«L’iniziativa popolare è uno strumento debole? Può essere, ma qui si entra nel campo della politica: se non si ha forza di far sentire la propria voce e capacità di mobilitare il popolo su obiettivi condivisi non c’è tecnicalità che possa supplire al vuoto».
Il manifesto, 1 luglio 2014
Vorrei avanzare alcune perplessità in merito al referendum sull’equilibrio di bilancio. Viene presentato -anche da questo giornale- come un modo per opporsi al Fiscal compact. A me non sembra. Si vogliono infatti abrogare solo le disposizioni contenute nella legge 243 del 2012 che dettano ulteriori limitazioni rispetto a quelle definite in sede europea e recepite nel nostro ordinamento “a livello costituzionale”. Non tocca (ne potrebbe mediante lo strumento de referendum) i principi introdotti nel 2012 in costituzione.
Né le altre parti della legge di attuazione che definiscono il sistema dei vincoli per il conseguimento dell’equilibrio. Scopo del referendum è, in effetti, quello di continuare a rispettare gli obblighi europei in materia di bilancio pubblico, ma si richiede che ciò avvenga in modo corretto, senza eccessive rigidità. In linea con la battaglia del Governo in Europa, la proposta è quella di una maggiore moderazione nell’applicazione di misure che – nel rispetto dei trattati e degli accordi europei di rientro del debito – permettano un’ “austerità flessibile”.
Vi è un argomento che potrebbe farsi valere per smentire -almeno in parte- la prospettiva moderata che ho richiamato. L’istituto del referendum contiene in sé un “plusvalore di senso” che tende a trascendere il significato letterale del quesito su cui si è chiamati a votare. Così è stato per il nucleare ovvero per l’acqua. Se la portata dell’abrogazione in fondo era assai limitata e riguardava solo una normativa di contorno, l’esito positivo del responso popolare ha assunto una portata generale: contro ogni politica filonucleare (per l’acqua la vicenda post referendum è più complicata).
Ciò è vero, ma è anche da tener presente che allora era chiara la posta in gioco e univoco lo spirito dei proponenti. Nel nostro caso non è così. Tra gli stessi promotori operano più che legittimamente e con il massimo della coerenza esponenti che si ripromettono di far valere semplicemente un equilibrio flessibile entro le compatibilità date in sede europea. Una eventuale vittoria referendaria sarà legittimamente figlia di un liberalismo dal volto umano, rischiando di fornire una definitiva legittimazione democratica alle attuali politiche europee. Forse un aiuto a Francia e Italia nella dialettica con la Germania, ma nulla di più. È questo ciò che si vuole?
Per senso di realismo (meglio poco che niente) può anche accettarsi una simile prospettiva, ma deve essere chiaro che in tal modo si rinuncia a cambiare l’orizzonte delle compatibilità economiche e politiche. Un’altra Europa e un’altra Italia -se vogliamo dare un senso profondo alle parole- possono nascere solo se si è in grado di ridiscutere i trattati e i vincoli economici, solo se si è in grado di proporre una strategia in cui si affermi la centralità dei diritti delle persone, solo se -in Italia- si riesce ad modificare il principio di equilibrio imposto nel 2012 da un superficiale e irruento legislatore che ha distorto gli equilibri costituzionali con la modifica dell’articolo 81.
Si comprende la sensibilità della sinistra radicale al referendum. È tramite questo strumento di partecipazione che si sono ottenute la più significative vittorie politiche e costituzionali. Il referendum del 2006 che ha sconfitto il tentativo di riscrivere in senso autoritario la nostra costituzione; quello del 2011 che ha visto affermarsi un’altra idea di sviluppo con la vittoria dell’acqua bene comune. Ma non credo che questo possa indurre a sostenere ogni richiesta al di là del merito. Anche perché temo che il rischio di deludere le aspettative sia più vicino di quanto non possa sembrare.
Ritengo infatti che i quesiti proposti siano ad alto rischio di inammissibilità. Temo cioè che non possano passare il vaglio della Consulta. Sono diverse le ragioni che mi inducono a formulare questa previsione. Alla luce della giurisprudenza costituzionale ritengo che si sia correttamente provveduto a disinnescare il rischio di una pronuncia di inammissibilità per violazione di un obbligo europeo (ed in effetti i quesiti non pongono in discussione alcun vincolo comunitario), più difficile convincere la Corte costituzionale che le norme che si vogliono abrogare non rientrino tra quelle tributarie e di bilancio che sono espressamente escluse dal referendum (soprattutto dopo l’allargamento concettuale definito con la sentenza n. 2 del 1994) ovvero che la legge 234 del 2012 che si sottopone a referendum non rientri tra quelle escluse dal referendum perché “a forza passiva peculiare”. In quest’ultimo caso la giurisprudenza costituzionale (secondo quanto deciso – in modo un po’ generico, in verità — dalla sentenza 16 del 1978) sembrerebbe voler escludere tutte quelle leggi approvate con un procedimento speciale. E la legge di attuazione dell’articolo 81 deve essere approvata con maggioranza qualificata.
Bisogna allora arrendersi al Fiscal compact? Non credo. Ci sono altri strumenti di partecipazione previsti dal nostro ordinamento costituzionale. L’iniziativa legislativa popolare è uno di questi. Essa potrebbe anche affiancarsi al referendum richiesto per segnalare una rotta diversa in grado di imprimere un reale cambiamento nelle politiche economiche e di rispetto dei diritti costituzionali. È possibile anche immaginare la presentazione di una legge costituzionale assieme ad una ordinaria d’iniziativa popolare che riescano l’una ad “aggredire” il principio dell’equilibrio finanziario posto in costituzione l’altra a interpretare in modo conforme al sistema costituzionale (all’obbligo costituzionale di assicurare i diritti fondamentali) i vincoli di bilancio “di natura permanente” che l’Europa ci impone. C’è dunque la possibilità di proporre un cambiamento anziché subire o cercare di arginare quello che proviene dalle attuali culture dominanti.
L’iniziativa popolare è uno strumento debole? Può ben essere, ma qui si entra nel campo della politica: se non si ha la forza di far sentire la propria voce e la capacità di utilizzare questi strumenti per mobilitare il popolo di sinistra su obiettivi largamente condivisi non c’è tecnicalità che possa supplire al vuoto.
Non mancano le proposte per arginare la corruzione 2.0. Ma gli ordini che vengono dall'alto, sotto la maschera del vocìo giustizialista, e sempre la stessa: andare avanti, murare, murare, murare!
Il manifesto, 28 giugno 2014
In tema di grandi opere, la corruzione è di sistema ed è stata favorita, quasi ricercata, dalle semplificazioni normative e procedurali: un processo di modifiche legislative e smantellamento di verifiche e controlli, avviatosi negli anni novanta con la TAV, proseguito con le leggi “speciali” – quali MOSE e, di recente, EXPO-, e messo a regime nel 2001 con la Legge Obiettivo per le Infrastrutture Strategiche. Logica che i Berluscones – abilissimi nel trasformare i problemi in affari – riproponevano poi in tutta la legislazione cosiddetta d’emergenza con il plauso prolungato del centro-sinistra: Rifiuti, Depurazione, Energia, Grande Commercio, fino alla Sanità.
Si istituzionalizzavano così megaentità speciali, spesso non pubbliche, che dovevano gestire in toto i grandi lavori, in luogo dei precedenti enti appaltanti e gestori,messi a punto con la legge Merloni nel post-Tangentopoli, per cui almeno erano sempre chiare le responsabilità e le competenze delle istituzioni territoriali e di quelle centrali. Adesso la megaopera veniva affidata in gestione ad un concessionario unico (EXPO, Venezia Nuova, Stretto di Messina, SITAV, ecc.), talora a prevalenza pubblica, talora privata, ma che diventava una sorta di “consumatore collettivo istituzionalizzato”, mirato a reperire e canalizzare le risorse – pubbliche e non – per le opere. A fronte di quanto stava al vincitore del megappalto, il Contraente Generale (cordata di grandi imprese il cui capofila era deciso di volta in volta dalle modalità di lottizzazione geopolitica delle opere, nell’ambito della ventina di nomi che monopolizzano appalti e spesso politiche di settore (Impregilo,Coop di costruzione, Astaldi, ecc.) e che a suo tempo avevano spinto per la TAV e poi per la messa a sistema del modello con la Legge Obiettivo. Attorno all’intreccio Concessionaria/General Contractor si formava un più ampio sistema di interessi speculativi, finanziari e imprenditoriali, che vedeva questa volta al centro gli istituti bancari e finanziari che “dovevano assicurare al Concessionario flussi di cassa rapidi”, anticipando l’erogazione di soldi pubblici, ovvero permettendo alle parti private di costruire le modalità di “project financing” o pseudo-tali, con cui dovevano anticipare risorse “da ripagarsi nel tempo” quasi sempre con “la garanzia di ripianamento” da parte dello stato.. La Legge Obiettivo, e le altre leggi speciali, peraltro escluderebbero “aumenti e varianti in corso d’opera”, salvo ammettere deroghe per “operazioni imprevedibili e emergenziali emerse in fase esecutiva”. Così è invalso il sistema di accaparrarsi gli appalti con ribassi incredibili, salvo far lievitare i costi, anche oltre i massimi prevedibili, una volta firmato il contratto.In realtà non si è semplificato nulla, ma sicuramente favorito, se non promosso, i processi corruttivi.
Le “grandi concentrazioni” imprenditoriali–finanziarie, paradossalmente all’indomani di “Mani Pulite”, si trovavano in effetti a fare i conti con sistemi politici e decisionali, indeboliti e semplificati. Indeboliti dalla drastica caduta della militanza e dalla forte riduzione delle risorse disponibili, semplificati dall’avvento dei “Partiti del Leader”, metamorfosi che da Forza Italia investiva via via tutti gli altri e – adesso – con Renzi anche il PD, che a detta di suoi stessi militanti “assomiglia sempre più al PSI di Craxi”, ai tempi in cui Giorgio Bocca scriveva “all’unico socialista che pensa con la testa sua”.
Come le carte delle vicende EXPO e MOSE ben dimostrano, basta accordarsi con pochi decisori determinanti e tutto il sistema risulta “integrato”. Con processi facilitati dall’accresciuto peso che organizzazioni da sempre “collaterali ma pesanti” nelle decisioni politiche – vedi la Massoneria – hanno riassunto nell’attualità. Peraltro il sistema lobbistico delle grandi opere trovava anche “più raffinati” meccanismi di cattura del sistema politico: sorreggeva direttamente o integrava le cordate dei leader emergenti nei vari partiti,spesso arrivando ad assumere parenti o sodali del decisore importante. Nel giro delle Grandi Opere abbiamo moltissimi di questi casi. Che creano attorno ad esse quella nuvola di imprese – molte delle quali sono solo nomi e passacarte, “accaparra” risorse, che oggi Ivan Cicconi, attento osservatore dall’interno del sistema dei Grandi Appalti, stima abbiano superato la dimensione di più di ventimila società.
Per sovrammercato, parliamo quasi sempre di opere inutili, non scaturenti da alcuna programmazione né da analisi mirate; ma “già decise dalle istituzioni rappresentative”,ovvero da una politica spesso controllata.
A Firenze proprio sulla TAV casca l’asino … renziano. Il Passante dell’Alta Velocità sotto il centro storico è un progetto devastante- oggi bloccato dalla magistratura- di super tunnel e megastazione. Per quest’ultima si decide addirittura di non effettuare alcuna valutazione ambientale: “se si fa la VIA non si fa più il sottoattraversamento” sancì l’allora ministro delle infrastrutture Matteoli salutato con favore dal centro-sinistra.
Renzi si opponeva a tutto questo. Fino a quando, diventato sindaco di Firenze, decideva di scalare dapprima il partito e poi il governo. Per questa operazione aveva bisogno di integrarsi, non di avversare, i grandi interessi lobbistici ruotanti attorno alla AV di Firenze e più in generale alle grandi opere. Dopo un lungo silenzio, eccolo vestito da ultrà: oggi invoca la ripresa dei lavori del supertunnel fiorentino. E di fronte ai clamorosi scandali EXPO e MOSE si affanna a urlare da pseudogiustizialista per coprire l’omissione dell’unica cosa da fare: annullare i contratti e interrompere i flussi di denaro. Vanno infatti proprio bloccati gli appalti: ci vorrebbe una moratoria e una revisione drastica del programma Grandi Opere. Insieme alla cancellazione della legge Obiettivo e delle altre leggi speciali di berlusconiana memoria. Invece “ i lavori non si fermano!”.
Pensiamo che il lavoro che attende lo stimato Raffaele Cantone sia piuttosto problematico: sinceri auguri.
«È partita l’operazione: “salvate le grandi opere”. Mettete pure in galera i corrotti, ma non mettete in discussione i cantieri».
Il manifesto, 28 giugno 2014
Per bonificare il terreno dalla mala pianta della corruzione basterebbe un semplice articolo di legge che dicesse: “E’ fatto divieto a qualunque impresa che ha rapporti con la pubblica amministrazione (concessioni, appalti, ecc.) di elargire denaro a chiunque e a qualsiasi titolo (contributi, sponsorizzazioni, ecc.)”. Mi verrebbe voglia di proporre a Confindustria e Governo una campagna del tipo pubblicità progresso: “Liberiamo le imprese dal pizzo ai politici”. Ma so che non la accetterebbero mai perché il fenomeno della nuova corruzione – contrariamente a quanto si affannano a dire i commentatori di regime - ha poco a che fare con la teoria antropologica delle “mele marce”.
«Si procederà a un azzeramento del codice ripartendo da un testo di 200 articoli, contro gli attuali 600, oltre che a alleggerire si pensa a più trasparenza e chiarezza».
Corriere della sera, 26 giugno 2014, postilla
postilla
La rivisitazione delle norme sugli appalti che Nencini sta coordinando sembra voglia rispondere - sotto la spinta degli scandali esplosi di recente - a recepire direttive emanate in sede europea, a razionalizzare il sistema degli appalti, anche introducendo elementi di maggiore trasparenza, infine a semplificare il sistema normativo . Non è ancora noto in che modo questi obiettivi saranno perseguiti. L’ideologia di Matteo Renzi è nota, e quindi l’attesa non può che essere trepida.
». Il manifesto, 28 giugno 2014
L’avvertenza, cordiale ma ferma, è che della politica politicante non vuole parlare. La sente, spiega, «come cosa lontana, faccio delle riflessioni, le scrivo, le rileggo e capisco che sono profondamente inattuali». Ma Fausto Bertinotti è la primo volto che viene in mente al combinato disposto delle parole ’sinistra’ e ’scissione’, ’centrosinistra’. Presidente della camera dal 2006 al 2008, poi leader della sinistra arcobaleno azzerata dalla vocazione maggioritaria. Ma prima segretario dal ’94 di Rifondazione comunista, quasi per imposizione del fondatore Armando Cossutta. Quel partito da lì ha infilato una serie di scissioni a destra e sinistra (anche Cossutta nel ’98 lo lasciò), fra sostegno e rotture con i governi di centrosinistra. Fino alla scissione della scissione, quella dei nostri giorni fra due uomini che gli sono stati vicinissimi: Nichi Vendola, a sua volta scissionista e fondatore di Sel; e Gennaro Migliore, ora vicino al Pd renzista. Una storia, e le scelte che hanno portato tutta la ’sinistra sinistra’ fino a qui — non in condizioni smaglianti — è storia di un’intera comunità. Lo incontriamo al quarto piano di un bel palazzo della Camera, sede di una fondazione — Cercare ancora — che a settembre traslocherà. Tempi duri. E non solo a causa spending review.
Presidente Bertinotti, lei sostiene ormai da anni che la sinistra non esiste più. Allora perché la sinistra continua a dividersi?
Questa divisione già dimostra che non c’è più. Quando c’era si chiamava ’scissione’. Si poteva persino evocare, lo fece Gramsci nel ’21, ’spirito di scissione’. C’è scissione se c’è, lo dico con Togliatti, ’rinnovamento nella continuità’, l’idea che da un albero può spezzarsi un un ramo e rimettere radici. Ma se non c’è continuità non c’è neanche rinnovamento, e allora la divisione è un esodo, una fuoriuscita. La storia della sinistra e del movimento operaio in Europa si è chiusa in tre cicli: la sconfitta del 900, riassunta nel crollo del Muro di Berlino; il Dopoguerra delle costituzioni democratiche, dei partiti e dei sindacati di massa, che termina con la sconfitta degli anni 80. Di qui, siamo al terzo ciclo, quei partiti si candidano a governare la modernizzazione. È il centrosinistra, una condizione ambigua e anfibia di cui in parte circola ancora l’eredità. Muore sepolto dalla nascita del capitalismo finanziario e dell’Europa reale, una tenaglia ne cancella le ultime tracce. E i partiti eredi completano la loro mutazione genetica. Erano i partiti dell’alternativa di società, diventano i partiti dell’alternanza di governo.
Renzi rappresenta il compimento di un ciclo o una ripartenza?
Renzi è un fenomeno importante. A sinistra abbiamo un tic, non accettare che i nostri avversari siano forti. Ricordiamo un vecchio carosello con Ernesto Calindri e Franco Volpi: si vedeva un aereo che volava, era la modernità, Volpi scuoteva la testa e diceva: ’el dura minga’. Renzi avvia una nuova fase: l’egemonia di una cultura postmoderna e postdemocratica, una gigantesca costruzione ideologica che copre come una coltre una realtà sfrangiata e devastata. Renzi è il portatore naturale della politica funzionale di questo nuovo ciclo, quello della governabilità come elemento totalizzante. La sua Weltanschauung è ’vincere e governare’, contro chi e per fare cosa non importa. Siamo alla morte delle famiglie politiche europee. I socialisti perdono ovunque. E invece Renzi che socialista non è — lasciamo stare la scelta governativa di aderire al Pse — non essendo socialista vince. Perché sceglie la trasversalità. È coevo a questo tempo, quello che ha sostituito lo scontro fra destra e sinistra con quello fra l’alto e il basso che noi imperfettamente chiamiamo populismo. E perché Renzi è fortissimo? Perché la sua trasversalità fonda il populismo dall’alto. È un Giano bifronte: per un lato populista, per l’altro è neobonapartista, cioè usa il populismo per plasmare il governo dall’alto. L’esito è neautoritario: un governo che si presume così, asettico, obbligato nelle scelte e privo di alternative, ’naturale’.
Eppure Renzi si presenta come un uomo di sinistra. E così viene percepito da molti suoi elettori.
No, non è vero. Persino la sua retorica è accuratamente trasversale, tanto che può permettersi alcune citazioni di sinistra. Il caso più clamoroso è l’adesione al Pse: i vecchi del Pd hanno disputato per anni se aderire o no. Era una discussione ridicola, caricaturale, ma le vecchie famiglie ancora confliggevano. Spazzate via queste famiglie, lui può aderire al Pse senza subirne il ricasco definitorio. Renzi non diventa socialista, è il partito socialista europeo che diventa renziano. La sua è un’uscita dalla storia socialista per presa d’atto della sua conclusione. Così restaura le feste dell’Unità: nessuno può accusarlo di essere comunista. Né democristiano. È trasversale.
Questa trasversalità assorbe tutto il campo della politica? A suo parere non c’è spazio per altro?
Alfredo Reichlin gli ha offerto la formula ’partito della nazione’. Ma, lo dico con rispetto, è una citazione del mondo antico. Il suo è il ’ partito del governo’. Non al governo, né di governo. La sua è una vocazione totalitaria in sintonia con questo capitalismo totalitario che ha l’ambizione di conquistare tutti al principio della competitività.
Lei, negli anni 90, è stato il fondatore, poi anche l’affondatore, dell’idea di una sinistra del centrosinistra. Non c’è più una sinistra che possa ambire a una dialettica con questa ’trasversalità’?
No, se resta nel recinto. Quel tentativo di mescolarsi è stato sconfitto. Allora c’erano due sinistre che si misuravano con la globalizzazione, con due idee opposte. Per capirci: governabilità contro altermondialismo. Era l’ultimo stadio della storia di quella sinistra, e la Rifondazione comunista era l’ultima ipotesi revisionistica. Fallita per la sconfitta e la mutazione genetica, e per il cambiamento radicale della scena prodotto dal capitalismo finanziario globale.
Posto che i vincitori hanno sempre le loro colpe, quali sono le colpe degli sconfitti, le vostre?
Le occasioni mancate. In Italia — e sto sulle ultime, non parto dall’XI congresso del Pci come farebbe Pietro Ingrao — sono almeno tre: lo scioglimento del Pci poteva essere diverso, qualche recriminazione di Occhetto che chiedeva innovazione nella tradizione aveva nuclei di verità; lì una comunità si smembra. Seconda occasione mancata, il movimento altermondialista, nel 2000 — 2001. Lì c’è il primo smacco del centrosinistra: all’avvio della globalizzazione e alla nascita dell’Europa di Maastricht neanche il tentativo timido ma interessante di Jospin viene sostenuto. Il centrosinistra italiano è tra i responsabile dell’uccisione di quel tentativo. E noi, poco dopo, e cioè all’avvento del movimento altermondialista, manchiamo l’ultima occasione, quella di devolvere ciò che era rimasto della sinistra di alternativa in quel movimento.
Lei era già il teorico del partito a rete. Sta dicendo che avrebbe dovuto fare di più, sciogliersi?
Avremo dovuto capire che il mondo dei partiti tradizionali era finito. E buttarci nel nuovo emergente orizzonte anticapitalista.
Rinunciando definitivamente all’idea repubblicana di una moderna democrazia dei partiti?
Avremmo dovuto reinventarci. I partiti attuali sono organizzazioni di ceto politico all’americana, che vive la stagione elettorale per la sola rappresentanza nelle istituzioni. E quelli così fatti, qualunque sia la loro collocazione, sono interni a un sistema neoautoritario in cui il governo è tutto. Persino Grillo che ha avuto la giusta intuizione che il sistema politico si abbatte e non si riforma, oggi viene catturato dalla logica di governo, per essere presentabile e per far parte del gioco politico .
Il sistema si abbatte da destra, nel caso di Grillo.
No, dal basso. Grillo è un sistema autoritario che tuttavia dà voce al conflitto dal basso. Così il Front di Le Pen e le formazioni populiste che intercettano il conflitto fra popolo e élite. La sinistra non c’è se non nasce da questo conflitto. Quella che pensa di rinascere nel recinto prenda atto che il recinto soffoca.
Nonostante i suoi certificati di morte, lei resta vicino alla sinistra che ci prova. Oggi a Tsipras, ieri a Ingroia. Lei è garantista: perché sosteneva un giustizialista?
Non avevo nessuna fascinazione per Ingroia, e non credo per niente a queste strade. Tuttavia se i miei parenti ci riprovano non mi metto contro. Li voto affettuosamente.
Così anche la lista Tsipras?
Qui ho un elemento in più. Tsipras mi intriga non per la nostra vicenda italiana ma perché indica una ricostruzione su scala europea invece che dalle prigioni nazionali.
Tsipras non corrisponde al suo modello: non è ’fuori dal recinto’. È un politico capace di aprire confronti con la socialdemocrazia.Mi prende su una corda scoperta, le similitudini con una certa Riforndazione sono evidenti. Ma c’è una differenza: da dove viene Syriza? Nessuno mi dica che viene dalle formazioni precedenti alla grande rivolta. Il Synaspimos, da cui viene parte di questo gruppo dirigente, guadagnava a fatica il 2 per cento. Syriza ora veleggia verso il 40. Non mi si dica che c’è una parentela.
Il Synaspismos è uno dei padri, uno dei partiti della coalizione della sinistra radicale greca.
Anagraficamente sì, ma Syriza è la dimostrazione che la sinistra può nascere solo dalla rivolta, non dalle costole dei vecchi partiti.
Torno ai suoi ’parenti’ e alle loro divisioni. Sia Vendola che Migliore sono suoi allievi, il primo anche erede di una leadership, la sua, con tratti di personalismo. Oggi si separano, ma restano entrambi convinti della possibilità di una sinistra del centrosinistra. Come spiega la distanza dal maestro?
Non direi maestro, direi che abbiamo condiviso una stessa comunità. Conosco due modelli di leadership politica: una che figlia per discendenza diretta, quando un allievo assume tutto di un maestro, atteggiamenti fisici inclusi; e una che figlia orizzontalmente, penso a Ingrao, Magri, Rossanda, i miei maestri. Si parva licet, nel caso di Nichi e Gennaro riconosco il tratto della mia direzione e qualche scampolo di me. Ma politicamente sono molto diversi. Quanto al resto, con un gruppo di amici psicoanalisti lacaniani sto lavorando a capire perché a sinistra si producono conflitti mortali diversamente dalle altre storie politiche. I socialisti e i democristiani fanno scelte opposte ma restano affratellati. Noi deflagriamo. Quando avrò una risposta le dirò meglio.
Se il treno della rivolta non passa, da noi non ci sarà più sinistra?
Ne passerà un altro. Intendiamoci, per me rivolta è rottura: Occupy Wall Street, indignados, Grecia. Anche le primavere arabe: forme di lotta dal basso senza partito e senza leader che costruiscono nuove istituzioni, al di là dell’esito. L’altro fondamento è la coalizione sociale, le tessiture extramercantili di conflitti, autonomia, autogestione, autogoverno. Il riferimento è a fine 800 inizi 900: atelier parigini, Iww negli Stati uniti. Forme di contestazione fuori dalla tradizione organizzata. Oggi in Italia i No Tav ma anche il Cinema America e il Teatro Valle di Roma, le 160 aziende autogestite, i 200 scioperanti della Maserati. Rivolta è ciò che dal basso promuove conflitto contro le élite e si manifesta come irruzione di energia e di forza.
È una rivolta nonviolenta?
Lo spero, dipenderà dalla reazione delle classi dirigenti. Io credo che ci siano le condizioni culturali perché possa esserlo. La rivolta non è per forza maieutica della sinistra. Ma è il punto di rottura necessario. Come nel ’48, e in quella cosa straordinaria e magica che fu la Comune di Parigi.
Lei per primo guidò la sinistra radicale nelle primarie. Niente più primarie ormai?
Le primarie avevano un senso finché era ipotizzabile la riformabilità della sinistra politica. Oggi sono funzionali all’ordine nuovo neoautoritario del partito del governo. La verità è che noi che eravamo avversi al riformismo siamo stati gli ultimi a lavorare per salvarlo. E invece l’hanno ucciso. E si sono suicidati.
LLa Repubblica, 27 giugno 2014
Per tentare di rispondere a questa domanda occorre cercare prima di tutto di capire da che cosa è caratterizzato il Partito di Renzi, ovvero che cosa faccia sì che i cittadini si fidino di esso molto più di quanto non si fidino del Partito democratico. Certo, le continue notizie sulla corruzione sono un fattore potente di sfiducia nella politica ufficiale, anche se non coinvolgono solo le vecchie dirigenze nazionali dei partiti ma anche imprenditori e poteri locali: cioè proprio quella parte d’Italia che sembrava meno esposta alla tentazione del malaffare perché lontana da Roma. E invece vediamo che i poteri radicati sul territorio sono forse ancora più esposti alla corruttela. Ma questa denuncia morale dei partiti tradizionali, locali e nazionali, non basta a spiegare la grande popolarità del Partito di Renzi. C’è dell’altro.
Per esempio, c’è il fatto che il Partito di Renzi ha fatto saltare la struttura della catena di comando propria del partito politico. I partiti (e questo lo si vede soprattutto nel caso del Pd, proprio perché in origine non personalistico) erano strutture collettive, aristocrazie (o oligarchie, se si vuol essere severi) che hanno fatto e condiviso scelte e che ora danno l’impressione al comune cittadino di impedire che emergano responsabilità individuali. Quando emergono, perché la magistratura indica potenziali responsabili di illeciti, è comunque troppo tardi. Al contrario del partito strutturato per collettivo, il Partito di Renzi è identificato con il suo leader e mostra al mondo la dimensione personale.
Si può dire quindi che il Partito di Renzi ha preso corpo a partire da una mentalità della responsabilità che è di tipo legale piuttosto che di tipo politico e che ha fatto breccia nell’opinione proprio per il troppo abuso della legge che ha segnato questi anni lunghi e infiniti di politica irresponsabile. È qui, in questa torsione personale (individuale) della responsabilità, in questa espansione della dimensione giuridica (e giudiziaria) che va cercata l’attrazione popolare del leader plebiscitario nell’Italia democratica post-partitica. Un’attrazione che si manifesta sia nel paese che nel Parlamento (dove il Partito di Renzi, non il Pd, fa da calamita che attrae consensi sbaragliando le opposizioni). Il Partito del leader è figlio di un’epoca che ha incenerito la responsabilità politica, la quale in una democrazia è collettiva e complessa, raramente di un leader solo al comando. È figlio di una politica le cui storture hanno portato i responsabili nelle aule di tribunale, un luogo dove ciascuno è costretto a metterci la faccia. Il problema è che questa non è la responsabilità sulla quale il partito politico può rinascere come progetto, compagine collettiva unita da una visione di paese e non solo dal magnetismo del cavallo vincente.
«500 mila firme entro 90 giorni contro il Fiscal compact. Nel comitato promotore economisti, sindacalisti, parlamentari di tutti gli schieramenti politici. Per eliminare le disposizioni che obbligano governo e parlamento a fissare obiettivi di bilancio più gravosi di quelli definiti in sede europea».
Il manifesto, 27 giugno 2014
Novanta giorni, da giovedì 3 luglio a martedì 30 settembre. È questo il tempo a disposizione del comitato promotore dei quattro referendum «Stop all’austerità, sì alla crescita, sì all’Europa del lavoro e di un nuovo sviluppo» per raccogliere 500 mila firme e convocare una consultazione popolare sul Fiscal compact, il «pilota automatico» che obbligherà l’Italia a tagliare il debito pubblico dal 133% al 60% a partire dal 2016 fino al 2036.
Composto da economisti, giuristi e sindacalisti di diverso orientamento culturale e politico, dall’ex viceministro Pdl dell’Economia, Mario Baldassarri, al sindacalista Cgil Danilo Barbi, dagli economisti Riccardo Realfonzo e Gustavo Piga, a Cesare Salvi, Laura Pennacchi e Paolo De Ioanna, ieri alla presentazione dell’iniziativa alla Camera dei deputati il comitato si è mostrato fiducioso sulla possibilità di scalare una vetta impegnativa in breve tempo. Un giurista come Giulio Salerno ritiene che i quattro quesiti referendari su alcune disposizioni della legge 243 del 2012 (la legge che ha attuato il principio di equilibrio del bilancio pubblico introdotto dalla legge costituzionale n°1 del 2012), possano essere giudicati ammissibili dalla Corte Costituzionale.
Il referendum si rivolge ad una legge ordinaria di attuazione della Costituzione e non comporterà la violazione degli obblighi contratti dal nostro paese in sede europea o in un trattato internazionale, fattispecie che non potrebbero essere oggetto di una consultazione referendaria. Secondo Giulio Salerno, pur essendo stato votato dalla maggioranza assoluta dei membri delle Camere, il pareggio di bilancio non può essere considerato una norma «rinforzata e organica». In più, non tutte le parti del pilastro dell’austerità finanziaria sono costituzionalmente vincolate. È anzi possibile abrogare i punti che non incidono direttamente sulla definizione del bilancio dello Stato.
I quattro «Sì» richiesti potrebbero modificare l’applicazione «ottusa» del principio dell’equilibrio di bilancio, eliminando alcune gravi storture introdotte dal parlamento italiano. Si vuole così eliminare le disposizioni che obbligano governo e parlamento a fissare obiettivi di bilancio più gravosi di quelli definiti in sede europea. Il referendum abroga la disposizione che prevede la corrispondenza tra il principio costituzionale di bilancio e il considdetto «obiettivo a medio termine» stabilito in Europa, una norma che non è imposta dal Fiscal compact. Vincendo il referendum, l’Italia potrebbe ricorrere all’indebitamento per realizzare operazioni finanziarie, un’azione oggi vietata. Infine, verrebbe abrogata l’attivazione automatica del meccanismo che impone tasse o tagli alla spesa pubblica in caso di non raggiungimento dell’obiettivo di bilancio, deciso dai trattati internazionali e non dall’Unione europea.
Al di là dei tecnicismi, il significato del referendum è politico. Vuole rompere l’embargo intellettuale e la paralisi politica creata dal commissariamento della politica economica da parte delle larghe intese e raccogliere un consenso diffuso sul fatto che i trattati europei vanno cambiati, non semplicemente applicati. Secondo l’economista Riccardo Realfonzo, la prospettiva indicata dal presidente del Consiglio Renzi, quella dell’«austerità flessibile», è inadeguata: «Va incontro ai Paesi in difficoltà senza però cambiare realmente il disastro prodotto dalle politiche ispirate all’”austerità espansiva” — afferma — Tra l’altro sono stati fatti errori enormi sui moltiplicatori fiscali. È scientificamente provato ormai che, ad esempio, un taglio da 10 miliardi di euro alla spesa pubblica implica una perdita di 17 miliardi di euro del Pil. Renzi vuole attenuare l’austerità invocando la flessibilità dei trattati, ma in realtà si è impegnato a raggiungere gli stessi obiettivi di lungo periodo stabiliti nei trattati. Per questo oggi abbiamo bisogno di una spinta dal basso per esercitare una pressione sul governo italiano e quelli europei. Bisogna dare un segnale forte».
Ad oggi hanno aderito alla campagna referendaria Sel e alcuni esponenti del partito Democratico. Per l’ex vice-ministro dell’economia Stefano Fassina (Pd), il referendum è l’unica strada «per salvare l’Europa» anche se il «Parlamento non è ancora consapevole della drammaticità della questione», così come lo stesso Renzi non ha «dato la sensazione di essere consapevole». Al referendum sarebbe interessato anche Gianni Cuperlo. L’ex Sel, Gennaro Migliore, passato al gruppo misto, lo sostiene. «Oggi si fa molta retorica sull’austerità – ha detto Giulio Marcon (Sel) – ma sulle scelte politiche non si fa un passo avanti. I trattati vanno cambiati, il referendum ci offre uno strumento per rilanciare il dibattito».
«Il sistema orchestrato dagli indagati ha anche alterato profondamente le regole della concorrenza ed ha inquinato sensibilmente il settore della ricostruzione privata».
Corriere della sera, 26 Giugno, 2014 (mpr)
«Come mai non c’è una voce dissontante tra i grandi media che plaudono a Renzi? La crisi ha avviato una torsione oligarchica che si riflette nel sistema dell’informazione.deplorevole stato dell’informazione politica, tra le principali concause del disastro italiano».
Il manifesto, 26 giugno 2014
Non credo di essere il solo a provare nausea per l’ossessivo martellamento sulle «riforme». Un incubo. In passato abbiamo denunciato l’abuso di questo nobile lemma del lessico politico, e l’ironia che ne ribaltava il senso. Sullo sfondo della globalizzazione neoliberista, «riforme» erano i colpi inferti alle conquiste sociali e operaie, dalle pensioni alle tutele del lavoro, al carattere pubblico di sanità, scuola e università. Non avevamo ancora visto nulla. Non avevamo immaginato che cosa sarebbe stato il mantra delle riforme al tempo del renzismo trionfante. Non c’è giornale né telegiornale che non gli dedichi il posto d’onore. E che fior di riforme! Da settimane tengono banco quelle del pubblico impiego e del Senato: la precarizzazione del primo e il ridimensionamento del secondo, trasformato in una docile Camera degli amministratori.
Prendersela con i giornalisti, si sa, non serve a molto. La corporazione reagisce nel nome della sacra libertà di stampa, che peraltro da noi non scoppia di salute. E si trincera dietro un brillante argomento: se c’è un problema, perché prendersela con chi si limita a parlarne? Peccato che le cose non siano tanto semplici. E che tra raccontare e fare – o tra fare e tacere – non corra tutta questa distanza quando ci si muove sulla scena pubblica.
L’anno scorso questo giornale condusse, solitario, una campagna contro il sistema mediatico, impegnato ad avallare la menzogna secondo cui la crisi sarebbe di per sé causa di povertà e disoccupazione. Come se fosse inevitabile affrontarla per mezzo delle misure deflattive che, ovviamente, l’hanno alimentata, e non fosse nemmeno immaginabile aggredirla redistribuendo risorse (quindi imponendo misure drastiche di equità fiscale) e rilanciando la domanda effettiva di beni e servizi. Da ultimo lo ha ammesso persino il presidente della Bce, puntando il dito sull’austerity e sulla miopia dei vertici comunitari, prigionieri della teologia monetarista. Ma nemmeno questo servirà. I tagli alla spesa resteranno il piatto forte della politica economica. Chi vive di stipendio continuerà a rischiare di perderlo e se lo vedrà mangiare dal «rigore». E la vulgata ammannita al popolo rimarrà quella del «risanamento» e dei sacrifici «necessari per i nostri figli».
Adesso, qui da noi, si è aggiunta la grande narrazione delle riforme. Per non farci mai mancare niente. Da quando «il premier Renzi» ha conquistato il Pd e palazzo Chigi e ha sbancato alle elezioni di maggio, non ci si salva più. Il racconto delle sue gesta e dei suoi progetti occupa invariabilmente gran parte dei notiziari, come al tempo del duce. Ed è come una bomba a grappolo, che dissemina veleni.
Intanto, è un racconto incomprensibile. Si dice che l’una forza politica o sindacale difende la proposta del governo mentre l’altra auspica una modifica. Ma come in un teatrino di marionette, quasi si trattasse di gusti personali. Nessuno che si azzardi a chiarire la vera posta in gioco, quali conseguenze comporti, poniamo, la non-elettività dei senatori o la facoltà di spostare di decine di chilometri, senza uno straccio di motivazione, la sede di servizio nel pubblico impiego. Quel che conta è avallare la grande diceria del cambiamento. Il governo trasforma, «cambia verso»: questo importa, e guai al disfattista che eccepisce.
Poi la retorica delle riforme assorbe, di fatto, ogni analisi del quadro economico-sociale, che evapora dinanzi al «grande cantiere» riformista. Sembra che tutto, letteralmente, ne dipenda, col risultato di oscurare tutti i problemi di un paese sempre più affannato e spaventato. Si salva, per forza di cose, il discorso sulla corruzione, troppo ingombrante per metterlo a tacere. Ma sul resto – la chiusura delle fabbriche; i contraccolpi sociali e morali della disoccupazione; la povertà delle famiglie; il degrado delle scuole, delle università, degli ospedali pubblici, delle biblioteche, del territorio – il più stretto silenzio.
Ora, la questione del funzionamento perverso di quella che ci ostiniamo a chiamare «informazione» è davvero troppo delicata e seria perché non la si torni a porre. Come mai funziona così? Come mai non c’è di fatto voce dissonante tra i maggiori organi dell’informazione scritta o parlata? La spiegazione classica – che i principali media sono per tradizione governativi – non basta, perché questo fenomeno, con queste caratteristiche totalitarie, è tutto sommato recente. Non basta nemmeno evocare la questione proprietaria, che pure va tenuta presente. I maggiori media privati, in linea di principio indipendenti, sono in mano a grandi capitalisti, certo poco interessati a un’opinione pubblica informata e potenzialmente critica. Resta che ancora dieci anni fa il coro non era unanime. Si scontravano letture diverse, fondate su diverse attribuzioni di responsabilità. Allora cos’è successo poi, perché oggi ci ritroviamo in questa situazione?
Azzardo schematicamente una spiegazione come prima ipotesi. Forse proprio la crisi ha cambiato le cose, rivelandosi, anche da questo punto di vista, un processo costituente. Dal 2007 sono in corso in tutto l’Occidente trasformazioni strutturali della dinamica produttiva che vengono modificando, a cascata, la composizione sociale e i rapporti di classe, i sistemi politici, gli assetti di potere in seno alle classi dirigenti, l’intero quadro delle relazioni internazionali.
Oggi non serve più informare e orientare l’opinione pubblica nel conflitto sociale di massa, come avveniva al tempo della prima Repubblica, sullo sfondo di uno scenario politico realmente pluralista, e ancora, benché sempre meno, sino a pochi anni addietro. Serve, al contrario, disinformare per disorientare, in modo da oscurare il processo di costituzione del nuovo americanismo e da lasciare mano libera all’azione distruttiva dei governi e dei poteri sovranazionali che dettano loro l’agenda. Serve privare il grosso della popolazione degli strumenti di decifrazione dei processi in corso e, soprattutto, prevenire la formazione di pensieri critici.
Violando la Costituzione, il governo Renzi prosegue nella politica oltranzista iniziata dai peggiori governi DC. Andreotti prosegue con la ministra Pinotti: l'Italia testa di lancia degli USA nell'area che s'affaccia sul Mediterraneo .
Il manifesto, 24 giugno 2014
Questo «modello di difesa» è passato da un governo all’altro, da una guerra all’altra sempre sotto comando Usa (Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia), senza mai essere discusso in quanto tale in parlamento. Tantomeno lo sarà ora: la ministra della Difesa — ha deciso il Consiglio supremo presieduto da Napolitano — invierà le linee guida ai presidenti delle commissioni Esteri e Difesa dei due rami del parlamento, «affinché ne possano eventualmente venire valutazioni e suggerimenti utili alla definizione del Libro bianco, di cui il governo si è assunto l’iniziativa e la responsabilità».
Resta dunque immutato l’indirizzo di fondo, che non può essere messo in discussione. Compito delle forze armate — si ribadisce nelle linee guida — è non tanto la difesa del territorio nazionale, oggi molto meno soggetto a minacce militari tradizionali, quanto la difesa degli «interessi nazionali», soprattutto gli «interessi vitali», in particolare la «sicurezza economica». Sicurezza che consiste nella «possibilità di usufruire degli spazi e delle risorse comuni globali senza limitazioni», con «particolare riferimento a quelle energetiche». A tal fine l’Italia dovrà operare nel «vicinato orientale e meridionale dell’Unione europea, fino ai paesi del cosiddetto vicinato esteso» (compreso il Golfo Persico). Per la salvaguardia degli «interessi vitali» — si chiarisce — «il Paese è pronto a fare ricorso a tutte le energie disponibili e ad ogni mezzo necessario, compreso l’uso della forza o la minaccia del suo impiego».
Nel prossimo futuro le Forze armate saranno chiamate a operare per il conseguimento di obiettivi sempre più complessi, poiché «rischi e minacce si svilupperanno all’interno di estese e frammentate aree geografiche, sia vicine sia lontane dal territorio nazionale». Riferendosi in particolare a Iraq, Libia e Siria, il Consiglio supremo sottolinea che «ogni Stato fallito diviene inevitabilmente un polo di accumulazione e di diffusione globale dell’estremismo e dell’illegalità». Ignorando che il «fallimento» di questi e altri Stati deriva dal fatto che essi sono stati demoliti con la guerra dalla Nato, con l’attiva partecipazione delle Forze armate italiane. Secondo le linee guida, esse devono essere sempre più trasformate in «uno strumento con ampio spettro di capacità, integrabile in dispositivi multinazionali», da impiegare «in ogni fase di un conflitto e per un protratto periodo di tempo».
Le risorse economiche da destinare a tale scopo, stabilisce il Consiglio supremo di difesa, «non dovranno scendere al di sotto di livelli minimi invalicabili» (che diverranno sempre più alti) poiché — si sottolinea nelle linee guida — «lo strumento militare rappresenta per il paese una assicurazione e una garanzia per il suo stesso futuro». A tal fine si preannuncia una legge di bilancio quinquennale per i maggiori investimenti della Difesa (come l’acquisizione del nuovo caccia F-35), così da fornire «l’indispensabile stabilità di risorse».
Occorre inoltre «spingere l’industria a muoversi secondo traiettorie tecnologiche e industriali che possano rispondere alle esigenze delle Forze armate». In altre parole, si deve dare impulso all’industria bellica, puntando sull’innovazione tecnologica, «resa necessaria dall’esigenza di un continuo adeguamento dei sistemi», ossia dal fatto che i sistemi d’arma devono essere continuamente ammodernati. È necessario allo stesso tempo non solo un migliore addestramento dei militari, ma un generale elevamento dello «status del personale militare», attraverso adeguamenti giuridici e normativi.
Poiché nasce dalla «esigenza di tutelare i legittimi interessi vitali della comunità», si afferma nelle linee guida, «la Difesa non può essere considerata un tema di interesse essenzialmente dei militari, quanto della comunità tutta». La ministra Pinotti invita quindi tutti gli italiani a inviare «eventuali suggerimenti» alla casella di posta elettronica librobianco@difesa.it. Speriamo che i lettori del manifesto lo facciano in tanti.
I gattopardi veneziani. Tutto venga cambiato perché tutto rimanga come prima. Pur di restare in sella.
La Nuova Venezia 3 giugno 2014
«Ecosinistre/.L'agenda politica del cambiamento in Europa non può fare a meno delle «ecosinistre» e diventa possibile solo se un'altra politica riprende il comando».
Altraeconomia.info, 13 giugno 2014
Martedì scorso Alexis Tsipras ha incontrato a Francoforte Mario Draghi. Il leader del primo partito di Grecia discute con uno dei responsabili delle politiche europee che hanno distrutto il paese. Ma potremmo anche dire che il candidato a presiedere un cambio di rotta della Commissione europea discute con l'unico potente d'Europa che sta cambiando (almeno un po') politica. È un segno di quanto sia confusa l'Europa del dopovoto, con equilibri politici incerti in Parlamento e nessun accordo sulla scelta di chi guiderà la Commissione.
È un peccato che l'italiano - nell'incontro a Francoforte - sieda dietro la scrivania del banchiere e non su un 27% di voti di sinistra. Ma per ora accontentiamoci. Non è poco un banchiere centrale che guarda da vicino che cosa si muove fuori del perimetro della «grande coalizione» di Atene e Bruxelles. È uno sguardo che dobbiamo avere anche noi. In quell'area, a Bruxelles, c'è la Sinistra europea di Tsipras e il gruppo dei Verdi, messi a confronto nel numero scorso di «Sbilanciamo l'Europa» sulla base dei consensi ottenuti e dei programmi di lavoro. In queste pagine chiediamo ad alcuni protagonisti italiani della sinistra, dell'ambientalismo, dei movimenti, di misurarsi con quell'orizzonte e con le possibilità di un lavoro comune.
Le risposte che abbiamo ricevuto nel nostro Forum delineano un quadro poco incoraggiante. Le forze che potrebbero contrastare la «grande coalizione» sono frammentate in Europa e molto esili in Italia. Sulle divisioni pesano schieramenti e ideologie, culture politiche e appartenenze nazionali. Anche in Italia l'agenda politica è ancora cucita su misura dell'identità politica di ciascuna organizzazione, anziché sugli spazi e sulle alleanze possibili. L'autoreferenzialità prevale sulle convergenze, l'interesse immediato sull'orizzonte più lungo. Per non parlare di comportamenti concreti che sono spesso scoraggianti. Eppure l'agenda politica del cambiamento in Europa non può fare a meno delle «ecosinistre». Disoccupazione di massa, disuguaglianze record e cambiamento climatico possono trovare una soluzione solo se un'altra politica riprende il comando, e mette fine al trentennio liberista. Sinistra e ambientalismo hanno bisogno l'una dell'altra per costruire l'alternativa al mercato che fa da solo. Entrambe hanno bisogno di una cultura pacifista, unico argine ai conflitti che tornano a esplodere alle porte dell'Europa: in Ucraina, in Turchia, in Bosnia e in tutto il mondo arabo.
L'altra convergenza necessaria è quella tra l'«alto» dei palazzi e il «basso» di una società in sofferenza come mai prima. Impoverimento, mancanza di prospettive, individualismo sono alla radice del populismo del M5s in Italia e della reazione nazionalista in nord Europa. Solo un'altra politica potrebbe ridurre una distanza incolmabile. Solo una democrazia praticata offre un antidoto all'antipolitica, un terreno di convergenza per i movimenti, di ricomposizione per la società, di dialogo tra le culture politiche. Se si parlano Tsipras e Draghi, perché non un confronto stabile su un'agenda comune tra i gruppi europei lasciati fuori dalla «grande coalizione»? I nostri destini sono sempre più legati a Bruxelles, e così Sbilanciamoci! e il manifesto continueranno a proporre ai lettori queste pagine di approfondimento. Ci servono strumenti per capire e energie per evitare il peggio: Sbilanciamoci! invita tutti alla scuola estiva dell'Università di Urbino per capire «L'economia com'è e come può cambiare».
Analisi convincente del rischio socialnazionalista del PMR, e proposta per evitarlo: «Comincerei dal programma, dieci, dodici punti, perché si sta insieme, e si sta insieme qui e non altrove» .
Il manifesto, 17 giugno 2014, postilla
Renzi, Grillo, Berlusconi. Il 17-18 per cento è quanto valgono, nei rispettivi partiti, i leader che ne sono, fin dalle origini, i padroni. La sfiducia nella democrazia diventa formidabile strumento di consenso con la macchina mediatica schierata al gran completo. In Italia non esiste oggi una forza di sinistra. Per questo renzismo, grillismo, berlusconismo hanno dilagato. Bisognerebbe iniziare a costruirla
Il dato più rilevante di questa breve ma intensissima fase storica resta, senza ombra di dubbio, l’affermazione elettorale (soprattutto in termini percentuali) di Matteo Renzi. Il giovane leader è arrivato a questa affermazione, come non mi stanco di ripetere, senza nessuna delle tradizionali investiture “democratiche” in uso nel sistema politico italiano dal 1945 in poi. Renzi ha iniziato la sua conquista del potere arrivando con le primarie dell’8 dicembre 2013, d’un balzo solo, alla segreteria del Pd. Da lì spicca la sua rapida ascesa al governo, con mezzi (e forzature) parlamentari, anche in questo caso fondamentalmente fuori della consuetudine e ampiamente discutibili.
Tutto ciò, però, ha ricevuto subito dopo il consenso, che suona approvativo, di un numero (percentualmente) impensabile di elettori fino a qualsiasi consultazione precedente. Questo cursus e queste coincidenze andrebbero interpretati meglio di quanto finora non sia stato fatto.
Mettendo insieme i due fattori, si spiega perché le avanzate più consistenti si siano verificate nelle ex regioni rosse (Toscana, Emilia, Umbria). Insomma, il vecchio elettorato, invece di sciogliersi nell’astensionismo, si consolida presumibilmente intorno al 23–24%; di suo Renzi vale il resto, ossia il 17–18%, più o meno quanto valgono nei rispettivi partiti quelli che ne sono fin dalle loro origini i “padroni” (Berlusconi e Grillo), così come Renzi innegabilmente lo è diventato del suo dopo questo successo elettorale.
E cioè: non solo Renzi è diventato extra legem segretario del proprio partito, e poi, subito dopo, con modalità alquanto discutibili, Presidente del Consiglio: ma, vincendo con un risultato indubitabile le elezioni, ha posto le premesse (di cui già si scorgono gli svolgimenti) perché le gare interne a quella formazione politica e in quell’area di governo in cui ha scelto di correre fossero rapidamente e per sempre liquidate.
Cercare di capire perché abbia scelto di correre in questa formazione e non in una delle altre in cui, verosimilmente, considerando il suo profilo politico-culturale, avrebbe potuto tranquillamente farlo, sarebbe un altro interessante discorso, che però si potrebbe affrontare solo con una migliore conoscenza dei fattori in causa. Com’è riuscito a farlo?
La risposta a questa domanda sarebbe essenziale per impiantare il “che fare”, di cui, con un minimo di chiarezza, avremmo bisogno. Io avanzo due ipotesi, strettamente collegate fra loro.
La prima è che Renzi non smette di promettere urbi et orbi di avere in mano (oppure di essere in grado di avere, prima o poi, ma la differenza fra il “certo” e il “probabile” non è mai avvertibile nel suo eloquio sommario) gli strumenti per far fronte alla crisi economico-sociale del paese: da questo punto di vista non risparmia le rassicurazioni e, come anticipo, allunga un po’ di soldi alla povera gente.
La seconda, meno visibile ma più profonda, è che Renzi, non meno di Grillo e di Berlusconi, ma in questo momento più credibilmente degli altri due, punta sull’innegabile crisi di tenuta democratica del paese, — lo scarso funzionamento degli organismi rappresentativi, il degrado dei vecchi partiti e del vecchio ceto politico, la corruzione dilagante, ecc., — per dire: con i miei metodi, che vanno e promettono di andare sempre di più nella direzione di un radicale superamento dell’antiquato, ormai inservibile macinino democratico, si andrà avanti molto meglio. Così lui trasforma la sfiducia e talvolta la rabbia nei confronti della “democrazia”, che è un dato reale, diffuso ovunque in questo paese, in un formidabile strumento di consenso. Lui è già di per sé un politico post-democratico: basta che lo dica o anche si limiti a farlo capire, per suscitare un moto di simpatia anche da parte di quelli che sono stati educati ad un rispetto sacrale nei confronti della democrazia.
Il gioco per ora funziona benissimo, anche perché tutta la macchina dei media è schierata come un sol uomo dietro questa prospettiva (e anche questo sarebbe da interpretare meglio e da capire).
Ma veniamo alla pratica spicciola, quella che fa vedere meglio le cose come sono: l’obiettivo principale, comunque chiarissimo, consiste nell’assoggettare al nuovo meccanismo di potere quanto, politicamente e strutturalmente, gli può risultare incongruo o resistente. Per cui facile previsione: il pubblico, anzi il Pubblico, nella sua accezione più vasta, e cioè burocrazia, magistratura, scuola, università, sanità, beni culturali, sovrintendenze, ecc. ecc., e cioè quanto è stato costruito nel corso di decenni per avere una sua propria autonomia nel concerto generale degli organi dello Stato, verrà sottoposto ad un attacco senza esclusione di colpi. Non a caso, anche in questo caso, organi di stampa e media sono impegnati in una vibrante campagna di moralizzazione per cogliere e sanzionare le colpe dei “sistemati”: guadagnano troppo, lavorano poco, sono lenti, rallentano, si oppongono al “fare”, ecc. Il fatto che in molti casi, ovviamente, questo sia anche vero non toglie rilevanza la fatto che l’obiettivo della campagna non sia far funzionare meglio il sistema, ma assoggettarlo del tutto al comando del Sovrano.
Ho seguito con grande attenzione, — ma forse un po’ troppo da lontano, le vicende della lista Tsipras, la cui affermazione, pur con molti limiti, dimostra che un punto di partenza ancora esiste. Ho polemizzato con Barbara Spinelli prima del voto, perché essa, in un’intervista al manifesto (14 maggio) additava nei grillini il punto di riferimento fondamentale post votum della nuova esperienza («ci sono molte posizioni di Grillo completamente condivisibili e fra l’altro simili se non identiche alle nostre»). La posizione, profondamente erronea, è stata portata avanti fino a un momento prima che il Movimento 5 Stelle siglasse l’accordo con gli xenofobi e parafascisti di Nigel Farage. La scelta della Spinelli di andare a Bruxelles in barba alle dichiarazioni precedenti, chiude un po’ malinconicamente la questione, e ne riapre una grande come una casa. Ora, infatti, sappiamo con assoluta chiarezza che Grillo e il grillismo sono avversari nostri non meno, e forse più, di Matteo Renzi (il che non esclude, che fra i grillini ce ne siano molti per bene e con cui si può combinare qualcosa insieme). E allora?
Hic Rhodus, hic salta. Ossia: se non si prova ad affrontare questo problema, meglio dedicarsi alle parole crociate. Quando la definisco, provvisoriamente, una seria, decente, ben radicata formazione di sinistra, non intendo la spontanea convergenza di una serie di formazioni spontanee, come in fondo è stata, — e per la parte migliore che ha rappresentato e rappresenta, — la lista Tsipras. Sono l’unico appena professore, certo, di sicuro non professorone, che ha avuto contatti diretti con la realtà vivente dei Comitati (gli altri, sovente, ne hanno parlato per sentito dire). Sono stato coordinatore per molti anni della “Rete dei Comitati per la difesa del territorio”. Insieme con altre preziose esperienze, ne ho ricavato questo convincimento: nessuna realtà politica nuova potrà fare a meno della linfa vitale che i Comitati sprigionano; ma nessun insieme di Comitati, — una Rete, ad esempio, — potrà mai da sè, e spontaneamente, mettere in piedi una realtà politica generale. Questo soggetto politico una volta si chiamava partito. Possiamo cambiargli nome. Ma la sostanza è quella.
Detto così, può sembrare un appello a fare ricorso non alla cabala ma alla Lampada di Aladino. Faccio una proposta. Da dove si comincia per cominciare la costruzione di una realtà politica nuova? Dall’alto, dal basso, dall’esistente o dal futuribile, dagli spezzoni residui del grande disastro o da quelli, più immaginati che reali, della rete in via di costruzione? Io comincerei dal programma. Dieci, dodici punti che spieghino perché si sta insieme, e si sta insieme qui e non altrove. Aspettare che la riforma renziana della politica, dello stato e dell’economia vada avanti è profondamente autolesionistico. Chi non ci sta, lo dica ed esca allo scoperto. E lavori perché le idee, se non le membra, tutte le membra, emergano finalmente dal guazzabuglio universale. Non so se la proposta abbia un senso. Ma so che è così che si fa se si vuole che ne abbia uno. In fondo, all’inizio, non si tratta che di fare una cosa semplicissima e alla portata di tutti: pensare.
il manifesto, 15 giugno 2014
<Imperversano le notizie-shock sul dilagare della corruzione e ogni giorno ci si domanda quale altro nome eccellente lo tsunami travolgerà. La realtà superando la fantasia, si attendono sorprese. È un déjà vu, il gioco di società che disegna il ritratto più fedele della società italiana ai tempi della nuova modernizzazione. Se al Viminale è stato il capo di un’associazione a delinquere e ai vertici della Guardia di finanza i garanti di un gigantesco sistema di tangenti, non potrebbe darsi che tra i registi di una mega-frode fiscale spuntino un ministro delle Finanze, un giudice della Corte dei conti, un alto dirigente della Ragioneria dello Stato?
Non accadde già ai tempi del generale Giudice o con lo scandalo delle banane del ministro Trabucchi? Si assiste perplessi alla marea provando repulsione, incredulità, indignazione. Dopodiché capita di chiedersi perché. Perché, tra i paesi europei «avanzati», la corruzione abbia eletto domicilio proprio in Italia. E perché con queste dimensioni, questa potenza, questa incoercibile forza di radicamento. La Corte dei conti parla di 60 miliardi l’anno, più o meno dieci volte il costo del miracoloso bonus Irpef. E questo ad appena vent’anni da Mani pulite, quando si pensò che la bufera avesse spazzato via, col personale politico della «prima Repubblica», un’intera genìa di malfattori. La quale invece non ha soltanto continuato imperterrita, ma ha evidentemente figliato, si è moltiplicata e ha pure raffinato le proprie competenze criminose. Insomma perché in Italia la corruzione è sistema? Al punto che il sistema seleziona i corrotti e discrimina gli onesti, mettendoli in condizione di non nuocere con la propria improvvida, anacronistica, antisistemica onestà?
C’è una prima ragione di lungo periodo. Che non è meno vera per non essere una scoperta dell’ultim’ora. La corruzione è un reato contro la collettività, una ferita ai suoi beni materiali e immateriali. Ma si dà il caso che la nostra sia da tempo immemore – già dall’eclissi dell’Impero romano – una società pulviscolare, di privati e di particolari. Nella quale la passione civile non ha messo radici, fatta eccezione per qualche sparuta cerchia intellettuale. Si capisce che qui la corruzione sia tollerata e persino ben vista, anche da chi ha soltanto da perdere non potendo praticarla in prima persona né trarne benefici. Se per un verso (in pubblico) si storce il naso, per l’altro (in privato) si è pronti ad ammirare e magari, potendo, a emulare chi la fa franca e su questa ambigua virtù costruisce fortune. Si faccia quindi attenzione alla dialettica del controllo, che quanto più è severo, tanto più gratifica chi riesca a violarlo. Controllare è indispensabile, ma non ci si illuda: non ci sarà controllo che tenga finché somma virtù sarà la valentia del filibustiere. Ma proprio in una società siffatta la politica è il cuore del problema. Non perché sia necessariamente l’epicentro della corruzione, come si ama ripetere nei salotti buoni e nelle redazioni. Anche se non va di moda dirlo, la corruzione sgorga spesso dalla beneamata società civile: pervade i mondi dell’impresa, del credito e dell’informazione, il privato non meno che il pubblico. Il cuore del problema è la politica perché, tale essendo il costume, dalla politica soltanto – in primis dal legislatore – può muovere il riscatto.
E perché quindi, dove invece la politica non si distingue dal costume e quindi lo asseconda, ne deriva inevitabile un disastro. Il rovesciamento dei valori ne trae vigore e i comportamenti anti-sociali, già legittimati dal sentire comune, ne risultano legalizzati, di nome o di fatto. Anche da questo punto di vista la storia italiana offre un quadro desolante. Si pensi ieri alla Banca Romana, ai governi della malavita, alla corruzione dilagante nel regime fascista, la cui denuncia costò la vita a Matteotti. E si pensi, nella storia della Repubblica, alla folta teoria degli scandali democristiani e socialisti, con al centro il sistema delle partecipazioni statali, le casse di risparmio, la manna dei lavori pubblici. Ciò nonostante, questa storia non è la notte delle vacche nere. In un paesaggio pressoché uniforme c’è stata una felice anomalia. E un pur breve tempo – tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso – in cui le cose parvero andare altrimenti. Si può leggere la storia del Pci, nei primi cinquant’anni della sua vita, come quella di una preziosa dissonanza: del vettore di un’etica civile laica e di una cultura politica nuove, per molti versi estranee alle tradizioni di questo paese. Per non dire al suo carattere nazionale. Gramsci lo dice a chiare lettere: il moderno principe è il catalizzatore di una «riforma intellettuale e morale» per l’avvento di una democrazia integrale. E davvero, fino agli anni Settanta, i comunisti italiani perlopiù lo furono, concependo e praticando la politica come impegno volto a far prevalere un’idea. Come una professione in senso weberiano – un «saper fare» fatto di competenza, disinteresse e senso di responsabilità – consacrata alla trasformazione della società. Poi, nel corso degli anni Settanta, le belle bandiere furono ammainate.
In questi giorni ricordiamo l’ultimo grande segretario del Pci scomparso trent’anni or sono. La figura umana e morale di Enrico Berlinguer è nel cuore di noi tutti. Ma non si dice abbastanza forte che durante una prima lunga fase della sua segreteria il partito cambiò volto. Si burocratizzò e divenne il partito degli amministratori, secolarizzandosi nel senso meno nobile del termine. Rimango dell’idea che anche di questo, che per lui fu un dramma, Berlinguer morì. Quando – avvertita la necessità di alzare il tiro contro l’arroganza dei padroni e le discriminazioni di genere, contro l’acquiescenza all’imperialismo americano e, appunto, il dilagare della corruzione – scoprì che la battaglia era da combattersi già dentro il partito, e che nemmeno qui il buon esito era acquisito. Sta di fatto che, morto Berlinguer, il Pci si normalizza e, ancor prima di chiudere i battenti, cessa di essere una contraddizione. Per questo non regge all’implosione della «prima Repubblica» né, tanto meno, si mostra capace di guidare una rinascita. Anzi viene travolto, senza un’apparente ragione. Lasciando che Berlusconi, campione di moralità, si faccia, dopo Tangentopoli, interprete della nuova modernità italiota. Siamo così ai nostri giorni. Chi fa politica oggi in Italia? E perché e come? Nella migliore delle ipotesi – scontate le debite, ininfluenti eccezioni – il politico è un tecnico senza visione. Più spesso, un addetto ai lavori che conosce soprattutto e ha a cuore la rete di relazioni che gli ha permesso di acquisire posizioni e influenza. Un esperto nella pratica del potere che vive tuttavia senza patemi il deperire del ruolo a funzioni esecutive o esornative. Sindaci, presidenti di regione, assessori si barcamenano nei vincoli posti dall’esecutivo, le cui decisioni i parlamentari ratificano. Capi di governo e ministri si attengono alle direttive europee e dei mercati. Sullo sfondo, un sistema di partiti che vivono per riprodursi senza nemmeno più ventilare l’ipotesi di sottoporre a critica questo stato di cose e di modificarlo.
Questo significa essere corrotti? In larga misura sì. E ad ogni modo si capisce che la corruzione si sviluppa molto più facilmente quando la finalità del fare politica è fare politica: restare nel giro, partecipare ai riti del potere, ritirare i dividendi dello status, utilizzare le istituzioni per intrattenere rapporti utili con la società civile. La quale, dal canto suo, ha tutto l’interesse di trovare interlocutori istituzionali comprensivi e disponibili a esaudire i suoi non sempre irreprensibili desiderata. Se è così, non c’è da stupirsi che dopo Tangentopoli le cose non siano cambiate affatto, se non in peggio. Né vi è ragione di confidare – retoriche a parte – in un’autoriforma del sistema o in una spallata rigeneratrice. Non che le masse si identifichino entusiaste con il governo in carica, come pretende la fanfara di giornali e tv. Il 25 maggio e ancora il 9 giugno hanno vinto sopra tutti la disaffezione, l’astensionismo, il vaffa strisciante. Ma contraddizioni serie attraversano il “popolo”. Il risentimento qualunquistico del «così fan tutti» è spesso solo la maschera dell’assuefazione. Il “popolo” per un verso stigmatizza questi comportamenti e invoca la gogna per i corrotti. Per l’altro, è incline a comprendere e a giustificare. A concedere attenuanti alla propria parte (sempre meno corrotta delle altre) e a tacitamente invidiare il corrotto baciato dal successo. Anche per questo il “popolo” rifugge come la peste il politico utopista e visionario, l’ideologo idealista, il cattivo maestro di un tempo che fu. Dio ci scampi. Meglio, molto meglio gli uomini del fare, proprio perché senza idee e un poco mascalzoni
« L’estromissione di ogni voce dissenziente è un vulnus irreparabile che incrina l’intero processo parlamentare».
Il manifesto, 13 giugno 2014
Per quanto riguarda il primo aspetto può dubitarsi che l’articolo 31 del Regolamento possa legittimare l’estromissione di un componente permanente designato in base a quanto stabilito in via generale dal precedente articolo 21. Quest’ultimo, infatti, chiarisce che spetta a ciascun gruppo comunicare alla presidenza del Senato i propri rappresentanti nelle commissioni e che queste sono rinnovate «dopo il primo biennio». Sembrerebbe dunque che l’indicazione dei gruppi debba essere tenuta ferma per almeno un biennio, anche per garantire una certa continuità nei lavori. In questo quadro si colloca l’articolo 31 che prevede invece la possibilità di «sostituzione» (non di «destituzione»), anche in via transitoria, dei rappresentanti assegnati alle commissioni.
La ratio della norma, nonché i precedenti, chiariscono che — proprio a garanzia della continuità dei lavori delle commissioni e della possibilità di far acquisire “ulteriori” competenze in casi particolari — la sostituzione opera essenzialmente in due casi. Qualora un componente designato assume diversi ruoli (ad esempio diventa ministro o viene eletto al parlamento europeo), non potendo più garantire l’impegno necessario per svolgere al meglio il suo incarico, ovvero qualora, per casi particolari, si ritenga che un diverso componente del medesimo gruppo parlamentare possa fornire un contributo “aggiuntivo” e più conforme alla materia da decidere rispetto al membro “sostituito”.
Questa disposizione del Regolamento del senato, dunque, è nata per estendere le competenze e la funzionalità delle commissioni, non come strumento disciplinare nei confronti dei dissenzienti. D’altronde, può dubitarsi che la “sostituzione” si possa ottenere senza il consenso dell’interessato. Com’è avvenuto nei casi di Mauro e Mineo.
Si è assegnato in tal modo un potere assoluto di disporre dei singoli parlamentari agli organi direttivi dei gruppi, venendo a ledere i diritti dei singoli senatori. Non solo quelli definiti dai Regolamenti parlamentari, ma anche quelli direttamente deducibili dal testo della Costituzione.
In particolare, sul secondo aspetto, c’è da chiedersi cosa rimanga del libero mandato (articolo 67) se l’attività politica del parlamentare, con una decisione estemporanea e punitiva del gruppo di appartenenza, può essere impedita, ostacolando irrimediabilmente l’esercizio delle sue essenziali funzioni. L’estromissione da una commissione non può essere giustificata da una presunta indisciplina nei confronti della linea di un gruppo, ovvero di una maggioranza politica. I parlamentari, secondo Costituzione, rappresentano la nazione e — tanto più in materia costituzionale — non sono vincolati alla disciplina di partito.
Per quanto riguarda infine i riflessi sul sistema politico complessivo ci si può limitare a ricordare che le logiche parlamentari negli ordinamenti democratici devono essere improntate al confronto. Era Carl Schmitt che, nel disprezzo del carattere pluralistico dell’ordinamento democratico, affermava non ci si potesse fermare dinanzi «al teatro della divisione», considerando in fondo un bene che la maggioranza decidesse per la minoranza, poiché, in fondo, è un «assioma democratico» quello che stabilisce l’assorbimento delle voci dissenzienti nell’unica volontà espressa nella decisione della maggioranza. Com’è noto, Hans Kelsen aveva una diversa idea di democrazia, secondo la quale solo coinvolgendo le minoranze entro il processo di decisone collettiva la volontà parlamentare può assumere una sua legittimazione democratica. Più importante della decisone stessa è il modo con cui si decide e l’estromissione di ogni voce dissenziente è un vulnus irreparabile che incrina l’intero processo parlamentare. Un dibattito del secolo scorso. Siamo ancora lì.
Il manifesto, 13 giugno 2014
E così, secondo le leggi della nuova monarchia (anticostituzionale), l’incompatibile senatore Mineo è stato epurato e al suo posto immediatamente nominato il capo-gruppo Zanda, proprio quello che a ogni forzatura berlusconiana sbandierava l’articolo 67 della Costituzione sul non vincolo di mandato. Ma la maldestra operazione-pulizia si è presto trasformata in un boomerang, e da uno i ribelli sono diventati quattordici, tutti autosospesi dal gruppo parlamentare del Pd.
Con una simile ostentazione di arroganza, il presidente-segretario ha voluto mettere in chiaro che se in parlamento e nel suo partito qualcuno ancora insiste per emendare il salvifico progetto di riforma che tutto il mondo ci invidia, allora scatta il «renzismo-stalinismo» (copyright di Mineo), anche a costo di procedere a colpi di risicata maggioranza, con un solo voto di differenza in commissione. Al grido di «non ci fermiamo» (Boschi) e sotto la bandiera del «no al diritto di veto» (Renzi), sventola orgogliosa l’idea di questi neo-unti del «conta il voto degli elettori», di fronte al quale il parlamento è un residuato che va rapidamente neutralizzato in forza del plebiscito elettorale (che, in ogni caso, né ha eletto Renzi, né era convocato sulle riforme costituzionali).
Al coro degli yesmen del Pd (tra i quali molti ex alfieri della «ditta» bersaniana) si sono unite voci grilline come quella del vicepresidente della camera, Di Maio, coerentemente plaudente («se un membro del gruppo vota in dissenso rischiando il sabotaggio con il suo voto, è giusto prendere provvedimenti»). Limpida sintesi dove il «dissenso» diventa «sabotaggio», così come il «voto» diventa «veto» se non sei conforme alla maggioranza di partito. È in questo modo che funziona la nuova politica dei rottamatori. Anche se poi Grillo tenta una maldestra difesa di Mineo tanto per dare una botta a Renzi (senza nemmeno avvertire il povero Di Maio). Del resto che Renzi e Grillo siano più concorrenti che avversari lo abbiamo visto molto chiaramente nella competizione elettorale con quella corsa forsennata a chi era più «anti» (anti-tasse, anti-sindacati, anti-partiti …). Semmai bisogna dire che la pratica delle espulsioni, dopo quella dello streaming, Renzi l’ha copiata proprio dall’ex comico.
«La priorità assoluta nel Paese non è certo intralciare il lavoro dei magistrati con un “colpo di mano” La priorità è ripristinare lo Stato di diritto»: ma saeà mai possibie con questi parlamentari?
La Repubblica, 12 giugno 2014 (m.p.r.)
Che altro giudizio si può dare, sulla norma che reintroduce la responsabilità civile «diretta» dei magistrati, inasprendo le sanzioni per gli errori commessi nell’esercizio della funzione? Un emendamento della Lega, ricalcato dal testo di un disegno di legge che l’allora Pdl provò più volte ad imporre nella passata legislatura, ora improvvisamente agganciato all’iter della legge europea 2013-bis e inopinatamente approvato dalla Camera. Contro il parere del governo e della maggioranza. Ma a scrutinio segreto, e dunque con il contributo fattivo di almeno 50 franchi tiratori che al riparo dell’urna hanno deciso di votare insieme al centrodestra e di scompaginare il fronte del centrosinistra.
La priorità assoluta nel Paese non è certo intralciare il lavoro dei magistrati con un “colpo di mano” La priorità è ripristinare lo Stato di diritto
In Laguna i drammi s'intrecciano. Lotta contro il minacciato Canale Contorta, discussione sullo scandalo Mose-Orsoni. Felice Casson dice cose sagge sul Mose ma non comprende che a Ca' Farsetti bisogna cambiare tutto e subito.
Il manifesto, 8 giugno2014
La rete da cantiere «sigilla» la Marittima. Il people mover s’inceppa al Tronchetto e viaggia a vuoto. La carovana dei crocieristi per quattro ore resta bloccata. Con le sagome delle «città galleggianti» affidate alla protezione delle forze dell’ordine.
In un migliaio hanno sfidato la massima calura riverberata da asfalto e cemento, pur di dar fiato alla Venezia che si specchia nella laguna e oggi nell’edizione numero 40 della Vogalonga con 1.800 imbarcazioni iscritte. Qui, da sempre, si rispetta l’equilibrio fra terra e mare, acqua dolce e salata, idraulica della Serenissima e flussi invisibili. Qui si voga, non solo in gondola sul Canal Grande, e si impara a non turbare la «grande bellezza» che resiste da secoli. Ma l’estate 2014 di Venezia è un mare di guano: il municipio senza sindaco, con il centrosinistra diviso su come girare pagina; la Biennale di Architettura inaugurata con la notizia di 35 arresti più un centinaio di indagati per lo scandalo Mose che fa il giro del globo; la cartolina del business turistico che fatica ad andare in porto.
La Grande Opera da 5 miliardi (tangenti, concussioni e «stipendi paralleli» incorporati) ha nutrito i cannibali di «Venezia Nuova», delle imprese fuori mercato e dei politici sussidiari al sistema della concessione unica. Le Grandi Navi rappresentano l’altra faccia della stessa medaglia: lo stupro della città-pesce con lo strascico di lobby, monopoli e affari. Così in piazzale Roma si srotola l’enorme striscione che era stato issato sul campanile di piazza San Marco: tornano protagonisti comitati, centri sociali, ambientalisti e semplici cittadini. Alle 14 si paralizzano il terminal, il ponte della libertà e i trasporti: parte solo il corteo che restituisce musica, cori e bandiere.
«Questa è l’ennesima lotta a cui sono chiamati tutti coloro che al di la delle parole nei fatti combattono la pioggia di abusi che si compie quotidianamente in questa città: dal malaffare intorno al Mose fino alla gestione del Porto» commenta Camilla Seibezzi, consigliera comunale della lista In Comune. La manifestazione scollina verso la rotonda all’ingresso della Marittima: #tuttigiuperterra. Per ore non si passerà più attraverso la rete dei corpi. I «mostri del mare» aspetteranno crocieristi con armi e bagagli, abbandonati al loro destino. Polizia, finanzieri, vigili controllano con discrezione. Qualche automobilista scalpita e qualche turista prova a farsi largo bruscamente, ma il blocco viene sostenuto dalla «delegazione» che ha appena paralizzato la monorotaia che collega piazzale Roma al Tronchetto.
Confusi fra i manifestanti, il senatore M5S Giovanni Endrizzi e il serenissimo autonomista Franco Rocchetta (arrestato il 2 aprile con altri 24 “indipendentisti veneti” accusati di terrorismo) mentre una mezza dozzina di Raixe Venete regge lo striscione e i bandieroni con il leone alato. Poco lontano la delegazione di Rifondazione con il consigliere regionale Piero Pettenò e quello comunale Sebastiano Bonzio. Ad assediare la Marittima anche i Comitati Opzione Zero della Riviera del Brenta minacciata dalle solite colate di cemento e Legambiente che ha prodotto eloquenti dossier sul “modello veneto” formato affari & politica. Beppe Caccia, con la testa protetta dall’elegante panama, esibisce l’interrogazione presentata a Ca’ Farsetti il 9 novembre scorso. Si legge testualmente: «Vi è il concreto rischio che — in caso di approvazione dello scavo del canale Contorta Sant’Angelo — la realizzazione di tale opera per un valore compreso tra i 200 e 350 milioni di euro sia affidata senza alcuna trasparente procedura ad evidenza pubblica al Consorzio Venezia Nuova». A beneficio della rotta delle Grandi Navi, il presidente del Porto Paolo Costa (ex sindaco e rettore, ex europarlamentare Pd e commissario per la super-base Usa a Vicenza) conta di “allargare” l’attuale canale 4x2 metri fino a 200x10. E insieme al Magistrato alle Acque si sarebbe affidato a Protecno Srl, società di Noventa Padovana, e alla coppia di ingegneri Daniele Rinaldo (già direttore in vari cantieri del Cvn) e Maria Teresa Brotto (ex ad di Thetis arrestata il 4 giugno).
Poco dopo le 18, il blocco si conclude con il sound system che accompagna le bandiere No Grandi Navi di nuovo in piazzale Roma. Davanti ai cancelli del porto turistico restano i falò che fuori stagione ricordano un po’ la Befana della sussidiarietà. Sul pelo dell’acqua Venezia si sente finalmente un po’ più libera dal cappio delle cricche, pronta a scacciare l’incubo dei “Tir del mare” con il varo della nuova festa del popolo del remo.
La gravità politica di quello che è successo riguardo al Mose è ben peggiore dei fatti rilevanti da un punto di vista giudiziario”. Felice Casson, celebre magistrato veneziano, oggi senatore del Pd, è convinto che la lunga vicenda del Mose avrà nuovi sviluppi anche al di là dell’inchiesta.
Per vent’anni i magistrati sono sembrati gli unici in grado di cambiare l’Italia e invece a scadenza regolare ci troviamo di fronte agli stessi fenomeni. Come se ne esce?
Ho sempre detto che la magistratura non può risolvere problemi sociali, economici e politici come il terrorismo, la piega della criminalità organizzata, i crimini ambientali e la corruzione. Avere delegato questa missione salvifica solo nelle mani dei magistrati è stato un errore. Per questo a distanza di vent’anni si ritrovano le stesse persone al centro dei traffici corruttivi. Sono sempre stati lì: la corruzione è dilagata, è solo cambiata grazie a meccanismi sempre più sofisticati.
Cosa si può fare sia dal punto di vista normativo che sul piano etico e politico?
Se avessimo affrontato il tema nei decenni scorsi al posto di eluderlo ora avremmo formato generazioni educate al rispetto della legalità e dell’etica sociale. L’educazione è fondamentale, non produce risultati immediati ma è un investimento sul futuro. Non si può scaricare tutto sui magistrati, ma neppure solo sulla scuola, sulla politica o sul volontariato. Ognuno deve fare la propria parte.
Per Renzi il problema non sono le leggi ma i ladri. Così non si rischia di scivolare su un piano prepolitico, è davvero e solo una questione morale più che politica?
Il ruolo della parte normativa è importante. Ad esempio credo che la legge Severino sia largamente insufficiente e che vada rivista. E quello che stavamo facendo in commissione giustizia al Senato ma ci siamo dovuti fermare dato che il governo ha annunciato la presentazione di un disegno di legge.
Ieri Renzi ha annunciato provvedimenti nel giro di poche settimane eppure da più parti si aspettavano interventi più rapidi. Come spiega i ritardi e come giudica questi annunci?
Qui si va proprio al nodo politico della questione. Condivido il fatto che non si indulga alla tentazione dei continui spot. Ma Renzi ha il problema di convincere la sua maggioranza che in tema di giustizia quasi sempre si spacca. Ncd vota con Forza Italia e Lega e le riforme passano solo con l’appoggio di Sel e M5S. Parlo delle leggi berlusconiane da rifare come il falso in bilancio.
Il governo ha anche il problema di realizzare le opere, belle o brutte che siano. Un New deal italiano è molto complicato se la spesa pubblica finisce in corruzione.
Bisogna valutare opera per opera. Sul Mose credo sia necessaria una valutazione scientifica che non c’è mai stata: tornare indietro è difficile, i lavori sono stati già fatti all’86%, ma la manutenzione da sola costa 25–25 milioni all’anno. Una riflessione è necessaria.
Come vive il fatto che in queste inchieste siano coinvolti anche personaggi vicini al Pd?
Molto male. Incontro cittadini arrabbiati. Bisognerebbe cominciare ad applicare con rigore le regole che si è dato il Pd, per esempio dare un limite al rinnovo dei mandati e farla finita con i doppi incarichi.
A Venezia si deve tornare al più presto alle urne?
Il sindaco farà le sue scelte ma ora la maggioranza deve assumersi la responsabilità di tutelare i veneziani. Bisogna approvare il bilancio e garantire i servizi sociali. La formula conta poco e anche la data delle elezioni.
Si parla già del prossimo sindaco, qualcuno ha fatto il suo nome o quello dell’assessore all’ambiente Gianfranco Bettin, che ne pensa?
Decideranno le primarie, ci sono già 5 o 6 candidati. Io non sono fra loro. A me piace il mio lavoro in Senato.
Un titolo fuorviante, che è anche la rivelazione di in problema, che non si chiama Barbara Spinelli, ma rapporto tra società e partiti, "buoni" o "cattivi che siano.
Il manifesto, 8 giugno 2014. con postilla
Sinistre. La capolista siederà nel Gue a Strasburgo. Escluso il giovane candidato di Sel Marco Furfaro. La notizia arriva da Parigi alla fine dell’assemblea. Che le chiedeva un confronto
Quello che comporta è l’elezione di Eleonora Forenza, Prc. E l’esclusione del giovane Marco Furfaro, di Sel, che non è un complimento per un partito che sulla scommessa della lista Tsipras si sta giocando la tenuta interna. «Sono certa che i tanti elettori di Sel», scrive Spinelli, «approveranno e comunque accetteranno una scelta che è stata molto sofferta», «conto non solo sulla loro fedeltà alla lista ma sulla loro partecipazione immutata al progetto iniziale, che ha come prospettiva un’aggregazione di forze alternativa all’odierno centro-sinistra e alle grandi intese».
Quello che succederà davvero lo si vedrà nelle prossime ore. Certo è che la decisione arriva ’a prescindere’ dalla lunga e travagliata discussione che si era consumata nella giornata di ieri alla Sala Umberto, dove si erano riuniti i comitati della lista Tsipras per discutere delle prossime mosse. Una discussione durissima, segnata dall’assenza di Spinelli — da dieci giorni ritirata a casa sua a Parigi, con pochi contatti con i ’garanti’ della lista, che pur avendole chiesto di accettare il seggio hanno contestato la sua riflessione solitaria, «unilaterale», aveva detto Marco Revelli. E va anche detto che mentre a Roma dal palco sfilava lo «Psico-Tsipras», come titola Huffington Post, in tutt’altra atmosfera alla festa del quotidianoRepubblica, a Napoli, Curzio Maltese, anche lui eletto (in forza della rinuncia di Moni Ovadia), anche lui assente dal dibattito romano, già anticipava la scelta.
Dibattito duro. La platea si divide fra chi chiede a Spinelli di restare a qualsiasi costo, chi — di più, soprattutto i giovani — «non capisce perché lei non voglia discuterne con noi», Luca Spadon, già portavoce di Link, «innescando una disumanizzazione in rappresentanti di partiti di due ragazzi in prima fila nelle lotte contro la precarietà e per l’università. Al prossimo passo dobbiamo arrivarci tutti assieme». «La politica in cui tutto rimane sottinteso è vecchia politica», spiega Jacopo Argilli. La questione generazionale a metà assemblea esplode, dal palco i ragazzi attaccando: «Non si è autorevoli solo se si hanno più di 65 anni e una cattedra». Ma non è neanche un derby giovani-vecchi, negli interventi rimbalza il tema del «prendersi cura» di una creatura politica nascente.
Lei sa «che molti sono delusi: il proposito espresso all’inizio di non andare al Parlamento europeo sarebbe disatteso, e questo equivarrebbe a una sorta di tradimento. Non sento tuttavia di aver tradito una promessa. I patti si perfezionano per volontà di almeno due parti e gli elettori il patto non l’hanno accettato, accordandomi oltre 78mila preferenze», e crede anzi con il suo ripensamento di «proteggere la lista» dalle «logiche di parte. Proprio le divisioni identitarie che si sono create sul mio nome mi inducono a pensare che la mia presenza a Bruxelles garantirebbe al meglio la vocazione, che va assolutamente salvaguardata, del progetto — inclusivo, sopra le parti — che si sta costruendo».
Sono risposte che non rispondono alle domande poste dal palco romano, né potrebbe essere diversamente: Spinelli non le ha ascoltate.
E quell’allusione a una forza «alternativa al centrosinistra» suona come un messaggio a Sel, che pure scommettendo sulla lista Tsipras non ha chiuso con l’idea di un ancora possibile centrosinistra.
Intanto il costituzionalista Stefano Rodotà a Roma benedice la lista e chiede di andare avanti sulla strada unitaria: non dividere «l’Altra Europa» dall’«Altra Italia», «ricostruire una cultura politica non astratta ma innervata nel lavoro sociale. Ma un primo tratto, straordinario, è stato fatto. Io, per quello che posso, proverò a starci dentro», annuncia. «Dobbiamo costruire una coalizione sociale», spiega il giurista, e ne snocciola una bozza di programma: cambiare l’art.81, ovvero il pareggio in bilancio in Costituzione; via l’art.8 della legge Sacconi, ovvero le deroghe ai contratti nazionali; opposizione «a una riforma costituzionale che porterà a una nuova divisione fra cittadini e istituzioni»; «ricostruzione morale» della cultura della sinistra, che è «incompatibile con le intese larghe, strette, corte o qualsiasi esse siano». È lo slancio che in molti aspettavano da mesi. Dal palco arriva anche il sì di Francesco Campanella, ex M5S, a testimonianza che la compagnia si potrebbe allargare. Ma la partenza è amara.
La lettera con la quale la promotrice della lista europeista critica italiana ringrazia e spiega perche e come prosegurà la sua battaglia. 7 giugno 2014, con postilla
Cari tutti, cari elettori, cari candidati e garanti della Lista “L’Altra Europa con Tsipras”,
ho molto meditato quel che dovevo fare, in considerazione della domanda sempre più insistente che veniva dagli elettori e da un gran numero di candidati, e ritorno sulle mie decisioni: accetterò l’elezione al Parlamento europeo, dove andrò nel gruppo GUE-Sinistra Europea, ripromettendomi di garantire la fedeltà al primo manifesto della Lista italiana «L’Altra Europa con Tsipras» e ai 10 punti di programma che abbiamo proposto agli elettori. Sin dalla conferenza stampa del 26 maggio avevo lasciato in sospeso la mia decisione: e non solo perché sorpresa dalla quantità di preferenze ma anche in considerazione del fatto che la situazione politico-elettorale stava precipitosamente cambiando.
La linea maestra alla quale intendo attenermi è di operare nel Parlamento europeo – e anche nella comunicazione scritta, come rappresentante degli elettori europei – per una politica di lotta vera all’ideologia dell’austerità e della cosiddetta «precarietà espansiva», alla corruzione e alle minacce mafiose in Italia; per i diritti dei cittadini; per la realizzazione di un'Europa federale dotata di poteri autentici e democratici: quell'Europa che sinora, gestita dai soli governi in un micidiale equilibrio di forze tra potenti e impotenti, è mancata ai suoi compiti. Il Parlamento in cui intendo entrare dovrà, su spinta della nostra Lista e delle pressioni che essa eserciterà in Europa e in Italia, essere costituente. Dovrà lottare accanitamente contro lo svuotamento delle democrazie e delle nostre Costituzioni, a cominciare da quelle italiane e dal vuoto democratico che si è creato in un’Unione che non merita, oggi, il nome che ha.
Mi ha convinto a cambiare opinione anche la lettera di Alexis Tsipras. La domanda che mi rivolge di accettare il risultato delle elezioni è per me decisiva e – ne sono certa – lo sarà per la Lista nel suo complesso. Alle innumerevoli sollecitazioni ricevute dall'interno (garanti, elettori, comitati, candidati) si aggiungono infine sollecitazioni dall’esterno (deputati del GUE e non solo).
So che molti sono delusi: il proposito espresso all’inizio di non andare al Parlamento europeo sarebbe disatteso, e questo equivarrebbe a una sorta di tradimento. Non sento tuttavia di aver tradito una promessa. I patti si perfezionano per volontà di almeno due parti e gli elettori il patto non l'hanno accettato, accordandomi oltre 78.000 preferenze. Mi sono resa conto, il giorno in cui abbiamo conosciuto i risultati, che sono veramente molti coloro che mi hanno scelto neppure sapendo quel che avevo annunciato: anche loro si sentirebbero traditi se non tenessi conto della loro volontà. Inoltre, come garante della Lista, ho il dovere di proteggerla: le logiche di parte non possono comprometterne la natura originaria. Proprio le divisioni identitarie che si sono create sul mio nome mi inducono a pensare che la mia presenza a Bruxelles garantirebbe al meglio la vocazione, che va assolutamente salvaguardata, del progetto – inclusivo, sopra le parti – che si sta costruendo.
Per quanto riguarda la scelta che sono chiamata ufficialmente a compiere, annuncio che essa sarà in favore del Collegio Centro: è il mio collegio naturale, la mia città è Roma. È qui che ho ricevuto il maggior numero di voti. A Sud non ero capolista ma seconda dopo Ermanno Rea, e da molti verrei percepita come «paracadutata» dall’alto. Mi assumo l’intera responsabilità di quest’opzione, che mi pare la più giusta, nella piena consapevolezza dei prezzi e dei sacrifici che essa comporterà.
La mia più grande gratitudine va a Marco Furfaro [che le sarebbe subentrato per la circoscrizione Centro - n.d.r.] per la generosità che ha messo nella campagna e che spero dedicherà ancora all’avventura Tsipras. Sono certa che gli elettori delle più diverse tendenze, battutisi con forza per la nostra Lista, approveranno e comunque accetteranno una scelta che è stata molto sofferta, visti i costi che saranno sopportati dal candidato del Centro designato come il primo dei non eletti. Conto non solo sulla loro fedeltà alla Lista ma sulla loro partecipazione immutata al progetto iniziale, che ha come prospettiva un’aggregazione di forze (di sinistra, di delusi dalla presente democrazia rappresentativa, di emigrati nell’astensione) alternativa all’odierno centro-sinistra e alle grandi intese.
Augurando a tutti voi e noi il proseguimento di una battaglia unitaria e inclusiva al massimo, vi saluto con grande affetto e gratitudine,
«La Nuova Venezia, 6 giugno 2014
Vent'anni fa la reazione a Tangentopoli fu forte e generò, fra l'altro, una buona legge sugli appalti, la legge Merloni del 1994, che restituiva trasparenza ai lavori pubblici e all'edilizia, fonti di corruzione diffusa, anche a livello locale.
Adesso comprendiamo meglio perché chi comanda vuole mettere la museruola a chi protesta contro le grandi opere inutili e dannose, e pretende di superare con le deroghe le procedure di garanzia. Ma vedrai che la lezione non verrà compresa da chi decide.
Corriere della sera, 5 giugno 2014
«Votatelo, pesatelo, se sbaglia impiccatelo», diceva un antico adagio veneziano. Certo, se anche le accuse contro Giorgio Orsoni, Giancarlo Galan e gli altri politici e affaristi coinvolti nell’inchiesta trovassero conferma nei processi e nelle sentenze, nessuno pretende corda e sapone. Il quadro di corruzione disegnato dai giudici, però, è così vasto da imporre finalmente una guerra vera, non a chiacchiere, contro la mazzetta
L’«affare» del Mose è esemplare. Perché c’è dentro tutto. C’è dentro lo spaccio dell’«emergenza», dei lavori da fare a tutti i costi in tempi così drammaticamente rapidi da non consentire percorsi lineari nei progetti, nella scelta degli esecutori, nelle gare d’appalto, nelle commesse. Risultato: di fretta in fretta sono passati 31 anni, nove volte di più di quelli bastati alla Cina per fare il ponte di Donghai, che coi suoi 32 chilometri a 8 corsie sul mare collega Shanghai alle isole Yangshan.
C’è dentro l’idea della scorciatoia per aggirare (non cambiare: aggirare) le regole troppo complicate con la creazione d’un concessionario unico, il Consorzio Venezia Nuova che, dopo tre decenni passati senza lo straccio di una concorrenza e dopo essere stato così pesantemente coinvolto negli scandali coi suoi massimi dirigenti, giura oggi d’essere estraneo alle brutte cose e pretende di presentarsi come una verginella al primo appuntamento.
C’è dentro quel rapporto insano tra la cattiva politica e il cattivo business così stretto da chiudere ogni spazio ai controlli veri sui costi, sui materiali, sugli uomini, sui tempi. Basti ricordare l’impegno preso dall’allora vicepresidente del consiglio Gianni De Michelis il 4 novembre 1988, quando dopo anni di tormentoni fu presentato il prototipo del Mose: «La scadenza? Resta quella del 1995. Certo, potrebbe esserci un piccolo slittamento...». Sono passati quasi vent’anni, da quella scadenza: ci saranno anche stati degli intoppi, ma cosa succederebbe, in Germania o in Olanda, se lo Stato si sentisse preso per i fondelli sui tempi in modo così sfacciato? E cosa direbbero i leghisti da tre lustri al governo del Veneto se un cantiere interminabile come quello del Mose fosse ancora aperto dopo tanti anni a Reggio Calabria o a Napoli?
C’è dentro il disprezzo per i pareri discordanti e più ancora, alla faccia del chiacchiericcio federalista, per le opinioni del Comune, tagliato fuori da decisioni prese altrove: «Sinistra e destra, sul Mose, erano d’accordo, e io sono rimasto inascoltato», ha accusato più volte, negli anni, Massimo Cacciari. Ieri l’ha ripetuto: «Le procedure erano tali che da sindaco io non potevo toccare palla». Una linea verticistica che la Serenissima non avrebbe accettato mai. Al punto di pretendere, se c’erano di mezzo opere idrauliche, che oltre a quello degli ingegneri si sentisse il parere di «otto pescadori» e cioè «due da S. Nicolò, uno da Sant’Agnese, uno da Muran, due da Buran e due da Chiozza».
E poi c’è dentro, in questa brutta storia, il continuo rincaro delle spese, la peste bubbonica delle nostre opere pubbliche: doveva costare un miliardo e trecento milioni di euro attuali, il Mose. E di anno in anno, di perizia in perizia, di furbizia in furbizia, ha sfondato i cinque miliardi e non è detto che ne basteranno sei.
C’è dentro la blandizia verso i possibili «amici» e insieme l’insofferenza arrogante verso ogni critica, come nel caso della stupefacente querela per «accanimento mediatico» (avevano dato battaglia sui giornali) contro Vincenzo Di Tella, Paolo Vielmo e Giovanni Sebastiani, tre ingegneri rei di avere criticato il costosissimo progetto delle paratie mobili, la gallina dalle uova d’oro del consorzio.
C’è dentro la ripartizione di incredibili privilegi, come ad esempio, per citare le Fiamme Gialle, «il compenso di un milione di euro riconosciuto nel 2009» all’allora presidente Giovanni Mazzacurati «a titolo di “una tantum”, nonché i periodici rimborsi spese privi di giustificazione contabile», per non dire delle case affittate in California, delle consulenze distribuite ad amici e parenti o della liquidazione finale di 7 milioni di euro incassata dopo l’arresto: l’equivalente di trentuno anni di stipendio del presidente della Repubblica. Una buonuscita stratosferica, per un uomo finito in manette.
E tutti soldi pubblici. Sia chiaro. Tutti soldi privatamente gestiti come in una combriccola di società private ma tirati fuori dalle tasche degli italiani. Per amore di Venezia. Per salvare Venezia dall’acqua alta dovuta non solo ai capricci della Natura e del Fato ma anche a interventi come la cosiddetta «sussidenza», cioè lo sprofondamento del suolo dovuta al pompaggio dell’acqua dolce nel sottosuolo o la creazione del canale dei petroli, un canyon lungo 14 chilometri, largo 200 metri e profondo fino a 17, scavato nel ventre di una laguna delicata la cui profondità media era di 110 centimetri.
E torniamo al rispetto per l’acqua, la terra, le barene della Serenissima Repubblica. «Tre condition de homeni ruinano la Laguna: li Signori, li Inzegneri e li Particulari», cioè i proprietari, scriveva nel ‘500 il Magistrato alle acque Cristoforo Sabbadino. Scordava gli affaristi dell’appalto facile. Quelli della spartizione fra sodali. Che non guardano alla destra o alla sinistra ma al business. O, per dirla alla veneta, ai «schei». Montagne di «schei».
Certo è che quest’ultima ondata di arresti colpisce i cittadini italiani, proprio mentre mostravano di voler credere in un riscatto e in una nuova speranza, come una frustata in faccia. E dimostra che, nella scia dei moniti di papa Francesco che batte e ribatte contro il «pane sporco» del «dio tangente», è indispensabile una svolta vera. Nei fatti.
L’Expo 2015, i restauri a Pompei, il G8 alla Maddalena e poi all’Aquila, i primi interventi e poi la ricostruzione in Abruzzo, i Mondiali di nuoto, il Mose... Non c’è Grande Evento, da anni, che non sia infettato dalla corruzione. E dopo ogni arresto, lagne su lagne. E tutti a chiedersi come sia possibile, come mai non cambi mai niente, perché proprio qui e bla bla bla... Poi, passata la tempesta di sabbia, appena si posa la polvere, le leggi che parevano ur-gen-tis-si-me vengono rinviate dal lunedì al martedì, poi alla settimana dopo, poi al mese seguente, poi all’autunno e da lì all’estate successiva...
Eppure è tutto chiaro: per vent’anni, come denunciano don Luigi Ciotti, Piercamillo Davigo e tanti altri, ogni sforzo della cattiva politica (troppo comodo dare tutta la colpa ai berlusconiani) è stato dedicato a smontare le leggi che c’erano e a buttare bastoni tra le ruote dei giudici. Pochi numeri: nel decennio dopo la stagione di Mani Pulite, 1996-2006, secondo l’Alto Commissariato, le condanne per corruzione precipitarono dell’83,9%, quelle per concussione del 90,4%, quelle per abuso d’ufficio del 96,5%. Come mai? Perché l’Italia è più pulita? Magari!
L’abbiamo scritto ma vale la pena di ripeterlo: dice il rapporto 2013 dell’Institut de criminologie et de droit pénal curato dall’Universita di Losanna, che nelle nostre carceri solo 156 detenuti, lo 0,4% del totale, sono lì per reati economici e fiscali, tra cui la corruzione e la concussione. Una percentuale ridicola. Dieci volte più bassa rispetto alla media europea del 4,1%. È una coincidenza se la Germania, il Paese di traino del Continente, ha le galere più affollate di «colletti bianchi»? Ed è solo una coincidenza se noi, che arranchiamo faticosamente in coda, ne abbiamo 55 volte di meno?
Alla fine, sarà il Consiglio europeo o il neo-eletto Parlamento a decidere sul prossimo presidente della Commissione? Con un ruolo di co-decisione del Parlamento, anche nell’Unione si affermerebbe in modo più corretto il circuito vitale proprio delle democrazie: voto, parlamento, governo.
Lavoce.info, 4 giugno 2014 (m.p.r.)
Il Parlamento e la scelta del Presidente della Commissione.La campagna elettorale ha visto, come sappiamo, più candidati alla presidenza della Commissione, designati dai principali partiti al livello europeo. Per la prima volta in trentacinque anni l’elettore è stato invitato a scegliere non solo tra partiti, ma tra candidati non nazionali e tra programmi. E tutti i candidati hanno dichiarato che il nuovo Parlamentoeletto avrebbe preteso di indicare il candidato alla presidenza formando, se necessario, una maggioranza anche trasversale tra i diversi gruppi politici.