loader
menu
© 2025 Eddyburg

Privare il Terzo mondo delle sue risorse naturali e contemporaneamente dotarlo di armi fomentando le guerre fratricide sono due degli strumenti largamente usati nella fase neoliberista del colonialismo. Di quella fase Matteo Renzi è convinto partecipe, e impiega le sue doti di abil ecommesso viaggiatore.

Sbilanciamoci.info, 24 luglio 2014

Il nostro presidente del consiglio, l'instancabile Matteo Renzi, è stato in Africa la settimana scorsa e ha portato con sé, per esempio in Mozambico, una delegazione di cui facevano parte i numeri uno di Eni, Claudio Descalzi e di Finmeccanica, Mauro Moretti, nominati di recente in quei ruoli, per una scelta decisa, dopo lungo dibattito e attenta riflessione, dal governo nazionale.

Eni è al primo posto tra le multinazionali italiane e si occupa d'idrocarburi; li scava, li trasporta, li commercia in molte aree del mondo. Finmeccanica dal canto suo è soprattutto una fabbrica di armi e di avanzati sistemi d'arma. Non è difficile immaginare il motivo della partecipazione di Moretti e Descalzi alla spedizione africana stessa; si tratta di vendere e di comprare, un'attività che s'inquadra nelle parole stesse del presidente, raccolte dalla Rai: «Un Paese ambizioso costruisce strategie di medio periodo. Tra dieci anni energia, agrofood, export sarà nel cuore dell'Italia prima volta».

Così Matteo Renzi spiega, da Luanda, ultima tappa del suo tour in Africa, gli obiettivi della missione in Mozambico, Congo e Angola. La crescita e i posti di lavoro sono la vera urgenza di Renzi. Anche per rilanciare il «made in», il premier è in Africa con l'obiettivo nei mille giorni di sostenere 22mila imprese e produrre solo con l'export un punto di Pil».

Un punto di Pil. Ecco il risultato che un grande, pur se un po' seduto, paese europeo pensa di ricavare vendendo a prezzi elevati e comprando bene servizi avanzati e altre mercanzie a un gruppo di paesi tra i più poveri del mondo. L'idea stessa di un commercio siffatto riempie di slancio le imprese associate nella Confindustria.

Si parla di 22 mila imprese, ma pare piuttosto la famosa Cooperazione italiana che torna, che torna anzi nell'Africa a sud del Sahara, come ai tempi gloriosi della Somalia delle autostrade dei giorni di Siad Barre e dell'Etiopia redenta e in fiore per il Tana-Beles dei giorni di Menghistu.

Quella cooperazione italiana in Africa è stata forse una vera matrice della prima Tangentopoli: venivano trascurate le regole e l'onestà dei commerci, la bravura e il merito di chi vinceva le gare non serviva a niente, ma si metteva al primo posto la corruzione dei funzionari e dei ministri che avevano a che fare con i commerci stessi.

Torniamo per un attimo a Descalzi e Moretti. Il primo va in Africa per cercare petrolio e probabilmente ne troverà, e troverà gas e ogni altra ricchezza nel sottosuolo, migliorando di mezzo punto il nostro Pil. Come effetto secondario si prolungherà di un altro anno la durata del modello «fossile» nel mondo, un effetto benefico, secondo la maggioranza; e aumenterà di un'altra frazione il livello d'inquinamento da CO2, ammesso che esista davvero, secondo quel che pensa la stessa maggioranza di prima.

All'altro mezzo punto di Pil provvederà Moretti vendendo armi e sistemi d'arma agli stessi che pagheranno con gas e petrolio. Qui il discorso diventa sottile. Vendere armi non piace a nessuno, in teoria, ma in pratica tutti i ministri, tutti gli industriali, tutti i banchieri sanno che esistono i buoni e i cattivi. I cattivi non devono avere armi; sono solo altri cattivi che gliele vendono. Invece i buoni – i nostri – devono potersi difendere. Quindi dobbiamo vendere loro le armi necessarie, tanto più che ci consentono di migliorare il nostro amatissimo Pil.

Riferimenti
Ricordate la definizione del PIL di Bob Kennedy? Guardate qui.

roncare il dibattito sulla più profonda trasformazione dell’assetto costituzionale dal dopoguerra è, per Renzi, il segno di una vittoria di Pirro. E Napolitano che non riceve le opposizioni, è ancora il rappresentante di tutti gli italiani?».

Il manifesto, 25 luglio 2014 (m.p.r.)

Chi sono i veri fili­bu­stieri? Quelli che si oppon­gono alle riforme costi­tu­zio­nali della mag­gio­ranza renzian-berlusconiana, o i par­titi di governo che impe­di­scono al par­la­mento di discu­tere come cambiarle?

In un regime par­la­men­tare, l’ultima carta di una demo­cra­zia è l’ostruzionismo e la sto­ria della nostra repub­blica è ricca di pagine che rac­con­tano per­so­naggi e inter­preti del fili­bu­ste­ring nei momenti di mag­gior con­tra­sto politico. Con i nuovi rego­la­menti oggi è molto più dif­fi­cile pra­ti­carlo, ma deci­dere di tron­care il dibat­tito sulla più pro­fonda tra­sfor­ma­zione dell’assetto costi­tu­zio­nale mai rea­liz­zata dal dopo­guerra, sce­gliendo un rigido con­tin­gen­ta­mento dei tempi per­ché l’8 di ago­sto il pre­si­dente del con­si­glio deve por­tare a palazzo Chigi il bot­tino di guerra è, innan­zi­tutto per lui, il segno di una vit­to­ria di Pirro.

Chi vuole vin­cere senza con­vin­cere, chi mostra i muscoli per nascon­dere la con­fu­sione, in realtà rivela la pro­pria debo­lezza. Non si pos­sono appro­vare riforme cru­ciali senza il neces­sa­rio, fati­coso, eser­ci­zio del com­pro­messo e della media­zione politica…

Se ancora c’era qual­che dub­bio sulla natura post-democratica del lea­der che ci governa, da ieri sarà più dif­fi­cile soste­nerlo. E del resto que­ste pes­sime riforme costi­tu­zio­nali per come erano ori­gi­nate, appunto da un’iniziativa legi­sla­tiva del governo anzi­ché del par­la­mento, non pote­vano che pre­ci­pi­tare in una esau­to­ra­zione del par­la­mento stesso.

Con il soste­gno e l’approvazione del Pre­si­dente della Repub­blica che così espone l’alta carica che rap­pre­senta al ruolo di gio­ca­tore anzi­ché di arbi­tro. Il Capo dello Stato non ha nep­pure rice­vuto per­so­nal­mente la dele­ga­zione di depu­tati e sena­tori che ieri sera, in cor­teo, si è recata al Qui­ri­nale per rap­pre­sen­tar­gli la con­tra­rietà verso una deci­sione sconcertante.

Napo­li­tano è ancora il rap­pre­sen­tante di tutti gli italiani?

«La soli­tu­dine dei pale­sti­nesi è la ver­go­gna del mondo, dell’occidente come dei padroni del petro­lio. Per non par­lare di un’Europa inetta e imbelle».

Il manifesto, 25 luglio 2014 (m.p.r.)

La stri­scia di Gaza è mar­ti­riz­zata da tre­dici anni, dall’inizio della seconda Inti­fada. Perio­di­ca­mente Israele, in rispo­sta ai lanci di razzi, al rapi­mento di un sol­dato o all’uccisione di gio­vani coloni, sca­tena offen­sive (dai nomi fan­ta­siosi o truci, come “arco­ba­leno” o “piombo fuso” ecc.) dal cielo, dal mare e a terra.

Dall’inizio del mil­len­nio, sono morti circa 6.400 pale­sti­nesi e poco più di 1000 israe­liani, senza dimen­ti­care le cen­ti­naia di pale­sti­nesi vit­time della guerra civile tra Hamas e Anp. Ogni volta, gli stra­te­ghi israe­liani giu­rano che il con­flitto in corso sarà l’ultimo, ma chiun­que nel mondo sa che si tratta di una favola. Anche se la stri­scia di Gaza – una fascia costiera abi­tata da una popo­la­zione pari a quella della Ligu­ria, ma con una super­fi­cie quin­dici volte più pic­cola – fosse com­ple­ta­mente ridotta in mace­rie, qual­che razzo potrebbe essere ancora spa­rato e quindi il con­flitto riprenderebbe…

Per com­pren­dere il senso di una guerra appa­ren­te­mente infi­nita, basta con­fron­tare le carte della Pale­stina nel 1946 e oggi. Se allora gli inse­dia­menti dei coloni ebrei erano una man­ciata, soprat­tutto nel nord, oggi è esat­ta­mente il con­tra­rio: una spruz­zata di inse­dia­menti pale­sti­nesi cir­con­dati da Israele e dai suoi coloni, con la stri­scia di Gaza iso­lata a sud-ovest. Non ci vuole molta fan­ta­sia per com­pren­dere che la stra­te­gia di Israele, in nome di una sicu­rezza asso­luta di cui non potrà mai godere, è quella di cac­ciare più pale­sti­nesi pos­si­bile, con le infil­tra­zioni dei coloni in Cisgior­da­nia e con le azioni mili­tari a Gaza.

Rap­porti pub­bli­cati da Human Rights Watch, agen­zie Onu e Amne­sty Inter­na­tio­nal mostrano ormai, senza pos­si­bi­lità di dub­bio, che lo sra­di­ca­mento dei pale­sti­nesi è per­se­guito con l’espulsione dalla terre col­ti­va­bili, l’interruzione perio­dica dell’energia elet­trica e il blocco delle risorse idri­che. D’altronde che l’esercito con­si­de­rato il più “pro­fes­sio­nale” al mondo rada al suolo scuole gestite dall’Onu e uccida soprat­tutto civili la dice lunga sulla vera stra­te­gia di Israele verso i palestinesi.

Mai come oggi, i pale­sti­nesi di Gaza sono stati così soli. Hamas non gode della pro­te­zione dell’Egitto, come ai tempi di Morsi, né della sim­pa­tia dei sau­diti e di quasi tutti gli stati arabi. Né riceve vera soli­da­rietà da parte di Abu Mazen. E, ovvia­mente, in quanto orga­niz­za­zione uffi­cial­mente defi­nita “ter­ro­ri­sta”, è avver­sata da Stati Uniti ed Europa. Ma tutto que­sto non spiega, né tanto meno giu­sti­fica, il silen­zio ipo­crita dei governi occi­den­tali e tanto meno della cosid­detta opi­nione pub­blica indi­pen­dente sulle stragi di Gaza.

Lasciamo stare il nostro Pre­si­dente del con­si­glio e l’ineffabile mini­stro Moghe­rini, la cui ascesa spiega per­fet­ta­mente il ruolo tra­scu­ra­bile della poli­tica estera nella cul­tura gover­na­tiva ita­liana. Ma che dire dell’incredibile squi­li­brio poli­tico e morale nella valu­ta­zione uffi­ciale del conflitto?

Basti pen­sare che un B.-H. Lévy, l’eroe della fasulla rivo­lu­zione libica e il mesta­tore di Siria, da noi passa come un pro­feta della pace e della giu­sti­zia. Che cen­ti­naia o migliaia di imbe­cilli, in Europa o altrove, tra­sfor­mino il con­flitto tra pale­sti­nesi e stato d’Israele in una cro­ciata anti­se­mita non può essere usato come un alibi per chiu­dere gli occhi davanti alle stragi di bam­bini e di civili. In que­sto qua­dro, la palma dell’ipocrisia va al governo ame­ri­cano, e in par­ti­co­lare a Obama, che pure aveva illuso il mondo all’inizio del suo primo mandato.

La banale verità è che la dif­fe­renza tra demo­cra­tici e repub­bli­cani in mate­ria di Pale­stina è sem­pli­ce­mente di stile. Bru­tal­mente filo-israeliani quelli della banda Bush, pre­oc­cu­pati un po’ più delle forme della repres­sione gli oba­miani, come dimo­strano i famosi fuori-onda di Kerry.

Ma nes­suno ha vera­mente inten­zione di fer­mare Israele, oggi o mai. La soli­tu­dine dei pale­sti­nesi è la ver­go­gna del mondo, dell’occidente come dei padroni del petro­lio. Per non par­lare di un’Europa inetta e imbelle.

Il manifesto, 24 luglio 2014

Trovo fran­ca­mente sor­pren­dente l’inutile viru­lenza con cui Mas­si­mi­liano Sme­ri­glio nell’intervista rila­sciata a que­sto gior­nale si sca­glia con­tro gli esiti dell’Assemblea nazio­nale tenuta dalla lista Tsi­pras lo scorso sabato. Non che man­chino argo­menti per una sana rifles­sione cri­tica e auto­cri­tica. Molti di que­sti li ha for­niti Revelli stesso, nel corso di una disa­mina spie­tata dello scarso radi­ca­mento sociale del nostro voto e quindi della nostra debo­lezza strut­tu­rale. Il pro­blema che quindi abbiamo tutti, com­presa Sel — a meno che l’intervista di Sme­ri­glio non pre­an­nunci uno sgan­cia­mento dal per­corso – è come supe­rare quei limiti evi­denti e pro­ba­bil­mente in que­sta fase non eli­mi­na­bili del tutto, dando vita a un pro­cesso costi­tuente fatto di pra­ti­che coe­renti che costrui­sca un “rap­pre­sen­tato strut­tu­rato”, dopo essere riu­sciti per poco più di 8mila deci­sivi voti e dopo ripe­tute scon­fitte, a dare vita ad una rap­pre­sen­tanza isti­tu­zio­nale europea.
È evi­dente che quest’ultima non può soprav­vi­vere a lungo senza la costru­zione del primo, ovvero di un sog­getto poli­tico nuovo di sini­stra in un Paese dove quest’ultima può dirsi se non ine­si­stente, quan­to­meno irri­le­vante. La suc­ces­sione dei fatti e la nostra infe­lice sto­ria pre­gressa, e non pro­getti a tavo­lino, ha voluto infatti che noi per­cor­res­simo un pro­cesso pra­ti­ca­mente inverso a quello che hanno com­piuto Siryza, o altre forze della sini­stra euro­pea fino alla recen­tis­sima Pode­mos, le quali prima di fare il balzo in Europa si sono date un pro­filo poli­tico e un’organizzazione con­se­guente su scala nazio­nale. Di fronte alla ori­gi­na­lità della nostra con­di­zione e agli ine­diti pro­blemi che essa pone fanno solo sor­ri­dere le cri­ti­che inge­ne­rose e futili sull’elevata età dei par­te­ci­panti all’Assemblea (peral­tro la lista Tsi­pras vanta un ele­vato tasso di voto gio­va­nile), o sulla rela­tiva lun­ghezza delle rela­zioni intro­dut­tive, o l’assenza di una strut­tu­ra­zione demo­cra­tica peral­tro pie­na­mente rico­no­sciuta e moti­vata come tran­si­to­ria, cui l’Assemblea ha comin­ciato a porre rime­dio pro­ce­dendo alla costru­zione di un coor­di­na­mento prov­vi­so­rio per auto pro­po­si­zione, ma rap­pre­sen­ta­tivo dei comi­tati territoriali.

Evi­den­te­mente il pro­blema sta altrove. È emerso in un qual­che modo nella discus­sione che si è accesa in uno dei gruppi tema­tici nei quali si è divisa l’assemblea e con­cerne la pre­senza even­tuale alle pros­sime ele­zioni regio­nali. In realtà la que­stione è stata male impo­stata fin dal suo ini­zio, e non solo dall’intervista di Sme­ri­glio. Infatti non credo si possa discu­tere frut­tuo­sa­mente il da farsi di fronte a que­sta sca­denza, se prima non si affronta una discus­sione che da tempo incalza su cosa sono diven­tate le isti­tu­zioni regio­nali – ora ter­reno pri­vi­le­giato per l’esercizio della cor­ru­zione delle eli­tes poli­ti­che — e cosa soprat­tutto diven­te­ranno se andrà in porto la riforma costi­tu­zio­nale attual­mente in discus­sione al Senato che tocca così pesan­te­mente il Titolo V, già oggetto di ampie modi­fi­ca­zioni una decina di anni fa. Le nuove norme che il governo ha pro­po­sto ten­dono a ridurre le regioni a una sem­plice arti­co­la­zione ammi­ni­stra­tiva. L’eliminazione delle com­pe­tenze legi­sla­tive “con­cor­renti” e la “clau­sola di supre­ma­zia” ripor­tano molte tema­ti­che di forte impatto sociale nell’ambito squi­si­ta­mente sta­tale a sua volta limi­tato dalle inge­renze degli organi della gover­nance a-democratica euro­pea (ad esem­pio con il fiscal com­pact). Il sogno della vec­chia sini­stra di fare delle regioni un’articolazione demo­cra­tica dello Stato per avvi­ci­nare la cosa pub­blica ai cit­ta­dini è del tutto tra­volto. Prima di deci­dere con chi andare biso­gne­rebbe discu­tere se e perché.

Ma sca­vando ancora, il nodo vero del con­ten­dere è sulla natura del Pd. Del Pd nel suo com­plesso, non solo del feno­meno Renzi. È dif­fi­cile imma­gi­nare che Renzi abbia vinto indi­pen­den­te­mente o addi­rit­tura con­tro il Pd. Per quanto sia forte la per­so­na­liz­za­zione in atto, abbiamo assi­stito, attra­verso un pro­cesso non breve fatto anche di bru­schi salti, come l’elezione di Renzi, alla tra­sfor­ma­zione di un intero par­tito in un sistema di governo delle isti­tu­zioni e della società. Le ana­lo­gie con la Dc sono del tutto fuori luogo. Non esi­ste più alcun rife­ri­mento ideale e tan­to­meno fina­li­stico. Vi è la totale com­pe­ne­tra­zione nel pre­sente del sistema di gover­nance euro­peo e nazio­nale, cui tutto è sot­to­messo. Il par­tito piglia-tutto dà luogo ad una muta­zione antro­po­lo­gica delle sue eli­tes e del senso stesso del con­cetto di par­tito. Que­sto spiega anche la flui­dità delle posi­zioni interne, rapi­dis­sime nell’uniformarsi all’onda vin­cente senza lasciare nep­pure una trac­cia del pro­prio per­corso. Che ne è dei “gio­vani tur­chi”? Le arti­co­la­zioni delle posi­zioni per­so­nali – al di là delle migliori inten­zioni – o ter­ri­to­riali non rie­scono a con­tra­stare que­sta liqui­dità poli­tica né ergersi a oppo­si­zione strut­tu­rata e duratura.

La sini­stra, se sarà, non potrà che svi­lup­parsi fuori e con­tro que­sto partito-governo. Il che non esclude il con­fronto o pos­si­bili con­ver­genze su sin­goli aspetti e temi, ma cer­ta­mente sì la ripro­po­si­zione dell’alleanza coar­tata dal ricatto del voto utile anche a livello regio­nale. Qui sta il nodo delle diver­genze, che va affron­tato non a colpi di accetta, ma senza sfug­girvi e con serietà. La tra­sfor­ma­zione di una lista nata per un nuovo pro­getto euro­peo in un sog­getto di sini­stra radi­cato nel nostro paese passa ine­vi­ta­bil­mente per que­sta strada. Prima la intra­pren­diamo, evi­tando dera­glia­menti elet­to­rali, meglio è visto che non sarà breve né lineare.

«La sagra dei "gratta e vinci" per il via libera al gasdotto salentino».

Il manifesto, 23 luglio 2014 (m.p.r.)

Entro la fine di luglio la Com­mis­sione Via del mini­stero dell’Ambiente si pro­nun­cerà sul pro­getto della mul­ti­na­zio­nale Tap che pre­vede l’approdo del gasdotto sulla costa di San Foca, nel lec­cese, per far giun­gere in Europa il gas natu­rale dell’Azerbaigian. Al pro­getto, il cui impatto è rite­nuto inva­sivo, si oppon­gono i comi­tati regio­nali «No Tap» i quali hanno sen­si­bi­liz­zato le popo­la­zioni sui pos­si­bili danni ambien­tali per il ter­ri­to­rio pugliese.

Negli stessi giorni in cui il pre­si­dente azero Ilham Aliyev era a Roma per una serie di accordi col governo Renzi in mate­ria ener­ge­tica, è stato aperto a Lecce un uffi­cio (rap­pre­sen­tante gli inte­ressi delle società inter­na­zio­nali del pro­getto Tap — Trans adria­tic pipe­line) il cui respon­sa­bile ha illu­strato un pro­gramma di mani­fe­sta­zioni spon­so­riz­zate dalla mul­ti­na­zio­nale per l’estate salentina.

Con un bud­get di circa 350 mila euro (evi­dente l’intento pro­pa­gan­di­stico con elar­gi­zioni di pre­bende per addo­me­sti­care posi­zioni oltran­zi­ste) sono finan­ziate varie ini­zia­tive che, come in ogni pro­vin­cia che punta sul turi­smo, soli­ta­mente decol­lano durante la sta­gione. Un car­net di appun­ta­menti, in paesi e pae­sini, che vanno dalla sagra a base di pro­dotti man­ge­recci alla festa patro­nale con alle­sti­mento di lumi­na­rie, dalla disco­teca sul mare al con­certo da sta­dio, dal concorso-vacanza in hotel della zona alla par­te­ci­pa­zione presso la radio locale, fino ai gratta e vinci distri­buiti sulle spiagge con in palio por­ta­cel­lu­lari, teli da bagno, pal­lon­cini e gad­get, con­tras­se­gnati col mar­chio Tap ovvia­mente. «Ener­gia a voca­zione turi­stica» è lo slo­gan con cui si fa pas­sare il tutto come un calen­da­rio di eventi culturali.

Cul­tu­rali per­ché la Tap ha ten­tato di coin­vol­gere, ele­van­done lo spes­sore, la città capo­luogo? Al con­si­gliere dele­gato dal Comune al comi­tato pre­po­sto alle mani­fe­sta­zioni estive, è infatti giunta l’offerta, per la tre giorni festa­iola dell’ultima set­ti­mana d’agosto in onore dei santi patroni, di una somma di 20 mila euro tar­gata Tap. Ma ven­dere, o peg­gio sven­dere, i nomi di Oronzo, Giu­sto e For­tu­nato (i patroni di Lecce) per appena 20 mila euro è forse sem­brato poco digni­toso. Fatto sta che arci­ve­scovo e sin­daco della città si sono defi­lati, per poi decli­nare l’offerta. Anche per non pre­stare il fianco al tour­bil­lon di pole­mi­che, che si sarebbe rove­sciato, accet­tando quel denaro che alla cit­ta­di­nanza è apparso un obolo, non pro­prio gene­roso peral­tro. Un obolo per com­prarsi il con­senso sociale e taci­tare le resi­stenze di quanti con­te­stano il pas­sag­gio del gasdotto nel Salento. Intanto la que­relle ha attra­ver­sato repen­ti­na­mente città, paesi e spiagge. Ma se sulle prime la mul­ti­na­zio­nale ha fatto brec­cia spon­so­riz­zando un paio di mani­fe­sta­zioni (il nome Tap è stato acceso da una miriade di lam­pa­dine al led in una serata di sagra, con un con­tri­buto di appena 5000 euro), ora le comu­nità comin­ciano a pren­dere distanze e a rifiu­tare le offerte. Con buona pace del mar­chio Tap pro­gram­mato per un’estate al top.

Alla com­mis­sione Via dell’ambiente, che deci­derà a giorni sulla cri­ti­cità del pro­getto, i respon­sa­bili Tap in Salento, pur pri­vi­le­giando l’approdo della con­dotta a San Foca, hanno indi­cato una decina di siti alter­na­tivi e com­pa­ti­bili lungo la costa che corre da Brin­disi a Otranto. Il gasdotto trans­na­zio­nale che por­terà il gas azero in Europa (avrà una por­tata fino a 20 miliardi di metri cubi all’anno) è un’opera impo­nente il cui costo si aggira sui 40 miliardi di euro. La con­dotta attra­versa regioni della Tur­chia euro­pea, della Gre­cia set­ten­trio­nale e dell’Albania, prima di tuf­farsi nel Canale d’Otranto lungo 117 chi­lo­me­tri sot­to­ma­rini. Rag­giunta la costa adria­tica pugliese per­cor­rerà alcuni chi­lo­me­tri sul ter­ri­to­rio salen­tino. Il ter­mi­nale infine si col­le­gherà all’infrastruttura a rete della Snam gas.

«». Il manifesto

Ho tra­scorso la set­ti­mana in Spa­gna, a Malaga, a una Scuola estiva della Cat­te­dra Une­sco di quella Uni­ver­sità. Il tema della sezione a cui ho par­te­ci­pato come rela­tore era “L’impegno degli intel­let­tuali”. Seguivo, natu­ral­mente, la noti­zie sem­pre più ango­sciose pro­ve­nienti dalla terra mar­tire di Pale­stina, con­sta­tando l’assoluta “distra­zione” del ceto poli­tico, rispetto a quei fatti di scon­vol­gente gra­vità, e il totale disin­te­resse, salvo pochis­sime ecce­zioni, del “mondo della cultura”.

Ricordo altre sta­gioni, come l’invasione del Libano e la guerra con­tro Hez­bol­lah, del luglio 2006, o il bom­bar­da­mento di Gaza del dicem­bre 2008-gennaio 2009: sta­gioni in cui fio­ri­rono appelli, e la mobi­li­ta­zione di pro­fes­sori, gior­na­li­sti, let­te­rati, scienziati,artisti fu vivace e intensa. Si denun­cia­vano le respon­sa­bi­lità di Israele, la sua pro­terva volontà di schiac­ciare i pale­sti­nesi, invece di rico­no­scer loro il diritto non solo a una patria, ma alla vita. Oggi, silen­zio. La mac­china schiac­cia­sassi di Mat­teo Renzi , nel suo mici­diale com­bi­nato dispo­sto con Gior­gio Napo­li­tano, si sta rive­lando un effi­ca­cis­simo appa­rato ege­mo­nico.

L’intellettualità “demo­cra­tica”, facente capo per il 90% al Pd, appare alli­neata e coperta. I grandi gior­nali, a comin­ciare dal “quo­ti­diano pro­gres­si­sta” di De Bene­detti, sem­pre in prima linea a soste­nere le nuove guerre, dal Golfo alla Jugo­sla­via, appa­iono orga­ni­smi per­fet­ta­mente oliati di soste­gno al governo da un canto, e di ade­gua­mento alla poli­tica estera decisa da un pugno di signori e signore tra Washing­ton, Lon­dra, Bru­xel­les e Ber­lino (Parigi, caro Hol­lande, ne prenda atto, non conta un fico). Della radio­te­le­vi­sione non vale nep­pure la pena par­lare; come per l’Ucraina, ora, nella enne­sima mici­diale aggres­sione israe­liana a Gaza, si sono rag­giunti ver­tici non di disin­for­ma­zione, ma di sem­plice rove­scia­mento della verità. La cate­go­ria del “rove­sci­smo”, che mi vanto di aver creato, per la sto­rio­gra­fia iper-revisionista, va ormai estesa ai media.

E devo con­sta­tare che mai in pas­sato si erano rag­giunti simili livelli: dove sono le zone fran­che? Fa impres­sione sfo­gliare la bal­bet­tante Unità, che un tempo non lon­tano, con tutti i suoi limiti, accanto a Libe­ra­zione (defunta) e al mani­fe­sto (che resi­ste!), era una delle poche voci cri­ti­che nel depri­mente pano­rama all’insegna del più esan­gue conformismo.

Sulle pagine del mani­fe­sto (15 luglio) Man­lio Dinucci ha spie­gato bene le ragioni reali del “con­flitto” in corso, e non ci tor­nerò. Qui mi preme piut­to­sto evi­den­ziare, con sgo­mento, che il “silen­zio degli intel­let­tuali” che qual­che anno fa Alberto Asor Rosa denun­ciava, deplo­ran­dolo for­te­mente, è dive­nuto non sol­tanto una con­di­zione di fatto, ma una posi­zione “teo­rica” che, accanto a quella dell’equidistanza, sta tro­vando i suoi alfieri. Appunto, rien­trando dalla mia set­ti­mana spa­gnola, di intense discus­sioni sulla neces­sità di impe­gnarsi, a comin­ciare dal mondo uni­ver­si­ta­rio, cado dalle nuvole leg­gendo lacerti di pen­siero che con­fi­gu­rano la nascita di una sorta di “Par­tito del silenzio”.

Il silen­zio non viene sol­tanto pra­ti­cato, sia «per­ché dovrei espormi?», sia per­ché la pres­sione della lobby sio­ni­sta è for­tis­sima e induce a tacere se pro­prio non vuoi espri­mere la tua gio­iosa ade­sione alla “neces­sità” degli israe­liani “di difen­dersi”. Il silen­zio, oggi, a quanto pare, è dive­nuto una divisa, una ban­diera, e una ideologia.

Quei pochi che par­lano, che osano aprire bocca, pre­met­tono il rico­no­sci­mento delle ragioni di Israele e con­dan­nano in primo luogo rapi­mento e ucci­sione dei tre ragazzi ebrei, poi uccisi (si tra­la­scia di dire che si tratta di tre gio­vani coloni, ossia occu­panti, con la vio­lenza dell’esercito, terra pale­sti­nese), e il lan­cio di razzi Kas­sam con­tro le città del Sud di Israele, e cer­cano poi di cavar­sela con un colpo al cer­chio e una alla botte. Ma atten­zione, se il colpo alla botte israe­liana appare troppo sonoro, ecco che si sca­tena l’inferno, non di fuoco come su Gaza, ma di parole.

Molto pra­ti­cato il genere “com­menti” agli arti­coli on line, per esem­pio: sono tutti uguali, anche se varia­mente dosati nel tasso di vio­lenza ver­bale. Men­tre un gran lavo­rio di infor­ma­zione al con­tra­rio, di diretta pro­ve­nienza da fonti israe­liane, viene dispie­gato dagli innu­me­re­voli pic­coli dispen­sa­tori di verità nostrani. Per esem­pio un pur pru­dente arti­colo di Clau­dio Magris sul Cor­riere della Sera (17 luglio) che si per­met­teva di accen­nare alle ragioni dei pale­sti­nesi, ha rice­vuto la sua buona dose di ingiu­rie. Non c’è che dire, il sistema fun­ziona. E fini­sce per indurre al silen­zio, o quanto meno alla pru­denza. Che è l’altro nome del silenzio.

Ma non è que­sto silen­zio, il silen­zio del ricatto, che mi pre­oc­cupa di più. È, invece, il silen­zio della scelta. Il silen­zio teo­riz­zato come terza via, tra coloro che incon­di­zio­na­ta­mente sono con Israele, e gli altri, quelli che sosten­gono la causa pale­sti­nese. Il silen­zio come rispetto del dolore, o come via della ragio­ne­vo­lezza: con­tro gli oppo­sti estre­mi­smi. Esem­plare in tal senso Roberto Saviano, che, quasi com­met­tendo auto­gol, cita Euro­mai­dan per denun­ciare il tar­divo schie­rarsi anche ita­liano dalla parte giu­sta, che per lui, ovvia­mente, è quella dei gol­pi­sti nazi­sti diKiev. E ora, a suo dire, occorre schie­rarsi non con gli uni né con gli altri, ma «dalla parte della pace»: i “ter­ro­ri­sti” di Hamas sono indi­cati come il primo nemico della pace, ovviamente.

È la linea (solita) di Adriano Sofri (la Repub­blica, 17 luglio), altro guer­riero demo­cra­tico, che ripar­ti­sce torti e ragioni, equi­pa­rando i razzi di Hamas alle bombe israe­liane, e invoca impli­ci­ta­mente silen­zio, discre­zione, rispetto: mette sullo stesso piano tutti. Tutte le vit­time inno­centi. Ma si può con­fon­dere la pietà umana, dove­rosa, col giu­di­zio poli­tico? Si può tra­sfor­mare l’opinione in saggezza?

Sul mede­simo gior­nale, Michele Serra sostiene che occorre tacere, che si devono abbas­sare la voce e gli occhi, davanti alla “tra­ge­dia” della guerra, lo stesso ter­mine usato da Magris. Ma quale tra­ge­dia? Qui abbiamo la poli­tica, e la poli­tica ha degli attori, dei respon­sa­bili: come in pas­sato la divi­sione tra vit­time e car­ne­fici è netta ed evi­dente (so che qual­che anima bella mi accu­serà di sem­pli­fi­care: la cosa è più com­plessa, non si può divi­dere così net­ta­mente, cia­scuna delle due parti ha un pezzo di respon­sa­bi­lità e via di seguito). Serra scrive: «Evi­den­te­mente il ‘ciclo dell’indignazione’ è un mec­ca­ni­smo logoro».

Dal ceto intel­let­tuale mi aspetto assai più che l’indignazione, mi aspetto una rivolta morale: tutti, se non in per­fetta mala­fede, oggi sanno quanta verità ci sono nelle parole di Primo Levi: «Quello che non potrò mai per­do­nare ai nazi­sti è di averci fatto diven­tare come loro».

Quanto biso­gno avremo di sen­tire la sua voce risuo­nare, pacata e ferma, scan­dendo le parole, a voce bassa, ma chia­ris­sima: «La tra­ge­dia è di vedere oggi le vit­time diven­tate car­ne­fici». E se que­sto era evi­dente a lui negli anni Ottanta del Nove­cento, cosa potrebbe mai dire oggi, davanti a quei corpi stra­ziati di bimbi, alla vita can­cel­lata in tutta la Stri­scia di Gaza, davanti a quelle mace­rie che occu­pano, quar­tiere dopo quar­tiere, iso­lato dopo iso­lato, di ora in ora, lo spa­zio affol­lato di case e persone?

Se non denun­ciamo le men­zo­gne dei media, le com­pli­cità dei governi occi­den­tali, con quello di Tel Aviv, in par­ti­co­lare l’oscena serie di accordi (mili­tari, innanzi tutto) dell’Italia con Israele… Se ci con­se­gniamo al silen­zio, oggi, davanti a una ingiu­sti­zia così grave,così palese, così dram­ma­tica, quando par­le­remo? Insomma, non intendo tacere, e ricor­rendo pro­prio alle parole di quel grande uomo, gri­dare: «Se non ora, quando?».

Storie di commessi viaggiatori dei poteri forti:quelli che hanno aiutato la scalata del successore di Silvio, sulle macerie d'una gloriosa eredità distrutta.

Green report, 21 luglio 201421 luglio 2014
Dopo la tappa in Mozambico, dove ha firmato gli accordi già stesi dall’Eni con il governo di Maputo per gli immensi giacimenti gasieri del Paese africano, Renzi nel suo tour petrolifero si è recato in altri due Paesi già marxisti-leninisti: la Repubblica del Congo (Brazzaville) e l’Angola, ora convertiti al liberismo familistico/tribale più sfrenato, ma gestito sempre dagli stessi uomini che hanno cambiato casacca ideologica.

La visita di Renzi in Africa sembra più quella di un piazzista dell’Eni che quella di un premier di uno Stato democratico, e la “tecnica” utilizzata sembra ormai essere quella “cinese”, adottata anche da democrazie che poi si scoprono “selettive” se si parla di Ucraina o Gaza: accordi e pacche sulle spalle con tutti e nessuna domanda sui diritti umani e le libertà di opinione.

Comunque, se l’accordo in Mozambico – il più democratico tra i Paesi visitati – era più o meno ordinaria amministrazione (al di là dell’enormità delle riserve di gas scoperte da Eni) come ben sanno i lettori di greenreport che hanno seguito le scoperte di Eni nell’offshore di quel Paese, diversa è la situazione per quanto riguarda il Congo-Brazzaville, dove Renzi ha incontrato l’inossidabile presidente Dennis Sassour Nguesso, prima dittatore marxista-leninista e poi autoritario e ricchissimo presidente eletto.

Alla presenza di Renzi e Nguesso, l’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi, e il ministro degli Idrocarburi congolese, Andre Raphael Loemba, hanno firmato un accordo di cooperazione che conferma la storica presenza della nostra multinazionale nel Paese e «nel quale si afferma – spiega un comunicato Eni – la volontà di perseguire nuove iniziative nel bacino costiero congolese, che si estende dall’onshore Mayombe al deep-offshore».

Eni opera nella Repubblica del Congo dal 1968, ininterrottamente (anche ai tempi della dittatura filo-sovietica). Nel 2013 la compagnia italiana ha estratto circa 120.000 barili di olio equivalente al giorno. Descalzi, che in questo tour africano è sembrato fare le funzioni di ministro degli Esteri dell’Italia, ha confermato «l’importanza storica e strategica del Paese per Eni e ha riaffermato il massimo impegno della compagnia a proseguire nello sviluppo delle proprie attività, in particolare dei giacimenti rispetto ai quali, in seguito a un negoziato strategico, il governo congolese a fine 2013 ha prolungato i permessi (Madingo, Marine VI e Marine VII)».

Nell’Africa Sub-Sahariana, dove produce circa 450.000 di olio equivalente al giorno, Eni è presente inoltre in Ghana, Gabon, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Togo, Kenya e Liberia e Angola, ed è proprio in quest’ultimo Paese che Renzi ha fatto tappa per incontrare il presidente Jose Eduardo Dos Santos, del partito egemonico ex marxista-leninista dell’Mpla, e soprattutto suo figlio Jose Filomeno Sousa, presidente del Fondo sovrano angolano, creato con i proventi del petrolio.

Anche qui Renzi era stato preceduto il 19 luglio da Eni, che in un comunicato ha annunciato: «N’Goma FPSO è pronta a salpare in direzione dell’area offshore del blocco angolano 15/06, dopo la cerimonia di battesimo che si è tenuta ieri a Port Amboim. In seguito inizierà le operazioni di ormeggio e aggancio. Questa è per Eni e i suoi partner una tappa fondamentale per il conseguimento del first oil del West Hub Development Project previsto per la fine del 2014. Il progetto segnerà il ritorno di Eni in Angola come operatore in acque profonde». Eni è presente in Angola dal 1980, in piena guerra civile tra i marxisti dell’Mpla, appoggiati da cubani e sovietici, che avevano liberato l’Angola dal colonialismo portoghese, e i ribelli dell’Unita appoggiati dal Sudafrica razzista e dagli occidentali, e nel 2013 ha avuto una produzione netta di 87.000 barili al giorno.

La visita di Renzi in Angola, che a Lunada ha parlato davanti ad una platea composta quasi interamente composta da investitori italiani e occidentali (vedi foto), serve quindi a mettere il suggello definitivo al West Hub Project, tra i blocchi assegnati in Angola nel 2006 con un bid internazionale, la prima area di sviluppo che andrà in produzione. Questo progetto, spiega Eni, «comprende i campi Sangos, Cinguvu e Mpungi e prevede la perforazione di 21 pozzi sottomarini di cui 12 produttori, 4 iniettori acqua e gas alternativi e 5 iniettori d’acqua. La profondità d’acqua è compresa tra i 1000 e i 1500 metri. Un secondo progetto di sviluppo simile è inoltre in corso di esecuzione (East Hub) per sfruttare le riserve scoperte nella zona nord-orientale dello stesso blocco».

«Se in Laguna il Consorzio Venezia Nuova ha sponsorizzato di tutto per procacciarsi le simpatie dei veneziani, in Salento le cose hanno preso una piega diversa».

La Repubblica, 21 luglio 2014 (m.p.r.)

Marina di Melendugno (Lecce). Le canne sono queste piante sottili e dinoccolate che spuntano dalle dune di sabbia e, oggi, che è giorno di maestrale, vengono strappate e sbattute in un mare cristallino. «Ecco, noi non possiamo lasciarci trascinare dall’opportunità, come se fossimo canne al vento. Non svendiamo il territorio. Abbiamo l’obbligo di tutelare il territorio e la nostra festa». Con queste parole qualche giorno fa l’arcivescovo di Lecce, monsignor Domenico D’Ambrosio, ha spiegato che l’Italia non è tutta uguale.

Se in Laguna il Consorzio Venezia Nuova ha sponsorizzato di tutto per procacciarsi le simpatie dei veneziani, in Salento le cose hanno preso una piega diversa: il vescovo ha infatti bloccato un finanziamento da qualche decina di migliaia di euro che la Tap, l’azienda del gasdotto della discordia, era pronta a versare alla festa di Sant’Oronzo, il patrono dei leccesi. Tap (Trans Adriatic Pipeline) è acronimo di colosso. È la sigla che ha messo sul banco 40 miliardi di euro per realizzare un gasdotto che partendo dall’Azerbaijan dovrà arrivare qui, sulle coste del Salento, in uno dei mari più belli d’Italia. Il governo dovrà entro la fine del mese rilasciare la valutazione d’impatto ambientale necessaria per l’opera e, per questo, favorevoli e contrari nelle ultime settimane hanno riacceso il dibattito.
Da mesi in questa terra non si parla d’altro: seppure Tap assicuri che non ci sarà alcun disastro, che tutto rimarrà bello com’è, in molti (dalle associazioni ambientaliste alla Regione Puglia di Vendola che ha espresso però un parere non vincolante) hanno espresso dubbi sulla scelta dell’approdo del gasdotto. L’opera arriverà proprio in uno dei territori più belli e più a vocazione turistica d’Italia: perché? «È la scelta meno impattante» dicono alla Tap, che però, visti anche gli attacchi, negli ultimi giorni si è detta possibilista su un cambio di destinazione.
Le polemiche intanto sono tantissime. Tant’è che, per accattivarsi le simpatie dei salentini, la società da qualche settimana ha cominciato una campagna pubblicitaria che però non ha avuto l’esito sperato. Nei mesi scorsi l’azienda aveva offerto al comune di Melendugno cinque milioni di euro per uno studio sull’erosione delle coste, che qui è come dire la peste: la costa cede e la stagione balneare è stata a rischio fino all’ultimo. Ma il sindaco Marco Potì, giovane socialista, ha detto «no grazie: non vorremmo che qualcuno potesse pensare che si sta provando a comprare il nostro consenso». E quindi 9.328 abitanti hanno rifiutato i fondi.
Sembrava una mossa estemporanea, invece era soltanto l’inizio. Dieci giorni fa, dopo le polemiche per un logo Tap esposto nella festa di Santa Domenica a Scorrano (un tripudio di luminarie), è arrivato il no del vescovo e a ruota del sindaco, Paolo Perrone, per Sant’Oronzo a Lecce. Pochi giorni dopo Tap ha presentato un calendario di eventi da sponsorizzare nell’estate salentina: feste patronali, sagre, per un budget da 350mila euro. In pochi giorni a uno a uno tutti gli organizzatori degli eventi si sono sfilati, seguendo l’esempio d Sant’Oronzo: «Tap? No, grazie», niente finanziamento. Roy Paci ha fatto saltare un concerto, poi è toccato alla Festa della Birra, poi i Sud Sound System, la festa di San Rocco, persino il capitano e la bandiera del Lecce, Fabrizio Miccoli, ha detto: «No, la Tap no».
«Si è scatenato un vero e proprio assalto squadristico, che ha creato un clima di tensione e violenza incompatibile con lo spirito con cui l’azienda aveva pensato di sostenere il territorio negli eventi estivi» dicono oggi dalla società, che ha pensato anche ai gratta e vinci e a gadget per promuovere con i turisti l’immagine del Salento.
Sarà, ma intanto ieri pomeriggio, sulla spiaggia degli Alimini, un venditore ambulante giurava: «Correte, correte, il cocco fresco è meglio della Tap».

Ricordiamo le «ragioni di fondo del movi­mento sceso in piazza nel 2001», a Genova: un momento importante del movimento di contrasto alla nuova devastante fase globale della storia del capitalismo. Le ragioni di allora, i torti dello stato, l’impegno di oggi.

Il manifesto online, 20 Luglio 2014

In que­ste gior­nate per noi così evo­ca­tive, con tre­dici anni dif­fi­cili alle spalle, due pen­sieri si sovrap­pon­gono. Uno riguarda la dimen­sione poli­tica del movi­mento nato per con­tra­stare il pen­siero unico neo­li­be­ri­sta, l’altro le dina­mi­che repres­sive e di limi­ta­zione della demo­cra­zia. Que­stioni che si intrec­ciano e che sono oggi il fon­da­mento di una nuova consapevolezza.

In que­sto 2014 con la cosid­detta crisi – giunta al suo set­timo anno – che si rivela in realtà un sistema di governo e di domi­nio desti­nato a durare, può sem­brare per­fino super­fluo rimar­care la fon­da­tezza e l’attualità delle ragioni di fondo del movi­mento sceso in piazza nel 2001. Potremmo par­lare a lungo del domi­nio della finanza, delle oli­gar­chie sovra­na­zio­nali che sot­trag­gono demo­cra­zia, del neo­co­lo­nia­li­smo e del debito come leva di potere del forte con­tro il debole, della logica di guerra che ispira l’ideologia del libero mer­cato, cioè dei temi affron­tati nei semi­nari, nei forum e nelle ini­zia­tive pub­bli­che di allora, ma pos­siamo limi­tarci a far notare che in que­sti anni si è avuta una radi­ca­liz­za­zione del pen­siero unico e dei suoi stru­menti di dominio.

E che le chiavi di let­tura intro­dotte dal movi­mento con­tro il neo­li­be­ri­smo a cavallo del mil­len­nio sono oggi impre­scin­di­bili se vogliamo capire quel che dav­vero accade nell’economia glo­bale e nel suo sistema di governo. Altro che “crisi”, altro che “cre­scita da rilan­ciare”: siamo più che mai di fronte alla neces­sità di uscire dalle gab­bie men­tali, sociali e poli­ti­che di un sistema desti­nato a soprav­vi­vere a se stesso accre­scendo il livello di autoritarismo.

Genova 2001 portò novità dirom­penti anche nel modo di fare poli­tica, d’essere attivi nella società. Impa­rammo in quei giorni a ragio­nare in ter­mini glo­bali, a lavo­rare con spi­rito di coo­pe­ra­zione, a pren­dere deci­sioni cer­cando di allar­gare il con­senso, a favo­rire la par­te­ci­pa­zione dal basso. Que­sta lezione di metodo è il tesoro più pre­zioso di cui ancora dispo­niamo, ed è da que­sto tesoro che dovremmo attin­gere nel guar­dare al domani, in una fase sto­rica per­vasa da un senso di scon­fitta che rischia d’essere paralizzante.

Le migliori espe­rienze di movi­mento emerse in que­sti anni – pen­siamo a Occupy Wall Street, agli Indi­gna­dos spa­gnoli e anche del Movi­mento ita­liano per l’acqua pub­blica — sono tutte carat­te­riz­zate da un alto livello di com­pe­tenza, dalla cen­tra­lità di nuove figure sociali igno­rate dalla poli­tica uffi­ciale (il pre­ca­riato gio­va­nile, i migranti), da un’originale atti­tu­dine al plu­ra­li­smo, da una forte capa­cità di attrarre par­te­ci­pa­zione popo­lare, da una ten­denza a svi­lup­parsi per vie oriz­zon­tali senza derive gerar­chi­che o leaderistiche.

Se una nuova con­vin­cente idea di sini­stra non si è ancora affer­mata nella società e negli ambiti isti­tu­zio­nali, è anche per­ché in que­sti anni, nei vari ten­ta­tivi messi in campo, si è caduti nelle anti­che logi­che del per­so­na­li­smo, delle forme ver­ti­cali di orga­niz­za­zione, sof­fo­cando di fatto la crea­ti­vità dif­fusa e la voglia stessa di par­te­ci­pare. E non si è inve­stito abba­stanza, a nostro avviso, nella con­creta ela­bo­ra­zione di un cre­di­bile pro­getto poli­tico di “con­ver­sione” dell’economia, in grado di dare rispo­ste alle urgenze del momento – in testa la disoc­cu­pa­zione di massa — e d’essere “capace di futuro”.

Dice­vamo che un altro pen­siero preme in que­sti giorni in cui cade la ricor­renza del G8 geno­vese. Riguarda l’esercizio dei diritti civili, la qua­lità della demo­cra­zia ita­liana. E’ un punto sul quale non pos­siamo farci illu­sioni, ma che dev’essere dal cen­tro della nostra atten­zione. La pre­po­tenza isti­tu­zio­nale, al limite dell’eversione, che carat­te­rizzò le gior­nate del luglio 2001 è ormai con­se­gnata alla sto­ria, sotto forma di sen­tenze della magistratura.

Sotto que­sto pro­filo abbiamo otte­nuto risul­tati di por­tata sto­rica, con le con­danne per la Diaz e per Bol­za­neto e la sospen­sione dai pub­blici uffici di altis­simi diri­genti della poli­zia di stato. Risul­tati che certo non miti­gano la sof­fe­renza al pen­siero che dieci per­sone sono state impri­gio­nate con con­danne pesan­tis­sime e spro­por­zio­nate, per­sone che stanno pagando sulla loro pelle – in maniera pro­fon­da­mente ingiu­sta e inu­mana – quella spe­cie di com­pen­sa­zione che è stata con­cessa all’istituzione-stato, insieme con i man­cati pro­cessi per l’omicidio di Carlo Giu­liani e per il vili­pen­dio del suo cada­vere, a fronte della mise­ra­bile prova offerta in piazza, nelle scuole, nelle caserme e nei tri­bu­nali di Genova da nume­rosi fun­zio­nari e diri­genti delle forze dell’ordine.

Molti, troppi abusi e vio­lenze fino all’omicidio hanno mac­chiato negli ultimi anni le varie forze di poli­zia per poter dire che la “lezione di Genova” è stata accolta ed ela­bo­rata den­tro gli appa­rati di sicu­rezza. Forse è avve­nuto il con­tra­rio. Si è cioè affer­mata, in rispo­sta alle con­danne di Genova e al fal­li­mento del ten­ta­tivo di osta­co­lare il corso della giu­sti­zia, un’evasione dai canoni della demo­cra­zia che rischia d’essere inarrestabile.

La chiu­sura cor­po­ra­tiva è addi­rit­tura erme­tica. Niente sap­piamo di quel che avviene nella caserme, dei cri­teri di for­ma­zione degli agenti, di come sono state rece­pite le cla­mo­rose sen­tenze geno­vesi. La stessa nuova fase poli­tica, tutta all’insegna della rot­ta­ma­zione e del “nuovo che avanza” non ha toc­cato i gruppi di potere ai ver­tici degli appa­rati. Lì non si annun­ciano rivo­lu­zioni e si pensa sem­mai – dob­biamo sup­porre –a strin­gere l’ennesimo patto di potere in chiave neoautoritaria.

E’ dun­que tutto per­duto? Noi cre­diamo di no e pen­siamo che valga ancora la pena col­ti­vare l’idea che l’etica demo­cra­tica dev’essere la bus­sola per tutte le isti­tu­zioni sta­tali, anche per gli appa­rati di poli­zia. E’ una sfida che può essere affron­tata a patto che cia­scuno fac­cia la sua parte: in par­la­mento, nella società, fra gli stessi agenti coscienti della deriva anti­de­mo­cra­tica che sono costretti a subire.

Le nostre pro­po­ste sono note: dai codici di rico­no­sci­mento sulle divise, alla revi­sione dei cri­teri di for­ma­zione degli agenti, all’abolizione della riserva dei posti in poli­zia per chi abbia pre­stato ser­vi­zio nelle forze armate. Fino a una vera legge sulla tor­tura. Quindi una legge diversa da quella appro­vata in prima let­tura al senato, un testo ina­de­guato per­ché non qua­li­fica la tor­tura come reato spe­ci­fico del pub­blico uffi­ciale né pre­vede il prin­ci­pio della non prescrivibilità.

Ecco un con­creto fronte d’impegno per le pros­sime set­ti­mane e mesi: una cam­pa­gna per cam­biare un testo di legge che pare pen­sato in un paese diverso dall’Italia, come se a Genova nel 2001 o den­tro caserme e car­ceri anche negli anni seguenti, non fosse avve­nuto niente. Come se i giu­dici non aves­sero scritto la parola tor­tura – senza poter appli­care una pena con­grua – nella sen­tenza di con­danna per i fatti di Bolzaneto.

E’ il minimo che pos­siamo fare per chi ha vis­suto sulla pro­pria pelle ciò che una volta abbiamo chia­mato l’eclisse della democrazia.

«La fine del Marcianum creato dal cardinale Scola fa affiorare un retroscena del 2008: la Regione governata da Galan dirottò, per quel progetto, 50 milioni di fondi della Legge speciale originariamente destinati al disinquinamento della laguna».

La Nuova Venezia, 20 luglio 2014 (m.p.r.)

Venezia. E’ saltato come un castello di carte, sotto i contraccolpi politici e istituzionali dell’inchiesta sui fondi deviati per il Mose, l’ambizioso progetto della Fondazione Studium Generale Marcianum che l’allora Patriarca di Venezia (dal 2002 al 2011) e ora arcivescovo di Milano Angelo Scola aveva edificato in pochi anni, dalla fine del 2007, con l’appoggio determinante della Regione guidata allora da Giancarlo Galan e l’appoggio strategico di aziende come il Consorzio Venezia Nuova, il cui presidente di allora Giovanni Mazzacurati fu dall’inizio anche presidente del Consiglio di amministrazione.
La decisione obbligata presa ora dal nuovo Patriarca di Venezia Francesco Moraglia di “smantellarlo”, chiudendo - dopo quello che era già avvenuto per il polo scolastico delle medie e del liceo - anche la Facoltà di Diritto Canonico, l’Istituto Superiore di Scienze Religiose e il Convitto Internazionale, facendone solo un istituto di ricerca, è la fine della “creatura” di Scola. E non a caso il nuovo Patriarca -con un’evidente chiamata di corresponsabilità nei confronti del suo predecessore per la situazione che gli ha lasciato in eredità- si è recato a Milano, come ha tenuto a far sapere, per chiedere al cardinale se volesse lui, e a sue spese , “salvare” il Marcianum, ricevendone ovviamente un rifiuto.
E se, come ha sottolineato in questi giorni lo stesso Scola, i fondi erogati dalla Regione e dalle imprese a favore del Patriarcato per il Marcianum sono stati regolarmente approvati da quelle istituzioni, è però nel clima dell’uso improprio dei fondi per la salvaguardia di Venezia che il polo culturale ecclesiastico in laguna si è fondato ed è poi affondato. Lo dicono le cronache, visto che la Regione decise anni fa di sottrarre per la prima volta 50 milioni di euro di fondi della Legge Speciale per il disinquinamento della laguna, di cui è chiamata a occuparsi, per destinarli appunto tutti al Patriarcato di Scola, per il restauro del Palazzo Patriarcale di Piazzetta dei Leoncini, per quello della Basilica della Salute e soprattutto per la ristrutturazione del Seminario Patriarcale della Salute, destinato a ospitare il Marcianum, trasformato in un complesso polifunzionale con una foresteria da 70 camere con bagno, destinate agli ospiti del polo universitario.
Più che un restauro, una nuova destinazione del complesso, con spazi anche di ristoro, sale multimediali, biblioteca, spazi espositivi e sale congressi. Anche l’intervento per il Palazzo della Curia, più che a un restauro in senso stretto, rispose a una filosofia di modernizzazione di tutto l’edificio, prevedendo anche qui una foresteria, uffici e nuove sale di accoglienza. Di fronte alle polemiche per l’uso “improprio” di quei fondi girati al Patriarcato, Galan non fece una piega. «È la dimostrazione» dichiarò, «che la Regione non si occupa solo del Mose, ma ha a cuore anche la salvaguardia monumentale della città». E la Regione -socio fondatore dell’istituzione- con lui, non lasciò più solo il Marcianum voluto da Scola, anche per la «realpolitik» del cardinale nel mondo del cattolicesimo e delle comunità mediorientali, aggregate intorno alla rivista «Oasis» nel nome del suo celebre slogan del “meticciato di civiltà”.
\Con un provvedimento del 2008, infatti, Palazzo Balbi decide subito di stanziare 250 mila euro all’anno, dal 2009 al 2011 per il sostegno delle attività del Marcianum, prelevandole dal capitolo destinato alla formazione professionale. Finanziamenti per il funzionamento del Marcianum furono assicurati annualmente anche dal Consorzio Venezia Nuova e dalle altre aziende che hanno accompagnato la nascita del polo. Fino alla partenza di Scola per Milano. Il sistema istituzionale e imprenditoriale creato intorno al Marcianum dall’attuale arcivescovo di Milano che ne aveva consentito l’ambiziosa creazione e lo sviluppo si è di fatto dissolto con l’uscita di scena di Galan - il grande “alleato” - e con il suo addio a Venezia. Un polo culturale crollato, perché - come ha detto ora Moraglia - non poteva «dipendere a doppio filo dagli sponsor». Pubblici o privati.

«Dalla cessione del gruppo Pirelli ai russi per pochi euro all'annunciata vendita di Saipem da parte dell'Eni. Fino alle ultime vicende che riguardano Alitalia, Ilva e Indesit. Il governo italiano resta alla finestra mentre l'industria italiana finisce nelle mani dei grandi gruppi industriali stranieri».

Sbilanciamoci.info, 12 luglio 2014 (m.p.r.)

Per quanto riguarda il controllo delle imprese grandi e medio-grandi del nostro paese le notizie non sono più quelle di una lenta ritirata del capitale nazionale, ma di una rotta sostanzialmente disordinata. Nell’ultimo periodo abbiamo così assistito, tra l’altro, alla pratica cessione del gruppo Pirelli ai russi per pochi euro e del controllo del Monte dei Paschi, tra l’altro a investitori sudamericani, sempre per una manciata di soldi. Intanto l’Eni annuncia la vendita di quella grande impresa che è la Saipem e, naturalmente, dal momento che non si troveranno investitori nazionali disponibili, l’ambita preda finirà in mani lontane. Anche la annunciata e insensata privatizzazione di Fincantieri -un’impresa che da qualche tempo naviga sulla giusta rotta e che dovrebbe semmai essere aiutata ad espandersi ancora-, potrebbe portare qualche sgradevole sorpresa sul fronte della proprietà; con questo governo c’è sempre da aspettarsi il peggio.

Ma ora, in attesa di altri annunci della stessa natura, fanno notizia soprattutto le vicende di Indesit, Ilva, Alitalia.

Per quanto riguarda quest’ultima, l’epilogo della vicenda sembra vicino, con i sindacati posti di fronte alla drammatica alternativa di accettare, e in fretta, dei pesanti tagli all’occupazione o vedere a questo punto la chiusura definitiva della compagnia; non esistono in effetti altre soluzioni, di fronte tra l’altro ad un interlocutore, quello arabo, che, sapendo di avere il coltello dalla parte del manico, ha avanzato richieste molto pesanti anche alle banche, tra l’altro indurendo le sue richieste nei loro confronti diverse volte negli ultimi mesi. Con una conclusione in qualche modo positiva della vicenda si chiuderebbe peraltro uno scandalo, che dura da sessanta anni, di spreco di risorse pubbliche, di immistione senza freni della politica più deteriore nelle vicende della compagnia, di gravi incompetenze di gestione.

Per quanto riguarda l’Indesit, si è chiusa una falsa asta tra produttori americani, tedeschi e cinesi per la conquista della compagnia. In realtà, si sapeva da tempo che avrebbe vinto la statunitense Whirlpool, anche se, ad esempio, l’offerta cinese era economicamente migliore e quella tedesca politicamente più opportuna. Si sussurra, in effetti, che l’attuale amministratore delegato della società marchigiana fosse da tempo in relazioni di amicizia con il responsabile europeo della stessa Whirlpool e che i due, di fronte anche ad azionisti disorientati e passivi, si fossero messi d’accordo sulla transazione già da molto tempo. Bisognerà stare almeno attenti, ora, perché la nuova proprietà rispetti le decisioni di quella vecchia in merito ai recenti impegni assunti in termini di investimenti ed occupazione, anche se, di nuovo, con l’attuale governo non c’è da sperare molto in questo senso.

Ma indubbiamente la partita più rilevante per il paese si gioca in questo momento sull’Ilva. Le notizie di queste ore parlano di una garanzia da parte del governo verso il sistema bancario perché continui almeno per il momento ad alimentare le casse della società ormai al limite dell’asfissia; di una pratica defenestrazione di Ronchi, sub-commissario per le questioni ambientali, in pratica costretto a dare le dimissioni; del mancato e parallelo rifiuto, almeno per il momento, dello stesso governo ad utilizzare gli 1,8 miliardi di euro, a suo tempo sequestrati dalla magistratura, per il risanamento ambientale e per i nuovi investimenti necessari alla ripresa dell’azienda. Intanto proseguono le trattative, sembra esclusive, con Arcelor Mittal per una cessione della compagnia.

Le notizie che arrivano non sono dunque confortanti. Il governo, con una rappresentante della Confindustria come la Guidi nella sua compagine, cerca di dare il minor fastidio possibile ai capitalisti nostrani, trattando con i guanti gialli la stessa famiglia Riva; intanto esso, apparentemente, si disinteressa del risanamento ambientale, mentre a Taranto si continua a morire e ad ammalarsi e mentre il calo recente delle emissioni nocive sembra dovuto in buona misura alla chiusura, più o meno momentanea, di una parte degli impianti; d’altro canto, si è scelto per l’intervento nel capitale l’interlocutore sbagliato, quella indiana Arcelor Mittal che è già fortemente presente in Europa, dove ha già una capacità produttiva largamente in eccesso. Un suo intervento nel capitale dell’Ilva, motivato quindi semplicemente con il tentativo di impedire l’ingresso nella compagine azionaria dei concorrenti cinesi o coreani, significherebbe probabilmente un taglio abbastanza drastico degli impianti e conseguentemente dell’occupazione. La vicenda continua a svolgersi peraltro con il possibile ed ulteriore intervento della magistratura.

Auspichiamo da tempo che, a difesa degli interessi dei lavoratori e dello stesso sviluppo dell’economia nazionale, che nella nuova compagine azionaria entri, in posizione di rilievo, una qualche entità pubblica, la Cassa Depositi e Prestiti o lo stesso Tesoro. Ma c’è da sperare qualcosa in tale direzione visto l’orientamento fanaticamente liberista dell’attuale governo e avendo la sensazione che ai posti di comando siano presenti molti dilettanti allo sbaraglio?

Come riuscire a distruggere, frettolosamente e rozzamente, i principi della democrazia borghese del XIX secolo e quella popolare del XX. Un'analisi chiara e sintetica del pasticcio renzusconiano.

Il manifesto, 17 luglio 2014Una valanga di 7000 emen­da­menti può sem­brare un osta­colo insor­mon­ta­bile per la riforma Renzi-Boschi. Ma è un’illusione. Rego­la­mento e prassi cono­scono raf­fi­nate tec­ni­che anti-ostruzionistiche. Per le regole in atto, un ostru­zio­ni­smo di mino­ranza che bloc­chi l’assemblea non è pos­si­bile. Siamo di fronte a qual­che giorno di lavoro par­la­men­tare, niente che non si possa gestire accor­ciando (di poco) le vacanze. A meno che la mag­gio­ranza rifor­ma­trice non si dis­solva. Per que­sto è deci­siva la tenuta del patto Renzi-Berlusconi, difeso dai due sti­pu­lanti a spada tratta, accada quel che accada.

In qual­che misura l’esito rimane incerto, essendo stata pura rap­pre­sen­ta­zione tea­trale la sopo­ri­fera assem­blea di Renzi con i par­la­men­tari Pd, e rima­nendo alta la feb­bre in Fi. C’è da spe­rare che la migliore poli­tica ritrovi fiato e ini­zia­tiva. Per­ché il testo appro­vato in com­mis­sione pre­fi­gura un’architettura isti­tu­zio­nale distorta e priva di equi­li­brio. Si è par­lato di blando auto­ri­ta­ri­smo, si è richia­mato il pro­getto Gelli-P2. Di certo, si può temere una ridu­zione degli spazi di democrazia.

Come? Vediamo alcuni punti salienti. Azze­ra­mento della rap­pre­sen­ta­ti­vità e del peso politico-istituzionale del senato con il carat­tere non elet­tivo e il taglio dei poteri; ridu­zione della camera a obbe­diente brac­cio armato del governo attra­verso una legge elet­to­rale che riduce la rap­pre­sen­ta­ti­vità, taglia le voci in dis­senso, crea una arti­fi­ciale mag­gio­ranza nume­rica, garan­ti­sce la fedeltà al capo attra­verso le liste bloc­cate; potere di ghi­gliot­tina per­ma­nente del governo, che può stroz­zare a suo pia­ci­mento il dibat­tito impo­nendo il voto a data certa su un testo pro­po­sto o comun­que accet­tato dal governo; innal­za­mento del numero di firme richie­sto per l’iniziativa legi­sla­tiva popo­lare a 250.000 (ora 50.000); innal­za­mento delle firme richie­ste per il refe­ren­dum abro­ga­tivo a 800.000 (ora 500.000).

Un colpo grave ed evi­dente alla rap­pre­sen­tanza poli­tica da un lato, alla par­te­ci­pa­zione dall’altro. Sono poco più che una foglia di fico le dispo­si­zioni che rin­viano ai rego­la­menti par­la­men­tari la garan­zia dell’iniziativa legi­sla­tiva popo­lare, o ridu­cono in qual­che misura il requi­sito del quo­rum strut­tu­rale per il refe­ren­dum. Assai più con­tano altri effetti, magari indotti e non imme­dia­ta­mente visi­bili, delle modi­fi­che pro­po­ste. Ad esem­pio, il Capo dello Stato viene eletto da depu­tati e sena­tori. Ma la ridu­zione dra­stica del numero dei sena­tori, rima­nendo immu­tato quello dei depu­tati, lascia in sostanza la ele­zione del capo dello stato nelle mani della sola camera, con­se­gnata alla mag­gio­ranza di governo dalla legge elet­to­rale, con l’aggiunta di una man­ciata di sin­daci e con­si­glieri regio­nali amici. Basterà aspet­tare il nono scru­ti­nio per avere un capo dello stato di mag­gio­ranza, rima­nendo mero fla­tus vocis che sia rap­pre­sen­tante dell’unità nazio­nale, e garante della costi­tu­zione. E non dimen­ti­chiamo che il capo dello stato pre­siede il Csm, organo di auto­go­verno della magi­stra­tura. E che per gli stessi com­po­nenti elet­tivi del Csm vale il discorso appena fatto. Men­tre i tre mem­bri della Corte Costi­tu­zio­nale eletti dalla camera sono rimessi alla scelta della mag­gio­ranza garan­tita dal pre­mio, con qual­che soste­gno sot­to­banco che non si nega a nes­suno. Per non dire della revi­sione della Costi­tu­zione ancora rimessa alla mag­gio­ranza di governo della camera, e agli equi­li­bri poli­tici del tutto occa­sio­nali e impre­ve­di­bili del senato. In quali mani fini­ranno diritti e libertà? La Costi­tu­zione come sta­tuto di una maggioranza?

Una strut­tura priva di equi­li­brio. Dove sono i checks and balan­ces? Invece, molto altro si poteva fare. Come ad esem­pio l’impugnativa ex ante davanti alla Corte Costi­tu­zio­nale di leggi non limi­tata alla legge elet­to­rale, da parte di una mino­ranza par­la­men­tare (come in Fran­cia); o il ricorso diretto del cit­ta­dino alla stessa Corte in mate­ria di diritti e libertà (Ger­ma­nia e altri paesi); o il refe­ren­dum popo­lare appro­va­tivo auto­ma­tico in caso che l’iniziativa legi­sla­tiva popo­lare venga disat­tesa dal legi­sla­tore (Sviz­zera); o l’anticipo del giu­di­zio di ammis­si­bi­lità della Corte sul refe­ren­dum in base all’avvenuta rac­colta di un numero infe­riore di firme rispetto al totale di quelle richie­ste (ad esem­pio, cen­to­mila), in modo da con­sen­tire ai pro­mo­tori di rac­co­gliere le restanti firme a que­siti ammessi.

Né va dimen­ti­cato il con­te­sto più gene­rale, e l’indebolimento di par­titi poli­tici, sin­da­cati, asso­cia­zioni. Si pensi alla can­cel­la­zione del finan­zia­mento pub­blico, alla dia­triba sui con­tratti nazio­nali di lavoro, al rifiuto di con­cer­ta­zione. La stessa ascesa di Renzi è stata la nega­zione della fun­zione tipica e pro­pria di un par­tito poli­tico. In sostanza, nelle pri­ma­rie Renzi ha usato il voto dei non iscritti con­tro il voto degli iscritti, per con­qui­stare il par­tito degli iscritti.

Un tempo, se qual­cuno voleva met­ter mano alla costi­tu­zione si par­lava di inge­gne­ria isti­tu­zio­nale. Ma almeno si pre­sup­po­neva una lau­rea. Capiamo bene che oggi è chie­dere troppo. Ma almeno dateci un geo­me­tra o un capomastro.

Sbilanciamo l'Europa . Il trentennio neoliberista ha divorato la democrazia liberale, facendo carta straccia dei diritti sociali, lasciando spadroneggiare la finanza e riducendo i poteri degli Stati. La questione democratica si ripropone con la partecipazione e la resistenza contro l'assolutismo dei privilegi.

Sbilanciamoci.info, 17 luglio 2014

Di recente, il socio­logo tede­sco Wol­fgang Streeck ha argo­men­tato che la fine del capi­ta­li­smo può venire dalla debo­lezza, piut­to­sto che dalla forza, dell’opposizione anti-neoliberista.Lasciato a se stesso, senza limiti, l’ingordigia del capi­ta­li­smo por­te­rebbe infatti alla distru­zione (al momento in sta­dio avan­zato) di quelle risorse umane a mate­riali di cui esso stesso ha biso­gno per soprav­vi­vere. Un argo­mento simile si potrebbe arti­co­lare anche rispetto alla Unione Europea.

All’indomani di ele­zioni che, per (man­canza di) par­te­ci­pa­zione ed esiti hanno mostrato tutta la insof­fe­renza dei cit­ta­dini euro­pei rispetto a que­sta Europa, il Par­tito Popo­lare Euro­peo (prin­ci­pale per­dente in ter­mini di elet­tori in uscita) e, quel che è peg­gio, un Par­tito Socia­li­sta Euro­peo che non è riu­scito a pre­sen­tarsi come alter­na­tiva, pro­ce­dono come se nulla fosse stato: con il soste­gno bi-partisan al Popo­lare Jean-Claude Juncker—Mister Crisi, non­ché Mister Austerità—alla pre­si­denza della Com­mis­sione Euro­pea e l’elezione (con accordo di rota­zione Pse-Ppe di Mar­tin Schultz, Socia­li­sta cri­ti­cato per­sino in patria per un pere­grino poster elet­to­rale dove si leg­geva «solo se voti per Mar­tin Schultz e l’Spd può un tede­sco diven­tare pre­si­dente della Com­mis­sione Europea».

In più, espo­nenti di entrambi i par­titi van­tano la salda mag­gio­ranza euro­pei­sta nel par­la­mento europeo—rimuovendo la pre­senza, in quella pre­sunta mag­gio­ranza, di pre­senze imba­raz­zanti e ben poco euro­pei­ste, da Forza Ita­lia di Sil­vio Ber­lu­sconi al Fidesz di Vic­tor Orban. Ppe, Pse e chi con loro sem­brano avere fretta di dimen­ti­care che, secondo i son­daggi dell’Eurobarometro, la per­cen­tuale dei cit­ta­dini che ha fidu­cia nella Ue è scesa dal 57% nel 2007 al 31% nel 2013.

La per­cen­tuale di cit­ta­dini che ha una imma­gine posi­tiva dell’Europa è scesa nello stesso periodo dal 52 al 31% e quella di coloro che sono otti­mi­sti rispetto ai futuri svi­luppi della Ue è crol­lata dai due terzi alla metà della popo­la­zione. E che, se que­sti sono i valori medi, la situa­zione è di gran lunga più dram­ma­tica nei paesi più col­piti dalla crisi. Que­sti dati riflet­tono una pro­fonda crisi di respon­sa­bi­lità della ver­sione poli­tica del neo­li­be­ri­smo, nella quale la Ue è con­si­de­rata prin­ci­pale pro­mo­trice. NeL 1970, Haber­mas aveva col­le­gato la crisi eco­no­mica ad una crisi di legit­ti­mità, pro­dotta dalla inca­pa­cità dello stato di risol­vere i pro­blemi del mer­cato. Se Haber­mas si rife­riva allo stato inter­ven­ti­sta della ver­sione for­di­sta, nel capi­ta­li­smo oggi l’effetto di dele­git­ti­ma­zione delle isti­tu­zioni poli­ti­che viene da una crisi di respon­sa­bi­lità legata alla rinun­cia delle isti­tu­zioni poli­ti­che di garan­tire fon­da­men­tali diritti di cit­ta­di­nanza. In estrema sin­tesi, men­tre negli anni ’80 gli Stati furono accu­sati di spen­dere troppo e si allon­ta­na­rono dalle poli­ti­che eco­no­mi­che key­ne­siane di pieno impiego, il post-fordismo ha por­tato a una ridu­zione del wel­fare e a un aumento delle disu­gua­glianze sociali.

Dere­go­la­men­ta­zioni, pri­va­tiz­za­zioni hanno rap­pre­sen­tato i prin­ci­pali indi­rizzi di policy giu­sti­fi­cati dal biso­gno di rista­bi­lire l’efficienza del mer­cato. Tali inter­venti non hanno aiu­tato a miglio­rare la con­cor­renza, ma piut­to­sto incen­ti­vato la con­cen­tra­zione del potere nelle mani di poche mul­ti­na­zio­nali, con una con­se­guente crisi eco­no­mica che affonda le sue radici non nella scar­sità o nell’inflazione, ma piut­to­sto in un pro­cesso di man­cata redi­stri­bu­zione. Dal 2008, il debito pub­blico è aumen­tato, non a causa di inve­sti­menti in ser­vizi sociali o a sup­porto di gruppi sociali vul­ne­ra­bili, ma piut­to­sto a causa di ingenti inie­zioni di denaro pub­blico a favore di ban­che e isti­tu­zioni finan­zia­rie in dis­se­sto finan­zia­rio che ave­vano ope­rato dra­stici tagli sulle tas­sa­zione dei capi­tali. Que­sto svi­luppo nelle inte­ra­zioni fra stato e mer­cato si è tra­sfor­mato in cor­ru­zione della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva attra­verso la sovrap­po­si­zione fra potere eco­no­mico e poli­tico. Dal punto di vista del sistema poli­tico, que­sto com­porta una rinun­cia di respon­sa­bi­lità da parte delle isti­tu­zioni rap­pre­sen­ta­tive di fronte alle istanze dei cittadini.

Con­tro le pro­messe neo­li­be­ri­ste di difesa del mer­cato dallo stato, stu­diosi di varie disci­pline foca­liz­zano l’attenzione su due ele­menti. Da un lato, la sepa­ra­zione fra eco­no­mia e poli­tica è pre­sente rara­mente, i governi devono infatti rime­diare la pre­senza di fal­li­menti del mer­cato, e i mer­cati hanno biso­gno di leggi. Dall’altro, la capa­cità degli stati di garan­tire i diritti dei cit­ta­dini è dra­sti­ca­mente ridi­men­sio­nata dalle poli­ti­che di pri­va­tiz­za­zione, libe­ra­liz­za­zione, e dere­go­la­men­ta­zione che hanno per­messo la con­cen­tra­zione del capi­tale attra­verso legi­sla­zioni favo­re­voli. Gli stati sono accu­sati di abro­gare i diritti sociali al fine di aumen­tare i pro­fitti e le ren­dite di pochi pri­vi­le­giati, poi­ché infatti il neo­li­be­ri­smo implica l’abolizione di molte leggi e rego­la­men­ta­zioni orien­tate al con­trollo dell’economia. Inol­tre, il neo­li­be­ri­smo si è fon­dato – e, come Colin Crouch ha sot­to­li­neato, è stra­na­mente soprav­vis­suto alla sua stessa crisi– soprat­tutto attra­verso il tra­sfe­ri­mento di un’ampia quan­tità di denaro dalle mul­ti­na­zio­nali ai poli­tici. Libe­ra­liz­za­zioni, dere­go­la­men­ta­zioni e pri­va­tiz­za­zioni hanno infatti por­tato a cor­ru­zione e lobby sel­vagge, anche a livello euro­peo. Allo stesso tempo così come le mul­ti­na­zio­nali com­prano le deci­sioni poli­ti­che, emerge il ten­ta­tivo di pre­sen­tare que­ste stesse deci­sioni come «apo­li­ti­che», con l’obiettivo di legit­ti­marne il risul­tato come un beni­gno inter­vento di rego­la­men­ta­zione che l’UE ha cer­cato di raggiungere.

Lo spa­zio per le deci­sioni poli­ti­che è stato negato da poli­tici di dif­fe­renti ban­diere sulla base di un’assunta pre­do­mi­nanza di «logi­che di mer­cato», soprat­tutto nel caso dei mer­cati inter­na­zio­nali. L’obiettivo demo­cra­tico di otte­nere fidu­cia da parte dei cit­ta­dini è stato, nei fatti, reto­ri­ca­mente sosti­tuito dalla ricerca di una «fidu­cia del mer­cato», che è otte­nuta anche a spese di una insen­si­bi­lità verso le istanze dei cit­ta­dini. La respon­sa­bi­lità degli stati demo­cra­tici di fronte ai loro cit­ta­dini è stata rimossa in nome del rispetto di con­di­zio­na­lità esterne – incluse quelle impo­ste dall’Ue agli Stati per l‘accesso a pre­stiti– che hanno impo­sto tagli alla spesa pub­blica, con con­se­guenze dram­ma­ti­che in ter­mini di vio­la­zioni dei diritti umani fon­da­men­tali quali diritto al cibo, alla salute, e all’abitazione. La respon­sa­bi­lità demo­cra­tica è per­tanto ridotta dall’irresponsabilità delle orga­niz­za­zioni inter­na­zio­nali che impone que­ste con­di­zio­na­lità, met­tendo a repen­ta­glio le scelte politiche.

Senza con­trolli e limiti, la crisi di respon­sa­bi­lità che inve­ste le isti­tu­zioni poli­ti­che ai vari livelli in Europa è desti­nata a incan­cre­nirsi. È impor­tante la capa­cità di opporsi a que­ste visioni di Europa da parte di quelle forze che — anche nel par­la­mento (da Siryza a Pode­mos, ai Verdi e anche, nono­stante le sto­lide alleanze, il M5s — pos­sono essere por­ta­trici di un’altra Europa

Dalle storie degli operai la conferma: innovare si può, ma tornando all'indietro; cambiare verso si può, ma all'indietro; fare si può, ma di masole in peggio.

Il manifesto, 10 luglio 2014

E par­liamo un po’ di classe ope­raia, rac­con­tiamo come vive, giorno dopo giorno, tirando la vita coi denti. Par­liamo non di gio­vani disoc­cu­pati, la grande tra­ge­dia nazio­nale, ma di gente che il lavoro ce l’ha — a quali con­di­zioni… — e fatica a man­te­nerlo, sot­to­po­sta a ricatti, costretta a con­di­zioni iugu­la­to­rie, con salari al minimo; e quando lo perde, per l’incessante chiu­sura di offi­cine, aziende, imprese, fa ancora più fatica a rime­diarne un altro.

Non voglio offrire sta­ti­sti­che e sguardi di insieme, ma rac­con­tare una sto­ria, una vicenda come tante, esem­plare, ritengo. Fami­glia pro­le­ta­ria, nell’ex capi­tale: del Ducato di Savoia, del Regno d’Italia, dell’automobile, della Fiat. Il padre ope­raio spe­cia­liz­zato giunto al reparto pro­get­ta­zione auto, ari­sto­cra­zia ope­raia, insomma, che al lavoro ha sem­pre guar­dato con rispetto e per­sino con amore; qual­che scio­pero, ma via via sem­pre meno nel corso dei decenni; una moglie con un lavoro non qua­li­fi­cato, due figli, che fanno le scuole tecniche.

Il maschio fre­quenta l’Istituto per Geo­me­tri, ma comin­cia a fre­quen­tare i can­tieri, nel tempo libero e nelle vacanze, si impra­ti­chi­sce del lavoro, e quando fini­sce trova subito un impiego. Lavora sodo negli anni seguenti, diventa capo­can­tiere, per la ditta che lo ha assunto, mette su fami­glia: com­pra una casetta, col mutuo, fuori città, nel luogo dove ha sede la sua ditta: casa e bot­tega. Come suo padre vive per il lavoro, lo ama, si impe­gna, e non bada a straordinari.

Il babbo è orgo­glioso, ha fatto stu­diare il pri­mo­ge­nito, che è salito nella scala sociale; ma c’è di più. Il nostro ope­raio spe­cia­liz­zato ha una seconda figlia, che fa le scuole com­mer­ciali, prende il suo diploma, e vuole a tutti i costi andare all’università. Il babbo le dice d’accordo, ma non pos­siamo per­met­ter­celo. E lei si man­tiene lavo­rando per tutto il periodo degli studi. E dopo la lau­rea — otte­nuta nei quat­tro anni, e bene — con­ti­nua, avrebbe aspi­ra­zioni intel­let­tuali, ma sa di non poter­selo per­met­tere; con­serva la pas­sione per i libri, per lo stu­dio, e rifiuta le pro­po­ste di con­ti­nuare nella vita degli studi, che il suo rela­tore di tesi le fa.Le rie­sce impos­si­bile con­ci­liare quella dimen­sione, a cui pure ter­rebbe, con la vita reale.

Una vita reale nella quale è pas­sata ormai dai lavo­retti nelle fiere o come aiuto par­ruc­chiera, ad assun­zioni a tempo deter­mi­nato in un’azienda, con rin­novi semestrali.

È seria come tutti in fami­glia: sarà l’etica del lavoro tipica della cul­tura pie­mon­tese? E i datori di lavoro le rin­no­vano il con­tratto, fino a che si sta­bi­lizza: è una lavo­ra­trice che si fa sfrut­tare fino in fondo. Piega la testa, ed è brava: per­ciò, a un certo punto il lavoro a tempo inde­ter­mi­nato arriva. Il mirag­gio diviene realtà. E que­sto le fa cre­dere che può, come suo fra­tello, com­prare un pic­colo appar­ta­mento, con un mutuo trentennale.

Ma fa fatica, troppa fatica, i costi aumen­tano mese dopo mese, le utenze, le spese con­do­mi­niali, il cibo, i deter­sivi, e il suo com­pa­gno che ha messo su un’attività nel momento sba­gliato, con la crisi galop­pante, non ce la fa ad aiu­tarla. Anzi: chiede un fido ban­ca­rio, e le rate stroz­zano lui e lei, che intanto vende gli ogget­tini d’oro, salta il pasto di mez­zodì e usa i buoni pasto della ditta per fare la spesa a fine set­ti­mana. In casa i pranzi sono ridotti a fari­na­cei, patate e, di rado, pro­teine, a cui prov­ve­dono per­lo­più i geni­tori nei pasti dome­ni­cali, quando i due “gio­vani” (ormai entrambi sui 40) ritor­nano nelle dimore di nascita; le mamme li prov­ve­dono con ciba­rie, olio, caffè. Una vita di stenti. E lei sa di doversi con­si­de­rare “for­tu­nata” con i suoi circa 1.100 euro men­sili, anche se alla quarta set­ti­mana non rie­sce ad arri­vare, e cerca occu­pa­zioni per arro­ton­dare. Va a fare le puli­zie in una dimora pri­vata dopo l’ufficio un paio di volte alla settimana.

Intanto, la crisi ha col­pito il fra­tello mag­giore: la ditta ha perso mese dopo mese, le com­messe in pre­ce­denza nume­rose. E un anno e mezzo fa ha chiuso. Era una pic­cola, ma fio­rente azienda. Kaputt. Il geo­me­tra qua­ran­tenne viene messo con gli altri dipen­denti in cassa inte­gra­zione: finita la cassa, comin­cia a cer­care. Prima fa il giro dei can­tieri, poi manda cur­ri­cula alle ditte edili: non riceve rispo­ste. Quando gliene danno sono scon­so­late e sconfortanti.

Spul­cia gli annunci sui gior­nali: ma set­ti­mana dopo set­ti­mana allarga il rag­gio della sua ricerca. Cerca qua­lun­que cosa. Va a sca­ri­care frutta ai mer­cati gene­rali, quando capita. E con­ti­nua a salir l’altrui scale. A bus­sare a porte che riman­gono osti­na­ta­mente chiuse. I geni­tori con­di­vi­dono le amba­sce del figlio, e le dif­fi­coltà della figlia. Sono impo­tenti. E pro­ba­bil­mente il padre pensa che suo figlio che era la prova del miglio­ra­mento della con­di­zione fami­liare, ora testi­mo­nia un fal­li­mento, una scon­fitta. Ma arriva infine la buona noti­zia: forse il figlio sarà “preso”, ossia assunto. In una ditta metal­mec­ca­nica. Come ope­raio sem­plice, mano­vale. Ma avrà un sala­rio. Basso, poco più di 900 euro trat­tan­dosi di un primo impiego, ma pur sem­pre un salario.

Infine, non sarà super­fluo aggiun­gere che que­sto posto, se sarà dav­vero con­fer­mato, è stato otte­nuto solo gra­zie al fatto che all’Ufficio del per­so­nale della ditta c’è qual­cuno che è amico di un amico che è amico di…Insomma, anche per essere assunti, come ope­raio gene­rico, in una grande azienda del Nord, occorre una raccomandazione.
Ma que­sto è solo un det­ta­glio: siamo pur sem­pre in Ita­lia. Quello che conta è la forza sim­bo­lica di que­sta pic­cola sto­ria, una come tante. Sen­tiamo par­lare di “cam­bio di passo”, di mobi­lità, di riforme, di moder­nità, di ascen­sore sociale, della gene­ra­zione di Tele­maco che sosti­tui­sce quella di Ulisse (che scioc­chezza, Renzi!): ebbene, l’ascensore quando fun­ziona, va in discesa.

«». Il Gazzettino

A leggere le cronache di questi giorni (e relativi commenti) sembra esistere soltanto la responsabilità penale. Un fatto diventa censurabile unicamente se viene aperta un'inchiesta da parte della Procura. E, parallelamente, se l'inchiesta penale viene archiviata, qualsiasi comportamento acquisisce una "patente" di correttezza. Ma non è cosi. Non può essere cosi. Non tutto (fortunatamente) ha rilievo penale. Ci sono, però, comportamenti che ugualmente sono (e dovrebbero) essere censurabili (e censurati), almeno sul piano politico e, perché no, etico.

Due esempi, recentissimi, arrivano dall'inchiesta sul cosiddetto "sistema Mose" e riguardano due esponenti politici di primo piano coinvolti, anche se con profili e accuse ben diverse. r un momento dimentichiamo le accuse penali - tanto più che entrambi vanno considerati innocenti fino a sentenza definitiva - e proviamo a concentrarci sul piano strettamente politico. Che valutazione dare di un presidente della Regione che aveva acquisito a titolo personale quote della società che si proponeva come partner principale della stessa amministrazione regionale per realizzare opere in project financing? Giancarlo Galan forse riuscirà a dimostrare di non essere un corrotto, ma come pud giustificare ai cittadini quell'interesse privato sicuramente incompatibile con la carica pubblica? Nella sua appassionata difesa ha spiegato di non aver mai fatto affari tramite quella società: giustificazione che la dice lunga sul modo di intendere (e di mescolare) pubblico e privato. Dovrebbe bastare questa circostanza -ammessa dallo stesso Galan nella memoria presentata al Parlamento -per formulare una pesante riserva sul suo comportamento politico.
E cosa dire del sindaco dimissionario di Venezia? Di Giorgio Orsoni, stimato e capace professionista, sorprendono le motivazioni di quel finanziamento elettorale da lui sollecitato (pur credendolo regolare) al presidente del Consorzio Venezia Nuova, Giovanni Mazzacurati. Lo stesso sindaco ha ammesso davanti ai pubblici ministeri di aver percepito l'inopportunità di ottenere contributi da un soggetto coinvolto in opere cosi importanti in città: cid nonostante, cedendo alle pressioni del Pd, si decise di rivolgersi all'amico Mazzacurati. Se non lo avesse fatto, ha spiegato, avrebbe dovuto provvedere di tasca propria alle spese elettorali. Sul fronte penale il sindaco riuscirà forse a dimostrare la sua estraneità alle accuse. Nel frattempo, sul piano politico non ne esce bene. Tanto più se si considera che il Cvn, in quanto soggetto che gestisce denaro pubblico, per legge non pub finanziare esponenti politici.
Del livello politico, però, pare non interessarsi nessuno. Tutti preferiscono aspettare l'inchiesta penale di turno per esprimere valutazioni sul (presunto) amministratore infedele, e al tempo stesso per contestare ai magistrati indebite ingerenze. E uno dei motivi per cui la politica sta perdendo credibilità e autorevolezza: perché dimostra di non essere in grado di rivendicare (e mettere in atto) quei necessari valori di trasparenza, pulizia, correttezza nella gestione della cosa pubblica.

Perché succede? Elementare Watson spendono nelle Grandi opere inutili e dannose, negli armamenti, nei favori alle banche autrici della crisi, - e perciò mancano le risorse per le cose necessarie.

Il Fatto Quotidiano, 10 luglio 2014

Dopo cinque giorni di agonia, ieri Salvatore Giordano è morto: a quattordici anni. Sabato era stato colpito da alcuni calcinacci staccatisi dal soffitto della Galleria Umberto I, nel cuore di Napoli. Perché è successo? Di fronte a eventi terribili come questo, ci si è sempre interrogati. Gesù, nel Vangelo di Luca, sfida le superstizioni dei benpensanti del suo tempo: “Quei diciotto sopra i quali rovinò la torre di Siloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico”. Oggi, invece, ci chiediamo: si poteva evitare? È davvero una fatalità? O è colpa di qualcuno? Non è possibile non vedere il nesso tra la tragica morte di Salvatore Giordano e l’abbandono di ogni manutenzione delle nostre città. Il centro storico di Napoli si va lentamente disfacendo, nell’indifferenza generale: ma il problema non è solo di Napoli. Il 4 gennaio 2012, alle cinque di pomeriggio, a Firenze si rischia una strage: dalla Colonna dell’Abbondanza, nell’affollatissima Piazza della Repubblica, si stacca un frammento lapideo di ottanta chili, che precipita al suolo, miracolosamente senza ammazzare nessuno. Sempre a Firenze, pochi giorni fa quel miracolo non si è ripetuto: un ramo staccatosi da un albero nel Parco delle Cascine ha ucciso una donna e la sua nipotina. “Alla manutenzione, l’Italia preferisce l’inaugurazione”. Lo scriveva Leo Longanesi nel 1955, e oggi è ancora più sistematicamente vero.

La morbosa politica “culturale” dei Grandi Eventi rende praticamente inimmaginabile che un ministro o un sindacotrovino conveniente annunciare una campagna di manutenzione ordinaria a tappeto: troppo poco, troppo grigio, troppo umilmente anonimo. Ma il problema è ancora più profondo, e riguarda la mentalità indotta dal consumismo di massa nella sua fase estrema e (chissà) finale: è l’idea stessa della conservazione, della cura quotidiana degli oggetti ad essere uscita dal nostro orizzonte mentale. Se questo è vero per il nostro stesso corpo, lo è ancora di più per il corpo delle nostre città.

Non è difficile oggi capire l’ardimento visionario con cui nacque, per esempio, Venezia: difficile è capire il lavoro quotidiano della Repubblica Serenissima, che incessantemente ha curato la Laguna ogni giorno di ogni mese di ogni anno di ogni secolo. Eppure, senza quel lavoro quotidiano non avremmo Venezia. Oggi, quando va bene, la manutenzione si identifica con l’intervento eccezionale (vedi il Mose): meglio se spettacolare, e meglio ancora se costosissimo.

Nulla potrà ridare Salvatore ai suoi cari, ma noi questa lezione dobbiamo impararla: prima che non solo Napoli, ma tutte le nostre città storiche ci cadano, letteralmente, sulla testa.

«». Il granello di sabbia

Per andare oltre le semplificazioni tipiche delle rappresentazioni mediatiche della violenza sessista che tendono a eluderne contorni, portata e ragioni, conviene smontare alcuni pregiudizi, stereotipi, luoghi comuni. Anzitutto, il sistema gerarchico di relazione fra i generi, quindi il sessismo e la violenza sulle donne, non sono l’esito fatale di qualche fatto naturale (per esempio, l’aggressività maschile, la passività femminile), bensì di un processo storico e di una costruzione sociale e culturale. Vi sono società che mai hanno conosciuto il patriarcato o altre forme di dominio-appropriazione delle donne. Il che dimostra che la natura non è determinante. Vi sono state e vi sono società considerate “arretrate” che ignorano non solo la gerarchia ma anche una rigida distinzione in base al sesso detto naturale(1).

In secondo luogo, il sistema di dominio, discriminazione e violenza sessisti non rappresenta un rigurgito dell’arcaico o un’anomalia della modernità. Anche se eredita credenze, pregiudizi, strutture, simbologie e mitologie del passato, appartiene al nostro tempo e al nostro ordine sociale ed economico. Del tutto infondato, quindi, è il dogma secondo il quale la modernità occidentale sarebbe caratterizzata da un progresso assoluto e indiscutibile nel campo delle relazioni di genere, mentre a essere immerse nelle tenebre del patriarcato sarebbero sempre le altre. Per dirne una, nell’ultimo rapporto (2013) sul Gender Gap del World Economic Forum (2), le Filippine figurano al 5° posto su scala mondiale per parità fra i generi (dopo Islanda, Finlandia, Norvegia e Svezia), mentre l’Italia è solo al 71°, dopo la Cina e la Romania (3).

Purtroppo, come dimostra il caso della Svezia, non sempre c’è un rapporto inversamente proporzionale tra la conquista della parità di genere e la violenza sessista. Questo paese, da sempre in prima linea nel garantire la parità, e perciò occupa il 4° posto su 136 paesi, registra un numero crescente di stupri: negli ultimi vent’anni si sono quadruplicati, così da riguardare una donna svedese su quattro e porre il paese al secondo posto nella classifica mondiale dopo il Lesotho. A spiegare questa progressione drammatica non credo sia sufficiente la spiegazione per cui in paesi, come la Svezia, ove vige una cultura più egualitaria tra i sessi, il numero delle denunce si avvicini a quello dei casi reali. Un sondaggio recente realizzato dall’Agenzia europea per i diritti fondamentali, non basato sul numero di denunce bensì sulle risposte di un campione di 42mila donne, conferma che è nei paesi scandinavi che si verifica l’incremento più allarmante di violenze, abusi e molestie ai danni delle donne.
I risultati del sondaggio collocano al vertice della triste classifica la Danimarca (con il 52% di donne che dichiarano di avere subìto violenza fisica o sessuale), seguita dalla Finlandia (47%) e dalla Svezia (46%). Al 18° posto (con il 27%) vi è l’Italia, che, come ho detto, si colloca agli ultimi livelli per parità di genere. Il che non deve farci dimenticare i dati italiani sul femminicidio. Dal 2006 al 2013, nel nostro paese sono state uccise 1.042 donne: in media 116 ogni 12 mesi, con un picco di 134 nel 2013. Dunque, non bastano la parità formale o il fatto che un buon numero di donne ricoprano ruoli di rilievo a determinare una cultura dell’uguaglianza e del rispetto.
Allorché, come nei paesi scandinavi, il sistema economico e sociale, quindi identitario, subisce una crisi o un crollo, riemerge la tentazione del dominio sessista, così come accade in certi contesti di guerra (l’ex Jugoslavia insegna…). Il che smentisce un altro luogo comune corrente, quello secondo cui per superare la violenza di genere sarebbe sufficiente un cambiamento culturale, tale da archiviare finalmente la cultura patriarcale. In realtà, la gerarchia e la disuguaglianza fra i generi, nonché la violenza sessista, hanno spiegazioni e dimensioni molteplici: economica, sociale, giuridica, simbolica linguistica, semantica… Fra le tante ragioni che possono spiegare perché mai in società “avanzate” avanzi pure il numero di stupri e altre violenze sessiste, ne cito giusto una: non tutti gli uomini sono in grado/disposti ad accettare i cambiamenti che investono i ruoli e la condizione femminili, vissuti come minaccia alla propria virilità e/o al proprio “diritto” al possesso se non al dominio. Tale inadeguatezza della società (maschile) si riflette anche nella risposta delle istituzioni rispetto alla violenza di genere, risposta spesso tardiva, elusiva o inadeguata: in molti dei casi italiani che si concludono col femminicidio, le vittime avevano denunciato più volte, invano, i loro persecutori.

Insomma, conviene diffidare degli schemi evoluzionisti e dei facili ottimismi progressisti: la discriminazione e/o la violenza in base al genere – come quelle in base alla “razza”, alla classe, all’orientamento sessuale - non sono necessariamente residuo del passato, segno di arretratezza o di modernità incompiuta, destinato a dissolversi presto, bensì un tratto che appartiene intrinsecamente anche alla tarda modernità (o alla modernità decadente, si potrebbe dire). In più, oggi, particolarmente in Italia, il neoliberismo, le privatizzazioni, la crisi economica, le politiche di austerità e le pesanti ricadute sull’occupazione e sul Welfare State hanno significato per le donne arretramento in molti campi.

Su questo versante la situazione italiana è pessima. I dati sul Gender Gap che ho citato prima sono eloquenti: in Italia solo il 51% delle donne lavora, contro il 74% degli uomini. Quanto al salario, un’italiana guadagna in media 0,47 centesimi per ogni euro guadagnato da un uomo: per eguaglianza salariale l’Italia è al 124° posto su 136 paesi. Tutto ciò per non dire della crescente reificazione/mercificazione dei corpi femminili, cui il sistema di potere berlusconiano ha dato nel corso del tempo un contributo rilevante.E’ forse pleonastico aggiungere che le stesse donne talvolta sono complici, consapevoli o non, del sistema sessista. Per non dire che anche donne vittime di discriminazioni di genere possono dominare o sfruttare altri/e in base al privilegio della nazionalità, all’appartenenza alla maggioranza e/o a una classe superiore.

Perciò sono molto scettica rispetto a quei femminismi deboli che si limitano a promuovere il progresso individuale e la meritocrazia in ambito femminile. Penso, invece, che la lotta per trasformare l’ordine fondato sulla gerarchia di genere debba essere collettiva e coniugata con quella per la giustizia economica e l’uguaglianza sociale, civile, politica. Infine: se è vero, come ha scritto più volte Etienne Balibar, che la comunità razzista e la comunità sessista si identificano sostanzialmente, allora la battaglia contro il sessismo è inscindibile da quella contro il razzismo. Ma per articolare il tema della liberazione delle donne con quello dei diritti delle/dei migranti, occorre un pensiero critico complesso, affrancato da semplificazioni, cliché, luoghi comuni, disposto a mettere in discussione alla radice anche la tradizione cui si appartiene(4).

Note
1 In proposito, riporto un esempio, tratto dal mio La Bella, la Bestia e l’Umano (Ediesse, Roma 2010). Per gli Inuit (uno dei due gruppi principali che costituiscono gli “Eschimesi”), ogni essere umano è la reincarnazione di un certo antenato, di cui alla nascita l’individuo assume il nome-anima: quindi anche l’identità sessuata e la personalità sociale, qualunque sia il proprio sesso “naturale” e quello dell’antenato/a. Solo alla pubertà egli/ella torna a “riprendere” il sesso con cui è nato/a.
2 Il Gender Gap è misurato in base a quattro criteri principali: salute, formazione, lavoro e partecipazione al sistema politico. In particolare, l’Italia è al 65° posto per il livello di scolarizzazione, al 72° per il diritto alla salute, al 44° per l’accesso al potere politico e al 97° per la partecipazione alla vita economica.
3 Ricordo che la maggior parte dei paesi europei si trova nelle prime trenta posizioni, su 136 paesi.
4 Qui posso solo enunciare il tema. Per un’analisi approfondita, si può vedere il mio, già citato, La Bella, la Bestia e l’Umano.

Annamaria Rivera è docente di antropologia sociale all’Università di Base, editorialista, scrittrice e saggista, una vita da attivista dei movimenti

«project financing degna del più radicale dei No-Tav»Il Fatto Quotidiano, 9 luglio 2014

Un fantasma si aggira per l’inchiesta sul Mose: è l’affare della nuova autostrada Orte-Mestre, nota anche come Nuova Romea. Costerà quasi dieci miliardi di euro, e dagli interrogatori si capisce che è il vero affare che calamita le attenzioni. Claudia Minutillo, ex segretaria del governatore veneto Giancarlo Galan, passata come manager al gruppo Mantovani, racconta che il suo nuovo capo, Piergiorgio Baita, non pensava ad altro. Quando li arrestano, nella primavera 2013, non c’è ancora il sospirato via libera del governo, che arriverà l’8 novembre 2013, in una riunione del Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) presieduta dal premier Enrico Letta. Il 24 aprile 2012 Minutillo chiama Baita per parlare della riunione Cipe di tre giorni dopo. Sintesi giudiziaria della chiamata: “Baita voleva sapere se ci fosse la Romea e comunque chiederà ad Albanese... omissis...”.

Bisogna tirare il filo per vedere dove porta. Gioacchino Albanese, detto Nino, era già famoso negli anni 70 come braccio destro di Eugenio Cefis, poi è stato manager dell’Eni, coinvolto nello scandalo Eni-Petromin (1980), e nel 1981 è risultato iscritto alla loggia P2 con la tessera numero 913. Oggi ha 82 anni e ricopre ancora un ruolo decisivo: è amministratore delegato della Ilia Spa di Genova, promotrice della Orte-Mestre. Si tratta di un , il modo più moderno di scavare buche nei conti dello Stato: in apparenza il privato costruisce un’opera pubblica a sue spese e recupera l'investimento incassando i pedaggi, in questo caso per 49 anni.

Per spiegare ai pm i rapporti corruttivi tra Baita e Galan, Minutillo tiene una lezione sul project financing degna del più radicale dei No-Tav. Conferma infatti che è la miglior maniera di evitare il fastidio di una gara d’appalto, ma che ovviamente prima di avanzare una proposta bisogna essere certi che il politico la inserisca nelle opere di “interesse pubblico”: “La presentazione di un ha un costo significativo per non dire rilevante, motivo per cui se non si ha la sicurezza di avere dei contraddittori disponibili si rischia solo di gettare i costi dello stesso”. I politici spiega Minutillo, giustificheranno l’entusiasmo un po’ sospetto “dicendo che a loro l’unico interesse vero era comunque fare l’opera, questa è la cosa che dicono sempre”. Il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli (indagato per corruzione nello scandalo Mose) il 23 febbraio 2010 ha benedetto la Orte-Mestre come “fondamentale per la piccola e media imprenditoria”, mentre Maurizio Lupi, ministro delle Infrastrutture, a novembre 2013 saluta il via libera del Cipe a “un asse viario fondamentale per l’Italia, completamente coperto da capitali privati”. In verità, dei 9,8 miliardi lo Stato ce ne metterà 1,9 sotto forma di sconti fiscali alle imprese costruttrici, grazie ad apposita legge del governo Monti.

Il ministro dell’Economia dell’epoca, Fabrizio Saccomanni, era contrario. Baita soffriva. Minutillo spiega: “L’Economia, il Tesoro, si opponeva a questa cosa qua, quindi veniva... è stata rinviata più volte. Baita teneva i contatti con il dottor Albanese del gruppo di Bonsignore, e poi avevano dentro al ministero le persone”. Il capo di Albanese è Vito Bonsignore, ex andreottiano diventato imprenditore con la liquidazione da 2-300 milioni che gli dette Marcellino Gavio per farlo fuori dall’Autostrada Milano-Torino e legatissimo all’ex senatore Luigi Grillo e a Sergio Cattozzo i due uomini dell’Ncd arrestati a Milano nell’inchiesta Expo. Europarlamentare fino allo scorso 25 maggio, Bonsignore è stato insignito, durante Mani pulite, di una condanna definitiva a due anni per corruzione. Oggi è tra i fondatori del partito di Angelino Alfano e soprattutto di Lupi. Bonsignore ha buone amicizie. Il presidente della Ilia a cui il governo sta affidando l’autostrada da 10 miliardi è Giovanni Berneschi, momentaneamente agli arresti per lo scandalo della Carige, banca che supporta Bonsignore nella Orte-Mestre. Ma nessuno batte ciglio. Anzi. La delibera Cipe dell’8 novembre scorso è ancora segreta. Non è dato conoscere il piano economico-finanziario su cui si basa la previsione che i proventi del traffico ripagheranno l’opera. Sicuramente c’è una clausola secondo la quale ricavi inferiori al previsto comporteranno l’impegno dello Stato a pagare la differenza. Insomma, il rischio d’impresa è tutto a carico dei contribuenti, ed è per questo che delibere, piani e contratti con cui si impegnano miliardi pubblici non vengono pubblicati.

D’altra parte l’opera piace a tutti. All’inizio c’era un’Associazione Nuova Romea, presieduta da Pier Luigi Bersani, che si batteva per una nuova arteria tra Ravenna e Mestre, visto che la Romea era obsoleta e pericolosissima. C’era anche una società, che girava intorno alle coop rosse (Cmc di Ravenna e Ccc di Bologna su tutte) e alla Mantovani di Baita, pronta a proporre il suo project financing. Finché nel 2003 Bonsignore spiazza tutti con un progetto unico, da Orte a Mestre, passando per Cesena e Ravenna, che il ministro dell’epoca, Pietro Lunardi, subito accoglie. Il governatore dell’Emilia-Romagna,

Vasco Errani, che è di Ravenna, attacca: “La scelta delle opere da fare non è compito dei privati”. Ma poco tempo dopo lo stesso Errani si batterà come un leone per chiedere al governo lo sblocco del della Ilia. Come mai?

Nella rissa Bonsignore e Lunardi sfoderano la loro abilità. Racconta Minutillo: “Furono bravissimi, misero subito d’accordo cinque presidenti di Regione”. L’intesa arriva nel 2005 e prevede lavoro per tutti: per la Mantovani nelle tratte venete, per le coop rosse in Emilia e via spartendo. Il 27 luglio 2005 l’Anas dà il via libera al progetto di Bonsignore. Due settimane prima il regista della Orte-Mestre aveva discusso con il suo amico Massimo D’Alema le modalità di partecipazione alla scalata alla Bnl della Unipol di Gianni Consorte. L’ex premier riferisce al manager presunto rosso: “Voleva dirmi... voleva sapere se io gli chiedevo di fare quello che tu gli hai chiesto di fare, oppure no [ridacchia]... Che voleva altre cose, diciamo... a latere su un tavolo politico. [...] Ti volevo informare che io ho... ho regolato da parte mia”. I magistrati di Venezia stanno portando alla luce i contesti trasversali e opachi con cui la politica spartisce denaro pubblico tra le imprese amiche.

«Riforme. Del bicameralismo si è discusso abbastanza. Con una mossa mai vista, Napolitano interviene sui lavori del senato. In aiuto al premier e sostituendosi al presidente del senato che era stato chiamato in causa». Tirannide o consolato? comunque dai principi della democrazia liberal-borghese (fra poco è il 14 luglio) e dalla Costituzione italiana, siamo fuori.

Il manifesto, 8 luglio 2014

Otto sedute per votare otto emen­da­menti, tutti dei rela­tori e solo sugli aspetti secon­dari della riforma costi­tu­zio­nale. È il lavoro svolto dalla prima com­mis­sione del senato nelle ultime due set­ti­mane. Restano da defi­nire la fun­zione e la com­po­si­zione delle camere e manca ancora l’intero capi­tolo del regio­na­li­smo, il famoso Titolo V. Biso­gna votare altri dodici emen­da­menti dei rela­tori su tutti gli aspetti cen­trali della riforma (come si scel­gono i sena­tori? di cosa si devono occu­pare?) e ci sono un numero enorme di pro­po­ste alter­na­tive della mag­gio­ranza «allar­gata» e della mino­ranza. Ebbene, per rispet­tare la tabella di mar­cia, tutto que­sto lavoro biso­gnerà farlo in due o tre giorni. E se fino a ieri a det­tare i tempi del senato era il capo del governo, adesso è diret­ta­mente il capo dello stato.
Una mossa mai vista da parte del pre­si­dente Napo­li­tano, che ieri ha deciso di inter­ve­nire in prima per­sona nel dibat­tito, acce­sis­simo in que­ste ore, tra soste­ni­tori e cri­tici della riforma costi­tu­zio­nale gover­na­tiva. Basta, ha detto, si è discusso abbastanza.

Che si debba cor­rere lo sostiene Renzi, eppure il pre­si­dente della Repub­blica assi­cura di par­lare «senza pro­nun­ciarsi sui ter­mini delle scelte in discus­sione». Ma i ter­mini, adesso, sono pro­prio que­sti: biso­gna neces­sa­ria­mente chiu­dere al senato entro la pausa estiva, o c’è il tempo di cor­reg­gere l’esecutivo? Non c’è tempo, dice il Qui­ri­nale. Secondo il Colle biso­gna evi­tare «ulte­riori spo­sta­menti in avanti dei tempi di un con­fronto che non può sci­vo­lare, come troppe volte è già acca­duto, nell’inconcludenza».

A Napo­li­tano si erano rivolti in molti in que­sti giorni. Ma per la ragione oppo­sta: invi­ta­vano il pre­si­dente, garante di tutti, a tute­lare la sepa­ra­zione di ruoli tra il par­la­mento e l’esecutivo, spe­cie in mate­ria di leggi di revi­sione costi­tu­zio­nale. La legge in discus­sione, in par­ti­co­lare, è stata scritta diret­ta­mente dal pre­si­dente del Con­si­glio. Gli emen­da­menti accolti sono stati tutti discussi a palazzo Chigi. E i tempi della discus­sione sono quelli che vuole il capo del governo, che da marzo sta andando avanti di ulti­ma­tum in ulti­ma­tum. Tant’è che un gruppo di sena­tori, i cosid­detti «dis­si­denti» di tutti i par­titi, era pronto a chie­dere al pre­si­dente del senato di espri­mersi, e di asse­gnare alla com­mis­sione e all’aula un con­gruo tempo di appro­fon­di­mento. Chie­de­vano alla seconda carica dello stato, Grasso, di fre­nare la corsa di Renzi. È stato pro­prio in que­sto momento che ha deciso di inter­ve­nire la prima carica, Napo­li­tano. Per accelerare.

La nota del Colle sposa in tutto l’impostazione ren­ziana, e abbonda di rife­ri­menti per dimo­strare che ormai del bica­me­ra­li­smo pari­ta­rio e «delle sue rica­dute nega­tive sul pro­cesso di for­ma­zione delle leggi» si è discusso abba­stanza. Il pre­si­dente dice che c’è stata «un’ampia aper­tura di dibat­tito» e che si è «pro­lun­gata note­vol­mente rispetto agli annunci ini­ziali», cioè la pro­messa di Renzi di chiu­dere al senato in un mese, entro lo scorso 25 mag­gio. Non solo: il capo dello stato si spinge a valu­tare la quan­tità di audi­zioni che sono state svolte in com­mis­sione affari costi­tu­zio­nali al senato — «lar­ghe audi­zioni» — e non tra­scura un giu­di­zio sul numero di cor­re­zioni sug­ge­rite dai rela­tori al testo del governo (con l’ok del governo) — «ricca messe di emendamenti».

La cro­naca par­la­men­tare del Colle spa­lanca al dise­gno di legge Renzi-Boschi le porte dell’aula del senato. Che ha biso­gno di acco­gliere la «grande riforma» ren­ziana tra la fine di que­sta set­ti­mana e l’inizio della pros­sima, al mas­simo. È que­sta la con­di­zione indi­spen­sa­bile per pro­vare a man­dare gli ita­liani, e i par­la­men­tari, in vacanza con un primo pas­sag­gio com­piuto sulle riforme costi­tu­zio­nali. È la prima emer­genza nazio­nale? Non pare, ma a Renzi importa così e il par­la­mento, sezione distac­cata di palazzo Chigi, deve ade­guarsi. Ieri sera c’è stata l’ennesima riu­nione dei sena­tori del Pd, anche que­sta dedi­cata non a discu­tere l’impostazione gover­na­tiva ma a richia­mare all’ordine i dis­si­denti. Tant’è che Renzi non si è nean­che pre­sen­tato: non c’era nulla da spie­gare. Nes­suna rispo­sta nean­che sulle que­stioni rima­ste senza solu­zione, quelle che anche i ren­ziani ammet­tono che andranno registrate.

osì è ancora pre­vi­sto che il pre­si­dente della Repub­blica sia eleg­gi­bile da un solo par­tito, che i depu­tati non dimi­nui­scano di un’unità (vani­fi­cando il decan­tato «rispar­mio» sul senato), che un sin­daco o un con­si­gliere regio­nale nei guai con la giu­sti­zia pos­sano tro­vare riparo nell’immunità sena­to­riale… Si cor­reg­gerà? E come? Solo a chie­derlo si fini­sce tra i fre­na­tor. La fretta è per­sino mag­giore di quella che guidò alla camera l’approvazione della legge elet­to­rale, quella che adesso tutti vogliono cam­biare. O in altre legi­sla­ture ispirò le riforme costi­tu­zio­nali dell’articolo 81 e di tutto il Titolo V, due fal­li­menti riconosciuti.

Da ieri sera il «patto del Naza­reno» tra Renzi e Ber­lu­sconi è più forte. La guar­dia di Napo­li­tano inde­bo­li­sce i sena­tori cri­tici e lascia poco spa­zio ai ten­ta­tivi di cor­re­zione della riforma. Sono oltre qua­ranta gli arti­coli della Costi­tu­zione da modi­fi­care e l’importante, dice Napo­li­tano, è farlo. Se c’è un argo­mento che il pre­si­dente della Repub­blica dimen­tica, ecco a ricor­darlo il capo­gruppo Pd Zanda: è urgente tra­sfor­mare sin­daci e con­si­glieri regio­nali in sena­tori per­ché «ce lo chiede l’Europa».

Un'analisi impeccabile dell'ideologia e della prassi che hanno provocato il successo dell'uomo che ha costruito e rafforzato il suo potere divorando i suoi antagonisti e assorbendone così i nefasti caratteri.

Sbilanciamoci info, newsletter, 4 luglio 2014

L'Italia, paese di populisti e di populismi. Ne ha conosciuti ben tre (e mezzo), nel ultimi vent'anni, un record mondiale. Populismo: che è concetto classico della politica e della sociologia ma che tuttavia è un processo culturale prima che politico. E oggi economico prima che culturale e politico, nel senso che è appunto l'economia capitalista ad essere oggi un processo culturale prima che economico, producendo - prima delle merci e del denaro - le mappe concettuali, cognitive, relazionali, affettive necessarie per la navigazione nel mercato; trasformando quello che era il cittadino dell'illuminismo in lavoratore, merce, capitale umano - ovvero in mero homo oeconomicus. Tre populismi interi: Berlusconi, Grillo e Renzi. E il mezzo populismo della Lega. Tre padri politici invocati dal popolo perché lo sorreggano, lo portino da qualche parte, gli dicano cosa deve fare, perché questo stesso popolo si ritiene incapace (o non più desideroso) di assumersi la responsabilità di essere sovrano di se stesso. Effetto culturale - questo - dell'antipolitica capitalista, che per essere sovrano assoluto e culturalmente monopolista deve rimuovere ogni sovrano concorrente.

Berlusconi: il populista che prometteva la modernizzazione neoliberale del paese. In realtà, un populismo del cambiare tutto per non cambiare nulla (soprattutto i suoi interessi personali e aziendali). Un populismo aziendalista, con la figura del padre/leader sostituita da quella dell'imprenditore che si è fatto da solo (o quasi), perfetta nell'esprimere il modello culturale che tutti dovevano apprendere: l'edonismo, il godimento immediato, la deresponsabilizzazione egoistica ed egotistica. Per legittimare - questa l'azione appunto culturale, pedagogica prima che economica - le retoriche neoliberiste dell'essere imprenditori di se stessi e della competizione come unica forma di vita.

Bossi e la Lega: il mezzo populismo (non solo perché limitato a una parte del territorio), apparentemente il più classico dei populismi con il richiamo alla tradizione, ai simboli di terra e di sangue. All'essere padroni a casa nostra: da intendere però non come sovrani sulla nostra terra ma come padroni nel senso antico del capitalismo. Populismo da piccola impresa, da capitalismo molecolare come versione localistica dell'ordoliberalismo tedesco e della sua pedagogia per imporre il modello impresa all'intera società.

Grillo: il populista contestatore, il teorico del net-populismo come forma perfetta della democrazia. Grillo come l'uomo del cambiamento ma incapace di cambiare (dice solo no) e forse populista anche di se stesso.

E Matteo Renzi. Un populismo di tipo nuovo ma evoluzione dei precedenti. Perché anch'egli cerca il rapporto diretto con il popolo e lo invoca come propria totalizzante legittimazione. Perché aspira ad essere insieme Partito di Renzi e Partito della Nazione. Un partito-non-partito tuttavia, ormai anch'esso trasversale - e quasi un non-luogo nel senso di Marc Augé: come un aeroporto, un supermercato, un luogo di consumo di politica.

Un populismo che invoca il popolo contro le caste e il sindacato salvando invece le oligarchie che lo sostengono come un sol uomo; che ha grandi mass-media schierati dalla sua parte e che gli consentono ciò che mai avrebbero consentito a Berlusconi; un populismo fideistico e teologico-politico (noi contro loro, noi il tutto che non accetta il due e il tre e il molteplice e gli eretici; noi il nuovo, gli altri il vecchio).

Un populismo che vuole rottamare appunto il vecchio, ma che non rottama, non corregge (una volta si chiamava autocritica, ma il nuovo che avanza travolge anche la memoria) i molti errori del passato: il sì all'austerità, all'articolo 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio.

Un populismo finalizzato alla modernizzazione dell'Italia - e ogni populismo è stato, storicamente anche una via per la modernizzazione, facendo accettare al popolo, in nome del popolo quelle trasformazioni che altrimenti non sarebbero state possibili per trasformare un paese e quel popolo. Per questo, quello di Renzi è un populismo tecnocratico: che produce quella modernizzazione neoliberista che Berlusconi non è riuscito a produrre e Grillo fatica a poter produrre.

Un populismo nel nome della tecnocrazia, che la tecnocrazia ama; un populismo che trasforma (forse questa volta per davvero) il potere politico nel senso richiesto dalla tecnocrazia: meno democrazia (la riforma del Senato, le proposte di nuova legge elettorale); meno diritti sociali e quindi politici (diventati un costo); più decisionismo; meno partecipazione e più adattamento alla realtà immodificabile del mercato; meno cittadinanza attiva e più accettazione della ineluttabilità del reale. Perché le sue pratiche politiche - al di là delle apparenze e delle discussioni con Angela Merkel e di alcuni interventi comunque virtuosi - sono tutte dentro alla cultura della modernizzazione richiesta dall'ideologia neoliberista (flessibilità del lavoro, privatizzazioni, un nuovo modo di essere imprenditori di se stessi, riduzione ulteriore dello stato sociale, crescita invece di sviluppo, competizione invece di solidarietà); e la flessibilità sul Fiscal compact (invece della sua abolizione, per evidente irrazionalità e surrealtà economica), pure invocata, è un pannicello caldo rispetto al nuovo new deal che sarebbe invece necessario (e urgente). Un populismo futurista, inoltre: nel nome della velocità, delle macchine, delle parole in libertà, dell'azione per l'azione.

Il populismo di Renzi è dunque più di un classico neopopulismo, che ha dominato la scena per trent'anni coniugando populismo e neoliberismo, mercato e popolo, modernizzazione e impoverimento e disuguaglianze. E' un neopopulismo tecnocratico - per altro discendenza diretta di quello neoliberista - che scardina ancor più di quello neoliberista le forme e le pratiche della democrazia; riduce a niente la società e la società civile; attacca il sindacato o lo rende inutile (in coerenza con le tecnocrazie globali); che spettacolarizza se stesso proponendosi come outsider, come rottura, come alternativa, in realtà portandoci nella società dello spettacolo della tecnocrazia.

Una tecnocrazia che non si espone più direttamente con i noiosi e antipatici tecnici, ma con la fantasia e l'estro di un populismo mediatico e spettacolare, moderno e postmoderno insieme, dove twittare è più importante che ascoltare.

«Sono arrivate nel cuore del potere. Grazie a curriculum eccellenti e alla legge che riserva loro delle quote. Ma per le donne è iniziato un percorso di uguaglianza o stiamo andando verso una polarizzazione tra chi è ai vertici e chi, nella fascia media, vede vacillare diritti acquisiti»?

La Repubblica, 1 luglio 2014 (m.p.r.)

Roma. Nel cuore del potere. O almeno molto vicine. Mai così tante. Curriculum eccellenti, testarda bravura, ma anche l’onda d’urto delle quote rosa. Per l’Italia è la prima volta. Una parlamentare su tre è donna. Nei Cda la presenza femminile sfiora il 25%. La squadra di governo è formata da otto ministri e otto ministre, simmetria perfetta ma soprattutto simbolica. Maria Angela Zappia, una carriera in ascesa nella diplomazia italiana, è stata nominata ambasciatrice per il nostro paese alla Nato: «Cosa provo? Il grande orgoglio di un incarico così importante, ma anche la consapevolezza di non aver lasciato indietro nessuno...». Né i figli, Claire e Christian, cresciuti con lei in giro per il mondo, né il marito, conosciuto in missione a Dakar. Anche il linguaggio cambia: nessuna cesura, vita e carriera sono una cosa sola.

Era soltanto la scorsa estate, quando a Cernobbio l’ex premier Enrico Letta sobbalzava davanti ad una platea di grisaglie grigie. «In questa sala siamo tutti uomini, è insopportabile...». Dov’è l’altra metà? La risposta è arrivata pochi mesi dopo. Mentre la legge Mosca-Golfo imponeva tra mille malumori sempre più donne ai vertici delle aziende, (dal 7% di presenze nei Cda nel 2011, al 25% di oggi tra pubblico e privato) il nuovo premier Renzi ha preso abilmente il potere e il pallottoliere insieme, lanciando appunto la formula del governo fiftyfifty, ben sapendola gradita all’Europa. Con ministeri anche “pesanti”: agli Esteri Federica Mogherini, alla Difesa Roberta Pinotti. E proprio Pinotti tra due giorni in un convegno organizzato da “Valore D”, racconterà la sua storia umana e politica, ma anche il lavoro prezioso e spesso nascosto delle donne dell’esercito, dalle comandanti alle soldatesse.

Adesso è dunque il tempo di riflettere, come spiega l’economista Daniela De Boca. Per capire se davvero qualcosa muterà nel sistema del potere, aprendo un vero cammino di parità, o se il gioco resterà congelato ai vertici della piramide. «Il cambiamento c’è, ed è il frutto di una pressione fortissima da parte del mondo femminile, quote comprese. Che là dove sono state applicate bene, in Norvegia ad esempio, hanno scardinato la misoginia dei vertici. Ma in Italia quello che vedo invece è il rischio di una polarizzazione: nella fascia alta le donne conquistano ruoli forti, un tempo maschili. Nella fascia media, nella vita di tutti i giorni le donne invece stanno peggio. Diritti che sembravano acquisiti, i congedi per maternità, la parità salariale sono oggi fortemente intaccati».
Dunque cautela. Però le nomine ci sono state, non poche e tutte insieme. Ad aprile scorso un gruppo di qualificatissime manager, scienziate e imprenditrici conquistano i Cda delle più grandi aziende di Stato: Emma Marcegaglia all’Eni, Luisa Todini alle Poste, Patrizia Grieco all’Eni, ma anche Catia Bastioli a Terna, Rossella Orlandi a capo dell’Agenzia delle Entrate.
E Maria Angela Zappia, ambasciatrice italiana alla Nato a Bruxelles. I titoli parlano naturalmente di “valanga rosa”. Lo spoil system di Renzi impone ancora nomi femminili. Il messaggio è chiaro: l’argine è caduto. Ma Luisa Todini, a capo del consiglio di amministrazione di Poste, una figlia adolescente, da anni alla testa dell’azienda di costruzioni di famiglia, invita a guardare le cose dal lato giusto. «In queste nomine hanno contato i curriculum e le esperienze, non le quote. Vengo da una famiglia modesta, che si è fatta da sé, dove mia madre lavorava ed era naturale che anche le donne lavorassero. Mi sono mossa in ambiti fortemente maschili, ma oggi invece sono entrata in una azienda, le Poste, dove la pink revolution è in atto già da tempo».
Certo, aggiunge Todini, «le quote servono, seppure modo transitorio, noi abbiamo vent’anni di ritardo sul fronte dell’occupazione femminile, dunque una spinta è ancora necessaria, perché tutto questo abbia una vera ricaduta sul processo di parità». Un processo favorito oggi «anche da una nuova generazione di mariti, padri e compagni non più nemici della carriera delle loro partner...». I numeri però raccontano un’Italia ancora profondamente “asimmetrica”: l’occupazione femminile è al 49,9% contro il 70% di quella maschile, gli stipendi restano più bassi del 15%.
Alessia Mosca, parlamentare Pd, insieme a Lella Golfo (oggi presidente della Fondazione Bellisario) ha scritto la legge 120 del 2011, le famose quote rosa nei Cda. Una legge che scadrà tra sette anni. «Perché a quel punto ci renderemo conto se è stata un’operazione di maquillage o se ha davvero ha inciso nella vita reale delle donne. Il cambiamento per ora è soltanto nella parte “apicale” della piramide, e non basta un gruppo di top manager donne per contaminare in modo positivo una situazione ancora arretrata. Ma è un inizio, la rottura di un meccanismo inerziale sempre uguale a se stesso». E duro a morire se si ascolta la testimonianza di una giovane manager, Valentina Saffiotti, 36 anni, direttore della Comunicazione di AstraZeneca, che racconta di essere dovuta fuggire a Bruxelles, per essere valutata soltanto per i suoi meriti, senza più il pregiudizio dell’essere femmina. «A 30 anni le aziende ti guardano con sospetto, perché potresti decidere di diventare madre. E nelle piccole e medie realtà è ancora peggio. E infatti dico sempre: non sono a favore delle quote rosa, ma contro le quote azzurre...».
Catia Bastioli, neo presidente di “Terna” (infrastrutture elettriche) scienziata manager, ex Montedison, in prima linea sulla bioeconomia, punta tutto sul merito. «Attenzione, le quote possono essere una trappola, e così gli slogan. Oggi il nostro paese ha unicamente bisogno di merito, al di là dei generi e l’Italia è spesso più avanti di come viene raccontata. Le donne — dice Bastioli — hanno già un posto forte nelle aziende, con quella visione più ampia delle cose che le rende preziose ovunque. Ma perché possano fare carriera è fondamentale la conciliazione. Proprio io che ho dedicato tutta la mia vita alla ricerca vedo quanta concentrazione ci vuole: e senza supporti da parte dello Stato, asili, welfare, come si possono portare avanti una famiglia e una carriera?». Ed è infatti l’amaro bivio davanti al quale si trovano brillantissime e determinate studentesse, e che spesso si traduce in un rinvio sine die della maternità. Ma Barbara Saba, vicepresidente di “Valore D”, direttore generale della Fondazione Johnson and Johnson, è invece ottimista. «Più donne ci sono nella politica, nel business, nella ricerca, più donne ancora saliranno sull’ascensore sociale. Il cambiamento è epocale anche se non ancora visibile. Ma per ognuna di noi che ce l’ha fatta è fondamentale la restituzione: aiutare cioè le più giovani a sviluppare i loro talenti. Solo così possiamo sperare che l’ascensore non si fermi».

L'Europa e cascato in pieno nella trappola dell'ignoranza e della difesa degli

interessi USA. «Disegnano il quadro di un’Ucraina povera ma democratica che si dibatterebbe nelle grinfie dell’orso russo che, dopo avere strappato la penisola di Crimea, se la vorrebbe mangiare tutta. Ma la storia dei rapporti tra Russia e Ucraina è tutt’altro che lineare». Sbilanciamoci.info newsletter 133, 1 luglio 2014

Stampa e Tv disegnano il quadro di un’Ucraina povera ma democratica che si dibatterebbe nelle grinfie dell’orso russo che, dopo avere strappato la penisola di Crimea, se la vorrebbe mangiare tutta. Ma la storia dei rapporti tra Russia e Ucraina è tutt’altro che lineare. E l’Europa sembra avere dimenticato storia, geografia e politica

L’Europa non è certo nata in chiave antiamericana ma, date le dimensioni e il numero degli abitanti, almeno come grande mercato autonomo e con una moneta forse concorrenziale; e per alcuni anni questo è stata. Ma da qualche tempo ha sottolineato in modo sbalorditivo un ruolo che una volta si sarebbe detto “atlantico”. Non più sotto il vessillo anticomunista, il comunismo essendo scomparso da un pezzo, ma antirusso.

Qualche anno fa, Immanuel Wallerstein mi diceva che, spento ogni scontro ideologico, le nuove guerre sarebbero state commerciali. E quale altro senso dare al conflitto in corso a Kiev? Esso sembra avere per oggetto l’identità nazionale dell’Ucraina. Eccezion fatta per il manifesto, tutta la stampa e le tv disegnano il quadro di un’Ucraina povera ma democratica che si dibatterebbe nelle grinfie dell’orso russo; il quale le ha già strappato la penisola di Crimea e se la vorrebbe mangiare tutta. Manca poco che la Russia non sia definita un nuovo terzo Reich. In occasione del settantesimo anniversario dello sbarco in Normandia, il presidente francese Hollande è stato accusato di aver invitato alle celebrazioni anche Putin - come se la battaglia di Stalingrado non avesse permesso agli Stati Uniti il medesimo sbarco, distraendo dal Nord Europa il grosso della Wehrmacht - nello stesso tempo invitando niente meno che dei reparti tedeschi a partecipare alla rievocazione del primo paracadutaggio alleato sul villaggio di Sainte-Mère-l’Eglise.

Da qualche giorno poi sappiamo che gli Stati Uniti, neppure il presidente Obama, ma il suo ex rivale Mc Cain - hanno ammonito la Bulgaria, la Serbia e gli altri paesi coinvolti in un progetto di gasdotto per trasportare il gas russo in Europa (con un tracciato che evitava l’Ucraina, perché cattiva pagatrice) a chiudere i cantieri in corso, preferendo un nuovo tragitto attraverso l’Ucraina a quello diretto per l’Europa occidentale. Stupore e modeste proteste di Bruxelles, convinta che si tratti di una minaccia simbolica. Che tuttavia va inserita nel quadro di un cambiamento delle esportazioni Usa, ormai indirizzate al commercio del gas di scisto, per altro non ancora avviato.

L’Europa teme dalla Russia rappresaglie per avere applaudito all’abbattimento del presidente ucraino filorusso Yanukovic da parte delle forze (piazza Maidan) che sono ora al governo a Kiev. Ma la storia dei rapporti tra Russia e Ucraina è tutt’altro che lineare.

Il principato di Kiev è stato la prima forma del futuro impero russo, annesso da Caterina II alla Russia verso la metà del XVIII secolo, stabilendo in Crimea la sua più forte base navale. La sua cultura, il suo sviluppo e i suoi personaggi, da Gogol a Berdiaev, sono stati fra i protagonisti della letteratura russa del XIX secolo. L’intera letteratura russa resta segnata dalla guerra fra Russia, Inghilterra e Francia, che hanno cercato di mettervi le zampe sopra: si pensi soltanto a Tolstoi e alla topografia delle relative capitali ricche di viali e arterie che la commemorano (Sebastopoli). Ma il paese, che all’origine era stato percorso, come l’Italia, da una moltitudine di etnie, dagli Sciti in poi, ha stentato a unificarsi come nazione, distinguendosi per lotte efferate e non solo ideali fra diversi nazionalismi, spesso di destra. Il culmine è stato nella prima e seconda guerra mondiale: nella prima sotto la presidenza di Petliura, nazionalista di destra, quando l’Ucraina è stata l’ultimo rifugio dei generali “bianchi” Denikin e Wrangel, con lo scontro fra lui e la repubblica sovietica di Karkov. Solo con la vittoria definitiva dell’Urss si è consolidata la Repubblica sovietica nata a Karkov, destinata a diventare negli anni trenta il centro dell’industrializzazione. Industrializzazione sviluppatasi esclusivamente all’est (il bacino del Donbass, capoluogo Karkov), mentre l’ovest del paese restava per lo più agricolo (capoluogo Kiev, come di tutta la repubblica); e questo rimane alla base del contenzioso fra le due parti del paese. Nella seconda guerra mondiale, poi, l’occupazione tedesca ha incontrato il favore di una parte del panorama politico ucraino, un’eredità evidentemente ancora viva nei recenti fatti di piazza Maidan: il partito esplicitamente nazista circola ancora e non è l’ultima delle ragioni per cui il paese resta diviso fra la zona orientale e quella occidentale. Nel secondo dopoguerra, Kruscev dette all’Ucraina piena autonomia amministrativa, Crimea compresa, senza alcuna conseguenza politicamente rilevante perché restava un processo interno all’Unione Sovietica.

È soltanto dal 1991 e dal crollo dell’Urss che, anche su pressione polacca e lituana, il governo dell’Ucraina guarda all’Europa (e alla Nato) e incrementa lo scontro con la sua parte orientale. Sembra impossibile che in occidente non si sia considerato che l’Unione Sovietica non era solo una formula giuridica: scioglierla d’imperio e dall’alto, come è avvenuto nel 1991, significava creare una serie di situazioni critiche sia nelle culture che nei rapporti economici che attraversavano tutto quel vasto territorio. Da allora, Kiev non ha nascosto di puntare a un’unificazione etnica e linguistica anche forzosa delle due aree, fino a interdire l’uso della lingua russa agli abitanti dell’est cui era abituale.

L’Europa e la Nato non hanno mancato di appoggiare le politiche di Kiev, e poi l’insurrezione contro il presidente Yanukovic assai corrotto, costretto a tagliare la corda in Russia. Ma la zona orientale non lo rimpiange certo: non tollera il governo di Kiev e la sua complicità con la Nato, ma non perché abbia nostalgia di questo personaggio. Si è rivoltata contro la politica passata e recente di Kiev che ha tentato perfino di impedire l’uso della lingua russa, usata dalla maggioranza della popolazione all’est. L’Europa e la Nato, appoggiate da Polonia e Lituania, affermano che non si tratta di un vero e spontaneo sbocco nazionalista, ma di una ingerenza diretta della Russia, e così dicono stampa e televisione italiana. Non c’è dubbio che la Russia abbia voluto il ritorno della Crimea nel suo grembo, ma la proposta dell’est di andare a una federazione con l’ovest, garantendo l’autonomia di tutte e due le parti, è stata bocciata da Kiev e dal governo degli insorti. La decisione di votare in un referendum all’est contro Kiev è stata presa non da Putin, messo in imbarazzo, ma dalla popolazione dell’est che ha votato in questo senso al 98%. Non si tratta di un processo regolare (non accetteremmo che l’Alto Adige votasse una delle prossime domeniche la sua appartenenza all’Austria, senza alcun precedente negoziato diplomatico), ma non è stato neppure una manovra russa come l’Europa tutta ha sostenuto.

È sorprendente che perfino il poco che resta delle sinistre europee abbia sposato questa tesi e che in Italia le riserve di Alexis Tsipras sulle politiche di Bruxelles non abbiano alcuna eco. C’è perfino chi evoca in modo irresponsabile azioni armate contro Mosca. La deriva dei conflitti, anche militari, e non solo in Ucraina, rischia di segnare sempre di più un’Europa che ha dimenticato storia, geografia e politica.

Lista Tsipras. Per passare dalle parole ai fatti, l’Altra Europa deve mettersi alla prova nei gruppi di lavoro locali, promuovendo collegamenti nazionali.

Il manifesto, 1 luglio 2014

Lista Tsipras. Per passare dalle parole ai fatti, l’Altra Europa deve mettersi alla prova nei gruppi di lavoro locali, promuovendo collegamenti nazionali e internazionali, anche grazie alla nostra presenza nel parlamento europeo. Il modello dovrebbe essere quello dei beni comuni. L'Europa deve essere: democratica, federale, solidale, ecologica, inclusiva e pacifica

Domani Renzi inau­gu­rerà il seme­stre di pre­si­denza ita­liana dell’Unione euro­pea. Nono­stante i giri di parole, è un’Europa che non cam­bia. Noi vogliamo un’altra Europa: demo­cra­tica, fede­ra­li­sta, soli­dale, eco­lo­gica, inclu­siva, pacifica.

Demo­cra­tica, cioè con una vera Costi­tu­zione, con un governo sovra­na­zio­nale a base par­la­men­tare, auto­nomo dai poteri dell’alta finanza, che defi­ni­sca le poli­ti­che eco­no­mi­che, sociali, ambien­tali e cul­tu­rali. Ma la demo­cra­zia riguarda anche i sin­goli paesi.

Dob­biamo pre­ser­vare l’impianto della Costi­tu­zione ita­liana e fer­mare l’erosione della demo­cra­zia da tempo in corso. Inol­tre, alla demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva occorre affian­care, in tutto il con­ti­nente, nuove forme di demo­cra­zia par­te­ci­pa­tiva di pros­si­mità, che è ciò che tra­sforma risorse e ser­vizi in beni comuni.

Fede­rale, non signi­fica un aggre­gato di Stati, ma una riva­lu­ta­zione radi­cale delle auto­no­mie locali; dei Comuni o delle unioni di pic­coli Comuni: le isti­tu­zioni più vicine ai cit­ta­dini, dove è meno dif­fi­cile dar vita a forme di demo­cra­zia partecipativa.

Soli­dale: i paesi dell’Unione devono con­di­vi­dere costi e bene­fici del cam­mino comune: non solo moneta, ma debiti, tassi di inte­resse, fisco, inve­sti­menti pub­blici. Altre forme di soli­da­rietà devono riguar­dare anche tutti gli altri paesi del mondo, a par­tire da quelli rima­sti ai mar­gini dei bene­fici, ma non dei costi, dello svi­luppo indu­striale. Ma soli­da­rietà vuol dire soprat­tutto giu­sti­zia sociale in ogni paese; redi­stri­bu­zione del lavoro, del potere con­trat­tuale, del red­dito, degli oneri fiscali, dell’istruzione, dei pre­sidi sani­tari, dei diritti. Senza esclu­dere il rispetto di tutto il vivente e della natura.

Eco­lo­gica vuol dire fare i conti non solo con la natura pro­dotta dall’evoluzione geo­lo­gica e bio­lo­gica del pia­neta, ma anche con quella “seconda natura” in cui siamo ormai tutti immersi, pro­dotta dalla rivo­lu­zione indu­striale, dai mate­riali sin­te­tici, dalla pro­li­fe­ra­zione di pro­dotti e rifiuti – solidi, liquidi e gas­sosi — gene­rati dalla “civiltà” dei con­sumi. Occorre ritro­vare un equi­li­brio fra mondo natu­rale e mondo arti­fi­ciale che impe­di­sca a que­sto di sof­fo­care quello. Pur­troppo l’Unione euro­pea si sta pro­gres­si­va­mente disim­pe­gnando dalle poli­ti­che ambien­tali, men­tre mano­mis­sione e inqui­na­mento di ogni sin­golo ter­ri­to­rio non fanno che aumentare.

Inclu­siva: l’Europa non deve più essere gover­nata come una “for­tezza” asse­diata da una “armata” di pro­fu­ghi e migranti in cerca della pro­pria soprav­vi­venza. In un’Europa soli­dale ci deve essere posto per tutti. Emar­gi­na­zione, clan­de­sti­nità, discri­mi­na­zione raz­ziale – sia quella su basi bio­lo­gi­che o cul­tu­rali, che quella sem­pre più dif­fusa con­tro i poveri – sono cala­mite di nuove mise­rie che si ripro­du­cono in una spi­rale senza sboc­chi. L’accoglienza con­sente invece un diverso rap­porto con le popo­la­zioni e con le isti­tu­zioni dei paesi di ori­gine di pro­fu­ghi e migranti; rico­no­scere loro diritti e rap­pre­sen­tanza può faci­li­tare la com­po­si­zione dei con­flitti che ne deter­mi­nano l’esodo e una cir­co­la­zione di per­sone, di com­pe­tenze e di rela­zioni che pos­sono arric­chire sia i paesi di ori­gine che quelli di arrivo. Ma l’inclusione riguarda ogni forma di diver­sità – che messe tutte insieme costi­tui­scono ormai una vera mag­gio­ranza sociale – che, prima di met­tere sotto accusa idee e com­por­ta­menti altrui, inter­pel­lano innan­zi­tutto le nostre con­ce­zioni e il nostro stile di vita. Que­sto vale in par­ti­co­lare nei con­fronti della cul­tura e del potere patriar­cale che con­ti­nua a domi­nare la vita eco­no­mica e sociale in tutta l’Europa e par­ti­co­lar­mente nel nostro paese.

Paci­fica: non basta garan­tire la pace all’interno se ai con­fini imper­ver­sano con­flitti san­gui­nari. L’Europa deve avere un ruolo attivo nella com­po­si­zione dei con­flitti altrui; spe­cie quelli pro­dotti dai pro­pri inte­ressi, come la corsa al petro­lio o l’esportazione di armi. Nei con­fronti delle atti­vità eco­no­mi­che che ali­men­tano quei con­flitti occorre poi pro­get­tare una vera ricon­ver­sione ecologica.

L’articolazione ulte­riore di que­sti con­cetti non può pro­ce­dere però per logi­che interne, ma solo met­ten­doli alla prova nei ter­ri­tori o in spe­ci­fici ambiti set­to­riali. La lista L’altra Europa con Tsi­pras ha finora rac­colto solo una pic­cola parte di quel fer­vore di lotte, di ini­zia­tive, di pro­get­tua­lità alter­na­tive che con­trad­di­stin­gue da anni il nostro paese. Ma è con que­ste realtà che ora occorre con­fron­tarsi e pren­dere ini­zia­tive comuni, orga­niz­zan­dosi a livello locale per gruppi di lavoro o per com­mis­sioni tema­ti­che, pro­muo­vendo col­le­ga­menti nazio­nali e inter­na­zio­nali (gra­zie anche alla nostra pre­senza nel par­la­mento euro­peo e nel Gue), ma soprat­tutto andando a cer­care que­gli inter­lo­cu­tori, sin­goli o già orga­niz­zati, che non sono stati coin­volti dalla nostra mobi­li­ta­zione elet­to­rale, per pro­muo­vere con loro con­fronti e ini­zia­tive comuni su un piano di asso­luta parità. Tutti pos­sono arric­chire, con ini­zia­tive con­di­vise, un pro­gramma che si deve fare pra­tica poli­tica quotidiana.

Ma que­sto pro­gramma si deve anche con­so­li­dare sul piano cul­tu­rale. Intorno al pro­getto della lista L’altra Europa si è rac­colto in pochi mesi il meglio dell’intelligenza ita­liana. I nomi sono tan­tis­simi. A tutti dob­biamo offrire un ter­reno di con­fronto con le nostre pra­ti­che per dare al pro­getto, nella più asso­luta libertà di cia­scuno, un respiro indi­spen­sa­bile a pro­muo­vere una rifon­da­zione su nuove basi di una cul­tura della demo­cra­zia e della soli­da­rietà da con­trap­porre a quella impe­rante della com­pe­ti­ti­vità. Abbiamo due modelli dalle grandi poten­zia­lità: la Costi­tuente dei beni comuni, che ha visto il meglio della dot­trina giu­ri­dica ita­liana soste­nere alcune lotte come l’occupazione del Tea­tro Valle, il Muni­ci­pio dei Beni comuni di Pisa e altre ini­zia­tive ana­lo­ghe; e la costi­tu­zione dell’azienda spe­ciale Acqua Bene Comune di Napoli, prima tra­du­zione pra­tica degli obiet­tivi dei refe­ren­dum del 2011.

Que­sto approc­cio aperto a ogni sorta di nuovi apporti ha certo biso­gno di stru­menti di coor­di­na­mento e di comu­ni­ca­zione migliori, evi­tando però strut­ture pesanti e dif­fi­cili da ridi­men­sio­nare. Ma biso­gne­rebbe evi­tare di con­cen­trarsi su uno spet­tro che si aggira nel nostro dibat­tito interno: il “nuovo sog­getto poli­tico” (o “sog­getto poli­tico nuovo”); o la “costi­tuente della sini­stra”; o, senza tante media­zioni, il “nuovo partito”.

Per­ché il ter­mine sog­getto poli­tico, men­tre sem­bra esal­tare l’iniziativa e l’autonomia di un agire comune, fini­sce spesso, invece, per rin­chiu­derlo in qual­cosa di solido, di sostan­ziale, di auto­suf­fi­ciente e rischia di disto­gliere il dibat­tito e l’agire dall’impegno a svi­lup­pare nella pra­tica quo­ti­diana il tema dell’Europa che vogliamo, dell’Italia che vogliamo, della società che vogliamo. Non sto par­lando del “sol dell’avvenire”, ma, più mode­sta­mente, di una visione del futuro che vede con­flitto e par­te­ci­pa­zione, varia­mente intrec­ciati tra loro, come com­po­nenti per­ma­nenti di una dina­mica sociale in cui a ogni gene­ra­zione tocca fare i conti con le acqui­si­zioni e le scon­fitte di quella precedente.

Il rischio è quello di un dibat­tito con­fi­nato al tema di come costruire il nuovo sog­getto, o il nuovo par­tito, o la nuova sini­stra, sot­tin­ten­dendo che il come tra­sfor­mare i rap­porti sociali con la nostra pra­tica quo­ti­diana ne discenda auto­ma­ti­ca­mente; o comun­que sia una que­stione del “dopo”. Tra­scu­rando, per di più, la dimen­sione euro­pea e inter­na­zio­nale in cui la lista L’altra Europa ha voluto col­lo­care fin dall’inizio la pro­pria iniziativa.

«». Altraeconomia.it

«Chiama le cose come le vedi, e al diavolo tutto il resto» (Ernest Hemingway). Che cosa succede se nel misurare il valore di qualcosa prevale la visibilità, al posto dell’evidenza? Tolto il punto di domanda, rimangono la televisione e quel che resta del servizio pubblico, rimane il precariato di chi lavora nel mondo della cultura e dell’informazione, e ovviamente rimangono i miliardari di Internet, che -imperterriti- continuano ad arricchirsi -esentasse o quasi- sfruttando il lavoro altrui. 32 milioni di italiani, la maggior parte di noi, partecipa ogni giorno a questo luogo -che chiamiamo Rete-, al quale chiunque può accedere per dare voce alle proprie opinioni; luogo democratico per eccellenza, salvo poi diventare arena di violenza incontenibile, diffamazione, delinquenza mediatica.
Pochi sinora ne sono stati chiamati a rispondere, sotto il profilo della contro informazione e della legge.
L’evidenza è che la società non si cambia coi “mi piace” e con i clic, ma scendendo -metaforicamente, e non-, in piazza. Un’altra evidenza è che se anche sei capace di riempire le piazze, invadere le televisioni, i giornali e le chiacchiere al bar, se poi non hai nulla di intelligente da dire è solo tempo perso. Ma questo, ha, ovviamente, una sua logica, dove i mezzi sono coerenti col fine. Da un lato, affogare ogni conflitto in una marea di parole, talk show, polemiche, commenti on line, per relegare le evidenze a ruolo marginale, di contesto. Dall’altro, dare voce alle varie categorie di professionisti della confusione: ci sono i provocatori di mestiere, ci sono i minimizzatori -per i quali i problemi sono dipinti sempre con toni troppo drammatici-, ci sono i “saggi” realisti, ci sono i catastrofisti, ci sono i sedicenti fact checker che nel cercare l’errore nel dito fanno distogliere lo sguardo dall’evidenza della luna.
E poi ci sono i professionisti della visibilità, armati di urla e aggressioni: perché continuiamo a tollerarli, perché accettiamo che ci rovinino l’umore, che ci facciano montare la rabbia ad arte?
La responsabilità sta in chi invita certi personaggi in tv, in chi li intervista sui giornali, in chi riporta i loro tweet o post. È la responsabilità di chi ci fa perdere tempo prezioso. La maggior parte di queste persone crede che tutti possano fare tutto: competenze, formazione ed esperienza non contano. Confondono il potere (quello di cittadinanza, o quello, temporaneo e non scontato, dato loro da un’elezione) con potenzialità, la loro. Questo potere senza potenzialità li ha convinti di essere migliori, che i loro pensieri -ammesso che siano davvero loro- siano giusti. E per questo si sentono in diritto di dire e fare tutto quello che pensano.

È naturale che scatti l’odio per “gli intellettuali”: come scriveva Isaac Asimov, «l’anti intellettualismo è un tarlo nutrito dall’idea sbagliata che democrazia significhi che la nostra ignoranza vale quanto l’altrui conoscenza». Se avessimo badato di meno alla visibilità -quella mediatica, quella politica/elettorale- ci saremmo una volta di più accorti di quanto falsa è la logica delle “grandi opere” (farci uscire dalla crisi, renderci competitivi, dare lavoro). E avremmo avuto di fronte gli occhi l’evidenza: le “grandi opere” servono a dare appalti ai “grandi amici”, contando sul “percolato” economico dell’operazione. Va da sè che i professionisti della confusione si guardano bene ora, dopo le vicende Expo, Mose (e tutte le altre del passato, e quelle che arriveranno) dal chiedere scusa, dal dire almeno “abbiamo sbagliato”. Si guardano bene dall’affrontare con spirito critico la complessità dell’evidenza.

Il compito di chi fa informazione -quindi il nostro, se continuerete a seguirci e sostenerci- è proprio osservare con spirito critico e raccontare la realtà. Ce lo insegna la biodiversità, termine coniato nel 1992 da Edward Wilson, uno dei più importanti biologi viventi (“La diversità della vita”, 1992): non si possono leggere la realtà, i rapporti sociali e quelli di potere, attraverso schemi preconcetti o, peggio, strumentali. La biodiversità è ridondanza, ambiguità, eccezione, a volte contraddizione.
È la bellezza della dispersione contro l’ipocrisia della compattezza, dell’identità, dell’omologazione. ---

© 2025 Eddyburg