Privare il Terzo mondo delle sue risorse naturali e contemporaneamente dotarlo di armi fomentando le guerre fratricide sono due degli strumenti largamente usati nella fase neoliberista del colonialismo. Di quella fase Matteo Renzi è convinto partecipe, e impiega le sue doti di abil ecommesso viaggiatore.
Sbilanciamoci.info, 24 luglio 2014
Il nostro presidente del consiglio, l'instancabile Matteo Renzi, è stato in Africa la settimana scorsa e ha portato con sé, per esempio in Mozambico, una delegazione di cui facevano parte i numeri uno di Eni, Claudio Descalzi e di Finmeccanica, Mauro Moretti, nominati di recente in quei ruoli, per una scelta decisa, dopo lungo dibattito e attenta riflessione, dal governo nazionale.
Eni è al primo posto tra le multinazionali italiane e si occupa d'idrocarburi; li scava, li trasporta, li commercia in molte aree del mondo. Finmeccanica dal canto suo è soprattutto una fabbrica di armi e di avanzati sistemi d'arma. Non è difficile immaginare il motivo della partecipazione di Moretti e Descalzi alla spedizione africana stessa; si tratta di vendere e di comprare, un'attività che s'inquadra nelle parole stesse del presidente, raccolte dalla Rai: «Un Paese ambizioso costruisce strategie di medio periodo. Tra dieci anni energia, agrofood, export sarà nel cuore dell'Italia prima volta».
Così Matteo Renzi spiega, da Luanda, ultima tappa del suo tour in Africa, gli obiettivi della missione in Mozambico, Congo e Angola. La crescita e i posti di lavoro sono la vera urgenza di Renzi. Anche per rilanciare il «made in», il premier è in Africa con l'obiettivo nei mille giorni di sostenere 22mila imprese e produrre solo con l'export un punto di Pil».
Un punto di Pil. Ecco il risultato che un grande, pur se un po' seduto, paese europeo pensa di ricavare vendendo a prezzi elevati e comprando bene servizi avanzati e altre mercanzie a un gruppo di paesi tra i più poveri del mondo. L'idea stessa di un commercio siffatto riempie di slancio le imprese associate nella Confindustria.
Si parla di 22 mila imprese, ma pare piuttosto la famosa Cooperazione italiana che torna, che torna anzi nell'Africa a sud del Sahara, come ai tempi gloriosi della Somalia delle autostrade dei giorni di Siad Barre e dell'Etiopia redenta e in fiore per il Tana-Beles dei giorni di Menghistu.
Quella cooperazione italiana in Africa è stata forse una vera matrice della prima Tangentopoli: venivano trascurate le regole e l'onestà dei commerci, la bravura e il merito di chi vinceva le gare non serviva a niente, ma si metteva al primo posto la corruzione dei funzionari e dei ministri che avevano a che fare con i commerci stessi.
Torniamo per un attimo a Descalzi e Moretti. Il primo va in Africa per cercare petrolio e probabilmente ne troverà, e troverà gas e ogni altra ricchezza nel sottosuolo, migliorando di mezzo punto il nostro Pil. Come effetto secondario si prolungherà di un altro anno la durata del modello «fossile» nel mondo, un effetto benefico, secondo la maggioranza; e aumenterà di un'altra frazione il livello d'inquinamento da CO2, ammesso che esista davvero, secondo quel che pensa la stessa maggioranza di prima.
All'altro mezzo punto di Pil provvederà Moretti vendendo armi e sistemi d'arma agli stessi che pagheranno con gas e petrolio. Qui il discorso diventa sottile. Vendere armi non piace a nessuno, in teoria, ma in pratica tutti i ministri, tutti gli industriali, tutti i banchieri sanno che esistono i buoni e i cattivi. I cattivi non devono avere armi; sono solo altri cattivi che gliele vendono. Invece i buoni – i nostri – devono potersi difendere. Quindi dobbiamo vendere loro le armi necessarie, tanto più che ci consentono di migliorare il nostro amatissimo Pil.
roncare il dibattito sulla più profonda trasformazione dell’assetto costituzionale dal dopoguerra è, per Renzi, il segno di una vittoria di Pirro. E Napolitano che non riceve le opposizioni, è ancora il rappresentante di tutti gli italiani?».
Il manifesto, 25 luglio 2014 (m.p.r.)
In un regime parlamentare, l’ultima carta di una democrazia è l’ostruzionismo e la storia della nostra repubblica è ricca di pagine che raccontano personaggi e interpreti del filibustering nei momenti di maggior contrasto politico. Con i nuovi regolamenti oggi è molto più difficile praticarlo, ma decidere di troncare il dibattito sulla più profonda trasformazione dell’assetto costituzionale mai realizzata dal dopoguerra, scegliendo un rigido contingentamento dei tempi perché l’8 di agosto il presidente del consiglio deve portare a palazzo Chigi il bottino di guerra è, innanzitutto per lui, il segno di una vittoria di Pirro.
Chi vuole vincere senza convincere, chi mostra i muscoli per nascondere la confusione, in realtà rivela la propria debolezza. Non si possono approvare riforme cruciali senza il necessario, faticoso, esercizio del compromesso e della mediazione politica…
Se ancora c’era qualche dubbio sulla natura post-democratica del leader che ci governa, da ieri sarà più difficile sostenerlo. E del resto queste pessime riforme costituzionali per come erano originate, appunto da un’iniziativa legislativa del governo anziché del parlamento, non potevano che precipitare in una esautorazione del parlamento stesso.
Con il sostegno e l’approvazione del Presidente della Repubblica che così espone l’alta carica che rappresenta al ruolo di giocatore anziché di arbitro. Il Capo dello Stato non ha neppure ricevuto personalmente la delegazione di deputati e senatori che ieri sera, in corteo, si è recata al Quirinale per rappresentargli la contrarietà verso una decisione sconcertante.
Napolitano è ancora il rappresentante di tutti gli italiani?
«La solitudine dei palestinesi è la vergogna del mondo, dell’occidente come dei padroni del petrolio. Per non parlare di un’Europa inetta e imbelle».
Il manifesto, 25 luglio 2014 (m.p.r.)
La striscia di Gaza è martirizzata da tredici anni, dall’inizio della seconda Intifada. Periodicamente Israele, in risposta ai lanci di razzi, al rapimento di un soldato o all’uccisione di giovani coloni, scatena offensive (dai nomi fantasiosi o truci, come “arcobaleno” o “piombo fuso” ecc.) dal cielo, dal mare e a terra.
Dall’inizio del millennio, sono morti circa 6.400 palestinesi e poco più di 1000 israeliani, senza dimenticare le centinaia di palestinesi vittime della guerra civile tra Hamas e Anp. Ogni volta, gli strateghi israeliani giurano che il conflitto in corso sarà l’ultimo, ma chiunque nel mondo sa che si tratta di una favola. Anche se la striscia di Gaza – una fascia costiera abitata da una popolazione pari a quella della Liguria, ma con una superficie quindici volte più piccola – fosse completamente ridotta in macerie, qualche razzo potrebbe essere ancora sparato e quindi il conflitto riprenderebbe…
Per comprendere il senso di una guerra apparentemente infinita, basta confrontare le carte della Palestina nel 1946 e oggi. Se allora gli insediamenti dei coloni ebrei erano una manciata, soprattutto nel nord, oggi è esattamente il contrario: una spruzzata di insediamenti palestinesi circondati da Israele e dai suoi coloni, con la striscia di Gaza isolata a sud-ovest. Non ci vuole molta fantasia per comprendere che la strategia di Israele, in nome di una sicurezza assoluta di cui non potrà mai godere, è quella di cacciare più palestinesi possibile, con le infiltrazioni dei coloni in Cisgiordania e con le azioni militari a Gaza.
Rapporti pubblicati da Human Rights Watch, agenzie Onu e Amnesty International mostrano ormai, senza possibilità di dubbio, che lo sradicamento dei palestinesi è perseguito con l’espulsione dalla terre coltivabili, l’interruzione periodica dell’energia elettrica e il blocco delle risorse idriche. D’altronde che l’esercito considerato il più “professionale” al mondo rada al suolo scuole gestite dall’Onu e uccida soprattutto civili la dice lunga sulla vera strategia di Israele verso i palestinesi.
Mai come oggi, i palestinesi di Gaza sono stati così soli. Hamas non gode della protezione dell’Egitto, come ai tempi di Morsi, né della simpatia dei sauditi e di quasi tutti gli stati arabi. Né riceve vera solidarietà da parte di Abu Mazen. E, ovviamente, in quanto organizzazione ufficialmente definita “terrorista”, è avversata da Stati Uniti ed Europa. Ma tutto questo non spiega, né tanto meno giustifica, il silenzio ipocrita dei governi occidentali e tanto meno della cosiddetta opinione pubblica indipendente sulle stragi di Gaza.
Lasciamo stare il nostro Presidente del consiglio e l’ineffabile ministro Mogherini, la cui ascesa spiega perfettamente il ruolo trascurabile della politica estera nella cultura governativa italiana. Ma che dire dell’incredibile squilibrio politico e morale nella valutazione ufficiale del conflitto?
Basti pensare che un B.-H. Lévy, l’eroe della fasulla rivoluzione libica e il mestatore di Siria, da noi passa come un profeta della pace e della giustizia. Che centinaia o migliaia di imbecilli, in Europa o altrove, trasformino il conflitto tra palestinesi e stato d’Israele in una crociata antisemita non può essere usato come un alibi per chiudere gli occhi davanti alle stragi di bambini e di civili. In questo quadro, la palma dell’ipocrisia va al governo americano, e in particolare a Obama, che pure aveva illuso il mondo all’inizio del suo primo mandato.
La banale verità è che la differenza tra democratici e repubblicani in materia di Palestina è semplicemente di stile. Brutalmente filo-israeliani quelli della banda Bush, preoccupati un po’ più delle forme della repressione gli obamiani, come dimostrano i famosi fuori-onda di Kerry.
Ma nessuno ha veramente intenzione di fermare Israele, oggi o mai. La solitudine dei palestinesi è la vergogna del mondo, dell’occidente come dei padroni del petrolio. Per non parlare di un’Europa inetta e imbelle.
Il manifesto, 24 luglio 2014
Evidentemente il problema sta altrove. È emerso in un qualche modo nella discussione che si è accesa in uno dei gruppi tematici nei quali si è divisa l’assemblea e concerne la presenza eventuale alle prossime elezioni regionali. In realtà la questione è stata male impostata fin dal suo inizio, e non solo dall’intervista di Smeriglio. Infatti non credo si possa discutere fruttuosamente il da farsi di fronte a questa scadenza, se prima non si affronta una discussione che da tempo incalza su cosa sono diventate le istituzioni regionali – ora terreno privilegiato per l’esercizio della corruzione delle elites politiche — e cosa soprattutto diventeranno se andrà in porto la riforma costituzionale attualmente in discussione al Senato che tocca così pesantemente il Titolo V, già oggetto di ampie modificazioni una decina di anni fa. Le nuove norme che il governo ha proposto tendono a ridurre le regioni a una semplice articolazione amministrativa. L’eliminazione delle competenze legislative “concorrenti” e la “clausola di supremazia” riportano molte tematiche di forte impatto sociale nell’ambito squisitamente statale a sua volta limitato dalle ingerenze degli organi della governance a-democratica europea (ad esempio con il fiscal compact). Il sogno della vecchia sinistra di fare delle regioni un’articolazione democratica dello Stato per avvicinare la cosa pubblica ai cittadini è del tutto travolto. Prima di decidere con chi andare bisognerebbe discutere se e perché.
Ma scavando ancora, il nodo vero del contendere è sulla natura del Pd. Del Pd nel suo complesso, non solo del fenomeno Renzi. È difficile immaginare che Renzi abbia vinto indipendentemente o addirittura contro il Pd. Per quanto sia forte la personalizzazione in atto, abbiamo assistito, attraverso un processo non breve fatto anche di bruschi salti, come l’elezione di Renzi, alla trasformazione di un intero partito in un sistema di governo delle istituzioni e della società. Le analogie con la Dc sono del tutto fuori luogo. Non esiste più alcun riferimento ideale e tantomeno finalistico. Vi è la totale compenetrazione nel presente del sistema di governance europeo e nazionale, cui tutto è sottomesso. Il partito piglia-tutto dà luogo ad una mutazione antropologica delle sue elites e del senso stesso del concetto di partito. Questo spiega anche la fluidità delle posizioni interne, rapidissime nell’uniformarsi all’onda vincente senza lasciare neppure una traccia del proprio percorso. Che ne è dei “giovani turchi”? Le articolazioni delle posizioni personali – al di là delle migliori intenzioni – o territoriali non riescono a contrastare questa liquidità politica né ergersi a opposizione strutturata e duratura.
La sinistra, se sarà, non potrà che svilupparsi fuori e contro questo partito-governo. Il che non esclude il confronto o possibili convergenze su singoli aspetti e temi, ma certamente sì la riproposizione dell’alleanza coartata dal ricatto del voto utile anche a livello regionale. Qui sta il nodo delle divergenze, che va affrontato non a colpi di accetta, ma senza sfuggirvi e con serietà. La trasformazione di una lista nata per un nuovo progetto europeo in un soggetto di sinistra radicato nel nostro paese passa inevitabilmente per questa strada. Prima la intraprendiamo, evitando deragliamenti elettorali, meglio è visto che non sarà breve né lineare.
«La sagra dei "gratta e vinci" per il via libera al gasdotto salentino».
Il manifesto, 23 luglio 2014 (m.p.r.)
Entro la fine di luglio la Commissione Via del ministero dell’Ambiente si pronuncerà sul progetto della multinazionale Tap che prevede l’approdo del gasdotto sulla costa di San Foca, nel leccese, per far giungere in Europa il gas naturale dell’Azerbaigian. Al progetto, il cui impatto è ritenuto invasivo, si oppongono i comitati regionali «No Tap» i quali hanno sensibilizzato le popolazioni sui possibili danni ambientali per il territorio pugliese.
Negli stessi giorni in cui il presidente azero Ilham Aliyev era a Roma per una serie di accordi col governo Renzi in materia energetica, è stato aperto a Lecce un ufficio (rappresentante gli interessi delle società internazionali del progetto Tap — Trans adriatic pipeline) il cui responsabile ha illustrato un programma di manifestazioni sponsorizzate dalla multinazionale per l’estate salentina.
Con un budget di circa 350 mila euro (evidente l’intento propagandistico con elargizioni di prebende per addomesticare posizioni oltranziste) sono finanziate varie iniziative che, come in ogni provincia che punta sul turismo, solitamente decollano durante la stagione. Un carnet di appuntamenti, in paesi e paesini, che vanno dalla sagra a base di prodotti mangerecci alla festa patronale con allestimento di luminarie, dalla discoteca sul mare al concerto da stadio, dal concorso-vacanza in hotel della zona alla partecipazione presso la radio locale, fino ai gratta e vinci distribuiti sulle spiagge con in palio portacellulari, teli da bagno, palloncini e gadget, contrassegnati col marchio Tap ovviamente. «Energia a vocazione turistica» è lo slogan con cui si fa passare il tutto come un calendario di eventi culturali.
Culturali perché la Tap ha tentato di coinvolgere, elevandone lo spessore, la città capoluogo? Al consigliere delegato dal Comune al comitato preposto alle manifestazioni estive, è infatti giunta l’offerta, per la tre giorni festaiola dell’ultima settimana d’agosto in onore dei santi patroni, di una somma di 20 mila euro targata Tap. Ma vendere, o peggio svendere, i nomi di Oronzo, Giusto e Fortunato (i patroni di Lecce) per appena 20 mila euro è forse sembrato poco dignitoso. Fatto sta che arcivescovo e sindaco della città si sono defilati, per poi declinare l’offerta. Anche per non prestare il fianco al tourbillon di polemiche, che si sarebbe rovesciato, accettando quel denaro che alla cittadinanza è apparso un obolo, non proprio generoso peraltro. Un obolo per comprarsi il consenso sociale e tacitare le resistenze di quanti contestano il passaggio del gasdotto nel Salento. Intanto la querelle ha attraversato repentinamente città, paesi e spiagge. Ma se sulle prime la multinazionale ha fatto breccia sponsorizzando un paio di manifestazioni (il nome Tap è stato acceso da una miriade di lampadine al led in una serata di sagra, con un contributo di appena 5000 euro), ora le comunità cominciano a prendere distanze e a rifiutare le offerte. Con buona pace del marchio Tap programmato per un’estate al top.
Alla commissione Via dell’ambiente, che deciderà a giorni sulla criticità del progetto, i responsabili Tap in Salento, pur privilegiando l’approdo della condotta a San Foca, hanno indicato una decina di siti alternativi e compatibili lungo la costa che corre da Brindisi a Otranto. Il gasdotto transnazionale che porterà il gas azero in Europa (avrà una portata fino a 20 miliardi di metri cubi all’anno) è un’opera imponente il cui costo si aggira sui 40 miliardi di euro. La condotta attraversa regioni della Turchia europea, della Grecia settentrionale e dell’Albania, prima di tuffarsi nel Canale d’Otranto lungo 117 chilometri sottomarini. Raggiunta la costa adriatica pugliese percorrerà alcuni chilometri sul territorio salentino. Il terminale infine si collegherà all’infrastruttura a rete della Snam gas.
«». Il manifesto
Ho trascorso la settimana in Spagna, a Malaga, a una Scuola estiva della Cattedra Unesco di quella Università. Il tema della sezione a cui ho partecipato come relatore era “L’impegno degli intellettuali”. Seguivo, naturalmente, la notizie sempre più angosciose provenienti dalla terra martire di Palestina, constatando l’assoluta “distrazione” del ceto politico, rispetto a quei fatti di sconvolgente gravità, e il totale disinteresse, salvo pochissime eccezioni, del “mondo della cultura”.
Ricordo altre stagioni, come l’invasione del Libano e la guerra contro Hezbollah, del luglio 2006, o il bombardamento di Gaza del dicembre 2008-gennaio 2009: stagioni in cui fiorirono appelli, e la mobilitazione di professori, giornalisti, letterati, scienziati,artisti fu vivace e intensa. Si denunciavano le responsabilità di Israele, la sua proterva volontà di schiacciare i palestinesi, invece di riconoscer loro il diritto non solo a una patria, ma alla vita. Oggi, silenzio. La macchina schiacciasassi di Matteo Renzi , nel suo micidiale combinato disposto con Giorgio Napolitano, si sta rivelando un efficacissimo apparato egemonico.
E devo constatare che mai in passato si erano raggiunti simili livelli: dove sono le zone franche? Fa impressione sfogliare la balbettante Unità, che un tempo non lontano, con tutti i suoi limiti, accanto a Liberazione (defunta) e al manifesto (che resiste!), era una delle poche voci critiche nel deprimente panorama all’insegna del più esangue conformismo.
Sulle pagine del manifesto (15 luglio) Manlio Dinucci ha spiegato bene le ragioni reali del “conflitto” in corso, e non ci tornerò. Qui mi preme piuttosto evidenziare, con sgomento, che il “silenzio degli intellettuali” che qualche anno fa Alberto Asor Rosa denunciava, deplorandolo fortemente, è divenuto non soltanto una condizione di fatto, ma una posizione “teorica” che, accanto a quella dell’equidistanza, sta trovando i suoi alfieri. Appunto, rientrando dalla mia settimana spagnola, di intense discussioni sulla necessità di impegnarsi, a cominciare dal mondo universitario, cado dalle nuvole leggendo lacerti di pensiero che configurano la nascita di una sorta di “Partito del silenzio”.
Il silenzio non viene soltanto praticato, sia «perché dovrei espormi?», sia perché la pressione della lobby sionista è fortissima e induce a tacere se proprio non vuoi esprimere la tua gioiosa adesione alla “necessità” degli israeliani “di difendersi”. Il silenzio, oggi, a quanto pare, è divenuto una divisa, una bandiera, e una ideologia.
Molto praticato il genere “commenti” agli articoli on line, per esempio: sono tutti uguali, anche se variamente dosati nel tasso di violenza verbale. Mentre un gran lavorio di informazione al contrario, di diretta provenienza da fonti israeliane, viene dispiegato dagli innumerevoli piccoli dispensatori di verità nostrani. Per esempio un pur prudente articolo di Claudio Magris sul Corriere della Sera (17 luglio) che si permetteva di accennare alle ragioni dei palestinesi, ha ricevuto la sua buona dose di ingiurie. Non c’è che dire, il sistema funziona. E finisce per indurre al silenzio, o quanto meno alla prudenza. Che è l’altro nome del silenzio.
Ma non è questo silenzio, il silenzio del ricatto, che mi preoccupa di più. È, invece, il silenzio della scelta. Il silenzio teorizzato come terza via, tra coloro che incondizionatamente sono con Israele, e gli altri, quelli che sostengono la causa palestinese. Il silenzio come rispetto del dolore, o come via della ragionevolezza: contro gli opposti estremismi. Esemplare in tal senso Roberto Saviano, che, quasi commettendo autogol, cita Euromaidan per denunciare il tardivo schierarsi anche italiano dalla parte giusta, che per lui, ovviamente, è quella dei golpisti nazisti diKiev. E ora, a suo dire, occorre schierarsi non con gli uni né con gli altri, ma «dalla parte della pace»: i “terroristi” di Hamas sono indicati come il primo nemico della pace, ovviamente.
È la linea (solita) di Adriano Sofri (la Repubblica, 17 luglio), altro guerriero democratico, che ripartisce torti e ragioni, equiparando i razzi di Hamas alle bombe israeliane, e invoca implicitamente silenzio, discrezione, rispetto: mette sullo stesso piano tutti. Tutte le vittime innocenti. Ma si può confondere la pietà umana, doverosa, col giudizio politico? Si può trasformare l’opinione in saggezza?
Sul medesimo giornale, Michele Serra sostiene che occorre tacere, che si devono abbassare la voce e gli occhi, davanti alla “tragedia” della guerra, lo stesso termine usato da Magris. Ma quale tragedia? Qui abbiamo la politica, e la politica ha degli attori, dei responsabili: come in passato la divisione tra vittime e carnefici è netta ed evidente (so che qualche anima bella mi accuserà di semplificare: la cosa è più complessa, non si può dividere così nettamente, ciascuna delle due parti ha un pezzo di responsabilità e via di seguito). Serra scrive: «Evidentemente il ‘ciclo dell’indignazione’ è un meccanismo logoro».
Dal ceto intellettuale mi aspetto assai più che l’indignazione, mi aspetto una rivolta morale: tutti, se non in perfetta malafede, oggi sanno quanta verità ci sono nelle parole di Primo Levi: «Quello che non potrò mai perdonare ai nazisti è di averci fatto diventare come loro».
Quanto bisogno avremo di sentire la sua voce risuonare, pacata e ferma, scandendo le parole, a voce bassa, ma chiarissima: «La tragedia è di vedere oggi le vittime diventate carnefici». E se questo era evidente a lui negli anni Ottanta del Novecento, cosa potrebbe mai dire oggi, davanti a quei corpi straziati di bimbi, alla vita cancellata in tutta la Striscia di Gaza, davanti a quelle macerie che occupano, quartiere dopo quartiere, isolato dopo isolato, di ora in ora, lo spazio affollato di case e persone?
Se non denunciamo le menzogne dei media, le complicità dei governi occidentali, con quello di Tel Aviv, in particolare l’oscena serie di accordi (militari, innanzi tutto) dell’Italia con Israele… Se ci consegniamo al silenzio, oggi, davanti a una ingiustizia così grave,così palese, così drammatica, quando parleremo? Insomma, non intendo tacere, e ricorrendo proprio alle parole di quel grande uomo, gridare: «Se non ora, quando?».
Storie di commessi viaggiatori dei poteri forti:quelli che hanno aiutato la scalata del successore di Silvio, sulle macerie d'una gloriosa eredità distrutta.
Green report, 21 luglio 201421 luglio 2014
Dopo la tappa in Mozambico, dove ha firmato gli accordi già stesi dall’Eni con il governo di Maputo per gli immensi giacimenti gasieri del Paese africano, Renzi nel suo tour petrolifero si è recato in altri due Paesi già marxisti-leninisti: la Repubblica del Congo (Brazzaville) e l’Angola, ora convertiti al liberismo familistico/tribale più sfrenato, ma gestito sempre dagli stessi uomini che hanno cambiato casacca ideologica.
La visita di Renzi in Africa sembra più quella di un piazzista dell’Eni che quella di un premier di uno Stato democratico, e la “tecnica” utilizzata sembra ormai essere quella “cinese”, adottata anche da democrazie che poi si scoprono “selettive” se si parla di Ucraina o Gaza: accordi e pacche sulle spalle con tutti e nessuna domanda sui diritti umani e le libertà di opinione.
Comunque, se l’accordo in Mozambico – il più democratico tra i Paesi visitati – era più o meno ordinaria amministrazione (al di là dell’enormità delle riserve di gas scoperte da Eni) come ben sanno i lettori di greenreport che hanno seguito le scoperte di Eni nell’offshore di quel Paese, diversa è la situazione per quanto riguarda il Congo-Brazzaville, dove Renzi ha incontrato l’inossidabile presidente Dennis Sassour Nguesso, prima dittatore marxista-leninista e poi autoritario e ricchissimo presidente eletto.
Alla presenza di Renzi e Nguesso, l’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi, e il ministro degli Idrocarburi congolese, Andre Raphael Loemba, hanno firmato un accordo di cooperazione che conferma la storica presenza della nostra multinazionale nel Paese e «nel quale si afferma – spiega un comunicato Eni – la volontà di perseguire nuove iniziative nel bacino costiero congolese, che si estende dall’onshore Mayombe al deep-offshore».
Eni opera nella Repubblica del Congo dal 1968, ininterrottamente (anche ai tempi della dittatura filo-sovietica). Nel 2013 la compagnia italiana ha estratto circa 120.000 barili di olio equivalente al giorno. Descalzi, che in questo tour africano è sembrato fare le funzioni di ministro degli Esteri dell’Italia, ha confermato «l’importanza storica e strategica del Paese per Eni e ha riaffermato il massimo impegno della compagnia a proseguire nello sviluppo delle proprie attività, in particolare dei giacimenti rispetto ai quali, in seguito a un negoziato strategico, il governo congolese a fine 2013 ha prolungato i permessi (Madingo, Marine VI e Marine VII)».
Nell’Africa Sub-Sahariana, dove produce circa 450.000 di olio equivalente al giorno, Eni è presente inoltre in Ghana, Gabon, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Togo, Kenya e Liberia e Angola, ed è proprio in quest’ultimo Paese che Renzi ha fatto tappa per incontrare il presidente Jose Eduardo Dos Santos, del partito egemonico ex marxista-leninista dell’Mpla, e soprattutto suo figlio Jose Filomeno Sousa, presidente del Fondo sovrano angolano, creato con i proventi del petrolio.
Anche qui Renzi era stato preceduto il 19 luglio da Eni, che in un comunicato ha annunciato: «N’Goma FPSO è pronta a salpare in direzione dell’area offshore del blocco angolano 15/06, dopo la cerimonia di battesimo che si è tenuta ieri a Port Amboim. In seguito inizierà le operazioni di ormeggio e aggancio. Questa è per Eni e i suoi partner una tappa fondamentale per il conseguimento del first oil del West Hub Development Project previsto per la fine del 2014. Il progetto segnerà il ritorno di Eni in Angola come operatore in acque profonde». Eni è presente in Angola dal 1980, in piena guerra civile tra i marxisti dell’Mpla, appoggiati da cubani e sovietici, che avevano liberato l’Angola dal colonialismo portoghese, e i ribelli dell’Unita appoggiati dal Sudafrica razzista e dagli occidentali, e nel 2013 ha avuto una produzione netta di 87.000 barili al giorno.
La visita di Renzi in Angola, che a Lunada ha parlato davanti ad una platea composta quasi interamente composta da investitori italiani e occidentali (vedi foto), serve quindi a mettere il suggello definitivo al West Hub Project, tra i blocchi assegnati in Angola nel 2006 con un bid internazionale, la prima area di sviluppo che andrà in produzione. Questo progetto, spiega Eni, «comprende i campi Sangos, Cinguvu e Mpungi e prevede la perforazione di 21 pozzi sottomarini di cui 12 produttori, 4 iniettori acqua e gas alternativi e 5 iniettori d’acqua. La profondità d’acqua è compresa tra i 1000 e i 1500 metri. Un secondo progetto di sviluppo simile è inoltre in corso di esecuzione (East Hub) per sfruttare le riserve scoperte nella zona nord-orientale dello stesso blocco».
«Se in Laguna il Consorzio Venezia Nuova ha sponsorizzato di tutto per procacciarsi le simpatie dei veneziani, in Salento le cose hanno preso una piega diversa».
La Repubblica, 21 luglio 2014 (m.p.r.)
Marina di Melendugno (Lecce). Le canne sono queste piante sottili e dinoccolate che spuntano dalle dune di sabbia e, oggi, che è giorno di maestrale, vengono strappate e sbattute in un mare cristallino. «Ecco, noi non possiamo lasciarci trascinare dall’opportunità, come se fossimo canne al vento. Non svendiamo il territorio. Abbiamo l’obbligo di tutelare il territorio e la nostra festa». Con queste parole qualche giorno fa l’arcivescovo di Lecce, monsignor Domenico D’Ambrosio, ha spiegato che l’Italia non è tutta uguale.
Ricordiamo le «ragioni di fondo del movimento sceso in piazza nel 2001», a Genova: un momento importante del movimento di contrasto alla nuova devastante fase globale della storia del capitalismo. Le ragioni di allora, i torti dello stato, l’impegno di oggi.
Il manifesto online, 20 Luglio 2014
In queste giornate per noi così evocative, con tredici anni difficili alle spalle, due pensieri si sovrappongono. Uno riguarda la dimensione politica del movimento nato per contrastare il pensiero unico neoliberista, l’altro le dinamiche repressive e di limitazione della democrazia. Questioni che si intrecciano e che sono oggi il fondamento di una nuova consapevolezza.
In questo 2014 con la cosiddetta crisi – giunta al suo settimo anno – che si rivela in realtà un sistema di governo e di dominio destinato a durare, può sembrare perfino superfluo rimarcare la fondatezza e l’attualità delle ragioni di fondo del movimento sceso in piazza nel 2001. Potremmo parlare a lungo del dominio della finanza, delle oligarchie sovranazionali che sottraggono democrazia, del neocolonialismo e del debito come leva di potere del forte contro il debole, della logica di guerra che ispira l’ideologia del libero mercato, cioè dei temi affrontati nei seminari, nei forum e nelle iniziative pubbliche di allora, ma possiamo limitarci a far notare che in questi anni si è avuta una radicalizzazione del pensiero unico e dei suoi strumenti di dominio.
E che le chiavi di lettura introdotte dal movimento contro il neoliberismo a cavallo del millennio sono oggi imprescindibili se vogliamo capire quel che davvero accade nell’economia globale e nel suo sistema di governo. Altro che “crisi”, altro che “crescita da rilanciare”: siamo più che mai di fronte alla necessità di uscire dalle gabbie mentali, sociali e politiche di un sistema destinato a sopravvivere a se stesso accrescendo il livello di autoritarismo.
Genova 2001 portò novità dirompenti anche nel modo di fare politica, d’essere attivi nella società. Imparammo in quei giorni a ragionare in termini globali, a lavorare con spirito di cooperazione, a prendere decisioni cercando di allargare il consenso, a favorire la partecipazione dal basso. Questa lezione di metodo è il tesoro più prezioso di cui ancora disponiamo, ed è da questo tesoro che dovremmo attingere nel guardare al domani, in una fase storica pervasa da un senso di sconfitta che rischia d’essere paralizzante.
Le migliori esperienze di movimento emerse in questi anni – pensiamo a Occupy Wall Street, agli Indignados spagnoli e anche del Movimento italiano per l’acqua pubblica — sono tutte caratterizzate da un alto livello di competenza, dalla centralità di nuove figure sociali ignorate dalla politica ufficiale (il precariato giovanile, i migranti), da un’originale attitudine al pluralismo, da una forte capacità di attrarre partecipazione popolare, da una tendenza a svilupparsi per vie orizzontali senza derive gerarchiche o leaderistiche.
Se una nuova convincente idea di sinistra non si è ancora affermata nella società e negli ambiti istituzionali, è anche perché in questi anni, nei vari tentativi messi in campo, si è caduti nelle antiche logiche del personalismo, delle forme verticali di organizzazione, soffocando di fatto la creatività diffusa e la voglia stessa di partecipare. E non si è investito abbastanza, a nostro avviso, nella concreta elaborazione di un credibile progetto politico di “conversione” dell’economia, in grado di dare risposte alle urgenze del momento – in testa la disoccupazione di massa — e d’essere “capace di futuro”.
Dicevamo che un altro pensiero preme in questi giorni in cui cade la ricorrenza del G8 genovese. Riguarda l’esercizio dei diritti civili, la qualità della democrazia italiana. E’ un punto sul quale non possiamo farci illusioni, ma che dev’essere dal centro della nostra attenzione. La prepotenza istituzionale, al limite dell’eversione, che caratterizzò le giornate del luglio 2001 è ormai consegnata alla storia, sotto forma di sentenze della magistratura.
Sotto questo profilo abbiamo ottenuto risultati di portata storica, con le condanne per la Diaz e per Bolzaneto e la sospensione dai pubblici uffici di altissimi dirigenti della polizia di stato. Risultati che certo non mitigano la sofferenza al pensiero che dieci persone sono state imprigionate con condanne pesantissime e sproporzionate, persone che stanno pagando sulla loro pelle – in maniera profondamente ingiusta e inumana – quella specie di compensazione che è stata concessa all’istituzione-stato, insieme con i mancati processi per l’omicidio di Carlo Giuliani e per il vilipendio del suo cadavere, a fronte della miserabile prova offerta in piazza, nelle scuole, nelle caserme e nei tribunali di Genova da numerosi funzionari e dirigenti delle forze dell’ordine.
Molti, troppi abusi e violenze fino all’omicidio hanno macchiato negli ultimi anni le varie forze di polizia per poter dire che la “lezione di Genova” è stata accolta ed elaborata dentro gli apparati di sicurezza. Forse è avvenuto il contrario. Si è cioè affermata, in risposta alle condanne di Genova e al fallimento del tentativo di ostacolare il corso della giustizia, un’evasione dai canoni della democrazia che rischia d’essere inarrestabile.
E’ dunque tutto perduto? Noi crediamo di no e pensiamo che valga ancora la pena coltivare l’idea che l’etica democratica dev’essere la bussola per tutte le istituzioni statali, anche per gli apparati di polizia. E’ una sfida che può essere affrontata a patto che ciascuno faccia la sua parte: in parlamento, nella società, fra gli stessi agenti coscienti della deriva antidemocratica che sono costretti a subire.
Le nostre proposte sono note: dai codici di riconoscimento sulle divise, alla revisione dei criteri di formazione degli agenti, all’abolizione della riserva dei posti in polizia per chi abbia prestato servizio nelle forze armate. Fino a una vera legge sulla tortura. Quindi una legge diversa da quella approvata in prima lettura al senato, un testo inadeguato perché non qualifica la tortura come reato specifico del pubblico ufficiale né prevede il principio della non prescrivibilità.
Ecco un concreto fronte d’impegno per le prossime settimane e mesi: una campagna per cambiare un testo di legge che pare pensato in un paese diverso dall’Italia, come se a Genova nel 2001 o dentro caserme e carceri anche negli anni seguenti, non fosse avvenuto niente. Come se i giudici non avessero scritto la parola tortura – senza poter applicare una pena congrua – nella sentenza di condanna per i fatti di Bolzaneto.
E’ il minimo che possiamo fare per chi ha vissuto sulla propria pelle ciò che una volta abbiamo chiamato l’eclisse della democrazia.
«La fine del Marcianum creato dal cardinale Scola fa affiorare un retroscena del 2008: la Regione governata da Galan dirottò, per quel progetto, 50 milioni di fondi della Legge speciale originariamente destinati al disinquinamento della laguna».
La Nuova Venezia, 20 luglio 2014 (m.p.r.)
«Dalla cessione del gruppo Pirelli ai russi per pochi euro all'annunciata vendita di Saipem da parte dell'Eni. Fino alle ultime vicende che riguardano Alitalia, Ilva e Indesit. Il governo italiano resta alla finestra mentre l'industria italiana finisce nelle mani dei grandi gruppi industriali stranieri».
Sbilanciamoci.info, 12 luglio 2014 (m.p.r.)
Per quanto riguarda il controllo delle imprese grandi e medio-grandi del nostro paese le notizie non sono più quelle di una lenta ritirata del capitale nazionale, ma di una rotta sostanzialmente disordinata. Nell’ultimo periodo abbiamo così assistito, tra l’altro, alla pratica cessione del gruppo Pirelli ai russi per pochi euro e del controllo del Monte dei Paschi, tra l’altro a investitori sudamericani, sempre per una manciata di soldi. Intanto l’Eni annuncia la vendita di quella grande impresa che è la Saipem e, naturalmente, dal momento che non si troveranno investitori nazionali disponibili, l’ambita preda finirà in mani lontane. Anche la annunciata e insensata privatizzazione di Fincantieri -un’impresa che da qualche tempo naviga sulla giusta rotta e che dovrebbe semmai essere aiutata ad espandersi ancora-, potrebbe portare qualche sgradevole sorpresa sul fronte della proprietà; con questo governo c’è sempre da aspettarsi il peggio.
Ma ora, in attesa di altri annunci della stessa natura, fanno notizia soprattutto le vicende di Indesit, Ilva, Alitalia.
Per quanto riguarda quest’ultima, l’epilogo della vicenda sembra vicino, con i sindacati posti di fronte alla drammatica alternativa di accettare, e in fretta, dei pesanti tagli all’occupazione o vedere a questo punto la chiusura definitiva della compagnia; non esistono in effetti altre soluzioni, di fronte tra l’altro ad un interlocutore, quello arabo, che, sapendo di avere il coltello dalla parte del manico, ha avanzato richieste molto pesanti anche alle banche, tra l’altro indurendo le sue richieste nei loro confronti diverse volte negli ultimi mesi. Con una conclusione in qualche modo positiva della vicenda si chiuderebbe peraltro uno scandalo, che dura da sessanta anni, di spreco di risorse pubbliche, di immistione senza freni della politica più deteriore nelle vicende della compagnia, di gravi incompetenze di gestione.
Per quanto riguarda l’Indesit, si è chiusa una falsa asta tra produttori americani, tedeschi e cinesi per la conquista della compagnia. In realtà, si sapeva da tempo che avrebbe vinto la statunitense Whirlpool, anche se, ad esempio, l’offerta cinese era economicamente migliore e quella tedesca politicamente più opportuna. Si sussurra, in effetti, che l’attuale amministratore delegato della società marchigiana fosse da tempo in relazioni di amicizia con il responsabile europeo della stessa Whirlpool e che i due, di fronte anche ad azionisti disorientati e passivi, si fossero messi d’accordo sulla transazione già da molto tempo. Bisognerà stare almeno attenti, ora, perché la nuova proprietà rispetti le decisioni di quella vecchia in merito ai recenti impegni assunti in termini di investimenti ed occupazione, anche se, di nuovo, con l’attuale governo non c’è da sperare molto in questo senso.
Ma indubbiamente la partita più rilevante per il paese si gioca in questo momento sull’Ilva. Le notizie di queste ore parlano di una garanzia da parte del governo verso il sistema bancario perché continui almeno per il momento ad alimentare le casse della società ormai al limite dell’asfissia; di una pratica defenestrazione di Ronchi, sub-commissario per le questioni ambientali, in pratica costretto a dare le dimissioni; del mancato e parallelo rifiuto, almeno per il momento, dello stesso governo ad utilizzare gli 1,8 miliardi di euro, a suo tempo sequestrati dalla magistratura, per il risanamento ambientale e per i nuovi investimenti necessari alla ripresa dell’azienda. Intanto proseguono le trattative, sembra esclusive, con Arcelor Mittal per una cessione della compagnia.
Le notizie che arrivano non sono dunque confortanti. Il governo, con una rappresentante della Confindustria come la Guidi nella sua compagine, cerca di dare il minor fastidio possibile ai capitalisti nostrani, trattando con i guanti gialli la stessa famiglia Riva; intanto esso, apparentemente, si disinteressa del risanamento ambientale, mentre a Taranto si continua a morire e ad ammalarsi e mentre il calo recente delle emissioni nocive sembra dovuto in buona misura alla chiusura, più o meno momentanea, di una parte degli impianti; d’altro canto, si è scelto per l’intervento nel capitale l’interlocutore sbagliato, quella indiana Arcelor Mittal che è già fortemente presente in Europa, dove ha già una capacità produttiva largamente in eccesso. Un suo intervento nel capitale dell’Ilva, motivato quindi semplicemente con il tentativo di impedire l’ingresso nella compagine azionaria dei concorrenti cinesi o coreani, significherebbe probabilmente un taglio abbastanza drastico degli impianti e conseguentemente dell’occupazione. La vicenda continua a svolgersi peraltro con il possibile ed ulteriore intervento della magistratura.
Auspichiamo da tempo che, a difesa degli interessi dei lavoratori e dello stesso sviluppo dell’economia nazionale, che nella nuova compagine azionaria entri, in posizione di rilievo, una qualche entità pubblica, la Cassa Depositi e Prestiti o lo stesso Tesoro. Ma c’è da sperare qualcosa in tale direzione visto l’orientamento fanaticamente liberista dell’attuale governo e avendo la sensazione che ai posti di comando siano presenti molti dilettanti allo sbaraglio?
Come riuscire a distruggere, frettolosamente e rozzamente, i principi della democrazia borghese del XIX secolo e quella popolare del XX. Un'analisi chiara e sintetica del pasticcio renzusconiano.
Il manifesto, 17 luglio 2014Una valanga di 7000 emendamenti può sembrare un ostacolo insormontabile per la riforma Renzi-Boschi. Ma è un’illusione. Regolamento e prassi conoscono raffinate tecniche anti-ostruzionistiche. Per le regole in atto, un ostruzionismo di minoranza che blocchi l’assemblea non è possibile. Siamo di fronte a qualche giorno di lavoro parlamentare, niente che non si possa gestire accorciando (di poco) le vacanze. A meno che la maggioranza riformatrice non si dissolva. Per questo è decisiva la tenuta del patto Renzi-Berlusconi, difeso dai due stipulanti a spada tratta, accada quel che accada.
In qualche misura l’esito rimane incerto, essendo stata pura rappresentazione teatrale la soporifera assemblea di Renzi con i parlamentari Pd, e rimanendo alta la febbre in Fi. C’è da sperare che la migliore politica ritrovi fiato e iniziativa. Perché il testo approvato in commissione prefigura un’architettura istituzionale distorta e priva di equilibrio. Si è parlato di blando autoritarismo, si è richiamato il progetto Gelli-P2. Di certo, si può temere una riduzione degli spazi di democrazia.
Come? Vediamo alcuni punti salienti. Azzeramento della rappresentatività e del peso politico-istituzionale del senato con il carattere non elettivo e il taglio dei poteri; riduzione della camera a obbediente braccio armato del governo attraverso una legge elettorale che riduce la rappresentatività, taglia le voci in dissenso, crea una artificiale maggioranza numerica, garantisce la fedeltà al capo attraverso le liste bloccate; potere di ghigliottina permanente del governo, che può strozzare a suo piacimento il dibattito imponendo il voto a data certa su un testo proposto o comunque accettato dal governo; innalzamento del numero di firme richiesto per l’iniziativa legislativa popolare a 250.000 (ora 50.000); innalzamento delle firme richieste per il referendum abrogativo a 800.000 (ora 500.000).
Un colpo grave ed evidente alla rappresentanza politica da un lato, alla partecipazione dall’altro. Sono poco più che una foglia di fico le disposizioni che rinviano ai regolamenti parlamentari la garanzia dell’iniziativa legislativa popolare, o riducono in qualche misura il requisito del quorum strutturale per il referendum. Assai più contano altri effetti, magari indotti e non immediatamente visibili, delle modifiche proposte. Ad esempio, il Capo dello Stato viene eletto da deputati e senatori. Ma la riduzione drastica del numero dei senatori, rimanendo immutato quello dei deputati, lascia in sostanza la elezione del capo dello stato nelle mani della sola camera, consegnata alla maggioranza di governo dalla legge elettorale, con l’aggiunta di una manciata di sindaci e consiglieri regionali amici. Basterà aspettare il nono scrutinio per avere un capo dello stato di maggioranza, rimanendo mero flatus vocis che sia rappresentante dell’unità nazionale, e garante della costituzione. E non dimentichiamo che il capo dello stato presiede il Csm, organo di autogoverno della magistratura. E che per gli stessi componenti elettivi del Csm vale il discorso appena fatto. Mentre i tre membri della Corte Costituzionale eletti dalla camera sono rimessi alla scelta della maggioranza garantita dal premio, con qualche sostegno sottobanco che non si nega a nessuno. Per non dire della revisione della Costituzione ancora rimessa alla maggioranza di governo della camera, e agli equilibri politici del tutto occasionali e imprevedibili del senato. In quali mani finiranno diritti e libertà? La Costituzione come statuto di una maggioranza?
Una struttura priva di equilibrio. Dove sono i checks and balances? Invece, molto altro si poteva fare. Come ad esempio l’impugnativa ex ante davanti alla Corte Costituzionale di leggi non limitata alla legge elettorale, da parte di una minoranza parlamentare (come in Francia); o il ricorso diretto del cittadino alla stessa Corte in materia di diritti e libertà (Germania e altri paesi); o il referendum popolare approvativo automatico in caso che l’iniziativa legislativa popolare venga disattesa dal legislatore (Svizzera); o l’anticipo del giudizio di ammissibilità della Corte sul referendum in base all’avvenuta raccolta di un numero inferiore di firme rispetto al totale di quelle richieste (ad esempio, centomila), in modo da consentire ai promotori di raccogliere le restanti firme a quesiti ammessi.
Né va dimenticato il contesto più generale, e l’indebolimento di partiti politici, sindacati, associazioni. Si pensi alla cancellazione del finanziamento pubblico, alla diatriba sui contratti nazionali di lavoro, al rifiuto di concertazione. La stessa ascesa di Renzi è stata la negazione della funzione tipica e propria di un partito politico. In sostanza, nelle primarie Renzi ha usato il voto dei non iscritti contro il voto degli iscritti, per conquistare il partito degli iscritti.
Un tempo, se qualcuno voleva metter mano alla costituzione si parlava di ingegneria istituzionale. Ma almeno si presupponeva una laurea. Capiamo bene che oggi è chiedere troppo. Ma almeno dateci un geometra o un capomastro.
Sbilanciamo l'Europa . Il trentennio neoliberista ha divorato la democrazia liberale, facendo carta straccia dei diritti sociali, lasciando spadroneggiare la finanza e riducendo i poteri degli Stati. La questione democratica si ripropone con la partecipazione e la resistenza contro l'assolutismo dei privilegi.
Sbilanciamoci.info, 17 luglio 2014
Di recente, il sociologo tedesco Wolfgang Streeck ha argomentato che la fine del capitalismo può venire dalla debolezza, piuttosto che dalla forza, dell’opposizione anti-neoliberista.Lasciato a se stesso, senza limiti, l’ingordigia del capitalismo porterebbe infatti alla distruzione (al momento in stadio avanzato) di quelle risorse umane a materiali di cui esso stesso ha bisogno per sopravvivere. Un argomento simile si potrebbe articolare anche rispetto alla Unione Europea.
All’indomani di elezioni che, per (mancanza di) partecipazione ed esiti hanno mostrato tutta la insofferenza dei cittadini europei rispetto a questa Europa, il Partito Popolare Europeo (principale perdente in termini di elettori in uscita) e, quel che è peggio, un Partito Socialista Europeo che non è riuscito a presentarsi come alternativa, procedono come se nulla fosse stato: con il sostegno bi-partisan al Popolare Jean-Claude Juncker—Mister Crisi, nonché Mister Austerità—alla presidenza della Commissione Europea e l’elezione (con accordo di rotazione Pse-Ppe di Martin Schultz, Socialista criticato persino in patria per un peregrino poster elettorale dove si leggeva «solo se voti per Martin Schultz e l’Spd può un tedesco diventare presidente della Commissione Europea».
In più, esponenti di entrambi i partiti vantano la salda maggioranza europeista nel parlamento europeo—rimuovendo la presenza, in quella presunta maggioranza, di presenze imbarazzanti e ben poco europeiste, da Forza Italia di Silvio Berlusconi al Fidesz di Victor Orban. Ppe, Pse e chi con loro sembrano avere fretta di dimenticare che, secondo i sondaggi dell’Eurobarometro, la percentuale dei cittadini che ha fiducia nella Ue è scesa dal 57% nel 2007 al 31% nel 2013.
La percentuale di cittadini che ha una immagine positiva dell’Europa è scesa nello stesso periodo dal 52 al 31% e quella di coloro che sono ottimisti rispetto ai futuri sviluppi della Ue è crollata dai due terzi alla metà della popolazione. E che, se questi sono i valori medi, la situazione è di gran lunga più drammatica nei paesi più colpiti dalla crisi. Questi dati riflettono una profonda crisi di responsabilità della versione politica del neoliberismo, nella quale la Ue è considerata principale promotrice. NeL 1970, Habermas aveva collegato la crisi economica ad una crisi di legittimità, prodotta dalla incapacità dello stato di risolvere i problemi del mercato. Se Habermas si riferiva allo stato interventista della versione fordista, nel capitalismo oggi l’effetto di delegittimazione delle istituzioni politiche viene da una crisi di responsabilità legata alla rinuncia delle istituzioni politiche di garantire fondamentali diritti di cittadinanza. In estrema sintesi, mentre negli anni ’80 gli Stati furono accusati di spendere troppo e si allontanarono dalle politiche economiche keynesiane di pieno impiego, il post-fordismo ha portato a una riduzione del welfare e a un aumento delle disuguaglianze sociali.
Deregolamentazioni, privatizzazioni hanno rappresentato i principali indirizzi di policy giustificati dal bisogno di ristabilire l’efficienza del mercato. Tali interventi non hanno aiutato a migliorare la concorrenza, ma piuttosto incentivato la concentrazione del potere nelle mani di poche multinazionali, con una conseguente crisi economica che affonda le sue radici non nella scarsità o nell’inflazione, ma piuttosto in un processo di mancata redistribuzione. Dal 2008, il debito pubblico è aumentato, non a causa di investimenti in servizi sociali o a supporto di gruppi sociali vulnerabili, ma piuttosto a causa di ingenti iniezioni di denaro pubblico a favore di banche e istituzioni finanziarie in dissesto finanziario che avevano operato drastici tagli sulle tassazione dei capitali. Questo sviluppo nelle interazioni fra stato e mercato si è trasformato in corruzione della democrazia rappresentativa attraverso la sovrapposizione fra potere economico e politico. Dal punto di vista del sistema politico, questo comporta una rinuncia di responsabilità da parte delle istituzioni rappresentative di fronte alle istanze dei cittadini.
Contro le promesse neoliberiste di difesa del mercato dallo stato, studiosi di varie discipline focalizzano l’attenzione su due elementi. Da un lato, la separazione fra economia e politica è presente raramente, i governi devono infatti rimediare la presenza di fallimenti del mercato, e i mercati hanno bisogno di leggi. Dall’altro, la capacità degli stati di garantire i diritti dei cittadini è drasticamente ridimensionata dalle politiche di privatizzazione, liberalizzazione, e deregolamentazione che hanno permesso la concentrazione del capitale attraverso legislazioni favorevoli. Gli stati sono accusati di abrogare i diritti sociali al fine di aumentare i profitti e le rendite di pochi privilegiati, poiché infatti il neoliberismo implica l’abolizione di molte leggi e regolamentazioni orientate al controllo dell’economia. Inoltre, il neoliberismo si è fondato – e, come Colin Crouch ha sottolineato, è stranamente sopravvissuto alla sua stessa crisi– soprattutto attraverso il trasferimento di un’ampia quantità di denaro dalle multinazionali ai politici. Liberalizzazioni, deregolamentazioni e privatizzazioni hanno infatti portato a corruzione e lobby selvagge, anche a livello europeo. Allo stesso tempo così come le multinazionali comprano le decisioni politiche, emerge il tentativo di presentare queste stesse decisioni come «apolitiche», con l’obiettivo di legittimarne il risultato come un benigno intervento di regolamentazione che l’UE ha cercato di raggiungere.
Lo spazio per le decisioni politiche è stato negato da politici di differenti bandiere sulla base di un’assunta predominanza di «logiche di mercato», soprattutto nel caso dei mercati internazionali. L’obiettivo democratico di ottenere fiducia da parte dei cittadini è stato, nei fatti, retoricamente sostituito dalla ricerca di una «fiducia del mercato», che è ottenuta anche a spese di una insensibilità verso le istanze dei cittadini. La responsabilità degli stati democratici di fronte ai loro cittadini è stata rimossa in nome del rispetto di condizionalità esterne – incluse quelle imposte dall’Ue agli Stati per l‘accesso a prestiti– che hanno imposto tagli alla spesa pubblica, con conseguenze drammatiche in termini di violazioni dei diritti umani fondamentali quali diritto al cibo, alla salute, e all’abitazione. La responsabilità democratica è pertanto ridotta dall’irresponsabilità delle organizzazioni internazionali che impone queste condizionalità, mettendo a repentaglio le scelte politiche.
Senza controlli e limiti, la crisi di responsabilità che investe le istituzioni politiche ai vari livelli in Europa è destinata a incancrenirsi. È importante la capacità di opporsi a queste visioni di Europa da parte di quelle forze che — anche nel parlamento (da Siryza a Podemos, ai Verdi e anche, nonostante le stolide alleanze, il M5s — possono essere portatrici di un’altra Europa
Dalle storie degli operai la conferma: innovare si può, ma tornando all'indietro; cambiare verso si può, ma all'indietro; fare si può, ma di masole in peggio.
Il manifesto, 10 luglio 2014
Non voglio offrire statistiche e sguardi di insieme, ma raccontare una storia, una vicenda come tante, esemplare, ritengo. Famiglia proletaria, nell’ex capitale: del Ducato di Savoia, del Regno d’Italia, dell’automobile, della Fiat. Il padre operaio specializzato giunto al reparto progettazione auto, aristocrazia operaia, insomma, che al lavoro ha sempre guardato con rispetto e persino con amore; qualche sciopero, ma via via sempre meno nel corso dei decenni; una moglie con un lavoro non qualificato, due figli, che fanno le scuole tecniche.
Il maschio frequenta l’Istituto per Geometri, ma comincia a frequentare i cantieri, nel tempo libero e nelle vacanze, si impratichisce del lavoro, e quando finisce trova subito un impiego. Lavora sodo negli anni seguenti, diventa capocantiere, per la ditta che lo ha assunto, mette su famiglia: compra una casetta, col mutuo, fuori città, nel luogo dove ha sede la sua ditta: casa e bottega. Come suo padre vive per il lavoro, lo ama, si impegna, e non bada a straordinari.
Il babbo è orgoglioso, ha fatto studiare il primogenito, che è salito nella scala sociale; ma c’è di più. Il nostro operaio specializzato ha una seconda figlia, che fa le scuole commerciali, prende il suo diploma, e vuole a tutti i costi andare all’università. Il babbo le dice d’accordo, ma non possiamo permettercelo. E lei si mantiene lavorando per tutto il periodo degli studi. E dopo la laurea — ottenuta nei quattro anni, e bene — continua, avrebbe aspirazioni intellettuali, ma sa di non poterselo permettere; conserva la passione per i libri, per lo studio, e rifiuta le proposte di continuare nella vita degli studi, che il suo relatore di tesi le fa.Le riesce impossibile conciliare quella dimensione, a cui pure terrebbe, con la vita reale.
Una vita reale nella quale è passata ormai dai lavoretti nelle fiere o come aiuto parrucchiera, ad assunzioni a tempo determinato in un’azienda, con rinnovi semestrali.
È seria come tutti in famiglia: sarà l’etica del lavoro tipica della cultura piemontese? E i datori di lavoro le rinnovano il contratto, fino a che si stabilizza: è una lavoratrice che si fa sfruttare fino in fondo. Piega la testa, ed è brava: perciò, a un certo punto il lavoro a tempo indeterminato arriva. Il miraggio diviene realtà. E questo le fa credere che può, come suo fratello, comprare un piccolo appartamento, con un mutuo trentennale.
Ma fa fatica, troppa fatica, i costi aumentano mese dopo mese, le utenze, le spese condominiali, il cibo, i detersivi, e il suo compagno che ha messo su un’attività nel momento sbagliato, con la crisi galoppante, non ce la fa ad aiutarla. Anzi: chiede un fido bancario, e le rate strozzano lui e lei, che intanto vende gli oggettini d’oro, salta il pasto di mezzodì e usa i buoni pasto della ditta per fare la spesa a fine settimana. In casa i pranzi sono ridotti a farinacei, patate e, di rado, proteine, a cui provvedono perlopiù i genitori nei pasti domenicali, quando i due “giovani” (ormai entrambi sui 40) ritornano nelle dimore di nascita; le mamme li provvedono con cibarie, olio, caffè. Una vita di stenti. E lei sa di doversi considerare “fortunata” con i suoi circa 1.100 euro mensili, anche se alla quarta settimana non riesce ad arrivare, e cerca occupazioni per arrotondare. Va a fare le pulizie in una dimora privata dopo l’ufficio un paio di volte alla settimana.
Intanto, la crisi ha colpito il fratello maggiore: la ditta ha perso mese dopo mese, le commesse in precedenza numerose. E un anno e mezzo fa ha chiuso. Era una piccola, ma fiorente azienda. Kaputt. Il geometra quarantenne viene messo con gli altri dipendenti in cassa integrazione: finita la cassa, comincia a cercare. Prima fa il giro dei cantieri, poi manda curricula alle ditte edili: non riceve risposte. Quando gliene danno sono sconsolate e sconfortanti.
Spulcia gli annunci sui giornali: ma settimana dopo settimana allarga il raggio della sua ricerca. Cerca qualunque cosa. Va a scaricare frutta ai mercati generali, quando capita. E continua a salir l’altrui scale. A bussare a porte che rimangono ostinatamente chiuse. I genitori condividono le ambasce del figlio, e le difficoltà della figlia. Sono impotenti. E probabilmente il padre pensa che suo figlio che era la prova del miglioramento della condizione familiare, ora testimonia un fallimento, una sconfitta. Ma arriva infine la buona notizia: forse il figlio sarà “preso”, ossia assunto. In una ditta metalmeccanica. Come operaio semplice, manovale. Ma avrà un salario. Basso, poco più di 900 euro trattandosi di un primo impiego, ma pur sempre un salario.
Infine, non sarà superfluo aggiungere che questo posto, se sarà davvero confermato, è stato ottenuto solo grazie al fatto che all’Ufficio del personale della ditta c’è qualcuno che è amico di un amico che è amico di…Insomma, anche per essere assunti, come operaio generico, in una grande azienda del Nord, occorre una raccomandazione.
Ma questo è solo un dettaglio: siamo pur sempre in Italia. Quello che conta è la forza simbolica di questa piccola storia, una come tante. Sentiamo parlare di “cambio di passo”, di mobilità, di riforme, di modernità, di ascensore sociale, della generazione di Telemaco che sostituisce quella di Ulisse (che sciocchezza, Renzi!): ebbene, l’ascensore quando funziona, va in discesa.
A leggere le cronache di questi giorni (e relativi commenti) sembra esistere soltanto la responsabilità penale. Un fatto diventa censurabile unicamente se viene aperta un'inchiesta da parte della Procura. E, parallelamente, se l'inchiesta penale viene archiviata, qualsiasi comportamento acquisisce una "patente" di correttezza. Ma non è cosi. Non può essere cosi. Non tutto (fortunatamente) ha rilievo penale. Ci sono, però, comportamenti che ugualmente sono (e dovrebbero) essere censurabili (e censurati), almeno sul piano politico e, perché no, etico.
Perché succede? Elementare Watson spendono nelle Grandi opere inutili e dannose, negli armamenti, nei favori alle banche autrici della crisi, - e perciò mancano le risorse per le cose necessarie.
Il Fatto Quotidiano, 10 luglio 2014
La morbosa politica “culturale” dei Grandi Eventi rende praticamente inimmaginabile che un ministro o un sindacotrovino conveniente annunciare una campagna di manutenzione ordinaria a tappeto: troppo poco, troppo grigio, troppo umilmente anonimo. Ma il problema è ancora più profondo, e riguarda la mentalità indotta dal consumismo di massa nella sua fase estrema e (chissà) finale: è l’idea stessa della conservazione, della cura quotidiana degli oggetti ad essere uscita dal nostro orizzonte mentale. Se questo è vero per il nostro stesso corpo, lo è ancora di più per il corpo delle nostre città.
Non è difficile oggi capire l’ardimento visionario con cui nacque, per esempio, Venezia: difficile è capire il lavoro quotidiano della Repubblica Serenissima, che incessantemente ha curato la Laguna ogni giorno di ogni mese di ogni anno di ogni secolo. Eppure, senza quel lavoro quotidiano non avremmo Venezia. Oggi, quando va bene, la manutenzione si identifica con l’intervento eccezionale (vedi il Mose): meglio se spettacolare, e meglio ancora se costosissimo.
Nulla potrà ridare Salvatore ai suoi cari, ma noi questa lezione dobbiamo impararla: prima che non solo Napoli, ma tutte le nostre città storiche ci cadano, letteralmente, sulla testa.
«». Il granello di sabbia
Per andare oltre le semplificazioni tipiche delle rappresentazioni mediatiche della violenza sessista che tendono a eluderne contorni, portata e ragioni, conviene smontare alcuni pregiudizi, stereotipi, luoghi comuni. Anzitutto, il sistema gerarchico di relazione fra i generi, quindi il sessismo e la violenza sulle donne, non sono l’esito fatale di qualche fatto naturale (per esempio, l’aggressività maschile, la passività femminile), bensì di un processo storico e di una costruzione sociale e culturale. Vi sono società che mai hanno conosciuto il patriarcato o altre forme di dominio-appropriazione delle donne. Il che dimostra che la natura non è determinante. Vi sono state e vi sono società considerate “arretrate” che ignorano non solo la gerarchia ma anche una rigida distinzione in base al sesso detto naturale(1).
In secondo luogo, il sistema di dominio, discriminazione e violenza sessisti non rappresenta un rigurgito dell’arcaico o un’anomalia della modernità. Anche se eredita credenze, pregiudizi, strutture, simbologie e mitologie del passato, appartiene al nostro tempo e al nostro ordine sociale ed economico. Del tutto infondato, quindi, è il dogma secondo il quale la modernità occidentale sarebbe caratterizzata da un progresso assoluto e indiscutibile nel campo delle relazioni di genere, mentre a essere immerse nelle tenebre del patriarcato sarebbero sempre le altre. Per dirne una, nell’ultimo rapporto (2013) sul Gender Gap del World Economic Forum (2), le Filippine figurano al 5° posto su scala mondiale per parità fra i generi (dopo Islanda, Finlandia, Norvegia e Svezia), mentre l’Italia è solo al 71°, dopo la Cina e la Romania (3).
Insomma, conviene diffidare degli schemi evoluzionisti e dei facili ottimismi progressisti: la discriminazione e/o la violenza in base al genere – come quelle in base alla “razza”, alla classe, all’orientamento sessuale - non sono necessariamente residuo del passato, segno di arretratezza o di modernità incompiuta, destinato a dissolversi presto, bensì un tratto che appartiene intrinsecamente anche alla tarda modernità (o alla modernità decadente, si potrebbe dire). In più, oggi, particolarmente in Italia, il neoliberismo, le privatizzazioni, la crisi economica, le politiche di austerità e le pesanti ricadute sull’occupazione e sul Welfare State hanno significato per le donne arretramento in molti campi.
Perciò sono molto scettica rispetto a quei femminismi deboli che si limitano a promuovere il progresso individuale e la meritocrazia in ambito femminile. Penso, invece, che la lotta per trasformare l’ordine fondato sulla gerarchia di genere debba essere collettiva e coniugata con quella per la giustizia economica e l’uguaglianza sociale, civile, politica. Infine: se è vero, come ha scritto più volte Etienne Balibar, che la comunità razzista e la comunità sessista si identificano sostanzialmente, allora la battaglia contro il sessismo è inscindibile da quella contro il razzismo. Ma per articolare il tema della liberazione delle donne con quello dei diritti delle/dei migranti, occorre un pensiero critico complesso, affrancato da semplificazioni, cliché, luoghi comuni, disposto a mettere in discussione alla radice anche la tradizione cui si appartiene(4).
Note
1 In proposito, riporto un esempio, tratto dal mio La Bella, la Bestia e l’Umano (Ediesse, Roma 2010). Per gli Inuit (uno dei due gruppi principali che costituiscono gli “Eschimesi”), ogni essere umano è la reincarnazione di un certo antenato, di cui alla nascita l’individuo assume il nome-anima: quindi anche l’identità sessuata e la personalità sociale, qualunque sia il proprio sesso “naturale” e quello dell’antenato/a. Solo alla pubertà egli/ella torna a “riprendere” il sesso con cui è nato/a.
2 Il Gender Gap è misurato in base a quattro criteri principali: salute, formazione, lavoro e partecipazione al sistema politico. In particolare, l’Italia è al 65° posto per il livello di scolarizzazione, al 72° per il diritto alla salute, al 44° per l’accesso al potere politico e al 97° per la partecipazione alla vita economica.
3 Ricordo che la maggior parte dei paesi europei si trova nelle prime trenta posizioni, su 136 paesi.
4 Qui posso solo enunciare il tema. Per un’analisi approfondita, si può vedere il mio, già citato, La Bella, la Bestia e l’Umano.
Annamaria Rivera è docente di antropologia sociale all’Università di Base, editorialista, scrittrice e saggista, una vita da attivista dei movimenti
«project financing degna del più radicale dei No-Tav»Il Fatto Quotidiano, 9 luglio 2014
Un fantasma si aggira per l’inchiesta sul Mose: è l’affare della nuova autostrada Orte-Mestre, nota anche come Nuova Romea. Costerà quasi dieci miliardi di euro, e dagli interrogatori si capisce che è il vero affare che calamita le attenzioni. Claudia Minutillo, ex segretaria del governatore veneto Giancarlo Galan, passata come manager al gruppo Mantovani, racconta che il suo nuovo capo, Piergiorgio Baita, non pensava ad altro. Quando li arrestano, nella primavera 2013, non c’è ancora il sospirato via libera del governo, che arriverà l’8 novembre 2013, in una riunione del Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) presieduta dal premier Enrico Letta. Il 24 aprile 2012 Minutillo chiama Baita per parlare della riunione Cipe di tre giorni dopo. Sintesi giudiziaria della chiamata: “Baita voleva sapere se ci fosse la Romea e comunque chiederà ad Albanese... omissis...”.
Bisogna tirare il filo per vedere dove porta. Gioacchino Albanese, detto Nino, era già famoso negli anni 70 come braccio destro di Eugenio Cefis, poi è stato manager dell’Eni, coinvolto nello scandalo Eni-Petromin (1980), e nel 1981 è risultato iscritto alla loggia P2 con la tessera numero 913. Oggi ha 82 anni e ricopre ancora un ruolo decisivo: è amministratore delegato della Ilia Spa di Genova, promotrice della Orte-Mestre. Si tratta di un , il modo più moderno di scavare buche nei conti dello Stato: in apparenza il privato costruisce un’opera pubblica a sue spese e recupera l'investimento incassando i pedaggi, in questo caso per 49 anni.
Il ministro dell’Economia dell’epoca, Fabrizio Saccomanni, era contrario. Baita soffriva. Minutillo spiega: “L’Economia, il Tesoro, si opponeva a questa cosa qua, quindi veniva... è stata rinviata più volte. Baita teneva i contatti con il dottor Albanese del gruppo di Bonsignore, e poi avevano dentro al ministero le persone”. Il capo di Albanese è Vito Bonsignore, ex andreottiano diventato imprenditore con la liquidazione da 2-300 milioni che gli dette Marcellino Gavio per farlo fuori dall’Autostrada Milano-Torino e legatissimo all’ex senatore Luigi Grillo e a Sergio Cattozzo i due uomini dell’Ncd arrestati a Milano nell’inchiesta Expo. Europarlamentare fino allo scorso 25 maggio, Bonsignore è stato insignito, durante Mani pulite, di una condanna definitiva a due anni per corruzione. Oggi è tra i fondatori del partito di Angelino Alfano e soprattutto di Lupi. Bonsignore ha buone amicizie. Il presidente della Ilia a cui il governo sta affidando l’autostrada da 10 miliardi è Giovanni Berneschi, momentaneamente agli arresti per lo scandalo della Carige, banca che supporta Bonsignore nella Orte-Mestre. Ma nessuno batte ciglio. Anzi. La delibera Cipe dell’8 novembre scorso è ancora segreta. Non è dato conoscere il piano economico-finanziario su cui si basa la previsione che i proventi del traffico ripagheranno l’opera. Sicuramente c’è una clausola secondo la quale ricavi inferiori al previsto comporteranno l’impegno dello Stato a pagare la differenza. Insomma, il rischio d’impresa è tutto a carico dei contribuenti, ed è per questo che delibere, piani e contratti con cui si impegnano miliardi pubblici non vengono pubblicati.
Vasco Errani, che è di Ravenna, attacca: “La scelta delle opere da fare non è compito dei privati”. Ma poco tempo dopo lo stesso Errani si batterà come un leone per chiedere al governo lo sblocco del della Ilia. Come mai?
Nella rissa Bonsignore e Lunardi sfoderano la loro abilità. Racconta Minutillo: “Furono bravissimi, misero subito d’accordo cinque presidenti di Regione”. L’intesa arriva nel 2005 e prevede lavoro per tutti: per la Mantovani nelle tratte venete, per le coop rosse in Emilia e via spartendo. Il 27 luglio 2005 l’Anas dà il via libera al progetto di Bonsignore. Due settimane prima il regista della Orte-Mestre aveva discusso con il suo amico Massimo D’Alema le modalità di partecipazione alla scalata alla Bnl della Unipol di Gianni Consorte. L’ex premier riferisce al manager presunto rosso: “Voleva dirmi... voleva sapere se io gli chiedevo di fare quello che tu gli hai chiesto di fare, oppure no [ridacchia]... Che voleva altre cose, diciamo... a latere su un tavolo politico. [...] Ti volevo informare che io ho... ho regolato da parte mia”. I magistrati di Venezia stanno portando alla luce i contesti trasversali e opachi con cui la politica spartisce denaro pubblico tra le imprese amiche.
«Riforme. Del bicameralismo si è discusso abbastanza. Con una mossa mai vista, Napolitano interviene sui lavori del senato. In aiuto al premier e sostituendosi al presidente del senato che era stato chiamato in causa». Tirannide o consolato? comunque dai principi della democrazia liberal-borghese (fra poco è il 14 luglio) e dalla Costituzione italiana, siamo fuori.
Il manifesto, 8 luglio 2014
Che si debba correre lo sostiene Renzi, eppure il presidente della Repubblica assicura di parlare «senza pronunciarsi sui termini delle scelte in discussione». Ma i termini, adesso, sono proprio questi: bisogna necessariamente chiudere al senato entro la pausa estiva, o c’è il tempo di correggere l’esecutivo? Non c’è tempo, dice il Quirinale. Secondo il Colle bisogna evitare «ulteriori spostamenti in avanti dei tempi di un confronto che non può scivolare, come troppe volte è già accaduto, nell’inconcludenza».
A Napolitano si erano rivolti in molti in questi giorni. Ma per la ragione opposta: invitavano il presidente, garante di tutti, a tutelare la separazione di ruoli tra il parlamento e l’esecutivo, specie in materia di leggi di revisione costituzionale. La legge in discussione, in particolare, è stata scritta direttamente dal presidente del Consiglio. Gli emendamenti accolti sono stati tutti discussi a palazzo Chigi. E i tempi della discussione sono quelli che vuole il capo del governo, che da marzo sta andando avanti di ultimatum in ultimatum. Tant’è che un gruppo di senatori, i cosiddetti «dissidenti» di tutti i partiti, era pronto a chiedere al presidente del senato di esprimersi, e di assegnare alla commissione e all’aula un congruo tempo di approfondimento. Chiedevano alla seconda carica dello stato, Grasso, di frenare la corsa di Renzi. È stato proprio in questo momento che ha deciso di intervenire la prima carica, Napolitano. Per accelerare.
La nota del Colle sposa in tutto l’impostazione renziana, e abbonda di riferimenti per dimostrare che ormai del bicameralismo paritario e «delle sue ricadute negative sul processo di formazione delle leggi» si è discusso abbastanza. Il presidente dice che c’è stata «un’ampia apertura di dibattito» e che si è «prolungata notevolmente rispetto agli annunci iniziali», cioè la promessa di Renzi di chiudere al senato in un mese, entro lo scorso 25 maggio. Non solo: il capo dello stato si spinge a valutare la quantità di audizioni che sono state svolte in commissione affari costituzionali al senato — «larghe audizioni» — e non trascura un giudizio sul numero di correzioni suggerite dai relatori al testo del governo (con l’ok del governo) — «ricca messe di emendamenti».
La cronaca parlamentare del Colle spalanca al disegno di legge Renzi-Boschi le porte dell’aula del senato. Che ha bisogno di accogliere la «grande riforma» renziana tra la fine di questa settimana e l’inizio della prossima, al massimo. È questa la condizione indispensabile per provare a mandare gli italiani, e i parlamentari, in vacanza con un primo passaggio compiuto sulle riforme costituzionali. È la prima emergenza nazionale? Non pare, ma a Renzi importa così e il parlamento, sezione distaccata di palazzo Chigi, deve adeguarsi. Ieri sera c’è stata l’ennesima riunione dei senatori del Pd, anche questa dedicata non a discutere l’impostazione governativa ma a richiamare all’ordine i dissidenti. Tant’è che Renzi non si è neanche presentato: non c’era nulla da spiegare. Nessuna risposta neanche sulle questioni rimaste senza soluzione, quelle che anche i renziani ammettono che andranno registrate.
osì è ancora previsto che il presidente della Repubblica sia eleggibile da un solo partito, che i deputati non diminuiscano di un’unità (vanificando il decantato «risparmio» sul senato), che un sindaco o un consigliere regionale nei guai con la giustizia possano trovare riparo nell’immunità senatoriale… Si correggerà? E come? Solo a chiederlo si finisce tra i frenator. La fretta è persino maggiore di quella che guidò alla camera l’approvazione della legge elettorale, quella che adesso tutti vogliono cambiare. O in altre legislature ispirò le riforme costituzionali dell’articolo 81 e di tutto il Titolo V, due fallimenti riconosciuti.
Da ieri sera il «patto del Nazareno» tra Renzi e Berlusconi è più forte. La guardia di Napolitano indebolisce i senatori critici e lascia poco spazio ai tentativi di correzione della riforma. Sono oltre quaranta gli articoli della Costituzione da modificare e l’importante, dice Napolitano, è farlo. Se c’è un argomento che il presidente della Repubblica dimentica, ecco a ricordarlo il capogruppo Pd Zanda: è urgente trasformare sindaci e consiglieri regionali in senatori perché «ce lo chiede l’Europa».
Un'analisi impeccabile dell'ideologia e della prassi che hanno provocato il successo dell'uomo che ha costruito e rafforzato il suo potere divorando i suoi antagonisti e assorbendone così i nefasti caratteri.
Sbilanciamoci info, newsletter, 4 luglio 2014
L'Italia, paese di populisti e di populismi. Ne ha conosciuti ben tre (e mezzo), nel ultimi vent'anni, un record mondiale. Populismo: che è concetto classico della politica e della sociologia ma che tuttavia è un processo culturale prima che politico. E oggi economico prima che culturale e politico, nel senso che è appunto l'economia capitalista ad essere oggi un processo culturale prima che economico, producendo - prima delle merci e del denaro - le mappe concettuali, cognitive, relazionali, affettive necessarie per la navigazione nel mercato; trasformando quello che era il cittadino dell'illuminismo in lavoratore, merce, capitale umano - ovvero in mero homo oeconomicus. Tre populismi interi: Berlusconi, Grillo e Renzi. E il mezzo populismo della Lega. Tre padri politici invocati dal popolo perché lo sorreggano, lo portino da qualche parte, gli dicano cosa deve fare, perché questo stesso popolo si ritiene incapace (o non più desideroso) di assumersi la responsabilità di essere sovrano di se stesso. Effetto culturale - questo - dell'antipolitica capitalista, che per essere sovrano assoluto e culturalmente monopolista deve rimuovere ogni sovrano concorrente.
Berlusconi: il populista che prometteva la modernizzazione neoliberale del paese. In realtà, un populismo del cambiare tutto per non cambiare nulla (soprattutto i suoi interessi personali e aziendali). Un populismo aziendalista, con la figura del padre/leader sostituita da quella dell'imprenditore che si è fatto da solo (o quasi), perfetta nell'esprimere il modello culturale che tutti dovevano apprendere: l'edonismo, il godimento immediato, la deresponsabilizzazione egoistica ed egotistica. Per legittimare - questa l'azione appunto culturale, pedagogica prima che economica - le retoriche neoliberiste dell'essere imprenditori di se stessi e della competizione come unica forma di vita.
Bossi e la Lega: il mezzo populismo (non solo perché limitato a una parte del territorio), apparentemente il più classico dei populismi con il richiamo alla tradizione, ai simboli di terra e di sangue. All'essere padroni a casa nostra: da intendere però non come sovrani sulla nostra terra ma come padroni nel senso antico del capitalismo. Populismo da piccola impresa, da capitalismo molecolare come versione localistica dell'ordoliberalismo tedesco e della sua pedagogia per imporre il modello impresa all'intera società.
Grillo: il populista contestatore, il teorico del net-populismo come forma perfetta della democrazia. Grillo come l'uomo del cambiamento ma incapace di cambiare (dice solo no) e forse populista anche di se stesso.
E Matteo Renzi. Un populismo di tipo nuovo ma evoluzione dei precedenti. Perché anch'egli cerca il rapporto diretto con il popolo e lo invoca come propria totalizzante legittimazione. Perché aspira ad essere insieme Partito di Renzi e Partito della Nazione. Un partito-non-partito tuttavia, ormai anch'esso trasversale - e quasi un non-luogo nel senso di Marc Augé: come un aeroporto, un supermercato, un luogo di consumo di politica.
Un populismo che invoca il popolo contro le caste e il sindacato salvando invece le oligarchie che lo sostengono come un sol uomo; che ha grandi mass-media schierati dalla sua parte e che gli consentono ciò che mai avrebbero consentito a Berlusconi; un populismo fideistico e teologico-politico (noi contro loro, noi il tutto che non accetta il due e il tre e il molteplice e gli eretici; noi il nuovo, gli altri il vecchio).
Un populismo che vuole rottamare appunto il vecchio, ma che non rottama, non corregge (una volta si chiamava autocritica, ma il nuovo che avanza travolge anche la memoria) i molti errori del passato: il sì all'austerità, all'articolo 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio.
Un populismo finalizzato alla modernizzazione dell'Italia - e ogni populismo è stato, storicamente anche una via per la modernizzazione, facendo accettare al popolo, in nome del popolo quelle trasformazioni che altrimenti non sarebbero state possibili per trasformare un paese e quel popolo. Per questo, quello di Renzi è un populismo tecnocratico: che produce quella modernizzazione neoliberista che Berlusconi non è riuscito a produrre e Grillo fatica a poter produrre.
Un populismo nel nome della tecnocrazia, che la tecnocrazia ama; un populismo che trasforma (forse questa volta per davvero) il potere politico nel senso richiesto dalla tecnocrazia: meno democrazia (la riforma del Senato, le proposte di nuova legge elettorale); meno diritti sociali e quindi politici (diventati un costo); più decisionismo; meno partecipazione e più adattamento alla realtà immodificabile del mercato; meno cittadinanza attiva e più accettazione della ineluttabilità del reale. Perché le sue pratiche politiche - al di là delle apparenze e delle discussioni con Angela Merkel e di alcuni interventi comunque virtuosi - sono tutte dentro alla cultura della modernizzazione richiesta dall'ideologia neoliberista (flessibilità del lavoro, privatizzazioni, un nuovo modo di essere imprenditori di se stessi, riduzione ulteriore dello stato sociale, crescita invece di sviluppo, competizione invece di solidarietà); e la flessibilità sul Fiscal compact (invece della sua abolizione, per evidente irrazionalità e surrealtà economica), pure invocata, è un pannicello caldo rispetto al nuovo new deal che sarebbe invece necessario (e urgente). Un populismo futurista, inoltre: nel nome della velocità, delle macchine, delle parole in libertà, dell'azione per l'azione.
Il populismo di Renzi è dunque più di un classico neopopulismo, che ha dominato la scena per trent'anni coniugando populismo e neoliberismo, mercato e popolo, modernizzazione e impoverimento e disuguaglianze. E' un neopopulismo tecnocratico - per altro discendenza diretta di quello neoliberista - che scardina ancor più di quello neoliberista le forme e le pratiche della democrazia; riduce a niente la società e la società civile; attacca il sindacato o lo rende inutile (in coerenza con le tecnocrazie globali); che spettacolarizza se stesso proponendosi come outsider, come rottura, come alternativa, in realtà portandoci nella società dello spettacolo della tecnocrazia.
Una tecnocrazia che non si espone più direttamente con i noiosi e antipatici tecnici, ma con la fantasia e l'estro di un populismo mediatico e spettacolare, moderno e postmoderno insieme, dove twittare è più importante che ascoltare.
«Sono arrivate nel cuore del potere. Grazie a curriculum eccellenti e alla legge che riserva loro delle quote. Ma per le donne è iniziato un percorso di uguaglianza o stiamo andando verso una polarizzazione tra chi è ai vertici e chi, nella fascia media, vede vacillare diritti acquisiti»?
La Repubblica, 1 luglio 2014 (m.p.r.)
Roma. Nel cuore del potere. O almeno molto vicine. Mai così tante. Curriculum eccellenti, testarda bravura, ma anche l’onda d’urto delle quote rosa. Per l’Italia è la prima volta. Una parlamentare su tre è donna. Nei Cda la presenza femminile sfiora il 25%. La squadra di governo è formata da otto ministri e otto ministre, simmetria perfetta ma soprattutto simbolica. Maria Angela Zappia, una carriera in ascesa nella diplomazia italiana, è stata nominata ambasciatrice per il nostro paese alla Nato: «Cosa provo? Il grande orgoglio di un incarico così importante, ma anche la consapevolezza di non aver lasciato indietro nessuno...». Né i figli, Claire e Christian, cresciuti con lei in giro per il mondo, né il marito, conosciuto in missione a Dakar. Anche il linguaggio cambia: nessuna cesura, vita e carriera sono una cosa sola.
L'Europa e cascato in pieno nella trappola dell'ignoranza e della difesa degli
interessi USA. «Disegnano il quadro di un’Ucraina povera ma democratica che si dibatterebbe nelle grinfie dell’orso russo che, dopo avere strappato la penisola di Crimea, se la vorrebbe mangiare tutta. Ma la storia dei rapporti tra Russia e Ucraina è tutt’altro che lineare». Sbilanciamoci.info newsletter 133, 1 luglio 2014
Stampa e Tv disegnano il quadro di un’Ucraina povera ma democratica che si dibatterebbe nelle grinfie dell’orso russo che, dopo avere strappato la penisola di Crimea, se la vorrebbe mangiare tutta. Ma la storia dei rapporti tra Russia e Ucraina è tutt’altro che lineare. E l’Europa sembra avere dimenticato storia, geografia e politica
L’Europa non è certo nata in chiave antiamericana ma, date le dimensioni e il numero degli abitanti, almeno come grande mercato autonomo e con una moneta forse concorrenziale; e per alcuni anni questo è stata. Ma da qualche tempo ha sottolineato in modo sbalorditivo un ruolo che una volta si sarebbe detto “atlantico”. Non più sotto il vessillo anticomunista, il comunismo essendo scomparso da un pezzo, ma antirusso.
Qualche anno fa, Immanuel Wallerstein mi diceva che, spento ogni scontro ideologico, le nuove guerre sarebbero state commerciali. E quale altro senso dare al conflitto in corso a Kiev? Esso sembra avere per oggetto l’identità nazionale dell’Ucraina. Eccezion fatta per il manifesto, tutta la stampa e le tv disegnano il quadro di un’Ucraina povera ma democratica che si dibatterebbe nelle grinfie dell’orso russo; il quale le ha già strappato la penisola di Crimea e se la vorrebbe mangiare tutta. Manca poco che la Russia non sia definita un nuovo terzo Reich. In occasione del settantesimo anniversario dello sbarco in Normandia, il presidente francese Hollande è stato accusato di aver invitato alle celebrazioni anche Putin - come se la battaglia di Stalingrado non avesse permesso agli Stati Uniti il medesimo sbarco, distraendo dal Nord Europa il grosso della Wehrmacht - nello stesso tempo invitando niente meno che dei reparti tedeschi a partecipare alla rievocazione del primo paracadutaggio alleato sul villaggio di Sainte-Mère-l’Eglise.
Da qualche giorno poi sappiamo che gli Stati Uniti, neppure il presidente Obama, ma il suo ex rivale Mc Cain - hanno ammonito la Bulgaria, la Serbia e gli altri paesi coinvolti in un progetto di gasdotto per trasportare il gas russo in Europa (con un tracciato che evitava l’Ucraina, perché cattiva pagatrice) a chiudere i cantieri in corso, preferendo un nuovo tragitto attraverso l’Ucraina a quello diretto per l’Europa occidentale. Stupore e modeste proteste di Bruxelles, convinta che si tratti di una minaccia simbolica. Che tuttavia va inserita nel quadro di un cambiamento delle esportazioni Usa, ormai indirizzate al commercio del gas di scisto, per altro non ancora avviato.
L’Europa teme dalla Russia rappresaglie per avere applaudito all’abbattimento del presidente ucraino filorusso Yanukovic da parte delle forze (piazza Maidan) che sono ora al governo a Kiev. Ma la storia dei rapporti tra Russia e Ucraina è tutt’altro che lineare.
È soltanto dal 1991 e dal crollo dell’Urss che, anche su pressione polacca e lituana, il governo dell’Ucraina guarda all’Europa (e alla Nato) e incrementa lo scontro con la sua parte orientale. Sembra impossibile che in occidente non si sia considerato che l’Unione Sovietica non era solo una formula giuridica: scioglierla d’imperio e dall’alto, come è avvenuto nel 1991, significava creare una serie di situazioni critiche sia nelle culture che nei rapporti economici che attraversavano tutto quel vasto territorio. Da allora, Kiev non ha nascosto di puntare a un’unificazione etnica e linguistica anche forzosa delle due aree, fino a interdire l’uso della lingua russa agli abitanti dell’est cui era abituale.
L’Europa e la Nato non hanno mancato di appoggiare le politiche di Kiev, e poi l’insurrezione contro il presidente Yanukovic assai corrotto, costretto a tagliare la corda in Russia. Ma la zona orientale non lo rimpiange certo: non tollera il governo di Kiev e la sua complicità con la Nato, ma non perché abbia nostalgia di questo personaggio. Si è rivoltata contro la politica passata e recente di Kiev che ha tentato perfino di impedire l’uso della lingua russa, usata dalla maggioranza della popolazione all’est. L’Europa e la Nato, appoggiate da Polonia e Lituania, affermano che non si tratta di un vero e spontaneo sbocco nazionalista, ma di una ingerenza diretta della Russia, e così dicono stampa e televisione italiana. Non c’è dubbio che la Russia abbia voluto il ritorno della Crimea nel suo grembo, ma la proposta dell’est di andare a una federazione con l’ovest, garantendo l’autonomia di tutte e due le parti, è stata bocciata da Kiev e dal governo degli insorti. La decisione di votare in un referendum all’est contro Kiev è stata presa non da Putin, messo in imbarazzo, ma dalla popolazione dell’est che ha votato in questo senso al 98%. Non si tratta di un processo regolare (non accetteremmo che l’Alto Adige votasse una delle prossime domeniche la sua appartenenza all’Austria, senza alcun precedente negoziato diplomatico), ma non è stato neppure una manovra russa come l’Europa tutta ha sostenuto.
È sorprendente che perfino il poco che resta delle sinistre europee abbia sposato questa tesi e che in Italia le riserve di Alexis Tsipras sulle politiche di Bruxelles non abbiano alcuna eco. C’è perfino chi evoca in modo irresponsabile azioni armate contro Mosca. La deriva dei conflitti, anche militari, e non solo in Ucraina, rischia di segnare sempre di più un’Europa che ha dimenticato storia, geografia e politica.
Lista Tsipras. Per passare dalle parole ai fatti, l’Altra Europa deve mettersi alla prova nei gruppi di lavoro locali, promuovendo collegamenti nazionali.
Il manifesto, 1 luglio 2014
Lista Tsipras. Per passare dalle parole ai fatti, l’Altra Europa deve mettersi alla prova nei gruppi di lavoro locali, promuovendo collegamenti nazionali e internazionali, anche grazie alla nostra presenza nel parlamento europeo. Il modello dovrebbe essere quello dei beni comuni. L'Europa deve essere: democratica, federale, solidale, ecologica, inclusiva e pacifica

Domani Renzi inaugurerà il semestre di presidenza italiana dell’Unione europea. Nonostante i giri di parole, è un’Europa che non cambia. Noi vogliamo un’altra Europa: democratica, federalista, solidale, ecologica, inclusiva, pacifica.
Democratica, cioè con una vera Costituzione, con un governo sovranazionale a base parlamentare, autonomo dai poteri dell’alta finanza, che definisca le politiche economiche, sociali, ambientali e culturali. Ma la democrazia riguarda anche i singoli paesi.
Dobbiamo preservare l’impianto della Costituzione italiana e fermare l’erosione della democrazia da tempo in corso. Inoltre, alla democrazia rappresentativa occorre affiancare, in tutto il continente, nuove forme di democrazia partecipativa di prossimità, che è ciò che trasforma risorse e servizi in beni comuni.
Federale, non significa un aggregato di Stati, ma una rivalutazione radicale delle autonomie locali; dei Comuni o delle unioni di piccoli Comuni: le istituzioni più vicine ai cittadini, dove è meno difficile dar vita a forme di democrazia partecipativa.
Solidale: i paesi dell’Unione devono condividere costi e benefici del cammino comune: non solo moneta, ma debiti, tassi di interesse, fisco, investimenti pubblici. Altre forme di solidarietà devono riguardare anche tutti gli altri paesi del mondo, a partire da quelli rimasti ai margini dei benefici, ma non dei costi, dello sviluppo industriale. Ma solidarietà vuol dire soprattutto giustizia sociale in ogni paese; redistribuzione del lavoro, del potere contrattuale, del reddito, degli oneri fiscali, dell’istruzione, dei presidi sanitari, dei diritti. Senza escludere il rispetto di tutto il vivente e della natura.
Ecologica vuol dire fare i conti non solo con la natura prodotta dall’evoluzione geologica e biologica del pianeta, ma anche con quella “seconda natura” in cui siamo ormai tutti immersi, prodotta dalla rivoluzione industriale, dai materiali sintetici, dalla proliferazione di prodotti e rifiuti – solidi, liquidi e gassosi — generati dalla “civiltà” dei consumi. Occorre ritrovare un equilibrio fra mondo naturale e mondo artificiale che impedisca a questo di soffocare quello. Purtroppo l’Unione europea si sta progressivamente disimpegnando dalle politiche ambientali, mentre manomissione e inquinamento di ogni singolo territorio non fanno che aumentare.
Inclusiva: l’Europa non deve più essere governata come una “fortezza” assediata da una “armata” di profughi e migranti in cerca della propria sopravvivenza. In un’Europa solidale ci deve essere posto per tutti. Emarginazione, clandestinità, discriminazione razziale – sia quella su basi biologiche o culturali, che quella sempre più diffusa contro i poveri – sono calamite di nuove miserie che si riproducono in una spirale senza sbocchi. L’accoglienza consente invece un diverso rapporto con le popolazioni e con le istituzioni dei paesi di origine di profughi e migranti; riconoscere loro diritti e rappresentanza può facilitare la composizione dei conflitti che ne determinano l’esodo e una circolazione di persone, di competenze e di relazioni che possono arricchire sia i paesi di origine che quelli di arrivo. Ma l’inclusione riguarda ogni forma di diversità – che messe tutte insieme costituiscono ormai una vera maggioranza sociale – che, prima di mettere sotto accusa idee e comportamenti altrui, interpellano innanzitutto le nostre concezioni e il nostro stile di vita. Questo vale in particolare nei confronti della cultura e del potere patriarcale che continua a dominare la vita economica e sociale in tutta l’Europa e particolarmente nel nostro paese.
Pacifica: non basta garantire la pace all’interno se ai confini imperversano conflitti sanguinari. L’Europa deve avere un ruolo attivo nella composizione dei conflitti altrui; specie quelli prodotti dai propri interessi, come la corsa al petrolio o l’esportazione di armi. Nei confronti delle attività economiche che alimentano quei conflitti occorre poi progettare una vera riconversione ecologica.
L’articolazione ulteriore di questi concetti non può procedere però per logiche interne, ma solo mettendoli alla prova nei territori o in specifici ambiti settoriali. La lista L’altra Europa con Tsipras ha finora raccolto solo una piccola parte di quel fervore di lotte, di iniziative, di progettualità alternative che contraddistingue da anni il nostro paese. Ma è con queste realtà che ora occorre confrontarsi e prendere iniziative comuni, organizzandosi a livello locale per gruppi di lavoro o per commissioni tematiche, promuovendo collegamenti nazionali e internazionali (grazie anche alla nostra presenza nel parlamento europeo e nel Gue), ma soprattutto andando a cercare quegli interlocutori, singoli o già organizzati, che non sono stati coinvolti dalla nostra mobilitazione elettorale, per promuovere con loro confronti e iniziative comuni su un piano di assoluta parità. Tutti possono arricchire, con iniziative condivise, un programma che si deve fare pratica politica quotidiana.
Ma questo programma si deve anche consolidare sul piano culturale. Intorno al progetto della lista L’altra Europa si è raccolto in pochi mesi il meglio dell’intelligenza italiana. I nomi sono tantissimi. A tutti dobbiamo offrire un terreno di confronto con le nostre pratiche per dare al progetto, nella più assoluta libertà di ciascuno, un respiro indispensabile a promuovere una rifondazione su nuove basi di una cultura della democrazia e della solidarietà da contrapporre a quella imperante della competitività. Abbiamo due modelli dalle grandi potenzialità: la Costituente dei beni comuni, che ha visto il meglio della dottrina giuridica italiana sostenere alcune lotte come l’occupazione del Teatro Valle, il Municipio dei Beni comuni di Pisa e altre iniziative analoghe; e la costituzione dell’azienda speciale Acqua Bene Comune di Napoli, prima traduzione pratica degli obiettivi dei referendum del 2011.
Questo approccio aperto a ogni sorta di nuovi apporti ha certo bisogno di strumenti di coordinamento e di comunicazione migliori, evitando però strutture pesanti e difficili da ridimensionare. Ma bisognerebbe evitare di concentrarsi su uno spettro che si aggira nel nostro dibattito interno: il “nuovo soggetto politico” (o “soggetto politico nuovo”); o la “costituente della sinistra”; o, senza tante mediazioni, il “nuovo partito”.
Perché il termine soggetto politico, mentre sembra esaltare l’iniziativa e l’autonomia di un agire comune, finisce spesso, invece, per rinchiuderlo in qualcosa di solido, di sostanziale, di autosufficiente e rischia di distogliere il dibattito e l’agire dall’impegno a sviluppare nella pratica quotidiana il tema dell’Europa che vogliamo, dell’Italia che vogliamo, della società che vogliamo. Non sto parlando del “sol dell’avvenire”, ma, più modestamente, di una visione del futuro che vede conflitto e partecipazione, variamente intrecciati tra loro, come componenti permanenti di una dinamica sociale in cui a ogni generazione tocca fare i conti con le acquisizioni e le sconfitte di quella precedente.
Il rischio è quello di un dibattito confinato al tema di come costruire il nuovo soggetto, o il nuovo partito, o la nuova sinistra, sottintendendo che il come trasformare i rapporti sociali con la nostra pratica quotidiana ne discenda automaticamente; o comunque sia una questione del “dopo”. Trascurando, per di più, la dimensione europea e internazionale in cui la lista L’altra Europa ha voluto collocare fin dall’inizio la propria iniziativa.
«». Altraeconomia.it
È naturale che scatti l’odio per “gli intellettuali”: come scriveva Isaac Asimov, «l’anti intellettualismo è un tarlo nutrito dall’idea sbagliata che democrazia significhi che la nostra ignoranza vale quanto l’altrui conoscenza». Se avessimo badato di meno alla visibilità -quella mediatica, quella politica/elettorale- ci saremmo una volta di più accorti di quanto falsa è la logica delle “grandi opere” (farci uscire dalla crisi, renderci competitivi, dare lavoro). E avremmo avuto di fronte gli occhi l’evidenza: le “grandi opere” servono a dare appalti ai “grandi amici”, contando sul “percolato” economico dell’operazione. Va da sè che i professionisti della confusione si guardano bene ora, dopo le vicende Expo, Mose (e tutte le altre del passato, e quelle che arriveranno) dal chiedere scusa, dal dire almeno “abbiamo sbagliato”. Si guardano bene dall’affrontare con spirito critico la complessità dell’evidenza.