greche di fermare le politiche di austerità e (b) nessuna ristrutturazione del debito greco.
È difficile non pensare però che essa non sia altro che un equilibrio temporaneo: la crisi greca rimane in agenda ed il rischio di quella sistemica dell’Eurozona viene solamente posticipato perché i fondamentali non mutano.
Per i creditori il debito va pagato, e sono disposti a concedere linee di credito solo a condizione di un Memorandum 3 prosecuzione dei due precedenti. Ma l’esito di ciò è il perdurare della depressione in Grecia, nella misura in cui il governo ellenico non ha un piano B, accettando di non dichiarare default e non prevedere un modo controllato di uscita dall’euro.
Gli interventi previsti e sui quali il governo greco è costretto a convergere sono consistenti, 12 miliardi di tagli invece degli 8 precedenti, per ottenere 50–60 miliardi di aiuti nel triennio; tra gli interventi vi sono la revisione delle imposte verso l’alto che andranno a penalizzare la domanda interna ed i servizi che la Grecia oggi di più esporta (turismo) e quelli sulle pensioni che anche essi non sono certo nel breve periodo a sostegno della ripresa della domanda.
Che le privatizzazioni siano poi il grimaldello per far decollare il mercato interno, su questo è lecito avere dubbi. Alcune delle modalità con cui ciò verrà fatto non sono comunque da disprezzare, e non piaceranno certo alla Troika, perché segnano che nella modulazione possono passare interventi che sono pure nel programma di governo di Tsipras (aumento delle aliquote sui profitti, tasse sulle proprietà, e sul lusso, tagli alla difesa — purtroppo modesti per l’acquisto di materiale bellico, tagli alle pensioni anticipate, interventi contro l’evasione fiscale e la corruzione, aiuti ai meno abbienti), come è da apprezzare avere ottenuto una consistente riduzione dell’avanzo di bilancio all’1% nel 2015 e quindi 2%, 3%, 3,5% negli anni seguenti sino al 2018 che la Troika avrebbe voluto inalterato attorno al 5% ed oltre del Pil.
Altri interventi sono vere e proprie concessioni alla Troika: aumento dei contributi sanitari per i pensionati, abbandono del contributo di solidarietà alle pensioni più povere, revisione delle normative sul mercato del lavoro secondo le migliori pratiche europee ed adozione di legislazione per la contrattazione collettiva da concordare con le istituzioni. Ma che tutto ciò possa favorire la crescita in Grecia è assai difficile da pensare.
L’accordo non prevedendo peraltro nulla di definito circa la ristrutturazione del debito e lascia la Grecia con il cappio al collo. Costretta a ripagare i debiti in base ai programmi stabiliti e tenuta a onorare tassi di interessi che sono considerati da usurai, sebbene di mercato (ma il mercato può ben essere in mano agli usurai!), alla Grecia rimarranno ben poche risorse per affrontare i nodi strutturali di offerta e di domanda.
Le risorse che servono per pagare i creditori verranno sottratte ad iniziative per ristrutturare la struttura produttiva greca che contribuirebbero anche a sostenere la domanda interna.
Così i nodi strutturali della Grecia non possono essere affrontati ed anche nell’ipotesi che una qualche crescita prima o poi si presenti all’orizzonte, il vincolo esterno continuerà a mordere, e quindi la necessità della Grecia di farsi finanziare con flussi esteri i deficit commerciali. Nel medio e lungo periodo quindi il rischio è che si ripresentino i problemi di sostenibilità del bilancio pubblico e dei conti esteri che assillano la Grecia da ben prima del suo ingresso nell’Eurozona, senza che nel breve periodo lo stato di depressione dell’economia sia alleggerito. Lo scenario rimane quindi cupo per la Grecia.
Se questo sarà la base dell’accordo (e come potrebbe essere altrimenti?) che verrà sottoscritto con l’Eurogruppo e con il Consiglio dei 28 entro domenica, la Grecia certo prenderà tempo, ma non è detto che ciò dia tempo all’Europa.
Nel frattempo, l’austerità continua, mentre la crescita può attendere.
Il manifesto, 10 luglio 2015 (m.p.r.)
Dopo il voto di fiducia dei 159 senatori di giovedì 25 giugno, oggi abbiamo vissuto ancora un altro Black Thursday della nostra storia repubblicana: alla Camera, 277 deputati hanno votato a favore della riforma della scuola proposta dal governo, trasformandola in legge.È davvero sorprendente che il premier, perplesso circa il fatto che in Grecia «3 milioni di cittadini abbiano espresso una decisione che riguarda 300 milioni di europei», non si preoccupi del fatto che poche centinaia di parlamentari italiani — nominati con una legge elettorale incostituzionale — hanno emanato una riforma che riguarda non solo milioni di studenti ma il destino del nostro sciagurato Paese.
È una riforma che fa strame dei principi costituzionali e declassa definitivamente la scuola pubblica italiana da istituzione a servizio. A nulla è valsa la mobilitazione costante di insegnanti e studenti che, nell’ultimo anno, fin dalle prime slide mostrate da Renzi in tv a settembre, hanno espresso ogni giorno e in ogni occasione il loro argomentato e articolato dissenso critico. Che hanno cercato, invano, un’interlocuzione reale con il governo, il parlamento e tutte le più alte cariche dello Stato per denunciare i rischi della deriva culturale e politica di una riforma della scuola che consegna tutti i poteri in mano ai presidi: dalla definizione del progetto formativo con vincolo triennale, alla ricerca dei finanziamenti privati sul mercato, fino alla chiamata diretta dei docenti.
Una riforma che lede uno dei princìpi fondamentali di uno stato democratico e civile: la libertà della scienza, delle arti e del loro insegnamento, ovvero la libertà del pensiero, la libertà attraverso la quale, nel percorso di istruzione e formazione intrapreso tra i banchi di scuola, i nostri studenti diventano, gratuitamente e a buon diritto, consapevoli cittadini del mondo. Come recitano gli articoli 3, 33 e 34 della Costituzione, nel definire in modo chiaro e inequivocabile il mandato della scuola nel nostro Paese.
Da settembre non sarà più così. Se il Presidente della Repubblica firmerà questa legge, sordo ai rilievi di incostituzionalità formali e sostanziali che da tante parti si levano in questi giorni tristi, in cui la tenuta della democrazia sta vacillando sotto i colpi degli emendamenti soppressi, dei pareri delle opposizioni inascoltati, delle posizioni legittimamente espresse da sindacati, associazioni e movimenti protervamente calpestate, dello spettacolo indecente dei parlamentari intenti a compulsare tablet e cellulari mentre approvavano distrattamente questo o quell’articolo del ddl — se anche il Presidente, garante supremo dei principi costituzionali, non comprenderà i gravi pericoli di cui questa riforma è impregnata e non imporrà una profonda riflessione, allora da settembre ci sarà il Far West.
E non perché noi insegnanti la saboteremo o boicotteremo, peraltro legittimamente ove sarà necessario preservare i diritti degli studenti e dei lavoratori dal mercimonio degli interessi privati. Ma perché le scuole imploderanno in una condizione di contenzioso e conflitto perenne. Una condizione che ne determinerà la paralisi. Ogni decisione del dirigente scolastico sarà discrezionale e irricevibile dai collegi dei docenti, consigli di classe, rappresentanze sindacali, consigli d’istituto e da tutti gli organi collegiali che saranno stati in grado di mantenere intatte le prerogative decisionali. Da settembre, ogni preside potrà pescare dal gran calderone della legge (un unico articolo con 212 commi e 8 deleghe, irresponsabilmente lasciata in questa forma flessibile e largamente interpretabile) tutto e il contrario di tutto, per una scuola on demand che corrisponda ai bisogni del territorio ma soprattutto alle esigenze del mercato.
Sarà il caos. Hanno fatto un disastro e lo chiameranno «buona scuola».
«La “Buona scuola” è legge di stato». Una efficace descrizione della legge e delle sue criticità. Un giudizio ottimistico che non condividiamo.
Lavoce.info, 10 luglio 2015 (m.p.r.)
Il disegno di legge n.1934 (più noto come “Buona scuola”) appena approvato definitivamente dalla Camera in forma di unico articolo, in apertura enuncia i principi ispiratori, tutti pienamente condivisibili: “innalzare i livelli di istruzione e le competenze delle studentesse e degli studenti, […] per contrastare le diseguaglianze socio-culturali e territoriali, per prevenire e recuperare l’abbandono e la dispersione scolastica, […] per realizzare una scuola aperta, quale laboratorio permanente di ricerca, sperimentazione e innovazione didattica, di partecipazione e di educazione alla cittadinanza attiva […]”. Il modello organizzativo a cui si ispira la riforma è quello della attuazione della autonomia scolastica, che significa capacità di adattare l’offerta formativa al contesto locale alla luce delle costanti trasformazioni della realtà esterna. Non stupisce quindi che una più ampia autonomia richieda una maggiore e migliore capacità di direzione da parte dei dirigenti scolastici, il cui ruolo viene rafforzato.
La spesa in istruzione
La legge sancisce un’inversione di tendenza nella spesa pubblica in istruzione, in cui l’Italia risulta essere uno dei paesi europei con il più basso livello di risorse investite in rapporto sia al prodotto interno lordo, sia come quota finalizzata sul totale della spesa pubblica (l’8 per cento della spesa pubblica, secondo il recente rapporto Oecd Government at a glance, seguiti solo dalla Grecia al 7,8 per cento). Questo viene attuato attraverso un innalzamento della spesa dell’ordine di un miliardo e mezzo di euro all’avvio (e di tre miliardi e mezzo a regime) collegato all’immissione graduale in ruolo di circa 100mila nuovi insegnanti, oltre al rimpiazzo del turnover legato ai successivi pensionamenti.
Prerogative dei dirigenti
Sul rafforzamento delle prerogative manageriali dei dirigenti scolastici si sono maggiormente concentrate le proteste sindacali degli insegnanti. Secondo la nuova legge il dirigente avrà a disposizione fondi per premiare l’impegno scolastico dei docenti (con attenzione alle scuole a maggior rischio educativo), potrà scegliersi un gruppo di insegnanti “collaboratori” nella funzione di governo della scuola (opzione di fatto già esistente attraverso la scelta dello staff e, in parte, delle cosiddette “funzioni strumentali”) e potrà scegliere i nuovi insegnanti da un bacino predefinito (creando quanto indicato, sempre in gergo, come organico dell’autonomia o funzionale). Molte delle correzioni introdotte dal dibattito parlamentare hanno mirato a limitare queste prerogative: l’erogazione dei fondi incentivanti è stata trasferita a una commissione dove gli “incentivandi” hanno la maggioranza, la scelta dei nuovi insegnanti deve avvenire rispettando dei vincoli procedurali di trasparenza (pubblicità del fabbisogno di competenze in linea con il piano formativo triennale della scuola, pubblicità dei curricula dei selezionati).
Miglioramento delle possibilità di pianificazione e progettazione
Nel corso del percorso parlamentare il disegno di legge ha visto rafforzarsi la coerenza interna legata agli orizzonti temporali. A un sistema scolastico che era ormai abituato alla logica della “sopravvivenza quotidiana” è stata restituita la dignità di una pianificazione complessiva e di una progettazione didattica pluriennale. Non è infatti casuale che sull’orizzonte dei tre anni sia stata riallineata una serie di processi: la programmazione scolastica (in gergo Pof - piani dell’offerta formativa); l’assegnazione dei nuovi organici dell’autonomia; la valutazione degli esiti dei rapporti di autovalutazione a livello di istituto; l’assegnazione e la valutazione dei dirigenti scolastici; la cadenza dei concorsi per l’ingresso nella professione insegnante.
Bugie a go go e retrocessione culturale. L'autoritarismo dello Stato feudale prepara la sua perpetuazione: ecco a che serve la "buona scuola" di Renzi.
Il manifesto, 10 luglio 2015
I nodi vengono al pettine: e anche le bugie. Se non si approva il ddl non potranno esserci tutte le assunzioni, si diceva. Non sarà così.
Il ddl è stato approvato ma le assunzioni non saranno per tutti (ad alcuni sarà graziosamente concessa la possibilità di fare un altro concorso) e saranno centellinate nel tempo.E ancora, per giustificare la volontà di non fare il decreto per le assunzioni, l’argomentazione ossessivamente ripetuta era: «non si possono fare le assunzioni dei precari nella scuola così com’è». E invece le nuove norme su organizzazione e gestione del sistema andranno in vigore dal 2016. Ma allora? Perché si continua a giocare sulla pelle delle persone? Perché non si tiene in nessun conto una protesta civile e composta come quella della stragrande maggioranza del mondo della scuola?
Perché non si è mai tentata con la scuola e le sue rappresentanze un’interlocuzione positiva? Che non è sicuramente quella del «vi ascolto ma poi decido io». Perché si è continuato a ripetere che la gente non capiva, fino ad arrivare alla farsa del gesso e della lavagna? Forse vale la pena riassumere i termini generali, entro i quali il dibattito si è sviluppato. Un dibattito che, come non accadeva da decenni, ha coinvolto non solo gli addetti ai lavori ma una larga e significativa parte dell’intellettualità di questo Paese, anch’essa inascoltata.
Lo scontro non è stato di tipo ideologico, innanzitutto. Non si sono confrontati una scuola «di sinistra» contro un governo «di destra», per usare delle semplificazioni pure molto diffuse. Si tratta invece di un mondo, quello degli insegnanti innanzitutto, e poi delle famiglie e dei ragazzi, che da sempre si «prende cura» della scuola, che è in ogni paese civilizzato la garanzia di un futuro migliore, comunque. Ecco, diciamo che lo scontro è tra chi pensa che della scuola pubblica ci si debba prendere cura per il valore costituzionale che rappresenta e chi invece la paragona ad un’azienda, verso cui vanno applicati esclusivamente principi aziendali.Qualcuno l’ha già pensato in passato, Tremonti e Gelmini, per esempio. In quel caso tagli pesantissimi. In questo caso presidi manager, insegnanti scelti dai capi di istituto e una nuova gerarchia tra le scuole, avviando una competizione che rischia di lasciare indietro proprio quelli che hanno più bisogno. Secondo un modello che paesi come gli Stati uniti stanno dismet tendo .Ma a tanti, dentro e fuori la scuola, interessa soprattutto che la scuola continui a formare ragazzi che sanno. Conoscono. Riflettono. Imparano. Tutte cose che vanno al di là di una mera filosofia aziendale, non ci sono cattivi da punire con trattenute di stipendio, o bravi da incentivare con regalie in denaro.
C’è un intero sistema che va accudito con la cura che merita. È questo l’errore, stavolta sì ideologico, del governo attuale come di quelli precedenti: l’incapacità di misurarsi con la scuola come sistema, e non come un semplice insieme di istituti e persone che vi lavorano dentro. Perciò questa legge non può essere corretta in corso d’opera come sostiene qualcuno, anche in queste ore. Perciò occorrerà un referendum abrogativo.Lo sa bene il popolo della scuola ( insegnanti, studenti, anche tantissimi dirigenti) che continua e continuerà nei prossimi mesi ad essere in piazza, unito come non mai, combattendo una battaglia che ha il respiro largo delle grandi battaglie civili. Come da tempo non avveniva. Non sono persone che non hanno l’ardire dell’innovazione o patiscono la paura di essere valutate. Sono persone che sanno bene come funziona la scuola, a differenza dei tanti che ne scrivono sulle pagine della stampa nazionale guidati solo da impressioni o vecchi pregiudizi.
Sono quelli ai quali un recentissimo rapporto Ocse riconosce sempre migliori capacità di governare e migliorare il sistema pubblico della scuola italiana in una società che cambia. Difendere la scuola pubblica ormai è questo, un vero e proprio scontro di civiltà, termine abusato quanti altri mai, ma forse il più adeguato. La scuola pubblica è civiltà. È patrimonio genetico si può dire, del nostro vivere. Questo va fatto capire ai giovanotti del governo, alla loro visione «smart» ed «easy» del fare politica e del governare. Riportarli nel mondo reale, di cui la scuola è maestra e specchio come nessun’altra istituzione. Abbiamo ancora tutti da imparare dalla scuola. Soprattutto loro.
Intervista di Cladio Dionesalvi all'ex leader di Potere operaio. «Fare della presenza casuale all'incontro di Coalizione sociale la prova della dipendenza di Landini dai sovversivi, svela un’idea cospirativa di politica. Renzi più che l’amato La Pira, ricorda Fanfani».
Il manifesto, 10 luglio 2015
Franco Piperno, docente di Fisica ed ex leader di Potere Operaio, non ha ancora mandato giù la polemica scatenatasi a causa della sua presenza al primo incontro della Coalizione sociale, tenutosi a Roma pochi giorni fa.
Professore Piperno, è bastato che lei ed Oreste Scalzone foste presenti ad un’assemblea convocata da Maurizio Landini, e subito si è scatenata la caccia agli eretici. Come quando la espulsero dal Pci per le sue posizioni critiche sull’Urss…
Conosco bene la sala convegni in cui si è svolta l’assemblea. È la stessa che ci ospitava tanti anni fa. Era stata la sala della Federazione Comunista romana. All’epoca, ancora il PCI ci guardava con simpatia. Da allora in quella sezione è passato Veltroni, questo giovane finto-comunista a suo dire, quindi quel luogo porta abbastanza iella. Ecco perché ero in dubbio se andare o no all’iniziativa di Landini. Mi ci sono trovato quasi per caso: avevo un appuntamento con i compagni di ESC, una delle organizzazioni che hanno aderito all’iniziativa. Ci saremmo potuti incontrare al bar all’angolo e non sarebbe successo niente. Questo la dice lunga su come Renzi e il Pd vedano fantasmi ovunque. Farne una prova cruciale della dipendenza di Landini dai sovversivi, rivela un’idea cospirativa della politica. In fondo Renzi, essendo fiorentino, è un cospiratore nato.
A differenza di tanti personaggi più o meno presentabili iscritti al Pd, essendo della generazione degli anni settanta, tra esilio e carcere, lei un conto lo ha pagato…
Non vorrei accentuare le mie tentazioni vittimistiche, ma senza alcuna prova sono stato oggetto di accuse cosmiche che andavano dal tentativo di distruggere l’ordine mondiale a 23 omicidi, 40 rapine. Alla fine sono stato condannato solo per costituzione di un’associazione sovversiva che era Potere Operaio. Devo ringraziare Paesi come la Francia e il Canada che avevano un fondamento di diritto più sicuro di quello che viene a noi da Beccaria a Berlinguer. Fu un problema di un’intera generazione. Basti pensare che son finite in galera 20mila persone. Di carcere vero e proprio io ho fatto poco più di un anno. Ci sono compagni che per gli stessi reati ne hanno scontato nove. La legislazione speciale è dovuta agli uomini di Stato come Massimo D’Alema che si vantano d’aver sconfitto il terrorismo, ma non si assumono la responsabilità storica di aver avuto in Italia una generazione che ha preso le armi.
Quando il sindaco di Cosenza, Giacomo Mancini, la nominò assessore ai Vigili urbani, Toni Negri affettuosamente commentò: finalmente Piperno a capo di una “banda armata”… legale! Ma Renzi sa che per fare l’assessore lei ha ottenuto una riabilitazione dai tribunali italiani?
Non credo che si ponga il problema. Io non sono stato mai condannato per fatti di sangue. Ho sempre riconosciuto di aver militato in Potere Operaio e lo farei ancora. Per me la sovversione è un diritto. Naturalmente ha un costo. La legge italiana, che è quella fascista del codice Rocco, prevede la galera per i militanti di un’associazione sovversiva, al di là dei reati effettivamente commessi”.
Renzi usa lo spauracchio degli anni settanta per indebolire Landini come Salvini cavalca la xenofobia per indebolire Renzi. Ma perché il premier teme tanto Landini?
Renzi è un sorta di moderato di destra. Più che simile a La Pira, come lui si vanta d’essere, io lo assocerei a Fanfani, anch’egli a suo tempo legato a La Pira, però con un fare decisionista simile proprio a quello di Renzi. Gli riconosco una forte energia. Penso invece al viso di Fassino che sollecita un gesto scaramantico. Renzi concepisce tutto però come un attività del leader. Il partito serve solo a raccogliere voti. Questo accanimento del premier contro Landini e contro chiunque emerga in una prospettiva diversa dalla sua, è dovuto al carattere personale della politica che lui interpreta, cioè il rapporto del leader col popolo dei teleutenti”.
Punti di forza della nascente coalizione?
Landini non ha commesso l’errore di convocarla nell’imminenza di una scadenza elettorale. Inoltre, dopo Trentin, lui è l’unico sindacalista che ammette gli errori del sindacato.
E se la Fiom usasse la crisi per mandare Landini alla segreteria della Cgil?
Sarebbe sempre meglio di quella che c’è ora. Ma troppo poco rispetto alla prospettiva politica generale.
Cosa pensa della battaglia per il reddito di cittadinanza?
È anacronistica, però sarebbe meglio di niente. Negli anni settanta era una campagna collegata al rifiuto del lavoro. All’epoca volevamo permettere agli operai che lavoravano troppo, di avere il tempo per dedicarsi alle lotte. Avveniva molto prima che Grillo si convertisse alla politica. L’economia italiana tirava. Adesso il lavoro non c’è, quindi il reddito di cittadinanza viene a configurarsi come un sostegno al consumo.
Un esempio?
Mediapart. Ciò che è realmente accaduto Durante la lunga trattativa fra la Grecia e Bruxelles. Ha ragione Tsipras, e tutti quelli che hanno votato per lui in Grecia e in Europa e quanti altri condividono il suo europeismo. Questa Europa è tutta da rifare. La Repubblica, 9 luglio 2015
Qualche giorno prima del referendum un importanti funzionario del governo greco ha ricevuto alcuni giornalisti francesi, tra i quali Christian Salmon di Mediapart, per raccontare loro quello che era successo negli ultimi mesi di trattative fra il governo di Syriza e Bruxelles: le discussioni con le istituzioni europee, la situazione catastrofica della Grecia, le strategie di soffocamento messe in atto dall'Eurogruppo e l'asfissia finanziaria che ha distrutto l'economia greca. Quello che segue è un estratto del racconto che il funzionario, che ha chiesto di rimanere anonimo, ha fatto ai giornalisti.
Un filo nero lega tra loro molti eventi di queste settimane. E costituito dal tentativo di sostituire l'autoritarismo alla democrazia, gli interessi delle multinazionali ai diritti delle persone . Eccone un esempio al Parlamento europeo. il manifesto, 9 luglio 2015
L’ordine del giorno della sessione di ieri mattina del Parlamento europeo prevedeva il dibattito sulla situazione in Grecia, alla presenza di Juncker e Tsipras e la votazione sul Ttip, il trattato di commercio tra Ue-Usa. Vero oggetto della discussione in entrambi i casi, filo rosso tra due questioni fondamentali per il presente e il futuro dell’Ue, la democrazia in Europa. Da un lato, un primo ministro che ha convocato un referendum anche perché potesse esercitarsi pienamente la sovranità popolare, e che in aula afferma con forza che «o l’Europa è democratica o non è »; dall’altro la risoluzione su un trattato, il cui mandato negoziale è rimasto a lungo segreto, e la cui applicazione svuoterebbe ulteriormente la democrazia rappresentativa attraverso meccanismi come il consiglio di cooperazione regolatoria e l’istituzione di tribunali arbitrali per dirimere le controversie tra Stati e multinazionali.
Le parole di Tsipras — accolto dagli abbracci dei deputati del gruppo Gue-Ngl, di cui fa parte anche Syriza — risuonano di quello stesso orgoglio, di quella dignità che ha portato il popolo greco a dire ’oxi’ (“no”) al ricatto di Fmi e Brussels group: «La mia patria è stata trasformata in laboratorio delle politiche di austerità, ma quelle ricette hanno fallito». Tsipras rivendica che un governo democraticamente eletto debba poter scegliere se reperire risorse tagliando le pensioni o tassando i ricchi. E, dopo aver evocato la necessità di una conferenza europea sul debito in polemica con il capogruppo Ppe Weber, Tsipras chiude citando l’Antigone di Sofocle, il «diritto umano» che prevale sulla legge degli uomini, il diritto del popolo greco alla sua dignità che prevale su ogni memorandum. A spazzare via le menzogne di chi rappresentava il referendum come scelta tra euro e dracma, o la vittoria del no come grexit, le parole del partigiano Glezos: «Non solo non lasceremo l’Europa. Non vi lasceremo l’Europa», rivolto ai paladini dell’austerità.
A presiedere un dibattito accesissimo Martin Schulz, quello che faceva campagna per il sì nonostante il suo ruolo di Presidente. Lo stesso che nella scorsa plenaria ha cancellato voto e dibattito sul Ttip perché non vi era accordo nella grande coalizione. Ecco, oggi è stato ancora più lampante come chi ha a cuore “almeno” la democrazia debba essere con Tsipras e contro Schulz.
E come nella subalternità nel dibattito sulla Grecia e nella complicità con i popolari nel voto sul Ttip i socialisti europei abbiano smarrito qualsiasi funzione storica, per usare un eufemismo. Approvato il compromesso voluto dal duo Malmstrom-Schulz sul punto più controverso (la nuova versione dell’Isds), la risoluzione approvata ignora completamente le preoccupazioni manifestate in questi mesi da attivisti e movimenti su questioni fondamentali come il principio di precauzione, la salute alimentare, la perdita di posti di lavoro.
Ieri è stata una giornata importante anche per la ridefinizione del ruolo stesso del parlamento europeo, che come Tsipras stesso ha ricordato avrebbe potuto essere coinvolto molto prima nella discussione.
Ora, se in Italia smettessimo di discutere di leader e formule, se lavorassimo a unire sostegno alla Grecia e lotta all’austerità, contrasto al Ttip e battaglie per il diritto a lavoro e salute, forse potremmo sentire e comprendere meglio l’orgoglio di Tsipras e del suo popolo, e costruire una sinistra, una alternativa al socialismo europeo e alle destre che ricordi, almeno vagamente, il Pride (in cui si univano attivisti LGB e minatori) del bel film di Matthew Warchus.
L'autrice è parlamentare europea L’Altra Europa con Tsipras
Il fatto che negli attuali negoziati tra la Grecia e gli amministratori Ue si arrivi sempre a un passo da un accordo senza raggiungerlo è in sè profondamente sintomatico, poiché in realtà non si tratta di vere e proprie questioni finanziarie — a questo livello, la differenza è minima. La Ue di solito accusa i greci di esprimersi solo in termini generali, facendo promesse vaghe senza entrare nello specifico, mentre la Grecia accusa la Ue di voler controllare anche i minimi dettagli e di imporre al nuovo governo greco condizioni più dure rispetto al passato. Ma dietro queste recriminazioni aleggia un altro conflitto, più profondo. Tsipras ha dichiarato recentemente che se avesse avuto occasione di andare a cena da solo con Angela Merkel avrebbero trovato una soluzione in due ore. La sua tesi è che lui e la Merkel, due politici, avrebbero affrontato il dissidio come contrasto politico, a differenza degli amministratori tecnocrati, come il capo dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem. Se c’è un cattivo per eccellenza in tutta questa storia è Dijsselbloem: «Se pongo le questioni sul piano ideologico non risolvo nulla» è il suo motto.
Questo ci porta al nodo della questione: Tsipras si esprime come se i problemi fossero parte di un processo politico aperto, in cui si devono prendere decisioni in fin dei conti “ideologiche” (basate su preferenze normative) mentre i tecnocrati della Ue si esprimono come se tutto si riducesse a specifici regolamenti e nel momento in cui i greci rifiutano questo approccio e sollevano questioni più prettamente politiche, li si accusa di mentire, di evitare soluzioni concrete e così via. Non c’è dubbio che la verità qui sta dalla parte greca: rifiutare il “piano ideologico” come fa Dijsselbloem equivale alla più pura ideologia, significa spacciare per regolamenti elaborati da esperti decisioni che sono in realtà fondate su scelte politico-ideologiche.
La lotta in atto è la lotta per la Leitkultur economica e politica in Europa. Le potenze della Ue appoggiano lo status quo tecnocratico che da decenni mantiene l’Europa in uno stato d’inerzia. Nel suo Notes Towards a Definition of Culture (Note sulla definizione di cultura) il grande conservatore T.S.Eliot osserva che in alcuni momenti l’unica possibile scelta è tra l’eresia e il non credere, per tener viva una religione bisogna cioè creare nel suo corpo principale una frattura settaria. È questa la nostra posizione oggi riguardo all’Europa: solo una nuova “eresia” (rappresentata in questo momento da Syriza) può salvare quello che vale la pena di salvare dei valori europei: la democrazia, la fiducia nelle persone, la solidarietà egualitaria… L’Europa che vincerà se Syriza verrà messa fuori gioco sarà un’”Europa dai valori asiatici” (che ovviamente nulla ha a che fare con l’Asia, ma molto con la tendenza netta e attuale del capitalismo contemporaneo a sospendere la democrazia).
Non è solo che il destino della Grecia è in mano all’Europa. Noi dell’Europa occidentale amiamo guardare alla Grecia da osservatori distaccati, che seguono con compassione e simpatia il dramma della nazione impoverita. Questa posizione di comodo poggia su una pericolosa illusione — ciò che accade in Grecia in questi ultimi giorni ci riguarda tutti, è in gioco il futuro dell’Europa.
Il problema è che la politica dei tecnocrati si basa su una finzione, quella di estendere i termini di restituzione del debito dando a intendere che verrà ripagato in toto. Perché ci si ostina in questa finzione? Non è che renda l’estensione del debito più accettabile agli elettori tedeschi; e non è neppure che la cancellazione del debito greco possa innescare pretese analoghe da parte di Portogallo, Irlanda, Spagna… È che ai vertici in realtà non si vuole che il debito venga del tutto ripagato. I finanziatori accusano i paesi indebitati di non mostrare sufficiente senso di colpa, li accusano di sentirsi innocenti. Le loro pressioni corrispondono perfettamente a quello che gli psicoanalisti definiscono come"super io": il paradosso del "super io" sta nel fatto che, Freud ci insegna, più obbediamo alle sue richieste più ci sentiamo in colpa. Immaginate un perfido insegnante che assegna ai suoi alunni compiti impossibili e ghigna con sadismo vedendoli in ansia e in preda al panico. Il vero obiettivo di prestare denaro ai debitori non è ottenere il rimborso del debito lucrando, ma perpetuare il debito a tempo indefinito, tenendo il debitore in perenne dipendenza e subordinazione… questo per la maggior parte dei debitori, perché ne esistono varie tipologie. Non solo la Grecia, ma anche gli Usa non saranno in grado neppure in teoria di ripagare il loro debito, come ormai è di pubblico dominio. Esistono quindi debitori (le grandi banche) in grado di ricattare i creditori perché non possono permettersi di farle fallire, debitori che possono controllare le condizioni di pagamento del loro debito (il governo Usa) e, infine, debitori che possono essere maltrattati e umiliati (Grecia).
I finanziatori fondamentalmente accusano il governo Syriza di non mostrare sufficiente senso di colpa, lo accusano di sentirsi innocente. È questo che disturba l’establishment Ue: il governo Syriza riconosce il debito, ma senza colpa. Si sbarazza della pressione del "super io".
Ma ripetere all’infinito che la politica di Syriza rientra nei modesti confini della vecchia buona socialdemocrazia per convincere gli eurocrati che non è pericolosa e spingerli a concedere gli aiuti, in qualche misura non riesce nell’intento.
Syriza è in realtà pericolosa, pone effettivamente una minaccia all’attuale orientamento della Ue — il capitalismo globale odierno non può permettersi un ritorno al vecchio stato sociale. Quindi c’è dell’ipocrisia nelle rassicurazioni circa la sobrietà delle istanze di Syriza: in realtà il suo obiettivo è impossibile da realizzarsi entro le coordinate del sistema globale esistente. Servirà una seria scelta strategica: e se fosse giunto il momento di gettare la maschera della sobrietà e di chiedere invece apertamente il cambiamento ben più radicale necessario per ottenere un progresso, seppur modesto? Forse il referendum sarà il primo passo in questa direzione.
Traduzione di Emilia Benghi
Centrodestra e centrodestrasinistra uniti nella lotta per il prepotere delle multinazionale e contro i diritti degli abitanti del pianeta Gli emendamenti della società civile sono stati sacrificati sull’altare della "grosse koalition"
Il manifesto, 9 luglio 2015
L’Europarlamento ha approvato le regole per il Ttip con 436 sì (Ppe, S&D, Alde), 241 no (Gue, Verdi, destre) e 34 astenuti. In pratica sono state approvati le «raccomandazioni» che includono un sistema alternativo alle controverse corti arbitrali private per le dispute investitori-stati (il cosiddetto Isds).
Le regole in Europa — a quanto pare — valgono per il debito greco, ma per la maggioranza del Parlamento europeo, come da paradigma orwellianio, valgono meno. Soprattutto se alla mattina le tribune dell’emiciclo a Strasburgo hanno traboccato come mai in almeno vent’anni per Alexis Tsipras e al pomeriggio si deve votare la Risoluzione con cui il Parlamento europeo esprime la sua valutazione sul Trattato transatlantico di liberalizzazione di scambi e investimenti tra Usa e Ue.
Valgono meno perché se una buona parte delle commissioni parlamentari ha espresso preoccupazioni per come la Commissione europea sta conducendo il negoziato — con scarsa trasparenza e considerando servizi, agricoltura e regole come merce di scambio per l’accesso al mercato finanziario, energetico e degli appalti Usa — fuori dal Parlamento gli hanno fatto eco oltre 2 milioni di cittadini che hanno firmato una petizione che chiede lo Stop alle trattative. E ciò fa problema alla cabina di regia dell’istituzione Ue.
Il convitato di pietra si chiama «franco tiratore»: da ormai da mesi le email, i profili Facebook e Twitter degli europarlamentari vengono inondati da migliaia di messaggi di cittadini che gli chiedono di trattare con cura la fragile democrazia europea e di dar voce, nella risoluzione sul Ttip, alle preoccupazioni diffuse sul contenuto di un trattato che mira a costruire un mercato comune transatlantico che, valendo il 42% del Pil globale, aspira a fare legge per il resto del pianeta. Per questo, con una forzatura procedurale inedita, il presidente dell’Europarlamento il socialdemocratico Martin Schulz fa saltare l’emendamento 40 al testo, che avrebbe permesso di far esprimere l’aula sull’arbitrato internazionale per proteggere gli investitori dalle decisioni degli Stati, il famigerato Isds, su cui proprio il gruppo socialdemocratico si era spaccato.
Lo fa esercitando le prerogative del presidente su un argomento controverso e lo fa una seconda volta, scegliendo di porre in votazione un emendamento di compromesso, elaborato dal suo stesso gruppo, in cui l’Isds si salva nella sostanza ma non viene più chiamato tale, e anzi si prefigura l’introduzione di una «super corte» di giustizia imprecisata nel medio periodo, che è una toppa quasi più brutta del buco alla giustizia ordinaria creato con l’Isds.
Saltano, così, uno dopoTutti gli emendamenti della società civile vengono sacrificati all’altare della «grosse koalition» popolare — socialdemocratica che mai come oggi teme l’Europa infiammata dal rialzo d’orgoglio greco. l’altro gli oltre cento emendamenti presentati in meno di due ore, soprattutto quelli di buon senso sostenuti dalle campagne Stop Ttip.
Salta l’emendamento sulla Human Rights Clause, che avrebbe anteposto la tutela vincolante dei diritti umani rispetto alle dinamiche di mercato. Resta un capitolo sullo sviluppo sostenibile solamente consultivo senza nessuno strumento impositivo. Viene bocciata la lista positiva per i servizi pubblici, che avrebbe permesso di scrivere nero su bianco i servizi che si vogliono mettere sul mercato, salvaguardando quelli non elencati. Viene bocciata la possibilità di inserire il riferimento a settori sensibili da escludere dal negoziato, come dovrebbe avvenire per alcune produzioni agricole, fortemente a rischio di estinzione.
La Commissaria al Commercio Cecilia Malmstrom, furbescamente, ringrazia via Twitter il Parlamento per il sostegno ricevuto, ma sottolinea anche che l’Isds è morto, cui contrappone la sua proposta, quella che, per dirla con la campagna «Stop Ttip» europea, mette il rossetto al maiale pretendendo che diventi qualcos’altro. Ma i conti non tornano per la coalizione di maggioranza, che tanto grossa non è più. 241 sono stati i voti contrari alla Risoluzione, molti di più di quelli algebrici tra maggioranza e opposizione. Si attende la lista del voto palese per capire chi c’è stato e chi no a far finta, per l’ennesima volta, di voler la democrazia impedendone l’esercizio.
E se l’Isds s’ha da cambiare, come ammette anche la Commissaria, vanno riaperti anche gli accordi commerciali con Canada e Singapore, che contengono l’Isds ed espongono già a rischio di cause i nostri governi. Da lunedì 13 Usa e Ue si rivedranno a Bruxelles per un nuovo ciclo di negoziati transatlantici, e ritroveranno ad accoglierli le stesse proteste e gli stessi dubbi di ieri. Il Parlamento ha perso l’occasione di farsene interprete, di diventare parte del cambiamento e non del problema democratico europeo che verrà affrontato dalla grande mobilitazione Stop Ttip di ottobre, che sembra necessaria oggi ancor più di ieri.
L'autrice è portavoce della Campagna stop TTIP Italia