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«L’iniziativa popo­lare è uno stru­mento debole? Può essere, ma qui si entra nel campo della poli­tica: se non si ha forza di far sen­tire la pro­pria voce e capa­cità di mobi­li­tare il popolo su obiet­tivi con­di­visi non c’è tec­ni­ca­lità che possa sup­plire al vuoto».

Il manifesto, 1 luglio 2014

Vor­rei avan­zare alcune per­ples­sità in merito al refe­ren­dum sull’equilibrio di bilan­cio. Viene pre­sen­tato -anche da que­sto gior­nale- come un modo per opporsi al Fiscal com­pact. A me non sem­bra. Si vogliono infatti abro­gare solo le dispo­si­zioni con­te­nute nella legge 243 del 2012 che det­tano ulte­riori limi­ta­zioni rispetto a quelle defi­nite in sede euro­pea e rece­pite nel nostro ordi­na­mento “a livello costi­tu­zio­nale”. Non tocca (ne potrebbe mediante lo stru­mento de refe­ren­dum) i prin­cipi intro­dotti nel 2012 in costituzione.

Né le altre parti della legge di attua­zione che defi­ni­scono il sistema dei vin­coli per il con­se­gui­mento dell’equilibrio. Scopo del refe­ren­dum è, in effetti, quello di con­ti­nuare a rispet­tare gli obbli­ghi euro­pei in mate­ria di bilan­cio pub­blico, ma si richiede che ciò avvenga in modo cor­retto, senza ecces­sive rigi­dità. In linea con la bat­ta­glia del Governo in Europa, la pro­po­sta è quella di una mag­giore mode­ra­zione nell’applicazione di misure che – nel rispetto dei trat­tati e degli accordi euro­pei di rien­tro del debito – per­met­tano un’ “auste­rità flessibile”.

Vi è un argo­mento che potrebbe farsi valere per smen­tire -almeno in parte- la pro­spet­tiva mode­rata che ho richia­mato. L’istituto del refe­ren­dum con­tiene in sé un “plu­sva­lore di senso” che tende a tra­scen­dere il signi­fi­cato let­te­rale del que­sito su cui si è chia­mati a votare. Così è stato per il nucleare ovvero per l’acqua. Se la por­tata dell’abrogazione in fondo era assai limi­tata e riguar­dava solo una nor­ma­tiva di con­torno, l’esito posi­tivo del responso popo­lare ha assunto una por­tata gene­rale: con­tro ogni poli­tica filo­nu­cleare (per l’acqua la vicenda post refe­ren­dum è più complicata).

Ciò è vero, ma è anche da tener pre­sente che allora era chiara la posta in gioco e uni­voco lo spi­rito dei pro­po­nenti. Nel nostro caso non è così. Tra gli stessi pro­mo­tori ope­rano più che legit­ti­ma­mente e con il mas­simo della coe­renza espo­nenti che si ripro­met­tono di far valere sem­pli­ce­mente un equi­li­brio fles­si­bile entro le com­pa­ti­bi­lità date in sede euro­pea. Una even­tuale vit­to­ria refe­ren­da­ria sarà legit­ti­ma­mente figlia di un libe­ra­li­smo dal volto umano, rischiando di for­nire una defi­ni­tiva legit­ti­ma­zione demo­cra­tica alle attuali poli­ti­che euro­pee. Forse un aiuto a Fran­cia e Ita­lia nella dia­let­tica con la Ger­ma­nia, ma nulla di più. È que­sto ciò che si vuole?

Per senso di rea­li­smo (meglio poco che niente) può anche accet­tarsi una simile pro­spet­tiva, ma deve essere chiaro che in tal modo si rinun­cia a cam­biare l’orizzonte delle com­pa­ti­bi­lità eco­no­mi­che e poli­ti­che. Un’altra Europa e un’altra Ita­lia -se vogliamo dare un senso pro­fondo alle parole- pos­sono nascere solo se si è in grado di ridi­scu­tere i trat­tati e i vin­coli eco­no­mici, solo se si è in grado di pro­porre una stra­te­gia in cui si affermi la cen­tra­lità dei diritti delle per­sone, solo se -in Ita­lia- si rie­sce ad modi­fi­care il prin­ci­pio di equi­li­brio impo­sto nel 2012 da un super­fi­ciale e irruento legi­sla­tore che ha distorto gli equi­li­bri costi­tu­zio­nali con la modi­fica dell’articolo 81.

Si com­prende la sen­si­bi­lità della sini­stra radi­cale al refe­ren­dum. È tra­mite que­sto stru­mento di par­te­ci­pa­zione che si sono otte­nute la più signi­fi­ca­tive vit­to­rie poli­ti­che e costi­tu­zio­nali. Il refe­ren­dum del 2006 che ha scon­fitto il ten­ta­tivo di riscri­vere in senso auto­ri­ta­rio la nostra costi­tu­zione; quello del 2011 che ha visto affer­marsi un’altra idea di svi­luppo con la vit­to­ria dell’acqua bene comune. Ma non credo che que­sto possa indurre a soste­nere ogni richie­sta al di là del merito. Anche per­ché temo che il rischio di delu­dere le aspet­ta­tive sia più vicino di quanto non possa sembrare.

Ritengo infatti che i que­siti pro­po­sti siano ad alto rischio di inam­mis­si­bi­lità. Temo cioè che non pos­sano pas­sare il vaglio della Con­sulta. Sono diverse le ragioni che mi indu­cono a for­mu­lare que­sta pre­vi­sione. Alla luce della giu­ri­spru­denza costi­tu­zio­nale ritengo che si sia cor­ret­ta­mente prov­ve­duto a disin­ne­scare il rischio di una pro­nun­cia di inam­mis­si­bi­lità per vio­la­zione di un obbligo euro­peo (ed in effetti i que­siti non pon­gono in discus­sione alcun vin­colo comu­ni­ta­rio), più dif­fi­cile con­vin­cere la Corte costi­tu­zio­nale che le norme che si vogliono abro­gare non rien­trino tra quelle tri­bu­ta­rie e di bilan­cio che sono espres­sa­mente escluse dal refe­ren­dum (soprat­tutto dopo l’allargamento con­cet­tuale defi­nito con la sen­tenza n. 2 del 1994) ovvero che la legge 234 del 2012 che si sot­to­pone a refe­ren­dum non rien­tri tra quelle escluse dal refe­ren­dum per­ché “a forza pas­siva pecu­liare”. In quest’ultimo caso la giu­ri­spru­denza costi­tu­zio­nale (secondo quanto deciso – in modo un po’ gene­rico, in verità — dalla sen­tenza 16 del 1978) sem­bre­rebbe voler esclu­dere tutte quelle leggi appro­vate con un pro­ce­di­mento spe­ciale. E la legge di attua­zione dell’articolo 81 deve essere appro­vata con mag­gio­ranza qualificata.

Biso­gna allora arren­dersi al Fiscal com­pact? Non credo. Ci sono altri stru­menti di par­te­ci­pa­zione pre­vi­sti dal nostro ordi­na­mento costi­tu­zio­nale. L’iniziativa legi­sla­tiva popo­lare è uno di que­sti. Essa potrebbe anche affian­carsi al refe­ren­dum richie­sto per segna­lare una rotta diversa in grado di impri­mere un reale cam­bia­mento nelle poli­ti­che eco­no­mi­che e di rispetto dei diritti costi­tu­zio­nali. È pos­si­bile anche imma­gi­nare la pre­sen­ta­zione di una legge costi­tu­zio­nale assieme ad una ordi­na­ria d’iniziativa popo­lare che rie­scano l’una ad “aggre­dire” il prin­ci­pio dell’equilibrio finan­zia­rio posto in costi­tu­zione l’altra a inter­pre­tare in modo con­forme al sistema costi­tu­zio­nale (all’obbligo costi­tu­zio­nale di assi­cu­rare i diritti fon­da­men­tali) i vin­coli di bilan­cio “di natura per­ma­nente” che l’Europa ci impone. C’è dun­que la pos­si­bi­lità di pro­porre un cam­bia­mento anzi­ché subire o cer­care di argi­nare quello che pro­viene dalle attuali cul­ture dominanti.

L’iniziativa popo­lare è uno stru­mento debole? Può ben essere, ma qui si entra nel campo della poli­tica: se non si ha la forza di far sen­tire la pro­pria voce e la capa­cità di uti­liz­zare que­sti stru­menti per mobi­li­tare il popolo di sini­stra su obiet­tivi lar­ga­mente con­di­visi non c’è tec­ni­ca­lità che possa sup­plire al vuoto.

Non mancano le proposte per arginare la corruzione 2.0. Ma gli ordini che vengono dall'alto, sotto la maschera del vocìo giustizialista, e sempre la stessa: andare avanti, murare, murare, murare!

Il manifesto, 28 giugno 2014

In tema di grandi opere, la corruzione è di sistema ed è stata favorita, quasi ricercata, dalle semplificazioni normative e procedurali: un processo di modifiche legislative e smantellamento di verifiche e controlli, avviatosi negli anni novanta con la TAV, proseguito con le leggi “speciali” – quali MOSE e, di recente, EXPO-, e messo a regime nel 2001 con la Legge Obiettivo per le Infrastrutture Strategiche. Logica che i Berluscones – abilissimi nel trasformare i problemi in affari – riproponevano poi in tutta la legislazione cosiddetta d’emergenza con il plauso prolungato del centro-sinistra: Rifiuti, Depurazione, Energia, Grande Commercio, fino alla Sanità.

Si istituzionalizzavano così megaentità speciali, spesso non pubbliche, che dovevano gestire in toto i grandi lavori, in luogo dei precedenti enti appaltanti e gestori,messi a punto con la legge Merloni nel post-Tangentopoli, per cui almeno erano sempre chiare le responsabilità e le competenze delle istituzioni territoriali e di quelle centrali. Adesso la megaopera veniva affidata in gestione ad un concessionario unico (EXPO, Venezia Nuova, Stretto di Messina, SITAV, ecc.), talora a prevalenza pubblica, talora privata, ma che diventava una sorta di “consumatore collettivo istituzionalizzato”, mirato a reperire e canalizzare le risorse – pubbliche e non – per le opere. A fronte di quanto stava al vincitore del megappalto, il Contraente Generale (cordata di grandi imprese il cui capofila era deciso di volta in volta dalle modalità di lottizzazione geopolitica delle opere, nell’ambito della ventina di nomi che monopolizzano appalti e spesso politiche di settore (Impregilo,Coop di costruzione, Astaldi, ecc.) e che a suo tempo avevano spinto per la TAV e poi per la messa a sistema del modello con la Legge Obiettivo. Attorno all’intreccio Concessionaria/General Contractor si formava un più ampio sistema di interessi speculativi, finanziari e imprenditoriali, che vedeva questa volta al centro gli istituti bancari e finanziari che “dovevano assicurare al Concessionario flussi di cassa rapidi”, anticipando l’erogazione di soldi pubblici, ovvero permettendo alle parti private di costruire le modalità di “project financing” o pseudo-tali, con cui dovevano anticipare risorse “da ripagarsi nel tempo” quasi sempre con “la garanzia di ripianamento” da parte dello stato.. La Legge Obiettivo, e le altre leggi speciali, peraltro escluderebbero “aumenti e varianti in corso d’opera”, salvo ammettere deroghe per “operazioni imprevedibili e emergenziali emerse in fase esecutiva”. Così è invalso il sistema di accaparrarsi gli appalti con ribassi incredibili, salvo far lievitare i costi, anche oltre i massimi prevedibili, una volta firmato il contratto.In realtà non si è semplificato nulla, ma sicuramente favorito, se non promosso, i processi corruttivi.

Le “grandi concentrazioni” imprenditoriali–finanziarie, paradossalmente all’indomani di “Mani Pulite”, si trovavano in effetti a fare i conti con sistemi politici e decisionali, indeboliti e semplificati. Indeboliti dalla drastica caduta della militanza e dalla forte riduzione delle risorse disponibili, semplificati dall’avvento dei “Partiti del Leader”, metamorfosi che da Forza Italia investiva via via tutti gli altri e – adesso – con Renzi anche il PD, che a detta di suoi stessi militanti “assomiglia sempre più al PSI di Craxi”, ai tempi in cui Giorgio Bocca scriveva “all’unico socialista che pensa con la testa sua”.

Come le carte delle vicende EXPO e MOSE ben dimostrano, basta accordarsi con pochi decisori determinanti e tutto il sistema risulta “integrato”. Con processi facilitati dall’accresciuto peso che organizzazioni da sempre “collaterali ma pesanti” nelle decisioni politiche – vedi la Massoneria – hanno riassunto nell’attualità. Peraltro il sistema lobbistico delle grandi opere trovava anche “più raffinati” meccanismi di cattura del sistema politico: sorreggeva direttamente o integrava le cordate dei leader emergenti nei vari partiti,spesso arrivando ad assumere parenti o sodali del decisore importante. Nel giro delle Grandi Opere abbiamo moltissimi di questi casi. Che creano attorno ad esse quella nuvola di imprese – molte delle quali sono solo nomi e passacarte, “accaparra” risorse, che oggi Ivan Cicconi, attento osservatore dall’interno del sistema dei Grandi Appalti, stima abbiano superato la dimensione di più di ventimila società.

Per sovrammercato, parliamo quasi sempre di opere inutili, non scaturenti da alcuna programmazione né da analisi mirate; ma “già decise dalle istituzioni rappresentative”,ovvero da una politica spesso controllata.

A Firenze proprio sulla TAV casca l’asino … renziano. Il Passante dell’Alta Velocità sotto il centro storico è un progetto devastante- oggi bloccato dalla magistratura- di super tunnel e megastazione. Per quest’ultima si decide addirittura di non effettuare alcuna valutazione ambientale: “se si fa la VIA non si fa più il sottoattraversamento” sancì l’allora ministro delle infrastrutture Matteoli salutato con favore dal centro-sinistra.

Renzi si opponeva a tutto questo. Fino a quando, diventato sindaco di Firenze, decideva di scalare dapprima il partito e poi il governo. Per questa operazione aveva bisogno di integrarsi, non di avversare, i grandi interessi lobbistici ruotanti attorno alla AV di Firenze e più in generale alle grandi opere. Dopo un lungo silenzio, eccolo vestito da ultrà: oggi invoca la ripresa dei lavori del supertunnel fiorentino. E di fronte ai clamorosi scandali EXPO e MOSE si affanna a urlare da pseudogiustizialista per coprire l’omissione dell’unica cosa da fare: annullare i contratti e interrompere i flussi di denaro. Vanno infatti proprio bloccati gli appalti: ci vorrebbe una moratoria e una revisione drastica del programma Grandi Opere. Insieme alla cancellazione della legge Obiettivo e delle altre leggi speciali di berlusconiana memoria. Invece “ i lavori non si fermano!”.

Pensiamo che il lavoro che attende lo stimato Raffaele Cantone sia piuttosto problematico: sinceri auguri.

«È partita l’operazione: “salvate le grandi opere”. Mettete pure in galera i corrotti, ma non mettete in discussione i cantieri».

Il manifesto, 28 giugno 2014

Per bonificare il terreno dalla mala pianta della corruzione basterebbe un semplice articolo di legge che dicesse: “E’ fatto divieto a qualunque impresa che ha rapporti con la pubblica amministrazione (concessioni, appalti, ecc.) di elargire denaro a chiunque e a qualsiasi titolo (contributi, sponsorizzazioni, ecc.)”. Mi verrebbe voglia di proporre a Confindustria e Governo una campagna del tipo pubblicità progresso: “Liberiamo le imprese dal pizzo ai politici”. Ma so che non la accetterebbero mai perché il fenomeno della nuova corruzione – contrariamente a quanto si affannano a dire i commentatori di regime - ha poco a che fare con la teoria antropologica delle “mele marce”.

La “Corruzione 2.0” è consustanziale al sistema di finanziarizzazione delle opere pubbliche. Qui non si tratta di fare i conti con il lato oscuro, egoista e un po’ cleptomane dell’animo umano, ma con un sistema politico-economico (volgarmente chiamato affari&politica) strutturalmente radicato che prescinde dai singoli addebiti di rilevanza penale in cui sono incappati alcuni noti personaggi. È in atto un miserabile tentativo di separare il destino delle “grandi opere” da quello giudiziario delle aziende che le hanno progettate e costruite; da quello degli apparati tecnici pubblici preposti alla approvazione, controllo e collaudo; da quello dei decisori politici corrotti.
È partita l’operazione: “salvate le grandi opere”. Mettete pure in galera i corrotti, ma non mettete in discussione i cantieri. Sono sicuro che tra un po’ di tempo i vari capitani delle cordate delle grandi imprese che stanno costruendo il Mose, l’Expo, il Tav, decine di nuove autostrade, grandi poli ospedalieri, rigasificatori, carceri e via dicendo saranno trattati come vittime, costretti a corrompere per realizzare opere di interesse economico generale. La strada del fare, spendere, costruire deve essere spianata. Alcuni tra gli stessi inquisitori si sono preoccupati di indicare ai legislatori il modo per non incorrere più in “incidenti” giudiziari. Il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio ha dichiarato: “Gli unici strumenti contro la corruzione sono la semplificazione delle procedure e l’individuazione delle competenze. Se un cittadino deve bussare cento porte è inevitabile che qualcuna resti chiusa finché qualcuno non viene a suggerirti di oliarla”.
Oltre al danno la beffa! Come se il Mose o altre infrastrutture del genere avessero potuto superare l’esame di una seria valutazione tecnica (strutturale oltre che ambientale) se prima non fossero state avuotate le competenze degli apparati tecnico scientifici dello stato (Cnr e università compresi) e senza azzerare le capacità di giudizio autonomo dei decisori politici. Che ciò avvenga con la corruzione diretta o con il finanziamento delle campagne elettorali, dei giornali di partito, delle società sportive o delle parrocchie… poco importa. L’attenzione mediatica sullo scandalo delle tangenti mette in secondo piano la mostruosità ancora più grande della realizzazione di opere inutili e dannose, che servono solo a chi le fa e che sottraggono risorse pubbliche ad altri interventi più necessari. Ricordiamoli ancora: trasporti pubblici locali, strutture sanitarie di prossimità, assetto idrogeologico, recupero e riuso del patrimonio edilizio esistente, beni culturali, servizio idrico integrato.
Per questi motivi la priorità ora è fermare le opere sospettate di irregolarità, revocare le autorizzazioni, annullare i contratti, le concessioni e gli affidamenti dei lavori per poterne verificare la affidabilità tecnica oltre che economica. In nome di un elementare principio di precauzione. Ma non basta ancora. È necessario impedire che questo modo di fare, spendere, costruire proceda come e più di prima. Bisognerebbe abrogare la “legge obiettivo” Lunardi-Berlusconi (2001) e vietare i Project Financing. Lo “Sblocca Italia” annunciato da Renzi, in questo quadro normativo colabrodo e in questo quadro politico corrotto, si presenta come la più irragionevole e arrogante sfida al buon governo.

«Si procederà a un azzeramento del codice ripartendo da un testo di 200 articoli, contro gli attuali 600, oltre che a alleggerire si pensa a più trasparenza e chiarezza».

Corriere della sera, 26 giugno 2014, postilla

La scadenza è fissata entro la fine di luglio. Per quella data il viceministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Riccardo Nencini, conta di riscrivere il nuovo codice degli appalti e di farlo approdare in consiglio dei Ministri. Ieri si è incontrato con Raffaele Cantone, neo presidente Autorità Nazionale Anticorruzione, per condividere l’elaborazione di un sistema di qualificazione e certificazione delle imprese basato su criteri di omogeneità e trasparenza. Nencini suggerisce il concetto di «sinergie» con Cantone, ma il vero obiettivo del governo è archiviare una volta per tutte un modello di affidamento degli appalti e delle concessioni ormai pieno di falle. Basti la recente inchiesta sui cantieri per l’Expo 2015. Motivo per cui i lavori del tavolo tecnico istituito dal viceministro sono a buon punto. «Abbiamo già incontrato i gruppi parlamentari e si procederà con un azzeramento del codice ripartendo da un testo con circa 200 articoli, contro gli attuali 600, oltre che all’alleggerimento si pensa a più trasparenza e chiarezza delle norme».

Nel dettaglio si tratterà di due decreti legislativi che supereranno il vecchio sistema. Il primo provvedimento recepisce la direttiva Europea in materia di appalti e gare, l’altro decreto è destinato a raccogliere le misure che serviranno, per esempio, a ridurre il numero delle stazioni appaltanti, semplificare e snellire gli oneri documentali, migliorare le condizioni di accesso al mercato per le piccole e medie imprese. Nencini rivendica le novità in materia di revisione della certificazione delle imprese, evitando penalizzazioni per le imprese giovani e innovative. Per scongiurare gli effetti patologici dei comitati Nimby (Not in my backyard) e No Tav il nuovo ordinamento prevederà la partecipazione delle popolazioni dei territori interessati nel processo decisionale, mutuandolo dalla legislazione francese. Previsto, infine, un quadro di regole chiare e trasparenti per i lobbisti, a cominciare da un registro con l’elenco ufficiale degli iscritti.

postilla
La rivisitazione delle norme sugli appalti che Nencini sta coordinando sembra voglia rispondere - sotto la spinta degli scandali esplosi di recente - a recepire direttive emanate in sede europea, a razionalizzare il sistema degli appalti, anche introducendo elementi di maggiore trasparenza, infine a semplificare il sistema normativo . Non è ancora noto in che modo questi obiettivi saranno perseguiti. L’ideologia di Matteo Renzi è nota, e quindi l’attesa non può che essere trepida.

Se si volesse fare sul serio (e non disfare ridacchiando) occorrerebbe con assoluta priorità: eliminare il ricorso alle procedure derogatorie e trovare criteri idonei per selezionare i componenti delle commissioni di gara e gli esperti che partecipano alle decisioni riguardanti l’andamento dei lavori (i direttori dei lavori, i responsabili del procedimento le commissioni di collaudo).
Quest’ultimo aspetto sembra particolarmente importante perché qualsiasi magistrato non può che verificare la regolarità formale degli atti. Quindi se collaudatori e direttori dei lavori si esprimono favorevolmente ad esempio – su riserve del tutto infondate difficile, se non impossibile, garantire la correttezza complessiva dell’appalto.
Infine, una domanda sorge spontanea. Come mai un governo/legislatore, che privilegia la fretta sovra ogni altra cosa, non ha pensato di approvare ex novo, nel suo testo originario, la legge Merloni del 1994? Una legge ottima, che aveva funzionato bene prima che i legislatori dei governi di Berlusconi e della “larghe intese” l’avessero svuotata (vedi in proposito l’articolo di Vittorio Emiliani su La Nuova Venezia)

». Il manifesto, 28 giugno 2014

L’avvertenza, cor­diale ma ferma, è che della poli­tica poli­ti­cante non vuole par­lare. La sente, spiega, «come cosa lon­tana, fac­cio delle rifles­sioni, le scrivo, le rileggo e capi­sco che sono pro­fon­da­mente inat­tuali». Ma Fau­sto Ber­ti­notti è la primo volto che viene in mente al com­bi­nato dispo­sto delle parole ’sini­stra’ e ’scis­sione’, ’cen­tro­si­ni­stra’. Pre­si­dente della camera dal 2006 al 2008, poi lea­der della sini­stra arco­ba­leno azze­rata dalla voca­zione mag­gio­ri­ta­ria. Ma prima segre­ta­rio dal ’94 di Rifon­da­zione comu­ni­sta, quasi per impo­si­zione del fon­da­tore Armando Cos­sutta. Quel par­tito da lì ha infi­lato una serie di scis­sioni a destra e sini­stra (anche Cos­sutta nel ’98 lo lasciò), fra soste­gno e rot­ture con i governi di cen­tro­si­ni­stra. Fino alla scis­sione della scis­sione, quella dei nostri giorni fra due uomini che gli sono stati vici­nis­simi: Nichi Ven­dola, a sua volta scis­sio­ni­sta e fon­da­tore di Sel; e Gen­naro Migliore, ora vicino al Pd ren­zi­sta. Una sto­ria, e le scelte che hanno por­tato tutta la ’sini­stra sini­stra’ fino a qui — non in con­di­zioni sma­glianti — è sto­ria di un’intera comu­nità. Lo incon­triamo al quarto piano di un bel palazzo della Camera, sede di una fon­da­zione — Cer­care ancora — che a set­tem­bre tra­slo­cherà. Tempi duri. E non solo a causa spen­ding review.

Pre­si­dente Ber­ti­notti, lei sostiene ormai da anni che la sini­stra non esi­ste più. Allora per­ché la sini­stra con­ti­nua a dividersi?
Que­sta divi­sione già dimo­stra che non c’è più. Quando c’era si chia­mava ’scis­sione’. Si poteva per­sino evo­care, lo fece Gram­sci nel ’21, ’spi­rito di scis­sione’. C’è scis­sione se c’è, lo dico con Togliatti, ’rin­no­va­mento nella con­ti­nuità’, l’idea che da un albero può spez­zarsi un un ramo e rimet­tere radici. Ma se non c’è con­ti­nuità non c’è nean­che rin­no­va­mento, e allora la divi­sione è un esodo, una fuo­riu­scita. La sto­ria della sini­stra e del movi­mento ope­raio in Europa si è chiusa in tre cicli: la scon­fitta del 900, rias­sunta nel crollo del Muro di Ber­lino; il Dopo­guerra delle costi­tu­zioni demo­cra­ti­che, dei par­titi e dei sin­da­cati di massa, che ter­mina con la scon­fitta degli anni 80. Di qui, siamo al terzo ciclo, quei par­titi si can­di­dano a gover­nare la moder­niz­za­zione. È il cen­tro­si­ni­stra, una con­di­zione ambi­gua e anfi­bia di cui in parte cir­cola ancora l’eredità. Muore sepolto dalla nascita del capi­ta­li­smo finan­zia­rio e dell’Europa reale, una tena­glia ne can­cella le ultime tracce. E i par­titi eredi com­ple­tano la loro muta­zione gene­tica. Erano i par­titi dell’alternativa di società, diven­tano i par­titi dell’alternanza di governo.

Renzi rap­pre­senta il com­pi­mento di un ciclo o una ripartenza?

Renzi è un feno­meno impor­tante. A sini­stra abbiamo un tic, non accet­tare che i nostri avver­sari siano forti. Ricor­diamo un vec­chio caro­sello con Erne­sto Calin­dri e Franco Volpi: si vedeva un aereo che volava, era la moder­nità, Volpi scuo­teva la testa e diceva: ’el dura minga’. Renzi avvia una nuova fase: l’egemonia di una cul­tura post­mo­derna e post­de­mo­cra­tica, una gigan­te­sca costru­zione ideo­lo­gica che copre come una col­tre una realtà sfran­giata e deva­stata. Renzi è il por­ta­tore natu­rale della poli­tica fun­zio­nale di que­sto nuovo ciclo, quello della gover­na­bi­lità come ele­mento tota­liz­zante. La sua Welt­an­schauung è ’vin­cere e gover­nare’, con­tro chi e per fare cosa non importa. Siamo alla morte delle fami­glie poli­ti­che euro­pee. I socia­li­sti per­dono ovun­que. E invece Renzi che socia­li­sta non è — lasciamo stare la scelta gover­na­tiva di ade­rire al Pse — non essendo socia­li­sta vince. Per­ché sce­glie la tra­sver­sa­lità. È coevo a que­sto tempo, quello che ha sosti­tuito lo scon­tro fra destra e sini­stra con quello fra l’alto e il basso che noi imper­fet­ta­mente chia­miamo popu­li­smo. E per­ché Renzi è for­tis­simo? Per­ché la sua tra­sver­sa­lità fonda il popu­li­smo dall’alto. È un Giano bifronte: per un lato popu­li­sta, per l’altro è neo­bo­na­par­ti­sta, cioè usa il popu­li­smo per pla­smare il governo dall’alto. L’esito è neau­to­ri­ta­rio: un governo che si pre­sume così, aset­tico, obbli­gato nelle scelte e privo di alter­na­tive, ’naturale’.

Eppure Renzi si pre­senta come un uomo di sini­stra. E così viene per­ce­pito da molti suoi elettori.
No, non è vero. Per­sino la sua reto­rica è accu­ra­ta­mente tra­sver­sale, tanto che può per­met­tersi alcune cita­zioni di sini­stra. Il caso più cla­mo­roso è l’adesione al Pse: i vec­chi del Pd hanno dispu­tato per anni se ade­rire o no. Era una discus­sione ridi­cola, cari­ca­tu­rale, ma le vec­chie fami­glie ancora con­flig­ge­vano. Spaz­zate via que­ste fami­glie, lui può ade­rire al Pse senza subirne il rica­sco defi­ni­to­rio. Renzi non diventa socia­li­sta, è il par­tito socia­li­sta euro­peo che diventa ren­ziano. La sua è un’uscita dalla sto­ria socia­li­sta per presa d’atto della sua con­clu­sione. Così restaura le feste dell’Unità: nes­suno può accu­sarlo di essere comu­ni­sta. Né demo­cri­stiano. È trasversale.

Que­sta tra­sver­sa­lità assorbe tutto il campo della poli­tica? A suo parere non c’è spa­zio per altro?
Alfredo Rei­chlin gli ha offerto la for­mula ’par­tito della nazione’. Ma, lo dico con rispetto, è una cita­zione del mondo antico. Il suo è il ’ par­tito del governo’. Non al governo, né di governo. La sua è una voca­zione tota­li­ta­ria in sin­to­nia con que­sto capi­ta­li­smo tota­li­ta­rio che ha l’ambizione di con­qui­stare tutti al prin­ci­pio della competitività.

Lei, negli anni 90, è stato il fon­da­tore, poi anche l’affondatore, dell’idea di una sini­stra del cen­tro­si­ni­stra. Non c’è più una sini­stra che possa ambire a una dia­let­tica con que­sta ’trasversalità’?
No, se resta nel recinto. Quel ten­ta­tivo di mesco­larsi è stato scon­fitto. Allora c’erano due sini­stre che si misu­ra­vano con la glo­ba­liz­za­zione, con due idee oppo­ste. Per capirci: gover­na­bi­lità con­tro alter­mon­dia­li­smo. Era l’ultimo sta­dio della sto­ria di quella sini­stra, e la Rifon­da­zione comu­ni­sta era l’ultima ipo­tesi revi­sio­ni­stica. Fal­lita per la scon­fitta e la muta­zione gene­tica, e per il cam­bia­mento radi­cale della scena pro­dotto dal capi­ta­li­smo finan­zia­rio globale.

Posto che i vin­ci­tori hanno sem­pre le loro colpe, quali sono le colpe degli scon­fitti, le vostre?
Le occa­sioni man­cate. In Ita­lia — e sto sulle ultime, non parto dall’XI con­gresso del Pci come farebbe Pie­tro Ingrao — sono almeno tre: lo scio­gli­mento del Pci poteva essere diverso, qual­che recri­mi­na­zione di Occhetto che chie­deva inno­va­zione nella tra­di­zione aveva nuclei di verità; lì una comu­nità si smem­bra. Seconda occa­sione man­cata, il movi­mento alter­mon­dia­li­sta, nel 2000 — 2001. Lì c’è il primo smacco del cen­tro­si­ni­stra: all’avvio della glo­ba­liz­za­zione e alla nascita dell’Europa di Maa­stri­cht nean­che il ten­ta­tivo timido ma inte­res­sante di Jospin viene soste­nuto. Il cen­tro­si­ni­stra ita­liano è tra i respon­sa­bile dell’uccisione di quel ten­ta­tivo. E noi, poco dopo, e cioè all’avvento del movi­mento alter­mon­dia­li­sta, man­chiamo l’ultima occa­sione, quella di devol­vere ciò che era rima­sto della sini­stra di alter­na­tiva in quel movimento.

Lei era già il teo­rico del par­tito a rete. Sta dicendo che avrebbe dovuto fare di più, sciogliersi?
Avremo dovuto capire che il mondo dei par­titi tra­di­zio­nali era finito. E but­tarci nel nuovo emer­gente oriz­zonte anticapitalista.

Rinun­ciando defi­ni­ti­va­mente all’idea repub­bli­cana di una moderna demo­cra­zia dei partiti?
Avremmo dovuto rein­ven­tarci. I par­titi attuali sono orga­niz­za­zioni di ceto poli­tico all’americana, che vive la sta­gione elet­to­rale per la sola rap­pre­sen­tanza nelle isti­tu­zioni. E quelli così fatti, qua­lun­que sia la loro col­lo­ca­zione, sono interni a un sistema neoau­to­ri­ta­rio in cui il governo è tutto. Per­sino Grillo che ha avuto la giu­sta intui­zione che il sistema poli­tico si abbatte e non si riforma, oggi viene cat­tu­rato dalla logica di governo, per essere pre­sen­ta­bile e per far parte del gioco politico .

Il sistema si abbatte da destra, nel caso di Grillo.
No, dal basso. Grillo è un sistema auto­ri­ta­rio che tut­ta­via dà voce al con­flitto dal basso. Così il Front di Le Pen e le for­ma­zioni popu­li­ste che inter­cet­tano il con­flitto fra popolo e élite. La sini­stra non c’è se non nasce da que­sto con­flitto. Quella che pensa di rina­scere nel recinto prenda atto che il recinto soffoca.

Nono­stante i suoi cer­ti­fi­cati di morte, lei resta vicino alla sini­stra che ci prova. Oggi a Tsi­pras, ieri a Ingroia. Lei è garan­ti­sta: per­ché soste­neva un giustizialista?
Non avevo nes­suna fasci­na­zione per Ingroia, e non credo per niente a que­ste strade. Tut­ta­via se i miei parenti ci ripro­vano non mi metto con­tro. Li voto affettuosamente.

Così anche la lista Tsipras?
Qui ho un ele­mento in più. Tsi­pras mi intriga non per la nostra vicenda ita­liana ma per­ché indica una rico­stru­zione su scala euro­pea invece che dalle pri­gioni nazionali.

Tsi­pras non cor­ri­sponde al suo modello: non è ’fuori dal recinto’. È un poli­tico capace di aprire con­fronti con la socialdemocrazia.Mi prende su una corda sco­perta, le simi­li­tu­dini con una certa Riforn­da­zione sono evi­denti. Ma c’è una dif­fe­renza: da dove viene Syriza? Nes­suno mi dica che viene dalle for­ma­zioni pre­ce­denti alla grande rivolta. Il Syna­spi­mos, da cui viene parte di que­sto gruppo diri­gente, gua­da­gnava a fatica il 2 per cento. Syriza ora veleg­gia verso il 40. Non mi si dica che c’è una parentela.

Il Syna­spi­smos è uno dei padri, uno dei par­titi della coa­li­zione della sini­stra radi­cale greca.
Ana­gra­fi­ca­mente sì, ma Syriza è la dimo­stra­zione che la sini­stra può nascere solo dalla rivolta, non dalle costole dei vec­chi partiti.

Torno ai suoi ’parenti’ e alle loro divi­sioni. Sia Ven­dola che Migliore sono suoi allievi, il primo anche erede di una lea­der­ship, la sua, con tratti di per­so­na­li­smo. Oggi si sepa­rano, ma restano entrambi con­vinti della pos­si­bi­lità di una sini­stra del cen­tro­si­ni­stra. Come spiega la distanza dal maestro?
Non direi mae­stro, direi che abbiamo con­di­viso una stessa comu­nità. Cono­sco due modelli di lea­der­ship poli­tica: una che figlia per discen­denza diretta, quando un allievo assume tutto di un mae­stro, atteg­gia­menti fisici inclusi; e una che figlia oriz­zon­tal­mente, penso a Ingrao, Magri, Ros­sanda, i miei mae­stri. Si parva licet, nel caso di Nichi e Gen­naro rico­no­sco il tratto della mia dire­zione e qual­che scam­polo di me. Ma poli­ti­ca­mente sono molto diversi. Quanto al resto, con un gruppo di amici psi­coa­na­li­sti laca­niani sto lavo­rando a capire per­ché a sini­stra si pro­du­cono con­flitti mor­tali diver­sa­mente dalle altre sto­rie poli­ti­che. I socia­li­sti e i demo­cri­stiani fanno scelte oppo­ste ma restano affra­tel­lati. Noi defla­griamo. Quando avrò una rispo­sta le dirò meglio.

Se il treno della rivolta non passa, da noi non ci sarà più sinistra?
Ne pas­serà un altro. Inten­dia­moci, per me rivolta è rot­tura: Occupy Wall Street, indi­gna­dos, Gre­cia. Anche le pri­ma­vere arabe: forme di lotta dal basso senza par­tito e senza lea­der che costrui­scono nuove isti­tu­zioni, al di là dell’esito. L’altro fon­da­mento è la coa­li­zione sociale, le tes­si­ture extra­mer­can­tili di con­flitti, auto­no­mia, auto­ge­stione, auto­go­verno. Il rife­ri­mento è a fine 800 inizi 900: ate­lier pari­gini, Iww negli Stati uniti. Forme di con­te­sta­zione fuori dalla tra­di­zione orga­niz­zata. Oggi in Ita­lia i No Tav ma anche il Cinema Ame­rica e il Tea­tro Valle di Roma, le 160 aziende auto­ge­stite, i 200 scio­pe­ranti della Mase­rati. Rivolta è ciò che dal basso pro­muove con­flitto con­tro le élite e si mani­fe­sta come irru­zione di ener­gia e di forza.

È una rivolta nonviolenta?
Lo spero, dipen­derà dalla rea­zione delle classi diri­genti. Io credo che ci siano le con­di­zioni cul­tu­rali per­ché possa esserlo. La rivolta non è per forza maieu­tica della sini­stra. Ma è il punto di rot­tura neces­sa­rio. Come nel ’48, e in quella cosa straor­di­na­ria e magica che fu la Comune di Parigi.

Lei per primo guidò la sini­stra radi­cale nelle pri­ma­rie. Niente più pri­ma­rie ormai?
Le pri­ma­rie ave­vano un senso fin­ché era ipo­tiz­za­bile la rifor­ma­bi­lità della sini­stra poli­tica. Oggi sono fun­zio­nali all’ordine nuovo neoau­to­ri­ta­rio del par­tito del governo. La verità è che noi che era­vamo avversi al rifor­mi­smo siamo stati gli ultimi a lavo­rare per sal­varlo. E invece l’hanno ucciso. E si sono suicidati.

LLa Repubblica, 27 giugno 2014

I CITTADINI italiani si fidano di Renzi non dei partiti e, presumibilmente, neppure del suo partito. Quello che Diamanti chiama il Partito di Renzi non è, infatti, la stessa cosa del Partito democratico. Certamente non è politico nel modo in cui questo lo è. Il partito politico, anzi i partiti politici, non sono in declino da oggi, ma oggi il loro declino è ancora più abnorme proprio perché avviene insieme al successo di un partito del segretario. Il paradosso è che pare difficile capire come Renzi possa ridare onore ai partiti (al Pd, in questo caso) anche perché egli ha costruito il suo successo di audience proprio grazie a una martellante retorica contro i partiti, non escluso il suo. Certamente contro le dirigenze logore e attempate. La rottamazione è stata sia un’apertura (ai giovani) che una chiusura (non solo alle vecchie generazioni ma anche) a un modo di essere del partito. Il Partito di Renzi è un partito nonpartito, nato come partito anti-partito. Merita ricordare che l’attuale segretario del Pd ha conquistato l’opinione e il governo del paese prima ancora di conquistare una maggioranza elettorale (o di essere eletto): un’incoronazione ecumenica che è avvenuta fuori del partito a tutti gli effetti e fuori delle istituzioni. Nei media e sotto i gazebo. Ecco perché ha un senso chiamare questo fenomeno plebiscitarismo dell’audience. Come si può ricostruire il partito partendo da qui?

Per tentare di rispondere a questa domanda occorre cercare prima di tutto di capire da che cosa è caratterizzato il Partito di Renzi, ovvero che cosa faccia sì che i cittadini si fidino di esso molto più di quanto non si fidino del Partito democratico. Certo, le continue notizie sulla corruzione sono un fattore potente di sfiducia nella politica ufficiale, anche se non coinvolgono solo le vecchie dirigenze nazionali dei partiti ma anche imprenditori e poteri locali: cioè proprio quella parte d’Italia che sembrava meno esposta alla tentazione del malaffare perché lontana da Roma. E invece vediamo che i poteri radicati sul territorio sono forse ancora più esposti alla corruttela. Ma questa denuncia morale dei partiti tradizionali, locali e nazionali, non basta a spiegare la grande popolarità del Partito di Renzi. C’è dell’altro.

Per esempio, c’è il fatto che il Partito di Renzi ha fatto saltare la struttura della catena di comando propria del partito politico. I partiti (e questo lo si vede soprattutto nel caso del Pd, proprio perché in origine non personalistico) erano strutture collettive, aristocrazie (o oligarchie, se si vuol essere severi) che hanno fatto e condiviso scelte e che ora danno l’impressione al comune cittadino di impedire che emergano responsabilità individuali. Quando emergono, perché la magistratura indica potenziali responsabili di illeciti, è comunque troppo tardi. Al contrario del partito strutturato per collettivo, il Partito di Renzi è identificato con il suo leader e mostra al mondo la dimensione personale.

Ciò sembra convincere i cittadini che in questo caso, se non altro, vi è un responsabile individuale, visibile e senza coperture dietro dirigenze collettive. E del resto Renzi stesso ha reso assai popolare questa visione personale di responsabilità dichiarando spesso di “metterci la faccia”. “Ci metto la faccia”: questo un collettivo non può dirlo, sia esso una segreteria o un comitato centrale o un’assemblea nazionale. Solo il singolo può metterci la faccia, enunciare la sua responsabilità senza rete. È evidente che nelle azioni politiche la responsabilità non è mai un fatto semplice da imputare perché tante e complesse sono le condizioni che portano a una decisione, non ultima una larga discussione dentro e fuori del partito, condivisioni di idee e visioni che corresponsabilizzano molti o diversi. Il segretario del partito politico è in questo caso rappresentativo di un progetto, di una narrazione che unisce molti (e idealmente dovrebbe convincere tanti), non però un artefice dell’identità del partito in solitaria responsabilità. Ma anni di corruzione e malaffare ci hanno consegnato un’altra immagine della responsabilità: quella giudiziaria che è comunque del singolo, di colui che risponde direttamente alla legge. Ecco dunque la tensione tra due dominii di responsabilità: quello politico, mai solitario e mai semplice; quello giudiziario, sempre del singolo. Nel secondo caso “metterci la faccia” ha più senso che nel primo caso.

Si può dire quindi che il Partito di Renzi ha preso corpo a partire da una mentalità della responsabilità che è di tipo legale piuttosto che di tipo politico e che ha fatto breccia nell’opinione proprio per il troppo abuso della legge che ha segnato questi anni lunghi e infiniti di politica irresponsabile. È qui, in questa torsione personale (individuale) della responsabilità, in questa espansione della dimensione giuridica (e giudiziaria) che va cercata l’attrazione popolare del leader plebiscitario nell’Italia democratica post-partitica. Un’attrazione che si manifesta sia nel paese che nel Parlamento (dove il Partito di Renzi, non il Pd, fa da calamita che attrae consensi sbaragliando le opposizioni). Il Partito del leader è figlio di un’epoca che ha incenerito la responsabilità politica, la quale in una democrazia è collettiva e complessa, raramente di un leader solo al comando. È figlio di una politica le cui storture hanno portato i responsabili nelle aule di tribunale, un luogo dove ciascuno è costretto a metterci la faccia. Il problema è che questa non è la responsabilità sulla quale il partito politico può rinascere come progetto, compagine collettiva unita da una visione di paese e non solo dal magnetismo del cavallo vincente.

«500 mila firme entro 90 giorni contro il Fiscal compact. Nel comitato promotore economisti, sindacalisti, parlamentari di tutti gli schieramenti politici. Per eliminare le disposizioni che obbligano governo e parlamento a fissare obiettivi di bilancio più gravosi di quelli definiti in sede europea».

Il manifesto, 27 giugno 2014
Novanta giorni, da gio­vedì 3 luglio a mar­tedì 30 set­tem­bre. È que­sto il tempo a dispo­si­zione del comi­tato pro­mo­tore dei quat­tro refe­ren­dum «Stop all’austerità, sì alla cre­scita, sì all’Europa del lavoro e di un nuovo svi­luppo» per rac­co­gliere 500 mila firme e con­vo­care una con­sul­ta­zione popo­lare sul Fiscal com­pact, il «pilota auto­ma­tico» che obbli­gherà l’Italia a tagliare il debito pub­blico dal 133% al 60% a par­tire dal 2016 fino al 2036.

Com­po­sto da eco­no­mi­sti, giu­ri­sti e sin­da­ca­li­sti di diverso orien­ta­mento cul­tu­rale e poli­tico, dall’ex vice­mi­ni­stro Pdl dell’Economia, Mario Bal­das­sarri, al sin­da­ca­li­sta Cgil Danilo Barbi, dagli eco­no­mi­sti Ric­cardo Real­fonzo e Gustavo Piga, a Cesare Salvi, Laura Pen­nac­chi e Paolo De Ioanna, ieri alla pre­sen­ta­zione dell’iniziativa alla Camera dei depu­tati il comi­tato si è mostrato fidu­cioso sulla pos­si­bi­lità di sca­lare una vetta impe­gna­tiva in breve tempo. Un giu­ri­sta come Giu­lio Salerno ritiene che i quat­tro que­siti refe­ren­dari su alcune dispo­si­zioni della legge 243 del 2012 (la legge che ha attuato il prin­ci­pio di equi­li­brio del bilan­cio pub­blico intro­dotto dalla legge costi­tu­zio­nale n°1 del 2012), pos­sano essere giu­di­cati ammis­si­bili dalla Corte Costituzionale.

Il refe­ren­dum si rivolge ad una legge ordi­na­ria di attua­zione della Costi­tu­zione e non com­por­terà la vio­la­zione degli obbli­ghi con­tratti dal nostro paese in sede euro­pea o in un trat­tato inter­na­zio­nale, fat­ti­spe­cie che non potreb­bero essere oggetto di una con­sul­ta­zione refe­ren­da­ria. Secondo Giu­lio Salerno, pur essendo stato votato dalla mag­gio­ranza asso­luta dei mem­bri delle Camere, il pareg­gio di bilan­cio non può essere con­si­de­rato una norma «rin­for­zata e orga­nica». In più, non tutte le parti del pila­stro dell’austerità finan­zia­ria sono costi­tu­zio­nal­mente vin­co­late. È anzi pos­si­bile abro­gare i punti che non inci­dono diret­ta­mente sulla defi­ni­zione del bilan­cio dello Stato.

Que­sto aspetto è stato stu­diato nell’ultimo anno in una serie di incon­tri e di pub­bli­ca­zioni curate dall’associazione «Viag­gia­tori in movi­mento». Creata dall’economista Gustavo Piga, a que­sta asso­cia­zione par­te­ci­pano anche poli­tici della prima e della seconda Repub­blica quali Mario Segni, Gior­gio La Malfa, Enzo Carra e Paolo Cirino Pomi­cino, oltre che Bruno Tabacci e Cesare Salvi. Una volta com­po­sto il comi­tato pro­mo­tore, e otte­nuto l’impegno della Cgil a rac­co­gliere le firme durante l’estate, si è pre­ci­sata la rispo­sta all’insidioso argo­mento sull’ammissibilità del refe­ren­dum anti-austerity. Tranne il rife­ri­mento ai para­me­tri giu­ri­dici euro­pei, la legge 243 del 2012 non accenna al trat­tato inter­na­zio­nale costi­tu­tivo del Fiscal com­pact. Quest’ultimo non riguarda l’Unione euro­pea, ma gli stati che hanno ade­rito alla moneta unica. Il comi­tato pro­mo­tore ritiene così di avere aggi­rato i divieti per l’iniziativa referendaria.

I quat­tro «Sì» richie­sti potreb­bero modi­fi­care l’applicazione «ottusa» del prin­ci­pio dell’equilibrio di bilan­cio, eli­mi­nando alcune gravi stor­ture intro­dotte dal par­la­mento ita­liano. Si vuole così eli­mi­nare le dispo­si­zioni che obbli­gano governo e par­la­mento a fis­sare obiet­tivi di bilan­cio più gra­vosi di quelli defi­niti in sede euro­pea. Il refe­ren­dum abroga la dispo­si­zione che pre­vede la cor­ri­spon­denza tra il prin­ci­pio costi­tu­zio­nale di bilan­cio e il con­sid­detto «obiet­tivo a medio ter­mine» sta­bi­lito in Europa, una norma che non è impo­sta dal Fiscal com­pact. Vin­cendo il refe­ren­dum, l’Italia potrebbe ricor­rere all’indebitamento per rea­liz­zare ope­ra­zioni finan­zia­rie, un’azione oggi vie­tata. Infine, ver­rebbe abro­gata l’attivazione auto­ma­tica del mec­ca­ni­smo che impone tasse o tagli alla spesa pub­blica in caso di non rag­giun­gi­mento dell’obiettivo di bilan­cio, deciso dai trat­tati inter­na­zio­nali e non dall’Unione europea.

Al di là dei tec­ni­ci­smi, il signi­fi­cato del refe­ren­dum è poli­tico. Vuole rom­pere l’embargo intel­let­tuale e la para­lisi poli­tica creata dal com­mis­sa­ria­mento della poli­tica eco­no­mica da parte delle lar­ghe intese e rac­co­gliere un con­senso dif­fuso sul fatto che i trat­tati euro­pei vanno cam­biati, non sem­pli­ce­mente appli­cati. Secondo l’economista Ric­cardo Real­fonzo, la pro­spet­tiva indi­cata dal pre­si­dente del Con­si­glio Renzi, quella dell’«austerità fles­si­bile», è ina­de­guata: «Va incon­tro ai Paesi in dif­fi­coltà senza però cam­biare real­mente il disa­stro pro­dotto dalle poli­ti­che ispi­rate all’”austerità espan­siva” — afferma — Tra l’altro sono stati fatti errori enormi sui mol­ti­pli­ca­tori fiscali. È scien­ti­fi­ca­mente pro­vato ormai che, ad esem­pio, un taglio da 10 miliardi di euro alla spesa pub­blica implica una per­dita di 17 miliardi di euro del Pil. Renzi vuole atte­nuare l’austerità invo­cando la fles­si­bi­lità dei trat­tati, ma in realtà si è impe­gnato a rag­giun­gere gli stessi obiet­tivi di lungo periodo sta­bi­liti nei trat­tati. Per que­sto oggi abbiamo biso­gno di una spinta dal basso per eser­ci­tare una pres­sione sul governo ita­liano e quelli euro­pei. Biso­gna dare un segnale forte».

Ad oggi hanno ade­rito alla cam­pa­gna refe­ren­da­ria Sel e alcuni espo­nenti del par­tito Demo­cra­tico. Per l’ex vice-ministro dell’economia Ste­fano Fas­sina (Pd), il refe­ren­dum è l’unica strada «per sal­vare l’Europa» anche se il «Par­la­mento non è ancora con­sa­pe­vole della dram­ma­ti­cità della que­stione», così come lo stesso Renzi non ha «dato la sen­sa­zione di essere con­sa­pe­vole». Al refe­ren­dum sarebbe inte­res­sato anche Gianni Cuperlo. L’ex Sel, Gen­naro Migliore, pas­sato al gruppo misto, lo sostiene. «Oggi si fa molta reto­rica sull’austerità – ha detto Giu­lio Mar­con (Sel) – ma sulle scelte poli­ti­che non si fa un passo avanti. I trat­tati vanno cam­biati, il refe­ren­dum ci offre uno stru­mento per rilan­ciare il dibattito».

«Il sistema orchestrato dagli indagati ha anche alterato profondamente le regole della concorrenza ed ha inquinato sensibilmente il settore della ricostruzione privata».

Corriere della sera, 26 Giugno, 2014 (mpr)

L’Aquila — Gli incontri avvenivano al Casinò di Venezia, una o due volte al mese. Lì l’imprenditore cinquantacinquenne di origini casertane Alfonso Di Tella, da anni trapiantato in Abruzzo, discuteva con Aldo Nobis, fratello di Salvatore Nobis detto «Scintilla» per la particolare abilità nel far saltare in aria negozi e uffici di chi si rifiutava di pagare il «pizzo» ai Casalesi, «braccio armato ed affiliato del sodalizio di Michele Zagaria» oggi rinchiuso al «carcere duro»; oppure con Raffaele Parente, imprenditore imparentato con esponenti di spicco del clan campano, sfuggito a un agguato di camorra. In più di un’occasione, gli investigatori della Guardia di finanza hanno visto Nobis consegnare fiches dal valore di migliaia di euro alla fidanzata rumena di Di Tella, che le riponeva nella borsetta.

Situazioni e circostanze che hanno convinto i magistrati della Direzione distrettuale antimafia dell’Aquila, guidata dal procuratore Fausto Cardella, a ritenere Di Tella uno dei tentacoli imprenditoriali dei Casalesi allungatosi sulla ricostruzione del dopo-terremoto in Abruzzo. Il meccanismo è lo stesso accertato in un’altra recente indagine, condotta dalla polizia, sulla ristrutturazione delle chiese danneggiate dal sisma: infilarsi nella riparazione degli edifici privati, pagata con sovvenzioni pubbliche ma affidata senza gare e senza alcun controllo. In questo modo un paio di ditte aquilane si sono assicurati i lavori su una decina di immobili (per un valore complessivo di altrettanti milioni), successivamente sub-appaltati a Di Tella il quale si occupava di recuperare manodopera a basso costo, di origine straniera e campana; gli stessi operai erano poi costretti a restituire a Di Tella una quota degli stipendi, realizzando — secondo gli inquirenti — un’estorsione in piena regola, aggravata dal favoreggiamento della camorra. Di qui l’arresto eseguito ieri di Di Tella, suo fratello Cipriano e suo figlio Domenico, oltre a quattro imprenditori aquilani, accusati di «intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro», ciò che normalmente viene definita «caporalato».
Gli operai venivano reclutati in Campania e trasportati all’inizio di ogni settimana all’Aquila, alloggiati in camerate da venti posti con i letti a castello, e regolarmente pagati dalle imprese aquilane per cui risultavano assunti. Solo che poi una parte dei salari, in particolare le quote relative al Tfr e alla cassa mutua edile, venivano riversate dagli stessi lavoratori a Di Tella. Una sorta di «pizzo» preteso dall’imprenditore amico dei Casalesi che teneva una contabilità parallela per ciascun operaio, grazie alle copie delle buste paga che gli imprenditori locali gli consegnavano di mese in mese.
Sono alcune frasi pronunciate dallo stesso Di Tella nelle conversazioni intercettate dalla Finanza a confermare il modus operandi stigmatizzato così dal giudice che ha ordinato gli arresti: «Il sistema orchestrato dagli indagati, oltre a creare un intero settore economico nel quale è riscontrabile un pesante sfruttamento dei lavoratori, ha anche alterato profondamente le regole della concorrenza ed ha inquinato sensibilmente il settore della ricostruzione privata». Inoltre, «attraverso l’opera dei Di Tella, il clan casalese di Michele Zagaria si presenta sul territorio di riferimento come soggetto in grado di garantire concrete e rapide opportunità di lavoro».
Parlando con un amico, Di Tella spiega i rapporti con la manodopera costretta a versargli una quota dello stipendio: «Gli operai miei tutti quanti lo sanno! Quello che è il vostro è il vostro, ma quello che è mio è mio! Non me ne fotte proprio!... A luglio arriva la cassa edile: me la date!... Chi si lamenta se ne può pure andare». In un’altra intercettazione Di Tella spiega che gli operai erano tenuti a versargli la quota dovuta non appena ricevevano l’accredito sul conto corrente, prelevando subito i contanti: «Ti trovi? Tu 1.100 euro per giovedì li prendi a me... al bancomat...»; le indagini condotte dal pubblico ministero David Mancini e dalle Fiamme gialle hanno accertato che quel giorno l’operaio indicato dall’imprenditore ha fatto un prelievo corrispondente alla cifra indicata e ritrovata sulla contabilità parallela di Di Tella. Il quale poi andava ad incontrare personaggi contigui ai Casalesi al Casinò di Venezia, indicato dal pentito di camorra Raffele Piccolo come uno dei luoghi «utilizzati per riciclare denaro proveniente dall estorsioni, tramite il cambio di assegni».
Per il procuratore nazionale antimafia Roberti, l’indagine aquilana è «una nuova dimostrazione esemplare di come talune imprese legate ai Casalesi riescono a infiltrarsi in alcune aree attraverso l’imprenditoria apparentemente pulita. La vera forza delle mafie sta fuori dalle mafie, nella zona grigia che le circonda».

«Come mai non c’è una voce dissontante tra i grandi media che plaudono a Renzi? La crisi ha avviato una torsione oligarchica che si riflette nel sistema dell’informazione.deplo­re­vole stato dell’informazione poli­tica, tra le prin­ci­pali con­cause del disa­stro italiano».

Il manifesto, 26 giugno 2014

Non credo di essere il solo a pro­vare nau­sea per l’ossessivo mar­tel­la­mento sulle «riforme». Un incubo. In pas­sato abbiamo denun­ciato l’abuso di que­sto nobile lemma del les­sico poli­tico, e l’ironia che ne ribal­tava il senso. Sullo sfondo della glo­ba­liz­za­zione neo­li­be­ri­sta, «riforme» erano i colpi inferti alle con­qui­ste sociali e ope­raie, dalle pen­sioni alle tutele del lavoro, al carat­tere pub­blico di sanità, scuola e uni­ver­sità. Non ave­vamo ancora visto nulla. Non ave­vamo imma­gi­nato che cosa sarebbe stato il man­tra delle riforme al tempo del ren­zi­smo trion­fante. Non c’è gior­nale né tele­gior­nale che non gli dedi­chi il posto d’onore. E che fior di riforme! Da set­ti­mane ten­gono banco quelle del pub­blico impiego e del Senato: la pre­ca­riz­za­zione del primo e il ridi­men­sio­na­mento del secondo, tra­sfor­mato in una docile Camera degli ammi­ni­stra­tori.

Nel merito di entrambe ci sarebbe molto da dire. Il governo stra­parla di cre­scita e occu­pa­zione, ma intanto minac­cia i dipen­denti pub­blici – notori nababbi fan­nul­loni – con misure che scon­vol­ge­ranno let­te­ral­mente la vita di milioni di fami­glie, soprat­tutto se il lavo­ra­tore in que­stione è una donna con figli. Quanto al Senato, il dise­gno è stato demo­lito dai più impor­tanti costi­tu­zio­na­li­sti, che hanno mostrato come esso miri, in siner­gia con la nuova legge elet­to­rale, a costi­tu­zio­na­liz­zare la pri­ma­zia dell’esecutivo quale pro­dut­tore di norme. Cioè a rove­sciare l’ispirazione anti-autoritaria della Carta del ’48. Ma non è della sostanza delle riforme che vor­rei par­lare, bensì del deplo­re­vole stato dell’informazione poli­tica, tra le prin­ci­pali con­cause – credo – del disa­stro italiano.

Pren­der­sela con i gior­na­li­sti, si sa, non serve a molto. La cor­po­ra­zione rea­gi­sce nel nome della sacra libertà di stampa, che peral­tro da noi non scop­pia di salute. E si trin­cera die­tro un bril­lante argo­mento: se c’è un pro­blema, per­ché pren­der­sela con chi si limita a par­larne? Pec­cato che le cose non siano tanto sem­plici. E che tra rac­con­tare e fare – o tra fare e tacere – non corra tutta que­sta distanza quando ci si muove sulla scena pubblica.

L’anno scorso que­sto gior­nale con­dusse, soli­ta­rio, una cam­pa­gna con­tro il sistema media­tico, impe­gnato ad aval­lare la men­zo­gna secondo cui la crisi sarebbe di per sé causa di povertà e disoc­cu­pa­zione. Come se fosse ine­vi­ta­bile affron­tarla per mezzo delle misure deflat­tive che, ovvia­mente, l’hanno ali­men­tata, e non fosse nem­meno imma­gi­na­bile aggre­dirla redi­stri­buendo risorse (quindi impo­nendo misure dra­sti­che di equità fiscale) e rilan­ciando la domanda effet­tiva di beni e ser­vizi. Da ultimo lo ha ammesso per­sino il pre­si­dente della Bce, pun­tando il dito sull’austerity e sulla mio­pia dei ver­tici comu­ni­tari, pri­gio­nieri della teo­lo­gia mone­ta­ri­sta. Ma nem­meno que­sto ser­virà. I tagli alla spesa reste­ranno il piatto forte della poli­tica eco­no­mica. Chi vive di sti­pen­dio con­ti­nuerà a rischiare di per­derlo e se lo vedrà man­giare dal «rigore». E la vul­gata amman­nita al popolo rimarrà quella del «risa­na­mento» e dei sacri­fici «neces­sari per i nostri figli».

Adesso, qui da noi, si è aggiunta la grande nar­ra­zione delle riforme. Per non farci mai man­care niente. Da quando «il pre­mier Renzi» ha con­qui­stato il Pd e palazzo Chigi e ha sban­cato alle ele­zioni di mag­gio, non ci si salva più. Il rac­conto delle sue gesta e dei suoi pro­getti occupa inva­ria­bil­mente gran parte dei noti­ziari, come al tempo del duce. Ed è come una bomba a grap­polo, che dis­se­mina veleni.

Intanto, è un rac­conto incom­pren­si­bile. Si dice che l’una forza poli­tica o sin­da­cale difende la pro­po­sta del governo men­tre l’altra auspica una modi­fica. Ma come in un tea­trino di mario­nette, quasi si trat­tasse di gusti per­so­nali. Nes­suno che si azzardi a chia­rire la vera posta in gioco, quali con­se­guenze com­porti, poniamo, la non-elettività dei sena­tori o la facoltà di spo­stare di decine di chi­lo­me­tri, senza uno strac­cio di moti­va­zione, la sede di ser­vi­zio nel pub­blico impiego. Quel che conta è aval­lare la grande dice­ria del cam­bia­mento. Il governo tra­sforma, «cam­bia verso»: que­sto importa, e guai al disfat­ti­sta che eccepisce.

Poi la reto­rica delle riforme assorbe, di fatto, ogni ana­lisi del qua­dro economico-sociale, che eva­pora dinanzi al «grande can­tiere» rifor­mi­sta. Sem­bra che tutto, let­te­ral­mente, ne dipenda, col risul­tato di oscu­rare tutti i pro­blemi di un paese sem­pre più affan­nato e spa­ven­tato. Si salva, per forza di cose, il discorso sulla cor­ru­zione, troppo ingom­brante per met­terlo a tacere. Ma sul resto – la chiu­sura delle fab­bri­che; i con­trac­colpi sociali e morali della disoc­cu­pa­zione; la povertà delle fami­glie; il degrado delle scuole, delle uni­ver­sità, degli ospe­dali pub­blici, delle biblio­te­che, del ter­ri­to­rio – il più stretto silenzio.

Ora, la que­stione del fun­zio­na­mento per­verso di quella che ci osti­niamo a chia­mare «infor­ma­zione» è dav­vero troppo deli­cata e seria per­ché non la si torni a porre. Come mai fun­ziona così? Come mai non c’è di fatto voce dis­so­nante tra i mag­giori organi dell’informazione scritta o par­lata? La spie­ga­zione clas­sica – che i prin­ci­pali media sono per tra­di­zione gover­na­tivi – non basta, per­ché que­sto feno­meno, con que­ste carat­te­ri­sti­che tota­li­ta­rie, è tutto som­mato recente. Non basta nem­meno evo­care la que­stione pro­prie­ta­ria, che pure va tenuta pre­sente. I mag­giori media pri­vati, in linea di prin­ci­pio indi­pen­denti, sono in mano a grandi capi­ta­li­sti, certo poco inte­res­sati a un’opinione pub­blica infor­mata e poten­zial­mente cri­tica. Resta che ancora dieci anni fa il coro non era una­nime. Si scon­tra­vano let­ture diverse, fon­date su diverse attri­bu­zioni di respon­sa­bi­lità. Allora cos’è suc­cesso poi, per­ché oggi ci ritro­viamo in que­sta situazione?

Azzardo sche­ma­ti­ca­mente una spie­ga­zione come prima ipo­tesi. Forse pro­prio la crisi ha cam­biato le cose, rive­lan­dosi, anche da que­sto punto di vista, un pro­cesso costi­tuente. Dal 2007 sono in corso in tutto l’Occidente tra­sfor­ma­zioni strut­tu­rali della dina­mica pro­dut­tiva che ven­gono modi­fi­cando, a cascata, la com­po­si­zione sociale e i rap­porti di classe, i sistemi poli­tici, gli assetti di potere in seno alle classi diri­genti, l’intero qua­dro delle rela­zioni inter­na­zio­nali.

Viene gene­ra­liz­zan­dosi – soprat­tutto nella peri­fe­ria – il modello della cre­scita senza occu­pa­zione, che tende a sem­pli­fi­care la strut­tura sociale nel senso della pola­riz­za­zione pre­co­niz­zata dal vec­chio Marx. I corpi inter­medi vedono fatal­mente ero­dersi i pro­pri resi­duali mar­gini di mano­vra. La sfera poli­tica subi­sce duri con­trac­colpi, come mostra, non sol­tanto in Ita­lia, il degra­darsi del bipo­la­ri­smo a puro masche­ra­mento di un grande cen­tro con­ser­va­tore che «riforma» instan­ca­bil­mente lo stato di cose al solo scopo di con­so­li­darlo. In una parola, le demo­cra­zie euro­pee si ven­gono alli­neando al modello ame­ri­cano, met­tendo fuori gioco, forse defi­ni­ti­va­mente, l’idea sov­ver­siva adom­brata dai nostri Costi­tuenti, quella di una demo­cra­zia par­te­ci­pata, fon­data sulla sovra­nità della classe lavo­ra­trice. Si tratta di una ten­den­ziale tor­sione oli­gar­chica delle dina­mi­che di con­trollo e di governo, nella quale sem­bra di poter cogliere la rispo­sta difen­siva e aggres­siva del capi­ta­li­smo alla crisi sto­rica della pro­pria espan­si­vità. In que­sto con­te­sto non sor­prende la meta­mor­fosi in atto nel sistema infor­ma­tivo: il suo modo di ope­rare e soprat­tutto la sua nuova sostan­ziale univocità.

Oggi non serve più infor­mare e orien­tare l’opinione pub­blica nel con­flitto sociale di massa, come avve­niva al tempo della prima Repub­blica, sullo sfondo di uno sce­na­rio poli­tico real­mente plu­ra­li­sta, e ancora, ben­ché sem­pre meno, sino a pochi anni addie­tro. Serve, al con­tra­rio, disin­for­mare per diso­rien­tare, in modo da oscu­rare il pro­cesso di costi­tu­zione del nuovo ame­ri­ca­ni­smo e da lasciare mano libera all’azione distrut­tiva dei governi e dei poteri sovra­na­zio­nali che det­tano loro l’agenda. Serve pri­vare il grosso della popo­la­zione degli stru­menti di deci­fra­zione dei pro­cessi in corso e, soprat­tutto, pre­ve­nire la for­ma­zione di pen­sieri cri­tici.

Per que­sto non deve mera­vi­gliare la sostan­ziale omo­ge­neità del sistema media­tico, intento a rap­pre­sen­tare la scena poli­tica sulla base di un qua­dro inter­pre­ta­tivo ampia­mente con­di­viso. Gli accenti diver­gono natu­ral­mente, ma ormai sol­tanto sui det­ta­gli. Men­tre sui fon­da­men­tali si impon­gono i tabù, le auto-evidenze, le nuove orto­dos­sie. Ovvia­mente tutto que­sto non avviene nel vuoto né nel silen­zio, ma, in appa­renza, den­tro un finto pieno. Si parla, si stra­parla, addi­rit­tura si annega nei talk-show. Lo spa­zio pub­blico è satu­rato da chiac­chiere fini a se stesse che dimo­strano bril­lan­te­mente che non c’è pro­prio null’altro di cui par­lare e, soprat­tutto, nient’altro da dire. Magari, di que­sto passo, la «gente» finirà con lo stan­carsi, qual­che testata chiu­derà, qual­che cen­ti­naio di gior­na­li­sti andrà a casa. Pazienza. Anzi, tanto meglio. O c’è qual­cuno che rim­piange i tempi in cui si cre­deva ancora nelle ideo­lo­gie, se non addi­rit­tura nell’esistenza di classi in con­flitto tra loro?

Violando la Costituzione, il governo Renzi prosegue nella politica oltranzista iniziata dai peggiori governi DC. Andreotti prosegue con la ministra Pinotti: l'Italia testa di lancia degli USA nell'area che s'affaccia sul Mediterraneo .

Il manifesto, 24 giugno 2014

Dopo aver rice­vuto l’imprimatur del Con­si­glio supremo di difesa, con­vo­cato dal pre­si­dente Napo­li­tano, la mini­stra Pinotti ha pub­bli­cato le linee guida del futuro «Libro bianco per la sicu­rezza inter­na­zio­nale e la difesa», che trac­cerà «la stra­te­gia evo­lu­tiva delle Forze armate sull’orizzonte dei pros­simi 15 anni». Stra­te­gia che, come indi­cano le linee guida, con­ti­nuerà a seguire il solco aperto nel 1991, subito dopo che la Repub­blica ita­liana aveva com­bat­tuto nel Golfo, sotto comando Usa, la sua prima guerra. Sulla fal­sa­riga del rio­rien­ta­mento stra­te­gico del Pen­ta­gono, il mini­stero della difesa del governo Andreotti annun­ciò un «nuovo modello di difesa». Vio­lando la Costi­tu­zione, esso sta­bi­liva che com­pito delle Forze armate è «la tutela degli inte­ressi nazio­nali, nell’accezione più vasta di tali ter­mini, ovun­que sia neces­sa­rio» e defi­niva l’Italia «ele­mento cen­trale dell’area che si estende dallo Stretto di Gibil­terra al Mar Nero, col­le­gan­dosi, attra­verso Suez, col Mar Rosso, il Corno d’Africa e il Golfo Persico».

Que­sto «modello di difesa» è pas­sato da un governo all’altro, da una guerra all’altra sem­pre sotto comando Usa (Jugo­sla­via, Afgha­ni­stan, Iraq, Libia), senza mai essere discusso in quanto tale in par­la­mento. Tan­to­meno lo sarà ora: la mini­stra della Difesa — ha deciso il Con­si­glio supremo pre­sie­duto da Napo­li­tano — invierà le linee guida ai pre­si­denti delle com­mis­sioni Esteri e Difesa dei due rami del par­la­mento, «affin­ché ne pos­sano even­tual­mente venire valu­ta­zioni e sug­ge­ri­menti utili alla defi­ni­zione del Libro bianco, di cui il governo si è assunto l’iniziativa e la responsabilità».

Resta dun­que immu­tato l’indirizzo di fondo, che non può essere messo in discus­sione. Com­pito delle forze armate — si riba­di­sce nelle linee guida — è non tanto la difesa del ter­ri­to­rio nazio­nale, oggi molto meno sog­getto a minacce mili­tari tra­di­zio­nali, quanto la difesa degli «inte­ressi nazio­nali», soprat­tutto gli «inte­ressi vitali», in par­ti­co­lare la «sicu­rezza eco­no­mica». Sicu­rezza che con­si­ste nella «pos­si­bi­lità di usu­fruire degli spazi e delle risorse comuni glo­bali senza limi­ta­zioni», con «par­ti­co­lare rife­ri­mento a quelle ener­ge­ti­che». A tal fine l’Italia dovrà ope­rare nel «vici­nato orien­tale e meri­dio­nale dell’Unione euro­pea, fino ai paesi del cosid­detto vici­nato esteso» (com­preso il Golfo Per­sico). Per la sal­va­guar­dia degli «inte­ressi vitali» — si chia­ri­sce — «il Paese è pronto a fare ricorso a tutte le ener­gie dispo­ni­bili e ad ogni mezzo neces­sa­rio, com­preso l’uso della forza o la minac­cia del suo impiego».

Nel pros­simo futuro le Forze armate saranno chia­mate a ope­rare per il con­se­gui­mento di obiet­tivi sem­pre più com­plessi, poi­ché «rischi e minacce si svi­lup­pe­ranno all’interno di estese e fram­men­tate aree geo­gra­fi­che, sia vicine sia lon­tane dal ter­ri­to­rio nazio­nale». Rife­ren­dosi in par­ti­co­lare a Iraq, Libia e Siria, il Con­si­glio supremo sot­to­li­nea che «ogni Stato fal­lito diviene ine­vi­ta­bil­mente un polo di accu­mu­la­zione e di dif­fu­sione glo­bale dell’estremismo e dell’illegalità». Igno­rando che il «fal­li­mento» di que­sti e altri Stati deriva dal fatto che essi sono stati demo­liti con la guerra dalla Nato, con l’attiva par­te­ci­pa­zione delle Forze armate ita­liane. Secondo le linee guida, esse devono essere sem­pre più tra­sfor­mate in «uno stru­mento con ampio spet­tro di capa­cità, inte­gra­bile in dispo­si­tivi mul­ti­na­zio­nali», da impie­gare «in ogni fase di un con­flitto e per un pro­tratto periodo di tempo».
Le risorse eco­no­mi­che da desti­nare a tale scopo, sta­bi­li­sce il Con­si­glio supremo di difesa, «non dovranno scen­dere al di sotto di livelli minimi inva­li­ca­bili» (che diver­ranno sem­pre più alti) poi­ché — si sot­to­li­nea nelle linee guida — «lo stru­mento mili­tare rap­pre­senta per il paese una assi­cu­ra­zione e una garan­zia per il suo stesso futuro». A tal fine si pre­an­nun­cia una legge di bilan­cio quin­quen­nale per i mag­giori inve­sti­menti della Difesa (come l’acquisizione del nuovo cac­cia F-35), così da for­nire «l’indispensabile sta­bi­lità di risorse».

Occorre inol­tre «spin­gere l’industria a muo­versi secondo tra­iet­to­rie tec­no­lo­gi­che e indu­striali che pos­sano rispon­dere alle esi­genze delle Forze armate». In altre parole, si deve dare impulso all’industria bel­lica, pun­tando sull’innovazione tec­no­lo­gica, «resa neces­sa­ria dall’esigenza di un con­ti­nuo ade­gua­mento dei sistemi», ossia dal fatto che i sistemi d’arma devono essere con­ti­nua­mente ammo­der­nati. È neces­sa­rio allo stesso tempo non solo un migliore adde­stra­mento dei mili­tari, ma un gene­rale ele­va­mento dello «sta­tus del per­so­nale mili­tare», attra­verso ade­gua­menti giu­ri­dici e normativi.

Poi­ché nasce dalla «esi­genza di tute­lare i legit­timi inte­ressi vitali della comu­nità», si afferma nelle linee guida, «la Difesa non può essere con­si­de­rata un tema di inte­resse essen­zial­mente dei mili­tari, quanto della comu­nità tutta». La mini­stra Pinotti invita quindi tutti gli ita­liani a inviare «even­tuali sug­ge­ri­menti» alla casella di posta elet­tro­nica librobianco@​difesa.​it. Spe­riamo che i let­tori del mani­fe­sto lo fac­ciano in tanti.

I gattopardi veneziani. Tutto venga cambiato perché tutto rimanga come prima. Pur di restare in sella.

La Nuova Venezia 3 giugno 2014

Appello degli ex assessori Simionato, Maggioni, Bergamo, Ferrazzi e Bettin al commissario: «Pronti a dare un contributo»
Appello al commissario che prenderà le redini del Comune di Venezia: «Non fermi i cantieri in città». Un coro di richieste arriva dagli ex assessori della giunta di Giorgio Orsoni, rimasti senza deleghe al ritorno alla libertà del primo cittadino dimissionario, dopo i domiciliari. Un appello in linea con quello di Ance, Confindustria e Ava per non fermare la città.
Tutti sono pronti, a partire dall’ex vicesindaco con delega al bilancio, Sandro Simionato a presentarsi davanti al commissario, che dovrebbe essere nominato dal ministero dell’Interno già domani per informarlo della situazione dei conti, anzitutto. «L’ho detto dal primo momento: questa amministrazione si chiude in modo traumatico, ma ha agito sempre con correttezza e trasparenza e la città non merita ulteriori scossoni negativi. Quindi, massima disponibilità ad informare il commissario a partire dalle nostre analisi sul bilancio 2014, per ridurre i tagli dopo la mancata vendita del Casinò».
Tanti progetti sono finanziati e appaltati e attendono l’ultimo ok finale. «Siamo disponibili a dare il nostro contributo negli interessi della città», dicono gli ex assessori. «Le vicende giudiziarie hanno oscurato la valenza del lavoro fatto da questa amministrazione con un impegno che ha mosso tutti, dal sindaco all’ultimo dei consiglieri», dice Alessandro Maggioni, ex responsabile dei Lavori Pubblici. «E l’amarezza più forte è quella di aver lavorato per la città e non vedere tutti i frutti», aggiunge Ugo Bergamo. «Non ho più incarichi pubblici», insiste Maggioni, «ma sono a disposizione, come tutti gli altri assessori, a dialogare con il commissario per informarlo sui cantieri aperti.
Mi riferisco al macroprogetto dei lavori in centro a Mestre, tra via Poerio e Riviera XX Settembre, ma anche altri interventi attesi da cittadini e comitati». Il grande cantiere del Marzenego ha finanziamenti certi (4 milioni dallo Stato) e appalti assegnati (o quasi visto che per il secondo lotto sono in corso verifiche). E bisogna decidere se aprire o meno l’ultimo tratto di fiume interrato alla fine della Riviera.
«Io ho il rammarico di non vedere andare in porto l’accordo per la riqualificazione della stazione e pure il Pat che io volevo firmare entro fine mese e che ora potrà firmare il commissario o ancora il Palacinema del Lido. Tanti progetti che devono andare avanti. Se il commissario lo riterrà necessario, io sono disponibile a spiegargli le priorità del settore di mia competenza», aggiunge Andrea Ferrazzi, ex responsabile di Urbanistica.
«Il commissario ci sentirà, è una prassi consolidata e io sono pronto a dare il mio contributo: ricordo che c’è il tram da portare fino a Marghera e Venezia, la ciclabile sul Ponte della libertà, il secondo lotto della Vallenari bis, il Piano del traffico che è in itinere, la sistemazione dei pontili Actv , la sistemazione dei piazzali Cialdini e Favretti». Portare in porto questi cantieri sarebbe un modo, fa capire Bergamo, per riconfermare la serietà della giunta Orsoni, nonostante «il fango in cui siamo stati trascinati tutti, consiglio compreso, senza alcuna responsabilità».
Pensa al Parco della Laguna e alla riconversione di Porto Marghera Gianfranco Bettin, ex dell’Ambiente: «Spero che nessuno si azzardi a fermare i processi già avviati. Anch’io sono disponibile a fare la mia parte. Un ruolo fondamentale lo avranno i direttori dei vari settori. Io mi affido anche a loro, alla loro serietà e competenza». Bettin ribadisce il disappunto per come è finita malamente l’esperienza di giunta. «I venti giorni di tempo per le dimissioni del sindaco servivano proprio per organizzare un passaggio di consegne ordinato. Tutto cancellato da un colpo di testa irrazionale». Quello di Orsoni.

«Ecosinistre/.L'agenda politica del cambiamento in Europa non può fare a meno delle «ecosinistre» e diventa possibile solo se un'altra politica riprende il comando».

Altraeconomia.info, 13 giugno 2014
Martedì scorso Alexis Tsipras ha incontrato a Francoforte Mario Draghi. Il leader del primo partito di Grecia discute con uno dei responsabili delle politiche europee che hanno distrutto il paese. Ma potremmo anche dire che il candidato a presiedere un cambio di rotta della Commissione europea discute con l'unico potente d'Europa che sta cambiando (almeno un po') politica. È un segno di quanto sia confusa l'Europa del dopovoto, con equilibri politici incerti in Parlamento e nessun accordo sulla scelta di chi guiderà la Commissione.

È un peccato che l'italiano - nell'incontro a Francoforte - sieda dietro la scrivania del banchiere e non su un 27% di voti di sinistra. Ma per ora accontentiamoci. Non è poco un banchiere centrale che guarda da vicino che cosa si muove fuori del perimetro della «grande coalizione» di Atene e Bruxelles. È uno sguardo che dobbiamo avere anche noi. In quell'area, a Bruxelles, c'è la Sinistra europea di Tsipras e il gruppo dei Verdi, messi a confronto nel numero scorso di «Sbilanciamo l'Europa» sulla base dei consensi ottenuti e dei programmi di lavoro. In queste pagine chiediamo ad alcuni protagonisti italiani della sinistra, dell'ambientalismo, dei movimenti, di misurarsi con quell'orizzonte e con le possibilità di un lavoro comune.

Le risposte che abbiamo ricevuto nel nostro Forum delineano un quadro poco incoraggiante. Le forze che potrebbero contrastare la «grande coalizione» sono frammentate in Europa e molto esili in Italia. Sulle divisioni pesano schieramenti e ideologie, culture politiche e appartenenze nazionali. Anche in Italia l'agenda politica è ancora cucita su misura dell'identità politica di ciascuna organizzazione, anziché sugli spazi e sulle alleanze possibili. L'autoreferenzialità prevale sulle convergenze, l'interesse immediato sull'orizzonte più lungo. Per non parlare di comportamenti concreti che sono spesso scoraggianti. Eppure l'agenda politica del cambiamento in Europa non può fare a meno delle «ecosinistre». Disoccupazione di massa, disuguaglianze record e cambiamento climatico possono trovare una soluzione solo se un'altra politica riprende il comando, e mette fine al trentennio liberista. Sinistra e ambientalismo hanno bisogno l'una dell'altra per costruire l'alternativa al mercato che fa da solo. Entrambe hanno bisogno di una cultura pacifista, unico argine ai conflitti che tornano a esplodere alle porte dell'Europa: in Ucraina, in Turchia, in Bosnia e in tutto il mondo arabo.

L'altra convergenza necessaria è quella tra l'«alto» dei palazzi e il «basso» di una società in sofferenza come mai prima. Impoverimento, mancanza di prospettive, individualismo sono alla radice del populismo del M5s in Italia e della reazione nazionalista in nord Europa. Solo un'altra politica potrebbe ridurre una distanza incolmabile. Solo una democrazia praticata offre un antidoto all'antipolitica, un terreno di convergenza per i movimenti, di ricomposizione per la società, di dialogo tra le culture politiche. Se si parlano Tsipras e Draghi, perché non un confronto stabile su un'agenda comune tra i gruppi europei lasciati fuori dalla «grande coalizione»? I nostri destini sono sempre più legati a Bruxelles, e così Sbilanciamoci! e il manifesto continueranno a proporre ai lettori queste pagine di approfondimento. Ci servono strumenti per capire e energie per evitare il peggio: Sbilanciamoci! invita tutti alla scuola estiva dell'Università di Urbino per capire «L'economia com'è e come può cambiare».

Analisi convincente del rischio socialnazionalista del PMR, e proposta per evitarlo: «Comin­ce­rei dal pro­gramma, dieci, dodici punti, per­ché si sta insieme, e si sta insieme qui e non altrove» .

Il manifesto, 17 giugno 2014, postilla

Renzi, Grillo, Berlusconi. Il 17-18 per cento è quanto valgono, nei rispettivi partiti, i leader che ne sono, fin dalle origini, i padroni. La sfiducia nella democrazia diventa formidabile strumento di consenso con la macchina mediatica schierata al gran completo. In Italia non esiste oggi una forza di sinistra. Per questo renzismo, grillismo, berlusconismo hanno dilagato. Bisognerebbe iniziare a costruirla

Il dato più rile­vante di que­sta breve ma inten­sis­sima fase sto­rica resta, senza ombra di dub­bio, l’affermazione elet­to­rale (soprat­tutto in ter­mini per­cen­tuali) di Mat­teo Renzi. Il gio­vane lea­der è arri­vato a que­sta affer­ma­zione, come non mi stanco di ripe­tere, senza nes­suna delle tra­di­zio­nali inve­sti­ture “demo­cra­ti­che” in uso nel sistema poli­tico ita­liano dal 1945 in poi. Renzi ha ini­ziato la sua con­qui­sta del potere arri­vando con le pri­ma­rie dell’8 dicem­bre 2013, d’un balzo solo, alla segre­te­ria del Pd. Da lì spicca la sua rapida ascesa al governo, con mezzi (e for­za­ture) par­la­men­tari, anche in que­sto caso fon­da­men­tal­mente fuori della con­sue­tu­dine e ampia­mente discutibili.

Tutto ciò, però, ha rice­vuto subito dopo il con­senso, che suona appro­va­tivo, di un numero (per­cen­tual­mente) impen­sa­bile di elet­tori fino a qual­siasi con­sul­ta­zione pre­ce­dente. Que­sto cur­sus e que­ste coin­ci­denze andreb­bero inter­pre­tati meglio di quanto finora non sia stato fatto.

Un’ipotesi pos­si­bile (del resto tutt’altro che sor­pren­dente): Renzi “carica” di aspet­ta­tive il vec­chio elet­to­rato “demo­cra­tico”, fino a pro­spet­tar­gli la con­creta pos­si­bi­lità di una vit­to­ria, con­si­de­rata gene­ral­mente fino a quel momento del tutto irrag­giun­gi­bile (que­sta por­zione più tra­di­zio­nale dell’elettorato Pd pensa: «almeno una volta voglio vin­cere»); e vi aggiunge un quo­ziente piut­to­sto ele­vato di elet­tori pro­ve­nienti da altre aree (centro-destra, gril­lini, cen­tro democratico…).

Met­tendo insieme i due fat­tori, si spiega per­ché le avan­zate più con­si­stenti si siano veri­fi­cate nelle ex regioni rosse (Toscana, Emi­lia, Umbria). Insomma, il vec­chio elet­to­rato, invece di scio­gliersi nell’astensionismo, si con­so­lida pre­su­mi­bil­mente intorno al 23–24%; di suo Renzi vale il resto, ossia il 17–18%, più o meno quanto val­gono nei rispet­tivi par­titi quelli che ne sono fin dalle loro ori­gini i “padroni” (Ber­lu­sconi e Grillo), così come Renzi inne­ga­bil­mente lo è diven­tato del suo dopo que­sto suc­cesso elet­to­rale.

Dun­que il con­flitto poli­tico in Ita­lia diventa sem­pre di più, non solo come ho scritto altre volte, una gara tal­volta molto acca­nita, ma non fra “avver­sari” bensì fra “con­cor­renti”, data la cre­scente omo­ge­neità dei loro com­por­ta­menti e delle loro parole, ma più esat­ta­mente fra “con­cor­renti” che sono i veri e pro­pri “padroni” dei par­titi che si sono tro­vati, con moda­lità diverse, a guidare.

E cioè: non solo Renzi è diven­tato extra legem segre­ta­rio del pro­prio par­tito, e poi, subito dopo, con moda­lità alquanto discu­ti­bili, Pre­si­dente del Con­si­glio: ma, vin­cendo con un risul­tato indu­bi­ta­bile le ele­zioni, ha posto le pre­messe (di cui già si scor­gono gli svol­gi­menti) per­ché le gare interne a quella for­ma­zione poli­tica e in quell’area di governo in cui ha scelto di cor­rere fos­sero rapi­da­mente e per sem­pre liquidate.

Cer­care di capire per­ché abbia scelto di cor­rere in que­sta for­ma­zione e non in una delle altre in cui, vero­si­mil­mente, con­si­de­rando il suo pro­filo politico-culturale, avrebbe potuto tran­quil­la­mente farlo, sarebbe un altro inte­res­sante discorso, che però si potrebbe affron­tare solo con una migliore cono­scenza dei fat­tori in causa. Com’è riu­scito a farlo?

La rispo­sta a que­sta domanda sarebbe essen­ziale per impian­tare il “che fare”, di cui, con un minimo di chia­rezza, avremmo biso­gno. Io avanzo due ipo­tesi, stret­ta­mente col­le­gate fra loro.
La prima è che Renzi non smette di pro­met­tere urbi et orbi di avere in mano (oppure di essere in grado di avere, prima o poi, ma la dif­fe­renza fra il “certo” e il “pro­ba­bile” non è mai avver­ti­bile nel suo elo­quio som­ma­rio) gli stru­menti per far fronte alla crisi economico-sociale del paese: da que­sto punto di vista non rispar­mia le ras­si­cu­ra­zioni e, come anti­cipo, allunga un po’ di soldi alla povera gente.

La seconda, meno visi­bile ma più pro­fonda, è che Renzi, non meno di Grillo e di Ber­lu­sconi, ma in que­sto momento più cre­di­bil­mente degli altri due, punta sull’innegabile crisi di tenuta demo­cra­tica del paese, — lo scarso fun­zio­na­mento degli orga­ni­smi rap­pre­sen­ta­tivi, il degrado dei vec­chi par­titi e del vec­chio ceto poli­tico, la cor­ru­zione dila­gante, ecc., — per dire: con i miei metodi, che vanno e pro­met­tono di andare sem­pre di più nella dire­zione di un radi­cale supe­ra­mento dell’antiquato, ormai inser­vi­bile maci­nino demo­cra­tico, si andrà avanti molto meglio. Così lui tra­sforma la sfi­du­cia e tal­volta la rab­bia nei con­fronti della “demo­cra­zia”, che è un dato reale, dif­fuso ovun­que in que­sto paese, in un for­mi­da­bile stru­mento di con­senso. Lui è già di per sé un poli­tico post-democratico: basta che lo dica o anche si limiti a farlo capire, per susci­tare un moto di sim­pa­tia anche da parte di quelli che sono stati edu­cati ad un rispetto sacrale nei con­fronti della democrazia.

Il gioco per ora fun­ziona benis­simo, anche per­ché tutta la mac­china dei media è schie­rata come un sol uomo die­tro que­sta pro­spet­tiva (e anche que­sto sarebbe da inter­pre­tare meglio e da capire).

Del resto, non è la prima volta, in Ita­lia e altrove, che un’investitura di tipo auto­ri­ta­rio s’impone regi­strando un con­senso ple­bi­sci­ta­rio di massa. Quando lui ipo­tizza e pro­pu­gna, al posto di un one­sto, magari medio­cre, par­tito di centro-sinistra, che rap­pre­senta una parte per armo­niz­zarla con il tutto (ovvero, per armo­niz­zarla con il tutto, restando però a rap­pre­sen­tare quella parte), il cosid­detto Par­tito della Nazione, a nes­suno viene in mente che un obiet­tivo e una defi­ni­zione di tale natura avreb­bero potuto con­farsi anche al Par­tito Nazio­nale Fasci­sta o al Par­tito (appunto) Nazio­nal­so­cia­li­sta. Certo, non è la stessa cosa, ma ogni qual­volta si evoca la Nazione (con la maiu­scola, per giunta), sarebbe d’obbligo che i pre­ce­denti ven­gano alla mente.

Ma veniamo alla pra­tica spic­ciola, quella che fa vedere meglio le cose come sono: l’obiettivo prin­ci­pale, comun­que chia­ris­simo, con­si­ste nell’assoggettare al nuovo mec­ca­ni­smo di potere quanto, poli­ti­ca­mente e strut­tu­ral­mente, gli può risul­tare incon­gruo o resi­stente. Per cui facile pre­vi­sione: il pub­blico, anzi il Pub­blico, nella sua acce­zione più vasta, e cioè buro­cra­zia, magi­stra­tura, scuola, uni­ver­sità, sanità, beni cul­tu­rali, sovrin­ten­denze, ecc. ecc., e cioè quanto è stato costruito nel corso di decenni per avere una sua pro­pria auto­no­mia nel con­certo gene­rale degli organi dello Stato, verrà sot­to­po­sto ad un attacco senza esclu­sione di colpi. Non a caso, anche in que­sto caso, organi di stampa e media sono impe­gnati in una vibrante cam­pa­gna di mora­liz­za­zione per cogliere e san­zio­nare le colpe dei “siste­mati”: gua­da­gnano troppo, lavo­rano poco, sono lenti, ral­len­tano, si oppon­gono al “fare”, ecc. Il fatto che in molti casi, ovvia­mente, que­sto sia anche vero non toglie rile­vanza la fatto che l’obiettivo della cam­pa­gna non sia far fun­zio­nare meglio il sistema, ma assog­get­tarlo del tutto al comando del Sovrano.

Ho seguito con grande atten­zione, — ma forse un po’ troppo da lon­tano, le vicende della lista Tsi­pras, la cui affer­ma­zione, pur con molti limiti, dimo­stra che un punto di par­tenza ancora esi­ste. Ho pole­miz­zato con Bar­bara Spi­nelli prima del voto, per­ché essa, in un’intervista al mani­fe­sto (14 mag­gio) addi­tava nei gril­lini il punto di rife­ri­mento fon­da­men­tale post votum della nuova espe­rienza («ci sono molte posi­zioni di Grillo com­ple­ta­mente con­di­vi­si­bili e fra l’altro simili se non iden­ti­che alle nostre»). La posi­zione, pro­fon­da­mente erro­nea, è stata por­tata avanti fino a un momento prima che il Movi­mento 5 Stelle siglasse l’accordo con gli xeno­fobi e para­fa­sci­sti di Nigel Farage. La scelta della Spi­nelli di andare a Bru­xel­les in barba alle dichia­ra­zioni pre­ce­denti, chiude un po’ malin­co­ni­ca­mente la que­stione, e ne ria­pre una grande come una casa. Ora, infatti, sap­piamo con asso­luta chia­rezza che Grillo e il gril­li­smo sono avver­sari nostri non meno, e forse più, di Mat­teo Renzi (il che non esclude, che fra i gril­lini ce ne siano molti per bene e con cui si può com­bi­nare qual­cosa insieme). E allora?

In Italia, altra grande anomalia nazionale, — non esiste, e dopo la definitiva (ripeto: definitiva) uscita di scena in questo senso del Pd non esiste più, una decente formazione di centro-sinistra, — magari la più moderata che si possa immaginare, la meno virulenta, ben radicata formazione di estrema sinistra. Non esiste neanche, — si potrebbe dire così, — una seria, decente, responsabile formazione di sinistra. Per questo berlusconismo, grillismo e ora renzismo hanno dilagato e dilagano.

Hic Rho­dus, hic salta. Ossia: se non si prova ad affron­tare que­sto pro­blema, meglio dedi­carsi alle parole cro­ciate. Quando la defi­ni­sco, prov­vi­so­ria­mente, una seria, decente, ben radi­cata for­ma­zione di sini­stra, non intendo la spon­ta­nea con­ver­genza di una serie di for­ma­zioni spon­ta­nee, come in fondo è stata, — e per la parte migliore che ha rap­pre­sen­tato e rap­pre­senta, — la lista Tsi­pras. Sono l’unico appena pro­fes­sore, certo, di sicuro non pro­fes­so­rone, che ha avuto con­tatti diretti con la realtà vivente dei Comi­tati (gli altri, sovente, ne hanno par­lato per sen­tito dire). Sono stato coor­di­na­tore per molti anni della “Rete dei Comi­tati per la difesa del ter­ri­to­rio”. Insieme con altre pre­ziose espe­rienze, ne ho rica­vato que­sto con­vin­ci­mento: nes­suna realtà poli­tica nuova potrà fare a meno della linfa vitale che i Comi­tati spri­gio­nano; ma nes­sun insieme di Comi­tati, — una Rete, ad esem­pio, — potrà mai da sè, e spon­ta­nea­mente, met­tere in piedi una realtà poli­tica gene­rale. Que­sto sog­getto poli­tico una volta si chia­mava par­tito. Pos­siamo cam­biar­gli nome. Ma la sostanza è quella.

Detto così, può sem­brare un appello a fare ricorso non alla cabala ma alla Lam­pada di Ala­dino. Fac­cio una pro­po­sta. Da dove si comin­cia per comin­ciare la costru­zione di una realtà poli­tica nuova? Dall’alto, dal basso, dall’esistente o dal futu­ri­bile, dagli spez­zoni resi­dui del grande disa­stro o da quelli, più imma­gi­nati che reali, della rete in via di costru­zione? Io comin­ce­rei dal pro­gramma. Dieci, dodici punti che spie­ghino per­ché si sta insieme, e si sta insieme qui e non altrove. Aspet­tare che la riforma ren­ziana della poli­tica, dello stato e dell’economia vada avanti è pro­fon­da­mente auto­le­sio­ni­stico. Chi non ci sta, lo dica ed esca allo sco­perto. E lavori per­ché le idee, se non le mem­bra, tutte le mem­bra, emer­gano final­mente dal guaz­za­bu­glio uni­ver­sale. Non so se la pro­po­sta abbia un senso. Ma so che è così che si fa se si vuole che ne abbia uno. In fondo, all’inizio, non si tratta che di fare una cosa sem­pli­cis­sima e alla por­tata di tutti: pensare.

postilla
Concordo pienamente sull'analisi del renzismo. Definisco ormai il suo partito non più Partito Democratico, ma Partito Matteo Renzi (e, per l'acronimo che ne deriva, mi dispiace che si chiami Matteo e non, che so, Nicola o Nestore). Mi domando anch'io, come AAR, perchè l'ex sindaco di Firenze abbia scelto come formazione politica di cui impadronirsi l'estremo residuo del PCI. Condivido la convinzione di AAR che «nes­suna realtà poli­tica nuova potrà fare a meno della linfa vitale che i Comi­tati spri­gio­nano; ma che nes­sun insieme di Comi­tati,potrà mai da sè, e spon­ta­nea­mente, met­tere in piedi una realtà poli­tica gene­rale»
Credo che per trasformare in un "soggetto politico", capace di competere con gli altri, un pulviscolo di mille proteste e mille proposte, mille disagi e mille speranze, occorre compiere una grande sintesi . Raggiungerla significa significa avere costruito un'ideologia condivisa, una strategia chiara, una tattica adeguata, un programma convincente. Si può cominciare dal programma (quello della lista L'altra Europa mi sembra un primo utile contributo). Emily Dickinson ha scritto: «Per fare un prato basta un filo d’erba e un’ape / Un filo d’erba e un’ape /E un sogno /Il sogno può bastare /Se le api sono poche. Magari, in politica, insieme al sogno ci vuole subito un programma.

il manifesto, 15 giugno 2014

<Imper­ver­sano le notizie-shock sul dila­gare della cor­ru­zione e ogni giorno ci si domanda quale altro nome eccel­lente lo tsu­nami tra­vol­gerà. La realtà supe­rando la fan­ta­sia, si atten­dono sor­prese. È un déjà vu, il gioco di società che dise­gna il ritratto più fedele della società ita­liana ai tempi della nuova moder­niz­za­zione. Se al Vimi­nale è stato il capo di un’associazione a delin­quere e ai ver­tici della Guar­dia di finanza i garanti di un gigan­te­sco sistema di tan­genti, non potrebbe darsi che tra i regi­sti di una mega-frode fiscale spun­tino un mini­stro delle Finanze, un giu­dice della Corte dei conti, un alto diri­gente della Ragio­ne­ria dello Stato?

Non accadde già ai tempi del gene­rale Giu­dice o con lo scan­dalo delle banane del mini­stro Tra­buc­chi? Si assi­ste per­plessi alla marea pro­vando repul­sione, incre­du­lità, indi­gna­zione. Dopo­di­ché capita di chie­dersi per­ché. Per­ché, tra i paesi euro­pei «avan­zati», la cor­ru­zione abbia eletto domi­ci­lio pro­prio in Ita­lia. E per­ché con que­ste dimen­sioni, que­sta potenza, que­sta incoer­ci­bile forza di radi­ca­mento. La Corte dei conti parla di 60 miliardi l’anno, più o meno dieci volte il costo del mira­co­loso bonus Irpef. E que­sto ad appena vent’anni da Mani pulite, quando si pensò che la bufera avesse spaz­zato via, col per­so­nale poli­tico della «prima Repub­blica», un’intera genìa di mal­fat­tori. La quale invece non ha sol­tanto con­ti­nuato imper­ter­rita, ma ha evi­den­te­mente figliato, si è mol­ti­pli­cata e ha pure raf­fi­nato le pro­prie com­pe­tenze cri­mi­nose. Insomma per­ché in Ita­lia la cor­ru­zione è sistema? Al punto che il sistema sele­ziona i cor­rotti e discri­mina gli one­sti, met­ten­doli in con­di­zione di non nuo­cere con la pro­pria improv­vida, ana­cro­ni­stica, anti­si­ste­mica onestà?

C’è una prima ragione di lungo periodo. Che non è meno vera per non essere una sco­perta dell’ultim’ora. La cor­ru­zione è un reato con­tro la col­let­ti­vità, una ferita ai suoi beni mate­riali e imma­te­riali. Ma si dà il caso che la nostra sia da tempo imme­more – già dall’eclissi dell’Impero romano – una società pul­vi­sco­lare, di pri­vati e di par­ti­co­lari. Nella quale la pas­sione civile non ha messo radici, fatta ecce­zione per qual­che spa­ruta cer­chia intel­let­tuale. Si capi­sce che qui la cor­ru­zione sia tol­le­rata e per­sino ben vista, anche da chi ha sol­tanto da per­dere non potendo pra­ti­carla in prima per­sona né trarne bene­fici. Se per un verso (in pub­blico) si storce il naso, per l’altro (in pri­vato) si è pronti ad ammi­rare e magari, potendo, a emu­lare chi la fa franca e su que­sta ambi­gua virtù costrui­sce for­tune. Si fac­cia quindi atten­zione alla dia­let­tica del con­trollo, che quanto più è severo, tanto più gra­ti­fica chi rie­sca a vio­larlo. Con­trol­lare è indi­spen­sa­bile, ma non ci si illuda: non ci sarà con­trollo che tenga fin­ché somma virtù sarà la valen­tia del fili­bu­stiere. Ma pro­prio in una società sif­fatta la poli­tica è il cuore del pro­blema. Non per­ché sia neces­sa­ria­mente l’epicentro della cor­ru­zione, come si ama ripe­tere nei salotti buoni e nelle reda­zioni. Anche se non va di moda dirlo, la cor­ru­zione sgorga spesso dalla benea­mata società civile: per­vade i mondi dell’impresa, del cre­dito e dell’informazione, il pri­vato non meno che il pub­blico. Il cuore del pro­blema è la poli­tica per­ché, tale essendo il costume, dalla poli­tica sol­tanto – in pri­mis dal legi­sla­tore – può muo­vere il riscatto.

E per­ché quindi, dove invece la poli­tica non si distin­gue dal costume e quindi lo asse­conda, ne deriva ine­vi­ta­bile un disa­stro. Il rove­scia­mento dei valori ne trae vigore e i com­por­ta­menti anti-sociali, già legit­ti­mati dal sen­tire comune, ne risul­tano lega­liz­zati, di nome o di fatto. Anche da que­sto punto di vista la sto­ria ita­liana offre un qua­dro deso­lante. Si pensi ieri alla Banca Romana, ai governi della mala­vita, alla cor­ru­zione dila­gante nel regime fasci­sta, la cui denun­cia costò la vita a Mat­teotti. E si pensi, nella sto­ria della Repub­blica, alla folta teo­ria degli scan­dali demo­cri­stiani e socia­li­sti, con al cen­tro il sistema delle par­te­ci­pa­zioni sta­tali, le casse di rispar­mio, la manna dei lavori pub­blici. Ciò nono­stante, que­sta sto­ria non è la notte delle vac­che nere. In un pae­sag­gio pres­so­ché uni­forme c’è stata una felice ano­ma­lia. E un pur breve tempo – tra gli anni Ses­santa e Set­tanta del secolo scorso – in cui le cose par­vero andare altri­menti. Si può leg­gere la sto­ria del Pci, nei primi cinquant’anni della sua vita, come quella di una pre­ziosa dis­so­nanza: del vet­tore di un’etica civile laica e di una cul­tura poli­tica nuove, per molti versi estra­nee alle tra­di­zioni di que­sto paese. Per non dire al suo carat­tere nazio­nale. Gram­sci lo dice a chiare let­tere: il moderno prin­cipe è il cata­liz­za­tore di una «riforma intel­let­tuale e morale» per l’avvento di una demo­cra­zia inte­grale. E dav­vero, fino agli anni Set­tanta, i comu­ni­sti ita­liani per­lo­più lo furono, con­ce­pendo e pra­ti­cando la poli­tica come impe­gno volto a far pre­va­lere un’idea. Come una pro­fes­sione in senso webe­riano – un «saper fare» fatto di com­pe­tenza, disin­te­resse e senso di respon­sa­bi­lità – con­sa­crata alla tra­sfor­ma­zione della società. Poi, nel corso degli anni Set­tanta, le belle ban­diere furono ammainate.

In que­sti giorni ricor­diamo l’ultimo grande segre­ta­rio del Pci scom­parso trent’anni or sono. La figura umana e morale di Enrico Ber­lin­guer è nel cuore di noi tutti. Ma non si dice abba­stanza forte che durante una prima lunga fase della sua segre­te­ria il par­tito cam­biò volto. Si buro­cra­tizzò e divenne il par­tito degli ammi­ni­stra­tori, seco­la­riz­zan­dosi nel senso meno nobile del ter­mine. Rimango dell’idea che anche di que­sto, che per lui fu un dramma, Ber­lin­guer morì. Quando – avver­tita la neces­sità di alzare il tiro con­tro l’arroganza dei padroni e le discri­mi­na­zioni di genere, con­tro l’acquiescenza all’imperialismo ame­ri­cano e, appunto, il dila­gare della cor­ru­zione – sco­prì che la bat­ta­glia era da com­bat­tersi già den­tro il par­tito, e che nem­meno qui il buon esito era acqui­sito. Sta di fatto che, morto Ber­lin­guer, il Pci si nor­ma­lizza e, ancor prima di chiu­dere i bat­tenti, cessa di essere una con­trad­di­zione. Per que­sto non regge all’implosione della «prima Repub­blica» né, tanto meno, si mostra capace di gui­dare una rina­scita. Anzi viene tra­volto, senza un’apparente ragione. Lasciando che Ber­lu­sconi, cam­pione di mora­lità, si fac­cia, dopo Tan­gen­to­poli, inter­prete della nuova moder­nità ita­liota. Siamo così ai nostri giorni. Chi fa poli­tica oggi in Ita­lia? E per­ché e come? Nella migliore delle ipo­tesi – scon­tate le debite, inin­fluenti ecce­zioni – il poli­tico è un tec­nico senza visione. Più spesso, un addetto ai lavori che cono­sce soprat­tutto e ha a cuore la rete di rela­zioni che gli ha per­messo di acqui­sire posi­zioni e influenza. Un esperto nella pra­tica del potere che vive tut­ta­via senza patemi il depe­rire del ruolo a fun­zioni ese­cu­tive o esor­na­tive. Sin­daci, pre­si­denti di regione, asses­sori si bar­ca­me­nano nei vin­coli posti dall’esecutivo, le cui deci­sioni i par­la­men­tari rati­fi­cano. Capi di governo e mini­stri si atten­gono alle diret­tive euro­pee e dei mer­cati. Sullo sfondo, un sistema di par­titi che vivono per ripro­dursi senza nem­meno più ven­ti­lare l’ipotesi di sot­to­porre a cri­tica que­sto stato di cose e di modificarlo.

Que­sto signi­fica essere cor­rotti? In larga misura sì. E ad ogni modo si capi­sce che la cor­ru­zione si svi­luppa molto più facil­mente quando la fina­lità del fare poli­tica è fare poli­tica: restare nel giro, par­te­ci­pare ai riti del potere, riti­rare i divi­dendi dello sta­tus, uti­liz­zare le isti­tu­zioni per intrat­te­nere rap­porti utili con la società civile. La quale, dal canto suo, ha tutto l’interesse di tro­vare inter­lo­cu­tori isti­tu­zio­nali com­pren­sivi e dispo­ni­bili a esau­dire i suoi non sem­pre irre­pren­si­bili desi­de­rata. Se è così, non c’è da stu­pirsi che dopo Tan­gen­to­poli le cose non siano cam­biate affatto, se non in peg­gio. Né vi è ragione di con­fi­dare – reto­ri­che a parte – in un’autoriforma del sistema o in una spal­lata rige­ne­ra­trice. Non che le masse si iden­ti­fi­chino entu­sia­ste con il governo in carica, come pre­tende la fan­fara di gior­nali e tv. Il 25 mag­gio e ancora il 9 giu­gno hanno vinto sopra tutti la disaf­fe­zione, l’astensionismo, il vaffa stri­sciante. Ma con­trad­di­zioni serie attra­ver­sano il “popolo”. Il risen­ti­mento qua­lun­qui­stico del «così fan tutti» è spesso solo la maschera dell’assuefazione. Il “popolo” per un verso stig­ma­tizza que­sti com­por­ta­menti e invoca la gogna per i cor­rotti. Per l’altro, è incline a com­pren­dere e a giu­sti­fi­care. A con­ce­dere atte­nuanti alla pro­pria parte (sem­pre meno cor­rotta delle altre) e a taci­ta­mente invi­diare il cor­rotto baciato dal suc­cesso. Anche per que­sto il “popolo” rifugge come la peste il poli­tico uto­pi­sta e visio­na­rio, l’ideologo idea­li­sta, il cat­tivo mae­stro di un tempo che fu. Dio ci scampi. Meglio, molto meglio gli uomini del fare, pro­prio per­ché senza idee e un poco mascalzoni

« L’estromissione di ogni voce dis­sen­ziente è un vul­nus irre­pa­ra­bile che incrina l’intero pro­cesso par­la­men­tare».

Il manifesto, 13 giugno 2014

La rimo­zione dei sena­tori Mario Mauro e Cor­ra­dino Mineo dalla Com­mis­sione affari costi­tu­zio­nali sol­leva tre ordini di pro­blemi giu­ri­dici. Si tratta, in primo luogo, di veri­fi­care la cor­ret­tezza dell’interpretazione del Rego­la­mento del Senato. In secondo luogo, di valu­tare la con­for­mità a Costi­tu­zione della deci­sione assunta. In terzo luogo, di con­si­de­rare gli effetti di tale deci­sone sul sistema poli­tico complessivo.

Per quanto riguarda il primo aspetto può dubi­tarsi che l’articolo 31 del Rego­la­mento possa legit­ti­mare l’estromissione di un com­po­nente per­ma­nente desi­gnato in base a quanto sta­bi­lito in via gene­rale dal pre­ce­dente arti­colo 21. Quest’ultimo, infatti, chia­ri­sce che spetta a cia­scun gruppo comu­ni­care alla pre­si­denza del Senato i pro­pri rap­pre­sen­tanti nelle com­mis­sioni e che que­ste sono rin­no­vate «dopo il primo bien­nio». Sem­bre­rebbe dun­que che l’indicazione dei gruppi debba essere tenuta ferma per almeno un bien­nio, anche per garan­tire una certa con­ti­nuità nei lavori. In que­sto qua­dro si col­loca l’articolo 31 che pre­vede invece la pos­si­bi­lità di «sosti­tu­zione» (non di «desti­tu­zione»), anche in via tran­si­to­ria, dei rap­pre­sen­tanti asse­gnati alle commissioni.

La ratio della norma, non­ché i pre­ce­denti, chia­ri­scono che — pro­prio a garan­zia della con­ti­nuità dei lavori delle com­mis­sioni e della pos­si­bi­lità di far acqui­sire “ulte­riori” com­pe­tenze in casi par­ti­co­lari — la sosti­tu­zione opera essen­zial­mente in due casi. Qua­lora un com­po­nente desi­gnato assume diversi ruoli (ad esem­pio diventa mini­stro o viene eletto al par­la­mento euro­peo), non potendo più garan­tire l’impegno neces­sa­rio per svol­gere al meglio il suo inca­rico, ovvero qua­lora, per casi par­ti­co­lari, si ritenga che un diverso com­po­nente del mede­simo gruppo par­la­men­tare possa for­nire un con­tri­buto “aggiun­tivo” e più con­forme alla mate­ria da deci­dere rispetto al mem­bro “sostituito”.

Que­sta dispo­si­zione del Rego­la­mento del senato, dun­que, è nata per esten­dere le com­pe­tenze e la fun­zio­na­lità delle com­mis­sioni, non come stru­mento disci­pli­nare nei con­fronti dei dis­sen­zienti. D’altronde, può dubi­tarsi che la “sosti­tu­zione” si possa otte­nere senza il con­senso dell’interessato. Com’è avve­nuto nei casi di Mauro e Mineo.

Si è asse­gnato in tal modo un potere asso­luto di disporre dei sin­goli par­la­men­tari agli organi diret­tivi dei gruppi, venendo a ledere i diritti dei sin­goli sena­tori. Non solo quelli defi­niti dai Rego­la­menti par­la­men­tari, ma anche quelli diret­ta­mente dedu­ci­bili dal testo della Costituzione.

In par­ti­co­lare, sul secondo aspetto, c’è da chie­dersi cosa rimanga del libero man­dato (arti­colo 67) se l’attività poli­tica del par­la­men­tare, con una deci­sione estem­po­ra­nea e puni­tiva del gruppo di appar­te­nenza, può essere impe­dita, osta­co­lando irri­me­dia­bil­mente l’esercizio delle sue essen­ziali fun­zioni. L’estromissione da una com­mis­sione non può essere giu­sti­fi­cata da una pre­sunta indi­sci­plina nei con­fronti della linea di un gruppo, ovvero di una mag­gio­ranza poli­tica. I par­la­men­tari, secondo Costi­tu­zione, rap­pre­sen­tano la nazione e — tanto più in mate­ria costi­tu­zio­nale — non sono vin­co­lati alla disci­plina di par­tito.

L’argomentazione del veto («nes­suno ha diritto di veto»), ovvero quella del voto (il suc­cesso elet­to­rale con­se­guito alle euro­pee) che si pro­pon­gono per giu­sti­fi­care l’estromissione dei dis­sen­zienti non hanno ovvia­mente alcun pre­gio costi­tu­zio­nale. Qui si discute di libertà di man­dato e del cor­retto fun­zio­na­mento delle isti­tu­zioni par­la­men­tari, le regole che chiun­que deve rispet­tare, in ogni caso, di fronte ad ogni pos­si­bile dis­senso poli­tico, quale che sia stato il risul­tato elet­to­rale. È la libera dina­mica poli­tica, i modi di for­ma­zione della volontà demo­cra­tica che si pon­gono in gioco.

Per quanto riguarda infine i riflessi sul sistema poli­tico com­ples­sivo ci si può limi­tare a ricor­dare che le logi­che par­la­men­tari negli ordi­na­menti demo­cra­tici devono essere impron­tate al con­fronto. Era Carl Sch­mitt che, nel disprezzo del carat­tere plu­ra­li­stico dell’ordinamento demo­cra­tico, affer­mava non ci si potesse fer­mare dinanzi «al tea­tro della divi­sione», con­si­de­rando in fondo un bene che la mag­gio­ranza deci­desse per la mino­ranza, poi­ché, in fondo, è un «assioma demo­cra­tico» quello che sta­bi­li­sce l’assorbimento delle voci dis­sen­zienti nell’unica volontà espressa nella deci­sione della mag­gio­ranza. Com’è noto, Hans Kel­sen aveva una diversa idea di demo­cra­zia, secondo la quale solo coin­vol­gendo le mino­ranze entro il pro­cesso di deci­sone col­let­tiva la volontà par­la­men­tare può assu­mere una sua legit­ti­ma­zione demo­cra­tica. Più impor­tante della deci­sone stessa è il modo con cui si decide e l’estromissione di ogni voce dis­sen­ziente è un vul­nus irre­pa­ra­bile che incrina l’intero pro­cesso par­la­men­tare. Un dibat­tito del secolo scorso. Siamo ancora lì.

Il manifesto, 13 giugno 2014

Andia­moci piano con la libertà di coscienza, un bene pre­zioso da eser­ci­tare con mode­ra­zione, senza biso­gno di sban­die­rarlo per que­stioni minori come la riforma costi­tu­zio­nale. E se un sena­tore pro­prio insi­ste a voler espri­mere la sua cri­tica sul pro­getto del nuovo senato, addi­rit­tura pre­ten­dendo il diritto di voto, allora delle due l’una: o «eser­cita la sua libertà di coscienza in aula» (dove un voto in più o in meno non conta), come con­si­glia Anna Finoc­chiaro, pre­si­dente della Com­mis­sione affari costi­tu­zio­nali (alias por­ta­voce della mini­stra Boschi), oppure sarà sosti­tuito da un ren­ziano doc.

E così, secondo le leggi della nuova monar­chia (anti­co­sti­tu­zio­nale), l’incompatibile sena­tore Mineo è stato epu­rato e al suo posto imme­dia­ta­mente nomi­nato il capo-gruppo Zanda, pro­prio quello che a ogni for­za­tura ber­lu­sco­niana sban­die­rava l’articolo 67 della Costi­tu­zione sul non vin­colo di man­dato. Ma la mal­de­stra operazione-pulizia si è pre­sto tra­sfor­mata in un boo­me­rang, e da uno i ribelli sono diven­tati quat­tor­dici, tutti auto­so­spesi dal gruppo par­la­men­tare del Pd.

Con una simile osten­ta­zione di arro­ganza, il presidente-segretario ha voluto met­tere in chiaro che se in par­la­mento e nel suo par­tito qual­cuno ancora insi­ste per emen­dare il sal­vi­fico pro­getto di riforma che tutto il mondo ci invi­dia, allora scatta il «renzismo-stalinismo» (copy­right di Mineo), anche a costo di pro­ce­dere a colpi di risi­cata mag­gio­ranza, con un solo voto di dif­fe­renza in com­mis­sione. Al grido di «non ci fer­miamo» (Boschi) e sotto la ban­diera del «no al diritto di veto» (Renzi), sven­tola orgo­gliosa l’idea di que­sti neo-unti del «conta il voto degli elet­tori», di fronte al quale il par­la­mento è un resi­duato che va rapi­da­mente neu­tra­liz­zato in forza del ple­bi­scito elet­to­rale (che, in ogni caso, né ha eletto Renzi, né era con­vo­cato sulle riforme costituzionali).

Al coro degli yesmen del Pd (tra i quali molti ex alfieri della «ditta» ber­sa­niana) si sono unite voci gril­line come quella del vice­pre­si­dente della camera, Di Maio, coe­ren­te­mente plau­dente («se un mem­bro del gruppo vota in dis­senso rischiando il sabo­tag­gio con il suo voto, è giu­sto pren­dere prov­ve­di­menti»). Lim­pida sin­tesi dove il «dis­senso» diventa «sabo­tag­gio», così come il «voto» diventa «veto» se non sei con­forme alla mag­gio­ranza di par­tito. È in que­sto modo che fun­ziona la nuova poli­tica dei rot­ta­ma­tori. Anche se poi Grillo tenta una mal­de­stra difesa di Mineo tanto per dare una botta a Renzi (senza nem­meno avver­tire il povero Di Maio). Del resto che Renzi e Grillo siano più con­cor­renti che avver­sari lo abbiamo visto molto chia­ra­mente nella com­pe­ti­zione elet­to­rale con quella corsa for­sen­nata a chi era più «anti» (anti-tasse, anti-sindacati, anti-partiti …). Sem­mai biso­gna dire che la pra­tica delle espul­sioni, dopo quella dello strea­ming, Renzi l’ha copiata pro­prio dall’ex comico.

Par­tite malis­simo, que­ste riforme costi­tu­zio­nali stanno pro­se­guendo nel modo peg­giore. Già aver deciso di pro­porre come governo la riforma della Costi­tu­zione, anzi­ché lasciarla alla sua sede natu­rale, il par­la­mento, ha espo­sto la falange ren­ziana a una cri­tica larga e bla­so­nata. Ma se all’inizio si trat­tava solo di insul­tare «gufi» e «pro­fes­so­roni» ora siamo arri­vati alle espul­sioni dei sena­tori. In fin dei conti può anche capi­tare che il potere logori per­sino chi ne ha troppo.

«La priorità assoluta nel Paese non è certo intralciare il lavoro dei magistrati con un “colpo di mano” La priorità è ripristinare lo Stato di diritto»: ma saeà mai possibie con questi parlamentari?

La Repubblica, 12 giugno 2014 (m.p.r.)

Che altro giudizio si può dare, sulla norma che reintroduce la responsabilità civile «diretta» dei magistrati, inasprendo le sanzioni per gli errori commessi nell’esercizio della funzione? Un emendamento della Lega, ricalcato dal testo di un disegno di legge che l’allora Pdl provò più volte ad imporre nella passata legislatura, ora improvvisamente agganciato all’iter della legge europea 2013-bis e inopinatamente approvato dalla Camera. Contro il parere del governo e della maggioranza. Ma a scrutinio segreto, e dunque con il contributo fattivo di almeno 50 franchi tiratori che al riparo dell’urna hanno deciso di votare insieme al centrodestra e di scompaginare il fronte del centrosinistra.

Fioccano le solite accuse incrociate e le rituali pratiche auto-assolutorie. Renzi parla di una «tempesta in un bicchier d’acqua». Un pezzo di Pd lancia strali contro i grillini, «colpevoli » di essersi astenuti e dunque di aver teso una misteriosa «trappola» alla maggioranza. Un altro pezzo di Pd, più dissennato ma meno ipocrita, rivendica orgogliosamente il voto in nome di un «garantismo» ormai assolutamente imprescindibile (benché, nello specifico, totalmente incomprensibile). Per quanto logori e sbandati, i manipoli berlusconiani in servizio permanente effettivo hanno almeno il coraggio di rivelare pubblicamente quello che appare chiaro a chiunque abbia il buon senso di vedere e di capire: «L’indipendenza della magistratura non può continuare a coincidere con la totale mancanza di responsabilità della stessa per gli errori commessi nell’esercizio del suo strapotere».
Dunque, di questo si tratta: al culmine della nuova Tangentopoli 2.0 che i pubblici ministeri stanno faticosamente disvelando, la politica consuma una sua simbolica «vendetta » ai danni della magistratura. Non importa che il merito di quella norma sia palesemente incostituzionale, come denunciano il Csm e l’Anm. Non importa nemmeno che quell’emendamento arrivi al traguardo finale della conversione in legge. È anzi molto probabile che questo non accada, visto che lo stesso presidente del Consiglio (pur con un surreale cortocircuito logico, vista la sua strenua battaglia contro il «bicameralismo perfetto») annuncia adesso «al Senato rimedieremo».
Quello che importa, ancora una volta, è il «segnale» che si vuole lanciare. Quello che importa è che lo «strapotere» delle Procure (come recita appunto la propaganda forzaleghista) venga tamponato o almeno influenzato. Quello che importa è che i magistrati sentano tutta la pressione, chiaramente intimidatoria, di un Palazzo che non intende farsi processare da nessuno. Quello che importa, alla vigilia di un Consiglio dei ministri che si spera domani possa prendere finalmente per le corna il tema della lotta alla corruzione, è che a una giurisdizione così pervicacemente ostinata a scavare nel malaffare arrivi anche un altro messaggio: «Attenti a ciò che fate, sappiamo come rimettervi in riga».
Il presidente della Repubblica Napolitano fa opportunamente sentire la sua voce, a sostegno dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. Ma neanche questo basta a spiegare il cupio dissolvi che ancora una volta attraversa il Partito democratico, capace di farsi del male da solo persino su una questione pacifica come la difesa della legalità e la guerra alle mazzette. I magistrati hanno commesso e commettono molti errori. L’uso a volte eccessivo della carcerazione preventiva, un filtro non sempre rigoroso nella discovery degli atti, una gestione non sempre lineare delle inchieste. I problemi non mancano, e perfino la Procura più seria e più efficiente d’Italia, quella di Milano, non ne è risultata del tutto esente. Per questo, nessuno auspica o sogna una Repubblica delle Manette, dove i pm siano depositari incontrastati dei destini dei leader politici o tenutari indisturbati delle «vite degli altri». Una riforma organica della giustizia, che affronti «anche» il tema della governance del Csm e dell’autodisciplina sanzionatoria del potere giudiziario, è opportuna.
Ma appunto: la chiave sta tutta in quell’«anche». Oggi la priorità assoluta nel Paese non è certo intralciare o condizionare il lavoro dei magistrati con un «colpo di mano» che non esiste in nessun’altra democrazia occidentale. E non è nemmeno istituire l’ennesima Commissione che, dal ministero della Giustizia, monitori i risultati raggiunti fino ad oggi nella lotta alla corruzione (con il paradosso ulteriore di affidarne la guida proprio all’ex Guardasigilli Paola Severino, chiamata a giudicare gli effetti della riforma palesemente insufficiente da lei stessa firmata nel 2012).
La priorità assoluta è ripristinare lo Stato di diritto, rafforzando sul serio l’azione del Commissario anti-corruzione Cantone (che non a caso si auto-rappresenta come «potere monco», vista la scarsità di mezzi e di strumenti normativi di cui dispone). È riformare l’istituto della prescrizione, che snaturato dalle leggi ad personam di Berlusconi «inghiotte» il 35% dei reati commessi ogni anno, corruzione compresa (come denuncia il Procuratore Nazionale Antimafia Franco Roberti). È introdurre una volta per tutte il reato di autoriciclaggio, che determinerebbe di fatto l’imprescrittibilità dei reati più gravi contro la Pubblica Amministrazione. È ri-potenziare il reato di falso in bilancio, depenalizzato pro domo sua dall’ex Cavaliere. Non c’è altra emergenza, in un Paese stordito e disgustato dai miasmi che spurgano dal ventre molle della Padania felix e dalla testa marcia delle Fiamme Gialle. Domani Renzi ha l’occasione per trasmettere al Paese la volontà di questo «scatto morale ». Un altro rinvio, stavolta, sarebbe davvero imperdonabile. Tanto imperdonabile da risultare, alla fine, addirittura sospetto.

La priorità assoluta nel Paese non è certo intralciare il lavoro dei magistrati con un “colpo di mano” La priorità è ripristinare lo Stato di diritto

In Laguna i drammi s'intrecciano. Lotta contro il minacciato Canale Contorta, discussione sullo scandalo Mose-Orsoni. Felice Casson dice cose sagge sul Mose ma non comprende che a Ca' Farsetti bisogna cambiare tutto e subito.

Il manifesto, 8 giugno2014

NO GRANDI NAVI BLOCCATI I CROCIERISTI
di Ernesto Milanesi

La rete da can­tiere «sigilla» la Marit­tima. Il peo­ple mover s’inceppa al Tron­chetto e viag­gia a vuoto. La caro­vana dei cro­cie­ri­sti per quat­tro ore resta bloc­cata. Con le sagome delle «città gal­leg­gianti» affi­date alla pro­te­zione delle forze dell’ordine.

In un migliaio hanno sfi­dato la mas­sima calura river­be­rata da asfalto e cemento, pur di dar fiato alla Vene­zia che si spec­chia nella laguna e oggi nell’edizione numero 40 della Voga­longa con 1.800 imbar­ca­zioni iscritte. Qui, da sem­pre, si rispetta l’equilibrio fra terra e mare, acqua dolce e salata, idrau­lica della Sere­nis­sima e flussi invi­si­bili. Qui si voga, non solo in gon­dola sul Canal Grande, e si impara a non tur­bare la «grande bel­lezza» che resi­ste da secoli. Ma l’estate 2014 di Vene­zia è un mare di guano: il muni­ci­pio senza sin­daco, con il cen­tro­si­ni­stra diviso su come girare pagina; la Bien­nale di Archi­tet­tura inau­gu­rata con la noti­zia di 35 arre­sti più un cen­ti­naio di inda­gati per lo scan­dalo Mose che fa il giro del globo; la car­to­lina del busi­ness turi­stico che fatica ad andare in porto.

La Grande Opera da 5 miliardi (tan­genti, con­cus­sioni e «sti­pendi paral­leli» incor­po­rati) ha nutrito i can­ni­bali di «Vene­zia Nuova», delle imprese fuori mer­cato e dei poli­tici sus­si­diari al sistema della con­ces­sione unica. Le Grandi Navi rap­pre­sen­tano l’altra fac­cia della stessa meda­glia: lo stu­pro della città-pesce con lo stra­scico di lobby, mono­poli e affari. Così in piaz­zale Roma si sro­tola l’enorme stri­scione che era stato issato sul cam­pa­nile di piazza San Marco: tor­nano pro­ta­go­ni­sti comi­tati, cen­tri sociali, ambien­ta­li­sti e sem­plici cit­ta­dini. Alle 14 si para­liz­zano il ter­mi­nal, il ponte della libertà e i tra­sporti: parte solo il cor­teo che resti­tui­sce musica, cori e bandiere.

«Que­sta è l’ennesima lotta a cui sono chia­mati tutti coloro che al di la delle parole nei fatti com­bat­tono la piog­gia di abusi che si com­pie quo­ti­dia­na­mente in que­sta città: dal malaf­fare intorno al Mose fino alla gestione del Porto» com­menta Camilla Sei­bezzi, con­si­gliera comu­nale della lista In Comune. La mani­fe­sta­zione scol­lina verso la rotonda all’ingresso della Marit­tima: #tut­ti­giu­per­terra. Per ore non si pas­serà più attra­verso la rete dei corpi. I «mostri del mare» aspet­te­ranno cro­cie­ri­sti con armi e baga­gli, abban­do­nati al loro destino. Poli­zia, finan­zieri, vigili con­trol­lano con discre­zione. Qual­che auto­mo­bi­li­sta scal­pita e qual­che turi­sta prova a farsi largo bru­sca­mente, ma il blocco viene soste­nuto dalla «dele­ga­zione» che ha appena para­liz­zato la mono­ro­taia che col­lega piaz­zale Roma al Tronchetto.

Con­fusi fra i mani­fe­stanti, il sena­tore M5S Gio­vanni Endrizzi e il sere­nis­simo auto­no­mi­sta Franco Roc­chetta (arre­stato il 2 aprile con altri 24 “indi­pen­den­ti­sti veneti” accu­sati di ter­ro­ri­smo) men­tre una mezza doz­zina di Raixe Venete regge lo stri­scione e i ban­die­roni con il leone alato. Poco lon­tano la dele­ga­zione di Rifon­da­zione con il con­si­gliere regio­nale Piero Pet­tenò e quello comu­nale Seba­stiano Bon­zio. Ad asse­diare la Marit­tima anche i Comi­tati Opzione Zero della Riviera del Brenta minac­ciata dalle solite colate di cemento e Legam­biente che ha pro­dotto elo­quenti dos­sier sul “modello veneto” for­mato affari & poli­tica. Beppe Cac­cia, con la testa pro­tetta dall’elegante panama, esi­bi­sce l’interrogazione pre­sen­tata a Ca’ Far­setti il 9 novem­bre scorso. Si legge testual­mente: «Vi è il con­creto rischio che — in caso di appro­va­zione dello scavo del canale Con­torta Sant’Angelo — la rea­liz­za­zione di tale opera per un valore com­preso tra i 200 e 350 milioni di euro sia affi­data senza alcuna tra­spa­rente pro­ce­dura ad evi­denza pub­blica al Con­sor­zio Vene­zia Nuova». A bene­fi­cio della rotta delle Grandi Navi, il pre­si­dente del Porto Paolo Costa (ex sin­daco e ret­tore, ex euro­par­la­men­tare Pd e com­mis­sa­rio per la super-base Usa a Vicenza) conta di “allar­gare” l’attuale canale 4x2 metri fino a 200x10. E insieme al Magi­strato alle Acque si sarebbe affi­dato a Pro­tecno Srl, società di Noventa Pado­vana, e alla cop­pia di inge­gneri Daniele Rinaldo (già diret­tore in vari can­tieri del Cvn) e Maria Teresa Brotto (ex ad di The­tis arre­stata il 4 giugno).

Poco dopo le 18, il blocco si con­clude con il sound system che accom­pa­gna le ban­diere No Grandi Navi di nuovo in piaz­zale Roma. Davanti ai can­celli del porto turi­stico restano i falò che fuori sta­gione ricor­dano un po’ la Befana della sus­si­dia­rietà. Sul pelo dell’acqua Vene­zia si sente final­mente un po’ più libera dal cap­pio delle cric­che, pronta a scac­ciare l’incubo dei “Tir del mare” con il varo della nuova festa del popolo del remo.

CASSON: “MOSE UN GRAVE DISASTRO POLITICO PRIMA CHE GIUDIZIARIO”

La gra­vità poli­tica di quello che è suc­cesso riguardo al Mose è ben peg­giore dei fatti rile­vanti da un punto di vista giu­di­zia­rio”. Felice Cas­son, cele­bre magi­strato vene­ziano, oggi sena­tore del Pd, è con­vinto che la lunga vicenda del Mose avrà nuovi svi­luppi anche al di là dell’inchiesta.

Per vent’anni i magi­strati sono sem­brati gli unici in grado di cam­biare l’Italia e invece a sca­denza rego­lare ci tro­viamo di fronte agli stessi feno­meni. Come se ne esce?
Ho sem­pre detto che la magi­stra­tura non può risol­vere pro­blemi sociali, eco­no­mici e poli­tici come il ter­ro­ri­smo, la piega della cri­mi­na­lità orga­niz­zata, i cri­mini ambien­tali e la cor­ru­zione. Avere dele­gato que­sta mis­sione sal­vi­fica solo nelle mani dei magi­strati è stato un errore. Per que­sto a distanza di vent’anni si ritro­vano le stesse per­sone al cen­tro dei traf­fici cor­rut­tivi. Sono sem­pre stati lì: la cor­ru­zione è dila­gata, è solo cam­biata gra­zie a mec­ca­ni­smi sem­pre più sofisticati.

Cosa si può fare sia dal punto di vista nor­ma­tivo che sul piano etico e politico?
Se aves­simo affron­tato il tema nei decenni scorsi al posto di elu­derlo ora avremmo for­mato gene­ra­zioni edu­cate al rispetto della lega­lità e dell’etica sociale. L’educazione è fon­da­men­tale, non pro­duce risul­tati imme­diati ma è un inve­sti­mento sul futuro. Non si può sca­ri­care tutto sui magi­strati, ma nep­pure solo sulla scuola, sulla poli­tica o sul volon­ta­riato. Ognuno deve fare la pro­pria parte.

Per Renzi il pro­blema non sono le leggi ma i ladri. Così non si rischia di sci­vo­lare su un piano pre­po­li­tico, è dav­vero e solo una que­stione morale più che politica?
Il ruolo della parte nor­ma­tiva è impor­tante. Ad esem­pio credo che la legge Seve­rino sia lar­ga­mente insuf­fi­ciente e che vada rivi­sta. E quello che sta­vamo facendo in com­mis­sione giu­sti­zia al Senato ma ci siamo dovuti fer­mare dato che il governo ha annun­ciato la pre­sen­ta­zione di un dise­gno di legge.

Ieri Renzi ha annun­ciato prov­ve­di­menti nel giro di poche set­ti­mane eppure da più parti si aspet­ta­vano inter­venti più rapidi. Come spiega i ritardi e come giu­dica que­sti annunci?
Qui si va pro­prio al nodo poli­tico della que­stione. Con­di­vido il fatto che non si indulga alla ten­ta­zione dei con­ti­nui spot. Ma Renzi ha il pro­blema di con­vin­cere la sua mag­gio­ranza che in tema di giu­sti­zia quasi sem­pre si spacca. Ncd vota con Forza Ita­lia e Lega e le riforme pas­sano solo con l’appoggio di Sel e M5S. Parlo delle leggi ber­lu­sco­niane da rifare come il falso in bilancio.

Il governo ha anche il pro­blema di rea­liz­zare le opere, belle o brutte che siano. Un New deal ita­liano è molto com­pli­cato se la spesa pub­blica fini­sce in corruzione.
Biso­gna valu­tare opera per opera. Sul Mose credo sia neces­sa­ria una valu­ta­zione scien­ti­fica che non c’è mai stata: tor­nare indie­tro è dif­fi­cile, i lavori sono stati già fatti all’86%, ma la manu­ten­zione da sola costa 25–25 milioni all’anno. Una rifles­sione è necessaria.

Come vive il fatto che in que­ste inchie­ste siano coin­volti anche per­so­naggi vicini al Pd?
Molto male. Incon­tro cit­ta­dini arrab­biati. Biso­gne­rebbe comin­ciare ad appli­care con rigore le regole che si è dato il Pd, per esem­pio dare un limite al rin­novo dei man­dati e farla finita con i doppi incarichi.

A Vene­zia si deve tor­nare al più pre­sto alle urne?
Il sin­daco farà le sue scelte ma ora la mag­gio­ranza deve assu­mersi la respon­sa­bi­lità di tute­lare i vene­ziani. Biso­gna appro­vare il bilan­cio e garan­tire i ser­vizi sociali. La for­mula conta poco e anche la data delle elezioni.

Si parla già del pros­simo sin­daco, qual­cuno ha fatto il suo nome o quello dell’assessore all’ambiente Gian­franco Bet­tin, che ne pensa?
Deci­de­ranno le pri­ma­rie, ci sono già 5 o 6 can­di­dati. Io non sono fra loro. A me piace il mio lavoro in Senato.

Un titolo fuorviante, che è anche la rivelazione di in problema, che non si chiama Barbara Spinelli, ma rapporto tra società e partiti, "buoni" o "cattivi che siano.

Il manifesto, 8 giugno 2014. con postilla

Sinistre. La capolista siederà nel Gue a Strasburgo. Escluso il giovane candidato di Sel Marco Furfaro. La notizia arriva da Parigi alla fine dell’assemblea. Che le chiedeva un confronto

A oltre dieci giorni dal voto, dopo uno psi­co­dramma che stava con­su­mando una comu­nità poli­tica da un milione di voti, Bar­bara Spi­nelli decide: sie­derà a Stra­sburgo, a dif­fe­renza di quanto pro­messo in cam­pa­gna elet­to­rale. Ieri, con una mail arri­vata da Parigi giu­sto al ter­mine di un’assemblea romana della lista — alla quale non aveva par­te­ci­pato ma dove era stata dura­mente con­te­stato l’annuncio di una sua scelta in soli­ta­ria — ha messo la parola fine quan­to­meno alla sua tor­men­tata rifles­sione: «Il mio col­le­gio natu­rale, la mia città è Roma. È qui che ho rice­vuto il mag­gior numero di voti. A Sud non ero capo­li­sta ma seconda dopo Ermanno Rea, e da molti ver­rei per­ce­pita come «para­ca­du­tata» dall’alto. Mi assumo l’intera respon­sa­bi­lità di quest’opzione, che mi pare la più giu­sta, nella piena con­sa­pe­vo­lezza dei prezzi e dei sacri­fici che essa comporterà» [la lettera è qui su eddyburg- n.d.r.].

Quello che com­porta è l’elezione di Eleo­nora Forenza, Prc. E l’esclusione del gio­vane Marco Fur­faro, di Sel, che non è un com­pli­mento per un par­tito che sulla scom­messa della lista Tsi­pras si sta gio­cando la tenuta interna. «Sono certa che i tanti elet­tori di Sel», scrive Spi­nelli, «appro­ve­ranno e comun­que accet­te­ranno una scelta che è stata molto sof­ferta», «conto non solo sulla loro fedeltà alla lista ma sulla loro par­te­ci­pa­zione immu­tata al pro­getto ini­ziale, che ha come pro­spet­tiva un’aggregazione di forze alter­na­tiva all’odierno centro-sinistra e alle grandi intese».

Quello che suc­ce­derà dav­vero lo si vedrà nelle pros­sime ore. Certo è che la deci­sione arriva ’a pre­scin­dere’ dalla lunga e tra­va­gliata discus­sione che si era con­su­mata nella gior­nata di ieri alla Sala Umberto, dove si erano riu­niti i comi­tati della lista Tsi­pras per discu­tere delle pros­sime mosse. Una discus­sione duris­sima, segnata dall’assenza di Spi­nelli — da dieci giorni riti­rata a casa sua a Parigi, con pochi con­tatti con i ’garanti’ della lista, che pur aven­dole chie­sto di accet­tare il seg­gio hanno con­te­stato la sua rifles­sione soli­ta­ria, «uni­la­te­rale», aveva detto Marco Revelli. E va anche detto che men­tre a Roma dal palco sfi­lava lo «Psico-Tsipras», come titola Huf­fing­ton Post, in tutt’altra atmo­sfera alla festa del quo­ti­dianoRepub­blica, a Napoli, Cur­zio Mal­tese, anche lui eletto (in forza della rinun­cia di Moni Ova­dia), anche lui assente dal dibat­tito romano, già anti­ci­pava la scelta.

Dibat­tito duro. La pla­tea si divide fra chi chiede a Spi­nelli di restare a qual­siasi costo, chi — di più, soprat­tutto i gio­vani — «non capi­sce per­ché lei non voglia discu­terne con noi», Luca Spa­don, già por­ta­voce di Link, «inne­scando una disu­ma­niz­za­zione in rap­pre­sen­tanti di par­titi di due ragazzi in prima fila nelle lotte con­tro la pre­ca­rietà e per l’università. Al pros­simo passo dob­biamo arri­varci tutti assieme». «La poli­tica in cui tutto rimane sot­tin­teso è vec­chia poli­tica», spiega Jacopo Argilli. La que­stione gene­ra­zio­nale a metà assem­blea esplode, dal palco i ragazzi attac­cando: «Non si è auto­re­voli solo se si hanno più di 65 anni e una cat­te­dra». Ma non è nean­che un derby giovani-vecchi, negli inter­venti rim­balza il tema del «pren­dersi cura» di una crea­tura poli­tica nascente.

Lei sa «che molti sono delusi: il pro­po­sito espresso all’inizio di non andare al Par­la­mento euro­peo sarebbe disat­teso, e que­sto equi­var­rebbe a una sorta di tra­di­mento. Non sento tut­ta­via di aver tra­dito una pro­messa. I patti si per­fe­zio­nano per volontà di almeno due parti e gli elet­tori il patto non l’hanno accet­tato, accor­dan­domi oltre 78mila pre­fe­renze», e crede anzi con il suo ripen­sa­mento di «pro­teg­gere la lista» dalle «logi­che di parte. Pro­prio le divi­sioni iden­ti­ta­rie che si sono create sul mio nome mi indu­cono a pen­sare che la mia pre­senza a Bru­xel­les garan­ti­rebbe al meglio la voca­zione, che va asso­lu­ta­mente sal­va­guar­data, del pro­getto — inclu­sivo, sopra le parti — che si sta costruendo».
Sono rispo­ste che non rispon­dono alle domande poste dal palco romano, né potrebbe essere diver­sa­mente: Spi­nelli non le ha ascol­tate.

La lista Tsi­pras va avanti, pros­simo appun­ta­mento un’assemblea nazio­nale il 19 luglio. Ma inu­tile nascon­dere che la scelta di Spi­nelli apre pro­blemi almeno quanti vor­rebbe chiu­derne. L’esclusione di Fur­faro non pia­cerà a molti dei ragazzi che hanno ani­mato i comitati.

E quell’allusione a una forza «alter­na­tiva al cen­tro­si­ni­stra» suona come un mes­sag­gio a Sel, che pure scom­met­tendo sulla lista Tsi­pras non ha chiuso con l’idea di un ancora pos­si­bile centrosinistra.

Intanto il costi­tu­zio­na­li­sta Ste­fano Rodotà a Roma bene­dice la lista e chiede di andare avanti sulla strada uni­ta­ria: non divi­dere «l’Altra Europa» dall’«Altra Ita­lia», «rico­struire una cul­tura poli­tica non astratta ma inner­vata nel lavoro sociale. Ma un primo tratto, straor­di­na­rio, è stato fatto. Io, per quello che posso, pro­verò a starci den­tro», annun­cia. «Dob­biamo costruire una coa­li­zione sociale», spiega il giu­ri­sta, e ne snoc­ciola una bozza di pro­gramma: cam­biare l’art.81, ovvero il pareg­gio in bilan­cio in Costi­tu­zione; via l’art.8 della legge Sac­coni, ovvero le dero­ghe ai con­tratti nazio­nali; oppo­si­zione «a una riforma costi­tu­zio­nale che por­terà a una nuova divi­sione fra cit­ta­dini e isti­tu­zioni»; «rico­stru­zione morale» della cul­tura della sini­stra, che è «incom­pa­ti­bile con le intese lar­ghe, strette, corte o qual­siasi esse siano». È lo slan­cio che in molti aspet­ta­vano da mesi. Dal palco arriva anche il sì di Fran­ce­sco Cam­pa­nella, ex M5S, a testi­mo­nianza che la com­pa­gnia si potrebbe allar­gare. Ma la par­tenza è amara.

postilla
Ho già scritto che ho condiviso la scelta di Barbara Spinelli di accettare, forte della massa di preferenze che ha avuto e delle insistenti pressioni da parte di molti, l'impegno di parlamentare europeo. Penso che la scelta del collegio da preferire come rappresentante al Parlamento europeo spettasse esclusivamente a lei, e rientrasse nelle prerogative (e nelle responsabilità) dell'eletto e dei suoi rapporti con gli elettori. Non ritengo che sulla scelta di Spinelli abbia pesato l'appartenenza partitica del subentrante. Per questo giudico fuorviante l'articolo di Preziosi.
Ma il problema c'è, ed è emerso più volte nel corso della campagna elettorale e dopo. E' costituito dalla dissimetria, nel corpo dei candidati e degli elettori della lista, di due condizioni soggettive: quelli appartenenti a comitati, gruppi e associazioni della società civile e quelli iscritti ai due partiti che avevano aderito in quanto tali alla lista.
A mio parere la presenza dei partiti in quanto tali ha provocato vantaggi da un lato ( senza le loro organizzazioni non si sarebbe raccolto il numero di firme necessario raggiungere in ogni regione per poter essere ammessi al confronto elettorale), danni dall'altro (oltretutto mi risulta personalmente che molti potenziali elettori non abbiano votato la lista per pregiudiziali verso l'uno o l'altro partito (o per entrambi). Occorre proseguire il ragionamento sulla questione. A me sembra che tra i requisiti positivi dell'iniziativa sia stata quella di rivolgersi ai cittadini in quanto espressione di azioni che andavano nella direzione proposta dai promotori della lista e chiaramente espressa nei suoi programmi. E penso che per il futuro bisogna pensare a un soggetto politico che non sia una federazione di forze, ma un'unica formazione: dotata di un insieme condiviso di principi, valori, priorità (una ideologia), da un programma, e una organizzazione. Se queste condizioni saranno realizzate si potrà chiedere agli iscritti a PRC e a SEL (e anche di altre formazioni) di aderire utisinguli, senza sventolare nelle manifestazioni della nuova formazione politica le loro bandiere. Hic Rhodus hic salta (e.s.)

La lettera con la quale la promotrice della lista europeista critica italiana ringrazia e spiega perche e come prosegurà la sua battaglia. 7 giugno 2014, con postilla

Cari tutti, cari elettori, cari candidati e garanti della Lista “L’Altra Europa con Tsipras”,

ho molto meditato quel che dovevo fare, in considerazione della domanda sempre più insistente che veniva dagli elettori e da un gran numero di candidati, e ritorno sulle mie decisioni: accetterò l’elezione al Parlamento europeo, dove andrò nel gruppo GUE-Sinistra Europea, ripromettendomi di garantire la fedeltà al primo manifesto della Lista italiana «L’Altra Europa con Tsipras» e ai 10 punti di programma che abbiamo proposto agli elettori. Sin dalla conferenza stampa del 26 maggio avevo lasciato in sospeso la mia decisione: e non solo perché sorpresa dalla quantità di preferenze ma anche in considerazione del fatto che la situazione politico-elettorale stava precipitosamente cambiando.

La linea maestra alla quale intendo attenermi è di operare nel Parlamento europeo – e anche nella comunicazione scritta, come rappresentante degli elettori europei – per una politica di lotta vera all’ideologia dell’austerità e della cosiddetta «precarietà espansiva», alla corruzione e alle minacce mafiose in Italia; per i diritti dei cittadini; per la realizzazione di un'Europa federale dotata di poteri autentici e democratici: quell'Europa che sinora, gestita dai soli governi in un micidiale equilibrio di forze tra potenti e impotenti, è mancata ai suoi compiti. Il Parlamento in cui intendo entrare dovrà, su spinta della nostra Lista e delle pressioni che essa eserciterà in Europa e in Italia, essere costituente. Dovrà lottare accanitamente contro lo svuotamento delle democrazie e delle nostre Costituzioni, a cominciare da quelle italiane e dal vuoto democratico che si è creato in un’Unione che non merita, oggi, il nome che ha.

Mi ha convinto a cambiare opinione anche la lettera di Alexis Tsipras. La domanda che mi rivolge di accettare il risultato delle elezioni è per me decisiva e – ne sono certa – lo sarà per la Lista nel suo complesso. Alle innumerevoli sollecitazioni ricevute dall'interno (garanti, elettori, comitati, candidati) si aggiungono infine sollecitazioni dall’esterno (deputati del GUE e non solo).

So che molti sono delusi: il proposito espresso all’inizio di non andare al Parlamento europeo sarebbe disatteso, e questo equivarrebbe a una sorta di tradimento. Non sento tuttavia di aver tradito una promessa. I patti si perfezionano per volontà di almeno due parti e gli elettori il patto non l'hanno accettato, accordandomi oltre 78.000 preferenze. Mi sono resa conto, il giorno in cui abbiamo conosciuto i risultati, che sono veramente molti coloro che mi hanno scelto neppure sapendo quel che avevo annunciato: anche loro si sentirebbero traditi se non tenessi conto della loro volontà. Inoltre, come garante della Lista, ho il dovere di proteggerla: le logiche di parte non possono comprometterne la natura originaria. Proprio le divisioni identitarie che si sono create sul mio nome mi inducono a pensare che la mia presenza a Bruxelles garantirebbe al meglio la vocazione, che va assolutamente salvaguardata, del progetto – inclusivo, sopra le parti – che si sta costruendo.

Per quanto riguarda la scelta che sono chiamata ufficialmente a compiere, annuncio che essa sarà in favore del Collegio Centro: è il mio collegio naturale, la mia città è Roma. È qui che ho ricevuto il maggior numero di voti. A Sud non ero capolista ma seconda dopo Ermanno Rea, e da molti verrei percepita come «paracadutata» dall’alto. Mi assumo l’intera responsabilità di quest’opzione, che mi pare la più giusta, nella piena consapevolezza dei prezzi e dei sacrifici che essa comporterà.

La mia più grande gratitudine va a Marco Furfaro [che le sarebbe subentrato per la circoscrizione Centro - n.d.r.] per la generosità che ha messo nella campagna e che spero dedicherà ancora all’avventura Tsipras. Sono certa che gli elettori delle più diverse tendenze, battutisi con forza per la nostra Lista, approveranno e comunque accetteranno una scelta che è stata molto sofferta, visti i costi che saranno sopportati dal candidato del Centro designato come il primo dei non eletti. Conto non solo sulla loro fedeltà alla Lista ma sulla loro partecipazione immutata al progetto iniziale, che ha come prospettiva un’aggregazione di forze (di sinistra, di delusi dalla presente democrazia rappresentativa, di emigrati nell’astensione) alternativa all’odierno centro-sinistra e alle grandi intese.

Augurando a tutti voi e noi il proseguimento di una battaglia unitaria e inclusiva al massimo, vi saluto con grande affetto e gratitudine,

Barbara Spinelli

postilla.
Ero tra quelli che le hanno chiesto di sciogliere la sua riserva, di rinunciare a ritornare alla sua vita precedente e di assumere il suo impegno di parlamentare europeo. Ora le ho risposto così:
«Sono contento per noi e per l’Europa. Hai fatto la cosa giusta. Spero che questo tuo nuovo impegno non faccia perdere ai tuoi lettori i tuoi interventi così lucidi e chiari. Il cambiamento necessario deve cominciare dalle menti, e tu hai il dono di aiutare a comprendere." Trovate i suoi numerosi scritti su eddyburg digitando "Barbara Spinelli" nella finestra in alto, accanto alla piccola lente d'ingrandimento

«La Nuova Venezia, 6 giugno 2014

Vent'anni fa la reazione a Tangentopoli fu forte e generò, fra l'altro, una buona legge sugli appalti, la legge Merloni del 1994, che restituiva trasparenza ai lavori pubblici e all'edilizia, fonti di corruzione diffusa, anche a livello locale.

Durò poco purtroppo. Il ’94 segna sul calendario la vittoria di Silvio Berlusconi alle elezioni politiche e l'inizio di continue modifiche peggiorative, fino allo stravolgimento, di quelle norme fondamentali accusate di essere “troppo rigide”, ovviamente. Dopo anni e anni di assuefazione alle “cricche”, quale sarà la reazione oggi a scandali di proporzioni gigantesche come quelli di Expo 2015 e del Mose?
Credo che sia del tutto frustrante gettare la croce addosso alla “casta” e/o alla “burocrazia” e che sia invece fondamentale dedicare ogni tempo parlamentare utile a un pacchetto di misure - repressive ma ancor più preventive - contro la corruzione e alla riforma della giustizia. Sulle quali si gioca, assai più che su una discutibilissima e sempre più impantanata “riforma” del Senato, la credibilità, “la faccia” del governo guidato da Matteo Renzi. E non è per niente facile.
Lo scasso della legge Merloni sugli appalti e quello di talune norme essenziali sui processi è stato compiuto o tentato da ministri, a cominciare da Alfano, presenti nell'attuale governo. Mentre la maggioranza “per le riforme” è sostenuta da Berlusconi che porta talune gravissime responsabilità: la legge-obiettivo del 2001 che sintetizzava il peggio del Mose rendendo “normali” tutti gli aggiramenti della concorrenza fra le imprese (“protette” e, di fatto, oligopolistiche) ed estendendo il manto di una onnipotente Protezione Civile. Dopo i grandi appalti assegnati in forma “discrezionale”, pure quelli fino a 500mila euro furono espletati “a trattativa semplificata”, senza una vera gara pubblica, favorendo il diffondersi della corruzione a livello locale. Tanto più che il racket, in cerca di occasioni per “ripulire” i grandi profitti criminali, era risalito al Nord e si infilava nella fase attuativa delle opere pubbliche, nei subappalti. Nel solo Veneto esse valevano nel 2009 ben 7,3 miliardi. Nel 2011 l'inascoltata Autorità di vigilanza sui pubblici contratti (Anpc) denunciò che, in tutta Italia, il 28 per cento degli appalti (per 28 miliardi di euro) era stato assegnato così.
Poco prima che esplodesse la “bomba” di Expo 2015, il ministro Maurizio Lupi ha proposto, significativamente, di far rientrare quella Autorità all'interno del suo Ministero delle Infrastrutture. Invece abbiamo più che mai bisogno di Autorità “terze”, neutrali, attrezzate, che prevengano e svelino quella selva di intrallazzi, di tangenti pagate a esponenti di ogni partito, di sovraccosti (del 40 per cento) scaricati sui soliti contribuenti. Matteo Renzi ha preso di petto spesso le Soprintendenze responsabili, a suo avviso, di bloccare questo o quel lavoro, ha attaccato in blocco la burocrazia all'insegna della “semplificazione”, dello “Sblocca-Italia”.
Ma i controlli strategici, preventivi, degli organismi di tutela devono esserci. Eccome. L'ultimo Rapporto dell’Unione europea sulla corruzione reclama misure molto più incisive della legge Severino del 2012: rendere meno brevi le prescrizioni, ripristinare il reato di falso in bilancio, colpire l'autoriciclaggio e altro ancora. Secondo “Trasparency International”, i processi estinti per prescrizione sono da noi sul 10-11 per cento contro lo 0,1-2 per cento appena della Ue. Prescrizione breve e giustizia lenta lasciano impuniti tanti amministratori pubblici, politici, imprenditori delinquenti e incoraggiano altri a rubare. Non a caso dal Mose emergono anche nomi già noti alle cronache giudiziarie. Su questi “buchi neri” si deve concentrare l'azione del governo Renzi. Questi sì che allontanano gli investitori stranieri dall'Italia. E non si chiedano miracoli al pur bravo Raffaele Cantone. Ci vogliono norme chiare, mezzi adeguati, uomini preparati e volontà politica di uscire davvero da questa mortifera palude.

Adesso comprendiamo meglio perché chi comanda vuole mettere la museruola a chi protesta contro le grandi opere inutili e dannose, e pretende di superare con le deroghe le procedure di garanzia. Ma vedrai che la lezione non verrà compresa da chi decide.

Corriere della sera, 5 giugno 2014
«Votatelo, pesatelo, se sbaglia impiccatelo», diceva un antico adagio veneziano. Certo, se anche le accuse contro Giorgio Orsoni, Giancarlo Galan e gli altri politici e affaristi coinvolti nell’inchiesta trovassero conferma nei processi e nelle sentenze, nessuno pretende corda e sapone. Il quadro di corruzione disegnato dai giudici, però, è così vasto da imporre finalmente una guerra vera, non a chiacchiere, contro la mazzetta

L’«affare» del Mose è esemplare. Perché c’è dentro tutto. C’è dentro lo spaccio dell’«emergenza», dei lavori da fare a tutti i costi in tempi così drammaticamente rapidi da non consentire percorsi lineari nei progetti, nella scelta degli esecutori, nelle gare d’appalto, nelle commesse. Risultato: di fretta in fretta sono passati 31 anni, nove volte di più di quelli bastati alla Cina per fare il ponte di Donghai, che coi suoi 32 chilometri a 8 corsie sul mare collega Shanghai alle isole Yangshan.

C’è dentro l’idea della scorciatoia per aggirare (non cambiare: aggirare) le regole troppo complicate con la creazione d’un concessionario unico, il Consorzio Venezia Nuova che, dopo tre decenni passati senza lo straccio di una concorrenza e dopo essere stato così pesantemente coinvolto negli scandali coi suoi massimi dirigenti, giura oggi d’essere estraneo alle brutte cose e pretende di presentarsi come una verginella al primo appuntamento.

C’è dentro quel rapporto insano tra la cattiva politica e il cattivo business così stretto da chiudere ogni spazio ai controlli veri sui costi, sui materiali, sugli uomini, sui tempi. Basti ricordare l’impegno preso dall’allora vicepresidente del consiglio Gianni De Michelis il 4 novembre 1988, quando dopo anni di tormentoni fu presentato il prototipo del Mose: «La scadenza? Resta quella del 1995. Certo, potrebbe esserci un piccolo slittamento...». Sono passati quasi vent’anni, da quella scadenza: ci saranno anche stati degli intoppi, ma cosa succederebbe, in Germania o in Olanda, se lo Stato si sentisse preso per i fondelli sui tempi in modo così sfacciato? E cosa direbbero i leghisti da tre lustri al governo del Veneto se un cantiere interminabile come quello del Mose fosse ancora aperto dopo tanti anni a Reggio Calabria o a Napoli?

C’è dentro il disprezzo per i pareri discordanti e più ancora, alla faccia del chiacchiericcio federalista, per le opinioni del Comune, tagliato fuori da decisioni prese altrove: «Sinistra e destra, sul Mose, erano d’accordo, e io sono rimasto inascoltato», ha accusato più volte, negli anni, Massimo Cacciari. Ieri l’ha ripetuto: «Le procedure erano tali che da sindaco io non potevo toccare palla». Una linea verticistica che la Serenissima non avrebbe accettato mai. Al punto di pretendere, se c’erano di mezzo opere idrauliche, che oltre a quello degli ingegneri si sentisse il parere di «otto pescadori» e cioè «due da S. Nicolò, uno da Sant’Agnese, uno da Muran, due da Buran e due da Chiozza».

E poi c’è dentro, in questa brutta storia, il continuo rincaro delle spese, la peste bubbonica delle nostre opere pubbliche: doveva costare un miliardo e trecento milioni di euro attuali, il Mose. E di anno in anno, di perizia in perizia, di furbizia in furbizia, ha sfondato i cinque miliardi e non è detto che ne basteranno sei.

C’è dentro la blandizia verso i possibili «amici» e insieme l’insofferenza arrogante verso ogni critica, come nel caso della stupefacente querela per «accanimento mediatico» (avevano dato battaglia sui giornali) contro Vincenzo Di Tella, Paolo Vielmo e Giovanni Sebastiani, tre ingegneri rei di avere criticato il costosissimo progetto delle paratie mobili, la gallina dalle uova d’oro del consorzio.

C’è dentro la ripartizione di incredibili privilegi, come ad esempio, per citare le Fiamme Gialle, «il compenso di un milione di euro riconosciuto nel 2009» all’allora presidente Giovanni Mazzacurati «a titolo di “una tantum”, nonché i periodici rimborsi spese privi di giustificazione contabile», per non dire delle case affittate in California, delle consulenze distribuite ad amici e parenti o della liquidazione finale di 7 milioni di euro incassata dopo l’arresto: l’equivalente di trentuno anni di stipendio del presidente della Repubblica. Una buonuscita stratosferica, per un uomo finito in manette.

E tutti soldi pubblici. Sia chiaro. Tutti soldi privatamente gestiti come in una combriccola di società private ma tirati fuori dalle tasche degli italiani. Per amore di Venezia. Per salvare Venezia dall’acqua alta dovuta non solo ai capricci della Natura e del Fato ma anche a interventi come la cosiddetta «sussidenza», cioè lo sprofondamento del suolo dovuta al pompaggio dell’acqua dolce nel sottosuolo o la creazione del canale dei petroli, un canyon lungo 14 chilometri, largo 200 metri e profondo fino a 17, scavato nel ventre di una laguna delicata la cui profondità media era di 110 centimetri.

E torniamo al rispetto per l’acqua, la terra, le barene della Serenissima Repubblica. «Tre condition de homeni ruinano la Laguna: li Signori, li Inzegneri e li Particulari», cioè i proprietari, scriveva nel ‘500 il Magistrato alle acque Cristoforo Sabbadino. Scordava gli affaristi dell’appalto facile. Quelli della spartizione fra sodali. Che non guardano alla destra o alla sinistra ma al business. O, per dirla alla veneta, ai «schei». Montagne di «schei».

Certo è che quest’ultima ondata di arresti colpisce i cittadini italiani, proprio mentre mostravano di voler credere in un riscatto e in una nuova speranza, come una frustata in faccia. E dimostra che, nella scia dei moniti di papa Francesco che batte e ribatte contro il «pane sporco» del «dio tangente», è indispensabile una svolta vera. Nei fatti.

L’Expo 2015, i restauri a Pompei, il G8 alla Maddalena e poi all’Aquila, i primi interventi e poi la ricostruzione in Abruzzo, i Mondiali di nuoto, il Mose... Non c’è Grande Evento, da anni, che non sia infettato dalla corruzione. E dopo ogni arresto, lagne su lagne. E tutti a chiedersi come sia possibile, come mai non cambi mai niente, perché proprio qui e bla bla bla... Poi, passata la tempesta di sabbia, appena si posa la polvere, le leggi che parevano ur-gen-tis-si-me vengono rinviate dal lunedì al martedì, poi alla settimana dopo, poi al mese seguente, poi all’autunno e da lì all’estate successiva...

Eppure è tutto chiaro: per vent’anni, come denunciano don Luigi Ciotti, Piercamillo Davigo e tanti altri, ogni sforzo della cattiva politica (troppo comodo dare tutta la colpa ai berlusconiani) è stato dedicato a smontare le leggi che c’erano e a buttare bastoni tra le ruote dei giudici. Pochi numeri: nel decennio dopo la stagione di Mani Pulite, 1996-2006, secondo l’Alto Commissariato, le condanne per corruzione precipitarono dell’83,9%, quelle per concussione del 90,4%, quelle per abuso d’ufficio del 96,5%. Come mai? Perché l’Italia è più pulita? Magari!

L’abbiamo scritto ma vale la pena di ripeterlo: dice il rapporto 2013 dell’Institut de criminologie et de droit pénal curato dall’Universita di Losanna, che nelle nostre carceri solo 156 detenuti, lo 0,4% del totale, sono lì per reati economici e fiscali, tra cui la corruzione e la concussione. Una percentuale ridicola. Dieci volte più bassa rispetto alla media europea del 4,1%. È una coincidenza se la Germania, il Paese di traino del Continente, ha le galere più affollate di «colletti bianchi»? Ed è solo una coincidenza se noi, che arranchiamo faticosamente in coda, ne abbiamo 55 volte di meno?

Alla fine, sarà il Consiglio europeo o il neo-eletto Parlamento a decidere sul prossimo presidente della Commissione? Con un ruolo di co-decisione del Parlamento, anche nell’Unione si affermerebbe in modo più corretto il circuito vitale proprio delle democrazie: voto, parlamento, governo.

Lavoce.info, 4 giugno 2014 (m.p.r.)

Il Parlamento e la scelta del Presidente della Commissione.La campagna elettorale ha visto, come sappiamo, più candidati alla presidenza della Commissione, designati dai principali partiti al livello europeo. Per la prima volta in trentacinque anni l’elettore è stato invitato a scegliere non solo tra partiti, ma tra candidati non nazionali e tra programmi. E tutti i candidati hanno dichiarato che il nuovo Parlamentoeletto avrebbe preteso di indicare il candidato alla presidenza formando, se necessario, una maggioranza anche trasversale tra i diversi gruppi politici.

Si trattava e si tratta di una pretesa che ha indubbiamente un aggancio nel Trattato di Lisbona, ove si stabilisce che il presidente della Commissione sia designato tenendo conto dell’esito elettorale. Ma nel Trattato la proposta è pur sempre affidata al Consiglio europeo, il quale sinora ha esercitato un ruolo preponderante, che il Parlamento europeo si limitava poi a ratificare con il suo voto. Lisbona non ha modificato radicalmente questa procedura. Vi è dunque un margine di ambiguità nel ruolo rispettivo del Consiglio e del Parlamento, un margine che il Parlamento intende utilizzare a proprio vantaggio, mentre il Consiglio tende naturalmente a conservare la preminenza.
Poiché tra i due partiti maggiori, i popolari hanno ottenuto un’esigua maggioranza relativa rispetto ai socialisti, in base alle intese pregresse il Parlamento sembra incline a votare il candidato Jean-Claude Juncker. Angela Merkel non ha perso occasione nei mesi scorsi per stigmatizzare le pretese di Strasburgo, ma ora ha dichiarato la disponibilità a votare il lussemburghese: una mossa intelligente, perché in tal modo potrebbe accreditarsi la vittoria di Juncker. La forza politica dell’impostazione della campagna elettorale dei partiti europei si è imposta persino a livello del governo tedesco. La radicale opposizione di David Cameron potrebbe non essere sufficiente a sbarrare la strada a Juncker, perché il potere di veto in questo caso è caduto. Bello sarebbe che il governo italiano dichiarasse sin d’ora l’intento di votare per quel candidato che ottenga la maggioranza nel Parlamento Europeo.
Una aspirazione giustificata? Tra gli osservatori, anche filoeuropei, c’è chi si scandalizza per la pretesa del Parlamento. Ma vi è anche chi, come Jürgen Habermas, ha preso posizione a favore di Strasburgo. C’è chi ha osservato che così si trasformerebbe l’Unione in una repubblica parlamentare tradizionale. Ma chi afferma questo sembra dimenticare che una “seconda Camera”, che rappresenta gli Stati, entro l’Unione già c’è ed è costituita appunto dai due Consigli, europeo e dei ministri. Come in ogni struttura federale, una Camera rappresenta il popolo (i cittadini europei), l’altra gli Stati.
Certo, la procedura dei Trattati si presta ad ambiguità e presa alla lettera favorisce la seconda e non la prima. Ma, dopo anni di quasi esclusiva attività del Consiglio, non certo coronata da successi, si sta facendo strada l’esigenza di democratizzare le istituzioni europee. Non si tratterebbe di “larghe intese” nell’accezione nazionale se popolari e socialisti votassero insieme per il presidente della Commissione, perché la più cruciale linea divisoria è quella tra filoeuropei e antieuropei e la maggioranza del Parlamento neoeletto è schierata sul primo fronte. D’altra parte, non va dimenticato che la storia ha conosciuto importantissimi precedenti di istituzioni che si sono radicate stabilmente solo dopo aver consolidato il proprio ruolo nei confronti delle istituzioni coeve. E l’Unione è indubbiamente una struttura istituzionale tuttora in via di formazione.
Il peso del Parlamento europeo è cresciuto in questi anni, ma i Trattati tuttora lo escludono dalle decisioni relative alle proprie risorse, alla programmazione pluriennale, alla fiscalità, alla politica sociale, all’armonizzazione legislativa, alla sicurezza, insomma alle materie più importanti. Con l’esercizio da parte del Parlamento europeo di un ruolo rafforzato di codecisione con il Consiglio nella scelta del Presidente della Commissione, anche a costo di uno scontro politico-istituzionale con lo stesso Consiglio europeo, il circuito vitale proprio delle democrazie – voto, parlamento, governo – s’instaurerebbe all’interno dell’Unione in modo finalmente più corretto.

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