Il manifesto, 4 settembre 2016
A quel che si legge, D’Alema proporrebbe: a) la ridefinizione del rapporto di fiducia al governo in modo che intercorra con la sola camera dei deputati, il superamento quindi del bicameralismo perfetto; b) la riduzione del numero dei membri del parlamento a 400 per la camera e a 200 per il senato, (in totale, trenta in meno del numero attuale dei soli deputati) per contenere l’estensione del ceto parlamentare alle funzioni da svolgere a seguito del riparto delle competenze con l’Ue; c) la soppressione del Cnel e delle province, d) le modifiche al Titolo V segnalate dalla decennale giurisprudenza della corte costituzionale.
Il tutto si tradurrebbe in emendamenti a 5 o 6 soli articoli della Costituzione, come notava, giovedì scorso, su questo giornale, Massimo Villone. Li chiamo “emendamenti” a ragion veduta.
Come tali dovrebbero essere e dimostrare di essere, non solo pertinenti formalmente, ma logicamente coerenti al testo della Costituzione e al suo spirito.
I meriti della proposta vanno sottolineati. Non soltanto e non tanto perché dimostrano l’infondatezza della accusa al “no” di cieco conservatorismo delle … virgole della Costituzione. Ma perché, di fatto e con rilevanza politica assai notevole, trasforma il “no” in un “sì” a una diversa modifica della Costituzione che accoglierebbe le proposte revisioniste oneste rendendole di costituzionalità indubitabile.
La proposta inoltre, offre ai sostenitori del “si” al governo e/o in parlamento, una chance che sarebbe grave rifiutare. Quella di dimostrare, accogliendola, che i loro intenti non sono affatto quelli temuti e da noi motivati e denunziati e che perciò essi sono disposti a raggiungerli anche in modi diversi dai contenuti della Renzi-Boschi che allarmano così tanto vasti settori dell’opinione pubblica. Modi che già hanno il favore delle minoranze parlamentari e che, con quello del Pd, in ambedue i rami del parlamento, costruirebbero un consenso adeguato per una revisione costituzionale degna di questo nome. Rifiutare tale proposta dimostrerebbe tutta la perversità del disegno istituzionale renziano.
Ci si deve però chiedere come e in che senso la proposta D’Alema (da spersonalizzare chiamandola, ad esempio, «dei cinque emendamenti alla Costituzione») possa essere accettata. È difficile immaginarlo ma ci si può provare. Sapendo che il suo presupposto è la vittoria del “no” ed è indefettibile. A tale presupposto dovrebbe corrispondere se non un sì, qualcosa che, senza somigliargli troppo, non gli si opponga. Lo si può ipotizzare come giudizio positivo sulle singole parti della proposta, su ciascuno degli emendamenti alla Costituzione. Sarebbe quindi auspicabile, e non solo da questo punto di vista, la presentazione alla camera e al senato di un progetto di legge costituzionale con tale contenuto.
La proposta intanto ha sortito un successo importante e immediato. Renzi ha riconosciuto che «se vince il “no” non casca il mondo».
Non si deve escludere perciò un ulteriore ripensamento di Renzi. A fronte dell’eccesso dei toni che ha lamentato riconoscendo la sua parte di responsabilità, potrebbe decidere, in nome dell’unità politica della Nazione sulla Legge fondamentale della Repubblica, di uscire dalla mischia, elevandosi al di sopra di essa quale presidente del consiglio e lasciare al corpo elettorale la più ampia e serena autonomia decisionale su tutte e due le alternative in campo. Quella della legge costituzionale sottoposta al referendum respingendola e quella che potrebbe ottenere un più ampio consenso. Di fronte a tale sua decisione non potremmo che riconoscerli il più alto senso di responsabilità istituzionale.
Il manifesto, 30 dicembre 2015
«Il populismo è una spiegazione troppo semplice. I partiti tradizionali non riescono più da tempo a leggere la società. Non è populismo, è crisi della rappresentanza». L’intervista con Stefano Rodotà comincia dal giudizio sui risultati elettorali in Francia e Spagna. «In entrambi i casi il bipolarismo va in crisi. Ma in Francia il fenomeno assume tinte regressive. Lì il Front National coltivava da tempo il disegno di sostituirsi ai due grandi partiti in crisi, ed è stato facilitato dalla rincorsa a destra di Sarkozy e Hollande, che hanno finito per legittimare Le Pen. In Spagna Podemos ha interpretato un movimento reale, quello degli Indignados, e ha predisposto uno strumento di tipo partitico per raccogliere il fenomeno. Il risultato pare essere un’uscita in avanti dal bipolarismo».
Renzi benedice la nuova legge elettorale italiana e sostiene che da noi non potrà succedere.
Non coglie il senso di quello che sta succedendo e con la sua risposta non fa che aumentare la distanza tra il partito e la società. Sostanzialmente dice: «A me della rappresentanza non importa nulla, a me interessa la stabilità». Ma con un governo che rappresenta appena un terzo degli elettori ci sono enormi problemi di legittimazione, di coesione sociale e al limite anche di tenuta democratica.
In Spagna e Francia si è votato con sistemi elettorali non proporzionali. Di più, lo «spagnolo» è stato a lungo un modello per i tifosi del maggioritario spinto. I risultati dimostrano però che l’ingegneria elettorale da sola non basta a salvare il bipolarismo. Può fallire anche l’Italicum?
L’ingegneria elettorale è un modo per sfuggire alle questioni importanti. In questi anni non solo è stato invocato il modello spagnolo, ma anche quello neozelandese e quello israeliano. Sembrava di stare al supermarket delle leggi elettorali. Tutto andava bene per mortificare la rappresentanza, sulla base dell’idea che ciò che sfugge agli schemi è populismo. Invece è una legittima richiesta dei cittadini di partecipare ed essere rappresentati. Il nuovo sistema italiano, l’abbiamo spiegato tante volte, presenta il rischio di distorsioni spaventose. Può aprire la strada a soluzioni pericolose, ma anche ad alternative interessanti. Penso per esempio alla stagione referendaria che abbiamo davanti: dal referendum costituzionale, a quelli possibili su Jobs act, scuola e Italicum.
Il primo referendum, quello sulle trivellazioni, il governo ha deciso di evitarlo. Renzi è meno tranquillo di quanto dice?
È possibile, del resto le previsioni sul referendum costituzionale sono difficili, ancora non sappiamo esattamente come si schiereranno le forze politiche. Di certo la partita non è chiusa. E vorrei ricordare che nel 1974 una situazione elettorale che sembrava chiusa fu sbloccata proprio da un referendum, quello sul divorzio. I cittadini furono messi in condizione di votare senza vincoli di appartenenza politica e l’anno dopo si produsse il grande risultato alle amministrative del partito comunista.
In questo caso il presidente del Consiglio sta politicizzando al massimo il referendum, anzi lo sta personalizzando: sarà un voto su di lui ancora più che sul governo.
Il fatto che abbia deciso di giocarsi tutto sul referendum costituzionale apre una serie di problemi, il primo è la questione dell’informazione. C’è già un forte allineamento di giornali e tv con il governo, la riforma della Rai non potrà che peggiorare le cose. Renzi ha già impropriamente politicizzato tutto il percorso della riforma, il dibattito parlamentare è stato gestito in modo autoritario. In teoria quando si scrivono le regole del gioco il cittadini dovrebbero poter votare slegati da considerazioni sul governo, in pratica non sarà così. Il gioco è chiaro: se dovesse andargli male, Renzi punterà alle elezioni anticipate con un messaggio del tipo: o partito democratico o morte, o me o i populisti.
La strategia è evidentemente questa. Il ballottaggio serve a chiedere una scelta tra il Pd e Grillo, al limite Salvini. E se fosse un calcolo sbagliato? L’Italia non è la Francia, «spirito Repubblicano» da far scattare ne abbiamo poco.
Può essere un calcolo sbagliato. l’Italia non è la Francia per almeno due ragioni. Il Movimento 5 Stelle non fa paura come il neofascismo del Front National. E la mossa dei candidati socialisti in favore di quelli di Sarkozy è stata seguita perché lì la dialettica politica restava aperta. Da noi al contrario si rischierebbe l’investitura solitaria, rinunciare significherebbe consegnarsi pienamente a Renzi. L’appello al voto utile non credo funzionerà anche perché l’Italia non solo non è la Francia, ma non è più neanche l’Italia di qualche anno fa. Renzi non può chiedere il voto a chi quotidianamente delegittima, negando il diritto di cittadinanza alle posizioni critiche. Infatti si comincia a sentire che il vero voto utile, quello che può servire a mantenere aperta la situazione italiana, può essere quello al Movimento 5 Stelle. Sono ragionamenti non assenti dall’attuale dibattito a sinistra, mi pare un fatto notevole.
Sulle riforme costituzionali la sinistra spagnola va all’attacco, Podemos ha cinque proposte puntuali. Perché in Italia siamo costretti a sperare che non cambi nulla?
Proposte ne abbiamo fatte per uscire dal bicameralismo in maniera avanzata, per favorire la rappresentanza e la partecipazione, non escludendo la stabilità. Sono state scartate, nemmeno discusse. Alcuni di noi avevano denunciato il rischio autoritario della riforma costituzionale, siamo stati criticati, poi abbiamo cominciato a leggere di rischi plebiscitari, «democratura» e via dicendo. Troppo tardi, ormai lo stile di governo di Renzi è già un’anticipazione di quello che sarà il sistema con le nuove regole costituzionali e la nuova legge elettorale. Il parlamento è già stato messo da parte, addomesticato o ignorato, com’è accaduto sul Jobs act per le proposte della commissione della camera sul controllo a distanza dei lavoratori. Lo stesso sta avvenendo sulle intercettazioni.
Dobbiamo considerare un’anticipazione anche il modo in cui è stata gestita l’elezione dei giudici costituzionali?
È stata data un’immagine della Consulta come luogo ormai investito dalla lottizzazione, cosa che ha sempre detto Berlusconi. Un altro posto dove viene rappresentata la politica partitica, più che un’istituzione di garanzia. Lo considero un lascito grave della vicenda. La Corte dovrà prendere decisioni fondamentali, mi auguro che le persone che sono state scelte si liberino di quest’ombra, hanno le qualità per farlo.
L’altra istituzione di garanzia che finisce nell’ombra di fronte a questo stile di governo è il presidente della Repubblica.
Sulle banche il presidente Mattarella ha giocato un ruolo attivo. Le sue mosse possono essere considerate irrituali, ma di fronte al rischio per la tenuta del sistema bancario e per il rapporto tra cittadini e istituzioni ha fatto bene a intervenire. Stiamo scivolando verso una democrazia scarnificata, rinunciamo pezzo a pezzo agli elementi sostanziali — la rappresentatività, i diritti sociali e individuali — in cambio del mantenimento di quelli formali — il voto, la produzione legislativa. La situazione è grave ma le conclusioni un po’ affrettate per il momento me le risparmierei. Se questo orientamento proseguirà non credo che il presidente della Repubblica distoglierà il suo sguardo.
Il manifesto, 30 dicembre 2015
Quando gli fa comodo Renzi è pronto a giocare la carta del vittimismo. Ma è una coperta troppo corta. Sia perché fin dal suo sorgere la renzeconomics si è dimostrata una semplice articolazione delle politiche europee; sia perché l’attuale performance del nostro paese è nettamente inferiore a quella media dell’Eurozona; soprattutto perché l’irresponsabilità di fronte alla gravità della situazione è totale. Tecnicamente la recessione finisce nel primo semestre del 2015, tuttavia la vantata ripresa è non solo lenta, ma inadeguata a colmare l’abisso che abbiamo alle spalle. Alla fine del 2014 gli investimenti erano del 35% più bassi che nel 2007. Altro che sviluppo italiano. Nel solo periodo 2012-2014 il Pil si è ridotto del 5%, più o meno come nel lontano 1929!
Certo, la crisi italiana viene da più lontano. Tra il 1995 e il 2007 la nostra crescita media annua è stata del 1,6% contro il 2,4 della media dell’Eurozona. Nello stesso periodo abbiamo accumulato uno svantaggio di 19,3 punti di Pil rispetto a quest’ultima. Anche quando l’occupazione è cresciuta è avvenuto in misura inferiore che negli altri paesi europei. E i salari? Tra il 1990 e il 2014 il salario medio di un dipendente privato italiano ha perso tre punti percentuali al netto dell’inflazione, mentre nella media dell’Eurozona è cresciuto del 15%. Proprio quest’ultimo dato spiega la bassissima crescita di produttività italiana messa al confronto con quella nella Ue. Infatti sono gli aumenti salariali che trascinano in alto la produttività e non il contrario, come invece si vorrebbe condizionando gli aumenti dei primi all’innalzamento della seconda. Solo la frusta salariale – ce lo ricordano i più attenti economisti - spinge anche il più pigro imprenditore all’innovazione, fattore decisivo per lo sviluppo della produttività di sistema.
Renzi sembra non avere alcuna consapevolezza di tutto ciò. Anzi spara cifre, come l’aumento di 300mila posti di lavoro, a seguito del Job Act, peraltro nello stesso giorno in cui l’organo della Confindustria ne stima 200mila. In ogni caso nella attuale lunga crisi abbiamo perso un milione di posti di lavoro. Se guardiamo al tasso di occupazione dovremmo crearne almeno 7 milioni per metterci al passo. In realtà da quando è stata introdotta la decontribuzione, cioè dal 1° gennaio i posti di lavoro, secondo Il Sole24Ore, sono cresciuti di 185mila unità fino al settembre 2015. Se si confronta il periodo analogo del 2014, in assenza degli attuali incentivi, risultano solo 26mila posti in più, pagati a carissimo prezzo.
L’Istat ci dice che le assunzioni a termine hanno avuto una impennata proprio dopo l’entrata in vigore del cosiddetto contratto a tutele crescenti del Job Act, raggiungendo il loro massimo storico nel terzo trimestre del 2015: 2 milioni e 560mila. Benché sia stato cancellato l’articolo 18 i padroni non si fidano. A fronte delle incertezze della crisi economica, preferiscono il classico contratto a termine. Tanto più che grazie al precedente decreto del ministro Poletti possono stipularlo del tutto arbitrariamente, senza alcuna motivazione o causale. Si ripete in sostanza quando già avvenne con la cosiddetta legge Biagi. Tra tutte le nuove forme di contratto precario previste – più di 40 - la preferita restava sempre quella del semplice contratto a termine. D’altro canto la fidelizzazione del dipendente non è necessaria quando la produttività è bassa, la qualità del lavoro scarsa, i settori in cui si assume sono quelli meno innovativi. E viceversa.
Questo dovrebbe suggerire a chi, dopo le recenti decisioni del direttivo Cgil e la prevista consultazione dei lavoratori, dovrà formulare i quesiti per un referendum abrogativo in materia di lavoro, di non dimenticare il decreto Poletti. Non avrebbe senso ed efficacia cancellare le norme più odiose del Job Act e lasciare in piedi un contratto a termine a totale discrezionalità padronale.
La colpa non è di una natura estranea e sconosciuta. Non si tratta neppure di una "emergenza". Fanno ridere i "piani del governo" proclamati dal ministro Delrio (che pure è stato sindaco e quindi qualcosa più degli altri dovrebbe saperla), così come le misure annunciate dal ministro Galletti, preposto all'ambiente. Anzi, fanno piangere perché ci convincono una volta di più che la nostra salute, il benessere nostro e dei nostri posteri è in mano a una masnada di imbecilli incapaci di comprendere di che cosa si tratta, e perciò di agire di conseguenza.
Abbiamo usato una parola tenue per definire la ir-responsabilità di chi ci governa. Qui non c'entra "la politica", non parliamo di Renzi e dei renzichenecchi, ma di un plotone molto più ampio e variegato. Parliamo degli uomini che ci hanno governato in questo secolo, e forse anche un po' prima.
Parliamo dei potenti (nella politica, nella finanza, nei massmedia) che non hanno compreso quelle poche cose elementari che i gufi da decenni ripetono: che incentivare la motorizzazione individuale è un errore madornale, che la rotaia (dotata di vettori confortevoli, frequenti e a basso prezzo) deve sostituire la gomma soprattutto nelle aree densamente popolate, dove dominano gli spostamenti pendolari; e soprattutto che il modo in cui gli oggetti (le residenze, i servizi, i supermercati, gli stadi, le fabbriche) si collocano sul territorio non può essere lasciata al caso - e che quindi il “fai da te” nel governo del territorio equivale a spararsi sui testicoli, e che la pianificazione del territorio e delle città è uno strumento essenziale perché gli abitanti di una terra densamente abitata possano sopravvivere.
Il fatto è che di buonsenso ce n’è sempre meno. Questo è il vero problema: anzi, la vera perdurante emergenza. Il buon senso (la capacità di riconoscere, intuitivamente, i fondamentali principi del conoscere, e dell'agire) è stato sostituito dal senso comune, quello foggiato dall’ideologia dominante, propagandato con perversa efficacia dai media e dalla propaganda commerciale: quei “persuasori occulti” (vedi Vance Packard, 1957) che hanno trasformato i cittadini in “uomini eterodiretti” (vedi Gramsci, 1929-1935). Ecco perché tanti credono nelle bubbole dei ministri e dei loro corifei, senza accorgersi di essere diventati parte di quel popolo delle teste impagliate di cui ha scrittoThomas Stearns Eliot, nelle sua preveggente poesia che trovate anche qui, su eddyburg.
Il manifesro, 22 dicembre 2015
Nelle ore in cui Podemos lancia la sua sfida per l’alternativa, un gruppo di persone appartenenti a realtà politiche e sociali, ha scritto questo testo e lo mette a disposizione di chiunque ci si riconosca. Usiamolo liberamente, copiamolo, condividiamolo, diffondiamolo, è un testo proprietà di nessuno per una sinistra di tutte e tutti.
Incontriamoci il 19, 20 e 21 febbraio a Roma per ridare senso alla parola “politica” come strumento utile a cambiare concretamente le nostre vite. Incontriamoci per organizzarci e costruire un nuovo soggetto politico, uno spazio aperto, democratico, autonomo. Non è un annuncio. È una proposta. Non sarà un evento cui assistere da spettatori. Non ti chiediamo di venire a riempire la sala, battere le mani e chiacchierare in un corridoio come accade di solito in queste assemblee.
Mettiamoci in cammino per condividere un processo e costruire insieme un nuovo progetto politico innovativo e all’altezza della sfida. Un progetto alternativo alla politica d’oggi, svuotata e autoreferenziale, che ritrovi tanto il legame con la propria storia, quanto la capacità di scrivere il futuro.
L’obiettivo
Bisognerà cambiare molto: redistribuire le ricchezze e abbattere le diseguaglianze sociali e di genere, costruire un nuovo welfare e eliminare la precarietà, restituendo dignità al mondo del lavoro. È ora di cambiare il modo in cui si produce e quello in cui si consuma, il modo in cui si fa scuola e formazione, le politiche per accogliere. Intendiamo difendere la Costituzione e i suoi valori, per difendere la democrazia.
Il governo Renzi e il Pd vanno in una direzione diametralmente opposta e ci raccontano che non c’è un’alternativa. Per noi invece non solo un’alternativa è possibile ma è necessaria ed è basata sui diritti, sull’uguaglianza, sui beni comuni.
Dobbiamo organizzarci. Organizzare innanzitutto la parte che più ha subito gli effetti della crisi, chi ha voglia e bisogno di riscatto, di cambiamento, chi non crede più alla politica; lottando tanto nelle istituzioni quanto nella società. Una forza politica, non un cartello elettorale, che si candidi a governare il paese per cambiarlo e che lo faccia con un profilo credibile, in competizione con tutti gli altri poli esistenti.
Partecipa
Probabilmente ti starai facendo alcune domande: «come funzionerà il nuovo soggetto?», «come si chiamerà?», «quale sarà il suo programma?», «è possibile innovare la forma partito?», «chi sarà il suo o la sua leader?», «c’è davvero bisogno di un leader? E, se sì, come verrà scelto?». A queste e tante altre domande la risposta è semplice e per questo rivoluzionaria: lo decideremo insieme.
Partecipiamo a questo percorso come persone, “una testa un voto”, riconoscendogli piena sovranità. Abbiamo bisogno di una sinistra di tutti e di tutte: non un percorso pattizio, ma una nuova forza politica che nasca dalla partecipazione diretta di migliaia di persone.
Cambiamo la politica, innoviamo le forme della democrazia, diamo la parola ai cittadini, attraverso una piattaforma digitale per il confronto, la codecisione, la cooperazione e l’azione. Ma non basta: serve restituire protagonismo alla vita dei territori attraverso una campagna di ascolto con assemblee per connettere percorsi e conflitti, scrivere collettivamente il nostro programma, la nostra idea di società, la strada per il cambiamento.
Invitiamo tutti e tutte a partecipare, a rimescolare ogni appartenenza, a mettersi a disposizione, fino allo scioglimento delle forze organizzate, sapendo che solo un cammino realmente inclusivo può essere la strada per coinvolgere i tanti che purtroppo sono scettici e disillusi. Sarà importante l’impegno dei rappresentanti istituzionali a tutti i livelli a mettersi al servizio del processo, agendo da terminale sociale. Non vogliamo raccogliere solo le istanze dei singoli, ma anche quelle di tutte le esperienze collettive, le reti sociali, le forze sindacali, l’associazionismo diffuso, i movimenti, che in questi anni hanno elaborato e realizzato proposte concrete ed efficaci.
Non siamo i proprietari di questo percorso, e questo documento non ne vuole determinare gli esiti: proponiamo un obiettivo (costruire un nuovo soggetto di alternativa), un metodo (un cammino fatto di assemblee territoriali e di una piattaforma digitale, adesione individuale, piena sovranità), una data di partenza. Da quella data in poi, sarà chi deciderà di partecipare a indicare la rotta. Cominciamo un viaggio che sappia cambiare noi stessi e il mondo che ci circonda. Mettiamoci in cammino.
La Repubblica, 21 dicembre 2015
Mi preoccupo per i musulmani minacciati di estinzione da parte di altri musulmani nella loro patria, dove in genere costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione. La mia amica Sabeen Mahmud è stata assassinata quest’anno probabilmente perché non corrispondeva al canone della buona musulmana ed è successo in Pakistan, un paese talmente musulmano che vi si può trascorrere una vita intera senza mai stringere la mano a un non musulmano.
Ma soprattutto sono in ansia per i musulmani come me, quelli chiamati a spiegare al mondo intero qual è il vero islam. A noi musulmani cosiddetti moderati viene chiesto di prendere le redini della narrazione, strappandole ai radicali — come se fossimo allievi di un master di scrittura alle prese con un saggio, invece che un miliardo e seicento milioni di persone diversissime tra loro.
Mi preoccupo per gli esperti che finiscono in tv a distanza di poche ore da un’atrocità e devono condannare, o difendere e spiegare, a nome nostro. Mi preoccupo per quella brava gente che ha il compito di ricordare al mondo che l’islam è una religione di pace.
È vero, la parola islam significa pace. Lo dice il dizionario. Ma ci vuole un bel coraggio ad agitare un dizionario davanti a chi ha perso una figlia, un figlio o il partner: “Guarda un po’ qui, vedi, c’è scritto che islam significa pace”.
Dire che l’islam è una religione di pace è come ridurre l’induismo al rispetto per le mucche e il buddismo alla posizione del Loto. L’ebraismo è fondamentalmente una disputa sulla proprietà? E i cristiani sono sempre alla ricerca dell’altra guancia?
Ogni volta che sento dire che l’islam è una religione di pace mi vien voglia di gridare “Attento, guardati alle spalle”.
È un’impresa impossibile spiegare l’islam, sia per i musulmani osservanti (niente alcol, niente bacon, niente jihad) che per i musulmani per caso (un po’ di tutto e certamente niente jihad) o per quelli che stanno in mezzo. Ma se non riusciamo a spiegare, ci dicono, almeno possiamo un tantino condannare. A quanto pare i musulmani non condannano a dovere.
Se da buon musulmano iniziassi a condannare tutte le malefatte dei musulmani non avrei più tempo da dedicare alle mie cinque preghiere giornaliere, né tanto meno a preparare i maccheroni al formaggio ai miei bambini o a portarli al parco. E diventerei un musulmano peggiore.
Continuano a ripeterci che è solo un numero esiguo di musulmani a rovinarci la reputazione. A mio avviso tra quei pochi andrebbero inclusi anche i nostri rappresentanti nei media, quelli che immaginano di poter salvare la reputazione dell’islam in tv e scrivono articoli per rassicurare il mondo sulle nostre intenzioni pacifiche.
Dicono che, sì, l’autore della strage citava il Corano, ma ne travisava il senso. Molti rilanciano la palla: e i vostri killer laici allora? Chiedono che gli assassini di massa musulmani siano trattati come gli assassini di massa non musulmani, i killer che sparano all’impazzata nei campus delle università americane o gli invasori dell’Iraq. Dovremmo ringraziarli per questo loro impegno a favore della par condicio tra assassini? Ma non si parlava di pace?
Dicono che l’islam insegna il rispetto di tutte le religioni. Riprendono in mano il Corano: vedete, c’è Gesù, è anche profeta nostro. Ma non spiegano che senso ha scegliere una religione se il suo dio e il suo profeta non sono i più grandi, i migliori, o i più veloci.
Ci invitano a guardare al sufismo come modello di islam moderato. Ma i sufi, brandendo i versi di Rumi e roteando come distici in una brutta poesia, neppure fanno finta di fornire una qualche soluzione. Se gli chiedi dell’islam ti invitano ad ascoltare un po’ di musica. Loro almeno sono più onesti dei nostri portavoce.
E vi siamo grati, cari portavoce, perché ricordate al mondo che i musulmani non sono una razza. Certi parlano cinese, altri swahili. Tra noi ci sono gay, pittori, avvocati, prostitute, magnaccia, batteristi e, ovviamente, assassini di massa. I musulmani non sono quasi mai d’accordo tra loro, neppure su questa vita e sull’altra. In famiglia noi siamo in sei e non riusciamo ad andare d’accordo su niente, anche se uno è un neonato e due sono cani.
Chi è il buon musulmano? Quello che prega e lascia fare Allah? Quello che non prega e lascia fare a Allah? Quello che pensa che Allah sia troppo occupato e allora fa da sé e prende una scorciatoia per l’aldilà? Beh, no, forse quello no, perché, come dicevamo, l’islam è una religione di pace.
L’affermazione più poetica che si sente per bocca degli esperti è che secondo l’islam, uccidendo un essere umano si uccide l’intera razza umana. Come mai allora Sabeen Mahmud non c’è più e tutta la maledetta razza umana, inclusi i suoi assassini, sono ancora vivi?
( Traduzione di Emilia Benghi)
Il Fatto Quotidiano on line, 21 dicembre 2015
L’azienda fino a poco prima dell’accordo con il governo federale ha trattato con la Malabu Oil & Gas Ltd di Etete, ex ministro del petrolio. Lo scambio di posta dimostra che il colosso sa bene che solo una piccola parte dei soldi vanno al governo per strade, ospedali o scuole. Il resto va al vero venditore: la società dell’ex ministro
Ci sono alcune mail dei manager dell’Eni della primavera del 2011 che svelano le verità finora nascoste sull’affare nigeriano da un miliardo e 92 milioni di dollari dell’acquisto del blocco petrolifero Opl 245. L’Eni - come si legge nelle mail - fino a pochi giorni prima dell’accordo con il governo federale della Nigeria del 29 aprile 2011 ha trattato con la Malabu Oil & Gas Ltd del nigeriano Dan Etete, l’uomo che nel 1998, quando era ministro del petrolio, si era auto-assegnato la concessione petrolifera per pochi milioni.
Quelle mail dimostrano ciò che Eni non ha mai ammesso: nell’aprile del 2011 quando firma l’accordo con la Nigeria sa benissimo che solo 207 milioni di dollari vanno al governo per strade, ospedali o scuole. A parte questo piccolo bonus (in cambio del timbro di legalità sull’acquisto) il miliardo e 92 milioni pagato per la concessione petrolifera più promettente della Nigeria (si stima possa contenere più di 9 miliardi di barili, un quindicesimo di tutte le riserve dell’Iraq) vanno al vero venditore: Malabu Oil & Gas dell’ex ministro Etete.
Eni sapeva che il suo bonifico miliardario al governo Nigeriano sarebbe stato seguito da un secondo bonifico a Malabu. Sulla destinazione finale di questa enorme somma sono aperti vari procedimenti. La Southwark Crown Court di Londra, il 15 dicembre, ha respinto la richiesta di Etete di sbloccare 84 milioni di dollari sequestrati su richiesta della Procura di Milano che indaga l’ex numero uno di Eni, Paolo Scaroni e il suo braccio destro che poi ne ha preso il posto, Claudio Descalzi, con altri due ex manager Eni e con Luigi Bisignani e Gianluca di Nardo. I pm Sergio Spadaro e Fabio De Pasquale sospettano che parte della mediazione promessa da Etete a un altro nigeriano in grado di arrivare tramite la filiera De Nardo-Bisignani-Scaroni al sì dell’Eni, cioè Emeka Obi, sarebbe poi stata destinata ai retro pagamenti per non meglio precisati manager italiani.
La decisione della corte inglese di mantenere il sequestro è dovuta alle carte americane che mostrano “pagamenti per un totale di 523 milioni di dollari, tramite percorsi molto tortuosi giunti a Abubakar Aliyu”. Secondo gli investigatori “le società di Aliyu sarebbero collegate al presidente (ora ex presidente nigeriano, Ndr) Jonathan”. Anche l’agenzia anti-corruzione nigeriana (EFCC) sta indagando e ha ascoltato Etete e Aliyu mentre una commissione del Parlamento nigeriano ha chiesto al governo di annullare la concessione all’Eni.
Al di là del profilo penale ed economico resta una questione politica: Eni nel 2011 sapeva di trattare con un ex ministro che si era impadronito delle risorse del suo popolo e che era stato condannato nel 2007 per riciclaggio in Francia. Le mail interne di Eni sono state pubblicate dal giornalista del Sole 24 Ore Claudio Gatti sul suo sito Gradozeroblog dopo la trasmissione Report di Milena Gabanelli di domenica scorsa. Gatti si è inserito nel dibattito scatenato sul web dalla scelta di Eni di ribattere, durante la trasmissione, ai contenuti del servizio di Luca Chianca “La trattativa” con una serie di tweet.
Mentre i giornali italiani si dedicavano al dito della ‘svolta comunicativa’ dei tweet di Eni, Gatti ha continuato a concentrarsi sulla luna dell’affare miliardario scovando le mail interne a Eni che, a quanto si apprende da fonti investigative, sono confluite nel fascicolo dei pm milanesi. Le mail pubblicate da Gatti e non smentite da Eni dimostrano l’ipocrisia della società petrolifera guidata da Descalzi.
Il 7 marzo 2011 un funzionario di Eni in Nigeria, Enrico Caligaris scrive a Roberto Casula, l’allora presidente di Nae, la società di Eni in loco: “Vi rimetto in allegato la versione (…) dell’Escrow Agreement (cioè l’accordo di garanzia sul pagamento, ndr) … Faccio presente che (…) la bozza allegata non disciplina ancora il pagamento a Fgn (governo federale nigeriano, Ndr) per Malabu in due tranche”.
Allegata alla mail c’è la bozza del contratto di garanzia che dimostra la consapevolezza di Eni sul fatto che il destinatario finale del pagamento fosse Malabu. La parte più interessante della bozza dell’Escrow Agreement (accordo di garanzia) sono i punti C e D. Nel primo si legge che Eni “ha l’obbligo di bonificare sul conto Escrow la cifra di XXX milioni di dollari Usa a favore del Fgn (governo nigeriano, Ndr)” e nel secondo si legge che “la suddetta cifra sarà rilasciata dall’agente Escrow (la banca, Ndr) a favore di Malabu per conto del Fgn”.
L’accordo non è stato firmato in questi termini troppo sfacciati ma la mail dimostra la consapevolezza di Eni sul reale destinatario finale del pagamento. In una mail del 30 marzo 2011 il responsabile delle contrattazioni di Eni, Guido Zappalà scrive: “È previsto che Fgn sia quello che paghi direttamente Malabu (…) Fgn (governo federale della Nigeria, Ndr) pagherà Malabu e il fatto che il denaro arrivi a Fgn da Nae (la controllata nigeriana di ENI, Ndr) è una questione separata”.
I due pagamenti Eni-Fgn e Fgn-Malabu e i due accordi dovevano restare divisi giuridicamente proprio per evitare tutti i problemi che ora Eni sta incontrando. Il 6 aprile 2011, il solito Casula di Nae scrive alla collega Donatella Ranco di Eni una mail con oggetto: “Sintesi incontri 245” in cui si legge: “Al di là di una informativa per Claudio (Descalzi, Ndr) trasmetto un aggiornamento sintetico sugli ultimi incontri con le Autorità Nigeriane”. Nella ‘sintesi degli incontri’ si legge che agli incontri tra Eni e governo dell’11, 24 e 28 febbraio e 14 aprile 2011 erano presenti anche i rappresentanti di Malabu. Il mattino del 28 aprile, cioé il giorno prima dell’accordo il manager Eni Guido Zappala scrive: “sarà presente anche Malabu? ”.
Eni replica al Fatto: “Le negoziazioni con gli advisor finanziari di Malabu non hanno avuto buon fine e si sono interrotte nel novembre 2010. Fu proprio Eni a bloccare la transazione. Le ultime comunicazioni email pubblicate da Claudio Gatti sul suo blog, a prescindere dal fatto che siano veritiere o meno e dalla lettura strumentale che ne viene data dal giornalista, sono riferite al 2011, anno in cui Eni e Shell da una parte e il governo nigeriano dall’altra sottoscrissero gli accordi commerciali relativi all’unica operazione effettivamente realizzata da Eni in merito al blocco Opl 245. Eni e Shell eseguirono il pagamento per una nuova licenza sul blocco su un conto del governo nigeriano. Il governo nigeriano, per rilasciare una nuova licenza per l’Opl 245, doveva necessariamente cancellare la vecchia licenza Opl 245 intestata a Malabu e risolvere l’annoso contenzioso tra governo, Shell e Malabu. È un fatto incontestabile che Eni abbia firmato accordi commerciali solo con Shell e il governo federale nigeriano e che Eni e Shell abbiano eseguito il pagamento per la nuova licenza Opl 245 su un conto intestato al governo nigeriano”.
L’organizzazione non profit Re-Common, che da anni conduce una battaglia sull’Opl 245, ha pubblicato una nota dal titolo: “mail ‘soffiate’ (leaked, Ndr) mostrano come Shell e Eni abbiano operato per nascondere il pagamento alla società dell’ex ministro per l’affare corrotto dell’Opl245”. In Italia i giornali e i siti non lo hanno ripreso preferendo rilanciare i tweet colorati di Eni.
il manifesto, 20 dicembre 2015
Nell’indifferenza generale sulla campagna elettorale spagnola è puntualmente piombato il diktat dei liberisti europei: chiunque vincerà le elezioni del prossimo 20 dicembre dovrà rispettare i patti e compiere ulteriori massacri sociali, altrimenti chi governerà verrà sottoposto allo stesso trattamento riservato a Tsipras e al suo governo.
Il principale argomento che le destre, ma anche i socialisti, hanno usato contro Podemos è proprio quello che una sua vittoria farebbe fare alla Spagna la stessa fine della Grecia. Non c’è dubbio che la grande maggioranza di spagnole e spagnoli continua a volere farla finita con l’austerità e i tagli alle prestazioni dello stato sociale, ma c’è anche la consapevolezza che perseguire questi obiettivi comporta sfidare chi oggi governa l’Europa.
Che a mettere la testa sotto la sabbia siano le destre si può capire, perché sia il Partito Popolare che Ciudadanos, se dovessero vincere le elezioni e allearsi per governare, rispetterebbero le condizioni capestro che provengono da Bruxelles. Per Rajoy si tratterebbe solo di dare un seguito alle disastrose politiche economiche, sociali ed ambientali che il suo governo ha imposto in questi ultimi anni. Altrettanto farebbe Ciudadanos, cioè la destra presentabile e modernizzante, in grande ascesa nei sondaggi. Il suo leader, Rivera, ha sempre dichiarato che in caso di vittoria si guarderebbe bene dal rimettere in discussione il patto di stabilità e tantomeno abrogare dalla costituzione spagnola l’articolo sul pareggio di bilancio.
Meno comprensibile è il silenzio della sinistra che ha appoggiato il generoso tentativo di Tsipras, cioè Podemos e Unidad Popular-Iu. Altrettanto ambiguo è il silenzio del Psoe. È abbastanza evidente che le promesse di Sanchez e dei socialisti di rilanciare lo stato sociale e il lavoro sarebbero carta straccia senza un no alle richieste dei falchi liberisti. La stessa sorte riceverebbero la rivoluzione energetica rinnovabile, il rilancio della sanità e dell’istruzione pubbliche, la redistribuzione del reddito lanciate dal programma di Podemos o il lavoro (garantito) per tutti richiesto dal giovanissimo candidato premier, Alberto Garzón, di Izquierda Unida.
Pensare che elettrici ed elettori siano solo una folla facilmente manipolabile è vecchio vizio perdente della vecchia politica, che giustamente si condanna. Non era quello della partecipazione e del rifiuto della delega uno degli elementi costitutivi del movimento degli indignados, a cui Podemos e Izquierda Unida si ispirano?
Quindi chi vuole e propone di farla finita con il massacro dello stato sociale e una iniqua distribuzione della ricchezza ha l’obbligo, per essere credibile, di dire chiaramente se intende sottostare ai vincoli imposti da Bruxelles o sovvertirli. Gli ultimi sondaggi, oltre ai tanti indecisi, evidenziano anche che l’unica concreta alternativa a Rajoy sarebbe solo un’alleanza fra socialisti, Podemos e Unidad Popular-Iu. Non sembrano essere queste le intenzioni.
Sia il Psoe che Podemos rinviano qualsiasi eventuale intesa al dopo elezioni, facendola dipendere da come il voto di oggi, 20 dicembre, definirà i rapporti di forza fra questi partiti. Per ora il Psoe, tristemente, sembra attratto a cercare un accordo più con Ciudadanos che con Podemos. Una risposta chiara all’arrogante ingerenza di Bruxelles, dovrebbe obbligare il Psoe ad unirsi a sinistra.
Un no comune della sinistra al diktat aiuterebbe l’elettorato a capire la natura di destra di Ciudadanos che, con una sua vittoria, nulla cambierebbe in Spagna rispetto ad ora. Dare un volto giovane e più rispettabile alle politiche liberiste non le rende meno socialmente disastrose, come dimostra Renzi in Italia. Non solo. Invece un no comune alle pretese di Bruxelles, come è successo in Portogallo, renderebbe più facile un accordo a sinistra per governare.
Fare irrompere, anziché occultare, il proposito comune di una nuova Spagna in una Europa differente avrebbe potuto spostare quegli equilibri, che i sondaggi sembrano aver consolidato, e rilanciare il cambiamento.
Aveva detto: «Noi non rincorriamo le bombe degli altri», e invece Matteo Renzi, subito dopo la chiamata di Barack Obama, ha annunciato da Porta a Porta (a questo punto la prima Camera del Paese) l’invio a Mosul, l’area più calda dell’Iraq, di 450 soldati.
Una svolta del «disertore» Renzi, passata quasi sotto silenzio, anzi sotto banco. Perché si tratta di «stivali a terra», truppe sul campo, quelle che l’America non mette più in questa misura, tanto che delega l’appalto del presidio di guerra proprio all’Italia che si accoda così alla scia dei pesanti bombardamenti Usa nella regione.
Dopo le gravi responsabilità degli Amici della Siria (Stati uniti, Paesi europei, Turchia e petromonarchie del Golfo) che per più di due ani hanno destabilizzato questo Paese «perché Assad se ne deva andare», favorendo indirettamente e direttamente la nascita dello Stato islamico.
Andiamo in armi a Mosul per difendere l’importantissima struttura della mega-diga, ora ripresa dai peshmerga ma diventata famosa nel 2014 per lo sventolìo di bandiere dell’Isis che annunciava la sua estensione e visibilità dalla Siria alla provincia irachena di Anbar, proprio con la conquista di Mosul. Da dove infatti il «califfo» Al Baghdadi ha fatto il suo proclama al mondo. Una zona dunque ad alto rischio.
Che, pur accerchiata ma da eserciti quasi pronti a farsi la guerra fra loro, resta saldamente in mano alle milizie dell’Isis. Le stesse che approfittano anche del conflitto tra l’autorità centrale di Baghdad e il governo del Kurdistan iracheno impegnato nella separazione dall’Iraq e, sotto la guida di Barzani, a chiamare – assai poco fraternamente con i kurdi del Rojava e quelli del Pkk – in soccorso l’esercito turco, subito inviato da Erdogan. Per cominciare a farlo evacuare il governo iracheno ha dovuto presentare una mozione al Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Ora l’Italia invia in quest’area di conflitto aspro con il nemico Califfato ma anche tra «alleati», centinaia di soldati a presidiare una zona che, nel prosieguo della guerra, diventerà peggio di Nassiriya.
Renzi aveva detto e ripetuto «senza una strategia non c’è intervento militare», e invece corriamo al seguito della strategia Usa mirata ai suoi dividendi di guerra e ad impegnare la più presentabile Italia in sostituzione dell’improponibile Sultano atlantico di Ankara. In Iraq, da dove ci siamo ritirati da anni. Mentre si apre anche la possibilità di un intervento in Libia, ora che, divisa e in guerra civile, vede la firma dei due parlamenti di Tripoli e Tobruk per un governo di carta che chiami truppe occidentali a definire hotspot «sicuri» per recintare la disperazione dei profughi.
Non solo ci appaltano una guerra, ma annunciamo che lo facciamo per un appalto. Per la ditta di Cesena, il Gruppo Trevi, che avrebbe dovuto avere una committenza milionaria per la sistemazione della diga di Mosul, ma ancora non ce l’ha. E allora corriamo manu militari per il made in Italy in concorrenza con gli interessi tedeschi per lo stesso subappalto. Finalmente una chiarezza: stavolta non è una guerra «umanitaria» ma d’affari.
Un altro sbattimento di tacchi, un altro signorsì di Matteo Renzi dopo la decisione di estendere, su richiesta della Casa bianca, la missione militare italiana in Afghanistan, dove siamo in guerra con la Nato da «soli» 14 anni contro il nemico talebano che resta sempre all’offensiva. Presa a ridosso della strage Nato dell’ospedale Msf di Kunduz e nello stesso giorno in cui il neo-premier canadese Trudeau ritirava il contingente di Ottawa. Insomma, da un appalto all’altro.
Il manifesto, 18 dicembre 2015
Opaco, maneggevole, smontabile come nei film di spie hollywoodiani, il fucile di precisione BushmasterX152S, è pubblicizzato in America, dov’è prodotto, come «l’arma perfetta per un killer». Nei video di propaganda più recenti è esibito anche dai guerrieri del Califfato come un gioiello crudele o il regalo di un Babbo Natale nero.
Molte altre armi nuove, luccicanti, non vecchi ferri in dotazione all’esercito iracheno, arrivano all’Isis da paesi impegnati a combatterne l’avanzata, almeno ufficialmente: missili anticarro Milan prodotti in Belgio o in Francia, mortai turchi, fucili tedeschi, batterie anti-aeree statunitensi, tank russi, pick-up d’assalto coreani. È ciò che documenta il rapporto pubblicato tre giorni fa da uno dei più importanti centri di ricerca internazionali sui traffici di armi e munizioni: «Taking stock, the arming of Is», prodotto dall’Armament Research Services con Amnesty international, che cerca di ricostruire gli approvvigionamenti di armamenti, leggeri e pesanti, in dotazione ai tagliagole del Califfato.
E girano per l’Europa denunce specifiche contro governi, come quello inglese, accusati di aver autorizzato la vendita di sofisticati fucili da cecchino, con binocolo ottico all’avanguardia, all’Arabia Saudita che — è dimostrato — sono stati usati per reprimere nel sangue manifestazioni civili durante le primavere arabe in Yemen.
Sfavillanti fucili sniper sono serviti allo stesso brutale scopo, nel Bahrein, ed erano di fabbricazione italiana, modello Beretta, anche se prodotti dalla consorziata finlandese Sako. E dopo la denuncia di Amnesty sono stati interdetti dal governo della Finlandia.
Le ong indipendenti, insomma, stanno dando battaglia sulla tradizionale oscurità che ammanta i traffici delle industrie armiere, tanto che la questione è approdata a Strasburgo, dove ieri in seduta plenaria il Parlamento europeo ha approvato un codice di regolamentazione in otto punti per migliorare la trasparenza e i controlli sull’export di armamenti convenzionali e tecnologia militare dall’Ue verso paesi terzi.
Stante il pilastro che la gestione di questo tipo di commercio è — e resta, come da trattati — appannaggio degli stati nazionali, gli eurodeputati hanno convenuto che in una mutata situazione geopolitica, sempre meno stabile, soprattutto per quanto concerne i paesi confinanti e vicini, specialmente mediorientali, l’export incontrollato di armamenti potrebbe mettere a rischio la sicurezza dei cittadini europei, oltre a non corrispondere al rispetto dei diritti umani.
Pertanto la risoluzione – approvata con 249 sì, 164 no e 128 astenuti – pur non essendo vincolante e non prevedendo sanzioni per chi non vi ottempera, invita caldamente gli stati membri a rendere maggiormente trasparenti le licenze alla vendita di armi, ribadisce gli standard minimi di limitazione approvati in sede Onu, e arriva ad ipotizzare una autorità garante o quanto menouna relazione annuale sulle esportazioni di armi da parte delle autorità dell’Unione, che — piccolo particolare — si conferma il primo esportatore al mondo di prodotti per la guerra, dagli elmetti con visore termico agli stabilizzatori di mira e quant’altro.
L’Italia non è affatto in fondo alla lista come al solito.
Anzi, primeggia in questo caso (come si vede dal grafico a torta dell’ultimo rapporto dello Stockholm institute of peace research, altro importante centro di ricerca) con un 3% dell’intero volume di affari del settore nel 2014 (26 miliardi solo verso paesi terzi), percentuale quasi doppia rispetto della Germania.
E con l’industria di Stato — Finmeccanica, 64% delle autorizzazioni italiane — salda nella top ten delle corporation armiere.
Anche se nel 2014 sono i produttori emergenti a guadagnare di più in un mercato abbastanza statico: Turchia, Brasile, Corea, India. La Turchia con le nuove aziende Tai e Aselan, dice il rapporto Sipri, oltre l’autosufficienza ha una «esportazione particolarmente aggressiva».
Anche l’Onu sta cercando di vincolare maggiormente il commercio di armi e una decina di giorni fa il trattato Att, di cui l’Italia figura tra i proponenti, ottenendo oltre 50 firme, è diventato giuridicamente vincolante.
L’Att imporrebbe parametri di riferimento per valutare le autorizzazioni all’esportazione: dagli embargo, al rispetto della convenzione di Ginevra e all’esclusione dei paesi destinatari coinvolti in conflitti, al rispetto dei trattati sulle mine anti-uomo. Finora l’Att è stato approvato da 157 paesi con 26 astenuti (tra cui Iran, India, Egitto, Russia, Siria e paesi del Golfo).
Washington l’ha firmato ma non ratificato
La Repubblica, 17 dicembre 2015 (m.p.r.)
Ma chi e stato Licio Gelli? Cosa ha rappresentato il gran Maestro della Loggia Massonica P2? Per rispondere, forse, non ci sono parole migliori se non quelle di Giuliano Turone, il giudice di Milano che insieme a Gherardo Colombo, nel marzo del 1981 ordinò alla Guardia di Finanza di perquisire Castiglion Fibocchi, dove venne trovata la lista della P2. Gelli? «Il grande notaio di un sistema di potere occulto».
Sbilanciamoci.info, 17 dicembre 2015
Come risposta alla crisi del 2008, le economie della periferia europea hanno adottato politiche deflattive con l’obiettivo di recuperare competitività e far ripartire crescita ed occupazione. Il tutto in completa ottemperanza ai dettami della visione neoliberista che egemonizza l’agenda di politica economia europea. In Italia, la legge 183 del 2014, evocativamente denominata ‘Jobs Act’, ha svolto un ruolo chiave determinando uno storico cambiamento nell’equilibrio delle relazioni industriali.
Il tema più dibattuto della legge 183/2014, sia sul piano politico sia su quello sindacale, rimane il ‘contratto a tutele crescenti’ che pone fine alla cosiddetta ‘tutela reale’ (racchiusa nell’Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, abrogato dal Jobs Act) quale attributo dei contratti “stabili e indeterminati”. I nuovi rapporti di lavoro così definiti, infatti, non possiedono la caratteristica della stabilità dal momento che il licenziamento senza diritto al reintegro è sempre possibile senza una giusta causa e, allo stesso tempo, enormemente meno oneroso per le imprese (l’obbligo è stato ridotto a un indennizzo di due mensilità per anno di lavoro al lavoratore licenziato).
In un articolo appena pubblicato come working paper (prodotto nell’ambito del progetto europeo Horizon 2020 ISIGrowth), abbiamo proposto una valutazione preliminare degli effetti del Jobs Act. Quest’ultimo viene inquadrato quale tassello finale di un processo di liberalizzazione del mercato del lavoro cominciato a metà degli anni ’90 e assunto come elemento cardine della politica economica italiana. Tale strategia si rifà ad un approccio di tipo neoliberale in nome del quale le ‘rigidità del mercato del lavoro’ – ovvero la presenza di sindacati, del salario minimo, della contrattazione nazionale o delle tutele reali contro il licenziamento – sarebbero le cause principali della disoccupazione persistente, del mancato incontro tra domanda ed offerta nel mercato del lavoro e, più in generale, delle deboli performance competitive delle economie.
I fatti stilizzati messi in luce nel working paper mostrano come la debole dinamica dell’economia italiana – in particolar modo per quel che riguarda occupazione e produttività – non appare invertirsi lungo tutto il periodo di liberalizzazione analizzato.
Tra il 1995 e il 2014, l’economia italiana è stata caratterizzata da esigui investimenti in Ricerca e Sviluppo, sia pubblici che privati. Tale dinamica ha indebolito la struttura industriale, rendendola sempre meno competitiva e capace di espandersi. La politica economica, piuttosto che affrontare le proprie criticità strutturali, ha scelto invece di inseguire pedissequamente la via della deflazione e della deregolamentazione del mercato del lavoro, senza interrogarsi sulla validità di tale scelta.
Ma il progressivo e costante alleggerimento dei vincoli ed il parallelo rafforzamento degli incentivi alle imprese non ha intaccato nessuna delle problematiche storicamente rilevanti del mercato del lavoro italiano: la relativa minor partecipazione delle donne al lavoro; la persistenza del tasso di disoccupazione giovanile; il forte divario tra nord e sud del paese circa la performance produttiva ed occupazionale. Non fa eccezione il Jobs Act.
Attraverso l’uso di dati, sia di fonte amministrativa che campionaria (Indagine sulle Forze di Lavoro), viene evidenziata l’inefficacia del Jobs Act nel raggiungere gli obiettivi previsti in termine di espansione dell’occupazione e di riduzione della quota dei contratti a tempo determinato. Lo stesso dicasi per la riduzione di quelli atipici.
I dati mostrano, infatti, come la gran parte dell’incremento occupazionale riguardi i contratti a tempo determinato. Al contrario, l’aumento dei contratti a tempo indeterminato è dovuto principalmente alla trasformazione di contratti a termine preesistenti e non alla creazione di nuova occupazione. In particolare, è importante sottolineare come gli incentivi monetari forniti alle imprese non si siano concretizzati in nuova occupazione a tempo indeterminato, ma abbiano, piuttosto, favorito la trasformazione di contratti temporanei in contratti ‘permanenti’. Questi ultimi, come già argomentato, solo virtualmente permanenti, contrariamente agli sgravi contributivi per le imprese, la cui portata nei bilanci è molto reale e tutt’altro che marginale.
Al netto di trasformazioni e cessazioni, dunque, i contratti a tempo indeterminato rappresentano una quota modesta, il 20% sul totale dei contratti stipulati durante i primi nove mesi del 2015. Inoltre, in termini di ore lavorate, i risultati lasciano emergere che i contratti part-time – per lo più dal carattere involontario – sono più numerosi proprio fra i tempi indeterminati piuttosto che fra i contratti a tempo determinato.
I dati dell’Indagine sulle Forze di Lavoro confermano come l’incremento dell’occupazione, dopo l’introduzione del binomio Jobs Act-decontribuzione, è sostanzialmente debole e, in gran parte, dovuto a nuovi contratti a tempo determinato. Inoltre, l’aumento più sensibile dei contratti a tempo indeterminato sembrerebbe aver interessato le coorti più anziane (oltre 55 anni) di lavoratori e non le coorti più giovani. L’occupazione giovanile e la variazione del tasso di inattività di questi ultimi sembrerebbe essere principalmente spiegato dalla recente introduzione del programma ‘Garanzia Giovani’ e dall’esplosione dei cosiddetti vouchers (come emerge con chiarezza dall’analisi delle fonti di natura amministrativa).
I dati dell’Indagine sulle Forze di Lavoro mettono ulteriormente in luce l’incapacità del Jobs Act di rispondere ai compiti che era stato chiamato ad assolvere. Da questo punto di vista, il working paper ISIGrowth mostra come tra il primo ed il secondo trimestre del 2015, in Italia, il 35% dei disoccupati ha smesso di cercare lavoro, transitando dalla disoccupazione all’inattività. Un’evidenza che spiega, tra le altre cose, la riduzione del tasso di disoccupazione tanto decantata in questi mesi dal governo Renzi. L’insieme di evidenze disponibili e raccolte finora – confermate dalle più recenti rilevazioni Istat- testimonia come il trend di indebolimento della struttura occupazionale italiana non ha mostrato segni di inversione dall’introduzione del Jobs Act in poi. Quest’ultimo sembra invece facilitare lo spostamento di parte della forza lavoro italiana verso il settore dei servizi a scarso contenuto tecnologico (magazzinaggio, ristorazione e turismo), senza nessun incremento occupazionale nell’industria.
Questo elemento risulta di estrema pericolosità se legato agli effetti della crisi sulla struttura dell’economia italiana. In particolare, la significativa riduzione della capacità produttiva osservata fra il 2008 ed il 2013 e la sofferenza del settore manifatturiero segnalano la necessità di politiche industriali e interventi pubblici diretti a stimolare la creazione di produzioni – ed occupazione – stabili, qualificate e ad alta intensità tecnologica. La strada scelta dal governo italiano appare, tuttavia, opposta. L’aver scelto il Jobs Act, ovvero il definitivo smantellamento delle tutele dei lavoratori, quale elemento cardine della propria strategia di politica economica ha un unico significato: invitare le imprese italiane a competere abbattendo i costi (cioè i salari) disincentivando la strada dell’investimento in tecnologia, innovazione e formazione dei lavoratori.
In conclusione, il combinato disposto ‘Jobs Act’-decontribuzione si è rivelato, sin ora, inefficace in termini di quantità, qualità e durata dell’occupazione generata. Il potenziale effetto deflattivo di tali politiche, inoltre, rischia di contribuire ulteriormente all’indebolimento della struttura occupazionale ed industriale italiana, già gracile all’inizio della crisi del 2008 e pesantemente colpita da quest’ultima.
ATTAC online, 18 dicembre 2015
Vero è che fino al 2009, quando una banca proponeva ad un cittadino un investimento in obbligazioni subordinate, aveva l’obbligo di comunicare gli scenari probabilistici dello stesso. Ma sono arrivati gli anni della crisi, e il mandato di Bankitalia ad una forte ricapitalizzazione delle banche ha spinto queste ultime, data la fuga dei classici investitori istituzionali, ad inondare i cittadini di prodotti finanziari: ed ecco allora la Consob eliminare prima l’obbligo di comunicazione degli scenari probabilistici, poi, dal 2011, persino la comunicazione facoltativa degli stessi.
Solo per fare un esempio, ai cittadini che hanno investito in obbligazioni subordinate della Banca dell’Etruria e del Lazio nell’ottobre 2013, nessuno ha comunicato una probabilità pari al 62,7% di perdere la metà del capitale.
E, naturalmente, quanto prescritto dalla normativa europea in merito alla profilatura del cliente, ovvero alla sua conoscenza e propensione agli investimenti finanziari, è stato facilmente aggirato, facendo risultare, nell’ultimo caso delle banche coinvolte, il 75% dei cittadini come grandi conoscitori degli strumenti finanziari.
Il via libera alle banche verso la spoliazione dei cittadini ha fatto da specchio alle contestuali gestioni del credito da parte delle stesse, che, in molti casi, le ha portate al fallimento.
Come sempre, ad ogni scoppio del bubbone, la prima reazione a tutti i livelli è lo scarico delle responsabilità verso l’anello superiore od inferiore della catena, a cui segue una levata di scudi generale in direzione di drastiche misure affinché non accada mai più. Fino all’ormai classica conclusione in cui il nuovo scandalo viene riclassificato nella categoria di ”mela marcia in albero sano”.
Che le cose non stiano affatto così ce lo dicono i dati: in questi ultimi 7 anni sono oltre 35 i miliardi fatti investire ai cittadini in obbligazioni subordinate e, mentre le quattro banche, ormai famose, vengono salvate dai provvedimenti governativi, sono ad oggi altre 12 quelle commissariate per gli stessi motivi.
Per farsi un’idea di cosa sia strutturalmente diventata l’attività di gestione del risparmio, basti vedere cosa scrive Consob (procedimento 20638/14) in merito all’attività di Poste Italiane, ovvero la società a cui si rivolge la parte più semplice dei risparmiatori: “vendite di prodotti in conflitto di interesse con la rete BancoPosta, strutture commerciali pressate per raccogliere volumi e incentivi legati al budget, forme di marketing scorrette, poche e ottimistiche profilazioni di clienti che permettevano al 74,5% di essi di sottoscrivere strumenti complessi (come le opzioni certificates su sottostanti cartolarizzati)”.
Siamo dunque di fronte ad una crisi di “sistema”, che, aldilà delle situazioni specifiche, può essere affrontata solo con proposte sistemiche. La prima delle quali non può che essere una legge che sancisca la netta separazione tra banche commerciali e banche d’investimento, avviata con un immediato provvedimento di divieto totale di vendita di prodotti finanziari agli sportelli; in secondo luogo, occorre una drastica inversione di rotta sulla trasformazione delle banche popolari in SpA ed una loro reale riforma, che ne sancisca la territorialità, attraverso la gestione partecipativa dei lavoratori e delle comunità locali; il terzo filone non può che riguardare l’inversione di rotta sulla privatizzazione di Poste italiane e sulla trasformazione di Cassa Depositi e Prestiti, da avviare con la separazione, e relativa immissione in un circuito pubblico, partecipativo e sociale, del risparmio postale; in quarto luogo, provvedimenti in favore del risparmio etico e della diffusione di tutte le esperienze, anche autorganizzate, che vanno in quella direzione.
Perché o si mettono in campo con la mobilitazione diffusa misure che disegnano un’altra società basata sulla mutualità cooperante, o niente e nessuno ci salverà da un modello che ci vuole tutte e tutti immersi nella solitudine competitiva.
La Repubblica, 18 dicembre 2015
Nelle pieghe dell’ultimo Bollettino della Bce, sempre molto cauto sulla ripresa che è debole e piena di rischi, ci sono diverse brutte notizie sull’Italia e il lavoro. L’Eurotower è dura. Dice per esempio che, da noi, l’occupazione è al palo mentre altrove in Europa aumenta; che la Grecia ha fatto meglio; che 2 su 3 dei nuovi posti di lavoro il 63% - sono precari, o a tempo determinato, o stagionale.
«Questo accade quando si fanno i provvedimenti avendo la presunzione di conoscere e non avendo il coraggio di confrontarsi sulla realtà» accusa il leader della Cgil Camusso. In realtà il Bollettino, nel citare quest’ultimo dato- politicamente tra i più sensibili- mette a confronto il secondo trimestre 2013 con lo stesso periodo del 2015 e dunque non può tener troppo nel conto il Jobs Act che entra in vigore a marzo. Sconta invece la decontribuzione, cioè l’esonero contributivo per i nuovi assunti a tempo indeterminato, scattato invece il primo gennaio.
Ma al di là dell’impatto delle riforme, dall’analisi di questi esperti emerge una Italia a passo di lumaca sul fronte del lavoro, mentre per esempio Germania e Spagna hanno contribuito per quasi due terzi all’incremento del numero degli occupati nell’area euro nel secondo trimestre. E come se non bastasse, da noi come in Spagna frena pure la crescita dell’occupazione femminile.
Il Bollettino Bce arriva all’indomani del rialzo dei tassi deciso dalla Fed e salutato con una certa euforia dalle Borse europee. Le piazze finanziarie Ue volano, di fronte al primo aumento del costo del denaro dal 2006. I listini corrono tutti, come fosse un rally, per poi rallentare nel finale con Wall Street. Milano da sola guadagna l’1,48% .
Gli analisi s’aspettano tre rialzi dei tassi nel 2016 da parte della Fed, sicura sulla salute dell’economia americana e certa di non intravedere rischi di recessione all’orizzonte, secondo le rassicurazioni del presidente JanetYellen.
La Bce di Mario Draghi, invecce, scatta un quadro più cauto: ci sono ancora pericoli per la crescita, rischi geopolitici legati alle incertezze dell’economia mondiale. L‘afflusso dei rifugiati potrebbe pesare sui bilanci di alcuni paesi, quali l’Italia, con un impatto sui conti pubblici dello 0,2%.
Ed è duro il giudizio della Bce sui bilanci pubblici. Con l’Italia, accusata di deviare troppo dalle regole, come anche il Belgio. Ma pure con le autorità Ue: la clausola sulle riforme strutturali e sugli investimenti, per esempio,introdotte dalla Commissione a gennaio «può ridurre in maniera sostanziale i requisiti di aggiustamento strutturale », per i paesi ad alto debito. La stessa vigilanza Ue sui conti è giudicata al dunque poco trasparente e asimmetrica.
«Continua l’azione del governo a sostegno della crescita e dell’occupazione in un quadro di progressivo consolidamento della finanza pubblica per il 2016», puntaulizza il ministro Padoan. Dal suo osservatorio inoltre la ripresa dell’economia italiana si sta rafforzando, nonostante lo scenario internazionale sia più difficile. «Se guardiamo a 12 mesi fa la situazione è radicalmente diversa. Occorre ora rendere la ripresa robusta per trasformarla da ciclica a strutturale ».
Una modificazione che farebbe bene anche al lavoro, sia italiano che europeo. Il tasso di disoccupazione nell’area dell’euro «rimane elevato e, con l’attuale ritmo a cui si sta riducendo, occorrerà molto tempo prima che si torni ai livelli pre-crisi», è il monito del Bollettino. E più avanti: «Con circa 7 milioni di persone (5% della forza lavoro) che lavorano attualmente a tempo parziale per mancanza di un’occupazione a tempo pieno e con oltre 6 milioni di lavoratori scoraggiati (coloro che hanno rinunciato a cercare un’occupazione) il mercato del lavoro nell’area dell’euro rimane nettamente più debole di quanto indicato dal solo tasso di disoccupazione”.
Sono d’accordo con tutto quello che ha scritto Roberto Saviano. Sono convinta che questo governo sia nel mezzo di un conflitto di interessi grande come il buco che si è inghiottito i risparmiatori beffati. Sono anche sconvolta da quell’atteggiamento di sfida, quell’aria di serena attesa del futuro, quell’arroganza del potere, quell’attacco alla libera informazione che abbiamo visto regnare all’interno della Leopolda. E sono sconvolta infine dagli applausi che hanno accompagnato ogni riferimento al potere conquistato. Fuori aspettavano di potersi avvicinare. Con i loro tristi cartelli, in mezzo al traffico di auto e bus, nell’aria irrespirabile di una delle città più inquinate, i truffati dalle banche. In tutti i sensi.
Si può fare nell’Italia di oggi una inchiesta seria sulle banche? Sarebbe la miglior risposta... ma Bettino Craxi docet, ancora. La generazione Leopolda sorride, ci sarebbe da vergognarsi.
“PANETTONE O PANDORO?”
IL “MOOD” DEL “QUESTION TIME” STILE LEOPOLDA
La Repubblica, 16 dicembre 2015 (m.p.r.)
Ricordo un’intervista a Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, sull’Huffington Post. Era del 2013 e riguardava una bufera piccola perché periferica, piccola perché marginale rispetto a ciò che riguarda il governo centrale. Il sindaco di Napoli Luigi De Magistris voleva che suo fratello Claudio, che aveva costruito la campagna elettorale (è attribuibile a lui lo slogan “scassiamo tutto”, versione napoletana della rottamazione renziana) e gli aveva fatto da consulente praticamente gratis, avesse un incarico retribuito e lo voleva alla direzione del Forum delle culture. Si levarono scudi contro questa candidatura e a Cantone fu chiesto se si trattava di sciacallaggio o di legittima critica. Rispose che «(gli sciacalli ndr) ci sono, ma non mi permetto assolutamente di annoverare tra questi i media, che registrano fatti e opinioni, favorendo così l’indispensabile controllo da parte dell’opinione pubblica».
Il manifesto, 15 dicembre 2015
Renzi non vuole cedere su Barbera perché il professore è stato un tenace sostenitore della riforma costituzionale e soprattutto della legge elettorale, che o presto (attraverso i ricorsi in tribunale) o tardi (attraverso l’iniziativa della minoranza in parlamento, una volta promulgata la legge di revisione della Costituzione) arriverà davanti ai giudici delle leggi. Il presidente del Consiglio non accetta che per chiudere un accordo i 5 Stelle vogliano sindacare le scelte del Pd, e d’altra parte i 5 Stelle hanno risparmiato il fastidio ai democratici selezionando all’interno della loro rosa l’unico candidato che non si è mai avanzato critiche all’Italicum. Si tratta del professore emerito Franco Modugno, l’unico che anche nella votazione di ieri ha raccolto voti in maniera significativa (110, comunque qualcuno in più dei votanti grillini).
La votazione di ieri si è fatta notare soprattutto per gli assenti, oltre duecento. D’altronde la seduta di lunedì è tradizionalmente difficile perché scarsamente frequentata. Impossibile in queste condizioni raggiungere qualsiasi accordo e il problema rischia di riproporsi oggi, visto che alla camera lavorano ancora soltanto le commissioni, soprattutto la commissione bilancio sulla legge di stabilità e gli argomenti all’ordine del giorno (come il caso delle banche) non sono di quelli che favoriscono accordi.
Un accordo tra il Pd, il resto degli alleati centristi di governo e il Movimento 5 Stelle, al quale potrebbero aderire i parlamentari di Sinistra italiana, si potrebbe chiudere sacrificando Sisto. E convincendo gli indecisi di Forza Italia a rinunciare del tutto al loro candidato, anche con l’argomento che molto presto potrebbe presentarsi l’occasione di scegliere ancora un altro giudice di nomina parlamentare.
Il terzo giudice, allora, oltre Barbera e Modugno, potrebbe essere un candidato dei centristi, ma non la professoressa Ida Nicotra indicata da Alfano ma impallinata già al debutto, due votazioni fa. Il Corriere della Sera ieri ha fatto il nome del giurista Alessandro Pajno, tra gli uomini più vicini al presidente della Repubblica Mattarella, che non incontrerebbe obiezioni tra i grillini. È un cattolico ma non esattamente nelle corde del Nuovo centrodestra e ha più il profilo per essere indicato alla Consulta dalle supreme magistrature amministrative (è presidente di sezione del Consiglio di Stato) o eventualmente dal presidente della Repubblica. Renzi punta a una composizione della Corte che gli dia garanzie nel giudizio sull’Italicum, le camere conservano nello scrutinio segreto gli ultimi spazi di manovra e così sono trascorsi invano diciotto mesi di votazioni inutili. Da stasera a oltranza.
L’impotenza dimostrata finora dal Parlamento ad eleggere i tre giudici costituzionali, prima ancora e invece che deprecata, andrebbe spiegata. Ne risulterebbero le ragioni, se ne scoprirebbero le responsabilità. Si dedurrebbe innanzitutto che questa elezione non ha precedenti, non per il ritardo e la difficoltà di scegliere candidati adeguati al tipo e al valore dei giudizi di costituzionalità, ma per la posta che è in gioco. Una posta che va ben oltre la valutazione della conformità a Costituzione di una legge o di un atto avente forza di legge o l’esercizio di un’attribuzione ad uno o ad un altro potere dello stato o tra Stato e Regioni o tra Regioni. È in gioco il ruolo stesso della Corte, la sua funzione di garanzia effettiva della Costituzione. È in gioco la forma di governo sancita in Costituzione. È in gioco la fisionomia dell’ordinamento della Repubblica, la determinazione di suoi principi fondanti, la sua identità.
È della democrazia italiana che si tratta, è la democrazia italiana ad essere stata posta in gioco con le due operazioni di chirurgia istituzionale compiute dal governo Renzi e dalla sua maggioranza con l’Italicum e col cosiddetto «superamento» del bicameralismo. È di queste due leggi, della loro costituzionalità che sarà chiamata a giudicare la Corte costituzionale. Con buona pace degli assertori, ingenui o ipocriti, della unitarietà e della neutralità della scienza giuridica, le sentenze, specie se di costituzionalità, riproducono, ineluttabilmente l’orientamento, la cultura, la sensibilità, lo specifico canone interpretativo dei testi normativi che adotta il giudice che le pronunzia e, se giudice collegiale, quella della maggioranza dei membri del collegio. Ebbene, come mai finora così decisamente, questi fattori interverranno a determinare il giudizio su queste due leggi. L’ingresso di tre giudici, con i loro orientamenti, le loro sensibilità, nel collegio giudicante si pone perciò come decisivo. Decisivo, per ribadire lo spirito e la lettera della sentenza n. 1 del 2014 sulla incostituzionalità del porcellum e, di conseguenza, della trascrizione delle sue disposizioni nell’Italicum. O, invece, per discostarsi da tale sentenza e chissà in che misura. Decisiva l’integrazione della Corte anche per il giudizio sul «superamento» del bicameralismo e sugli effetti che, combinandosi con l’Italicum, rispettino o violino il principio della separazione dei poteri, cardine della democrazia costituzionale.
Il Costituente non era né un ingenuo, né un ipocrita. Era ben consapevole della complessità delle esigenze da soddisfare con la scelta del modo di composizione di un organo competente a giudicare gli atti parlamentari per antonomasia, le leggi. Strutturò con molta saggezza questo organo per far sì che in esso potessero confluire le culture giuridiche derivanti dalle tre esperienze, quella giurisprudenziale, quella dottrinale, quella forense. E, quanto a queste due ultime, affidò al Parlamento il compito di provvedervi, ma gli impose il modo, quello che avrebbe garantito il più esteso consenso delle forze politiche alla scelta dei giudici. Ne derivò, mediante una convenzione rispettata per più di 40 anni, l’effettiva presenza nella Corte delle diverse culture, professionalità, sensibilità giuridiche e giuspolitiche. Diverse, non compatte.
La devastazione costituzionale che Renzi sta compiendo ha incrinato questa convenzione. Alla pluralità delle culture e delle sensibilità, al rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento, Renzi vuole sostituire l’approvazione del suo ordito istituzionale, la sicurezza che i tre eletti sostengano la legittimazione… dell’illegittimità. Mira quindi a ridurre anche la Corte costituzionale ad organo esecutivo per la legittimazione delle decisioni del «capo del governo». Il che equivale alla confessione di un delitto da parte del colpevole. I cui effetti, per ora, sono stati bloccati in 28 sedute di Camera e Senato. Come a dimostrare che, anche se di «nominati», un Parlamento può opporsi all’arbitrio, come quello di una ulteriore manomissione della Costituzione, proprio grazie al nome che porta. Per esserne degno.
Il Fatto Quotidiano, 14 dicembre 2015 (m.p.r.)
Il fronte repubblicano ha fatto scudo al Front National ieri sera al ballottaggio delle elezioni regionali in Francia. Marine Le Pen è uscita sconfitta dalle urne su tutta la linea: dopo essere arrivata in testa al primo turno in sei regioni, dopo aver sfiorato lei stessa la presidenza della macroregione del Nord, la leader dell’ultradestra resta a mani vuote e non ha vinto da nessuna parte. A fare la differenza è stato il tanto atteso risveglio cittadino.
«Poco importa che le due Le Pen non siano state elette. Il dato sconvolgente è che in alcune regioni più del 40 per cento degli elettori ha votato Front National per la seconda volta. Saremo costretti a tener conto delle esigenze e dei desiderata del Front».
La Repubblica, 14 dicembre 2015 (m.p.r.)
Adesso cambia tutto. E poco importa che le due Le Pen non siano state elette. Il dato sconvolgente è che in alcune regioni più del 40 per cento degli elettori ha votato Front National per la seconda volta, il che significa che moltissimi francesi si riconoscono nell’estrema destra. Quindi, dato che siamo in democrazia, tutto ciò che verrà fatto d’ora in poi, sul piano politico ed economico, ma anche su laicità e rapporti tra le diverse comunità, sarà pensato anche in funzione di questa parte dell’elettorato. Saremo costretti a tener conto delle esigenze e dei desiderata del Front.
Il manifesto, 12 dicembre 2015 (m.p.r.)
Meglio pagare piuttosto che fare una legge contro la tortura. Scompare dai lavori parlamentari la proposta di legge che criminalizza la tortura. Desaparecida. Non c’è traccia all’ordine del giorno della Commissione Giustizia del Senato. Era il 9 aprile 2015 quando la Corte Europea dei diritti umani nel caso Cestaro (torturato alla Diaz) nel condannare l’Italia stigmatizzava l’assenza del crimine di tortura nel codice penale italiano. Renzi aveva promesso che la risposta italiana alla Corte di Strasburgo sarebbe stata la codificazione del reato. Da allora è accaduto qualcosa di peggio che il consueto niente.
Le forze contrarie hanno trovato buoni alleati al Senato. La Commissione Giustizia di Palazzo Madama avvia la discussione di in testo già di per sé non fedele al dettato delle Nazioni Unite. A maggio calendarizza una serie di audizioni. Sono tutte di natura istituzionale. Vengono auditi, in modo informale, i capi delle forze dell’ordine e l’associazione nazionale magistrati. Manca un resoconto stenografico degli incontri. Non vengono sentite le ong, gli avvocati, gli accademici. Così, nonostante le prese di posizione favorevoli al reato da parte dell’Anm, il risultato - prevedibile - è l’approvazione di un testo che pare pensato in funzione della non punibilità dei torturatori.
Un esempio: per esservi tortura le violenze devono essere più di una. Colui che tortura una volta sola pertanto la può scampare. La lettura degli interventi dei parlamentari lascia inebetiti. La pressione istituzionale esterna ha funzionato: viene prima concordato un testo di bassissimo profilo e poi viene messo in naftalina. Siamo quasi alla fine del 2015 e la melina continua senza tema di sottoporsi al ludibrio pubblico. Ma non è finita. C’è qualcosa di peggio che il nulla.
Il governo italiano si rende disponibile a pagare fior di soldi pur di evitare una nuova condanna dei giudici europei. È notizia fresca dei giorni scorsi. Meglio pagare piuttosto che fare una legge contro la tortura. Ricapitoliamo: era il 2004, tre anni dopo Genova, quando nel carcere di Asti due detenuti vengono torturati. L’indagine questa volta va avanti. Ci sono le intercettazioni telefoniche e ambientali. attraverso il proprio difensore civico Simona Filippi si costituisce parte civile nel processo.
Si arriva al 2012.
Così scrive il giudice nella sentenza: «Dal dibattimento emergono alcuni elementi che possono essere ritenuti provati aldilà di ogni ragionevole dubbio. In particolare, non può essere negato che nel carcere di Asti sono state poste in essere misure eccezionali (privazione del sonno, del cibo, pestaggi sistematici, scalpo) volte a intimorire i detenuti più violenti. Tali misure servivano a punire i detenuti aggressivi…e a dimostrare a tutti gli altri carcerati che chi non rispettava le regole era destinato a subire pesanti ripercussioni…I fatti in esame potrebbero essere agevolmente qualificati come tortura…ma non è stata data esecuzione alla Convenzione del 1984…né sono state ascoltate le numerose istanze (sia interne che internazionali) che da tempo chiedono l’introduzione del reato di tortura nella nostra legislazione…in Italia, non è prevista alcuna fattispecie penale che punisca coloro che pongono in essere i comportamenti che (universalmente) costituiscono il concetto di tortura».
Così il giudice è costretto a non sanzionare gli agenti di polizia penitenziaria. I reati lievi per cui è costretto a procedere sono oramai prescritti. Tutti assolti ma tutti coinvolti e responsabili.
La Cassazione conferma la sentenza. Questa volta Antigone (con il proprio difensore civico) in collaborazione con Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International e con gli avvocati dei due detenuti reclusi ad Asti, presenta ricorso alla Corte europea dei diritti umani. E qui arriviamo ai giorni scorsi. Il ricorso è dichiarato ammissibile. Il Governo, pur di evitare un’altra condanna che stigmatizzi l’assenza del delitto di tortura nel codice penale (dopo il caso Cestaro-Diaz), chiede la composizione amichevole e offre 45 mila euro a ciascuno dei detenuti ricorrenti. Dunque sostanzialmente ammette la responsabilità ma preferisce pagare piuttosto che farsi condannare ed essere costretta ad approvare una legge contro la tortura. Che ne pensano il premier Renzi e il ministro della Giustizia Orlando? Che ne è della promessa del Presidente del Consiglio?
Il manifesto, 9 dicembre 2015
Difficile da credere, ma è così. Per ora ha riguardato un numero ristretto di profughi ai quali è stata negata la richiesta di asilo: in base alla nazionalità o al paese di provenienza, considerato non in guerra; o anche senza aver nemmeno accertato questo dato. È il risvolto locale della decisione di Bruxelles di distinguere tra profughi di guerra e migranti economici: i primi meritevoli di protezione, i secondi da respingere.
Una selezione da affidare agli Hot spot di Italia e Grecia, che però non sono ancora in funzione e che rischiano di trasformare entrambi i paesi in “depositi” incontrollati dei profughi che gli altri Stati non vogliono. Non ci sono soldi per pagare i voli di ritorno, né accordi con i paesi in cui rimpatriare i migranti economici, perché è silenziosamente fallito il vertice di La Valletta, il cui obiettivo era lo scambio di un miliardo e otto di aiuti – soprattutto per organizzare campi in cui internare profughi in fuga o rimpatriati – con la disponibilità dei paesi africani a bloccare quei flussi per conto dell’Europa. Per questo si ricorre ai decreti di espulsione differita.
Quanto questa misura sia non solo cinica e criminale, ma anche miope e stupida, tanto da mettere in pericolo sicurezza e incolumità dei cittadini italiani, soltanto il silenzio complice dei media riesce a nasconderlo.
Con essa l’Unione europea conta di sbarazzarsi, senza sapere come, di almeno la metà dei profughi che hanno raggiunto il suo territorio quest’anno (più o meno un milione; quanti i migranti richiamati ogni anno dall’Europa prima della crisi del 2008 e delle politiche di austerity; e meno di un terzo del necessario per mantenere in equilibrio il saldo demografico dell’Unione, in caduta verticale, e la sua vacillante economia).
Ma ciò che non è andato in porto con i paesi africani sembra invece riuscito con la Turchia: in cambio di tre miliardi – tutti ancora da stanziare, in gran parte a valere sui bilanci di renitenti Stati membri — Erdogan si impegna a trattenere in Turchia (o in un’enclave da ricavare manu militari in territorio siriano) due milioni e mezzo di profughi, in gran parte siriani, iracheni e afghani (ma molti anche subsahariani, senza contare quelli nuovi, che le guerre continueranno a creare).
Questo accordo — fortemente voluto dalla Merkel per bilanciare l’impopolarità creatale, non tanto tra i cittadini tedeschi, quanto in seno all’establishment della Grande coalizione, dall’avventata promessa di accogliere tutti i profughi siriani — è stato fatto nel momento in cui di Erdogan venivano finalmente messi in chiaro i crimini politici, le misure antidemocratiche, i finanziamenti, le armi e l’addestramento offerti all’Isis.
Pur di sbarazzarsi dei profughi l’Unione europea, proprio mentre comincia a bombardare l’Isis senza intervenire sui flussi da cui provengano i soldi, le armi e gli appoggi di cui gode, è disposta a passare sopra a tutte queste cose; e persino a riaprire le procedure di ingresso della Turchia nell’Unione.
Con questo accordo i governi dell’Unione si sono però consegnati in mano a un feroce dittatore, che ora ha a disposizione una bomba umana (a questo servono i due milioni di profughi) da scagliare contro l’Unione appena si dimostrerà poco accondiscendente con le sue richieste. I primi a farne le spese sono i Kurdi, che non otterranno più asilo in Europa non potendo più sostenere di essere discriminati, perseguitati e massacrati in Turchia.
Così i capi di Stato di tutto il mondo, e soprattutto quelli europei, accorsi a Parigi (con puntate a Bruxelles) per lanciare una battaglia che non faranno mai contro i cambiamenti climatici, ne hanno approfittato per decidere invece una guerra; che oltre a creare migliaia di vittime e milioni di nuovi profughi è, di tutte le attività umane, quella che più contribuisce alla produzione di gas di serra; anche se nel computo delle emissioni climalteranti questa minuzia non viene mai calcolata.
Renzi se ne è per ora chiamato fuori, riscuotendo le lodi di sostenitori e avversari; ma solo per tenersi mani e truppe libere per la guerra in Libia che la Nato sta preparando. Non bisogna rifare il disastro della guerra contro Gheddafi, ripete; ma non si vede dove stia la differenza con quella in programma.
Se mettiamo in fila questi episodi grandi e piccoli ne esce il quadro di una governance dell’Unione europea totalmente allo sbando: quasi una banda di ubriachi che non sa più dove andare.
Quanto basta per ridicolizzare Stefano Manservisi (una specie di badante dell’Alto Rappresentante Federica Mogherini), che concludendo giovedì scorso a Milano un convegno sul XXI rapporto dell’Ismu sulle migrazioni, aveva sostenuto che, se le politiche economiche hanno contribuito a mettere in crisi l’Unione europea, la condivisione delle misure sui migranti ne sta invece ricomponendo l’unità; aprendo la strada all’agognata unione politica…Peccato che quelle misure, oltre a essere criminali, sono inattuabili e, in alcuni casi, come l’accordo con la Turchia o l’entrata in guerra, suicide.
L’Europa allargata ai profughi e ai loro paesi di provenienza è un progetto che deve essere ripensato dalle fondamenta, costruendo innanzitutto un fronte di coloro che non vogliono rinchiudersi in una fortezza dominata dal cinismo, dal nazionalismo e dal razzismo.
Questo modo di governare, che spinge l’Unione europea verso l’insignificanza e la dissoluzione e spiana la strada alle forze antieuropeiste e razziste delle destre, evidenzia l’incapacità di misurarsi con le sfide che il pianeta e la popolazione mondiale si trovano di fronte.
Governano come se tutto dovesse continuare a scorrere come prima. La crisi climatica alle porte, e in molte regioni già in pieno corso, è solo una, e non certo la maggiore, delle questioni sul tappeto, su cui nessun uomo o donna di governo è disposto a giocarsi il proprio ruolo, e meno che mai a mettere in relazione i cambiamenti climatici con i profughi che sta cercando di tenere lontani. La guerra è un’altra quisquilia, affrontata con leggerezza e senza il minimo progetto per il dopo, per far salire di qualche punto la propria popolarità ormai irrimediabilmente a terra (come aveva fatto Blair a suo tempo; e sappiamo come è poi andata). Tutto viene deciso nella convinzione che, vinta la guerra — che in Afghanistan e in Iraq dura da anni e non si sa quando e come possa finire — governi finanza e imprese potranno continuare o riprendere gli affari di sempre.
Lo stesso vale per l’economia: la crisi sarebbe dietro le spalle perché il Pil di alcuni paesi registra un mezzo punto in più, senza considerare la scia di disoccupati, generazioni perdute, devastazioni ambientali, disperazione, miseria e rancori che l’austerity ha creato e a cui la “ripresa” non apporta alcun rimedio.
Peggio ancora per lo spirito pubblico: il pensiero unico, che è una rappresentazione vuota e falsa della realtà, ha lasciato dietro di sé, a destra, al centro e a sinistra, il deserto: una totale incapacità di raccogliere i fili di un progetto di salvaguardia del pianeta, delle vite e dei rapporti sociali tra le persone.
Siamo ormai in trincea, avendo allegramente dilapidato tutto quello di buono che avremmo potuto salvare di un’epoca ormai trascorsa. Dobbiamo prepararci a un lungo periodo di ricostruzione di una prospettiva più umana. Che il papa e la sua enciclica siano diventati un punto di riferimento non è un buon segno: perché è il risultato della miseria altrui.
Il manifesto
«TANTA ASTENSIONE NELLE BANLIEUES
LASCIATE DALLA SINISTRA»
di Giuseppe Acconcia
E proprio questa depoliticizzazione delle periferie è la causa del fenomeno dei foreign fighters?
I jihadisti non si interessano alla politica francese. Militano nei quartieri periferici ma non costruiscono un discorso politico nelle periferie. Sono anche disinteressati alla politica estera di Hollande, sebbene non abbiano mai sentito una parola seria levarsi dalla sinistra anti-imperialista. Il loro problema principale riguarda la politica interna di Hollande, la mancanza di lavoro, il discorso politico di destra di Valls.
Quindi l’avanzata del fenomeno jihadista è una conseguenza della crisi della rappresentanza democratica?
Certo, io direi della crisi della cittadinanza. Chi si dà all’Islam radicale non si riconosce nella vita politica, si sente escluso e ha interiorizzato questa esclusione. Per esempio, non ci sono partiti musulmani in Europa. A parte in Belgio, non vedo tentativi seri che rappresentino i giovani musulmani, ad esempio in tema di immigrazione.
Riguarda anche il Belgio dove gli attacchi di Parigi sono stati pianificati?
In Belgio c’è una società comunitarista: fiamminghi, da una parte, e valloni dall’altra. Anche gli immigrati si sono adeguati al comunitarismo creando la loro repubblica di Molenbeek.
Sembra poi che i più radicali nel discorso jihadista siano i convertiti?
Chi pensa che il problema sia l’Islam non riesce ad afferrare come sia possibile che non musulmani (cattolici, atei) passino al jihad. Pensano si tratti di musulmani «nascosti». Non è così. I convertiti all’Islam scelgono il salafismo: sono spesso i più religiosi tra i religiosi.
Evidentemente emerge un forte contrasto tra genitori e figli?
I giovani non sono radicati nell’Islam culturale, religioso, linguistico dei padri ma cercano il loro Islam nel discorso salafita.
È così che nascono i foreign fighters?
Si interessano all’Islam mondializzato, sono internazionalisti in un certo senso. Questa è la genialità di Is: fare appello al jihadista globale. E la risposta arriva dai lupi solitari… Il jihadismo non è un movimento di massa. Richiama individui non integrati socialmente. E nel mercato della rivolta, Is è in testa.
Perché non funziona l’alternativa dell’Islam politico?
I Fratelli musulmani non sono riusciti a creare un’organizzazione internazionale efficace. Sono un movimento gerontocratico in cui è necessario un apprendistato di cinque anni per poter parlare in pubblico. E poi non sono violenti.
La Repubblica
“È LA FINE DEL RAZIONALISMO.
MARINE PUÒ ARRIVARE ALL'ELISEO.
SI REALIZZA L'INCUBO FRANCESEl”
di Anais Ginori
Parigi.«Dopo questo voto, tutto diventa possibile: anche Marine Le Pen all’Eliseo». La Francia si è svegliata ieri mattina con quasi metà delle 13 macro-regioni segnate di blu. Jacques Séguéla non ha dormito tutta la notte. «Dopo gli attentati, per me è stato un nuovo lutto nazionale», racconta il pubblicitario esperto in comunicazione politica, già consigliere di François Mitterrand e di Nicolas Sarkozy. «Anche se il secondo turno di domenica non consegnerà il potere al Fn in tutti gli scrutini ormai il segnale è chiaro. Siamo entrati in un’altra epoca: a noi spetta capire, adattarci. Ma non sarà facile».
La Repubblica
“LA MIA VITTORIA UNA SFIDA ALLE ÉLITE.
COSì I SOCIALISTI SI SONO SUICIDATI”
di Olivier Mazerolle, Julien Absalon, Aymeric Parthonnaud
Marine Le Pen, quali sono i vostri obbiettivi per il secondo turno?
«Sei regioni su 12 e nella settima siamo in parità, perché in Normandia credo che ci separi una differenza dello 0,2%. Questo dimostra una crescita incredibile per il Front national, ma bisogna fare anche altre osservazioni. Innanzitutto il risultato molto modesto dell’Ump, che Sarkozy diceva capace di riprendere le forze sotto la sua direzione, ma non è stato così. Quanto al Partito socialista, un vero e proprio crollo, seguito da una specie di suicidio collettivo».
La risposta esatta al successo del Front National in Francia arriva da un altro mondo, il Venezuela, dove in altre elezioni e con altri problemi, Nicolás Maduro, il caudillo travolto dai suoi nemici politici, non ha evocato l’apocalisse e ha preso atto del risultato: “Noi sconfitti ma ha vinto la democrazia”.