I governi Berlusconi,Monti, Letta, Renzi saranno ricordati come quelli che hanno dimostrato la maggiore incapacità nel governare l’economia in un periodo di crisi. I dati sono impietosi. Dal 2009 ad oggi il Pil è calato di dieci punti.
Qualcosa come 160 miliardi sottratti ogni anno all’economia. L’industria ha perso un quarto della sua capacità produttiva. La produzione di autovetture sul territorio nazionale è diminuita del 65 per cento. L’indicatore più scandaloso dello stato dell’economia, quello della disoccupazione, insieme con quelli relativi alla immensa diffusione del lavoro precario, ha raggiunto livelli mai visti. La scuola e l’università sono in condizioni vergognose. Sei milioni di italiani vivono sotto la soglia della povertà assoluta, il che significa che non sono in grado di acquistare nemmeno i beni e i servizi di base necessari per una vita dignitosa. Il rapporto debito pubblico-Pil sta viaggiando verso il 140 per cento, visto che il primo ha superato i 2100 miliardi. Questo fa apparire i ministri che si rallegrano perché nel corso dell’anno saranno di sicuro trovati tre o quattro miliardi per ridurre il debito dei tristi buontemponi. Ultimo tocco per completare il quadro del disastro, l’Italia sarà l’unico Paese al mondo in cui la compagnia di bandiera ha i colori nazionali dipinti sulle ali, ma chi la comanda è un partner straniero.
Si possono formulare varie ipotesi circa le origini del disastro. La più nota è quella avanzata da centinaia di economisti europei e americani sin dai primi anni del decennio. È un grave errore, essi insistono, prescrivere al cavallo maggiori dosi della stessa medicina quando è evidente che ad ogni dose il cavallo peggiora. La medicina è quella che si compendia nelle politiche di austerità, richieste da Bruxelles e praticate con particolare ottusità dai governi italiani.
Essa richiede che si debba tagliare anzitutto la spesa pubblica: in fondo, a che cosa servono le maestre d’asilo, i pompieri, le infermiere, i ricercatori universitari? In secondo luogo bisogna privatizzare il maggior numero possibile di beni pubblici. Il privato, dicono i medici dell’austerità, è sempre in grado di gestire qualsiasi attività con superiore efficienza: vedi, per dire, i casi Ilva, Alitalia, Telecom. Infine è necessario comprimere all’osso il costo del lavoro, rendendo licenziabile su due piedi qualunque tipo di lavoratore. I disoccupati in fila ai cancelli sono molto più disposti ad accettare qualsiasi lavoro, a qualsiasi condizione, se sanno che al minimo sgarro dalla disciplina aziendale saranno buttati fuori come stracci. Altro che articolo 18.
Nell’insieme la diagnosi appare convincente. Le politiche di austerità sono un distillato delle teorie economiche neoliberali, una macchina concettuale tecnicamente agguerrita quanto politicamente misera, elaborata dagli anni 80 in poi per dimostrare che la democrazia non è che una funzione dell’economia. La prima deve essere limitata onde assicurare la massima espansione della libertà di mercato (prima di Draghi, lo hanno detto senza batter ciglio Lagarde, Merkel e perfino una grande banca, J. P. Morgan). La mente e la prassi di tutto il personale che ha concorso a governare l’economia italiana negli ultimi anni è dominata sino al midollo da questa sofisticata quanto grossolana ideologia; non c’è quindi da stupirsi che essa abbia condotto il Paese al disastro. Domanda: come mai, posto che tutti i governanti europei decantano e praticano i vantaggi delle politiche dell’austerità, molti dei loro
Paesi se la passano meglio dell’Italia? La risposta è semplice: perché al di sotto delle coperture ideologiche che adottano in pubblico, le iniziative che essi prendono derivano piuttosto da una analisi spregiudicata delle reali origini della crisi nella Ue. In Italia, non si è mai sentito un membro dei quattro “governi del disastro” proporre qualcosa di simile ad una tale analisi, con la conseguenza che oltre a praticare ciecamente le politiche neoliberali, i nostri governanti ci credono pure. Facendo di loro il personale politico più incompetente della Ue.
Si prenda il caso Germania;non a caso, perché la Germania è al tempo stesso il maggior peccatore economico d’Europa (copyright Flassbeck), e quello cui è meglio riuscito a far apparire virtuoso se stesso e peccatori tutti gli altri. Il motivo del successo tedesco è noto: un’eccedenza dell’export sull’import che col tempo ha toccato i 200 miliardi l’anno. Poco meno di due terzi di tale somma è dovuta ad acquisti da parte di altri paese Ue. Prodigio della tecnologia tedesca? Nemmeno per sogno. Prodigio, piuttosto, della formula “vai in malora te e il tuo vicino” (copyright Lapavitsas) ferreamente applicata dalla Germania a tutti i Paesi Ue.
Grazie alle “riforme” dell’Agenda 2010, dalla fine degli anni 90 i lavoratori tedeschi non hanno visto un euro in più affluire ai loro salari; il considerevole aumento complessivo della produttività verificatosi nello stesso periodo si è tradotto per intero nella riduzione dei prezzi all’esportazione. In un regime di cambi fissi come quello imposto dall’euro, questo meccanismo ha trasformato la Germania in un Paese a forte surplus delle partite correnti e tutti gli altri Paesi dell’Eurozona in Paesi deficitari. Ha voglia la Cancelliera Merkel di decantare le virtù della “casalinga dello Schlewig-Holstein”, che spende soltanto quel che incassa e non fa mai debiti. La virtù vera dei tedeschi è consistita, comprimendo i salari interni per favorire le esportazioni, nel diventare l’altezzoso creditore d’Europa, mettendo in fila tutti gli altri Paesi come debitori spreconi. È vero che negli incontri ufficiali è giocoforza che ognuno parli la neolingua del regime neoliberale che domina la Ue. Invece negli incontri dove si decidono le cose serie bisognerebbe chiedere ai governanti tedeschi che anziché della favola della casalinga si discuta magari delle politiche del lavoro — quelle tedesche — che hanno disastrato la Ue. Potrebbe essere utile quanto meno per condurre trattative per noi meno jugulatorie. Tuttavia per fare ciò bisogna avere una nozione realistica della crisi, e non è chiaro se esiste un solo governante italiano che la possegga.
Un titolo assai poco fedele al testo, nel quale uno degli intellettuali più ispirati dalla saggezza enuncia i rischi che stiamo correndo ora che i poteri istituzionali stanno, in vari mdi, a lavorare non “contro mano” ma contro i principi costituzionali.
La Re pubblica, 17 agosto 2014
La questione dei diritti civili è tornata nel discorso pubblico sulla scia della più ideologica e incostituzionale legge della storia repubblicana, quella sulla procreazione assistita. Scarnificata da sentenze nazionali e internazionali, le sue parti residue vengono ora adoperate non per restituire pienezza alla libertà di autodeterminazione delle persone, che la Corte costituzionale ha di nuovo ribadito, ma per cercar di sollevare ancora qualche piccolo steccato ideologico. Segno di un tempo di evanescente legalità costituzionale e di una difficoltà politica interna alla maggioranza di governo, dove il Nuovo centrodestra tenta ossessivamente di proiettare all’esterno un’identità fatta di attacchi ai diritti delle coppie infertili, degli immigrati, dei lavoratori.
Questo clima rischia di accompagnarci nei mesi a venire, e dovrebbe indurre a qualche riflessione più generale, prendendo spunto anche dall’emendamento alla legge di riforma costituzionale che ha attribuito al futuro Senato il potere di concorrere alla legislazione nelle materie indicate dagli articoli 29 e 32 della Costituzione - famiglia, matrimonio, salute. Temi definiti come “eticamente sensibili”, con una espressione ambigua che andrebbe cancellata dall’uso. O che dovrebbe essere completamente reinterpretata, poiché i temi oggi davvero eticamente sensibili sono quelli drammaticamente imposti dalla povertà dilagante e dalla disoccupazione, che negano i diritti sociali e la stessa “esistenza libera e dignitosa” di cui parla l’articolo 36 della Costituzione.
Quell’emendamento ha avuto il merito di aver riportato davanti all’opinione pubblica la questione, dimenticata, dei diritti civili. Ma dobbiamo francamente dire che questa apertura rischia di determinare nuovi e pericolosi equivoci. Da una parte, infatti, fa emergere la necessità di rafforzare la garanzia dei diritti, sottraendola alla sola competenza di una Camera dei deputati che si annuncia dominata da una totalizzante logica maggioritaria, che non dovrebbe estendere le sue pretese oltre l’esigenza della “governabilità”. Dall’altra, invece, sottrae a questa garanzia tutti gli altri diritti fondamentali e opera una pericolosa separazione tra diritti civili e diritti sociali.
Con un ulteriore problema. Le materie considerate dagli articoli 29 e 32 della Costituzione saranno considerate come un settore al quale il legislatore dedicherà interventi penetranti o, al contrario, come temi di cui si occuperà direttamente solo eccezionalmente e con il massimo rispetto di libertà e diritti? La via costituzionale è indicata nitidamente dalle parole che chiudono proprio l’articolo 32: “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. E la Corte costituzionale ha collocato l’autodeterminazione tra i diritti fondamentali della persona. Questo vuol dire che il legislatore già oggi, e quale che sia il modo in cui alla fine verrà configurato il sistema istituzionale, deve sempre partire dalla premessa che vi sono limiti al suo potere, posti dalla Costituzione per impedire indebite invasioni della sfera di libertà delle persone.
Questo principio è stato ben poco rispettato negli ultimi anni, e questo atteggiamento sprezzante ha trovato conferme in questi giorni. La verità è che negli ultimi venti anni la tutela dei diritti è stata garantita quasi esclusivamente dai giudici costituzionali e ordinari, mentre il Parlamento cercava di ridurne illegittimamente l’ampiezza o rimaneva colpevolmente silenzioso. L’aggressione ai diritti delle coppie e alla stessa salute delle donne, cuore della famigerata legge sulla procreazione assistita, è stata sventata dalla Corte costituzionale. Ma il Parlamento è rimasto scandalosamente indifferente quando la stessa Corte e la Corte di Cassazione, seguendo pure le indicazioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, hanno riconosciuto l’esistenza di un diritto fondamentale al riconoscimento delle unioni civili, anche quelle tra persone dello stesso sesso. E, travolti dall’euforia della cancellazione del bicameralismo paritario, non si dovrebbe perdere la memoria del fatto che la Camera aveva approvato la famigerata “legge bavaglio” sulla pubblicazione delle intercettazioni telefoniche e un orrido testo sul testamento biologico. Solo la previsione di un successivo esame del Senato ha impedito che quei testi divenissero leggi dello Stato. Garanzie e equilibri, questi, sui quali bisogna sempre riflettere e che non possono essere allegramente travolti dal turbocharged constitutionalism oggi imperante.
Alla democrazia parlamentare aggressiva o indifferente degli anni passati si è progressivamente affiancata una ben diversa “democrazia di prossimità”, incarnata dai comuni, dove ora si scopre il fiorire di una serie di iniziative volte proprio a offrire garanzie per i diritti delle persone trascurati da Parlamento e Governo. Vi sono registri dei testamenti biologici e per i patti di convivenza, e si cominciano a trascrivere nelle anagrafi comunali i matrimoni contratti all’estero tra persone dello stesso sesso. Si prevedono “garanti” per i diritti dei bambini e per i detenuti, e forme di “cittadinanza civica” che, pur priva di immediati effetti giuridici, assume un fortissimo valore simbolico quando viene pubblicamente attribuita a immigrati. Si individuano modalità di destinazione a cittadini di beni per iniziative comuni e di collaborazione tra cittadini e comuni “per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani”.
Siamo alle soglie di una sorta di schizofrenia istituzionale, dove solo l’allontanarsi dai pericolosi connubi della politica nazionale consente il dispiegarsi della logica dei diritti? Comunque sia, sono evidenti dinamiche sociali che segnano le nuove frontiere, lungo le quali le persone possono incontrare le istituzioni. Ma questo è impossibile là dove la negazione dei diritti assume dimensioni di massa, dove sono in questione il lavoro e la stessa sopravvivenza materiale. Ecco perché, nel mutare delle regole istituzionali, è pericoloso formalizzare una distinzione netta tra diritti civili e diritti sociali, abbandonando questi ultimi alle sole dinamiche di mercato, mascherate troppo spesso da vincoli insuperabili.
Abbiamo ascoltato in questi mesi con grande pazienza le giaculatorie di chi ci parlava di una mummificazione della Costituzione, con datazioni variabili (venti, trenta anni?). Troppi hanno seguito queste semplificazioni, che spesso assumevano imbarazzanti tratti favolistici.
È tempo di svegliarsi e di ricordare agli ultimi venuti che nell’aprile del 2012 è stato costituzionalizzato il pareggio di bilancio, con una riscrittura dell’articolo 81 che ha inciso profondamente sulla struttura della Costituzione e sull’assetto complessivo dell’azione pubblica, con effetti immediati per tutto ciò che riguarda i diritti sociali e le risorse che ad essi devono essere destinate. Un governo che davvero volesse innovare, e mostrare una capacità non verbale di cominciare a sottrarsi a impropri vincoli europei, potrebbe trovare qui una buona occasione. Non lo farà. Saranno i cittadini, con una loro iniziativa popolare, a proporre di ricostruire i rapporti tra diritti fondamentali e risorse. Non abbiamo ancora, per fortuna, istituzioni a una sola dimensione, quella che ha tenuto la scena, in modo non sempre dignitoso, nelle ultime giornate.
L’irresistibile ascesa di Matteo Renzi ricorda Oltre il giardino, un film del 1979 con Peter Seller: un giardiniere semidemente esce dal giardino dove è rimasto rinchiuso per anni avendo come unico sguardo sul mondo la televisione; in poco tempo si conquista una posizione in società, fino a diventare consigliere della Casa Bianca - o, forse, Presidente degli Stati Uniti - grazie al fatto che non capisce quello di cui parlano le persone con cui entra in contatto, né loro capiscono lui.
Con il senno del poi possiamo ora rispondere in modo più convinto alla domanda posta nel 2008 dalla regina Elisabetta agli economisti della London School of Economics: “perché, con tutta la vostra scienza, non siete stati capaci di prevedere questa crisi?”. Non è stata solo, come avevano risposto i più intelligenti tra gli interlocutori della regina, l’eccessiva matematizzazione della disciplina ad averli allontanati dalla realtà. Non è un caso, tra l’altro, che anche chi la crisi l’aveva prevista, come l’economista Nuriel Rubini, si sia rivelato anche lui uno strenuo sostenitore di Renzi (dopo esserlo stato di Monti e di Letta). L’orizzonte culturale è sempre quello: crescita come unica prospettiva di senso (ma lo sanno anche gli asini che, anche se fosse possibile “riagguantarla”, la crescita è insostenibile, non può durare per sempre; e che il suo tempo è finito); e mercato, cioè “competitività”, da recuperare a qualsiasi costo (magari con qualche correttivo). Alla regina Elisabetta bisognerebbe allora rispondere: perché gli economisti mainstream sono ignoranti, corrotti e bugiardi. Sono ignoranti perché il pensiero unico di cui sono adepti fornisce una rappresentazione della realtà falsa, che non consente previsioni fondate né interventi appropriati, neanche ai valori privatistici a cui essi si ispirano. Sono corrotti perché, con poche eccezioni, sono o aspirano tutti a farsi “consiglieri del principe”; non per fornirgli strumenti di comprensione della realtà, ma per giustificare, di volta in volta, le sue scelte: quelle imposte dai “mercati” (che non sono “il mercato”, ma i pochi protagonisti dell’alta finanza che governano l’economia globalizzata). Sono bugiardi perché continuano a predicare cose in cui, tranne pochi stupidi, non credono affatto; e per fingere di crederci nascondono la testa sotto la sabbia. Chi di loro pensa veramente che “l’anno prossimo” l’Italia riprenderà a crescere? Eppure è anni che lo ripetono. O che il governo italiano potrà rispettare il fiscal compact? Eppure nessuno di loro osa metterlo in discussione. D’altronde sono i sacerdoti della “religione del nostro tempo”: che cos’altro attendersi da loro?
Non possiamo rimanere succubi di questa cultura. Occorre promuovere un radicale cambio di paradigma e riconquistare un’egemonia culturale che metta al centro non “i mercati” (quelli che “votano” governi, politiche economiche e ora anche riforme istituzionali, come dimostrano le prescrizioni di J. P. Morgan, pienamente accolte da Renzi, contro le costituzioni democratiche), ma gli obiettivi, gli strumenti e i conflitti necessari a una graduale conquista della capacità di autogovernarci in tutti i campi: non solo in quelli istituzionale, sociale e culturale ma anche quello ambientale e quello economico; il che significa riconfigurare il governo dell’impresa in senso democratico e partecipato e promuovere nella pratica quotidiana del conflitto la consapevolezza dell’ineludibilità di questo obiettivo (peraltro contestuale a una prospettiva di riterritorializzazione dei processi economici, alternativa sia al protezionismo leghista che alla competitività universale liberista).
E’ un programma di ampio respiro che non ammette i “due tempi” (subito gli interventi immediati per contrastare lo sfascio delle nostre esistenze imposte dall’austerity; poi una vera riforma della società). Senza egemonia culturale anche gli interventi più circoscritti sono privi di prospettiva e di forza e lasciano il campo libero alla dittatura del pensiero unico e alle sue applicazioni. Solo per fare due esempi: quanti avversari dell’austerity, nell’invocare una ripresa di politiche keynesiane, riescono ancora a inserire nelle loro proposte un rimando a obiettivi e prospettive di ampio respiro, ma sempre più attuali, come “l’eutanasia del rentier”, il dimezzamento dell’orario di lavoro, o la remissione del debito pubblico? Dovevamo aspettare un economista conservatore come Paolo Savona perché nella comunità economica italiana si cominciasse a prospettare una “rimodulazione” del debito? Oppure, per calarci nella pratica quotidiana, quanto veramente a fondo si è spinta finora la nostra critica della competitività universale come principio fondativo del pensiero unico? Siamo ancora capaci di mettere radicalmente in contrapposizione tra loro meritocrazia e solidarietà, selezione e cooperazione, appropriazione e condivisione, gerarchia ed eguaglianza? O è una prospettiva perduta per sempre, mano a mano che il pensiero unico si faceva strada non solo nel mondo accademico, in politica e nelle istituzioni, ma anche nel nostro modo di ragionare e persino nei nostri affetti? Con la conseguenza di lasciar campo libero ai sostenitori di Matteo Renzi: il “giardiniere” venuto dal nulla e destinato a ritornare nel nulla. Come Monti e Letta.
Cassandra aveva ragione: le ricette del neoliberismo, la spremitura dei molti in favore dei pochi (il capitalismo nella sua fase attuale) porta l'Europa sull'orlo dell'abisso. Occorre ribaltare il tavolo.
Il manifesto, 15 agosto 2014
Gli ultimi dati rilasciati ieri da Eurostat, l’agenzia statistica europea, confermano quello che ormai vanno dicendo da tempo schiere di economisti, anche di estrazione mainstream: la tanto sbandierata “ripresa” europea – che comunque rappresentava sempre una medi tra quegli stati che registravano modesti tassi di crescita (come la Germania) e quelli che continuavano a essere impantanati nella recessione post-crisi (come l’Italia) – era una pia illusione.
Senza un ribaltamento radicale delle politiche economiche, l’eurozona era inevitabilmente condannata a sprofondare in una cosiddetta “stagnazione secolare”: un lungo periodo di crescita bassa o nulla. E infatti l’ultimo bollettino di Eurostat parla chiaro: nell’ultimo trimestre dell’anno la crescita nella zona euro è stata dello 0.0%. A leggere il testo del comunicato, però, si direbbe che non c’è motivo di preoccuparsi: secondo la neolingua dei burocrati di Bruxelles, semplicemente “il Pil nell’area euro è rimasto stabile”. Tutto a posto, dunque?
Purtroppo no. In uno scenario di stagnazione secolare risolvere il problema della disoccupazione dilagante (18 milioni di senza lavoro solo nella zona euro), della deflazione alle porte (0.4% il tasso d’inflazione nella zona euro, mentre in alcuni paesi è già sotto lo zero) e del debito pubblico è praticamente impossibile. Al punto che c’è già chi parla di “stag-deflazione” (per fare il verso alla stagflazione degli anni ’70): uno scenario da incubo in cui crescita anemica, bassa domanda, prezzi in calo, disoccupazione crescente, carenza di investimenti, fallimenti aziendali, sofferenze bancarie e debiti pubblici alle stelle si alimentano a vicenda in una spirale senza fine.
Perché l’eurozona si trova in questa condizione, quando altre aree economiche colpite altrettanto duramente dalla crisi del 2008, come Stati uniti e Regno Unito, hanno ridotto la disoccupazione e sono tornate ai livelli di crescita pre-crisi o li hanno addirittura superati?
A prescindere dai limiti “strutturali” dell’eurozona (impossibilità della Bce di offrire liquidità agli Stati, ecc.), la causa principale dell’infinita crisi europea – come ormai denunciano anche giornali come il Financial Times e organizzazioni notoriamente neoliberiste come l’Fmi –, sono le folli politiche di austerity perseguite dall’establishment europeo negli ultimi anni, che hanno avuto l’effetto di strangolare ulteriormente l’economia, già affamata da un crollo della spesa privata, per mezzo di drastici tagli alla spesa pubblica, aumenti delle tasse e compressione dei salari.
Altrove hanno invece perseguito politiche monetarie e fiscali espansive, con risultati prevedibilmente positivi. Finora erano stati soprattutto i paesi della periferia a patire le conseguenze di queste politiche scellerate. L’Italia è il caso più esemplare: produzione industriale al –25%, Pil al –10%, tasso di accumulazione al –13%, disoccupazione e debito pubblico a livelli record. Un’apocalisse economica e sociale da cui il nostro paese impiegherà decenni a riprendersi (se mai ce la farà). La vera novità è che nell’ultimo trimestre anche la Germania ha registrato un tasso di crescita di negativo (-0.2%) per la prima volta dal 2010. Anche in questo caso c’è poco da sorprendersi.
L’avevano predetto in molti: continuando a comprimere la domanda interna e affamando i propri partner commerciali europei per mezzo dell’austerità la Germania avrebbe finito inevitabilmente per danneggiare la propria economia, fortemente basata sulle esportazioni. Basterà questo a convincere i tedeschi della necessità di un cambio di rotta? O almeno a convincere Matteo Renzi che la soluzione alla crisi non passa di certo per le [sue]“riforme strutturali"
«Lo Statuto dei lavoratori lo riscriveremo, ha detto il premier, ma un aspetto non dovrebbe sfuggirgli: con il vecchio Nuovo centrodestra di Alfano e Sacconi lo Statuto non si può riscrivere. A meno che riscriverlo non significhi in realtà abolirlo».
La Repubblica, 14 agosto 2014
È in realtà un totem ideologico della destra, l’abolizione dell’articolo 18 dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ma questo nodo interroga al tempo stesso una sinistra in profonda trasformazione. Il primo aspetto è apparso molto chiaro in questi giorni ed ha dato pessima prova di sé una destra che continua ad invecchiare nei suoi tenaci pregiudizi. E nei suoi portavoce: un Alfano maldestro nelle dichiarazioni — non solo contro i venditoriambulanti.
E un Sacconi sempre più oltranzista (forse per far dimenticare le pessime prove date a suo tempo come ministro). L’abolizione la chiedono tutti gli imprenditori, ha detto, una ragione ci deve pur essere... Ed ha aggiunto, a scanso di equivoci: bisogna semplificare il contratto a tempo indeterminato rendendolo più conveniente per i datori di lavoro. Il tutto è stato accompagnato da uno stonato concerto di giudizi privi di fondamento e intrisi, appunto, di pessima ideologia: l’articolo 18 ha danneggiato sviluppo e competitività (così un ex presidente di Confindustria, molto più reticente sulle responsabilità di quella organizzazione); l’alternativa alla sua abolizione sarebbe l’immobilismo totale (Maurizio Gasparri, noto esperto di diritto del lavoro e di sviluppo industriale), e così via. Si sorvoli pure sul carattere strumentale della estemporanea sortita di Alfano, che evoca bandierine o piccole manovre agostane, e la si prenda davvero sul serio.
Ci riconsegna una destra che non si vergogna della propria tradizione antisindacale, della propria insensibilità sociale e dei guasti che ha prodotto nella storia del Paese: una destra capace ancor oggi di rimuovere il clima di pesanti illeciti, di brutali discriminazioni, di dure umiliazioni dei lavoratori compiute prima dell’entrata in vigore dello Statuto. È intessuta di dolori, quella storia: e in qualche modo si ripropose agli inizi degli anni ottanta, quando la riduzione drastica del lavoro nelle grandi fabbriche innescò drammi veri, alla Fiat come a Marghera e altrove. Essa incise brutalmente sui diritti pur affermati dallo Statuto ma pochi se ne accorsero nei “dorati anni ottanta”: comprendeva anche questo, quella “modernità”, ed è troppo ardito chiedere una riflessione su questo al vecchissimo Nuovo centrodestra. Forse gli si può chiedere però di non rimuovere un altro aspetto, e cioè la pessima spirale che fu innescata dall’abolizione dei diritti degli anni cinquanta e sessanta. È un aspetto centrale: non capiremmo altrimenti la durezza della rivincita sindacale dell’autunno caldo e della “conflittualità permanente” degli anni settanta. Una conferma probante, se ce ne fosse bisogno, che l’assenza di regole non favorisce, alla lunga, neppure la parte che sembra goderne i vantaggi più immediati. Apre dunque la via a molti errori e a molti guasti la rimozione del passato, ma va aggiunto che ancora una volta la destra nostrana non sa dare neppure giudizi fondati e pacati sul presente né misurarsi con il futuro. È pessima ideologia e pessima politica rimuovere la realtà di un lavoro di fabbrica quantitativamente sempre più ridotto e insidiato su più versanti, con un potere d’acquisto dei salari fortemente e progressivamente eroso da quasi trent’anni. Rimuovere, anche, l’indebolimento dell’articolo 18 già realizzato con la riforma Fornero e il clima di insicurezza (e di vetero revanscismo padronale) che è stato ulteriormente aggravato dall’operare di Sergio Marchionne. Ed è un puro inganno sostenere che i lavoratori privi di tutele si difendono togliendo i diritti a coloro che ancora li hanno (bugia dalle gambe cortissime, smentita ogni giorno dai fatti).
Quando lo Statuto dei lavoratori fu approvato si disse, a ragione, che la Costituzione era finalmente entrata in fabbrica: siamo proprio certi che oggi, nella diffusissima paura di perdere il lavoro, la Costituzione in fabbrica non sia più necessaria? D’accordo, la domanda non va rivolta agli improbabili interlocutori del centrodestra: essa è però fondamentale per una sinistra che ha avviato una trasformazione profonda e che si interroga oggi sul senso, sull’orientamento (sul verso, per dirla con Renzi) da dare ad essa. Certo, la sinistra sconta anche qui un profondissimo ritardo, incapace come è stata fin dagli anni ottanta di misurarsi realmente con le trasformazioni del mondo del lavoro e delle sue culture, con vecchie e nuove precarietà, con vecchi e nuovi drammi. Oscillante talora fra poli opposti e portata a divaricazioni che hanno fatto più di un danno.
Oggi tutto questo non è più possibile e nella rifondazione della sinistra i nodi del lavoro e dei diritti sono centrali. È fondamentale che vi sia in essa una vera “pedagogia per il futuro”, sono centrali indicazioni limpide e prospettive riconoscibili, nella consapevolezza che proprio le crisi economiche e politiche rendono preziosi i diritti. È una prova vera, quella che attende il Pd di Renzi, e va affrontata nella sua interezza. Lo Statuto dei lavoratori lo riscriveremo, ha detto il premier, ma un aspetto non dovrebbe sfuggirgli: con il vecchio Nuovo centrodestra di Alfano e Sacconi lo Statuto non si può riscrivere. A meno che riscriverlo non significhi in realtà abolirlo.
la Repubblica (13 agosto 2014 ) ci sembra che l’autore superi se stesso. Con postilla
Caro presidente del Consiglio Matteo Renzi,
Le scrivo, come è diritto di ogni cittadino, per porLe una domanda: la riforma della Costituzione su cui il governo punta le sue carte servirà a disincagliare l’Italia dalle secche di questa lunga stagnazione?
Lei certo sa, Signor Presidente, che l’Italia si distingue per alcuni primati poco invidiabili. Secondo dati Ocse richiamati dalla Corte dei Conti, siamo al terzo posto al mondo per evasione fiscale (preceduti solo da Turchia e Messico), e Confcommercio stima in 154,4 miliardi di euro le tasse non pagate nel solo 2012. Secondo Transparency International, l’Italia è uno dei Paesi più corrotti d’Europa (con Romania, Grecia e Bulgaria), peggio di Namibia e Ruanda, con perdite annue di 60 miliardi. Secondo il World Freedom Index l’Italia è terzultima in Europa per libertà di stampa, stando in classifica fra Haiti e BurkinaFaso. Intanto, a fronte di un consumo di suolo medio in Europa del 2,8%, l’Italia raggiunge un devastante 6,9%, pur con incremento demografico zero (dati Ispra). La disoccupazione giovanile è balzata al 43,3%, contro il 7,9% della Germania, e la media europea del 22,5% (dati Eurostat).
Secondo il Dipartimento per lo Sviluppo di Palazzo Chigi l’Italia è ultima in Europa per investimenti in cultura, con una contrazione della spesa doppia che in Grecia. Una riforma universitaria pessima e gestita ancor peggio mette in ginocchio la ricerca e riduce il merito a un optional spesso superfluo. Centinaia di imprese italiane chiudono i battenti o vengono assorbite da aziende cinesi, sudamericane, mediorientali. Come una valanga, continua la “fuga dei cervelli”: decine di migliaia di giovani formatisi in Italia portano in altri Paesi i loro talenti, vanificando l’alto investimento che il Paese ha fatto su di loro (nel 2013, quasi 44.000 italiani hanno chiesto di lavorare nella sola Gran Bretagna). Mentre cresce la disuguaglianza sociale, si radica la sfiducia dei cittadini nella politica, come ha mostrato il forte astensionismo nelle Europee, con un 41,32% di non votanti a cui va aggiunto l’8,31% di schede bianche, nulle o disperse. In questo contesto, come Lei sa bene, Signor Presidente, il buon risultato percentuale del Suo partito vale più o meno la metà di quel che sembra.
A fronte di questi problemi, l’azione del Suo governo si concentra su questioni di ingegneria istituzionale, come se ridurre di numero i senatori (ma non i deputati), o evitarne l’elezione popolare, possa salvare l’economia italiana. Secondo Mario Draghi, l’Italia ha bisogno di «riforme strutturali sui mercati dei prodotti e del lavoro», ma in Italia si produce sempre meno e si lavora sempre meno. L’Italia deve ridurre la pressione fiscale: con un reddito annuo di 28 mila euro, un italiano paga il 27% di imposte, un americano il 15%; a un reddito di 75 mila euro corrisponde un’imposta del 28% in Usa, del 43% in Italia. Questa enorme differenza dipende dalla rarità dell’evasione fiscale in Usa (dove è severamente punita), mentre i nostri governi di ogni colore (anche il Suo) fanno ben poco per combatterla.
Lei ha cercato invano, Signor Presidente, di trasmettere il Suo ottimismo: le Sue previsioni di crescita del Pil si sono rivelate fallaci, e il calo dello 0,2% nell’ultimo trimestre, contro un +3,2% della Gran Bretagna e un +1,1% medio dell’area euro, lascia poco spazio alla retorica. Cresce intanto il debito pubblico, che nel 2013 ha raggiunto il 132,6% sul Pil, e falliscono uno dopo l’altro i tentativi di spending review.
La stagnazione è ormai recessione, nasconderlo è un boomerang per chi lo fa. Corruzione, evasione fiscale, disoccupazione e altri problemi italiani sono ben noti ai nostri partner in Europa e nel mondo: se non si affrontano subito, il governo perde credibilità e accredita l’ipotesi che cambiare la Costituzione sia una tecnica dilatoria per non sfidare le urgenze.
La riforma apporta alla Costituzione mutamenti radicali. Anch’io, come molti cittadini, ritengo improprio che tali proposte siano nate dal governo e non dal Parlamento, e che vengano approvate da senatori e deputati nominati secondo una legge elettorale incostituzionale. Ma la domanda è ora un’altra: se mai quel testo entrasse in vigore tal quale, come e in che cosa la recessione del Paese ne verrebbe corretta? E se invece il testo facesse per mesi e mesi la spola fra Camera e Senato assorbendo tempo ed energie, non sarebbe un dirottamento rispetto ai problemi reali del Paese?
Non crede che il Suo governo acquisterebbe prestigio e credibilità se mostrasse nei fatti di ricordarsi dei diritti dei cittadini sanciti dalla Costituzione e dimenticati dalla politica con la scusa della crisi? Non sono diritti secondari: sono il diritto al lavoro per tutti i cittadini (art. 4), la funzione sociale della proprietà (art. 42), la pari dignità sociale dei cittadini e la loro eguaglianza (art. 3), la garanzia per tutti di «un’esistenza libera e dignitosa» (art. 36), il diritto alla cultura (artt. 9, 21, 33), il diritto alla salute (art. 32). Sono diritti ignorati o taglieggiati in nome della crisi economica. In che modo la Costituzione che Lei ha in mente intende farli risorgere dalle ceneri?
Il giovane Renzi essendo stato boy scout, conosce probabilmente la differenza tra i gufi (tra i quali, nella sua tassonomia, certamente annovera Settis) e le civette. Non essendo versato in altri saperi non sa, probabilmente, che la civetta era per gli antichi, e per i moderni che non hanno rottamato il passato, il simbolo della sapienza e della saggezza. Per celebrare nel nostro autore queste virtù abbiamo scelto come icona con la quale sottolienare l'articolo appunto una civetta. la cui immagine abbiamo tratto dal Museo virtuale della Certosa di Bologna.
In Italia le buone leggi non valgono per tutti/e. I diritti non sono mai uguali, dipende da chi conosci, da quanto tenace sei nell'affrontare i cavilli e le trappole burocratiche. Il Ministro Madia interviene sull'argomento e dice che il governo "se ne occuperà". Sembra che si tratti di un fenomeno sconosciuto, disvelato dalla lettera di una mamma precaria. Artcoli di M.N. De Luca e M. Madia,
La Repubblica, 13 agosto 2014 (m.p.r.)
NE' CONCEDI NE' AIUTI.
ECCO PERCHE' L'ITALIA
NON E' UN PAESE PER MAMME PRECARIE
di Maria Novella De Luca
Roma. Siamo un paese ostile alla maternità e sempre più refrattario ai bambini. Le desolanti statistiche dell’Istat lo testimoniano ad ogni rapporto annuale, fotografando la nostra progressiva discesa agli ultimi posti nella classifica demografica mondiale. Puntualmente ogni volta ci chiediamo perché. Eppure basta leggere la lettera pubblicata ieri su “Repubblica”, per rendersi contro di quanto l’Italia sia diventata ormai un luogo inospitale per chiunque decida di rischiare l’avventura della famiglia. Soprattutto se si è una lavoratrice precaria, ma che nonostante tutto si “azzarda” a mettere al mondo dei figli, ben tre in questo caso. Perché non solo il nostro non è un paese per mamme, ma in particolare non è un paese per mamme “atipiche”, quelle cioè che in assenza di un contratto di lavoro definito, non hanno diritto praticamente a nulla. Né prima della nascita, né dopo. Un’incredibile mancanza di tutele e di sostegni che Belinda Malfetti, giornalista freelance, ben descrive nella sua lettera “La mia odissea di mamma precaria alla ricerca del sussidio negato”. In Italia infatti le leggi ci sono, ma valgono soltanto per le mamme che hanno un contratto di lavoro. Per le altre, che sono sempre di più, resta soltanto il deserto. Ecco a confronto i diritti delle une e delle altre.
CARA BELINDA, HANNO CALPESTATO I SUOI DIRITTI. INTERVERRO'.
di Marianna Madia
Cara Belinda,
la sua lettera di donna, madre, e lavoratrice autonoma è l’emblema di ciò di cui dobbiamo occuparci come Governo. Lei ha perfettamente ragione e io la ringrazio perché alla sua indignazione non segue la rassegnazione, altrimenti non avrebbe scritto questa lettera.
«La Repubblica, 11 agosto 2014
Il ermine “migranti” è generalmente associato all’emergenza del bisogno. Le immagini di italiani con valigie di cartone che approdano al porto di New York appartengono alla nostra memoria collettiva. Come anche quelle ormai quotidiane di disperati che cercano di attraversare vivi il Mediterraneo. Ma non tutti i migranti sono così visibili e disperati. Ci sono migranti invisibili, che passano le frontiere senza far rumore e con grande facilità. I golden migrants che non viaggiano con valigie di cartone e non scappano da nessuna miseria. Alcuni stati membri dell’Ue propongono offerte preferenziali per visti a stranieri facoltosi che vogliono lì parcheggiare le loro ricchezze. Sembra che il sistema di inclusione “golden visa” proceda ormai speditamente e che la “fortezza Europa” sia una percezione dei disperati soltanto.
Gli immigrati di serie A non vengono in Europa per una vita migliore o per la libertà - queste cose le hanno già. Strano continente questo, che si presenta al mondo orgoglioso di essere un progetto di unione nel nome dei diritti e del benessere diffuso e poi premia chi vi ci va non perché aspira a questi beni mentre respinge o esclude coloro che questi beni li cercano.
Gli immigrati che viaggiano in business class hanno alcune mete preferite: Malta, Portogallo, Spagna, Cipro, Bulgaria, paesi che hanno intensificato gli sforzi per attrarre facoltosi stranieri con la promessa di una cittadinanza veloce in cambio di investimenti nell’economia locale. A far da battistrada al programma di attrazione di immigrati first class è stata la Gran Bretagna che ha per prima adottato misure di facilitazione per naturalizzare stranieri facoltosi. La crisi ha convinto altri paesi a seguire questa strada, mettendo in circolo l’idea che la cittadinanza può essere un bene in vendita e, come tutte le merci, data a chi la paga bene. Gli esperti cercano di arginare questa distribuzione discriminatoria della cittadinanza distinguendo tra “golden visa” che è «un programma per investitori che facilita la procedura di immigrazione per stranieri ricchi» e la cosiddetta “cittadinanza in vendita” che “comporta la vendita delle nazionalità,” come ha detto Katherina Eisele del Center for European Policy Studies di Bruxelles. Ma la distinzione è sottile come un filo di lana, facile a spezzarsi.
Un anno fa, il governo maltese ha lanciato il “Programma per investitori individuali” con il quale gli stranieri ricchi ottengono la cittadinanza maltese con una somma fissa di denaro. Ai critici, il programma maltese è apparso subito come una porta di servizio per concedere ad alcuni privilegiati di passare, saltando i regolamenti europei sull’immigrazione. Ma diventare maltesi significa diventare europei e quindi la questione non è solo nazionale. L’Europa prevede che la cittadinanza attribuita da uno stato membro debba seguire una certa affiliazione con il paese in questione prima di essere concessa; che, insomma, ci debba essere un senso di responsabilità del richiedente verso il paese naturalizzante senza di che la cittadinanza rischia di essere davvero una merce in vendita - soprattutto in un paese piccolo o con più pressante bisogno economico. Nasce così il fenomeno di passaporti per mezzo milione di euro.
È questo il caso del Portogallo, che nel 2012 ha istituito la “golden visa” cioè il permesso di soggiorno per stranieri che acquistino una proprietà immobiliare in Portogallo del valore di almeno 500,000 euro e vivano sei anni nel paese. Un’altra procedura più veloce prevede che lo straniero apra un conto in una banca portoghese trasferendovi almeno un milione di euro o che apra un’azienda con almeno trenta operai: entrambe le cose saranno sufficienti a dargli il passaporto portoghese. Dei due programmi, il “golden visa” ha avuto più successo (con investitori asiatici in particolare) facendo crescere il mercato immobiliare.
I critici di questa mercificazione della cittadinanza hanno puntato il dito contro la logica discriminatoria che penalizza solo gli immigranti poveri. Ma la questione della citizenship for sale mette in luce una contraddizione ben più grave, che mina alla radice le nostre democrazie europee. I paesi in difficoltà economica hanno bisogno di nuovi cittadini - in breve, sia di fresca manodopera a bassissimo costo sia di fresca ricchezza da investire. Entrambi sono un’arma straordinaria contro i lacci che hanno in questi decenni reso il lavoro dei cittadini europei un bene tutelato da diritti: la manodopera a bassissimo costo e i ricchi stranieri pronti a far fruttare la loro ricchezza sono i due poli estremi e complementari che contribuiscono a rendere carta straccia i contratti e le retribuzioni della manodopera nazionale. La dissociazione del lavoro dalla cittadinanza nazionale ha in queste politiche sull’immigrazione il suo luogo di attuazione. I programmi di cittadinanza facile per ricchi stranieri sono certamente figli della crisi, ma sono una ricetta non per creare occupazione, bensì per creare lavori a qualunque condizione, precari e mal pagati. Se lavoro si crea dunque, sarà probabilmente più appetibile per coloro che sono disposti a lavorare per un pugno di euro: immigrati o cittadini che dal punto di vista lavorativo sono come gli immigrati.
È quindi la democrazia stessa che viene ad essere aggredita con questi programmi dimostrando come l’immigrazione sia un’arma politica di straordinaria potenza, troppo sottovalutata da politici ed esperti. Con quest’arma si raggiungono obiettivi impossibili da raggiungere con la cittadinanza sancita nelle nostre costituzioni: la dissociazione tra lavoro e diritti.
«Il manifesto, 10 agosto 2014
Renzi ha sfidato nel 2012 Bersani alle primarie, ha perso, come prevedibile, ma ha negoziato una sostanziosa quota di parlamentari a lui fedeli. Apparentemente leale nei confronti di Bersani nella campagna elettorale del 2013, ha comunque marcato le distanze da lui, sabotandolo in ogni modo. Che la rivendicazione ripetuta del suo tasso di novità — sfociata nella mancata candidatura di D’Alema e altri — abbia concorso all’insuccesso del Pd è verosimile ed è altrettanto verosimile che ci sia il suo zampino (benché non solo il suo) dietro le disastrose bocciature di Marini e Prodi alla presidenza della Repubblica. A conclusione di questo primo capitolo della storia, Renzi, incoronato segretario del partito dalla plebiscitaria liturgia delle primarie aperte, ha dato il benservito al troppo opaco Enrico Letta, insediandosi alla guida di un governo fatto per intero di figure incapaci di fargli ombra. Con quale programma? Tolto l’ammuine — i toni più accesi nei confronti dell’Europa e della signora Merkel si sono subito rivelati fumo negli occhi — non c’è altro che stolida continuità con le politiche dei suoi due ultimi predecessori. Esosità fiscale, destrutturazione del lavoro dipendente, tagli spietati ai servizi pubblici, abbandono del Mezzogiorno.
Con una piccola variante, che ricorda la famigerata abolizione dell’Ici da parte di Berlusconi nel 2008. Mentre con implacabile regolarità sempre nuove schiere di lavoratori seguitavano a perdere il posto, il Nostro ha elargito 80 euro a una discreta platea di elettori, promettendo d’estenderla nei mesi a venire. Come per la promessa di abolire l’Ici, l’obiettivo non era quello di far ripartire i consumi, bensì spuntare un buon successo alle europee in grado di legittimarlo e consolidare il suo potere. Il declino di Berlusconi e l’uscita di scena delle frattaglie centriste, massacrate dal fallimento di Monti, gli ha dato un successo inaspettato.
A dire il vero, di varianti Renzi ne ha introdotta anche una seconda. Per neutralizzare ogni opposizione entro il suo partito ha intavolato una spregiudicata trattativa con Berlusconi onde ridisegnare a misura d’entrambi il profilo delle istituzioni repubblicane. Non avendo novità da proporre sul piano delle politiche, Renzi ha investito tutte le sue energie in un disegno volto a cancellare d’un tratto il delicato sistema di contrappesi adottato dai padri costituenti.
Per carità, non parliamo di lesa democrazia. La democrazia di per sé è un contenitore assai capiente. E molto accomodante. I suoi requisiti irrinunciabili — suffragio universale, principio di maggioranza, pluralismo partitico — tollerano dosi massicce di non democrazia. Troppo spesso si dimentica che senza un decente software politico, l’hardware democratico vale poco. È così che da tempo i regimi democratici si sono ampiamente immunizzati dalle misure impopolari, e antipopolari, che adottano e hanno buttato a mare i cosiddetti diritti sociali. L’inciucio Renzi-Berlusconi non fa che concludere un percorso, avviato un quarto di secolo or sono, di omologazione dell’Italia alle altre democrazie avanzate, le quali — c’è fior di ricerche che lo attesta -, tranne quelle che hanno mantenuto il profilo “consensuale” introdotto nel dopoguerra, versano in miserevoli condizioni.
L’efficienza e celerità decisionale che Renzi, con insopportabile violenza verbale, invoca come ragione del suo programma istituzionale è d’altra parte già assicurata dall’uso e abuso del voto di fiducia e non è certo ragione sufficiente di uno zelo che andrebbe dedicato a tutt’altre cause. Prima fra tutte l’occupazione. Difficile pensare che lui non ne sia consapevole. Per quanto semplicistico sia il suo approccio ai problemi del paese, e per quanto sia anche lui impregnato di quella cultura populista che intossica le democrazie avanzate, il Nostro non fa che giocare il suo bluff.
In compenso, due acquiescenze stupiscono non poco. La prima è quella del Capo dello Stato, sempre rivendicatosi garante della lealtà costituzionale. In sintonia con Draghi, che detta la sua ricetta economica, il Presidente non lesina il suo appoggio. La seconda è quella della dirigenza e della rappresentanza parlamentare del Pd. Che una parte sia acquiescente per convinzione, si sapeva. Che un’altra sia rimasta abbacinata dal risultato delle europee, si spiega. L’opportunismo è un morbo diffusissimo in politica. Più difficile è spiegarsi l’isolamento dei Chiti, Mineo, Tocci, Casson (mi scuso per chi non nomino) che si sono fieramente opposti alla brutale castrazione del Senato. Che degli oppositori ci siano pure alla Camera è noto. Lo stesso Bersani ha manifestato il suo disagio. Ma nel Pd nessuno sembra avere il coraggio di innalzare le bandiere della Costituzione vilipesa e dire un no forte e chiaro. Spiace dirlo, ma dagli eredi legittimi dei partiti che scrissero quella Carta c’era da aspettarsi ben di più
«Il premier aveva detto che sull’andamento della politica economica ci avrebbe messo la faccia, ma in realtà se metterci la faccia significa andarsene, ha rapidamente cambiato idea». Finalmente un editoriale di Eugenio Scalfari che condividiamo in gran parte.
La Repubblica, 10 agosto 2014
Il nostro Ilvo Diamanti in un articolo di qualche giorno fa smentisce che si sia in presenza d’una tentazione autoritaria da parte di Matteo Renzi, come molti dei suoi avversari politici temono. Che Renzi, riducendo il Senato a poco più d’una scarpa vecchia, coltivi un rafforzamento del potere esecutivo non c’è dubbio alcuno; del resto è lui stesso che lo dice presentandolo come una svolta democratica che allinea l’Italia a tutti gli altri paesi d’Europa. È vero e anch’io l’ho ricordato domenica scorsa. Per darne una definizione calzante ho chiamato questa scelta renziana ampiamente condivisa da gran parte del Pd, egemonia individuale. Diamanti usa una definizione molto simile: la chiama democrazia personale e, cercando un paragone col passato, fa il nome di Bettino Craxi.
La pensiamo allo stesso modo e qui nasce il problema: un’egemonia individuale o una democrazia personale è quanto merita il nostro Paese? Somiglia a quanto avviene negli altri Stati membri dell’Unione europea? La leadership è ormai un requisito della società mondiale determinato da molti mutamenti avvenuti a cominciare dalla società globale? E non è più soltanto un fatto della politica, ma di tutte le manifestazioni sociali ed economiche? Dipende forse dalla scomparsa delle ideologie, sostituite dal pragmatismo che opera avendo come riferimento soltanto il presente?
Le domande, come si vede, sono molte e bisogna confrontarsi con esse per capire che cosa stia accadendo e che cosa accadrà
Il secondo tema con il quale confrontarsi è la contrapposizione che molti fanno tra democrazia, cioè potere del popolo, e l’oligarchia, cioè potere di pochi. Almeno a parole la grande maggioranza è per la democrazia che prevede tuttavia alcune varianti: quella esercitata dal popolo direttamente (l’agorà greca, la piazza nei comuni medievali, il sistema referendario esteso e facilitato al massimo).
Se posso dare il mio giudizio, io credo che la sola e vera forma che realizza la sovranità sociale sia l’oligarchia. Se vogliamo il modello più antico è quello teorizzato da Platone nel suo dialogo sulla “Repubblica”. Certo l’oligarchia, per tutelare la libertà e la partecipazione, deve adottare alcune condizioni: deve essere democraticamente eletta, aperta sia a molte entrate sia a frequenti uscite; insomma deve rinnovarsi senza distinzione tra i ceti sociali di provenienza. Un’oligarchia chiusa o rinnovata soltanto per cooptazione è quanto di peggio possa accadere, ma se è aperta è il solo vero modo di affidare la società ai migliori e verrà giudicata dal cosiddetto popolo sovrano come consuntivo delle sue azioni sia in politica sia nelle istituzioni sociali ed economiche attraverso libere elezioni.
Certo c’è un altro modo di guidare una società ed è la dittatura. Capita spesso la dittatura. Nell’antica Roma repubblicana durava sei mesi e si instaurava quando c’era un pericolo alle porte che bisognava con urgenza sgominare. Poi venne l’Impero, Roma aveva conquistato l’intera Europa e Asia minore e aveva bisogno di una figura simbolica che la rappresentasse; nei primi due secoli l’Impero aveva tuttavia presso di sé una folta classe dirigente con ampie deleghe operative. Fin quando questo sistema, chiamiamolo imperial- democratico, durò Roma continuò a espandersi politicamente e a diffondere dovunque la sua cultura, le tavole del suo diritto, la sua poesia, la sua civiltà. Poi la classe dirigente si restrinse ai “clientes” dell’Imperatore e ai militari che comandavano le legioni e allora cominciò il declino.
***
Spero d’aver risposto come potevo e il più brevemente possibile alle domande che servono a disegnare uno scenario. Ora torniamo ai fatti che riguardano direttamente noi e l’Europa tutta.
L’attualità di questi giorni è dominata da due avvenimenti, entrambi italiani, la riforma del Senato che come Renzi voleva è stata approvata in prima lettura nel testo voluto dal governo e contemporaneamente, la cattiva sorpresa di un calo dello 0,2 per cento del Pil nel secondo trimestre dell’anno in corso, dopo un calo dello 0,1 per cento nel primo trimestre il che significa una perdita dello 0,3 nel semestre. Tecnicamente e sostanzialmente siamo in recessione.
Renzi aveva detto che sull’andamento della politica economica ci avrebbe messo la faccia, ma in realtà, se metterci la faccia significa andarsene, ha rapidamente cambiato idea. Debbo dire che ha fatto bene, le sue dimissioni avrebbero aperto una crisi estremamente difficile proprio nel momento in cui l’Italia ha la presidenza semestrale dell’Unione europea. Finora non si è ancora avuto alcun segnale di questa presidenza che avrebbe dovuto conferirci meriti e poteri di intervento ma temo che non si verificherà perché i dati dell’Istat equivalgono ad una pessima pagella.
Renzi dice che il calo del Pil non ha alcun significato, anzi lo spinge ad accelerare il risanamento. Non dice come e attingendo a quali risorse che francamente non ci sono. E poi interviene Mario Draghi con tutta l’autorità che gli deriva dalla competenza che ha e dalla carica che ricopre.
Su Draghi e i suoi recenti interventi che ci riguardano direttamente i giornali e lo stesso Renzi hanno fatto molta confusione eppure le sue parole sono state chiarissime. Ha detto che l’Italia deve finalmente affrontare le riforme economiche (finora non ne ha fatta alcuna salvo quella degli 80 euro sulla quale spenderemo tra poco una parola); le riforme secondo Draghi debbono affrontare tre temi: la produttività, la competitività e la crescita; le riforme istituzionali possono essere anch’esse perseguite ma non possono sottrarre tempo a quelle economiche: o vanno di pari passo, sempre che il calendario delle Camere lo consenta, oppure sono quelle economiche a dover essere privilegiate.
Infine – e questa è a mio avviso la richiesta fondamentale – Draghi ha esortato i governi europei a cedere nei prossimi mesi ampia sovranità all’Europa soprattutto su temi riguardanti la politica economica; senza queste cessioni di sovranità difficilmente usciremo dalla situazione di deflazione che ormai minaccia l’intera economia europea e quella italiana in particolare. Dal canto suo il presidente della Bce a settembre aprirà il rubinetto della liquidità come ha già da tempo annunciato con due finalità ben precise: ravvivare il rapporto tra le banche e la loro clientela (specialmente in Italia dove questo non accade ancora in modo soddisfacente) e diminuire il tasso dell’euro nei confronti del dollaro per favorire le esportazioni e quindi rafforzare la domanda di beni e servizi europei.
Mi permetto di ricordare che domenica scorsa ho scritto che per combattere la minaccia incombente della deflazione l’Italia dovrebbe accettare l’arrivo della “troika” internazionale che, a differenza di qualche tempo fa, è ormai orientata a favorire la crescita, lo sviluppo e l’occupazione. Draghi parla di importanti cessioni di sovranità: diciamo su per giù la stessa cosa. Sugli 80 euro la situazione è chiarissima: dopo tre mesi i consumi non si sono mossi, gli 80 euro soddisfano i beneficiari e questo è evidente, ma il risultato economico che si sperava ci fosse non si è verificato. Anche su questo punto Renzi l’aveva dato per certo e ci metteva, come dice lui, la faccia. Ho già detto che non può farlo per mancanza di alternative ma sarebbe proprio lui che dovrebbe favorirne la nascita. Invece non lo fa e forse gira con la maschera sul viso. Capisco ma non condivido.
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Quanto al resto, sia Renzi sia Berlusconi sostengono che per quanto riguarda la legislazione ordinaria e quella economica in particolare Forza Italia è e sarà all’opposizione. Sarà probabilmente così ma non dipende da Renzi bensì da Berlusconi. Forza Italia non è obbligata da nessun accordo a entrare nella maggioranza e non ne ha neppure l’interesse, ma nessuno può impedirgli quando vuole di votare a favore del governo anche su provvedimenti che non hanno nulla a che vedere con le riforme. Io ho la sensazione che questo avverrà spesso poiché significa che di fatto Berlusconi è il pilastro con Renzi della maggioranza. Può non piacere né in Italia né in Europa, ma se accadrà bisognerà purtroppo prenderne atto. *** Dedico poche parole a quanto hanno scritto alcuni egregi colleghi di altri giornali su questioni come quelle qui finora trattate. Alcuni ripetono che l’abbandono del bicameralismo perfetto metterà la parola fine al balletto che fa perdere mesi e mesi di tempo alle due Camere prima che una legge sia approvata. Ho già fornito da tempo le cifre, raccolte dalla segreteria del Senato, che smentiscono quest’affermazione: i tempi non sono affatto lunghissimi e variano, secondo la natura dei provvedimenti, tra i cinquantasei e i duecento giorni. Come si vede niente di paralizzante.
Viceversa sono ancora privi di attuazione ben 750 provvedimenti approvati da entrambe le Camere ma privi dei regolamenti attuativi e di altrettanti decreti ministeriali che dipendono dalla burocrazia dei singoli ministeri. Il male dunque è qui e non nel bicameralismo.
Sulla “Stampa” di ieri un egregio collega ripeteva la filastrocca del balletto, ma sullo stesso giornale la senatrice a vita Elena Cattaneo in una lettera al direttore segnalava le ragioni per cui si è astenuta nel voto finale (al Senato l’astensione vale come voto contrario). È la lettera di una persona che non parteggia per alcun partito e non ha pregiudizi di sorta ma cerca di dare giudizi lucidi e motivati.
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Infine sul nostro giornale di venerdì il professor Crainz ricorda che De Gasperi fu sempre e tenacemente favorevole al bicameralismo perfetto perché temeva che una sola Camera finisse per trasformarsi in una “assemblea giacobina” nel senso che avrebbe seguito pedissequamente le decisioni del demagogo di turno. Molti hanno spesso richiamato pareri di alcuni “padri costituenti” contro il bicameralismo, ma nessuno aveva ricordato il parere di Alcide De Gasperi che non è certo un nome da poco perché è stato il vero costruttore della Repubblica italiana.
Tre articoli (di Gaetano Azzariti, Andrea Fabozzi, Vincenzo Accattatis) illustrano e commentano l'ulteriore passo della discesa verso la fine della democrazia in Italia. Ma possono ancora essere fermati. La loro pasticcionaggine è il primo alleato di chi vuole contrastarli, ma non è certo sufficiente.
Il manifesto, 9 agosto 2014
UNDELITTO, TANTI AUTORI
di Gaetano Azzariti
Costituzione. Il maggior responsabile è il Governo che ha diretto l’intera operazione senza lasciare nessuno spazio all’autonomia del Parlamento con progressive imposizioni e l’ininterrotta invasività della sua azione che hanno annullato di fatto il ruolo costituzionale del Senato.
Un’infinita tristezza. È questo il sentimento che prevale nel momento in cui si assiste alla votazione del Senato sulla modifica della Costituzione. Domani riprenderemo la lotta per evitare il peggio: perché la legge costituzionale concluda il suo iter dovranno passare ancora molti mesi e altri passaggi parlamentari ci aspettano, poi - nel caso - il referendum oppositivo. Dunque, nulla è ancora perduto. Salvo, forse, l’onore.
In pochi giorni il Senato non ha approvato una riforma costituzionale (buona o cattiva che si possa ritenere), bensì ha distrutto il Parlamento sotto gli occhi degli italiani. Nessuno dei protagonisti è stato esente da colpe. Si è assistito a una sorta di omicidio seriale, ciascuno ha inferto la sua pugnalata. Alcuni con maggior vigore, altri con imperdonabile inconsapevolezza, altri ancora non trovando altre vie d’uscita.
Il maggior responsabile è certamente stato il Governo che ha diretto l’intera operazione, senza lasciare nessuno spazio all’autonomia del Parlamento. Le progressive imposizioni e l’ininterrotta invasività dell’azione del Governo in ogni passaggio parlamentare hanno annullato di fatto il ruolo costituzionale del Senato. Non s’è trattato solo dell’anomalia della presentazione di un disegno di legge governativo in una materia tradizionalmente non di sua competenza.
Ma anche nell’aver costretto la Commissione - in modo poco trasparente - a porre questo come testo base nonostante la discussione avesse fatto emergere altre maggioranze. E poi, ancora, nell’aver voluto controllare tutto il lavoro dei relatori - è la presidente della Commissione che ha riconosciuto che il Governo ha “vistato” gli emendamenti presentati appunto dai relatori - con buona pace dell’autonomia del mandato parlamentare e del rispetto della divisione dei poteri.
Non solo i relatori, ma ogni senatore ha dovuto confrontarsi non tanto con l’Assemblea bensì con la volontà governativa, e molti si sono piegati. Mi dispiace doverlo dire, ma l’andamento dei lavori ha dimostrato come un certo numero degli attuali senatori non tengano in nessun conto non solo la Costituzione, ma neppure la responsabilità politica, di cui ciascuno di loro dovrebbe essere titolare dinanzi al corpo elettorale.
I pochissimi voti segreti concessi su questioni del tutto marginali hanno fornito la prova di quanto fossero condizionati e insinceri i voti palesi. È stato così possibile evidenziare l’esteso numero dei rappresentanti della nazione che hanno votato con la maggioranza solo per timore di essere messi all’indice dagli stati maggiori dei rispettivi partiti. Una lacerazione costituzionalmente insopportabile. Se non si garantisce (o non si esercita) la libertà di coscienza sui temi costituzionali il principio del libero mandato serve veramente a poco. E tutto è stato fatto, invece, per vincolare i rappresentanti alla disciplina di partito. Ancora un colpo all’autonomia del Parlamento inferto - più che dal Governo o dai partiti - da quegli stessi senatori che non si sono voluti opporre palesemente a ciò che pure non condividevano.
S’è discusso e polemizzato sulla conduzione dei lavori, sull’interpretazione dei regolamenti e dei precedenti. Quel che lascia basiti è però altro. Ciò che è mancato è la consapevolezza che si stesse discutendo di una riforma profonda del nostro assetto dei poteri e degli equilibri complessivi definiti dalla Costituzione. Se si fosse partiti da questo assunto non si sarebbe potuto accettare, in nessun caso, un andamento che ha sostanzialmente impedito ogni seria discussione su tutti i punti della revisione proposta. Non si sarebbe dovuto assistere allo spettacolo surreale che ha visto prima esaurire nella rissa e nel caos il tempo della discussione, per poi procedere a un’interminabile serie di votazioni, con un’Assemblea muta e irriflessiva che meccanicamente respingeva ogni emendamento dei senatori di opposizione e approvava la riforma definita dagli accordi con il Governo. Spetta al presidente di assemblea dirigere i lavori garantendo la discussione.
Non credo possa affermarsi che ciò sia avvenuto. Anche in questo caso per il concorso di molti. Persino dell’opposizione, la quale ha dovuto utilizzare l’arma estrema dell’ostruzionismo che, evidentemente, ostacola una discussione razionale e pacata. Ciò non toglie che non si doveva accettare nessuna forzatura sui tempi, nessuna interpretazione regolamentare restrittiva dei diritti delle opposizioni, nessuna utilizzazione estensiva dei precedenti. Si doveva invece ricercare il dialogo, la trasparenza, il concorso di tutti i rappresentanti della nazione. Era compito di tutti creare un clima “costituzionale”, idoneo alla riforma. Nessuno lo ha ricercato. E temo non sia solo una questione di temperatura, ma - ahimè - di cultura costituzionale che non c’è.
La conclusione di ieri ha sancito la dissolvenza del Parlamento. La delegittimazione dell’organo titolare del potere di revisione della Costituzione è alla fine stata sanzionata dagli stessi suoi componenti. Il rifiuto di partecipare al voto conclusivo da parte di tutti gli oppositori rende palese che non si può proseguire su questa strada. Vedo esultare la maggioranza accecata dal successo di un giorno, mi aspetto qualche rozza battuta rivolta alla opposizione “che fugge”. Ma spero che, oltre la cortina dell’irrisione, qualcuno si fermi per pensare a come rimediare. La Costituzione non può essere imposta da una maggioranza politica senza una discussione e contro l’autonomia del Parlamento.
FESTAALLA COSTITUZIONE. MA È SOLO L’INIZIO
diAndrea Fabozzi,
Senato. Primo sì del parlamento: la riforma governativa perde molti voti e resta sotto la soglia dei 2/3: il referendum non sarà una concessione di Renzi. Alla maggioranza del Nazareno mancano 50 voti e il testo è pieno di «bachi» che richiedono modifiche
I grillini sfilano in riga sotto il naso di Anna Finocchiaro, piantata di guardia al centro dell’emiciclo. Lasciano l’aula per non partecipare al voto sulla riforma costituzionale. I leghisti si sorbiscono tutto il dibattito, ma vanno via alla fine per permettere a Calderoli di distinguersi: il relatore si astiene restando fermo al suo banco. Chi è contro non vota: Sel e il gruppo misto che si sono caricati il peso dell’ostruzionismo, i non convinti del Pd, i frondisti di Forza Italia. Così la riforma «storica» del senato chiude il primo giro senza nessun voto contrario. Ma con tanti voti favorevoli in meno.
L’ultima e più importante di duemila e trecento votazioni ferma i SIa quota 183, più vicina alla soglia minima indispensabile per una legge costituzionale (161) che a quella di sicurezza per evitare il referendum (214), quando arriverà la quarta lettura. Alla maggioranza del patto ri-costituente mancano una cinquantina di voti: i «dissidenti» annunciati si confermano — 19 berlusconiani e 16 democratici — in più si contano una quindicina di assenti, numerosi nel gruppo di Alfano. Renzi ha promesso la graziosa rinuncia alla maggioranza dei due terzi, per permettere il referendum confermativo. Il tabellone del senato dice che quella maggioranza non ce l’ha.
Oggi è così, ma la strada è lunga. I bachi più evidenti rimasti nel testo, oltre all’omaggio per il ruolo dei deputati, lasciano prevedere qualche modifica alla camera; la legge dunque dovrà tornare al senato. La pausa di riflessione imposta dall’articolo 138 della Costituzione e il referendum finale faranno il resto: della riforma si parlerà ancora per tutto il 2015. Il patto del Nazareno dovrà dare prova di resistenza, sempre che non venga allargato anche al resto dei dossier (più) urgenti. Un’eventuale campagna per il no al referendum partirebbe in salita, ma potrebbe insistere sull’immunità (impopolare e non abolita) e sul voto diretto (più gradito, ma cancellato). «Il governo — prevede la capogruppo di Sel Loredana De Petris — si aspetta un plebiscito ma non è detto che vada così».
Nel frattempo, ed è uno degli aspetti più assurdi della riforma renziana, tra questo autunno e la prossima primavera gli italiani eleggeranno la gran parte dei consigli regionali e molti sindaci, senza sapere se stanno contemporaneamente selezionando i futuri senatori. Lo prevede il testo approvato ieri, rischiando così l’incostituzionalità: per l’articolo 51 tutti devono essere messi in condizione di accedere «con uguaglianza» alle cariche elettive. Le disposizioni transitorie potrebbero essere corrette, eliminando la lotteria della prima volta per una vera elezione di secondo grado, ma per farlo bisognerebbe rinviare di cinque anni la tanto acclamata trasformazione del senato. È questa una delle tante incongruenze pratiche che originano nella trasformazione dei consiglieri regionali e dei sindaci in legislatori, il pasticcio dell’immunità è solo quella più evidente.
Un’altra incongruenza è quella che denuncia il senatore Chiti, il più esposto dei 16 «dissidenti» Pd. Lungi dal «rappresentare le istituzioni territoriali», i senatori-consiglieri saranno selezionati dai capi partito e nel nuovo senato replicheranno la divisione in gruppi (anche se la riforma elude il problema, non prevedendo la proporzionalità di rappresentanza nelle commissioni). Infatti un emendamento che avrebbe obbligato tutti i rappresentanti di un territorio a votare allo stesso modo — un po’ come nel Bundesrat tedesco — è stato respinto dalla maggioranza. Anche su questo tema però molto è rinviato al futuro: approvata la riforma, infatti, dovranno essere ancora le camere — con il vecchio o magari con il nuovo regime parlamentare — a dover scrivere le regole per le elezioni di secondo grado.
Magari anche questi «dettagli» successivi saranno affidati a un patto a due; visto che come da riassunto del capogruppo di Forza Italia Romani «questa riforma porta le firme di Renzi e Berlusconi» — niente male per il più solenne degli atti parlamentari. C’è per esempio una porta socchiusa per il referendum propositivo, che viene solo nominato nella nuova Carta ma che potrebbe essere sviluppato, con legge costituzionale, assai bene quanto assai male. L’enfasi di Calderoli sul fatto che «non è stata esclusa alcuna materia» può suonare preoccupante. Altre però sono le preoccupazioni immediate. Alla camera, in autunno, si ripartirà dal tentativo di correggere il meccanismo di elezione del presidente della Repubblica, che al momento è nella disponibilità della maggioranza dopo le prime otto votazioni. E assieme al Quirinale, per il primo partito, c’è un altro omaggio: la possibilità di indicare 8 giudici della Corte Costituzionale, su 15.
di Vincenzo Accattatis
Il Senato in era renziana. Patti misteriosi. Elaborazione di una costituzione illegittima che ovviamente produce politiche illegittime (Gustavo Zagrebelsky, «La costituzione e il governo stile executive», la Repubblica di mercoledì). Fase di decostituzionalizzazione, di distruzione dei valori, a livello nazionale e internazionale. La forza che subentra al diritto. Forza più propaganda. Manipolazione della pubblica opinione. Costituzione materiale che si contrappone a quella formale. Un parlamento eletto incostituzionalmente che pretende «riformare» la Costituzione. Non riforma, ma «capovolgimento della Costituzione» pensata per durare, per infrenare il potere che deborda.
Camere sotto sferza come vecchio ronzino. Tutto in vista del presidenzialismo, di là da venire ma già di fatto largamente esistente: capo dello Stato eletto per la seconda volta da un parlamento di nominati plaudente, ancora in carica che dà a Renzi le direttive di governo come le dava a Monti, a Letta.
Storia dell’antiparlamentarismo italiano che si lega alla storia del presidenzialismo di fatto. Una lunga storia «nefasta».L’antiparlamentarismo ha le sue ragioni ma l’llusione «di un governo dalle mani libere» è parimente nefasta. Il bonapartismo italiano di ieri e di oggi. Un’oligarchia al potere. Chi tira i fili sta dietro le quinte.
Da «libero parlamento» a «libero governo». Governabilità come nuovo volto dell’autoritarismo. Le opposizioni come intralcio. L’esecutivo che «educa» il parlamento. I deboli soccombono, le minoranze sono schiacciate. Il Pd «partito degli italiani» o «della nazione».
Zagrebelsky mantiene la sua analisi sul piano costituzionale italiano, ma essa vale anche come analisi di livello mondiale: la forza che prevale sul diritto, la normativa internazionale che diviene carta straccia, obliterata da Israele che nel nome di Sion bombarda la striscia di Gaza. Le terrificanti immagini di Gaza sono davanti agli occhi di tutti gli europei. Grandi manifestazione a Parigi, a Londra, in altre capitali europee. Gaza, «una prigione a cielo aperto», un simbolo per tutti noi?
L’Unione europea sanziona il «cattivo Putin» ma non Israele. Due pesi e due misure? L’Unione europea può ancora parlare, credibilmente, di difesa dei diritti dell’uomo? Israele «vince la battaglia ma perde la guerra». «Gaza e il futuro di Israele» (The Economist del 2.8.2014, in tutta copertina). Correggerei: Gaza e il futuro dell’Europa, del preteso «mondo libero» che si dice impegnato a difendere i diritti dell’uomo.
«Riducendo l’elezione diretta dei parlamentari a una sola Camera e lasciando ai partiti la discrezionalità nella selezione dei candidati, la legittimità della classe politica viene intaccata».
La Repubblica, 10 agosto 2014
CON la riforma costituzionale approvata ieri, anche il Senato italiano, come le Camere alte francesi tedesche e olandesi, diventa un organo ad elezione indiretta: non saranno più i cittadini ad eleggere i senatori ma saranno i consiglieri regionali e delle grandi città a nominare i loro rappresentanti a Palazzo Madama. Con questo passaggio il Senato si uniforma ad uno standard europeo nella sua composizione e modalità di elezione.
Va invece nella direzione opposta quanto alla nuova attribuzione di funzioni e poteri. In Francia, infatti, il Senato, anche in virtù di un processo di selezione che prevede una vera e propria elezione dei senatori da parte di collegi elettorali molto ampi, da un minimo di 227 elettorali ad un massimo di 720, ha conquistato maggiore incidenza nel processo legislativo. In Germania, la riforma costituzionale del 2006 ha ridefinito le funzioni tra le due camere al fine di evitare lo stallo provocato dalle diverse maggioranze, per risolvere il quale bisognava convocare un comitato di conciliazione: ha affidato più poteri ai Lander in modo che i loro rappresentanti in Senato non siano più sollecitati a fare ostruzionismo sulle norme federali che in qualche misura potrebbero investire le competenze dei Lander stessi. In sostanza, per lasciare al Bundestag più incisività nella sua azione legislativa sono state aumentate le sfere di autonomia e le capacità di intervento dei vari Lander. La maggiore efficienza decisionale è compensata da un approfondimento dell’impianto federale.
Se quindi mettiamo a confronto la nuova architettura istituzionale approvata (in prima lettura) ieri con le recenti evoluzioni in altri paesi europei, vediamo che la composizione e le funzioni del nuovo Senato portano entrambe ad incrementare l’accentramento e la verticalizzazione dei poteri nell’assemblea parlamentare nazionale. Le regioni hanno perso ambiti di intervento e Palazzo Madama non può più “interferire” nel processo legislativo oltre un certo limite. In tal modo il nostro sistema istituzionale diventa un unicum, in quanto l’esautoramento delle prerogative di un ramo del parlamento non è compensato da un ampliamento di poteri, vuoi di controllo o di iniziativa da parte di altri “poteri dello Stato”.
In questo quadro diventa quindi molto più importante di prima la ridefinizione della legge elettorale per la Camera dei deputati (il cosiddetto Italicum). È ben più rilevante perché, una volta sottratta ai cittadini la possibilità di eleggere i senatori, non si può ridurre la loro capacità di scelta anche per quanto riguarda i deputati. E le liste bloccate sono esattamente una coartazione di questa capacità. Il rimedio invocato da alcuni per ridare voce ai cittadini ed eliminare il “parlamento di nominati” consiste nel reintrodurre le preferenze. In realtà, la memoria corta degli italiani ha cancellato i guasti prodotti dalle preferenze per quarant’anni: corruzione e spese folli, frammentazione correntizia e clientelismo. Meglio evitare quel ritorno al passato.
L’unica, vera, alternativa virtuosa allo stato dei fatti (e degli accordi), e cioè l’uninominale, preferibilmente a doppio turno come in Francia, scardinerebbe l’impianto proporzionale e premiale della riforma. Ma Berlusconi non vuole. E allora, visto che l’altro giorno il patto del Nazareno è stato saldamente imbullonato, ci terremo un sistema elettorale in cui i cittadini non hanno piena potestà di scelta dei loro rappresentanti nemmeno per la Camera dei Deputati.
Questo è l’esito imprevisto e problematico della riforma del Senato: riducendo l’elezione diretta dei parlamentari ad una sola camera e lasciando ai partiti totale discrezionalità nella selezione dei candidati, senza introdurre regole vincolanti per tutti come, ad esempio, le primarie, la legittimità della classe politica viene ulteriormente intaccata. In tempi di antipolitica l’Italicum non è il sistema migliore che sipossa congegnare.
«Le cose vanno meglio nei paesi in cui sono state messe in campo strategie efficaci di riforma. Dove quelle strategie sono mancate, vanno peggio; così è per l’Italia, a riprova del fatto che delle tanto strombazzate riforme istituzionali non importa niente al mercato, all’Europa, nonché ovviamente agli italiani».
Il manifesto, 8 agosto 2014
Certo il presidente Grasso ha dato una mano, aprendo la strada all’uso estensivo del “canguro” e alla mordacchia del contingentamento dei tempi. Non convincono il richiamo al regolamento e alla prassi. Il valore di una interpretazione o di un precedente dipende non solo dalla mera sovrapponibilità degli elementi di fatto, ma anche — e talvolta soprattutto — dal contesto. E non c’è dubbio che la situazione oggi data non si fosse mai verificata prima. Una proposta di riforma totalmente intestata al governo, posta esplicitamente a condizione della sopravvivenza dello stesso e della legislatura, tesa a sminuire decisivamente il peso politico e i poteri formali dell’istituzione parlamento cui lo stesso governo dovrebbe essere sottoposto per la fiducia, il controllo, la vigilanza, volta a dare una torsione fortemente maggioritaria e centrata sull’esecutivo al sistema nel suo complesso. Che peso potevano mai avere precedenti e prassi in una situazione mai prima verificatasi, radicalmente diversa e nuova? E dunque si può concludere che senza scandalo le norme regolamentari sul voto segreto avrebbero potuto essere lette più estensivamente, e al contrario le prassi sul canguro e sul contingentamento più restrittivamente.
Le poche modifiche introdotte in aula o sono lifting di poca sostanza, come per l’iniziativa legislativa popolare o il referendum, o aggiungono ambiguità e aporie a un testo già pessimo. Perché governatori, consiglieri regionali e sindaci dovrebbero poter legiferare sulla famiglia o su temi di bioetica, morte e vita? Ne avranno mai fatto oggetto di campagna elettorale? Hanno un mandato? Per non parlare della partecipazione alla revisione costituzionale, e della ben nota questione dell’immunità-impunità.
Nel merito, la questione senato macchia indelebilmente una riforma che per altro verso contiene punti anche apprezzabili. È un’ovvietà la soppressione del Cnel, ripetutamente proposta nel corso degli anni. E la introduzione nel titolo V di una clausola di supremazia mirata all’unità della Repubblica e all’interesse nazionale corregge uno dei più gravi errori fatti dal centrosinistra nel 2001, con la cancellazione dell’interesse nazionale richiamato nella Carta del 1948. Bene anche la semplificazione delle potestà legislative, pur potendosi fare di più e meglio.
Ma il metodo offende. Perché apre su costituzioni deboli, non da tutti riconosciute come carta fondamentale della convivenza civile. Nel 1983, la commissione Bozzi non si avviò finché non ci fu la firma di Napolitano per il Pci. La proposta della commissione D’Alema morì con l’attacco di Berlusconi nell’aula della camera (28 gennaio e 27 maggio 1998) al testo, che pure Fi aveva contribuito a scrivere. Poi nel 2001 il primo cattivo precedente, con il centrosinistra che forzò sulla riforma del titolo V, sperando che il quasi-federalismo in esso contenuto potesse riguadagnare consensi al Nord. Sappiamo come finì. Il centrodestra restituì il colpo nel 2005, con la grande riforma della devolution e del primo ministro assoluto che il popolo italiano rifiutò nel referendum del 25 giugno 2006. Ora ci risiamo, con Berlusconi miracolato da Renzi e dal patto del Nazareno, e una maggioranza spuria che riduce al silenzio l’opposizione. Un pessimo viatico. Mentre bastava mantenere il senato elettivo per evitare ogni problema.
Almeno servisse a qualcosa. Ma per gli ultimi dati Istat siamo di nuovo in recessione. La politica dell’immagine non ha spostato di un millimetro i dati reali della crisi. Draghi dice alla Bce che vanno meglio i paesi in cui sono state messe in campo strategie efficaci di riforma. Al contrario, quelle strategie sono mancate nei paesi che vanno peggio. Così è per l’Italia, a riprova del fatto che delle tanto strombazzate riforme istituzionali non importa niente al mercato, all’Europa, nonché ovviamente agli italiani.
Questo è un paese di grandi affabulatori. Prima Berlusconi, ora Renzi, in vantaggio perché ha la metà degli anni, parecchi vizi in meno, e tutti i capelli. Ma per entrambi il problema è stato ed è che le favole devono pur finire, prima o poi. E il rischio è che poi vissero tutti infelici e scontenti.
Corriere della Sera, 7 agosto 2014
Povero Palazzo Madama. La Camera Alta della Repubblica ridotta a un retrobottega di Montecitorio. Il senatore del Regno Benedetto Croce riuscì a parlare in quell’aula rossa persino ai tempi del fascismo, nel maggio 1929, contro il Concordato tra lo Stato e la Chiesa. «Un certo canagliume senatorio e un certo canagliume giornalistico - scrisse il filosofo nel 1947 - m’interrompevano con sconce invettive, e io li lasciavo sfogare, e poi ripetevo il mio detto finché la vinsi». Mussolini, irato, reagì con durezza e con villania: «Accanto agli imboscati della guerra vi possono essere gli imboscati della storia, i quali, non potendo per ragioni diverse e forse anche per la loro impotenza creatrice, produrre l’evento, cioè fare la storia prima di scriverla, si vendicano dopo, diminuendola spesso senza obbiettività e qualche volta senza pudore».
Con le dovute diversità di tempo, politiche e sociali, è parso di sentire le stesse umilianti invettive interrompere chi ha osato manifestare ora al Senato il proprio dissenso: non si deve far perdere tempo - è la parola d’ordine - al governo fautore e presentatore della riforma della Costituzione. (Una prerogativa riservata, tra l’altro, al Parlamento).
Le urla da stadio non sono accettabili e non servono le marce di protesta al colle più alto. Ma la discussione, anche la più aspra, è il sale della democrazia. L’ostruzionismo, come ha scritto la costituzionalista Lorenza Carlassare, «non è un insulto, ma uno degli strumenti classici di ogni democrazia che sia davvero tale». E Stefano Rodotà si è espresso così: «Non si può reagire con un “mascalzoni, state facendo l’ostruzionismo”. Serve una competenza tecnica. Che non c’è stata. La qualità dei costituenti, voglio essere generoso, è molto molto bassa».
Se si pensa a chi furono i protagonisti della Costituzione del 1947, Luigi Einaudi, Moro, Terracini, Dossetti, Concetto Marchesi, La Pira, Togliatti, Lussu, Calamandrei, viene un po’ di malinconia. Il linguaggio usato dai giovani governanti contro chi dissente è corrivo e stizzoso, tra l’oratorio parrocchiale e il festino goliardico: i professoroni, i gufi brontoloni, i gufi indovini, come dichiara il presidente del Consiglio. Insieme con gli insulti che spuntano puntuali contro chi cerca di usare il cervello e ricordano «il culturame» di Scelba, gli «intellettuali dei miei stivali» di Craxi.
Il Senato diventa dunque una Camera delle corporazioni non più eletta dai cittadini: cessa il ping-pong tra Palazzo Madama e Montecitorio, come ha commentato festosa una ministra. Cento senatori anziché 315, di cui 5 nominati dal presidente della Repubblica, 21 sindaci, 74 consiglieri regionali. Come faranno poi a funzionare gli enti locali da cui provengono non si sa: forse si tratta di una nomina premio per la buona prova data in non poche Regioni dove la corruzione ha trionfato, dal Piemonte alla Lombardia al Veneto al Lazio all’Abruzzo alla Campania alla Calabria alla Sicilia.
Perché, ci si chiede, discutere della legge fondamentale della Repubblica in modo così affannoso e dilettantesco, col ritmo di una tappa a cronometro su pista, tra minacce e blandizie? Il contingentamento dei tempi, la cancellazione degli emendamenti, i troppi no al voto segreto, la sostituzione militaresca, all’interno di una commissione parlamentare, di un senatore dissenziente dalle decisioni del gruppo di appartenenza, violando l’articolo 67 della Costituzione e l’articolo 31 del regolamento del Senato, non sono stati segni di libertà in un dibattito che non dovrebbe avere alcun limite. Non sarebbe stato più serio che fosse un’Assemblea costituente a discutere e approvare le riforme utili?
Il governo Renzi ha ottenuto la fiducia di un Parlamento eletto con una legge, il «Porcellum», dichiarata illegittima dalla Consulta. Il ministero è quindi di emergenza e dovrebbe operare a termine in attesa del ripristino della legalità costituzionale. Si impanca, invece, febbrilmente, proprio nella riforma della Costituzione. I maggiori costituzionalisti hanno dato, inascoltati, un giudizio severamente negativo al progetto: ora sono ridotti all’osso i giornali che ospitano le loro opinioni. «Basta col culto del “discussionismo”», ha detto Renzi.
Il governo delle larghe intese non demorde. Il segreto patto d’acciaio del Nazareno tra Renzi e Berlusconi, un vincolo globale utile a entrambi, rende tutto più anomalo e fuori dalle regole di una democrazia. Siamo approdati davvero a una post democrazia senza controllo. La società, passiva, impotente, depressa, preoccupata, impoverita, segue quel che accade spesso allibita. L’economia è piatta, il Paese è in recessione, la stima dell’Istat è di un -0,2% del Pil, il viso del ministro Padoan sembra uno specchio abbrunato. Non pare proprio che sia questo il tempo fertile e adatto per certe riforme strutturali di uno Stato.
La riforma del Senato si propone di dare all’Europa un segno che l’Italia si sta rinnovando, che è davvero sulla giusta via come la Spagna? All’Europa, sembra chiaro, interessano piuttosto la quantità del nostro debito pubblico, il Fisco, il lavoro, la corruzione e le mafie, la politica economica, la limpidezza del fare più che riforme istituzionali malfatte. I tedeschi, i francesi, gli olandesi, gli spagnoli colti non si appassionano alla fine del bicameralismo, alla caduta del Senato. Di Palazzo Madama sanno probabilmente che alla fine del Cinquecento vi abitava il Caravaggio, ospite del cardinal Del Monte, e che lì vicino, nelle chiese di San Luigi dei Francesi e di Sant’Agostino, il gran pittore dipinse proprio in quegli anni alcuni dei suoi capolavori.
I numerosi segni di deriva autoritaria rendono di nuovo attuali le parole di Camillo Cavour: «Io lo dichiaro altamente. Amico della realtà, nemico delle illusioni, amerei meglio vedere la libertà soppressa che vederla falsata e vedere ingannato il paese e l’Europa» .
Il manifesto, 5 agosto 2014
C’è un fatto, accaduto in questi giorni e apparentemente secondario, che mette a nudo l’anomalia della situazione politica e istituzionale del paese e delle iniziative che la accompagnano, a partire dalla «riforma» costituzionale e da quella della legge elettorale. È la mancata elezione, da parte del parlamento in seduta comune, dei componenti di sua spettanza del Consiglio superiore della magistratura, con la conseguente proroga senza limiti predeterminati del Consiglio scaduto (della cui integrazione si riparlerà, forse, a settembre).
Sarebbe come dire — per capirci — che un organo elettivo (per esempio il parlamento) resta in carica, ancorché scaduto, perché non sono state indette nuove elezioni: lo dico sommessamente, sperando che l’affermazione venga considerata un paradosso e non un’idea utile per il futuro… È la prima volta che ciò accade nella nostra storia costituzionale (salvo un remoto e diverso precedente) e — si noti — l’elezione non è stata neppure tentata.
La parentesi di rappresentatività di un organo di rilevanza costituzionale non è cosa da poco e, infatti, c’è chi ne ha subito — e strumentalmente — tratto argomenti a conferma della necessità di cambiare le regole. È vero esattamente il contrario! In tutte le precedenti consiliature, anche nei momenti di più aspra conflittualità politica, l’elezione dei componenti di spettanza del parlamento è avvenuta nei termini (e spesso con l’indicazione di giuristi di prim’ordine). È, dunque, evidente che il difetto non sta nelle regole (rimaste inalterate) ma nelle forze politiche e, in particolare, nella maggioranza parlamentare, all’apparenza incapace e disinteressata a promuovere confronto e convergenze. Ma è solo un’apparenza, ché non si tratta di inadeguatezza ma dell’ennesima dimostrazione della cultura che permea la maggioranza politica (quella palese e quella allargata di supporto): una cultura che rifiuta il confronto e la ricerca di soluzioni condivise e conosce solo le ragioni della forza e dei numeri, anche a costo di sfasciare il sistema. Non è cosa nuova, neppure nella storia repubblicana. Ma conviene segnalarne gli ascendenti.
All’inizio dell’epoca berlusconiana lo teorizzò in maniera brutale il costituzionalista di riferimento della destra, Gianfranco Miglio, che, in un’intervista del marzo 1994 affermò testualmente: «È sbagliato dire che una Costituzione deve essere voluta da tutto il popolo. Una Costituzione è un patto che i vincitori impongono ai vinti. Qual è il mio sogno? Lega e Forza Italia raggiungono la metà più uno. Metà degli italiani fanno la Costituzione anche per l’altra metà. Poi si tratta di mantenere l’ordine nelle piazze». Non c’è riuscito Berlusconi; oggi ci prova Renzi, per di più senza il consenso della metà più uno degli italiani, ma solo — come ama ripetere — di 11 milioni di votanti, dimenticando quei 38 milioni di cittadini che nessuna delega o sostegno gli hanno dato.
Qualcuno — tra gli altri i migliori costituzionalisti italiani — ha provato a segnalare l’anomalia di questa doppia «riforma» (costituzionale ed elettorale), dei suoi contenuti e delle sue modalità. Subito è arrivata la severa e sprezzante risposta del presidente del Consiglio e della ministra delle riforme che, con un’eleganza degna di miglior causa, hanno ironizzato sull’età e sulle competenze dei soliti «professoroni». Anche qui, non è inutile ricordare i precedenti: questa volta si tratta di Mario Scelba — esperto sia di istituzioni che di ordine nelle piazze… — il quale, nel giugno 1949, si scagliò contro il «culturame» degli intellettuali di cui la politica dovrebbe liberarsi. Allora non mancarono le prese di distanza e le reazioni politiche. Oggi tutto tace. E, se non sorprendono le parole di Renzi (la cui considerazione per la cultura è dimostrata dalla concessione degli Uffizi come trampolino per sfilate di moda), spicca il silenzio miope e complice dei (pochi) residui intellettuali del suo partito.
C’è di che preoccuparsi, e non poco. Ma, mentre tutto questo accade, il presidente del Senato gigioneggia sul termine «canguri» e il capo dello Stato, in serena vacanza in Trentino, si scandalizza che taluno evochi derive autoritarie (sic!). Un tempo, per molto meno (la cosiddetta legge truffa), si dimisero ben due presidenti del senato mentre l’onorevole Togliatti, nella seduta della camera dell’8 dicembre 1952, citava nientemeno che parole di Camillo Cavour: «Io lo dichiaro altamente. Amico della realtà, nemico delle illusioni, amerei meglio vedere la libertà soppressa che vederla falsata e vedere ingannato il paese e l’Europa». Certo erano altri tempi ma, anziché esorcizzarli, sarebbe meglio cercare di ripristinarli. Anche a costo di turbare la tranquilla vacanza del presidente della Repubblica.
Ecco come saranno utilizzati i fondi che spetteranno ai tre europarlamentari eletti in Italia nella lista "L'altra Europa con Tsipras". Un esempio di trasparenza. Come faranno gli altri? ci piacerebbe saperlo.
Il manifesto, 2 agosto 2014
Le regole del Parlamento Europeo riguardo ai contributi ricevuti da ciascun parlamentare per le proprie iniziative politiche, non possono non costituire le linee-guida finanziarie del nostro mandato. Ogni commistione tra politica nazionale di partiti o liste e lavoro del singolo parlamentare è espressamente vietata dalle regole del Parlamento europeo. I controlli dell’ufficio frodi del Parlamento europeo (Olaf, European anti-fraud Office) sono divenuti meticolosi e severissimi. Questi vincoli, introdotti di recente, non sono limitazioni, ma tutele della libertà politica dei cittadini e della democrazia parlamentare.
L’indennità di assistenza parlamentare (21mila euro mensili), disciplinata dall’articolo 33 e seguenti, è destinata a coprire unicamente l’attività di assistenza e dunque le assunzioni che sono necessarie e strettamente legate all’esercizio del mandato. L’elenco delle spese di ufficio rimborsabili (4.299 euro mensili), approvato dall’ufficio di presidenza il 15 luglio 2010, esclude ogni spesa che rappresenti una sovvenzione o una donazione di natura politica.
Questo significa che noi tre eurodeputati della Lista non potremo nemmeno, per legge, finanziare aperture di uffici in Italia che siano al tempo stesso del parlamentare interessato al suddetto ufficio (e intestatario del suo affitto) e del personale o delle attività del movimento di appartenenza.
Tuttavia ciascuno di noi farà la sua parte: detraendo la somma dai nostri emolumenti personali (che ammontano a 6mila euro al mese) ci faremo tutti e tre personalmente carico di coprire il debito contratto dalla Lista durante la campagna elettorale, per un importo complessivo di 24.925 euro, maturato al 25 maggio 2014. Da oggi e fino all’estinzione dei debiti, verseremo ciascuno una somma pari a 1.500 euro mensili. Seguiranno, una volta il debito estinto e quando la Lista avrà una sua struttura stabilizzata, contributi volontari decisi da ciascuno di noi.
Grazie al quorum che abbiamo raggiunto come L’altra Europa con Tsipras, sarà inoltre possibile chiedere alla segreteria generale del Gue-Ngl l’assunzione di due funzionari supplementari addetti alla delegazione italiana (al momento ce n’è uno soltanto), i cui nominativi, pur dovendo rispondere ai soli criteri di competenza ed essendo sottoposti al vaglio della segreteria del Gue-Ngl, terranno conto delle diverse anime che hanno contribuito e contribuiscono al consolidarsi della Lista.
Egualmente possibile è assumere almeno un assistente “locale” che oltre a occuparsi della nostra attività parlamentare in Italia provenga dalla fila della Lista e curi i contatti con il movimento politico, smettendo tuttavia di lavorare per esso attivamente, come dirigente o quadro, in ottemperanza alle disposizioni del Parlamento europeo. Cosa che personalmente ho già fatto. Con la rispettiva indennità di assistenza parlamentare, ciascuno di noi assumerà inoltre, accanto agli assistenti accreditati a Bruxelles, alcuni assistenti “locali” con mansioni ben definite. Io ad esempio, tra gli altri (e precisamente un consigliere sulle questioni costituzionali della Ue, un webmaster, un terzo erogatore-commercialista, un consulente del lavoro), assumerò un europrogettatore, le cui competenze saranno messe a disposizione di tutti e tre gli europarlamentari, per il miglior svolgimento del lavoro comune e per rispondere alle domande che verranno dai nostri elettori. In questa indennità dovranno essere comprese anche le relative spese di trasferta.
Resta un importo di 50mila euro all’anno per ciascun deputato, che verrà utilizzato per il finanziamento delle iniziative politiche (seminari, convegni, giornate di studio, ecc.) che la Lista prenderà in Italia. La condizione è che le iniziative vengano attuate in connessione con il Gue-Ngl, perché le risorse sono erogate dai fondi a disposizione del gruppo parlamentare europeo. Il nome Gue-Ngl deve apparire accanto al nostro, nelle locandine e negli annunci delle iniziative.
Questo ci permetterà di accogliere molte e importanti iniziative capaci di unire la nostra azione parlamentare alle proposte e alle lotte sul territorio, nell’inizio di un processo che ci vedrà impegnati ad affrontare grandi sfide politiche e a costruire un fronte di solidarietà in Europa.
*europarlamentare L’altra Europa con Tsipras
I conti si aggiustano con trovate contabili e la rivalutazione del Pil che ora contabilizza anche attività illecite. Ma alle vita delle persone a al sistema Paese chi ci pensa?
La Repubblica, 3 agosto 2014 (m.p.r.)
Roma. Prima la presa d’atto della frenata dell’economia, poi la rinuncia all’allargamento del bonus di 80 euro a pensionati e partite Iva (che sarebbe costato 5 miliari), quindi l’impegno a lavorare d’agosto alla legge di Stabilità. La task force renziana ha già in mente la contromossa autunnale alla caduta del Pil e alla rinnovata tensione sui conti pubblici. Un piano d’emergenza per trovare 20 miliardi per il 2015 e costruire un cordone di sicurezza intorno ai conti pubblici, cercando di evitare cure drastiche a colpi di austerità. A far scaldare i motori, dopo le polemiche delle ultime ore e il «caso» Cottarelli, è intervenuta nel frattempo la mancata bollinatura da parte della Ragioneria generale di due norme del decreto Madia, approvato nei giorni scorsi alla Camera: il pensionamento di 4.000 insegnanti con le norme, pre-Fornero, di «quota 96» (costo nel 2014 circa 50 milioni) e l’anticipo del pensionamento dei professori universitari da 70 a 68 anni (costo un centinaio di milioni). La Ragioneria pone rilievi per la qualità e l’entità delle coperture, soprattutto per la seconda misura, e il governo, al Senato, è intenzionato a correre ai ripari: Madia e Morando sono al lavoro nel week end.
Riferimenti
Si veda su eddybburg di Piero David e Antonella Gangemi Metti sesso, droga e contrabbando nel calcolo del Pil. Altre informazioni sul Pil utilizzando il cerca
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«La Repubblica, 31 luglio 2014 (m.p.r.)
Sarebbe bello, e io sarei felice davvero di lasciare il mio posto a un giovane. Ma è una balla, perché le migliaia di professori che lasceranno non verranno sostituiti se non in minima parte. L’Università è bloccata da più di un decennio e rimarrà bloccata perché i professori che vanno in pensione o muoiono non vengono sostituiti. Non si sa da chi gli studenti che non si possono permettere di studiare all’estero andranno a lezione dopo questa intelligente epurazione. Quanto ai professori vecchi e dementi, lasceranno l’Università senza rimpianti: non hanno avuto molto da essa negli ultimi quarant’anni.
Senza pace e lavoro. Una riflessione sulla democrazia economica che rende muta e impotente l'Unione Europea sul dramma dei conflitti che esplodono ai suoi confini: Libia, Siria, Ucraina, Iraq, Israele e Palestina.
Il manifesto, 2 agosto 2014
Il fine ultimo della gestione della crisi economico-finanziaria sviluppatasi a partire dal 2008 e della gestione dell’austerità con cui, soprattutto inEuropa, si è preteso di contrastarla (copiando dagli Usa, che però quelle politiche le predicano ma non le applicano) era, ed è, una ulteriore riduzione delle quote di Pil destinate a lavoro, pensioni, sanità e istruzione e, soprattutto, la privatizzazione delle imprese e dei servizi pubblici, del territorio e dell’ambiente. Il tutto a beneficio della finanza internazionale, a cui era stato da tempo trasferito il diritto di creare denaro attraverso il cosiddetto «divorzio» tra Governi e Banche centrali.
In questo quadro si è sviluppata fino al parossismo una cultura di governo ragionieristica, attenta fino allo spasimo (politico) a centellinare le risorse dedicate al lavoro e al benessere delle popolazioni per proteggere i grandi interessi finanziari che hanno scatenato la crisi e che continuano a beneficiarne.
Quella cultura e quelle politiche da ragionieri, gestite dalle istituzionidell’Unione Europea di cui i Governi degli Stati membri, soprattutto nella zona euro, sono meri esecutori, hanno aperto una voragine tra l’ideale dell’Europa unita e la difesa, sempre più debole, delle condizioni di vita della maggioranza dell’elettorato. Ma ha reso anche assai meno attrattivo l’obiettivo di unirsi alla compagine europea per quelle nazioni che ne sono ai margini: vedere come l’Unione Europea strapazza il popolo greco, ma anche quelli italiano, spagnolo, portoghese, irlandese e ora anche francese (ma sempre più anche quelli degli Stati più forti) non è allettante.
Sfumata quella della Turchia, le richieste di nuove adesioni, come quella del Governo ucraino, nascono più per non rimanere schiacciati dai conflitti generati dall’espansionismo della Nato (cioè degli Stati Uniti, verso cui l’Unione Europea mostra sempre più la propria sudditanza) che dall’attesa di qualche beneficio. Ma quella sudditanza è la conseguenza della cultura ragionieristica con cui viene governata l’Unione, che la rende muta e impotente di fronte all’esplodere di conflitti sempre più gravi ai suoi confini: Libia, Siria, Ucraina, Iraq, Israele e Palestina.
Molti di questi conflitti, compreso uno nella stessa Israele, sono nati da rivolte popolari contro le politiche liberiste dei rispettivi governi, e sono poi stati schiacciati o assorbiti dalle guerre perché non hanno trovato in Europa una sponda adeguata. Ora, mentre si moltiplicano i vertici sui decimi di punto di sforamento del deficit da concedere ai governi di paesi ormai al collasso per via di vincoli ben più sostanziosi imposti da debiti e trattati insostenibili che non vengono messi in discussione (una riedizione del dibattito sul sesso degli angeli che impegnava i governanti di Bisanzio mentre i Turchi la stavano espugnando), i territori che circondano l’Europa si infiammano.
Le conseguenze non tarderanno a farsi sentire. Perché quei paesi in fiamme hanno molto peso nell’approvvigionamento energetico dell’Europa, e la potrebbero portare al collasso. Perché tutto il continente verrà investito sempre più da flussi di profughi di dimensioni bibliche: oggi si trova insostenibile l’arrivo di qualche decina di migliaia di derelitti, che pagano la loro fuga con un pesantissimo tributo di morte, senza rendersi conto che i profughi prodotti dalle guerre che ormai circondano l’Europa sono milioni; che milioni, e non migliaia, ne ospitano i paesi limitrofi: Turchia, Giordania, Iraq, come già Siria e Giordania ai tempi della guerra in Iraq; che prima o poi anche loro cercheranno un rifugio in Europa; e che i paesi a cui si vorrebbe affidare il compito di fermare quei flussi sono quelli che li alimenteranno sempre di più.
Perché una quota crescente della popolazione europea è composta da nativi di paesi sconvolti da conflitti che non tarderanno a ripercuotersi anche qui, intrecciandosi con conflitti sociali sempre più aspri. Perché guerra chiama guerra e senza strumenti per promuovere la pace (una politica estera di ampio respiro e risorse consistenti, umane, economiche e culturali) se ne finisce travolti.
La drammaticità del momento, che si somma al collasso degli equilibri economici su cui avrebbe dovuto reggersi il progetto europeo rende evidente che ci troviamo non alla vigilia, ma già nel bel mezzo di una svolta epocale che ci impone di affrontare, dentro la prassi quotidiana e dentro le lotte in difesa delle proprie condizioni di vita, una profonda revisione dell’orizzonte entro cui ci muoviamo: una revisione che riguarda innanzitutto i concetti di democrazia e di lavoro.
Due entità congiunte, come peraltro prevede l’articolo 1 della Costituzione italiana, ancorché discusso e varato in un contesto del tutto differente. Occorre elaborare e poi contrapporre al pensiero unico, che esalta la competitività, l’individualismo proprietario, il consumo come motore dello sviluppo, il merito come sanzione di una presunta superiorità di chi si è affermato (e il servilismo, che ne è la diretta conseguenza) una cultura nuova, che promuova la solidarietà, la condivisione, la sobrietà, la cura del prossimo, della natura e del vivente: tutte cose che costituiscono l’orizzonte di una rifondazione integrale della democrazia.
Non è solo una battaglia culturale da affidare all’elaborazione teorica di pochi e all’intelligenza collettiva dei più; deve investire anche gli affetti e il vissuto quotidiano di tutti: là dove il pensiero unico è riuscito spesso a far breccia e ad annidarsi in ciascuno di noi senza che nemmeno ce ne avvedessimo. E’ un lavoro di scavo che richiede un reciproco interrogarsi e rimettersi in gioco, il cui esito non può che essere quella conversione ecologica di cui parlava Alex Langer.
Un processo che investe contestualmente il nostro sentire, le nostre convinzioni, i nostri atteggiamenti, i nostri comportamenti soggettivi e le forme della partecipazione e del conflitto sociale per trasformare la strutture del contesto in cui operiamo, a partire da quello economico: che cosa produciamo, per chi, con che cosa, come e dove. Perché o la democrazia riesce a investire anche l’ambiente economico, l’impresa, la sua organizzazione, il suo mercato, il suo rapporto con il territorio e chi lo governa, o, se resta ai margini o al di fuori di queste cose, non ha più modo di esistere.
È solo facendosi protagonista di una lotta politica e culturale per queste forme di democrazia integrale che l’Europa, cioè i suoi popoli, possono offrire al resto del mondo, e innanzitutto a chi abita ai suoi confini, una prospettiva di pace e di solidarietà che ne faccia un modello. E che prospetti una strada per sottrarsi a quello stato di guerra permanente in cui si traduce ormai da tempo la convinzione che dall’Europa così com’è, dai suoi modelli di vita e dalla ferocia che esercita verso i suoi stessi cittadini non c’è niente da attendere e niente da riprendere.
Ma democrazia e lavoro si intrecciano inestricabilmente. Non il lavoro nelle forme coatte in cui esso si esercita oggi in tutto il mondo; cioè emarginando e deprimendo salute, vita, desideri, capacità e creatività di chi lo svolge – così come si devasta la natura e il vivente per ricavarne solo la millesima parte, e la peggiore, di quello che potrebbero dare – ma potenziando al massimo, attraverso conflitti con cui recuperare gradualmente per tutti una capacità di autogoverno: sia sul territorio che all’interno delle imprese che sulle grandi questioni di indirizzo; in modo da rendere la creatività di ciascuno il vero motore di uno «sviluppo» radicalmente diverso.
In questa dimensione un reddito di cittadinanza universale è oggi non solo un obiettivo unificante per le lotte dei precari e dei disoccupati, giovani e anziani, come dei lavoratori non più protetti dall’articolo 18, ma una condizione per poter imporre scelte progressivamente sempre più libere su come e dove lavorare, e per quanto tempo, e se sotto padrone o per proprio conto, e per fare che cosa; cioè per trasformare il lavoro in un’attività più libera. Che è ciò che approssima maggiormente, in un contesto in cui partecipazione e conflitto si intrecciano senza soluzione di continuità, la società che vogliamo e che abbiamo il compito di proporre a tutti.
«». La Repubblica
Consegnare pacchi e lettere in tutto il Paese, anche nelle sperdute frazioni di montagna o nei borghi con trenta abitanti. E farlo, se serve, per cinque giorni alla settimana, a costo di allungare la strada di decine di chilometri pur di recapitare una cartolina illustrata. Questo è il servizio universale che Francesco Caio, amministratore delegato di Poste Spa, afferma di non poter più sostenere, perché troppo costoso rispetto alla compensazione che lo Stato è disposto a versare.
Intervista a Stefano Rodotà: «La qualità dei nuovi costituenti è bassa, affrontano l’aula da incompetenti. Il premier è già in campagna referendaria. E stavolta dovremo sconfiggere il blocco Pd-Forza Italia. Ma le opposizioni hanno sbagliato a rivolgersi a Napolitano. E poi trasformare le camere in curve da stadio».
Il manifesto, 30 luglio 2014
«Un po’ di memoria non guasterebbe. Sento dire:’mai l’ostruzionismo ha fatto cadere un provvedimento’. Falso: io ricordo l’ostruzionismo che fece cadere il primo decreto di San Valentino, il decreto Craxi sui punti della scala mobile, nell’84. Poi fu reiterato e passò. E ricordo un ostruzionismo in cui i radicali fecero addirittura una gara interna fra Marco Boato e Massimo Teodori su chi avrebbe parlato più a lungo. Una mattina eravamo esausti, ma Boato non si fermava perché voleva battere il record. E siccome non si fidava di quello che gli dicevano i suoi compagni, a un certo punto disse: ’se me lo dice Stefano Rodotà ci credo’. Io, che ero deputato della sinistra indipendente, andai e gli dissi: guarda, hai parlato più a lungo. E lui finalmente smise». Memorie di un ex vicepresidente della camera, Stefano Rodotà. Era il 1981, si discuteva sul fermo di polizia, Boato parlò 18 ore e cinque minuti. Le regole, per fortuna del presidente Grasso, sono cambiate.
Oggi il presidente Grasso è contestato dalle opposizioni per i suoi spacchettamenti, i suoi ’canguri’ (un meccanismo che con un voto fa decadere gli emendamenti simili fra loro, ndr), e le sue tagliole.
È una materia che attiene alla procedura parlamentare e che dovrebbe essere di stretta interpretazione, strettissima quando si tratta di modifiche della Costituzione. Sono le garanzie del procedimento, non possono essere rimesse alla decisione della maggioranza. Nel dubbio, c’è la giunta del regolamento.
La giunta ha deciso a maggioranza che ’il canguro’ è legittimo anche per le leggi costituzionali. C’è una vecchia battuta: la maggioranza si tutela con i numeri, la minoranza con le regole. A colpi di ’canguro’ al senato cadono centinaia di emendamenti alla volta. Tutto normale?
Di fronte all’uso ostruzionistico degli emendamenti è possibile procedere con il cosiddetto canguro. Ma diciamo la verità: questa vicenda è stata gestita dalla maggioranza e dal governo senza una piena consapevolezza politica. Quando si sa quello che sta per succedere, non si può reagire con un ’mascalzoni, state facendo l’ostruzionismo’, serve competenza tecnica. Che non c’è stata.
Hanno fatto bene le opposizioni a arrivare in corteo al Colle e invocare il presidente Napolitano?
La maggioranza rifiuta ogni discussione per migliorare la legge. E in aula e fuori volano parole tipo ’fascista’. Grillo parla di colpo di stato.
Bisogna fare attenzione al linguaggio e a certe manifestazioni. Non apprezzo la riduzione delle aule parlamentari alle curve di uno stadio.
Legittima difesa, dicono le opposizioni. Anche perché contro di loro Renzi usa modi spicci: ’gli ostruzionisti hanno l’Italia contro’.
È una brutta traduzione del ’vox populi, vox dei’. Le battaglie sui diritti sono sempre nate come battaglie di minoranza. Benedetto Croce, da senatore, nel ’29 votò contro i Patti Lateranensi dicendo: ’di fronte a uomini che stimano Parigi valer bene una messa, sono altri per i quali l’ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza’.
Il Pd minaccia Sel di rompere le alleanze nelle amministrative. È una prevedibile ritorsione politica?
Rivendico l’uso della parola «autoritario». Siamo stati noi, intendo Zagrebelsky, Carlassare, Urbinati…
I famosi «professoroni».
Orrenda parola ma sì, siamo stati noi ’professoroni’ a dirla e la ribadisco: questo è un modo autoritario di procedere. La discussione sulla Costituzione non può essere inquinata da altro. Il lavoro di scrittura della Costituzione sopravvisse alla rottura del governo in cui c’erano socialisti e comunisti, però non si disse ’abbiamo i numeri e allora andiamo avanti’. Il conflitto politico, che era molto aspro, fu tenuto distinto dal lavoro costituente. Ma che argomento costituzionale è ’se non accetti sei fuori dalle giunte’? La saggezza dei tempi e la qualità politica di quella generazione dovrebbe darci lezioni. E ora chissà quante critiche mi faranno i cosiddetti ’innovatori’.
Come giudica la qualità dei nuovi costituenti?
Voglio essere generoso: è molto molto bassa. La scarsa legittimazione politica di queste camere, che non sono non adeguatamente rappresentative perché sono state costituite con una legge dichiarata incostituzionale, avrebbero dovuto consigliare la cautela e la ricerca di allargare la maggioranza con una discussione pubblica adeguata. Ma la discussione pubblica non è aizzare i cittadini contro le camere.
Il premier le risponderebbe: ho preso il 41 per cento.
E no: questo è un argomento che abbiamo contestato a Berlusconi. Che diceva: i cittadini sanno che sono indagato ma mi votano. Come se il voto fosse un lavacro. Il voto è importante per l’investitura politica, ma il 40,8 per cento non significa che sei legittimato a fare qualsiasi cosa. Piuttosto, forte della sua investitura politica poteva proporre di togliere dalla Costituzione l’obbligo al pareggio di bilancio, che altri paesi non hanno e che è un ostacolo a usare quella flessibilità che chiediamo all’Europa. Sarebbe stata una mossa costituzionalmente ben motivata. E invece queste riforme sono un’operazione di politica interna che distrae l’attenzione dalle misure più difficili da maneggiare. E quindi si dice: ’non possiamo fare niente perché c’è l’ostruzionismo’.
Comunque a colpi di canguro e tagliole alla fine la riforma passerà. Poi però ci sarà il referendum. Voi che siete contrari, che farete?
Innanzitutto ci spieghino in che modo sarà previsto. Dovrebbe essere previsto nella stessa riforma del Senato. Dal punto di vista formale il governo Letta era stato corretto, nel ddl costituzionale di modifica dell’articolo 138 aveva previsto la possibilità del referendum.
Non crede che semplicemente potrebbe non esserci il sì dei due terzi delle camere?
E allora il referendum non sarà una concessione. Ma è chiaro che tutta l’attuale maniera di impostare la discussione, quei ’avete contro l’Italia’ è un modo per precostituire la campagna referendaria. Questa volta il grande blocco Pd-Forza italia sarà difficile da sconfiggere. Bisognerà stare tutti in campo.
Professore Rodotà, se ci sarà un referendum a sostenere le ragioni del no sarete molto più soli. Non teme che la sconfitta si possa trasformare in un boomerang?
La ’legge truffa’ fu battuta con l’apporto fondamentale di due piccoli piccoli partiti, Alleanza democratica e l’Unità popolare. Che fra l’altro avevano dei gran ’professoroni’. Mi ricordo il comizio di Arturo Carlo Jemolo, che non era certo un uomo dalla facile oratoria pubblica. E invece l’eloquenza magnifica di Piero Calamandrei. Certo non mi voglio paragonare a lui. Ma comunque il nucleo originario dei ’cattivi’ professori contrari a queste riforme è aumentato. Studiosi non ostili al governo, anzi che erano nei vari comitati di saggi e nelle riunioni della ministra Boschi, sono critici sull’impianto complessivo delle riforme del senato e della legge elettorale. Sarà difficile, ma faremo la nostra parte.
Ora l'Associazione dei costruttori dichiara che le aziende condannate saranno espulse dall'Ance. Ma se a comportarsi in questo modo "eran tutti", come ha fatto l'Associazione a non accorgersi mai di nulla e ad aspettare che fosse la magistratura ad occuparsene?
La Repubblica, 31 luglio 2014 (m.p.r.)
Roma. Dieci delle quindici principali aziende edili italiane sono accusate di aver pagato mazzette, frodato lo Stato, costruito fondi neri e staccato false fatture, brigato per truccare bandi di gara. Per questo, da Milano a Bari, ci sono indagini o processi in corso su di loro: Mantovani, Maltauro, Cmc, Condotte Spa, Grandi Lavori Fincosit, solo per citarne alcune. Nell’elenco dell’Ance, l’Associazione dei costruttori edili, figurano tra le migliori ditte italiane. Ma se le guardi attraverso l’ottica delle inchieste della Guardia di Finanza, l’immagine è molto diversa. E si capisce come un appalto truccato oggi non sia soltanto un problema della politica: perché se c’è un senatore (Antonio Azzolini, Pdl, presidente della commissione bilancio al Senato) pronto «a dare a un dirigente due cazzotti se non firma», c’è sempre un imprenditore disponibile a una «consulenza», un «gesto di amicizia», a sottoporsi «a un salasso per ogni competizione, politiche, regionali, comunali» (Piergiorgio Baita, ex ad della Mantovani). Insomma, se c’è qualcuno pronto a intascare, c’è sempre qualcun altro con la mano sul portafoglio.
«Ho preso la penna per il bisogno di una riflessione collettiva sul perché, in protesta con quanto accade a Gaza, sono scesi in piazza a Parigi e a Londra, e nel nostro paese non si è andati oltre qualche presidio e volenterose piccole manifestazioni locali».
Il manifesto, 30luglio 2014
Non voglio parlare nel merito di quanto sta accadendo a Gaza. Non ne voglio scrivere perché provo troppo dolore a dover per l’ennesima volta emettere grida di indignazione, né ho voglia di ridurmi ad auspicare da anima buona il dialogo fra le due parti, esercizio cui si dedicano le belle penne del nostro paese. Come si trattasse di due monelli litigiosi cui noi civilizzati dobbiamo insegnare le buone maniere. Per non dire di chi addirittura invoca le ragioni di Israele, così vilmente attaccata — poveretta — dai terroristi. ( I palestinesi non sono mai «militari» come gli israeliani, loro sono sempre e comunque terroristi, gli altri mai).
Non perché questa sia una strada giusta e vincente ma perché è così insopportabile ormai la condizione dei palestinesi; così macroscopicamente inaccettabile l’ingiustizia storica di cui sono vittime; così filistea la giustificazione di Israele che si lamenta di essere colpita quando ha fatto di tutto per suscitare odio; così palesemente ipocrita un Occidente (ma ormai anche l’oriente) pronto a mandare ovunque bombardieri e droni e reggimenti con la pretesa di sostenere le decisioni delle Nazioni Unite, e che però mai, dico mai, dal 1948 ad oggi, ha pensato di inviare sia pure una bicicletta per imporre ad Israele di ubbidire alle tante risoluzioni votate nel Palazzo di Vetro che i suoi governi, di destra o di sinistra, hanno regolarmente irriso.
Ma non è di questo che voglio scrivere, so che i lettori di questo giornale non devono essere convinti. Ho preso la penna solo per il bisogno di una riflessione collettiva sul perché, in protesta con quanto accade a Gaza, sono scesi in piazza a Parigi e a Londra, cosa fra l’altro relativamente nuova nelle dimensioni in cui è accaduto, e nel nostro paese non si è andati oltre qualche presidio e volenterose piccole manifestazioni locali, per fortuna Milano, un impegno più rilevante degli altri.
Cosa è accaduto in Italia che su questo problema è stata sempre in prima linea, riuscendo a mobilitare centinaia di migliaia di persone? È forse proprio per questo, perché siamo costretti verificare che quei cortei, arrivati persino attorno alle mura di Gerusalemme (ricordate le «donne in nero»?) non sono serviti a far avanzare un processo di pace, a rendere giustizia? Per sfiducia, rinuncia? Perché noi — il più forte movimento pacifista d’Europa – non siamo riusciti ad evitare le guerre ormai diventate perenni, a far prevalere l’idea che i patti si fanno con l’avversario e non con l’alleato perché l’obiettivo non è prevalere ma intendersi? O perché – piuttosto — non c’è più nel nostro paese uno schieramento politico sufficientemente ampio dotato dell’autorevolezza necessaria ad una mobilitazione adeguata? O perché c’è un governo che è stato votato da tanti che nelle manifestazioni del passato erano al nostro fianco e che però non è stato capace di dire una parola, una sola parola di denuncia in questa tragica circostanza?
Di questo vorrei parlassimo. Io non ho risposte. E non perché pensi che in Italia non c’è più niente da fare. Io non sono, come invece molti altri, così pessimista sul nostro paese. E anzi mi arrabbio quando, dall’estero, sento dire: «O diomio l’Italia come è finita», e poi si parla solo di quello che fa il governo e non ci si accorge che c’è ancora nel nostro paese una politicizzazione diffusa, un grande dinamismo nell’iniziativa locale, nell’associazionismo, nel volontariato.
Negli ultimi giorni sono stata a Otranto, al campeggio della «Rete della conoscenza» (gli studenti medi e universitari di sinistra). Tanti bravi ragazzi, nemmeno abbronzati sebbene ai bordi di una spiaggia, perché impegnati tutto il giorno in gruppi di lavoro, alle prese con i problemi della scuola, ma per nulla corporativi, aperti alle cose dell’umanità, ma certo privi di punti di riferimento politici generali, senza avere alle spalle analisi e progetti sul e per il mondo, come era per la mia generazione, e perciò vittime inevitabili della frammentazione. Poi ho partecipato a Villa Literno alla bellissima celebrazione del venticinquesimo anniversario della morte di Jerry Maslo, organizzata dall’Arci, che da quando, nel 1989, il giovane sudafricano, anche lui schiavo nei campi del pomodoro, fu assassinato ha via via sviluppato un’iniziativa costante, di supplenza si potrebbe dire, rispetto a quanto avrebbero dovuto fare le istituzioni: villaggi di solidarietà nei luoghi di maggior sfruttamento, volontariato faticoso per dare ai giovani neri magrebini e subsahariani, poi provenienti dall’est, l’appoggio umano sociale e politico necessario.
Parlo di queste due cose perchè sono quelle che ho visto negli ultimi giorni coi miei occhi, ma potrei aggiungere tante altre esperienze, fra queste certamente quanto ha costruito la lista Tsipras, che ha reso stabile, attraverso i comitati elettorali che non si sono sciolti dopo il voto, una inedita militanza politica diffusa sul territorio. E allora perché non riusciamo a dare a tutto quello che pure c’è capacità di incidere, di contare?
Certo, molte delle risposte le conosciamo: la crescente irrilevanza della politica, il declino dei partiti, eccetera eccetera. Non ho scritto perché ho ricette, e nemmeno perché non conosca già tante delle risposte. Ho scritto solo per condividere la frustrazione dell’impotenza, per non abituarsi alla rassegnazione, per aiutarci l’un l’altro «a cercare ancora».