loader
menu
© 2025 Eddyburg

CLa Repubblica, 19 agosto 2014

I governi Berlusconi,Monti, Letta, Renzi saranno ricordati come quelli che hanno dimostrato la maggiore incapacità nel governare l’economia in un periodo di crisi. I dati sono impietosi. Dal 2009 ad oggi il Pil è calato di dieci punti.

Qualcosa come 160 miliardi sottratti ogni anno all’economia. L’industria ha perso un quarto della sua capacità produttiva. La produzione di autovetture sul territorio nazionale è diminuita del 65 per cento. L’indicatore più scandaloso dello stato dell’economia, quello della disoccupazione, insieme con quelli relativi alla immensa diffusione del lavoro precario, ha raggiunto livelli mai visti. La scuola e l’università sono in condizioni vergognose. Sei milioni di italiani vivono sotto la soglia della povertà assoluta, il che significa che non sono in grado di acquistare nemmeno i beni e i servizi di base necessari per una vita dignitosa. Il rapporto debito pubblico-Pil sta viaggiando verso il 140 per cento, visto che il primo ha superato i 2100 miliardi. Questo fa apparire i ministri che si rallegrano perché nel corso dell’anno saranno di sicuro trovati tre o quattro miliardi per ridurre il debito dei tristi buontemponi. Ultimo tocco per completare il quadro del disastro, l’Italia sarà l’unico Paese al mondo in cui la compagnia di bandiera ha i colori nazionali dipinti sulle ali, ma chi la comanda è un partner straniero.

Si possono formulare varie ipotesi circa le origini del disastro. La più nota è quella avanzata da centinaia di economisti europei e americani sin dai primi anni del decennio. È un grave errore, essi insistono, prescrivere al cavallo maggiori dosi della stessa medicina quando è evidente che ad ogni dose il cavallo peggiora. La medicina è quella che si compendia nelle politiche di austerità, richieste da Bruxelles e praticate con particolare ottusità dai governi italiani.

Essa richiede che si debba tagliare anzitutto la spesa pubblica: in fondo, a che cosa servono le maestre d’asilo, i pompieri, le infermiere, i ricercatori universitari? In secondo luogo bisogna privatizzare il maggior numero possibile di beni pubblici. Il privato, dicono i medici dell’austerità, è sempre in grado di gestire qualsiasi attività con superiore efficienza: vedi, per dire, i casi Ilva, Alitalia, Telecom. Infine è necessario comprimere all’osso il costo del lavoro, rendendo licenziabile su due piedi qualunque tipo di lavoratore. I disoccupati in fila ai cancelli sono molto più disposti ad accettare qualsiasi lavoro, a qualsiasi condizione, se sanno che al minimo sgarro dalla disciplina aziendale saranno buttati fuori come stracci. Altro che articolo 18.

Nell’insieme la diagnosi appare convincente. Le politiche di austerità sono un distillato delle teorie economiche neoliberali, una macchina concettuale tecnicamente agguerrita quanto politicamente misera, elaborata dagli anni 80 in poi per dimostrare che la democrazia non è che una funzione dell’economia. La prima deve essere limitata onde assicurare la massima espansione della libertà di mercato (prima di Draghi, lo hanno detto senza batter ciglio Lagarde, Merkel e perfino una grande banca, J. P. Morgan). La mente e la prassi di tutto il personale che ha concorso a governare l’economia italiana negli ultimi anni è dominata sino al midollo da questa sofisticata quanto grossolana ideologia; non c’è quindi da stupirsi che essa abbia condotto il Paese al disastro. Domanda: come mai, posto che tutti i governanti europei decantano e praticano i vantaggi delle politiche dell’austerità, molti dei loro

Paesi se la passano meglio dell’Italia? La risposta è semplice: perché al di sotto delle coperture ideologiche che adottano in pubblico, le iniziative che essi prendono derivano piuttosto da una analisi spregiudicata delle reali origini della crisi nella Ue. In Italia, non si è mai sentito un membro dei quattro “governi del disastro” proporre qualcosa di simile ad una tale analisi, con la conseguenza che oltre a praticare ciecamente le politiche neoliberali, i nostri governanti ci credono pure. Facendo di loro il personale politico più incompetente della Ue.

Si prenda il caso Germania;non a caso, perché la Germania è al tempo stesso il maggior peccatore economico d’Europa (copyright Flassbeck), e quello cui è meglio riuscito a far apparire virtuoso se stesso e peccatori tutti gli altri. Il motivo del successo tedesco è noto: un’eccedenza dell’export sull’import che col tempo ha toccato i 200 miliardi l’anno. Poco meno di due terzi di tale somma è dovuta ad acquisti da parte di altri paese Ue. Prodigio della tecnologia tedesca? Nemmeno per sogno. Prodigio, piuttosto, della formula “vai in malora te e il tuo vicino” (copyright Lapavitsas) ferreamente applicata dalla Germania a tutti i Paesi Ue.

Grazie alle “riforme” dell’Agenda 2010, dalla fine degli anni 90 i lavoratori tedeschi non hanno visto un euro in più affluire ai loro salari; il considerevole aumento complessivo della produttività verificatosi nello stesso periodo si è tradotto per intero nella riduzione dei prezzi all’esportazione. In un regime di cambi fissi come quello imposto dall’euro, questo meccanismo ha trasformato la Germania in un Paese a forte surplus delle partite correnti e tutti gli altri Paesi dell’Eurozona in Paesi deficitari. Ha voglia la Cancelliera Merkel di decantare le virtù della “casalinga dello Schlewig-Holstein”, che spende soltanto quel che incassa e non fa mai debiti. La virtù vera dei tedeschi è consistita, comprimendo i salari interni per favorire le esportazioni, nel diventare l’altezzoso creditore d’Europa, mettendo in fila tutti gli altri Paesi come debitori spreconi. È vero che negli incontri ufficiali è giocoforza che ognuno parli la neolingua del regime neoliberale che domina la Ue. Invece negli incontri dove si decidono le cose serie bisognerebbe chiedere ai governanti tedeschi che anziché della favola della casalinga si discuta magari delle politiche del lavoro — quelle tedesche — che hanno disastrato la Ue. Potrebbe essere utile quanto meno per condurre trattative per noi meno jugulatorie. Tuttavia per fare ciò bisogna avere una nozione realistica della crisi, e non è chiaro se esiste un solo governante italiano che la possegga.

Nei discorsi con cui verso metà agosto Matteo Renzi ha occupato gran parte delle reti tv, si è profuso in richiami alla necessità di guardare con coraggio alla crisi, di non lasciarsi prendere dalla sfiducia, di contare sulle risorse profonde del paese. Sarà un caso, o uno spin doctor un po’ più colto, ma questi accorati richiami alla fibra morale dei cittadini ricordano il discorso inaugurale con cui Franklin D. Roosevelt inaugurò la sua presidenza nel marzo 1933. In Usa le conseguenze furono straordinarie. Ma non soltanto perché i cittadini furono rianimati di colpo dalle parole del presidente. Bensì perché nel giro di poche settimane Roosevelt creò tre agenzie per l’occupazione che in pochi mesi diedero un lavoro a quattro milioni di disoccupati, e attuò la più grande ed efficace riforma del sistema bancario che si sia mai vista in Occidente, la legge Glass-Steagall. Ci faccia vedere qualcosa di simile, Matteo Renzi, in tempi analoghi, e cominceremo a pensare che il suo governo potrebbe anche risultare meno disastroso di quanto oggi non sembri.
Un titolo assai poco fedele al testo, nel quale uno degli intellettuali più ispirati dalla saggezza enuncia i rischi che stiamo correndo ora che i poteri istituzionali stanno, in vari mdi, a lavorare non “contro mano” ma contro i principi costituzionali.

La Re pubblica, 17 agosto 2014

La questione dei diritti civili è tornata nel discorso pubblico sulla scia della più ideologica e incostituzionale legge della storia repubblicana, quella sulla procreazione assistita. Scarnificata da sentenze nazionali e internazionali, le sue parti residue vengono ora adoperate non per restituire pienezza alla libertà di autodeterminazione delle persone, che la Corte costituzionale ha di nuovo ribadito, ma per cercar di sollevare ancora qualche piccolo steccato ideologico. Segno di un tempo di evanescente legalità costituzionale e di una difficoltà politica interna alla maggioranza di governo, dove il Nuovo centrodestra tenta ossessivamente di proiettare all’esterno un’identità fatta di attacchi ai diritti delle coppie infertili, degli immigrati, dei lavoratori.

Questo clima rischia di accompagnarci nei mesi a venire, e dovrebbe indurre a qualche riflessione più generale, prendendo spunto anche dall’emendamento alla legge di riforma costituzionale che ha attribuito al futuro Senato il potere di concorrere alla legislazione nelle materie indicate dagli articoli 29 e 32 della Costituzione - famiglia, matrimonio, salute. Temi definiti come “eticamente sensibili”, con una espressione ambigua che andrebbe cancellata dall’uso. O che dovrebbe essere completamente reinterpretata, poiché i temi oggi davvero eticamente sensibili sono quelli drammaticamente imposti dalla povertà dilagante e dalla disoccupazione, che negano i diritti sociali e la stessa “esistenza libera e dignitosa” di cui parla l’articolo 36 della Costituzione.

Quell’emendamento ha avuto il merito di aver riportato davanti all’opinione pubblica la questione, dimenticata, dei diritti civili. Ma dobbiamo francamente dire che questa apertura rischia di determinare nuovi e pericolosi equivoci. Da una parte, infatti, fa emergere la necessità di rafforzare la garanzia dei diritti, sottraendola alla sola competenza di una Camera dei deputati che si annuncia dominata da una totalizzante logica maggioritaria, che non dovrebbe estendere le sue pretese oltre l’esigenza della “governabilità”. Dall’altra, invece, sottrae a questa garanzia tutti gli altri diritti fondamentali e opera una pericolosa separazione tra diritti civili e diritti sociali.

Con un ulteriore problema. Le materie considerate dagli articoli 29 e 32 della Costituzione saranno considerate come un settore al quale il legislatore dedicherà interventi penetranti o, al contrario, come temi di cui si occuperà direttamente solo eccezionalmente e con il massimo rispetto di libertà e diritti? La via costituzionale è indicata nitidamente dalle parole che chiudono proprio l’articolo 32: “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. E la Corte costituzionale ha collocato l’autodeterminazione tra i diritti fondamentali della persona. Questo vuol dire che il legislatore già oggi, e quale che sia il modo in cui alla fine verrà configurato il sistema istituzionale, deve sempre partire dalla premessa che vi sono limiti al suo potere, posti dalla Costituzione per impedire indebite invasioni della sfera di libertà delle persone.

Questo principio è stato ben poco rispettato negli ultimi anni, e questo atteggiamento sprezzante ha trovato conferme in questi giorni. La verità è che negli ultimi venti anni la tutela dei diritti è stata garantita quasi esclusivamente dai giudici costituzionali e ordinari, mentre il Parlamento cercava di ridurne illegittimamente l’ampiezza o rimaneva colpevolmente silenzioso. L’aggressione ai diritti delle coppie e alla stessa salute delle donne, cuore della famigerata legge sulla procreazione assistita, è stata sventata dalla Corte costituzionale. Ma il Parlamento è rimasto scandalosamente indifferente quando la stessa Corte e la Corte di Cassazione, seguendo pure le indicazioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, hanno riconosciuto l’esistenza di un diritto fondamentale al riconoscimento delle unioni civili, anche quelle tra persone dello stesso sesso. E, travolti dall’euforia della cancellazione del bicameralismo paritario, non si dovrebbe perdere la memoria del fatto che la Camera aveva approvato la famigerata “legge bavaglio” sulla pubblicazione delle intercettazioni telefoniche e un orrido testo sul testamento biologico. Solo la previsione di un successivo esame del Senato ha impedito che quei testi divenissero leggi dello Stato. Garanzie e equilibri, questi, sui quali bisogna sempre riflettere e che non possono essere allegramente travolti dal turbocharged constitutionalism oggi imperante.

Alla democrazia parlamentare aggressiva o indifferente degli anni passati si è progressivamente affiancata una ben diversa “democrazia di prossimità”, incarnata dai comuni, dove ora si scopre il fiorire di una serie di iniziative volte proprio a offrire garanzie per i diritti delle persone trascurati da Parlamento e Governo. Vi sono registri dei testamenti biologici e per i patti di convivenza, e si cominciano a trascrivere nelle anagrafi comunali i matrimoni contratti all’estero tra persone dello stesso sesso. Si prevedono “garanti” per i diritti dei bambini e per i detenuti, e forme di “cittadinanza civica” che, pur priva di immediati effetti giuridici, assume un fortissimo valore simbolico quando viene pubblicamente attribuita a immigrati. Si individuano modalità di destinazione a cittadini di beni per iniziative comuni e di collaborazione tra cittadini e comuni “per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani”.

Siamo alle soglie di una sorta di schizofrenia istituzionale, dove solo l’allontanarsi dai pericolosi connubi della politica nazionale consente il dispiegarsi della logica dei diritti? Comunque sia, sono evidenti dinamiche sociali che segnano le nuove frontiere, lungo le quali le persone possono incontrare le istituzioni. Ma questo è impossibile là dove la negazione dei diritti assume dimensioni di massa, dove sono in questione il lavoro e la stessa sopravvivenza materiale. Ecco perché, nel mutare delle regole istituzionali, è pericoloso formalizzare una distinzione netta tra diritti civili e diritti sociali, abbandonando questi ultimi alle sole dinamiche di mercato, mascherate troppo spesso da vincoli insuperabili.

Abbiamo ascoltato in questi mesi con grande pazienza le giaculatorie di chi ci parlava di una mummificazione della Costituzione, con datazioni variabili (venti, trenta anni?). Troppi hanno seguito queste semplificazioni, che spesso assumevano imbarazzanti tratti favolistici.

È tempo di svegliarsi e di ricordare agli ultimi venuti che nell’aprile del 2012 è stato costituzionalizzato il pareggio di bilancio, con una riscrittura dell’articolo 81 che ha inciso profondamente sulla struttura della Costituzione e sull’assetto complessivo dell’azione pubblica, con effetti immediati per tutto ciò che riguarda i diritti sociali e le risorse che ad essi devono essere destinate. Un governo che davvero volesse innovare, e mostrare una capacità non verbale di cominciare a sottrarsi a impropri vincoli europei, potrebbe trovare qui una buona occasione. Non lo farà. Saranno i cittadini, con una loro iniziativa popolare, a proporre di ricostruire i rapporti tra diritti fondamentali e risorse. Non abbiamo ancora, per fortuna, istituzioni a una sola dimensione, quella che ha tenuto la scena, in modo non sempre dignitoso, nelle ultime giornate.

L’irresistibile ascesa di Matteo Renzi ricorda Oltre il giardino, un film del 1979 con Peter Seller: un giardiniere semidemente esce dal giardino dove è rimasto rinchiuso per anni avendo come unico sguardo sul mondo la televisione; in poco tempo si conquista una posizione in società, fino a diventare consigliere della Casa Bianca - o, forse, Presidente degli Stati Uniti - grazie al fatto che non capisce quello di cui parlano le persone con cui entra in contatto, né loro capiscono lui.

Parla e risponde con frasi insensate o con osservazioni fuori luogo che coloro che lo incontrano, sempre più in alto nella scala sociale, considerano osservazioni profonde o tremendamente innovative. In parte lo fanno per interesse (cercano un “uomo di paglia” dietro cui nascondere i propri affari); in parte per inettitudine (non hanno una comprensione del mondo molto maggiore della sua); in parte ripongono in lui le loro aspettative perché non hanno nient’altro a cui appigliarsi. Non sono ovviamente le doti del giardiniere a portarlo in alto, ma l’inconsistenza di coloro che di volta in volta lo sostengono, che non hanno più alcun orizzonte di senso a cui fare riferimento.
Certo Renzi non è demente, ma si muove con la stessa logica di quel giardiniere: non risponde alle questioni che gli vengono poste, o ai problemi che gli pone la situazione del paese, ma parla d’altro e fa e fa fare altro ai suoi adepti; ogni volta rilanciando con qualche progetto, qualche promessa, qualche impegno che non hanno niente a che fare con ciò di cui gli si chiede di occuparsi: l’economia e l’occupazione precipitano e lui si occupa solo di stravolgere la Costituzione (si veda in proposito la lista, ancorché parziale, delle sue inadempienze, elencate da Salvatore Settis su Repubblica del 13.8). Ma Renzi piace – o è piaciuto finora - sempre di più proprio per questo, raccogliendo poco per volta anche l’adesione di chi fino a poco tempo prima lo avversava o lo riteneva del tutto inadeguato.
Non è merito suo; è il frutto dell’inconsistenza dell’establishment che gli riconosce una credibilità che non ha alcun fondamento e che ha costituito intorno a quella figura da guitto il suo “partito della nazione”. Ma non si tratta di un fenomeno solo italiano (Renzi ha riscosso un credito immeritato anche in Europa), anche se in Italia quella mancanza di orizzonti, di prospettive, di respiro politico è più accentuata che altrove. La “fine della storia” teorizzata - e poi rinnegata - dal politologo Francis Fukuyama si è rivelata in realtà un ambiente dai confini invalicabili per le classi dirigenti – politiche, economiche e accademiche – immerse da decenni in un eterno presente senza passato né futuro, in cui si è rinchiuso quel pensiero unico che ha fatto dell’economia la religione del nostro tempo e del mercato il regolatore unico e insostituibile della vita economica, ma anche di ogni forma di convivenza umana. Perché il pensiero unico non è liberismo o “neoliberismo” in senso stretto (né la competitività che predica è libera concorrenza); è una dottrina che sostiene appropriazione e privatizzazione di tutto l’esistente (risorse naturali, beni e servizi, imprese, territorio, ambiente, facoltà e persino organi umani), ma sempre con il supporto dello Stato: per questo l’inconsistenza intellettuale, non solo italiana, di un ceto politico sempre più invadente non è un incidente o una deviazione da un percorso lineare che ha nel mercato il suo nume tutelare. E’ una componente essenziale di un meccanismo estrattivo di cui la crisi in corso ha ormai rivelato il carattere fondamentalmente predatorio.

Con il senno del poi possiamo ora rispondere in modo più convinto alla domanda posta nel 2008 dalla regina Elisabetta agli economisti della London School of Economics: “perché, con tutta la vostra scienza, non siete stati capaci di prevedere questa crisi?”. Non è stata solo, come avevano risposto i più intelligenti tra gli interlocutori della regina, l’eccessiva matematizzazione della disciplina ad averli allontanati dalla realtà. Non è un caso, tra l’altro, che anche chi la crisi l’aveva prevista, come l’economista Nuriel Rubini, si sia rivelato anche lui uno strenuo sostenitore di Renzi (dopo esserlo stato di Monti e di Letta). L’orizzonte culturale è sempre quello: crescita come unica prospettiva di senso (ma lo sanno anche gli asini che, anche se fosse possibile “riagguantarla”, la crescita è insostenibile, non può durare per sempre; e che il suo tempo è finito); e mercato, cioè “competitività”, da recuperare a qualsiasi costo (magari con qualche correttivo). Alla regina Elisabetta bisognerebbe allora rispondere: perché gli economisti mainstream sono ignoranti, corrotti e bugiardi. Sono ignoranti perché il pensiero unico di cui sono adepti fornisce una rappresentazione della realtà falsa, che non consente previsioni fondate né interventi appropriati, neanche ai valori privatistici a cui essi si ispirano. Sono corrotti perché, con poche eccezioni, sono o aspirano tutti a farsi “consiglieri del principe”; non per fornirgli strumenti di comprensione della realtà, ma per giustificare, di volta in volta, le sue scelte: quelle imposte dai “mercati” (che non sono “il mercato”, ma i pochi protagonisti dell’alta finanza che governano l’economia globalizzata). Sono bugiardi perché continuano a predicare cose in cui, tranne pochi stupidi, non credono affatto; e per fingere di crederci nascondono la testa sotto la sabbia. Chi di loro pensa veramente che “l’anno prossimo” l’Italia riprenderà a crescere? Eppure è anni che lo ripetono. O che il governo italiano potrà rispettare il fiscal compact? Eppure nessuno di loro osa metterlo in discussione. D’altronde sono i sacerdoti della “religione del nostro tempo”: che cos’altro attendersi da loro?

Non possiamo rimanere succubi di questa cultura. Occorre promuovere un radicale cambio di paradigma e riconquistare un’egemonia culturale che metta al centro non “i mercati” (quelli che “votano” governi, politiche economiche e ora anche riforme istituzionali, come dimostrano le prescrizioni di J. P. Morgan, pienamente accolte da Renzi, contro le costituzioni democratiche), ma gli obiettivi, gli strumenti e i conflitti necessari a una graduale conquista della capacità di autogovernarci in tutti i campi: non solo in quelli istituzionale, sociale e culturale ma anche quello ambientale e quello economico; il che significa riconfigurare il governo dell’impresa in senso democratico e partecipato e promuovere nella pratica quotidiana del conflitto la consapevolezza dell’ineludibilità di questo obiettivo (peraltro contestuale a una prospettiva di riterritorializzazione dei processi economici, alternativa sia al protezionismo leghista che alla competitività universale liberista).

E’ un programma di ampio respiro che non ammette i “due tempi” (subito gli interventi immediati per contrastare lo sfascio delle nostre esistenze imposte dall’austerity; poi una vera riforma della società). Senza egemonia culturale anche gli interventi più circoscritti sono privi di prospettiva e di forza e lasciano il campo libero alla dittatura del pensiero unico e alle sue applicazioni. Solo per fare due esempi: quanti avversari dell’austerity, nell’invocare una ripresa di politiche keynesiane, riescono ancora a inserire nelle loro proposte un rimando a obiettivi e prospettive di ampio respiro, ma sempre più attuali, come “l’eutanasia del rentier”, il dimezzamento dell’orario di lavoro, o la remissione del debito pubblico? Dovevamo aspettare un economista conservatore come Paolo Savona perché nella comunità economica italiana si cominciasse a prospettare una “rimodulazione” del debito? Oppure, per calarci nella pratica quotidiana, quanto veramente a fondo si è spinta finora la nostra critica della competitività universale come principio fondativo del pensiero unico? Siamo ancora capaci di mettere radicalmente in contrapposizione tra loro meritocrazia e solidarietà, selezione e cooperazione, appropriazione e condivisione, gerarchia ed eguaglianza? O è una prospettiva perduta per sempre, mano a mano che il pensiero unico si faceva strada non solo nel mondo accademico, in politica e nelle istituzioni, ma anche nel nostro modo di ragionare e persino nei nostri affetti? Con la conseguenza di lasciar campo libero ai sostenitori di Matteo Renzi: il “giardiniere” venuto dal nulla e destinato a ritornare nel nulla. Come Monti e Letta.

Cassandra aveva ragione: le ricette del neoliberismo, la spremitura dei molti in favore dei pochi (il capitalismo nella sua fase attuale) porta l'Europa sull'orlo dell'abisso. Occorre ribaltare il tavolo.

Il manifesto, 15 agosto 2014

Gli ultimi dati rila­sciati ieri da Euro­stat, l’agenzia sta­ti­stica euro­pea, con­fer­mano quello che ormai vanno dicendo da tempo schiere di eco­no­mi­sti, anche di estra­zione main­stream: la tanto sban­die­rata “ripresa” euro­pea – che comun­que rap­pre­sen­tava sem­pre una medi tra que­gli stati che regi­stra­vano mode­sti tassi di cre­scita (come la Ger­ma­nia) e quelli che con­ti­nua­vano a essere impan­ta­nati nella reces­sione post-crisi (come l’Italia) – era una pia illusione.

Senza un ribal­ta­mento radi­cale delle poli­ti­che eco­no­mi­che, l’eurozona era ine­vi­ta­bil­mente con­dan­nata a spro­fon­dare in una cosid­detta “sta­gna­zione seco­lare”: un lungo periodo di cre­scita bassa o nulla. E infatti l’ultimo bol­let­tino di Euro­stat parla chiaro: nell’ultimo tri­me­stre dell’anno la cre­scita nella zona euro è stata dello 0.0%. A leg­gere il testo del comu­ni­cato, però, si direbbe che non c’è motivo di pre­oc­cu­parsi: secondo la neo­lin­gua dei buro­crati di Bru­xel­les, sem­pli­ce­mente “il Pil nell’area euro è rima­sto sta­bile”. Tutto a posto, dunque?

Pur­troppo no. In uno sce­na­rio di sta­gna­zione seco­lare risol­vere il pro­blema della disoc­cu­pa­zione dila­gante (18 milioni di senza lavoro solo nella zona euro), della defla­zione alle porte (0.4% il tasso d’inflazione nella zona euro, men­tre in alcuni paesi è già sotto lo zero) e del debito pub­blico è pra­ti­ca­mente impos­si­bile. Al punto che c’è già chi parla di “stag-deflazione” (per fare il verso alla stag­fla­zione degli anni ’70): uno sce­na­rio da incubo in cui cre­scita ane­mica, bassa domanda, prezzi in calo, disoc­cu­pa­zione cre­scente, carenza di inve­sti­menti, fal­li­menti azien­dali, sof­fe­renze ban­ca­rie e debiti pub­blici alle stelle si ali­men­tano a vicenda in una spi­rale senza fine.

Per­ché l’eurozona si trova in que­sta con­di­zione, quando altre aree eco­no­mi­che col­pite altret­tanto dura­mente dalla crisi del 2008, come Stati uniti e Regno Unito, hanno ridotto la disoc­cu­pa­zione e sono tor­nate ai livelli di cre­scita pre-crisi o li hanno addi­rit­tura superati?

A pre­scin­dere dai limiti “strut­tu­rali” dell’eurozona (impos­si­bi­lità della Bce di offrire liqui­dità agli Stati, ecc.), la causa prin­ci­pale dell’infinita crisi euro­pea – come ormai denun­ciano anche gior­nali come il Financial Times e orga­niz­za­zioni noto­ria­mente neo­li­be­ri­ste come l’Fmi –, sono le folli poli­ti­che di auste­rity per­se­guite dall’esta­blish­ment euro­peo negli ultimi anni, che hanno avuto l’effetto di stran­go­lare ulte­rior­mente l’economia, già affa­mata da un crollo della spesa pri­vata, per mezzo di dra­stici tagli alla spesa pub­blica, aumenti delle tasse e com­pres­sione dei salari.

Altrove hanno invece per­se­guito poli­ti­che mone­ta­rie e fiscali espan­sive, con risul­tati pre­ve­di­bil­mente posi­tivi. Finora erano stati soprat­tutto i paesi della peri­fe­ria a patire le con­se­guenze di que­ste poli­ti­che scel­le­rate. L’Italia è il caso più esem­plare: pro­du­zione indu­striale al –25%, Pil al –10%, tasso di accu­mu­la­zione al –13%, disoc­cu­pa­zione e debito pub­blico a livelli record. Un’apocalisse eco­no­mica e sociale da cui il nostro paese impie­gherà decenni a ripren­dersi (se mai ce la farà). La vera novità è che nell’ultimo tri­me­stre anche la Ger­ma­nia ha regi­strato un tasso di cre­scita di nega­tivo (-0.2%) per la prima volta dal 2010. Anche in que­sto caso c’è poco da sorprendersi.

L’avevano pre­detto in molti: con­ti­nuando a com­pri­mere la domanda interna e affa­mando i pro­pri part­ner com­mer­ciali euro­pei per mezzo dell’austerità la Ger­ma­nia avrebbe finito ine­vi­ta­bil­mente per dan­neg­giare la pro­pria eco­no­mia, for­te­mente basata sulle espor­ta­zioni. Basterà que­sto a con­vin­cere i tede­schi della neces­sità di un cam­bio di rotta? O almeno a con­vin­cere Mat­teo Renzi che la solu­zione alla crisi non passa di certo per le [sue]“riforme strutturali"

«Lo Statuto dei lavoratori lo riscriveremo, ha detto il premier, ma un aspetto non dovrebbe sfuggirgli: con il vecchio Nuovo centrodestra di Alfano e Sacconi lo Statuto non si può riscrivere. A meno che riscriverlo non significhi in realtà abolirlo».

La Repubblica, 14 agosto 2014

È in realtà un totem ideologico della destra, l’abolizione dell’articolo 18 dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ma questo nodo interroga al tempo stesso una sinistra in profonda trasformazione. Il primo aspetto è apparso molto chiaro in questi giorni ed ha dato pessima prova di sé una destra che continua ad invecchiare nei suoi tenaci pregiudizi. E nei suoi portavoce: un Alfano maldestro nelle dichiarazioni — non solo contro i venditoriambulanti.

E un Sacconi sempre più oltranzista (forse per far dimenticare le pessime prove date a suo tempo come ministro). L’abolizione la chiedono tutti gli imprenditori, ha detto, una ragione ci deve pur essere... Ed ha aggiunto, a scanso di equivoci: bisogna semplificare il contratto a tempo indeterminato rendendolo più conveniente per i datori di lavoro. Il tutto è stato accompagnato da uno stonato concerto di giudizi privi di fondamento e intrisi, appunto, di pessima ideologia: l’articolo 18 ha danneggiato sviluppo e competitività (così un ex presidente di Confindustria, molto più reticente sulle responsabilità di quella organizzazione); l’alternativa alla sua abolizione sarebbe l’immobilismo totale (Maurizio Gasparri, noto esperto di diritto del lavoro e di sviluppo industriale), e così via. Si sorvoli pure sul carattere strumentale della estemporanea sortita di Alfano, che evoca bandierine o piccole manovre agostane, e la si prenda davvero sul serio.

Ci riconsegna una destra che non si vergogna della propria tradizione antisindacale, della propria insensibilità sociale e dei guasti che ha prodotto nella storia del Paese: una destra capace ancor oggi di rimuovere il clima di pesanti illeciti, di brutali discriminazioni, di dure umiliazioni dei lavoratori compiute prima dell’entrata in vigore dello Statuto. È intessuta di dolori, quella storia: e in qualche modo si ripropose agli inizi degli anni ottanta, quando la riduzione drastica del lavoro nelle grandi fabbriche innescò drammi veri, alla Fiat come a Marghera e altrove. Essa incise brutalmente sui diritti pur affermati dallo Statuto ma pochi se ne accorsero nei “dorati anni ottanta”: comprendeva anche questo, quella “modernità”, ed è troppo ardito chiedere una riflessione su questo al vecchissimo Nuovo centrodestra. Forse gli si può chiedere però di non rimuovere un altro aspetto, e cioè la pessima spirale che fu innescata dall’abolizione dei diritti degli anni cinquanta e sessanta. È un aspetto centrale: non capiremmo altrimenti la durezza della rivincita sindacale dell’autunno caldo e della “conflittualità permanente” degli anni settanta. Una conferma probante, se ce ne fosse bisogno, che l’assenza di regole non favorisce, alla lunga, neppure la parte che sembra goderne i vantaggi più immediati. Apre dunque la via a molti errori e a molti guasti la rimozione del passato, ma va aggiunto che ancora una volta la destra nostrana non sa dare neppure giudizi fondati e pacati sul presente né misurarsi con il futuro. È pessima ideologia e pessima politica rimuovere la realtà di un lavoro di fabbrica quantitativamente sempre più ridotto e insidiato su più versanti, con un potere d’acquisto dei salari fortemente e progressivamente eroso da quasi trent’anni. Rimuovere, anche, l’indebolimento dell’articolo 18 già realizzato con la riforma Fornero e il clima di insicurezza (e di vetero revanscismo padronale) che è stato ulteriormente aggravato dall’operare di Sergio Marchionne. Ed è un puro inganno sostenere che i lavoratori privi di tutele si difendono togliendo i diritti a coloro che ancora li hanno (bugia dalle gambe cortissime, smentita ogni giorno dai fatti).

Quando lo Statuto dei lavoratori fu approvato si disse, a ragione, che la Costituzione era finalmente entrata in fabbrica: siamo proprio certi che oggi, nella diffusissima paura di perdere il lavoro, la Costituzione in fabbrica non sia più necessaria? D’accordo, la domanda non va rivolta agli improbabili interlocutori del centrodestra: essa è però fondamentale per una sinistra che ha avviato una trasformazione profonda e che si interroga oggi sul senso, sull’orientamento (sul verso, per dirla con Renzi) da dare ad essa. Certo, la sinistra sconta anche qui un profondissimo ritardo, incapace come è stata fin dagli anni ottanta di misurarsi realmente con le trasformazioni del mondo del lavoro e delle sue culture, con vecchie e nuove precarietà, con vecchi e nuovi drammi. Oscillante talora fra poli opposti e portata a divaricazioni che hanno fatto più di un danno.

Oggi tutto questo non è più possibile e nella rifondazione della sinistra i nodi del lavoro e dei diritti sono centrali. È fondamentale che vi sia in essa una vera “pedagogia per il futuro”, sono centrali indicazioni limpide e prospettive riconoscibili, nella consapevolezza che proprio le crisi economiche e politiche rendono preziosi i diritti. È una prova vera, quella che attende il Pd di Renzi, e va affrontata nella sua interezza. Lo Statuto dei lavoratori lo riscriveremo, ha detto il premier, ma un aspetto non dovrebbe sfuggirgli: con il vecchio Nuovo centrodestra di Alfano e Sacconi lo Statuto non si può riscrivere. A meno che riscriverlo non significhi in realtà abolirlo.

Presentiamo sempre ai nostri lettori gli articoli di Salvatore Settis che raggiungiamo, per la rigorosa competenza che li alimenta e la passione civile che li anima. Con lo scritto che riprendiamo oggi da

la Repubblica (13 agosto 2014 ) ci sembra che l’autore superi se stesso. Con postilla

Caro presidente del Consiglio Matteo Renzi,
Le scrivo, come è diritto di ogni cittadino, per porLe una domanda: la riforma della Costituzione su cui il governo punta le sue carte servirà a disincagliare l’Italia dalle secche di questa lunga stagnazione?

Lei certo sa, Signor Presidente, che l’Italia si distingue per alcuni primati poco invidiabili. Secondo dati Ocse richiamati dalla Corte dei Conti, siamo al terzo posto al mondo per evasione fiscale (preceduti solo da Turchia e Messico), e Confcommercio stima in 154,4 miliardi di euro le tasse non pagate nel solo 2012. Secondo Transparency International, l’Italia è uno dei Paesi più corrotti d’Europa (con Romania, Grecia e Bulgaria), peggio di Namibia e Ruanda, con perdite annue di 60 miliardi. Secondo il World Freedom Index l’Italia è terzultima in Europa per libertà di stampa, stando in classifica fra Haiti e BurkinaFaso. Intanto, a fronte di un consumo di suolo medio in Europa del 2,8%, l’Italia raggiunge un devastante 6,9%, pur con incremento demografico zero (dati Ispra). La disoccupazione giovanile è balzata al 43,3%, contro il 7,9% della Germania, e la media europea del 22,5% (dati Eurostat).

Secondo il Dipartimento per lo Sviluppo di Palazzo Chigi l’Italia è ultima in Europa per investimenti in cultura, con una contrazione della spesa doppia che in Grecia. Una riforma universitaria pessima e gestita ancor peggio mette in ginocchio la ricerca e riduce il merito a un optional spesso superfluo. Centinaia di imprese italiane chiudono i battenti o vengono assorbite da aziende cinesi, sudamericane, mediorientali. Come una valanga, continua la “fuga dei cervelli”: decine di migliaia di giovani formatisi in Italia portano in altri Paesi i loro talenti, vanificando l’alto investimento che il Paese ha fatto su di loro (nel 2013, quasi 44.000 italiani hanno chiesto di lavorare nella sola Gran Bretagna). Mentre cresce la disuguaglianza sociale, si radica la sfiducia dei cittadini nella politica, come ha mostrato il forte astensionismo nelle Europee, con un 41,32% di non votanti a cui va aggiunto l’8,31% di schede bianche, nulle o disperse. In questo contesto, come Lei sa bene, Signor Presidente, il buon risultato percentuale del Suo partito vale più o meno la metà di quel che sembra.

A fronte di questi problemi, l’azione del Suo governo si concentra su questioni di ingegneria istituzionale, come se ridurre di numero i senatori (ma non i deputati), o evitarne l’elezione popolare, possa salvare l’economia italiana. Secondo Mario Draghi, l’Italia ha bisogno di «riforme strutturali sui mercati dei prodotti e del lavoro», ma in Italia si produce sempre meno e si lavora sempre meno. L’Italia deve ridurre la pressione fiscale: con un reddito annuo di 28 mila euro, un italiano paga il 27% di imposte, un americano il 15%; a un reddito di 75 mila euro corrisponde un’imposta del 28% in Usa, del 43% in Italia. Questa enorme differenza dipende dalla rarità dell’evasione fiscale in Usa (dove è severamente punita), mentre i nostri governi di ogni colore (anche il Suo) fanno ben poco per combatterla.

Lei ha cercato invano, Signor Presidente, di trasmettere il Suo ottimismo: le Sue previsioni di crescita del Pil si sono rivelate fallaci, e il calo dello 0,2% nell’ultimo trimestre, contro un +3,2% della Gran Bretagna e un +1,1% medio dell’area euro, lascia poco spazio alla retorica. Cresce intanto il debito pubblico, che nel 2013 ha raggiunto il 132,6% sul Pil, e falliscono uno dopo l’altro i tentativi di spending review.

La stagnazione è ormai recessione, nasconderlo è un boomerang per chi lo fa. Corruzione, evasione fiscale, disoccupazione e altri problemi italiani sono ben noti ai nostri partner in Europa e nel mondo: se non si affrontano subito, il governo perde credibilità e accredita l’ipotesi che cambiare la Costituzione sia una tecnica dilatoria per non sfidare le urgenze.

Le chiedo allora, Signor Presidente: in qual modo una nuova Costituzione contribuirà a diminuire il debito pubblico, a trovar lavoro ai giovani, a frenare l’emorragia dei talenti, ad arrestare corruzione ed evasione fiscale, a rilanciare formazione e ricerca, a incentivare le imprese, l’economia e la cultura, a tutelare il paesaggio, l’ambiente e il patrimonio artistico? Con la nuova legge elettorale s’intende riconquistare alla democrazia i 22 milioni di italiani che non hanno votato, o incentivare l’astensionismo purché un partito ottenga il premio di maggioranza? Vale la pena dilapidare l’eredità della sinistra in un abbraccio mortale con Berlusconi, condannato in via definitiva ed espulso dal Senato, mediante un patto i cui contenuti precisi non vengono resi pubblici?
Le riforme avviate hanno lo scopo di rafforzare l’esecutivo, ma secondo Transparency International una delle cause della crisi italiana è che già oggi «il potere legislativo dipende troppo dal potere esecutivo, che governa senza la debita assunzione di responsabilità». È proprio opportuno accrescere ancora il ruolo dell’esecutivo?

La riforma apporta alla Costituzione mutamenti radicali. Anch’io, come molti cittadini, ritengo improprio che tali proposte siano nate dal governo e non dal Parlamento, e che vengano approvate da senatori e deputati nominati secondo una legge elettorale incostituzionale. Ma la domanda è ora un’altra: se mai quel testo entrasse in vigore tal quale, come e in che cosa la recessione del Paese ne verrebbe corretta? E se invece il testo facesse per mesi e mesi la spola fra Camera e Senato assorbendo tempo ed energie, non sarebbe un dirottamento rispetto ai problemi reali del Paese?

Non crede che il Suo governo acquisterebbe prestigio e credibilità se mostrasse nei fatti di ricordarsi dei diritti dei cittadini sanciti dalla Costituzione e dimenticati dalla politica con la scusa della crisi? Non sono diritti secondari: sono il diritto al lavoro per tutti i cittadini (art. 4), la funzione sociale della proprietà (art. 42), la pari dignità sociale dei cittadini e la loro eguaglianza (art. 3), la garanzia per tutti di «un’esistenza libera e dignitosa» (art. 36), il diritto alla cultura (artt. 9, 21, 33), il diritto alla salute (art. 32). Sono diritti ignorati o taglieggiati in nome della crisi economica. In che modo la Costituzione che Lei ha in mente intende farli risorgere dalle ceneri?

postilla

Il giovane Renzi essendo stato boy scout, conosce probabilmente la differenza tra i gufi (tra i quali, nella sua tassonomia, certamente annovera Settis) e le civette. Non essendo versato in altri saperi non sa, probabilmente, che la civetta era per gli antichi, e per i moderni che non hanno rottamato il passato, il simbolo della sapienza e della saggezza. Per celebrare nel nostro autore queste virtù abbiamo scelto come icona con la quale sottolienare l'articolo appunto una civetta. la cui immagine abbiamo tratto dal Museo virtuale della Certosa di Bologna.

In Italia le buone leggi non valgono per tutti/e. I diritti non sono mai uguali, dipende da chi conosci, da quanto tenace sei nell'affrontare i cavilli e le trappole burocratiche. Il Ministro Madia interviene sull'argomento e dice che il governo "se ne occuperà". Sembra che si tratti di un fenomeno sconosciuto, disvelato dalla lettera di una mamma precaria. Artcoli di M.N. De Luca e M. Madia,

La Repubblica, 13 agosto 2014 (m.p.r.)

NE' CONCEDI NE' AIUTI.
ECCO PERCHE' L'ITALIA
NON E' UN PAESE PER MAMME PRECARIE

di Maria Novella De Luca

Roma. Siamo un paese ostile alla maternità e sempre più refrattario ai bambini. Le desolanti statistiche dell’Istat lo testimoniano ad ogni rapporto annuale, fotografando la nostra progressiva discesa agli ultimi posti nella classifica demografica mondiale. Puntualmente ogni volta ci chiediamo perché. Eppure basta leggere la lettera pubblicata ieri su “Repubblica”, per rendersi contro di quanto l’Italia sia diventata ormai un luogo inospitale per chiunque decida di rischiare l’avventura della famiglia. Soprattutto se si è una lavoratrice precaria, ma che nonostante tutto si “azzarda” a mettere al mondo dei figli, ben tre in questo caso. Perché non solo il nostro non è un paese per mamme, ma in particolare non è un paese per mamme “atipiche”, quelle cioè che in assenza di un contratto di lavoro definito, non hanno diritto praticamente a nulla. Né prima della nascita, né dopo. Un’incredibile mancanza di tutele e di sostegni che Belinda Malfetti, giornalista freelance, ben descrive nella sua lettera “La mia odissea di mamma precaria alla ricerca del sussidio negato”. In Italia infatti le leggi ci sono, ma valgono soltanto per le mamme che hanno un contratto di lavoro. Per le altre, che sono sempre di più, resta soltanto il deserto. Ecco a confronto i diritti delle une e delle altre.

Maternità.
L’Italia ha una ottima legge sul congedo di maternità, la numero 1204 del 1971, rivista nel 2000 e nel 2001. Prevede che le future madri continuando a percepire lo stipendio pieno, si astengano obbligatoriamente dal lavoro per cinque mesi, due prima della nascita e tre dopo, oppure 30 giorni prima e quattro mesi dopo. La legge prevede poi un congedo parentale di altri 10 mesi di cui la madre o il padre possono usufruire fino ai 10 anni del figlio, e un orario ridotto al rientro al lavoro per l’allattamento. Tutto questo però è garantito unicamente alle lavoratrici dipendenti. Per le altre, collaboratrici a progetto, freelance o partite Iva (ma non iscritte alle casse previdenziali del proprio ordine professionale), il congedo di maternità spetta soltanto se si è iscritte alla gestione separata dell’Inps. Ossia le future madri devono aver versato, nei dodici mesi precedenti alla gravidanza, 3 mesi di contribuzione. «Si tratta però di congedi a cui riescono ad accedere in pochissime — spiega Claudio Treves della Cgil — perché quasi mai le aziende versano i contributi dovuti, o magari non nei tempi previsti. Ma oltre a questa misura non è previsto null’altro». Dunque il deserto. Chi non ha un contratto alle spalle non ha diritto alla maternità.
Asili nido
Strutture educative e di welfare fondamentali per tutte le famiglie, lo sono ancora di più nelle situazioni di disagio. Infatti qui le priorità di entrata si invertono. Ad avere la precedenza nelle graduatorie per i nidi (al 90% a gestione comunale), sono le donne senza lavoro, le mamme single, le famiglie con redditi bassi, i bimbi con handicap. E dove i nidi funzionano, pochissimo al Sud, sempre di più al Nord e al Centro, il sostegno è evidente. A parte casi d’eccellenza come Reggio Emilia, o l’Alto Adige, molti nidi pubblici sono aperti dalla prima mattina al pomeriggio e offrono buoni servizi. Ma la crisi oggi rende sempre più difficile a molte famiglie riuscire a pagare la mensa dell’asilo. E così le madri “atipiche” smettono di cercare un’occupazione e restano a casa con i figli. Riportando la condizione femminile indietro di decenni.
Sostegni economici
Esistono assegni familiari e assegni di maternità. Possono erogarli i comuni, o possono essere misure decise dallo Stato. Ma come ben racconta la lettera inviata a Repubblica accedere ai “fondi per il terzo figlio” o ai vari “bonus bebè”, è spesso una tale corsa ad ostacoli, tra trappole burocratiche e vincoli di reddito, che soltanto un irrisorio numero di madri riesce ad ottenerli. E si torna poi alla discriminazione tra le “dipendenti” e le “atipiche”. Il voucher della riforma Fornero ad esempio, quegli assegni da 300 euro mensili da destinare alle baby sitter per le madri che volessero tornare in anticipo al lavoro, sono destinati unicamente alle dipendenti. O alle iscritte alle gestione separata dell’Inps. Per tutte le altre, per cui quei 300 euro al mese avrebbero forse costituito un sussidio fondamentale, non è previsto nulla.
Congedi per la malattia dei figli
Non è molto quello che spetta a chi ha un contratto stabile, ma è qualcosa. I genitori di bambini sotto gli otto anni, possono astenersi dal lavoro per cinque giorni ogni 12 mesi per malattia del figlio. Per le lavoratrici precarie invece, la malattia del loro bebè resta un fatto privato. A meno di una nonna disponibile o di una vicina collaborativa, quel giorno anche la madre “atipica” resterà a casa. Ma nessuno a lei riconoscerà economicamente il diritto ad accudire un bambino con la febbre.

CARA BELINDA, HANNO CALPESTATO I SUOI DIRITTI. INTERVERRO'.
di Marianna Madia

Cara Belinda,
la sua lettera di donna, madre, e lavoratrice autonoma è l’emblema di ciò di cui dobbiamo occuparci come Governo. Lei ha perfettamente ragione e io la ringrazio perché alla sua indignazione non segue la rassegnazione, altrimenti non avrebbe scritto questa lettera.

La maternità non è solo un’esperienza intima, faticosa e meravigliosa, e quindi un diritto che va salvaguardato. È il modo con cui un Paese decide il futuro della sua stessa società. In realtà quello che oggi deve cambiare nella testa di noi legislatori e di chi fornisce servizi è che il precario e’ diventato il più tipico fra i lavoratori, perché in questa condizione sono ormai milioni di lavoratrici e lavoratori. Si tratta di una condizione di vita che accomuna moltissimi italiani e italiane, e sono queste ultime le più esposte a un altro dei punti deboli del nostro sistema: la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. È proprio la conciliazione uno degli interventi che ritengo più necessari nel Jobs Act ma anche nella riforma della pubblica amministrazione.
Come anche lei ha avuto modo di vivere sulla sua pelle, di leggi ce ne sono molte, ma spesso il problema è l’attuazione; facciamo leggi che non vengono applicate, sanciamo diritti che non possono essere concretamente esercitati, il che è quasi peggio perché assume il sapore della beffa. Lei racconta di file e interlocuzione interminabili, senza il giusto esito, per cercare di vedere riconosciuto un suo diritto, che è il diritto di molte e molti. Se esiste il diritto a percepire un assegno sociale, questo deve poter essere esercitato in tempi rapidi e certi. E la pubblica amministrazione deve essere d’aiuto e non un freno. L’attuazione delle leggi è una responsabilità politica e non amministrativa ed è esattamente lo scarto rispetto al passato su cui ci stiamo impegnando.
Per questo, in Senato, durante la discussione sulla riforma della pubblica amministrazione, ho chiesto a tutti un esercizio di democrazia: impegniamoci nel monitorare, segnalare e quindi garantire che nessuna delle norme che abbiamo scritto rimanga inattuata. Lettere come la sua sono preziose per il nostro lavoro perché è solo con l’aiuto quotidiano dei cittadini che noi riusciamo a migliorare la qualità della nostra azione. Credo non sia solo una questione di norme ma di persone, le quali, ognuna assumendosi il proprio grado di responsabilità — io più di tutti — siano partecipi di questo cambiamento necessario. Le motivazioni, i dinieghi che ha ricevuto danneggiano certamente lei, ma anche i tanti lavoratori che operano con efficienza cercando di risolvere problemi, senza fermarsi alla “risposta più semplice”. Le verifiche sono dovute e a questo proposito le chiedo di scrivermi ancora a ministropa@governo. it per indicarmi i dettagli utili per approfondire e dare seguito alla sua lettera.
Ma non basterà a darle le risposte che sarebbero dovute arrivare per tempo e il cui peso dell’urgenza sento molto sulle mie spalle. Quello che posso e desidero dirle e’ che quando una donna non dovrà scegliere di essere lavoratrice o madre ma potrà esercitare incondizionatamente la propria identità plurima e ricca di diritti, con il rispetto e il sostegno ai tempi della maternità, avremo vinto tutti e tutte insieme. Sentirò, in quel momento, di aver fatto il mio dovere. Anche grazie a lettere come la sua che, nonostante tutto, restituiscono la fiducia nell’altro.
Marianna Madia è Ministro della Pubblica Amministrazione

«La Repubblica, 11 agosto 2014
Il ermine “migranti” è generalmente associato all’emergenza del bisogno. Le immagini di italiani con valigie di cartone che approdano al porto di New York appartengono alla nostra memoria collettiva. Come anche quelle ormai quotidiane di disperati che cercano di attraversare vivi il Mediterraneo. Ma non tutti i migranti sono così visibili e disperati. Ci sono migranti invisibili, che passano le frontiere senza far rumore e con grande facilità. I golden migrants che non viaggiano con valigie di cartone e non scappano da nessuna miseria. Alcuni stati membri dell’Ue propongono offerte preferenziali per visti a stranieri facoltosi che vogliono lì parcheggiare le loro ricchezze. Sembra che il sistema di inclusione “golden visa” proceda ormai speditamente e che la “fortezza Europa” sia una percezione dei disperati soltanto.

Gli immigrati di serie A non vengono in Europa per una vita migliore o per la libertà - queste cose le hanno già. Strano continente questo, che si presenta al mondo orgoglioso di essere un progetto di unione nel nome dei diritti e del benessere diffuso e poi premia chi vi ci va non perché aspira a questi beni mentre respinge o esclude coloro che questi beni li cercano.

Gli immigrati che viaggiano in business class hanno alcune mete preferite: Malta, Portogallo, Spagna, Cipro, Bulgaria, paesi che hanno intensificato gli sforzi per attrarre facoltosi stranieri con la promessa di una cittadinanza veloce in cambio di investimenti nell’economia locale. A far da battistrada al programma di attrazione di immigrati first class è stata la Gran Bretagna che ha per prima adottato misure di facilitazione per naturalizzare stranieri facoltosi. La crisi ha convinto altri paesi a seguire questa strada, mettendo in circolo l’idea che la cittadinanza può essere un bene in vendita e, come tutte le merci, data a chi la paga bene. Gli esperti cercano di arginare questa distribuzione discriminatoria della cittadinanza distinguendo tra “golden visa” che è «un programma per investitori che facilita la procedura di immigrazione per stranieri ricchi» e la cosiddetta “cittadinanza in vendita” che “comporta la vendita delle nazionalità,” come ha detto Katherina Eisele del Center for European Policy Studies di Bruxelles. Ma la distinzione è sottile come un filo di lana, facile a spezzarsi.

Un anno fa, il governo maltese ha lanciato il “Programma per investitori individuali” con il quale gli stranieri ricchi ottengono la cittadinanza maltese con una somma fissa di denaro. Ai critici, il programma maltese è apparso subito come una porta di servizio per concedere ad alcuni privilegiati di passare, saltando i regolamenti europei sull’immigrazione. Ma diventare maltesi significa diventare europei e quindi la questione non è solo nazionale. L’Europa prevede che la cittadinanza attribuita da uno stato membro debba seguire una certa affiliazione con il paese in questione prima di essere concessa; che, insomma, ci debba essere un senso di responsabilità del richiedente verso il paese naturalizzante senza di che la cittadinanza rischia di essere davvero una merce in vendita - soprattutto in un paese piccolo o con più pressante bisogno economico. Nasce così il fenomeno di passaporti per mezzo milione di euro.

È questo il caso del Portogallo, che nel 2012 ha istituito la “golden visa” cioè il permesso di soggiorno per stranieri che acquistino una proprietà immobiliare in Portogallo del valore di almeno 500,000 euro e vivano sei anni nel paese. Un’altra procedura più veloce prevede che lo straniero apra un conto in una banca portoghese trasferendovi almeno un milione di euro o che apra un’azienda con almeno trenta operai: entrambe le cose saranno sufficienti a dargli il passaporto portoghese. Dei due programmi, il “golden visa” ha avuto più successo (con investitori asiatici in particolare) facendo crescere il mercato immobiliare.

I critici di questa mercificazione della cittadinanza hanno puntato il dito contro la logica discriminatoria che penalizza solo gli immigranti poveri. Ma la questione della citizenship for sale mette in luce una contraddizione ben più grave, che mina alla radice le nostre democrazie europee. I paesi in difficoltà economica hanno bisogno di nuovi cittadini - in breve, sia di fresca manodopera a bassissimo costo sia di fresca ricchezza da investire. Entrambi sono un’arma straordinaria contro i lacci che hanno in questi decenni reso il lavoro dei cittadini europei un bene tutelato da diritti: la manodopera a bassissimo costo e i ricchi stranieri pronti a far fruttare la loro ricchezza sono i due poli estremi e complementari che contribuiscono a rendere carta straccia i contratti e le retribuzioni della manodopera nazionale. La dissociazione del lavoro dalla cittadinanza nazionale ha in queste politiche sull’immigrazione il suo luogo di attuazione. I programmi di cittadinanza facile per ricchi stranieri sono certamente figli della crisi, ma sono una ricetta non per creare occupazione, bensì per creare lavori a qualunque condizione, precari e mal pagati. Se lavoro si crea dunque, sarà probabilmente più appetibile per coloro che sono disposti a lavorare per un pugno di euro: immigrati o cittadini che dal punto di vista lavorativo sono come gli immigrati.

È quindi la democrazia stessa che viene ad essere aggredita con questi programmi dimostrando come l’immigrazione sia un’arma politica di straordinaria potenza, troppo sottovalutata da politici ed esperti. Con quest’arma si raggiungono obiettivi impossibili da raggiungere con la cittadinanza sancita nelle nostre costituzioni: la dissociazione tra lavoro e diritti.

E qui sta la correlazione fra i migranti disperati e i migranti di prima classe: tra chi non avrà mai una cittadinanza in un paese europeo e chi ce l’avrà immediatamente. I primi non comprenderanno né reclameranno diritti perché il loro non sarà mai un lavoro di cittadini. I secondi sanno di aver la licenza a mettere a frutto al meglio la loro ricchezza e troveranno naturale rivolgersi ai migranti in bisogno. A perdere in questo mercato del lavoro senza diritti e della cittadinanza a chi fa ricchezza ad ogni costo è la nostra cittadinanza, quella di chi è cittadino non perché ricco e che ha diritto a un lavoro dignitoso non a un’occupazione per un pugno di euro.

«Il manifesto, 10 agosto 2014

Il dato sulla cre­scita sotto zero divul­gato dall’Istat dimo­stra che i nodi prima o dopo ven­gono al pet­tine. Renzi, com’è sua natura, ci ride sopra e, smen­tendo i rosei oriz­zonti da lui dise­gnati tre mesi or sono, dichiara che tutto va come pre­vi­sto. C’è solo da insi­stere. In realtà, dopo quasi un ven­ten­nio di bluff ber­lu­sco­niano, in pochi mesi si sta con­su­mando il bluff di Renzi. Il quale di tutto può essere tac­ciato, tranne che di man­canza di auda­cia e di scarsa intel­li­genza poli­tica. Ne ha da ven­dere, con­dite con una dose da cavallo di spregiudicatezza.

Renzi ha sfi­dato nel 2012 Ber­sani alle pri­ma­rie, ha perso, come pre­ve­di­bile, ma ha nego­ziato una sostan­ziosa quota di par­la­men­tari a lui fedeli. Appa­ren­te­mente leale nei con­fronti di Ber­sani nella cam­pa­gna elet­to­rale del 2013, ha comun­que mar­cato le distanze da lui, sabo­tan­dolo in ogni modo. Che la riven­di­ca­zione ripe­tuta del suo tasso di novità — sfo­ciata nella man­cata can­di­da­tura di D’Alema e altri — abbia con­corso all’insuccesso del Pd è vero­si­mile ed è altret­tanto vero­si­mile che ci sia il suo zam­pino (ben­ché non solo il suo) die­tro le disa­strose boc­cia­ture di Marini e Prodi alla pre­si­denza della Repub­blica. A con­clu­sione di que­sto primo capi­tolo della sto­ria, Renzi, inco­ro­nato segre­ta­rio del par­tito dalla ple­bi­sci­ta­ria litur­gia delle pri­ma­rie aperte, ha dato il ben­ser­vito al troppo opaco Enrico Letta, inse­dian­dosi alla guida di un governo fatto per intero di figure inca­paci di far­gli ombra. Con quale pro­gramma? Tolto l’ammuine — i toni più accesi nei con­fronti dell’Europa e della signora Mer­kel si sono subito rive­lati fumo negli occhi — non c’è altro che sto­lida con­ti­nuità con le poli­ti­che dei suoi due ultimi pre­de­ces­sori. Eso­sità fiscale, destrut­tu­ra­zione del lavoro dipen­dente, tagli spie­tati ai ser­vizi pub­blici, abban­dono del Mezzogiorno.

Con una pic­cola variante, che ricorda la fami­ge­rata abo­li­zione dell’Ici da parte di Ber­lu­sconi nel 2008. Men­tre con impla­ca­bile rego­la­rità sem­pre nuove schiere di lavo­ra­tori segui­ta­vano a per­dere il posto, il Nostro ha elar­gito 80 euro a una discreta pla­tea di elet­tori, pro­met­tendo d’estenderla nei mesi a venire. Come per la pro­messa di abo­lire l’Ici, l’obiettivo non era quello di far ripar­tire i con­sumi, bensì spun­tare un buon suc­cesso alle euro­pee in grado di legit­ti­marlo e con­so­li­dare il suo potere. Il declino di Ber­lu­sconi e l’uscita di scena delle frat­ta­glie cen­tri­ste, mas­sa­crate dal fal­li­mento di Monti, gli ha dato un suc­cesso inaspettato.

A dire il vero, di varianti Renzi ne ha intro­dotta anche una seconda. Per neu­tra­liz­zare ogni oppo­si­zione entro il suo par­tito ha inta­vo­lato una spre­giu­di­cata trat­ta­tiva con Ber­lu­sconi onde ridi­se­gnare a misura d’entrambi il pro­filo delle isti­tu­zioni repub­bli­cane. Non avendo novità da pro­porre sul piano delle poli­ti­che, Renzi ha inve­stito tutte le sue ener­gie in un dise­gno volto a can­cel­lare d’un tratto il deli­cato sistema di con­trap­pesi adot­tato dai padri costituenti.

Per carità, non par­liamo di lesa demo­cra­zia. La demo­cra­zia di per sé è un con­te­ni­tore assai capiente. E molto acco­mo­dante. I suoi requi­siti irri­nun­cia­bili — suf­fra­gio uni­ver­sale, prin­ci­pio di mag­gio­ranza, plu­ra­li­smo par­ti­tico — tol­le­rano dosi mas­sicce di non demo­cra­zia. Troppo spesso si dimen­tica che senza un decente soft­ware poli­tico, l’hardware demo­cra­tico vale poco. È così che da tempo i regimi demo­cra­tici si sono ampia­mente immu­niz­zati dalle misure impo­po­lari, e anti­po­po­lari, che adot­tano e hanno but­tato a mare i cosid­detti diritti sociali. L’inciucio Renzi-Berlusconi non fa che con­clu­dere un per­corso, avviato un quarto di secolo or sono, di omo­lo­ga­zione dell’Italia alle altre demo­cra­zie avan­zate, le quali — c’è fior di ricer­che che lo atte­sta -, tranne quelle che hanno man­te­nuto il pro­filo “con­sen­suale” intro­dotto nel dopo­guerra, ver­sano in mise­re­voli condizioni.

L’efficienza e cele­rità deci­sio­nale che Renzi, con insop­por­ta­bile vio­lenza ver­bale, invoca come ragione del suo pro­gramma isti­tu­zio­nale è d’altra parte già assi­cu­rata dall’uso e abuso del voto di fidu­cia e non è certo ragione suf­fi­ciente di uno zelo che andrebbe dedi­cato a tutt’altre cause. Prima fra tutte l’occupazione. Dif­fi­cile pen­sare che lui non ne sia con­sa­pe­vole. Per quanto sem­pli­ci­stico sia il suo approc­cio ai pro­blemi del paese, e per quanto sia anche lui impre­gnato di quella cul­tura popu­li­sta che intos­sica le demo­cra­zie avan­zate, il Nostro non fa che gio­care il suo bluff.

In com­penso, due acquie­scenze stu­pi­scono non poco. La prima è quella del Capo dello Stato, sem­pre riven­di­ca­tosi garante della lealtà costi­tu­zio­nale. In sin­to­nia con Dra­ghi, che detta la sua ricetta eco­no­mica, il Pre­si­dente non lesina il suo appog­gio. La seconda è quella della diri­genza e della rap­pre­sen­tanza par­la­men­tare del Pd. Che una parte sia acquie­scente per con­vin­zione, si sapeva. Che un’altra sia rima­sta abba­ci­nata dal risul­tato delle euro­pee, si spiega. L’opportunismo è un morbo dif­fu­sis­simo in poli­tica. Più dif­fi­cile è spie­garsi l’isolamento dei Chiti, Mineo, Tocci, Cas­son (mi scuso per chi non nomino) che si sono fie­ra­mente oppo­sti alla bru­tale castra­zione del Senato. Che degli oppo­si­tori ci siano pure alla Camera è noto. Lo stesso Ber­sani ha mani­fe­stato il suo disa­gio. Ma nel Pd nes­suno sem­bra avere il corag­gio di innal­zare le ban­diere della Costi­tu­zione vili­pesa e dire un no forte e chiaro. Spiace dirlo, ma dagli eredi legit­timi dei par­titi che scris­sero quella Carta c’era da aspet­tarsi ben di più

«Il premier aveva detto che sull’andamento della politica economica ci avrebbe messo la faccia, ma in realtà se metterci la faccia significa andarsene, ha rapidamente cambiato idea». Finalmente un editoriale di Eugenio Scalfari che condividiamo in gran parte.

La Repubblica, 10 agosto 2014

Il Senato è stato riformato in prima lettura. Ce ne vorranno altre tre tra Camera e Senato prima che la riforma sia perfezionata e intanto anche la riforma della legge elettorale dovrà esser varata anche se ancora numerose sono le variazioni che il Pd vorrebbe includervi non ancora concordate con Forza Italia in modo definitivo. Comunque entrambi questi due cambiamenti (ai quali si dovrà aggiungere la riforma del titolo V della Costituzione) richiedono una doppia firma: quella di Renzi e quella di Berlusconi. Di quest’aspetto della situazione parleremo tra poco ma intanto soffermiamoci sul significato del cambiamento avvenuto già da qualche tempo ma che nel voto dell’8 agosto ha avuto la sua ufficiale consacrazione.

Il nostro Ilvo Diamanti in un articolo di qualche giorno fa smentisce che si sia in presenza d’una tentazione autoritaria da parte di Matteo Renzi, come molti dei suoi avversari politici temono. Che Renzi, riducendo il Senato a poco più d’una scarpa vecchia, coltivi un rafforzamento del potere esecutivo non c’è dubbio alcuno; del resto è lui stesso che lo dice presentandolo come una svolta democratica che allinea l’Italia a tutti gli altri paesi d’Europa. È vero e anch’io l’ho ricordato domenica scorsa. Per darne una definizione calzante ho chiamato questa scelta renziana ampiamente condivisa da gran parte del Pd, egemonia individuale. Diamanti usa una definizione molto simile: la chiama democrazia personale e, cercando un paragone col passato, fa il nome di Bettino Craxi.

La pensiamo allo stesso modo e qui nasce il problema: un’egemonia individuale o una democrazia personale è quanto merita il nostro Paese? Somiglia a quanto avviene negli altri Stati membri dell’Unione europea? La leadership è ormai un requisito della società mondiale determinato da molti mutamenti avvenuti a cominciare dalla società globale? E non è più soltanto un fatto della politica, ma di tutte le manifestazioni sociali ed economiche? Dipende forse dalla scomparsa delle ideologie, sostituite dal pragmatismo che opera avendo come riferimento soltanto il presente?

Le domande, come si vede, sono molte e bisogna confrontarsi con esse per capire che cosa stia accadendo e che cosa accadrà

***
Quando nel 1989 cadde il muro di Berlino, la prima conclusione che ne trassero in tutto il mondo le persone che si interessano alla storia che abbiamo alle spalle e agli scenari che si prospettano nel futuro, arrivarono alla conclusione che le ideologie erano state sepolte per sempre. La storia è finita, scrisse un intellettuale di molto prestigio; ora non c’è che il pragmatismo, si decide giorno per giorno secondo i problemi concreti e senza alcun pre-giudizio.
Sbagliava e lui stesso lo riconobbe qualche anno dopo. L’ideologia significa orientarsi secondo un sistema di idee interconnesse da una dominante: si privilegia l’eguaglianza oppure la libertà, la tutela dei più deboli oppure i risultati della gara dalla quale emergono i vincitori e soccombono gli sconfitti e così via. Ciascuna di queste visioni è un’ideologia: il socialismo è un’ideologia, il liberismo, il progressismo, il machiavellismo, l’esortazione alla carità oppure la totale indifferenza per tutto ciò che non ci riguarda direttamente. Ciascuno di questi modi di pensare è un’ideologia e noi viviamo in conformità a quella prescelta che però cambierà nel tempo come noi stessi cambieremo. Perciò parlare di fine delle ideologie e rallegrarcene è una pura sciocchezza.

Il secondo tema con il quale confrontarsi è la contrapposizione che molti fanno tra democrazia, cioè potere del popolo, e l’oligarchia, cioè potere di pochi. Almeno a parole la grande maggioranza è per la democrazia che prevede tuttavia alcune varianti: quella esercitata dal popolo direttamente (l’agorà greca, la piazza nei comuni medievali, il sistema referendario esteso e facilitato al massimo).

Se posso dare il mio giudizio, io credo che la sola e vera forma che realizza la sovranità sociale sia l’oligarchia. Se vogliamo il modello più antico è quello teorizzato da Platone nel suo dialogo sulla “Repubblica”. Certo l’oligarchia, per tutelare la libertà e la partecipazione, deve adottare alcune condizioni: deve essere democraticamente eletta, aperta sia a molte entrate sia a frequenti uscite; insomma deve rinnovarsi senza distinzione tra i ceti sociali di provenienza. Un’oligarchia chiusa o rinnovata soltanto per cooptazione è quanto di peggio possa accadere, ma se è aperta è il solo vero modo di affidare la società ai migliori e verrà giudicata dal cosiddetto popolo sovrano come consuntivo delle sue azioni sia in politica sia nelle istituzioni sociali ed economiche attraverso libere elezioni.

Certo c’è un altro modo di guidare una società ed è la dittatura. Capita spesso la dittatura. Nell’antica Roma repubblicana durava sei mesi e si instaurava quando c’era un pericolo alle porte che bisognava con urgenza sgominare. Poi venne l’Impero, Roma aveva conquistato l’intera Europa e Asia minore e aveva bisogno di una figura simbolica che la rappresentasse; nei primi due secoli l’Impero aveva tuttavia presso di sé una folta classe dirigente con ampie deleghe operative. Fin quando questo sistema, chiamiamolo imperial- democratico, durò Roma continuò a espandersi politicamente e a diffondere dovunque la sua cultura, le tavole del suo diritto, la sua poesia, la sua civiltà. Poi la classe dirigente si restrinse ai “clientes” dell’Imperatore e ai militari che comandavano le legioni e allora cominciò il declino.

***
Spero d’aver risposto come potevo e il più brevemente possibile alle domande che servono a disegnare uno scenario. Ora torniamo ai fatti che riguardano direttamente noi e l’Europa tutta.

L’attualità di questi giorni è dominata da due avvenimenti, entrambi italiani, la riforma del Senato che come Renzi voleva è stata approvata in prima lettura nel testo voluto dal governo e contemporaneamente, la cattiva sorpresa di un calo dello 0,2 per cento del Pil nel secondo trimestre dell’anno in corso, dopo un calo dello 0,1 per cento nel primo trimestre il che significa una perdita dello 0,3 nel semestre. Tecnicamente e sostanzialmente siamo in recessione.

Renzi aveva detto che sull’andamento della politica economica ci avrebbe messo la faccia, ma in realtà, se metterci la faccia significa andarsene, ha rapidamente cambiato idea. Debbo dire che ha fatto bene, le sue dimissioni avrebbero aperto una crisi estremamente difficile proprio nel momento in cui l’Italia ha la presidenza semestrale dell’Unione europea. Finora non si è ancora avuto alcun segnale di questa presidenza che avrebbe dovuto conferirci meriti e poteri di intervento ma temo che non si verificherà perché i dati dell’Istat equivalgono ad una pessima pagella.

Renzi dice che il calo del Pil non ha alcun significato, anzi lo spinge ad accelerare il risanamento. Non dice come e attingendo a quali risorse che francamente non ci sono. E poi interviene Mario Draghi con tutta l’autorità che gli deriva dalla competenza che ha e dalla carica che ricopre.

Su Draghi e i suoi recenti interventi che ci riguardano direttamente i giornali e lo stesso Renzi hanno fatto molta confusione eppure le sue parole sono state chiarissime. Ha detto che l’Italia deve finalmente affrontare le riforme economiche (finora non ne ha fatta alcuna salvo quella degli 80 euro sulla quale spenderemo tra poco una parola); le riforme secondo Draghi debbono affrontare tre temi: la produttività, la competitività e la crescita; le riforme istituzionali possono essere anch’esse perseguite ma non possono sottrarre tempo a quelle economiche: o vanno di pari passo, sempre che il calendario delle Camere lo consenta, oppure sono quelle economiche a dover essere privilegiate.

Infine – e questa è a mio avviso la richiesta fondamentale – Draghi ha esortato i governi europei a cedere nei prossimi mesi ampia sovranità all’Europa soprattutto su temi riguardanti la politica economica; senza queste cessioni di sovranità difficilmente usciremo dalla situazione di deflazione che ormai minaccia l’intera economia europea e quella italiana in particolare. Dal canto suo il presidente della Bce a settembre aprirà il rubinetto della liquidità come ha già da tempo annunciato con due finalità ben precise: ravvivare il rapporto tra le banche e la loro clientela (specialmente in Italia dove questo non accade ancora in modo soddisfacente) e diminuire il tasso dell’euro nei confronti del dollaro per favorire le esportazioni e quindi rafforzare la domanda di beni e servizi europei.

Mi permetto di ricordare che domenica scorsa ho scritto che per combattere la minaccia incombente della deflazione l’Italia dovrebbe accettare l’arrivo della “troika” internazionale che, a differenza di qualche tempo fa, è ormai orientata a favorire la crescita, lo sviluppo e l’occupazione. Draghi parla di importanti cessioni di sovranità: diciamo su per giù la stessa cosa. Sugli 80 euro la situazione è chiarissima: dopo tre mesi i consumi non si sono mossi, gli 80 euro soddisfano i beneficiari e questo è evidente, ma il risultato economico che si sperava ci fosse non si è verificato. Anche su questo punto Renzi l’aveva dato per certo e ci metteva, come dice lui, la faccia. Ho già detto che non può farlo per mancanza di alternative ma sarebbe proprio lui che dovrebbe favorirne la nascita. Invece non lo fa e forse gira con la maschera sul viso. Capisco ma non condivido.

***

La riforma del Senato, come pure avverrà per quelle della Camera, del titolo V e della Giustizia, porta due firme: quella di Renzi e quella di Berlusconi. Si sapeva, era necessario e nessuno può dir nulla. Del resto accadde la stessa cosa con il governo Monti. Con quello di Letta no perché c’era stata la scissione di Alfano che però non sarebbe bastata per le riforme costituzionali.

Quanto al resto, sia Renzi sia Berlusconi sostengono che per quanto riguarda la legislazione ordinaria e quella economica in particolare Forza Italia è e sarà all’opposizione. Sarà probabilmente così ma non dipende da Renzi bensì da Berlusconi. Forza Italia non è obbligata da nessun accordo a entrare nella maggioranza e non ne ha neppure l’interesse, ma nessuno può impedirgli quando vuole di votare a favore del governo anche su provvedimenti che non hanno nulla a che vedere con le riforme. Io ho la sensazione che questo avverrà spesso poiché significa che di fatto Berlusconi è il pilastro con Renzi della maggioranza. Può non piacere né in Italia né in Europa, ma se accadrà bisognerà purtroppo prenderne atto. *** Dedico poche parole a quanto hanno scritto alcuni egregi colleghi di altri giornali su questioni come quelle qui finora trattate. Alcuni ripetono che l’abbandono del bicameralismo perfetto metterà la parola fine al balletto che fa perdere mesi e mesi di tempo alle due Camere prima che una legge sia approvata. Ho già fornito da tempo le cifre, raccolte dalla segreteria del Senato, che smentiscono quest’affermazione: i tempi non sono affatto lunghissimi e variano, secondo la natura dei provvedimenti, tra i cinquantasei e i duecento giorni. Come si vede niente di paralizzante.

Viceversa sono ancora privi di attuazione ben 750 provvedimenti approvati da entrambe le Camere ma privi dei regolamenti attuativi e di altrettanti decreti ministeriali che dipendono dalla burocrazia dei singoli ministeri. Il male dunque è qui e non nel bicameralismo.

Sulla “Stampa” di ieri un egregio collega ripeteva la filastrocca del balletto, ma sullo stesso giornale la senatrice a vita Elena Cattaneo in una lettera al direttore segnalava le ragioni per cui si è astenuta nel voto finale (al Senato l’astensione vale come voto contrario). È la lettera di una persona che non parteggia per alcun partito e non ha pregiudizi di sorta ma cerca di dare giudizi lucidi e motivati.

***

Infine sul nostro giornale di venerdì il professor Crainz ricorda che De Gasperi fu sempre e tenacemente favorevole al bicameralismo perfetto perché temeva che una sola Camera finisse per trasformarsi in una “assemblea giacobina” nel senso che avrebbe seguito pedissequamente le decisioni del demagogo di turno. Molti hanno spesso richiamato pareri di alcuni “padri costituenti” contro il bicameralismo, ma nessuno aveva ricordato il parere di Alcide De Gasperi che non è certo un nome da poco perché è stato il vero costruttore della Repubblica italiana.

Tre articoli (di Gaetano Azzariti, Andrea Fabozzi, Vincenzo Accattatis) illustrano e commentano l'ulteriore passo della discesa verso la fine della democrazia in Italia. Ma possono ancora essere fermati. La loro pasticcionaggine è il primo alleato di chi vuole contrastarli, ma non è certo sufficiente.

Il manifesto, 9 agosto 2014


UNDELITTO, TANTI AUTORI
di Gaetano Azzariti

Costituzione. Il maggior responsabile è il Governo che ha diretto l’intera operazione senza lasciare nessuno spazio all’autonomia del Parlamento con progressive imposizioni e l’ininterrotta invasività della sua azione che hanno annullato di fatto il ruolo costituzionale del Senato.

Un’infinita tri­stezza. È que­sto il sen­ti­mento che pre­vale nel momento in cui si assi­ste alla vota­zione del Senato sulla modi­fica della Costi­tu­zione. Domani ripren­de­remo la lotta per evi­tare il peg­gio: per­ché la legge costi­tu­zio­nale con­cluda il suo iter dovranno pas­sare ancora molti mesi e altri pas­saggi par­la­men­tari ci aspet­tano, poi - nel caso - il refe­ren­dum oppo­si­tivo. Dun­que, nulla è ancora per­duto. Salvo, forse, l’onore.

In pochi giorni il Senato non ha appro­vato una riforma costi­tu­zio­nale (buona o cat­tiva che si possa rite­nere), bensì ha distrutto il Par­la­mento sotto gli occhi degli ita­liani. Nes­suno dei pro­ta­go­ni­sti è stato esente da colpe. Si è assi­stito a una sorta di omi­ci­dio seriale, cia­scuno ha inferto la sua pugna­lata. Alcuni con mag­gior vigore, altri con imper­do­na­bile incon­sa­pe­vo­lezza, altri ancora non tro­vando altre vie d’uscita.

Il mag­gior respon­sa­bile è cer­ta­mente stato il Governo che ha diretto l’intera ope­ra­zione, senza lasciare nes­suno spa­zio all’autonomia del Par­la­mento. Le pro­gres­sive impo­si­zioni e l’ininterrotta inva­si­vità dell’azione del Governo in ogni pas­sag­gio par­la­men­tare hanno annul­lato di fatto il ruolo costi­tu­zio­nale del Senato. Non s’è trat­tato solo dell’anomalia della pre­sen­ta­zione di un dise­gno di legge gover­na­tivo in una mate­ria tra­di­zio­nal­mente non di sua competenza.

Ma anche nell’aver costretto la Com­mis­sione - in modo poco tra­spa­rente - a porre que­sto come testo base nono­stante la discus­sione avesse fatto emer­gere altre mag­gio­ranze. E poi, ancora, nell’aver voluto con­trol­lare tutto il lavoro dei rela­tori - è la pre­si­dente della Com­mis­sione che ha rico­no­sciuto che il Governo ha “vistato” gli emen­da­menti pre­sen­tati appunto dai rela­tori - con buona pace dell’autonomia del man­dato par­la­men­tare e del rispetto della divi­sione dei poteri.

Non solo i rela­tori, ma ogni sena­tore ha dovuto con­fron­tarsi non tanto con l’Assemblea bensì con la volontà gover­na­tiva, e molti si sono pie­gati. Mi dispiace doverlo dire, ma l’andamento dei lavori ha dimo­strato come un certo numero degli attuali sena­tori non ten­gano in nes­sun conto non solo la Costi­tu­zione, ma nep­pure la respon­sa­bi­lità poli­tica, di cui cia­scuno di loro dovrebbe essere tito­lare dinanzi al corpo elettorale.

I pochis­simi voti segreti con­cessi su que­stioni del tutto mar­gi­nali hanno for­nito la prova di quanto fos­sero con­di­zio­nati e insin­ceri i voti palesi. È stato così pos­si­bile evi­den­ziare l’esteso numero dei rap­pre­sen­tanti della nazione che hanno votato con la mag­gio­ranza solo per timore di essere messi all’indice dagli stati mag­giori dei rispet­tivi par­titi. Una lace­ra­zione costi­tu­zio­nal­mente insop­por­ta­bile. Se non si garan­ti­sce (o non si eser­cita) la libertà di coscienza sui temi costi­tu­zio­nali il prin­ci­pio del libero man­dato serve vera­mente a poco. E tutto è stato fatto, invece, per vin­co­lare i rap­pre­sen­tanti alla disci­plina di par­tito. Ancora un colpo all’autonomia del Par­la­mento inferto - più che dal Governo o dai par­titi - da que­gli stessi sena­tori che non si sono voluti opporre pale­se­mente a ciò che pure non condividevano.

S’è discusso e pole­miz­zato sulla con­du­zione dei lavori, sull’interpretazione dei rego­la­menti e dei pre­ce­denti. Quel che lascia basiti è però altro. Ciò che è man­cato è la con­sa­pe­vo­lezza che si stesse discu­tendo di una riforma pro­fonda del nostro assetto dei poteri e degli equi­li­bri com­ples­sivi defi­niti dalla Costi­tu­zione. Se si fosse par­titi da que­sto assunto non si sarebbe potuto accet­tare, in nes­sun caso, un anda­mento che ha sostan­zial­mente impe­dito ogni seria discus­sione su tutti i punti della revi­sione pro­po­sta. Non si sarebbe dovuto assi­stere allo spet­ta­colo sur­reale che ha visto prima esau­rire nella rissa e nel caos il tempo della discus­sione, per poi pro­ce­dere a un’interminabile serie di vota­zioni, con un’Assemblea muta e irri­fles­siva che mec­ca­ni­ca­mente respin­geva ogni emen­da­mento dei sena­tori di oppo­si­zione e appro­vava la riforma defi­nita dagli accordi con il Governo. Spetta al pre­si­dente di assem­blea diri­gere i lavori garan­tendo la discussione.

Non credo possa affer­marsi che ciò sia avve­nuto. Anche in que­sto caso per il con­corso di molti. Per­sino dell’opposizione, la quale ha dovuto uti­liz­zare l’arma estrema dell’ostruzionismo che, evi­den­te­mente, osta­cola una discus­sione razio­nale e pacata. Ciò non toglie che non si doveva accet­tare nes­suna for­za­tura sui tempi, nes­suna inter­pre­ta­zione rego­la­men­tare restrit­tiva dei diritti delle oppo­si­zioni, nes­suna uti­liz­za­zione esten­siva dei pre­ce­denti. Si doveva invece ricer­care il dia­logo, la tra­spa­renza, il con­corso di tutti i rap­pre­sen­tanti della nazione. Era com­pito di tutti creare un clima “costi­tu­zio­nale”, ido­neo alla riforma. Nes­suno lo ha ricer­cato. E temo non sia solo una que­stione di tem­pe­ra­tura, ma - ahimè - di cul­tura costi­tu­zio­nale che non c’è.

La con­clu­sione di ieri ha san­cito la dis­sol­venza del Par­la­mento. La dele­git­ti­ma­zione dell’organo tito­lare del potere di revi­sione della Costi­tu­zione è alla fine stata san­zio­nata dagli stessi suoi com­po­nenti. Il rifiuto di par­te­ci­pare al voto con­clu­sivo da parte di tutti gli oppo­si­tori rende palese che non si può pro­se­guire su que­sta strada. Vedo esul­tare la mag­gio­ranza acce­cata dal suc­cesso di un giorno, mi aspetto qual­che rozza bat­tuta rivolta alla oppo­si­zione “che fugge”. Ma spero che, oltre la cor­tina dell’irrisione, qual­cuno si fermi per pen­sare a come rime­diare. La Costi­tu­zione non può essere impo­sta da una mag­gio­ranza poli­tica senza una discus­sione e con­tro l’autonomia del Parlamento.


FESTAALLA COSTITUZIONE. MA È SOLO L’INIZIO
diAndrea Fabozzi,

Senato. Primo sì del parlamento: la riforma governativa perde molti voti e resta sotto la soglia dei 2/3: il referendum non sarà una concessione di Renzi. Alla maggioranza del Nazareno mancano 50 voti e il testo è pieno di «bachi» che richiedono modifiche

I gril­lini sfi­lano in riga sotto il naso di Anna Finoc­chiaro, pian­tata di guar­dia al cen­tro dell’emiciclo. Lasciano l’aula per non par­te­ci­pare al voto sulla riforma costi­tu­zio­nale. I leghi­sti si sor­bi­scono tutto il dibat­tito, ma vanno via alla fine per per­met­tere a Cal­de­roli di distin­guersi: il rela­tore si astiene restando fermo al suo banco. Chi è con­tro non vota: Sel e il gruppo misto che si sono cari­cati il peso dell’ostruzionismo, i non con­vinti del Pd, i fron­di­sti di Forza Ita­lia. Così la riforma «sto­rica» del senato chiude il primo giro senza nes­sun voto con­tra­rio. Ma con tanti voti favo­re­voli in meno.

L’ultima e più impor­tante di due­mila e tre­cento vota­zioni ferma i SIa quota 183, più vicina alla soglia minima indi­spen­sa­bile per una legge costi­tu­zio­nale (161) che a quella di sicu­rezza per evi­tare il refe­ren­dum (214), quando arri­verà la quarta let­tura. Alla mag­gio­ranza del patto ri-costituente man­cano una cin­quan­tina di voti: i «dis­si­denti» annun­ciati si con­fer­mano — 19 ber­lu­sco­niani e 16 demo­cra­tici — in più si con­tano una quin­di­cina di assenti, nume­rosi nel gruppo di Alfano. Renzi ha pro­messo la gra­ziosa rinun­cia alla mag­gio­ranza dei due terzi, per per­met­tere il refe­ren­dum con­fer­ma­tivo. Il tabel­lone del senato dice che quella mag­gio­ranza non ce l’ha.

Oggi è così, ma la strada è lunga. I bachi più evi­denti rima­sti nel testo, oltre all’omaggio per il ruolo dei depu­tati, lasciano pre­ve­dere qual­che modi­fica alla camera; la legge dun­que dovrà tor­nare al senato. La pausa di rifles­sione impo­sta dall’articolo 138 della Costi­tu­zione e il refe­ren­dum finale faranno il resto: della riforma si par­lerà ancora per tutto il 2015. Il patto del Naza­reno dovrà dare prova di resi­stenza, sem­pre che non venga allar­gato anche al resto dei dos­sier (più) urgenti. Un’eventuale cam­pa­gna per il no al refe­ren­dum par­ti­rebbe in salita, ma potrebbe insi­stere sull’immunità (impo­po­lare e non abo­lita) e sul voto diretto (più gra­dito, ma can­cel­lato). «Il governo — pre­vede la capo­gruppo di Sel Lore­dana De Petris — si aspetta un ple­bi­scito ma non è detto che vada così».

Nel frat­tempo, ed è uno degli aspetti più assurdi della riforma ren­ziana, tra que­sto autunno e la pros­sima pri­ma­vera gli ita­liani eleg­ge­ranno la gran parte dei con­si­gli regio­nali e molti sin­daci, senza sapere se stanno con­tem­po­ra­nea­mente sele­zio­nando i futuri sena­tori. Lo pre­vede il testo appro­vato ieri, rischiando così l’incostituzionalità: per l’articolo 51 tutti devono essere messi in con­di­zione di acce­dere «con ugua­glianza» alle cari­che elet­tive. Le dispo­si­zioni tran­si­to­rie potreb­bero essere cor­rette, eli­mi­nando la lot­te­ria della prima volta per una vera ele­zione di secondo grado, ma per farlo biso­gne­rebbe rin­viare di cin­que anni la tanto accla­mata tra­sfor­ma­zione del senato. È que­sta una delle tante incon­gruenze pra­ti­che che ori­gi­nano nella tra­sfor­ma­zione dei con­si­glieri regio­nali e dei sin­daci in legi­sla­tori, il pastic­cio dell’immunità è solo quella più evidente.

Un’altra incon­gruenza è quella che denun­cia il sena­tore Chiti, il più espo­sto dei 16 «dis­si­denti» Pd. Lungi dal «rap­pre­sen­tare le isti­tu­zioni ter­ri­to­riali», i senatori-consiglieri saranno sele­zio­nati dai capi par­tito e nel nuovo senato repli­che­ranno la divi­sione in gruppi (anche se la riforma elude il pro­blema, non pre­ve­dendo la pro­por­zio­na­lità di rap­pre­sen­tanza nelle com­mis­sioni). Infatti un emen­da­mento che avrebbe obbli­gato tutti i rap­pre­sen­tanti di un ter­ri­to­rio a votare allo stesso modo — un po’ come nel Bun­de­srat tede­sco — è stato respinto dalla mag­gio­ranza. Anche su que­sto tema però molto è rin­viato al futuro: appro­vata la riforma, infatti, dovranno essere ancora le camere — con il vec­chio o magari con il nuovo regime par­la­men­tare — a dover scri­vere le regole per le ele­zioni di secondo grado.

Magari anche que­sti «det­ta­gli» suc­ces­sivi saranno affi­dati a un patto a due; visto che come da rias­sunto del capo­gruppo di Forza Ita­lia Romani «que­sta riforma porta le firme di Renzi e Ber­lu­sconi» — niente male per il più solenne degli atti par­la­men­tari. C’è per esem­pio una porta soc­chiusa per il refe­ren­dum pro­po­si­tivo, che viene solo nomi­nato nella nuova Carta ma che potrebbe essere svi­lup­pato, con legge costi­tu­zio­nale, assai bene quanto assai male. L’enfasi di Cal­de­roli sul fatto che «non è stata esclusa alcuna mate­ria» può suo­nare pre­oc­cu­pante. Altre però sono le pre­oc­cu­pa­zioni imme­diate. Alla camera, in autunno, si ripar­tirà dal ten­ta­tivo di cor­reg­gere il mec­ca­ni­smo di ele­zione del pre­si­dente della Repub­blica, che al momento è nella dispo­ni­bi­lità della mag­gio­ranza dopo le prime otto vota­zioni. E assieme al Qui­ri­nale, per il primo par­tito, c’è un altro omag­gio: la pos­si­bi­lità di indi­care 8 giu­dici della Corte Costi­tu­zio­nale, su 15.

GOVERNABILITÀ»,
QUANDO LA FORZAPREVALE SUL DIRITTO

di Vincenzo Accattatis

Il Senato in era ren­ziana. Patti miste­riosi. Ela­bo­ra­zione di una costi­tu­zione ille­git­tima che ovvia­mente pro­duce poli­ti­che ille­git­time (Gustavo Zagre­bel­sky, «La costi­tu­zione e il governo stile exe­cu­tive», la Repub­blica di mer­co­ledì). Fase di deco­sti­tu­zio­na­liz­za­zione, di distru­zione dei valori, a livello nazio­nale e inter­na­zio­nale. La forza che suben­tra al diritto. Forza più pro­pa­ganda. Mani­po­la­zione della pub­blica opi­nione. Costi­tu­zione mate­riale che si con­trap­pone a quella for­male. Un par­la­mento eletto inco­sti­tu­zio­nal­mente che pre­tende «rifor­mare» la Costi­tu­zione. Non riforma, ma «capo­vol­gi­mento della Costi­tu­zione» pen­sata per durare, per infre­nare il potere che deborda.

Camere sotto sferza come vec­chio ron­zino. Tutto in vista del pre­si­den­zia­li­smo, di là da venire ma già di fatto lar­ga­mente esi­stente: capo dello Stato eletto per la seconda volta da un par­la­mento di nomi­nati plau­dente, ancora in carica che dà a Renzi le diret­tive di governo come le dava a Monti, a Letta.

Sto­ria dell’antiparlamentarismo ita­liano che si lega alla sto­ria del pre­si­den­zia­li­smo di fatto. Una lunga sto­ria «nefasta».L’antiparlamentarismo ha le sue ragioni ma l’llusione «di un governo dalle mani libere» è pari­mente nefa­sta. Il bona­par­ti­smo ita­liano di ieri e di oggi. Un’oligarchia al potere. Chi tira i fili sta die­tro le quinte.

Da «libero par­la­mento» a «libero governo». Gover­na­bi­lità come nuovo volto dell’autoritarismo. Le oppo­si­zioni come intral­cio. L’esecutivo che «educa» il par­la­mento. I deboli soc­com­bono, le mino­ranze sono schiac­ciate. Il Pd «par­tito degli ita­liani» o «della nazione».

Zagre­bel­sky man­tiene la sua ana­lisi sul piano costi­tu­zio­nale ita­liano, ma essa vale anche come ana­lisi di livello mon­diale: la forza che pre­vale sul diritto, la nor­ma­tiva inter­na­zio­nale che diviene carta strac­cia, obli­te­rata da Israele che nel nome di Sion bom­barda la stri­scia di Gaza. Le ter­ri­fi­canti imma­gini di Gaza sono davanti agli occhi di tutti gli euro­pei. Grandi mani­fe­sta­zione a Parigi, a Lon­dra, in altre capi­tali euro­pee. Gaza, «una pri­gione a cielo aperto», un sim­bolo per tutti noi?

L’Unione euro­pea san­ziona il «cat­tivo Putin» ma non Israele. Due pesi e due misure? L’Unione euro­pea può ancora par­lare, cre­di­bil­mente, di difesa dei diritti dell’uomo? Israele «vince la bat­ta­glia ma perde la guerra». «Gaza e il futuro di Israele» (The Eco­no­mist del 2.8.2014, in tutta coper­tina). Cor­reg­ge­rei: Gaza e il futuro dell’Europa, del pre­teso «mondo libero» che si dice impe­gnato a difen­dere i diritti dell’uomo.

«Riducendo l’elezione diretta dei parlamentari a una sola Camera e lasciando ai partiti la discrezionalità nella selezione dei candidati, la legittimità della classe politica viene intaccata».

La Repubblica, 10 agosto 2014
CON la riforma costituzionale approvata ieri, anche il Senato italiano, come le Camere alte francesi tedesche e olandesi, diventa un organo ad elezione indiretta: non saranno più i cittadini ad eleggere i senatori ma saranno i consiglieri regionali e delle grandi città a nominare i loro rappresentanti a Palazzo Madama. Con questo passaggio il Senato si uniforma ad uno standard europeo nella sua composizione e modalità di elezione.

Va invece nella direzione opposta quanto alla nuova attribuzione di funzioni e poteri. In Francia, infatti, il Senato, anche in virtù di un processo di selezione che prevede una vera e propria elezione dei senatori da parte di collegi elettorali molto ampi, da un minimo di 227 elettorali ad un massimo di 720, ha conquistato maggiore incidenza nel processo legislativo. In Germania, la riforma costituzionale del 2006 ha ridefinito le funzioni tra le due camere al fine di evitare lo stallo provocato dalle diverse maggioranze, per risolvere il quale bisognava convocare un comitato di conciliazione: ha affidato più poteri ai Lander in modo che i loro rappresentanti in Senato non siano più sollecitati a fare ostruzionismo sulle norme federali che in qualche misura potrebbero investire le competenze dei Lander stessi. In sostanza, per lasciare al Bundestag più incisività nella sua azione legislativa sono state aumentate le sfere di autonomia e le capacità di intervento dei vari Lander. La maggiore efficienza decisionale è compensata da un approfondimento dell’impianto federale.

Se quindi mettiamo a confronto la nuova architettura istituzionale approvata (in prima lettura) ieri con le recenti evoluzioni in altri paesi europei, vediamo che la composizione e le funzioni del nuovo Senato portano entrambe ad incrementare l’accentramento e la verticalizzazione dei poteri nell’assemblea parlamentare nazionale. Le regioni hanno perso ambiti di intervento e Palazzo Madama non può più “interferire” nel processo legislativo oltre un certo limite. In tal modo il nostro sistema istituzionale diventa un unicum, in quanto l’esautoramento delle prerogative di un ramo del parlamento non è compensato da un ampliamento di poteri, vuoi di controllo o di iniziativa da parte di altri “poteri dello Stato”.

In questo quadro diventa quindi molto più importante di prima la ridefinizione della legge elettorale per la Camera dei deputati (il cosiddetto Italicum). È ben più rilevante perché, una volta sottratta ai cittadini la possibilità di eleggere i senatori, non si può ridurre la loro capacità di scelta anche per quanto riguarda i deputati. E le liste bloccate sono esattamente una coartazione di questa capacità. Il rimedio invocato da alcuni per ridare voce ai cittadini ed eliminare il “parlamento di nominati” consiste nel reintrodurre le preferenze. In realtà, la memoria corta degli italiani ha cancellato i guasti prodotti dalle preferenze per quarant’anni: corruzione e spese folli, frammentazione correntizia e clientelismo. Meglio evitare quel ritorno al passato.

L’unica, vera, alternativa virtuosa allo stato dei fatti (e degli accordi), e cioè l’uninominale, preferibilmente a doppio turno come in Francia, scardinerebbe l’impianto proporzionale e premiale della riforma. Ma Berlusconi non vuole. E allora, visto che l’altro giorno il patto del Nazareno è stato saldamente imbullonato, ci terremo un sistema elettorale in cui i cittadini non hanno piena potestà di scelta dei loro rappresentanti nemmeno per la Camera dei Deputati.

Questo è l’esito imprevisto e problematico della riforma del Senato: riducendo l’elezione diretta dei parlamentari ad una sola camera e lasciando ai partiti totale discrezionalità nella selezione dei candidati, senza introdurre regole vincolanti per tutti come, ad esempio, le primarie, la legittimità della classe politica viene ulteriormente intaccata. In tempi di antipolitica l’Italicum non è il sistema migliore che sipossa congegnare.

«Le cose vanno meglio nei paesi in cui sono state messe in campo stra­te­gie effi­caci di riforma. Dove quelle stra­te­gie sono man­cate, vanno peg­gio; così è per l’Italia, a riprova del fatto che delle tanto strom­baz­zate riforme isti­tu­zio­nali non importa niente al mer­cato, all’Europa, non­ché ovvia­mente agli italiani».

Il manifesto, 8 agosto 2014

Vale più un senato non elet­tivo o una rica­duta del paese nella reces­sione? La poli­tica di imma­gine cara a Renzi riceve dai dati Istat un sonoro schiaffo, dopo le figu­racce della riti­rata sulla riforma - che già non poteva dirsi epo­cale -della PA, e della fal­lita pro­messa di allar­gare la pla­tea per gli 80 euro in busta paga.

Come si poteva pre­ve­dere, non sono bastati quasi 8000 emen­da­menti a fer­mare i rifor­ma­tori a ogni costo. E va ancora ricor­dato che que­sta prima let­tura del senato è decisiva. Se la camera appro­vasse il testo senato così com’è, la prima deli­be­ra­zione delle due richie­ste dall’art. 138 si chiu­de­rebbe, e nes­suna modi­fica potrebbe più essere intro­dotta in seconda deli­be­ra­zione. I numeri della camera met­tono il governo al riparo da sor­prese. Poco importa se sono costruiti in mas­sima parte pro­prio sui mec­ca­ni­smi dichia­rati inco­sti­tu­zio­nali con la sen­tenza 1/2014 della Corte costi­tu­zio­nale. Pd e M5S nelle ele­zioni del 2013 hanno avuto rispet­ti­va­mente il 25,43% e il 25,56% dei voti, ma otten­gono 292 e 108 depu­tati (archi­vio ele­zioni interno). Prova evi­dente che non doveva essere que­sto par­la­mento a rifor­mare la costi­tu­zione vio­lata dalla legge elet­to­rale che ne deter­mina i numeri.

Certo il pre­si­dente Grasso ha dato una mano, aprendo la strada all’uso esten­sivo del “can­guro” e alla mor­dac­chia del con­tin­gen­ta­mento dei tempi. Non con­vin­cono il richiamo al rego­la­mento e alla prassi. Il valore di una inter­pre­ta­zione o di un pre­ce­dente dipende non solo dalla mera sovrap­po­ni­bi­lità degli ele­menti di fatto, ma anche — e tal­volta soprat­tutto — dal con­te­sto. E non c’è dub­bio che la situa­zione oggi data non si fosse mai veri­fi­cata prima. Una pro­po­sta di riforma total­mente inte­stata al governo, posta espli­ci­ta­mente a con­di­zione della soprav­vi­venza dello stesso e della legi­sla­tura, tesa a smi­nuire deci­si­va­mente il peso poli­tico e i poteri for­mali dell’istituzione par­la­mento cui lo stesso governo dovrebbe essere sot­to­po­sto per la fidu­cia, il con­trollo, la vigi­lanza, volta a dare una tor­sione for­te­mente mag­gio­ri­ta­ria e cen­trata sull’esecutivo al sistema nel suo com­plesso. Che peso pote­vano mai avere pre­ce­denti e prassi in una situa­zione mai prima veri­fi­ca­tasi, radi­cal­mente diversa e nuova? E dun­que si può con­clu­dere che senza scan­dalo le norme rego­la­men­tari sul voto segreto avreb­bero potuto essere lette più esten­si­va­mente, e al con­tra­rio le prassi sul can­guro e sul con­tin­gen­ta­mento più restrittivamente.

Le poche modi­fi­che intro­dotte in aula o sono lif­ting di poca sostanza, come per l’iniziativa legi­sla­tiva popo­lare o il refe­ren­dum, o aggiun­gono ambi­guità e apo­rie a un testo già pes­simo. Per­ché gover­na­tori, con­si­glieri regio­nali e sin­daci dovreb­bero poter legi­fe­rare sulla fami­glia o su temi di bio­e­tica, morte e vita? Ne avranno mai fatto oggetto di cam­pa­gna elet­to­rale? Hanno un man­dato? Per non par­lare della par­te­ci­pa­zione alla revi­sione costi­tu­zio­nale, e della ben nota que­stione dell’immunità-impunità.

Nel merito, la que­stione senato mac­chia inde­le­bil­mente una riforma che per altro verso con­tiene punti anche apprez­za­bili. È un’ovvietà la sop­pres­sione del Cnel, ripe­tu­ta­mente pro­po­sta nel corso degli anni. E la intro­du­zione nel titolo V di una clau­sola di supre­ma­zia mirata all’unità della Repub­blica e all’interesse nazio­nale cor­regge uno dei più gravi errori fatti dal cen­tro­si­ni­stra nel 2001, con la can­cel­la­zione dell’interesse nazio­nale richia­mato nella Carta del 1948. Bene anche la sem­pli­fi­ca­zione delle pote­stà legi­sla­tive, pur poten­dosi fare di più e meglio.

Ma il metodo offende. Per­ché apre su costi­tu­zioni deboli, non da tutti rico­no­sciute come carta fon­da­men­tale della con­vi­venza civile. Nel 1983, la com­mis­sione Bozzi non si avviò fin­ché non ci fu la firma di Napo­li­tano per il Pci. La pro­po­sta della com­mis­sione D’Alema morì con l’attacco di Ber­lu­sconi nell’aula della camera (28 gen­naio e 27 mag­gio 1998) al testo, che pure Fi aveva con­tri­buito a scri­vere. Poi nel 2001 il primo cat­tivo pre­ce­dente, con il cen­tro­si­ni­stra che forzò sulla riforma del titolo V, spe­rando che il quasi-federalismo in esso con­te­nuto potesse rigua­da­gnare con­sensi al Nord. Sap­piamo come finì. Il cen­tro­de­stra resti­tuì il colpo nel 2005, con la grande riforma della devo­lu­tion e del primo mini­stro asso­luto che il popolo ita­liano rifiutò nel refe­ren­dum del 25 giu­gno 2006. Ora ci risiamo, con Ber­lu­sconi mira­co­lato da Renzi e dal patto del Naza­reno, e una mag­gio­ranza spu­ria che riduce al silen­zio l’opposizione. Un pes­simo via­tico. Men­tre bastava man­te­nere il senato elet­tivo per evi­tare ogni problema.

Almeno ser­visse a qual­cosa. Ma per gli ultimi dati Istat siamo di nuovo in reces­sione. La poli­tica dell’immagine non ha spo­stato di un mil­li­me­tro i dati reali della crisi. Dra­ghi dice alla Bce che vanno meglio i paesi in cui sono state messe in campo stra­te­gie effi­caci di riforma. Al con­tra­rio, quelle stra­te­gie sono man­cate nei paesi che vanno peg­gio. Così è per l’Italia, a riprova del fatto che delle tanto strom­baz­zate riforme isti­tu­zio­nali non importa niente al mer­cato, all’Europa, non­ché ovvia­mente agli italiani.

Que­sto è un paese di grandi affa­bu­la­tori. Prima Ber­lu­sconi, ora Renzi, in van­tag­gio per­ché ha la metà degli anni, parec­chi vizi in meno, e tutti i capelli. Ma per entrambi il pro­blema è stato ed è che le favole devono pur finire, prima o poi. E il rischio è che poi vis­sero tutti infe­lici e scontenti.

Corriere della Sera, 7 agosto 2014

Povero Palazzo Madama. La Camera Alta della Repubblica ridotta a un retrobottega di Montecitorio. Il senatore del Regno Benedetto Croce riuscì a parlare in quell’aula rossa persino ai tempi del fascismo, nel maggio 1929, contro il Concordato tra lo Stato e la Chiesa. «Un certo canagliume senatorio e un certo canagliume giornalistico - scrisse il filosofo nel 1947 - m’interrompevano con sconce invettive, e io li lasciavo sfogare, e poi ripetevo il mio detto finché la vinsi». Mussolini, irato, reagì con durezza e con villania: «Accanto agli imboscati della guerra vi possono essere gli imboscati della storia, i quali, non potendo per ragioni diverse e forse anche per la loro impotenza creatrice, produrre l’evento, cioè fare la storia prima di scriverla, si vendicano dopo, diminuendola spesso senza obbiettività e qualche volta senza pudore».

Con le dovute diversità di tempo, politiche e sociali, è parso di sentire le stesse umilianti invettive interrompere chi ha osato manifestare ora al Senato il proprio dissenso: non si deve far perdere tempo - è la parola d’ordine - al governo fautore e presentatore della riforma della Costituzione. (Una prerogativa riservata, tra l’altro, al Parlamento).

Le urla da stadio non sono accettabili e non servono le marce di protesta al colle più alto. Ma la discussione, anche la più aspra, è il sale della democrazia. L’ostruzionismo, come ha scritto la costituzionalista Lorenza Carlassare, «non è un insulto, ma uno degli strumenti classici di ogni democrazia che sia davvero tale». E Stefano Rodotà si è espresso così: «Non si può reagire con un “mascalzoni, state facendo l’ostruzionismo”. Serve una competenza tecnica. Che non c’è stata. La qualità dei costituenti, voglio essere generoso, è molto molto bassa».

Se si pensa a chi furono i protagonisti della Costituzione del 1947, Luigi Einaudi, Moro, Terracini, Dossetti, Concetto Marchesi, La Pira, Togliatti, Lussu, Calamandrei, viene un po’ di malinconia. Il linguaggio usato dai giovani governanti contro chi dissente è corrivo e stizzoso, tra l’oratorio parrocchiale e il festino goliardico: i professoroni, i gufi brontoloni, i gufi indovini, come dichiara il presidente del Consiglio. Insieme con gli insulti che spuntano puntuali contro chi cerca di usare il cervello e ricordano «il culturame» di Scelba, gli «intellettuali dei miei stivali» di Craxi.

Il Senato diventa dunque una Camera delle corporazioni non più eletta dai cittadini: cessa il ping-pong tra Palazzo Madama e Montecitorio, come ha commentato festosa una ministra. Cento senatori anziché 315, di cui 5 nominati dal presidente della Repubblica, 21 sindaci, 74 consiglieri regionali. Come faranno poi a funzionare gli enti locali da cui provengono non si sa: forse si tratta di una nomina premio per la buona prova data in non poche Regioni dove la corruzione ha trionfato, dal Piemonte alla Lombardia al Veneto al Lazio all’Abruzzo alla Campania alla Calabria alla Sicilia.

Perché, ci si chiede, discutere della legge fondamentale della Repubblica in modo così affannoso e dilettantesco, col ritmo di una tappa a cronometro su pista, tra minacce e blandizie? Il contingentamento dei tempi, la cancellazione degli emendamenti, i troppi no al voto segreto, la sostituzione militaresca, all’interno di una commissione parlamentare, di un senatore dissenziente dalle decisioni del gruppo di appartenenza, violando l’articolo 67 della Costituzione e l’articolo 31 del regolamento del Senato, non sono stati segni di libertà in un dibattito che non dovrebbe avere alcun limite. Non sarebbe stato più serio che fosse un’Assemblea costituente a discutere e approvare le riforme utili?

Il governo Renzi ha ottenuto la fiducia di un Parlamento eletto con una legge, il «Porcellum», dichiarata illegittima dalla Consulta. Il ministero è quindi di emergenza e dovrebbe operare a termine in attesa del ripristino della legalità costituzionale. Si impanca, invece, febbrilmente, proprio nella riforma della Costituzione. I maggiori costituzionalisti hanno dato, inascoltati, un giudizio severamente negativo al progetto: ora sono ridotti all’osso i giornali che ospitano le loro opinioni. «Basta col culto del “discussionismo”», ha detto Renzi.

Il governo delle larghe intese non demorde. Il segreto patto d’acciaio del Nazareno tra Renzi e Berlusconi, un vincolo globale utile a entrambi, rende tutto più anomalo e fuori dalle regole di una democrazia. Siamo approdati davvero a una post democrazia senza controllo. La società, passiva, impotente, depressa, preoccupata, impoverita, segue quel che accade spesso allibita. L’economia è piatta, il Paese è in recessione, la stima dell’Istat è di un -0,2% del Pil, il viso del ministro Padoan sembra uno specchio abbrunato. Non pare proprio che sia questo il tempo fertile e adatto per certe riforme strutturali di uno Stato.

La riforma del Senato si propone di dare all’Europa un segno che l’Italia si sta rinnovando, che è davvero sulla giusta via come la Spagna? All’Europa, sembra chiaro, interessano piuttosto la quantità del nostro debito pubblico, il Fisco, il lavoro, la corruzione e le mafie, la politica economica, la limpidezza del fare più che riforme istituzionali malfatte. I tedeschi, i francesi, gli olandesi, gli spagnoli colti non si appassionano alla fine del bicameralismo, alla caduta del Senato. Di Palazzo Madama sanno probabilmente che alla fine del Cinquecento vi abitava il Caravaggio, ospite del cardinal Del Monte, e che lì vicino, nelle chiese di San Luigi dei Francesi e di Sant’Agostino, il gran pittore dipinse proprio in quegli anni alcuni dei suoi capolavori.

I numerosi segni di deriva autoritaria rendono di nuovo attuali le parole di Camillo Cavour: «Io lo dichiaro alta­mente. Amico della realtà, nemico delle illu­sioni, ame­rei meglio vedere la libertà sop­pressa che vederla fal­sata e vedere ingan­nato il paese e l’Europa» .

Il manifesto, 5 agosto 2014

C’è un fatto, acca­duto in que­sti giorni e appa­ren­te­mente secon­da­rio, che mette a nudo l’anomalia della situa­zione poli­tica e isti­tu­zio­nale del paese e delle ini­zia­tive che la accom­pa­gnano, a par­tire dalla «riforma» costi­tu­zio­nale e da quella della legge elet­to­rale. È la man­cata ele­zione, da parte del par­la­mento in seduta comune, dei com­po­nenti di sua spet­tanza del Con­si­glio supe­riore della magi­stra­tura, con la con­se­guente pro­roga senza limiti pre­de­ter­mi­nati del Con­si­glio sca­duto (della cui inte­gra­zione si ripar­lerà, forse, a settembre).

Sarebbe come dire — per capirci — che un organo elet­tivo (per esem­pio il par­la­mento) resta in carica, ancor­ché sca­duto, per­ché non sono state indette nuove ele­zioni: lo dico som­mes­sa­mente, spe­rando che l’affermazione venga con­si­de­rata un para­dosso e non un’idea utile per il futuro… È la prima volta che ciò accade nella nostra sto­ria costi­tu­zio­nale (salvo un remoto e diverso pre­ce­dente) e — si noti — l’elezione non è stata nep­pure tentata.

La paren­tesi di rap­pre­sen­ta­ti­vità di un organo di rile­vanza costi­tu­zio­nale non è cosa da poco e, infatti, c’è chi ne ha subito — e stru­men­tal­mente — tratto argo­menti a con­ferma della neces­sità di cam­biare le regole. È vero esat­ta­mente il con­tra­rio! In tutte le pre­ce­denti con­si­lia­ture, anche nei momenti di più aspra con­flit­tua­lità poli­tica, l’elezione dei com­po­nenti di spet­tanza del par­la­mento è avve­nuta nei ter­mini (e spesso con l’indicazione di giu­ri­sti di prim’ordine). È, dun­que, evi­dente che il difetto non sta nelle regole (rima­ste inal­te­rate) ma nelle forze poli­ti­che e, in par­ti­co­lare, nella mag­gio­ranza par­la­men­tare, all’apparenza inca­pace e disin­te­res­sata a pro­muo­vere con­fronto e con­ver­genze. Ma è solo un’apparenza, ché non si tratta di ina­de­gua­tezza ma dell’ennesima dimo­stra­zione della cul­tura che per­mea la mag­gio­ranza poli­tica (quella palese e quella allar­gata di sup­porto): una cul­tura che rifiuta il con­fronto e la ricerca di solu­zioni con­di­vise e cono­sce solo le ragioni della forza e dei numeri, anche a costo di sfa­sciare il sistema. Non è cosa nuova, nep­pure nella sto­ria repub­bli­cana. Ma con­viene segna­larne gli ascendenti.

All’inizio dell’epoca ber­lu­sco­niana lo teo­rizzò in maniera bru­tale il costi­tu­zio­na­li­sta di rife­ri­mento della destra, Gian­franco Miglio, che, in un’intervista del marzo 1994 affermò testual­mente: «È sba­gliato dire che una Costi­tu­zione deve essere voluta da tutto il popolo. Una Costi­tu­zione è un patto che i vin­ci­tori impon­gono ai vinti. Qual è il mio sogno? Lega e Forza Ita­lia rag­giun­gono la metà più uno. Metà degli ita­liani fanno la Costi­tu­zione anche per l’altra metà. Poi si tratta di man­te­nere l’ordine nelle piazze». Non c’è riu­scito Ber­lu­sconi; oggi ci prova Renzi, per di più senza il con­senso della metà più uno degli ita­liani, ma solo — come ama ripe­tere — di 11 milioni di votanti, dimen­ti­cando quei 38 milioni di cit­ta­dini che nes­suna delega o soste­gno gli hanno dato.

Qual­cuno — tra gli altri i migliori costi­tu­zio­na­li­sti ita­liani — ha pro­vato a segna­lare l’anomalia di que­sta dop­pia «riforma» (costi­tu­zio­nale ed elet­to­rale), dei suoi con­te­nuti e delle sue moda­lità. Subito è arri­vata la severa e sprez­zante rispo­sta del pre­si­dente del Con­si­glio e della mini­stra delle riforme che, con un’eleganza degna di miglior causa, hanno iro­niz­zato sull’età e sulle com­pe­tenze dei soliti «pro­fes­so­roni». Anche qui, non è inu­tile ricor­dare i pre­ce­denti: que­sta volta si tratta di Mario Scelba — esperto sia di isti­tu­zioni che di ordine nelle piazze… — il quale, nel giu­gno 1949, si sca­gliò con­tro il «cul­tu­rame» degli intel­let­tuali di cui la poli­tica dovrebbe libe­rarsi. Allora non man­ca­rono le prese di distanza e le rea­zioni poli­ti­che. Oggi tutto tace. E, se non sor­pren­dono le parole di Renzi (la cui con­si­de­ra­zione per la cul­tura è dimo­strata dalla con­ces­sione degli Uffizi come tram­po­lino per sfi­late di moda), spicca il silen­zio miope e com­plice dei (pochi) resi­dui intel­let­tuali del suo partito.

C’è di che pre­oc­cu­parsi, e non poco. Ma, men­tre tutto que­sto accade, il pre­si­dente del Senato gigio­neg­gia sul ter­mine «can­guri» e il capo dello Stato, in serena vacanza in Tren­tino, si scan­da­lizza che taluno evo­chi derive auto­ri­ta­rie (sic!). Un tempo, per molto meno (la cosid­detta legge truffa), si dimi­sero ben due pre­si­denti del senato men­tre l’onorevole Togliatti, nella seduta della camera dell’8 dicem­bre 1952, citava nien­te­meno che parole di Camillo Cavour: «Io lo dichiaro alta­mente. Amico della realtà, nemico delle illu­sioni, ame­rei meglio vedere la libertà sop­pressa che vederla fal­sata e vedere ingan­nato il paese e l’Europa». Certo erano altri tempi ma, anzi­ché esor­ciz­zarli, sarebbe meglio cer­care di ripri­sti­narli. Anche a costo di tur­bare la tran­quilla vacanza del pre­si­dente della Repubblica.

Ecco come saranno utilizzati i fondi che spetteranno ai tre europarlamentari eletti in Italia nella lista "L'altra Europa con Tsipras". Un esempio di trasparenza. Come faranno gli altri? ci piacerebbe saperlo.

Il manifesto, 2 agosto 2014

Siamo agli inizi della nostra atti­vità par­la­men­tare, di cui abbiamo appena comin­ciato a par­lare nelle riu­nioni del 5 e del 19 luglio a Roma, e di cui con­ti­nue­remo inten­sa­mente a discu­tere con gli atti­vi­sti della Lista L’Altra Europa con Tsi­pras. Ma nel frat­tempo è impor­tante e impro­ro­ga­bile chia­rire un punto sol­le­vato a più riprese den­tro la Lista e anche fuori, nel mondo dei media: l’utilizzo dei fondi che il Par­la­mento euro­peo mette a dispo­si­zione dei depu­tati, e la desti­na­zione legal­mente pos­si­bile di que­sti fondi.

Le regole del Par­la­mento Euro­peo riguardo ai con­tri­buti rice­vuti da cia­scun par­la­men­tare per le pro­prie ini­zia­tive poli­ti­che, non pos­sono non costi­tuire le linee-guida finan­zia­rie del nostro man­dato. Ogni com­mi­stione tra poli­tica nazio­nale di par­titi o liste e lavoro del sin­golo par­la­men­tare è espres­sa­mente vie­tata dalle regole del Par­la­mento euro­peo. I con­trolli dell’ufficio frodi del Par­la­mento euro­peo (Olaf, Euro­pean anti-fraud Office) sono dive­nuti meti­co­losi e seve­ris­simi. Que­sti vin­coli, intro­dotti di recente, non sono limi­ta­zioni, ma tutele della libertà poli­tica dei cit­ta­dini e della demo­cra­zia parlamentare.

L’indennità di assi­stenza par­la­men­tare (21mila euro men­sili), disci­pli­nata dall’articolo 33 e seguenti, è desti­nata a coprire uni­ca­mente l’attività di assi­stenza e dun­que le assun­zioni che sono neces­sa­rie e stret­ta­mente legate all’esercizio del man­dato. L’elenco delle spese di uffi­cio rim­bor­sa­bili (4.299 euro men­sili), appro­vato dall’ufficio di pre­si­denza il 15 luglio 2010, esclude ogni spesa che rap­pre­senti una sov­ven­zione o una dona­zione di natura politica.

Que­sto signi­fica che noi tre euro­de­pu­tati della Lista non potremo nem­meno, per legge, finan­ziare aper­ture di uffici in Ita­lia che siano al tempo stesso del par­la­men­tare inte­res­sato al sud­detto uffi­cio (e inte­sta­ta­rio del suo affitto) e del per­so­nale o delle atti­vità del movi­mento di appartenenza.

Tut­ta­via cia­scuno di noi farà la sua parte: detraendo la somma dai nostri emo­lu­menti per­so­nali (che ammon­tano a 6mila euro al mese) ci faremo tutti e tre per­so­nal­mente carico di coprire il debito con­tratto dalla Lista durante la cam­pa­gna elet­to­rale, per un importo com­ples­sivo di 24.925 euro, matu­rato al 25 mag­gio 2014. Da oggi e fino all’estinzione dei debiti, ver­se­remo cia­scuno una somma pari a 1.500 euro men­sili. Segui­ranno, una volta il debito estinto e quando la Lista avrà una sua strut­tura sta­bi­liz­zata, con­tri­buti volon­tari decisi da cia­scuno di noi.

Gra­zie al quo­rum che abbiamo rag­giunto come L’altra Europa con Tsi­pras, sarà inol­tre pos­si­bile chie­dere alla segre­te­ria gene­rale del Gue-Ngl l’assunzione di due fun­zio­nari sup­ple­men­tari addetti alla dele­ga­zione ita­liana (al momento ce n’è uno sol­tanto), i cui nomi­na­tivi, pur dovendo rispon­dere ai soli cri­teri di com­pe­tenza ed essendo sot­to­po­sti al vaglio della segre­te­ria del Gue-Ngl, ter­ranno conto delle diverse anime che hanno con­tri­buito e con­tri­bui­scono al con­so­li­darsi della Lista.

Egual­mente pos­si­bile è assu­mere almeno un assi­stente “locale” che oltre a occu­parsi della nostra atti­vità par­la­men­tare in Ita­lia pro­venga dalla fila della Lista e curi i con­tatti con il movi­mento poli­tico, smet­tendo tut­ta­via di lavo­rare per esso atti­va­mente, come diri­gente o qua­dro, in ottem­pe­ranza alle dispo­si­zioni del Par­la­mento euro­peo. Cosa che per­so­nal­mente ho già fatto. Con la rispet­tiva inden­nità di assi­stenza par­la­men­tare, cia­scuno di noi assu­merà inol­tre, accanto agli assi­stenti accre­di­tati a Bru­xel­les, alcuni assi­stenti “locali” con man­sioni ben defi­nite. Io ad esem­pio, tra gli altri (e pre­ci­sa­mente un con­si­gliere sulle que­stioni costi­tu­zio­nali della Ue, un web­ma­ster, un terzo erogatore-commercialista, un con­su­lente del lavoro), assu­merò un euro­pro­get­ta­tore, le cui com­pe­tenze saranno messe a dispo­si­zione di tutti e tre gli euro­par­la­men­tari, per il miglior svol­gi­mento del lavoro comune e per rispon­dere alle domande che ver­ranno dai nostri elet­tori. In que­sta inden­nità dovranno essere com­prese anche le rela­tive spese di trasferta.

Resta un importo di 50mila euro all’anno per cia­scun depu­tato, che verrà uti­liz­zato per il finan­zia­mento delle ini­zia­tive poli­ti­che (semi­nari, con­ve­gni, gior­nate di stu­dio, ecc.) che la Lista pren­derà in Ita­lia. La con­di­zione è che le ini­zia­tive ven­gano attuate in con­nes­sione con il Gue-Ngl, per­ché le risorse sono ero­gate dai fondi a dispo­si­zione del gruppo par­la­men­tare euro­peo. Il nome Gue-Ngl deve appa­rire accanto al nostro, nelle locan­dine e negli annunci delle iniziative.

Que­sto ci per­met­terà di acco­gliere molte e impor­tanti ini­zia­tive capaci di unire la nostra azione par­la­men­tare alle pro­po­ste e alle lotte sul ter­ri­to­rio, nell’inizio di un pro­cesso che ci vedrà impe­gnati ad affron­tare grandi sfide poli­ti­che e a costruire un fronte di soli­da­rietà in Europa.
*euro­par­la­men­tare L’altra Europa con Tsipras

I conti si aggiustano con trovate contabili e la rivalutazione del Pil che ora contabilizza anche attività illecite. Ma alle vita delle persone a al sistema Paese chi ci pensa?

La Repubblica, 3 agosto 2014 (m.p.r.)

Roma. Prima la presa d’atto della frenata dell’economia, poi la rinuncia all’allargamento del bonus di 80 euro a pensionati e partite Iva (che sarebbe costato 5 miliari), quindi l’impegno a lavorare d’agosto alla legge di Stabilità. La task force renziana ha già in mente la contromossa autunnale alla caduta del Pil e alla rinnovata tensione sui conti pubblici. Un piano d’emergenza per trovare 20 miliardi per il 2015 e costruire un cordone di sicurezza intorno ai conti pubblici, cercando di evitare cure drastiche a colpi di austerità. A far scaldare i motori, dopo le polemiche delle ultime ore e il «caso» Cottarelli, è intervenuta nel frattempo la mancata bollinatura da parte della Ragioneria generale di due norme del decreto Madia, approvato nei giorni scorsi alla Camera: il pensionamento di 4.000 insegnanti con le norme, pre-Fornero, di «quota 96» (costo nel 2014 circa 50 milioni) e l’anticipo del pensionamento dei professori universitari da 70 a 68 anni (costo un centinaio di milioni). La Ragioneria pone rilievi per la qualità e l’entità delle coperture, soprattutto per la seconda misura, e il governo, al Senato, è intenzionato a correre ai ripari: Madia e Morando sono al lavoro nel week end.

Il nuovo quadro che si è venuto a delineare ha convinto Renzi ad accelerare la preparazione della legge di Stabilità, che sarà comunque varata, regolarmente, a settembre. La valutazione di fondo è che servono circa 20 miliardi di manovra lorda: non lo dice solo l’ex viceministro del Tesoro, Stefano Fassina, che parla di 23 miliardi da giorni, ma che sta in una posizione critica nel Pd. Anche all’interno del governo i primi calcoli portano a questa cifra.
Da trovare ci sono infatti i 7-10 miliardi per il rinnovo del bonus Irpef da 80 euro per il 2015, i 4 miliardi di spese indifferibili (Cig in deroga, 5 per mille, missioni militari ed altro), i 4 miliardi di tagli alle spese postati sul 2015 dal governo Letta che dovranno essere trovati, pena l’entrata in funzione della clausola di salvaguardia con relativo taglio lineare delle agevolazioni fiscali. Infine 2-3 miliardi dovranno servire per proseguire nella correzione del deficit. In tutto una ventina di miliardi.
Dove trovarli? L’idea che sta circolando è quella di far conto intanto su una riduzione dello spread e la conseguente minor spesa per interessi di circa 3 miliardi, dato che gli stanziamenti sono stati per prudenza sovrastimati nel Def. La seconda mossa, che darebbe un paio di miliardi, riguarda la contabilizzazione del buon gettito dell’Iva che arriva dalle ristrutturazioni ecologiche delle abitazioni per le quali si stima un giro d’affari di 20 miliardi per il 2015. Il resto verrebbe dalla spending review: la cifra annunciata da Renzi è di 16 miliardi, ma a fronte di queste nuove risorse individuate dal governo, potrebbe essere limata con l’obiettivo politico di non intaccare più di tanto sanità, pensioni e servizi essenziali.
Molto dipenderà dal rapporto con l’Europa e dall’obiettivo di deficit-Pil che ci si porrà per il prossimo anno. Il Def fissava l’1,8 per cento per il 2015, ma già nei giorni scorsi Renzi, durante la direzione del Pd, ha annunciato di voler portare il livello al 2,3 per cento: dunque manovra più leggera. Non è escluso che si salga ancora, restando sotto il 3 per cento e riuscendo a racimolare qualche miliardo di margine, 5 oppure 6. Naturalmente questa opzione deve fare in conti con Bruxelles. Salire ulteriormente verso il 3 per cento (dopo aver già fatto slittare il pareggio strutturale di bilancio al 2016) aprirebbe un fronte con l’Unione che potrebbe trovare una soluzione solo una volta consolidati gli assetti della nuova Commissione e stabilite le modalità del meccanismo di flessibilità a fronte di riforme. Da considerare anche che preme la raccolta delle firme per il referendum per l’abolizione del Fiscal Compact: l’ulteriore ricorso al rigore non farebbe che dare maggiore fiato all’iniziativa.
Infine c’è la rivalutazione del Pil: il 20 settembre scatteranno le nuove serie di Eurostat che, cambiando metodo di calcolo e allargando il campo delle attività illecite contabilizzate, aumenterà il prodotto interno lordo di circa il 4 per cento. Una stima elaborata dalla Confcommercio valuta nello 0,1 la diminuzione del rapporto deficit-Pil dovuta alla crescita del denominatore: dunque 1,7 miliardi in più che comunque contribuiranno alla composizione della manovra allargando i margini.

Riferimenti
Si veda su eddybburg di Piero David e Antonella Gangemi Metti sesso, droga e contrabbando nel calcolo del Pil. Altre informazioni sul Pil utilizzando il cerca

«La Repubblica, 31 luglio 2014 (m.p.r.)

Sarebbe bello, e io sarei felice davvero di lasciare il mio posto a un giovane. Ma è una balla, perché le migliaia di professori che lasceranno non verranno sostituiti se non in minima parte. L’Università è bloccata da più di un decennio e rimarrà bloccata perché i professori che vanno in pensione o muoiono non vengono sostituiti. Non si sa da chi gli studenti che non si possono permettere di studiare all’estero andranno a lezione dopo questa intelligente epurazione. Quanto ai professori vecchi e dementi, lasceranno l’Università senza rimpianti: non hanno avuto molto da essa negli ultimi quarant’anni.

Peggiori e migliori hanno usufruito delle stesse miserabili biblioteche, degli stessi disgraziati laboratori, delle medesime pochissime possibilità di ricerca: ogni anno, o quasi, una riforma che non riforma nulla o peggiora le cose, esami ogni mese (unico caso al mondo), aule da strapparsi l’un l’altro, studi sovraffollati. È un peccato che un governo nel quale il 40,8% degli italiani riponeva la sua fiducia due mesi fa racconti menzogne come i precedenti. Dica che lo fa per far cassa, come già Tremonti, il quale tagliò ai professori stipendi e liquidazioni (con la cultura, del resto, non si mangia, nevvero?) che per inciso non sono mai stati reintegrati. Che sia così lo prova un’altra misura che il nuovo governo di giovani ha in mente per la riforma della pubblica amministrazione: ai professori vecchi e dementi che caccia la liquidazione verrà data solo alla scadenza naturale, cioè si presume al compimento dei 70 anni (e presumibilmente dilazionata in due o tre anni, Tremonti docet).
Tecnicamente, questo si chiama prestito forzoso: moralmente, furto (si spera) temporaneo, e non ha nulla a che fare con lo svecchiamento dell’Università. Vecchi, dementi, poveri e gabbati: non si faranno accompagnare dai nipoti a votare per Giannini, Padoan e Renzi.
Piero Boitani è filologo, critico letterario e professore di Letteratura comparata all’Università La Sapienza di Roma

    Senza pace e lavoro. Una riflessione sulla democrazia economica che rende muta e impotente l'Unione Europea sul dramma dei conflitti che esplodono ai suoi confini: Libia, Siria, Ucraina, Iraq, Israele e Palestina.

    Il manifesto, 2 agosto 2014

    Il fine ultimo della gestione della crisi economico-finanziaria svi­lup­pa­tasi a par­tire dal 2008 e della gestione dell’austerità con cui, soprat­tutto inEuropa, si è pre­teso di con­tra­starla (copiando dagli Usa, che però quelle poli­ti­che le pre­di­cano ma non le appli­cano) era, ed è, una ulte­riore ridu­zione delle quote di Pil desti­nate a lavoro, pen­sioni, sanità e istru­zione e, soprat­tutto, la pri­va­tiz­za­zione delle imprese e dei ser­vizi pub­blici, del ter­ri­to­rio e dell’ambiente. Il tutto a bene­fi­cio della finanza inter­na­zio­nale, a cui era stato da tempo tra­sfe­rito il diritto di creare denaro attra­verso il cosid­detto «divor­zio» tra Governi e Ban­che centrali.

    In que­sto qua­dro si è svi­lup­pata fino al paros­si­smo una cul­tura di governo ragio­nie­ri­stica, attenta fino allo spa­simo (poli­tico) a cen­tel­li­nare le risorse dedi­cate al lavoro e al benes­sere delle popo­la­zioni per pro­teg­gere i grandi inte­ressi finan­ziari che hanno sca­te­nato la crisi e che con­ti­nuano a beneficiarne.

    Quella cul­tura e quelle poli­ti­che da ragio­nieri, gestite dalle isti­tu­zionidell’Unione Euro­pea di cui i Governi degli Stati mem­bri, soprat­tutto nella zona euro, sono meri ese­cu­tori, hanno aperto una vora­gine tra l’ideale dell’Europa unita e la difesa, sem­pre più debole, delle con­di­zioni di vita della mag­gio­ranza dell’elettorato. Ma ha reso anche assai meno attrat­tivo l’obiettivo di unirsi alla com­pa­gine euro­pea per quelle nazioni che ne sono ai mar­gini: vedere come l’Unione Euro­pea stra­pazza il popolo greco, ma anche quelli ita­liano, spa­gnolo, por­to­ghese, irlan­dese e ora anche fran­cese (ma sem­pre più anche quelli degli Stati più forti) non è allettante.

    Sfu­mata quella della Tur­chia, le richie­ste di nuove ade­sioni, come quella del Governo ucraino, nascono più per non rima­nere schiac­ciati dai con­flitti gene­rati dall’espansionismo della Nato (cioè degli Stati Uniti, verso cui l’Unione Euro­pea mostra sem­pre più la pro­pria sud­di­tanza) che dall’attesa di qual­che bene­fi­cio. Ma quella sud­di­tanza è la con­se­guenza della cul­tura ragio­nie­ri­stica con cui viene gover­nata l’Unione, che la rende muta e impo­tente di fronte all’esplodere di con­flitti sem­pre più gravi ai suoi con­fini: Libia, Siria, Ucraina, Iraq, Israele e Palestina.

    Molti di que­sti con­flitti, com­preso uno nella stessa Israele, sono nati da rivolte popo­lari con­tro le poli­ti­che libe­ri­ste dei rispet­tivi governi, e sono poi stati schiac­ciati o assor­biti dalle guerre per­ché non hanno tro­vato in Europa una sponda ade­guata. Ora, men­tre si mol­ti­pli­cano i ver­tici sui decimi di punto di sfo­ra­mento del defi­cit da con­ce­dere ai governi di paesi ormai al col­lasso per via di vin­coli ben più sostan­ziosi impo­sti da debiti e trat­tati inso­ste­ni­bili che non ven­gono messi in discus­sione (una rie­di­zione del dibat­tito sul sesso degli angeli che impe­gnava i gover­nanti di Bisan­zio men­tre i Tur­chi la sta­vano espu­gnando), i ter­ri­tori che cir­con­dano l’Europa si infiammano.

    Le con­se­guenze non tar­de­ranno a farsi sen­tire. Per­ché quei paesi in fiamme hanno molto peso nell’approvvigionamento ener­ge­tico dell’Europa, e la potreb­bero por­tare al col­lasso. Per­ché tutto il con­ti­nente verrà inve­stito sem­pre più da flussi di pro­fu­ghi di dimen­sioni bibli­che: oggi si trova inso­ste­ni­bile l’arrivo di qual­che decina di migliaia di dere­litti, che pagano la loro fuga con un pesan­tis­simo tri­buto di morte, senza ren­dersi conto che i pro­fu­ghi pro­dotti dalle guerre che ormai cir­con­dano l’Europa sono milioni; che milioni, e non migliaia, ne ospi­tano i paesi limi­trofi: Tur­chia, Gior­da­nia, Iraq, come già Siria e Gior­da­nia ai tempi della guerra in Iraq; che prima o poi anche loro cer­che­ranno un rifu­gio in Europa; e che i paesi a cui si vor­rebbe affi­dare il com­pito di fer­mare quei flussi sono quelli che li ali­men­te­ranno sem­pre di più.

    Per­ché una quota cre­scente della popo­la­zione euro­pea è com­po­sta da nativi di paesi scon­volti da con­flitti che non tar­de­ranno a riper­cuo­tersi anche qui, intrec­cian­dosi con con­flitti sociali sem­pre più aspri. Per­ché guerra chiama guerra e senza stru­menti per pro­muo­vere la pace (una poli­tica estera di ampio respiro e risorse con­si­stenti, umane, eco­no­mi­che e cul­tu­rali) se ne fini­sce travolti.

    La dram­ma­ti­cità del momento, che si somma al col­lasso degli equi­li­bri eco­no­mici su cui avrebbe dovuto reg­gersi il pro­getto euro­peo rende evi­dente che ci tro­viamo non alla vigi­lia, ma già nel bel mezzo di una svolta epo­cale che ci impone di affron­tare, den­tro la prassi quo­ti­diana e den­tro le lotte in difesa delle pro­prie con­di­zioni di vita, una pro­fonda revi­sione dell’orizzonte entro cui ci muo­viamo: una revi­sione che riguarda innan­zi­tutto i con­cetti di demo­cra­zia e di lavoro.

    Due entità con­giunte, come peral­tro pre­vede l’articolo 1 della Costi­tu­zione ita­liana, ancor­ché discusso e varato in un con­te­sto del tutto dif­fe­rente. Occorre ela­bo­rare e poi con­trap­porre al pen­siero unico, che esalta la com­pe­ti­ti­vità, l’individualismo pro­prie­ta­rio, il con­sumo come motore dello svi­luppo, il merito come san­zione di una pre­sunta supe­rio­rità di chi si è affer­mato (e il ser­vi­li­smo, che ne è la diretta con­se­guenza) una cul­tura nuova, che pro­muova la soli­da­rietà, la con­di­vi­sione, la sobrietà, la cura del pros­simo, della natura e del vivente: tutte cose che costi­tui­scono l’orizzonte di una rifon­da­zione inte­grale della democrazia.

    Non è solo una bat­ta­glia cul­tu­rale da affi­dare all’elaborazione teo­rica di pochi e all’intelligenza col­let­tiva dei più; deve inve­stire anche gli affetti e il vis­suto quo­ti­diano di tutti: là dove il pen­siero unico è riu­scito spesso a far brec­cia e ad anni­darsi in cia­scuno di noi senza che nem­meno ce ne avve­des­simo. E’ un lavoro di scavo che richiede un reci­proco inter­ro­garsi e rimet­tersi in gioco, il cui esito non può che essere quella con­ver­sione eco­lo­gica di cui par­lava Alex Langer.

    Un pro­cesso che inve­ste con­te­stual­mente il nostro sen­tire, le nostre con­vin­zioni, i nostri atteg­gia­menti, i nostri com­por­ta­menti sog­get­tivi e le forme della par­te­ci­pa­zione e del con­flitto sociale per tra­sfor­mare la strut­ture del con­te­sto in cui ope­riamo, a par­tire da quello eco­no­mico: che cosa pro­du­ciamo, per chi, con che cosa, come e dove. Per­ché o la demo­cra­zia rie­sce a inve­stire anche l’ambiente eco­no­mico, l’impresa, la sua orga­niz­za­zione, il suo mer­cato, il suo rap­porto con il ter­ri­to­rio e chi lo governa, o, se resta ai mar­gini o al di fuori di que­ste cose, non ha più modo di esistere.

    È solo facen­dosi pro­ta­go­ni­sta di una lotta poli­tica e cul­tu­rale per que­ste forme di demo­cra­zia inte­grale che l’Europa, cioè i suoi popoli, pos­sono offrire al resto del mondo, e innan­zi­tutto a chi abita ai suoi con­fini, una pro­spet­tiva di pace e di soli­da­rietà che ne fac­cia un modello. E che pro­spetti una strada per sot­trarsi a quello stato di guerra per­ma­nente in cui si tra­duce ormai da tempo la con­vin­zione che dall’Europa così com’è, dai suoi modelli di vita e dalla fero­cia che eser­cita verso i suoi stessi cit­ta­dini non c’è niente da atten­dere e niente da riprendere.

    Ma demo­cra­zia e lavoro si intrec­ciano ine­stri­ca­bil­mente. Non il lavoro nelle forme coatte in cui esso si eser­cita oggi in tutto il mondo; cioè emar­gi­nando e depri­mendo salute, vita, desi­deri, capa­cità e crea­ti­vità di chi lo svolge – così come si deva­sta la natura e il vivente per rica­varne solo la mil­le­sima parte, e la peg­giore, di quello che potreb­bero dare – ma poten­ziando al mas­simo, attra­verso con­flitti con cui recu­pe­rare gra­dual­mente per tutti una capa­cità di auto­go­verno: sia sul ter­ri­to­rio che all’interno delle imprese che sulle grandi que­stioni di indi­rizzo; in modo da ren­dere la crea­ti­vità di cia­scuno il vero motore di uno «svi­luppo» radi­cal­mente diverso.

    In que­sta dimen­sione un red­dito di cit­ta­di­nanza uni­ver­sale è oggi non solo un obiet­tivo uni­fi­cante per le lotte dei pre­cari e dei disoc­cu­pati, gio­vani e anziani, come dei lavo­ra­tori non più pro­tetti dall’articolo 18, ma una con­di­zione per poter imporre scelte pro­gres­si­va­mente sem­pre più libere su come e dove lavo­rare, e per quanto tempo, e se sotto padrone o per pro­prio conto, e per fare che cosa; cioè per tra­sfor­mare il lavoro in un’attività più libera. Che è ciò che appros­sima mag­gior­mente, in un con­te­sto in cui par­te­ci­pa­zione e con­flitto si intrec­ciano senza solu­zione di con­ti­nuità, la società che vogliamo e che abbiamo il com­pito di pro­porre a tutti.

    «». La Repubblica

    Consegnare pacchi e lettere in tutto il Paese, anche nelle sperdute frazioni di montagna o nei borghi con trenta abitanti. E farlo, se serve, per cinque giorni alla settimana, a costo di allungare la strada di decine di chilometri pur di recapitare una cartolina illustrata. Questo è il servizio universale che Francesco Caio, amministratore delegato di Poste Spa, afferma di non poter più sostenere, perché troppo costoso rispetto alla compensazione che lo Stato è disposto a versare.

    Ora - visto che tale servizio è garantito in ogni Paese europeo e regolamentato da Bruxelles - è difficile pensare che nei prossimi mesi nelle valli lontane non possano più essere consegnate lettere e bollette, ma è molto probabile che la corrispondenza finisca con l’essere là distribuita con maggiore calma. Le Poste - alla vigila della privatizzazione e in predicato di investire 65 milioni nell’ennesima operazione di salvataggio di Alitalia (l’intesa con Etihad) - chiedono infatti di modificare le norme del contratto siglato con il ministero dello Sviluppo economico: è il mondo ad essere cambiato, dicono, il vecchio servizio è un costo che non ci possiamo più permettere.
    Gli italiani scrivono poco, (61 invii pro capite contro i 220 della Gran Bretagna o 183 della Germania), le mail avanzano a passi da gigante e bruciano le lettere su carta, la concorrenza privata (3.800 licenze spesso a piccole aziende che operano solo nelle grandi città) si è accaparrata i business più succulenti (la corrispondenza commerciale e bancaria) lasciando a Poste spa l’onere di coprire le zone più impervie e di mantenere, per rendere possibile tutto ciò, una pesante struttura. Se il servizio universale è un obbligo da rispettare - riconosce l’azienda - i costi della consegna vanno comunque ridotti.
    In realtà la «spending review» interna è già iniziata da tempo e gli utenti hanno avuto modo di accorgersene. «Fino a cinque anni fa i portalettere erano 45 mila, oggi sono 35 mila su un totale di 145 mila dipendenti» racconta Mario Petitto, segretario generale della Slp Cisl, sindacato che storicamente nelle Poste va per la maggiore. «L’azienda non li sostituisce più quando si ammalano, il che vuole dire che interi quartieri di città possono restare scoperti per giorni. I colleghi in servizio assorbono le carenze di personale, ma per un massimo di 120 ore di straordinario l’anno». Un tempo i vuoti in organico si coprivano con assunzioni trimestrali, ora a restare vuote sono spesso le cassette delle lettere.
    E il territorio non aiuta: fatte salve la pianura Padana, l’Emilia e la Puglia, raggiungere il resto del Paese senza perderci diventa una sfida. Consegnare un pacco fra le colline del Piemonte, i monti abruzzesi, le isole e mille paesini isolati costa: «Ci sono postini che per recapitare una quantità accettabile di corrispondenza vanno su è giù con la Panda di servizio per 70 chilometri» dice Petitto.
    D’altra parte, fanno sapere in azienda, i numeri parlano chiaro: per garantire il recapito in ogni luogo bisognerebbe mettere sul piatto 709 milioni per il 2011 e 704 per il 2012. Il Garante per le Comunicazione, l’Authority chiamata a quantificare le coperture, ha già detto che intende riconoscere a Poste Spa non più di 380 e 327 milioni per i due anni. Innalzare quelle cifre non sarà facile: negli ultimi anni lo Stato ha sempre versato più o meno la metà di quanto chiesto, ma fino ad oggi il bilancio quadrava grazie alla entrate che Poste si assicurava per i servizi forniti in campo bancario e assicurativo (nel 2013 i conti si sono chiusi con 26 miliardi di ricavi e 1 miliardo di utile).
    Ma tale aggiustamento potrebbe non essere più praticabile. Negli ultimi cinque anni i volumi distribuiti sono diminuiti del 26 per cento e la concorrenza - grazie alla struttura più flessibile e alla possibilità di «scegliersi» i clienti partecipando solo alle gare più ricche (grandi società pubbliche e banche) - si è accaparrata buona fetta del mercato commerciale, offrendo tariffe più basse grazie a strutture flessibili. Le stime dicono che il «buco » del servizio universale (400 milioni nell’ultimo bilancio) potrebbe lievitare fino a 3 miliardi nel 2019 ed è poco probabile che lo Stato si convinca ad allargare i cordoni della borsa. Le Poste mirano piuttosto a cambiare le regole del contratto: il postino, per esempio potrebbe garantire la consegna a giorni alterni, più di qualche sportello potrebbe essere chiuso (oggi sono 13.800 c’è un piano per ridurli a 11 mila).
    E soprattutto la società vorrebbe far sì che anche alla concorrenza privata fosse chiesto di partecipare ai costi: va bene puntare ai clienti «ricchi», ma dopo aver versato un contributo in un fondo destinato a partecipare alle coperture del servizio universale. Il problema non riguarda solo Poste spa, assicura l’azienda, ma tutte le «sorelle» europee. Per cambiare le regole bisogna però convincere Bruxelles.

    Intervista a Stefano Rodotà: «La qualità dei nuovi costituenti è bassa, affrontano l’aula da incompetenti. Il premier è già in campagna referendaria. E stavolta dovremo sconfiggere il blocco Pd-Forza Italia. Ma le opposizioni hanno sbagliato a rivolgersi a Napolitano. E poi trasformare le camere in curve da stadio».

    Il manifesto, 30 luglio 2014

    «Un po’ di memo­ria non gua­ste­rebbe. Sento dire:’mai l’ostruzionismo ha fatto cadere un prov­ve­di­mento’. Falso: io ricordo l’ostruzionismo che fece cadere il primo decreto di San Valen­tino, il decreto Craxi sui punti della scala mobile, nell’84. Poi fu rei­te­rato e passò. E ricordo un ostru­zio­ni­smo in cui i radi­cali fecero addi­rit­tura una gara interna fra Marco Boato e Mas­simo Teo­dori su chi avrebbe par­lato più a lungo. Una mat­tina era­vamo esau­sti, ma Boato non si fer­mava per­ché voleva bat­tere il record. E sic­come non si fidava di quello che gli dice­vano i suoi com­pa­gni, a un certo punto disse: ’se me lo dice Ste­fano Rodotà ci credo’. Io, che ero depu­tato della sini­stra indi­pen­dente, andai e gli dissi: guarda, hai par­lato più a lungo. E lui final­mente smise». Memo­rie di un ex vice­pre­si­dente della camera, Ste­fano Rodotà. Era il 1981, si discu­teva sul fermo di poli­zia, Boato parlò 18 ore e cin­que minuti. Le regole, per for­tuna del pre­si­dente Grasso, sono cambiate.

    Oggi il pre­si­dente Grasso è con­te­stato dalle oppo­si­zioni per i suoi spac­chet­ta­menti, i suoi ’can­guri’ (un mec­ca­ni­smo che con un voto fa deca­dere gli emen­da­menti simili fra loro, ndr), e le sue tagliole.
    È una mate­ria che attiene alla pro­ce­dura par­la­men­tare e che dovrebbe essere di stretta inter­pre­ta­zione, stret­tis­sima quando si tratta di modi­fi­che della Costi­tu­zione. Sono le garan­zie del pro­ce­di­mento, non pos­sono essere rimesse alla deci­sione della mag­gio­ranza. Nel dub­bio, c’è la giunta del regolamento.

    La giunta ha deciso a mag­gio­ranza che ’il can­guro’ è legit­timo anche per le leggi costituzionali. C’è una vec­chia bat­tuta: la mag­gio­ranza si tutela con i numeri, la mino­ranza con le regole. A colpi di ’can­guro’ al senato cadono cen­ti­naia di emen­da­menti alla volta. Tutto normale?
    Di fronte all’uso ostru­zio­ni­stico degli emen­da­menti è pos­si­bile pro­ce­dere con il cosid­detto can­guro. Ma diciamo la verità: que­sta vicenda è stata gestita dalla mag­gio­ranza e dal governo senza una piena con­sa­pe­vo­lezza poli­tica. Quando si sa quello che sta per suc­ce­dere, non si può rea­gire con un ’mascal­zoni, state facendo l’ostruzionismo’, serve com­pe­tenza tec­nica. Che non c’è stata.

    Hanno fatto bene le oppo­si­zioni a arri­vare in cor­teo al Colle e invo­care il pre­si­dente Napolitano?

    Sin­ce­ra­mente no. Capi­sco l’atto sim­bo­lico, ma il pro­ce­di­mento legi­sla­tivo deve essere rigo­ro­sis­simo e tute­lato dalle regole interne alle assem­blee par­la­men­tari, non è oppor­tuno chie­dere inter­venti dall’esterno. Al tempo della legge truffa ci furono con­te­sta­zioni duris­sime, ma nes­suno chiese l’intervento del capo dello stato.

    La mag­gio­ranza rifiuta ogni discus­sione per miglio­rare la legge. E in aula e fuori volano parole tipo ’fasci­sta’. Grillo parla di colpo di stato.
    Biso­gna fare atten­zione al lin­guag­gio e a certe mani­fe­sta­zioni. Non apprezzo la ridu­zione delle aule par­la­men­tari alle curve di uno stadio.

    Legit­tima difesa, dicono le oppo­si­zioni. Anche per­ché con­tro di loro Renzi usa modi spicci: ’gli ostru­zio­ni­sti hanno l’Italia contro’.
    È una brutta tra­du­zione del ’vox populi, vox dei’. Le bat­ta­glie sui diritti sono sem­pre nate come bat­ta­glie di mino­ranza. Bene­detto Croce, da sena­tore, nel ’29 votò con­tro i Patti Late­ra­nensi dicendo: ’di fronte a uomini che sti­mano Parigi valer bene una messa, sono altri per i quali l’ascoltare o no una messa è cosa che vale infi­ni­ta­mente più di Parigi, per­ché è affare di coscienza’.

    Il Pd minac­cia Sel di rom­pere le alleanze nelle ammi­ni­stra­tive. È una pre­ve­di­bile ritor­sione politica?
    Riven­dico l’uso della parola «auto­ri­ta­rio». Siamo stati noi, intendo Zagre­bel­sky, Car­las­sare, Urbinati…
    I famosi «professoroni».

    Orrenda parola ma sì, siamo stati noi ’pro­fes­so­roni’ a dirla e la riba­di­sco: que­sto è un modo auto­ri­ta­rio di pro­ce­dere. La discus­sione sulla Costi­tu­zione non può essere inqui­nata da altro. Il lavoro di scrit­tura della Costi­tu­zione soprav­visse alla rot­tura del governo in cui c’erano socia­li­sti e comu­ni­sti, però non si disse ’abbiamo i numeri e allora andiamo avanti’. Il con­flitto poli­tico, che era molto aspro, fu tenuto distinto dal lavoro costi­tuente. Ma che argo­mento costi­tu­zio­nale è ’se non accetti sei fuori dalle giunte’? La sag­gezza dei tempi e la qua­lità poli­tica di quella gene­ra­zione dovrebbe darci lezioni. E ora chissà quante cri­ti­che mi faranno i cosid­detti ’innovatori’.

    Come giu­dica la qua­lità dei nuovi costituenti?
    Voglio essere gene­roso: è molto molto bassa. La scarsa legit­ti­ma­zione poli­tica di que­ste camere, che non sono non ade­gua­ta­mente rap­pre­sen­ta­tive per­ché sono state costi­tuite con una legge dichia­rata inco­sti­tu­zio­nale, avreb­bero dovuto con­si­gliare la cau­tela e la ricerca di allar­gare la mag­gio­ranza con una discus­sione pub­blica ade­guata. Ma la discus­sione pub­blica non è aiz­zare i cit­ta­dini con­tro le camere.

    Il pre­mier le rispon­de­rebbe: ho preso il 41 per cento.
    E no: que­sto è un argo­mento che abbiamo con­te­stato a Ber­lu­sconi. Che diceva: i cit­ta­dini sanno che sono inda­gato ma mi votano. Come se il voto fosse un lava­cro. Il voto è impor­tante per l’investitura poli­tica, ma il 40,8 per cento non signi­fica che sei legit­ti­mato a fare qual­siasi cosa. Piut­to­sto, forte della sua inve­sti­tura poli­tica poteva pro­porre di togliere dalla Costi­tu­zione l’obbligo al pareg­gio di bilan­cio, che altri paesi non hanno e che è un osta­colo a usare quella fles­si­bi­lità che chie­diamo all’Europa. Sarebbe stata una mossa costi­tu­zio­nal­mente ben moti­vata. E invece que­ste riforme sono un’operazione di poli­tica interna che distrae l’attenzione dalle misure più dif­fi­cili da maneg­giare. E quindi si dice: ’non pos­siamo fare niente per­ché c’è l’ostruzionismo’.

    Comun­que a colpi di can­guro e tagliole alla fine la riforma pas­serà. Poi però ci sarà il refe­ren­dum. Voi che siete con­trari, che farete?
    Innan­zi­tutto ci spie­ghino in che modo sarà pre­vi­sto. Dovrebbe essere pre­vi­sto nella stessa riforma del Senato. Dal punto di vista for­male il governo Letta era stato cor­retto, nel ddl costi­tu­zio­nale di modi­fica dell’articolo 138 aveva pre­vi­sto la pos­si­bi­lità del referendum.

    Non crede che sem­pli­ce­mente potrebbe non esserci il sì dei due terzi delle camere?
    E allora il refe­ren­dum non sarà una con­ces­sione. Ma è chiaro che tutta l’attuale maniera di impo­stare la discus­sione, quei ’avete con­tro l’Italia’ è un modo per pre­co­sti­tuire la cam­pa­gna refe­ren­da­ria. Que­sta volta il grande blocco Pd-Forza ita­lia sarà dif­fi­cile da scon­fig­gere. Biso­gnerà stare tutti in campo.

    Pro­fes­sore Rodotà, se ci sarà un refe­ren­dum a soste­nere le ragioni del no sarete molto più soli. Non teme che la scon­fitta si possa tra­sfor­mare in un boomerang?
    La ’legge truffa’ fu bat­tuta con l’apporto fon­da­men­tale di due pic­coli pic­coli par­titi, Alleanza demo­cra­tica e l’Unità popo­lare. Che fra l’altro ave­vano dei gran ’pro­fes­so­roni’. Mi ricordo il comi­zio di Arturo Carlo Jemolo, che non era certo un uomo dalla facile ora­to­ria pub­blica. E invece l’eloquenza magni­fica di Piero Cala­man­drei. Certo non mi voglio para­go­nare a lui. Ma comun­que il nucleo ori­gi­na­rio dei ’cat­tivi’ pro­fes­sori con­trari a que­ste riforme è aumen­tato. Stu­diosi non ostili al governo, anzi che erano nei vari comi­tati di saggi e nelle riu­nioni della mini­stra Boschi, sono cri­tici sull’impianto com­ples­sivo delle riforme del senato e della legge elet­to­rale. Sarà dif­fi­cile, ma faremo la nostra parte.

    Ora l'Associazione dei costruttori dichiara che le aziende condannate saranno espulse dall'Ance. Ma se a comportarsi in questo modo "eran tutti", come ha fatto l'Associazione a non accorgersi mai di nulla e ad aspettare che fosse la magistratura ad occuparsene?

    La Repubblica, 31 luglio 2014 (m.p.r.)

    Roma. Dieci delle quindici principali aziende edili italiane sono accusate di aver pagato mazzette, frodato lo Stato, costruito fondi neri e staccato false fatture, brigato per truccare bandi di gara. Per questo, da Milano a Bari, ci sono indagini o processi in corso su di loro: Mantovani, Maltauro, Cmc, Condotte Spa, Grandi Lavori Fincosit, solo per citarne alcune. Nell’elenco dell’Ance, l’Associazione dei costruttori edili, figurano tra le migliori ditte italiane. Ma se le guardi attraverso l’ottica delle inchieste della Guardia di Finanza, l’immagine è molto diversa. E si capisce come un appalto truccato oggi non sia soltanto un problema della politica: perché se c’è un senatore (Antonio Azzolini, Pdl, presidente della commissione bilancio al Senato) pronto «a dare a un dirigente due cazzotti se non firma», c’è sempre un imprenditore disponibile a una «consulenza», un «gesto di amicizia», a sottoporsi «a un salasso per ogni competizione, politiche, regionali, comunali» (Piergiorgio Baita, ex ad della Mantovani). Insomma, se c’è qualcuno pronto a intascare, c’è sempre qualcun altro con la mano sul portafoglio.

    Il sistema Maltauro. A fare esplodere la bolla è stata senza dubbio la maxi inchiesta sull’Expo di Milano con la Maltauro che -secondo i pm- pagava faccendieri ed ex politici (la banda Frigerio) per ottenere appalti. Il sistema era chiaro: pilotare le commissioni di aggiudicazione per avere un esito certo. Come ha denunciato su Repubblica l’ormai ex Garante per l’Autorità dei Lavori pubblici Sergio Santoro, questo è stato possibile grazie alle ottanta e passa deroghe al codice dei contratti. E alle commissioni formate ad hoc. «Perché per vincere quell’appalto serve il quadro completo. Così siamo a posto», spiegava al telefono la cupola dell’Expo mentre si dedicava a oliare le commissioni. «Il problema corruzione nell’edilizia è serio - ammette Paolo Buzzetti, presidente di Ance, davanti al dato - e riguarda controllori e imprese. Più grosse sono le commesse, più ci si affida alla scorciatoia della deroga alle norme ordinarie: abbiamo messo il pareggio del bilancio in Costituzione ma si dovrebbe aggiungere anche il divieto di creare strutture ad hoc, tipo Expo spa e Consorzio Venezia Nuova. Si sono rivelate preda facile della corruzione. I grandi lavori tornino alle amministrazioni pubbliche».
    I Cazzotti di Molfetta. Per dire, quello che è accaduto in Puglia a Molfetta con la Cmc, la Cooperativa di muratori e cementisti di Ravenna, è l’emblema di questa storia. Un appalto da 83 milioni che la ditta si aggiudica grazie - ricostruisce un’informativa della Guardia di Finanza - a un comma nell’appalto che prevedeva il possesso di una particolare draga che soltanto la Cmc aveva a disposizione. Non solo: quando la draga arriva in Puglia sorge il problema. «C’è un bambino di un metro e mezzo imbrigliato nella griglia della draga. Un bambino nel senso di quelli che fanno boom», dicono al telefono intercettati. Il bambino sono le bombe tedesche, residui bellici della seconda guerra mondiale, di cui lo specchio d’acqua davanti a Molfetta è pieno e che è complicatissimo da sminare. I lavori così si bloccano e Cmc fa finta di non sapere, tanto da chiedere un’altra decina di milioni per i lavori extra. «Un atteggiamento pericoloso», sostiene la Procura che ha arrestato a ottobre dello scorso anno dei dirigenti e chiesto (senza ottenerla) l’interdizione della società. Nella stessa indagine è indagato il senatore Azzolini, all’epoca sindaco di Molfetta. «Aaaaah! porca tr..., quello qualche volta gli devo dare due cazzotti», diceva a proposito di un dirigente che non voleva firmare un atto.
    I padroni del Mose. A finire in carcere, nella retata veneziana del 4 giugno scorso, sono stati anche due pezzi da novanta dell’edilizia italiana: Stefano Tomarelli, consigliere di gestione della Condotte d’Acqua spa, e Alessandro Mazzi, presidente della Mazzi Scarl e della Grandi Lavori Fincosit. Erano l’anima del Consorzio Venezia Nuova, gli imprenditori con le quote più pesanti. Entrambi però partecipi, consapevoli, del sistema di Giovanni Mazzacurati: “sovrafatturazioni milionarie con le ditte consorziate per creare fondi neri”, sostiene il gip nell’ordinanza, usati anche per corrompere la politica. «Perché altrimenti il Mose non si sarebbe fatto mai», è stata la giustificazione più ricorrente.
    Ma a leggere le carte della Finanza, a quanto pare, così fan tutti. A Parma per esempio è sotto processo per abuso di ufficio Paolo Pizzarotti, patron del colosso e il suo amministratore delegato Aldo Buttini. Con loro c’è tutta la vecchia giunta di Parma, tutti imputati per la ristrutturazione in project financing dell’ospedale. La Salini è finita a Roma in un’indagine sulle mazzette pagate ai giudici del Tribunale amministrativo per aggiustare ricorsi sulle gare, mentre l’inchiesta della Dia sul tesoriere della Lega, Francesco Belsito, racconta di una presunta mazzetta pagata dalla Siram per ottenere appalti.

    La “Difesa”. Ma davvero senza mazzetta non si lavora? «Il lavoro è poco ma questa non può essere una giustificazione », sostiene Buzzetti. E come mettere un argine? «Il primo punto è ricorrere sempre alle gare pubbliche. Poi basta con l’utilizzo del massimo ribasso come criterio di scelta, meglio usare la media delle offerte. E finiamola pure con le commissioni aggiudicatrici scelte a discrezione, come nel caso dell’Expo: bisogna fare elenchi di professionisti dai quali estrarre i commissari. Detto questo, aspettiamo la fine delle indagini. Ma se Mantovani, Maltauro, Cmc saranno condannate, le espelleremo dall’Ance ».

    «Ho preso la penna per il biso­gno di una rifles­sione col­let­tiva sul per­ché, in pro­te­sta con quanto accade a Gaza, sono scesi in piazza a Parigi e a Lon­dra, e nel nostro paese non si è andati oltre qual­che pre­si­dio e volen­terose pic­cole mani­fe­sta­zioni locali».

    Il manifesto, 30luglio 2014
    Non voglio par­lare nel merito di quanto sta acca­dendo a Gaza. Non ne voglio scri­vere per­ché provo troppo dolore a dover per l’ennesima volta emet­tere grida di indi­gna­zione, né ho voglia di ridurmi ad auspi­care da anima buona il dia­logo fra le due parti, eser­ci­zio cui si dedi­cano le belle penne del nostro paese. Come si trat­tasse di due monelli liti­giosi cui noi civi­liz­zati dob­biamo inse­gnare le buone maniere. Per non dire di chi addi­rit­tura invoca le ragioni di Israele, così vil­mente attac­cata — pove­retta — dai ter­ro­ri­sti. ( I pale­sti­nesi non sono mai «mili­tari» come gli israe­liani, loro sono sem­pre e comun­que ter­ro­ri­sti, gli altri mai).

    Ieri ho sen­tito a radio Tre, che ricor­davo meglio delle altre emit­tenti, una tra­smis­sione cui par­te­ci­pa­vano com­men­ta­tori dav­vero inde­centi, un gior­na­li­sta (Meucci o Meotti, non ricordo) che con­teg­giava le vit­time pale­sti­nesi: che mascal­zo­nata le men­zo­gne degli anti­strae­liani, tutti dimen­ti­chi dell’Olocausto – pro­te­stava. Per­chè non è vero che i civili morti ammaz­zati siano due terzi, tutt’al più un terzo. E poi il «Foglio» che pro­muove una mani­fe­sta­zione di soli­da­rietà con le vere vit­time: gli israe­liani, per l’appunto.

    Si può non essere d’accordo con la linea poli­tica di Hamas – e io lo sono — ma chi la cri­tica dovrebbe poi spie­gare per­ché allora né Neta­nyahu, né alcuno dei suoi pre­de­ces­sori, si sia accor­dato con l’Olp ( e anzi abbia sem­pre insi­diato ogni ten­ta­tivo di intesa fra Hamas e Abu Mazen, per man­darla per aria). E però io mi domando: se fossi nata in un campo pro­fu­ghi della Pale­stina, dopo quasi settant’anni di soprusi, di mor­ti­fi­ca­zioni, di vio­la­zione di diritti umani e delle deci­sioni dell’Onu, dopo decine di accordi rego­lar­mente infranti dall’avanzare dei coloni, a fronte della pre­tesa di ren­dere la Pale­stina tutt’al più un ban­tu­stan a mac­chia di leo­pardo dove milioni di coloro che vi sono nati non pos­sono tor­nare, i tanti cui sono state rubate le case dove ave­vano per secoli vis­suto le loro fami­glie, dopo tutto que­sto: che cosa pen­se­rei e farei? Io temo che avrei finito per diven­tare terrorista.

    Non per­ché que­sta sia una strada giu­sta e vin­cente ma per­ché è così insop­por­ta­bile ormai la con­di­zione dei pale­sti­nesi; così macro­sco­pi­ca­mente inac­cet­ta­bile l’ingiustizia sto­rica di cui sono vit­time; così fili­stea la giu­sti­fi­ca­zione di Israele che si lamenta di essere col­pita quando ha fatto di tutto per susci­tare odio; così pale­se­mente ipo­crita un Occi­dente (ma ormai anche l’oriente) pronto a man­dare ovun­que bom­bar­dieri e droni e reg­gi­menti con la pre­tesa di soste­nere le deci­sioni delle Nazioni Unite, e che però mai, dico mai, dal 1948 ad oggi, ha pen­sato di inviare sia pure una bici­cletta per imporre ad Israele di ubbi­dire alle tante riso­lu­zioni votate nel Palazzo di Vetro che i suoi governi, di destra o di sini­stra, hanno rego­lar­mente irriso.

    Ma non è di que­sto che voglio scri­vere, so che i let­tori di que­sto gior­nale non devono essere con­vinti. Ho preso la penna solo per il biso­gno di una rifles­sione col­let­tiva sul per­ché, in pro­te­sta con quanto accade a Gaza, sono scesi in piazza a Parigi e a Lon­dra, cosa fra l’altro rela­ti­va­mente nuova nelle dimen­sioni in cui è acca­duto, e nel nostro paese non si è andati oltre qual­che pre­si­dio e volen­te­rose pic­cole mani­fe­sta­zioni locali, per for­tuna Milano, un impe­gno più rile­vante degli altri.

    Cosa è acca­duto in Ita­lia che su que­sto pro­blema è stata sem­pre in prima linea, riu­scendo a mobi­li­tare cen­ti­naia di migliaia di per­sone? È forse pro­prio per que­sto, per­ché siamo costretti veri­fi­care che quei cor­tei, arri­vati per­sino attorno alle mura di Geru­sa­lemme (ricor­date le «donne in nero»?) non sono ser­viti a far avan­zare un pro­cesso di pace, a ren­dere giu­sti­zia? Per sfi­du­cia, rinun­cia? Per­ché noi — il più forte movi­mento paci­fi­sta d’Europa – non siamo riu­sciti ad evi­tare le guerre ormai diven­tate perenni, a far pre­va­lere l’idea che i patti si fanno con l’avversario e non con l’alleato per­ché l’obiettivo non è pre­va­lere ma inten­dersi? O per­ché – piut­to­sto — non c’è più nel nostro paese uno schie­ra­mento poli­tico suf­fi­cien­te­mente ampio dotato dell’autorevolezza neces­sa­ria ad una mobi­li­ta­zione ade­guata? O per­ché c’è un governo che è stato votato da tanti che nelle mani­fe­sta­zioni del pas­sato erano al nostro fianco e che però non è stato capace di dire una parola, una sola parola di denun­cia in que­sta tra­gica cir­co­stanza?

    Un silen­zio agghiac­ciante da parte del ragazzo Renzi che pure ci tiene a far vedere che lui, a dif­fe­renza dei vec­chi poli­tici, è umano e natu­rale? Privo di emo­zioni, di capa­cità di indi­gna­zione, almeno quel tanto per farsi sfug­gire una frase, un moto di com­mo­zione per quei bam­bini di Gaza mas­sa­crati, nei suoi tanti accat­ti­vanti vir­tuali col­lo­qui con il pub­blico? È per­ché non prova niente, o per­ché pensa che le sorti dell’Italia e del mondo dipen­dano dal fatto che la muta Moghe­rini assurga al posto di mini­stro degli esteri dell’Unione Euro­pea? E se sì, per far che?

    Di que­sto vor­rei par­las­simo. Io non ho rispo­ste. E non per­ché pensi che in Ita­lia non c’è più niente da fare. Io non sono, come invece molti altri, così pes­si­mi­sta sul nostro paese. E anzi mi arrab­bio quando, dall’estero, sento dire: «O dio­mio l’Italia come è finita», e poi si parla solo di quello che fa il governo e non ci si accorge che c’è ancora nel nostro paese una poli­ti­ciz­za­zione dif­fusa, un grande dina­mi­smo nell’iniziativa locale, nell’associazionismo, nel volontariato.

    Negli ultimi giorni sono stata a Otranto, al cam­peg­gio della «Rete della cono­scenza» (gli stu­denti medi e uni­ver­si­tari di sini­stra). Tanti bravi ragazzi, nem­meno abbron­zati seb­bene ai bordi di una spiag­gia, per­ché impe­gnati tutto il giorno in gruppi di lavoro, alle prese con i pro­blemi della scuola, ma per nulla cor­po­ra­tivi, aperti alle cose dell’umanità, ma certo privi di punti di rife­ri­mento poli­tici gene­rali, senza avere alle spalle ana­lisi e pro­getti sul e per il mondo, come era per la mia gene­ra­zione, e per­ciò vit­time ine­vi­ta­bili della fram­men­ta­zione. Poi ho par­te­ci­pato a Villa Literno alla bel­lis­sima cele­bra­zione del ven­ti­cin­que­simo anni­ver­sa­rio della morte di Jerry Maslo, orga­niz­zata dall’Arci, che da quando, nel 1989, il gio­vane suda­fri­cano, anche lui schiavo nei campi del pomo­doro, fu assas­si­nato ha via via svi­lup­pato un’iniziativa costante, di sup­plenza si potrebbe dire, rispetto a quanto avreb­bero dovuto fare le isti­tu­zioni: vil­laggi di soli­da­rietà nei luo­ghi di mag­gior sfrut­ta­mento, volon­ta­riato fati­coso per dare ai gio­vani neri magre­bini e sub­sa­ha­riani, poi pro­ve­nienti dall’est, l’appoggio umano sociale e poli­tico necessario.

    Parlo di que­ste due cose per­chè sono quelle che ho visto negli ultimi giorni coi miei occhi, ma potrei aggiun­gere tante altre espe­rienze, fra que­ste cer­ta­mente quanto ha costruito la lista Tsi­pras, che ha reso sta­bile, attra­verso i comi­tati elet­to­rali che non si sono sciolti dopo il voto, una ine­dita mili­tanza poli­tica dif­fusa sul territorio. E allora per­ché non riu­sciamo a dare a tutto quello che pure c’è capa­cità di inci­dere, di contare?

    Certo, molte delle rispo­ste le cono­sciamo: la cre­scente irri­le­vanza della poli­tica, il declino dei par­titi, ecce­tera ecce­tera. Non ho scritto per­ché ho ricette, e nem­meno per­ché non cono­sca già tante delle rispo­ste. Ho scritto solo per con­di­vi­dere la fru­stra­zione dell’impotenza, per non abi­tuarsi alla ras­se­gna­zione, per aiu­tarci l’un l’altro «a cer­care ancora».

    © 2025 Eddyburg