«Micromega newsletter, 14 aprile 2024
Professore, partiamo proprio dal Def. Dopo settimane di annunci e proclami, sembra che la montagna abbia partorito un topolino. Il premier Matteo Renzi ha deciso di rispettare i vincoli imposti dall’Europa rinunciando ad utilizzare il margine fino al 3% del deficit annuo. Non doveva avere più coraggio nei confronti della trojka?
Sicuramente, ma Renzi esprime un governo e una classe politica interamente supina nei confronti dei dettati dell’Europa, i quali invece vanno messi in discussione. Per farlo ci vorrebbero due prerogative, avulse all’attuale governo: una vera forza politica nazionale e le competenze per poter intervenire su punti specifici.
Tra la varie misure ipotizzate, i mille euro all'anno per i dipendenti che ne guadagnano meno di 25mila lordi. È un reale antidoto per contrastare la crisi o le appare una mossa più che altro propagandistica? E, per Lei, ha una reale copertura economica?
Non si è ancora ben capito da dove arriveranno i fondi. Pur ipotizzando che abbiano trovate le risorse sufficienti, siamo ad una “partita di giro” per i cittadini: si toglie da un lato per spostarlo all’altro, si mette un’esigua cifra in tasca alla gente e si preleva altrove. L’operazione ha un grande impatto mediatico, 10 miliardi per 10 milioni di persone è uno spot che rimane impresso nelle menti. Ma siamo nel campo di interventi a pioggia a fronte di una recessione gravissima nel Paese e in Europa. Quei fondi si sarebbero dovuti concentrare su qualche singolo aspetto con effetti a breve e sicuri.
Per esempio?
Con 10 miliardi di euro si creano quasi un milione di posti di lavoro, a 1200 euro netti al mese più i benefici del caso. L’impatto sull’economia sarebbe stato più forte: questi 80 euro non cambiano infatti le sorti delle persone, mentre concentrati su un tot di cittadini questa cifra avrebbe inciso nelle loro vite. Renzi ha preferito lo spot ad effetto al reale cambiamento.
Passiamo al Job Act, qual è il suo giudizio?
Siamo di fronte ad un conducente che affronta una strada tortuosa di montagna guardando soprattutto nello specchietto retrovisore. Una cosa pericolosa. Da non fare.
Ci spieghi meglio…
Il progetto del Job Act nasce vecchio. Di vent’anni. Nel 1994 l’OCSE – uno dei tanti organismi internazionali che entra negli affari dei singoli Stati raccomandando sempre flessibilità, taglio dello stato sociale, concertazione etc… –produsse uno studio sull’indice di LPL (Legislazione a Protezione dei Lavoratori), un indicatore di rigidità del mercato: riteneva che tanto più alto fosse l’indicatore quanto più alta era la disoccupazione. Da allora molti giuristi, economisti, sociologi hanno dimostrato come lo studio fosse stato scritto scegliendo prima le conclusioni, ovvero dall’idea che bisognava smantellare e ridurre la protezione giuridica del lavoro per creare nuovi posti di lavoro, e solo successivamente analizzati i dati che, ovviamente, suffragavano quest’impostazione. In realtà non c’è alcuna conferma che il taglio dell’indice LPL possa portare ad aumento dell’occupazione. Nel 2006 la stessa OCSE, dopo una serie di risultati, ha ammesso la contraddittorietà del fondamento. L’indice LPL per l’Italia nel 1994 era superiore al 3,5, dopo 12 anni con le riforme delle leggi Treu 1997 e Maroni-Sacconi 2003 era sceso ad 1,5. Più che dimezzato. I precari sono diventati 4 milioni. La riforma Fornero ha seguito la stessa scia e ora il Job Act, a favorire ancora la mobilità in uscita. Nel 2014 siamo con progetti lanciati su scala nazionale nel 1994 e l’idea di continuare a perseverare con la medesima tecnica, che ha prodotto l’attuale disastro sociale, è preoccupante.
Quindi boccia il concetto di precarizzazione espansiva, ovvero l’idea è che attraverso ulteriori dosi di precarizzazione del lavoro si dovrebbe generare una crescita dei redditi e dell’occupazione?
La precarietà mina la vita di milioni di persone, com’ è evidente dagli ultimi 15-20 anni. Distrugge professionalità, costringendo una persona nell’arco di 10 anni a passare da un mestiere all’altro penalizzando esperienze magari indispensabili. E inoltre riduce la produttività del lavoro come si palesa nelle statistiche. In Italia, culla della precarietà, le imprese ottengono un minimo di profitto e fanno quadrare il bilancio tagliando sul costo del lavoro e puntando sulla compressione salariale dei dipendenti o sulla loro estrema flessibilizzazione. Invece di investire su tecnologia qualificata, innovazione, ricerca e nuovi settori produttivi. Così la precarietà non rappresenta una pessima strada solo per le condizioni di vita dei lavoratori ma anche per l’economia perché incentiva una strada sbagliata.
L’associazione di giuristi democratici ritiene incompatibile il Job Act con il diritto comunitario, per questo ha denunciato l’Italia e il presidente del consiglio Renzi alla Commissione europea. Che ne pensa?
Azione meritoria che sottoscrivo, senz’altro.
Durante il congresso della Fiom. Il segretario Maurizio Landini ha attaccato duramente la Cgil di Susanna Camusso. Siamo alle porte di un quarto sindacato confederale?
Mi dispiaccio del conflitto interno alla prima grande confederazione italiana che porta ancora la bandiera di vero sindacato, ovvero quell’organizzazione capace di aprire discussioni, avanzare vertenze e produrre conflitti a vantaggio del lavoratore. La Cgil è l’ultima a rappresentare quest’idea di sindacato. Ultimamente, però, con Camusso questa bandiera si è appannata. L’unico soggetto che riesce a tenerla alta è la Fiom.
Sul comportamento del braccio armato del potere: «Ha torto chi dice: ad un’offesa si reagisce con l’offesa, e chi per principio prova a dimostrare che la provocazione è partita dalla piazza».
La Repubblica, 17 aprile 2014 (m.p.r.)
La premessa è che vorremmo poterci fidare della polizia. Dovremmo. La polizia rappresenta lo Stato, e lo Stato siamo noi. Lo Stato sono le istituzioni che rappresentano i cittadini e sono i cittadini che delegano altri cittadini a rappresentarli,col voto democratico . In un regime democratico le istituzioni sono al servizio di chi dà loro mandato ad esercitare un potere di governo e non viceversa. Lo Stato ci tutela dalle ingiustizie e dai soprusi, non li esercita. Questo è quello che insegniamo ai nostri bambini a scuola, fin dalle elementari.
Sabato scorso si è svolta a Roma una manifestazione che aveva come oggetto, appunto, il diritto alla casa. Le immagini degli scontri e delle violenze sono lì, non c’è molto da commentare. In alcune si vedono manifestanti vestiti di nero con gli elastici delle fionde tesi, in altre poliziotti, ugualmente vestiti di nero, che colpiscono coi manganelli e prendono a cal- ci persone disarmate e già a terra. Nell’epoca dei telefonini, nel tempo in cui di ogni evento ci sono decine e decine di filmati c’è davvero poco da discutere: i fatti sono questi. Ha torto chi dice: ad un’offesa si reagisce con l’offesa, ha torto per principio chi prova a dimostrare che la “provocazione” è partita dalla piazza, in molti lo fanno in queste ore — provano a mostrare che, come direbbe un bambino, “hanno cominciato loro”. È questo il senso delle parole del prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, intervistato oggi da Carlo Bonini: contesta il capo della Polizia Alessandro Pansa che aveva definito l’artificiere che ha calpestato la ragazza a terra «un cretino da identificare». Non un cretino, dissente Pecoraro, ma «uno che dava una mano ai suoi colleghi». Come se fossero due eserciti che, sullo stesso piano, si affrontano. Questo è l’equivoco, se di buona fede si tratta: che sia una battaglia combattuta ad armi pari tra pari, dove ci si dà manforte fra eserciti contrapposti, e non quel che è, invece. Da una parte cittadini che manifestano, dall’altra esponenti delle istituzioni che rappresentano anche quei cittadini, e che sono chiamati a tutelare l’incolumità di tutti: anche dei manifestanti.
È dal G8 di Genova che si è persa questa nozione elementare. È lì, nelle molotov messe ad arte a posteriori per giustificare l’assalto alla scuola Diaz, la ferita originaria mai più rimarginata. Abusi e violazioni da parte di chi dovrebbe per mandato garantire la sicurezza di tutti sono poco a poco, omeopaticamente, divenuti una circostanza di fatto.
Senza arrivare al rosario di morti che da Giuliani passa per Uva, Sandri, Cucchi, Aldrovandi; senza difendersi dietro la retorica delle “mele marce”, ché come dice l’ex capo dell’ispettorato di polizia inglese John Woodcock: «Non credo nelle mele marce, il problema non riguarda un’individuale predisposizione alla trasgressione ma un deficit strutturale, culturale». Il problema non è, in fondo, neppure il singolo episodio di abuso: la vera questione è quale sia la reazione istituzionale all’abuso. Nel caso delle piazze come delle curve calcistiche: quale la risposta di chi detiene il potere alla violazione e all’abuso di potere.
Non si hanno segnali, sinora, di una levata di scudi di chi dovrebbe e potrebbe evitare la violenza in divisa. Al contrario, ogni richiesta di identificare le “mele marce”, per esempio con un numero che consenta di riconoscere gli agenti anonimi come in molti Paesi del mondo accade, è stata accolta quasi come una provocazione. Da ministri di precedenti governi, dai sindacati di polizia — da ultimo, qualche giorno fa, Franco Maccari del Coisp ha bollato il numero identificativo come una proposta sciocca e inutile. Sono molti però — La maggioranza? — i poliziotti a disagio. Sono molti gli agenti che non si riconoscono in questa difesa corporativa, che prendono le distanze dalla logica degli eserciti contrapposti. Noi e loro, noi contro di loro. Proprio per non fare di ogni erba un fascio, proprio per dare atto a chi fa il suo dovere per uno stipendio infimo, proprio per chi veste una divisa con coraggio e dignità sarebbe indispensabile, invece, adottare strumenti che consentano di identificare i violenti protetti dall’uniforme. E chiamare alle loro responsabilità i violenti senza uniforme, evidentemente. Per il bene di tutti. Dello Stato, cioè di tutti. Ha torto chi dice: ad un’offesa si reagisce con l’offesa, e chi per principio prova a dimostrare che la provocazione è partita dalla piazza
«Lavoce.info, 15 aprile 2014
Un decreto dalle molte incertezze. Il decreto legge n. 34/2014 è stato criticato da più parti, oltre che nel merito, soprattutto per una questione di metodo, data l'evidente contraddizione tra liberalizzazione dei contratti a termine e introduzione di un contratto di inserimento “a tutele crescenti” come strumento di razionalizzazione delle forme contrattuali annunciato dal Jobs Act e ora previsto dal disegno di legge delega. Alla critica il Governo ha replicato invocando la politica dei due tempi: il decreto servirebbe ora a dare una “scossa”, per favorire assunzioni semplificate, il disegno organico si farebbe dopo, attuando la legge delega. Ma è proprio così? Davvero siamo di fronte a una liberalizzazione semplificatrice?
Mettiamoci nei panni di una impresa che voglia assumere con un contratto a termine. Il decreto dice che il primo contratto può essere stipulato senza causale e prorogato ovvero rinnovato sempre senza causale per otto volte fino a tre anni. È quello che il decreto dice ora: non si sa, però, cosa dirà fra qualche settimana quando sicuramente in sede di conversione qualcosa verrà cambiato, come ha annunciato lo stesso Governo. Forse è meglio attendere. Già questo è un primo effetto negativo della legislazione stop and go all’italiana: non si sa mai quale sia la normativa attendibile. Ma nel caso si decida ugualmente di assumere c’è da chiedersi quale termine di scadenza sia meglio indicare: allo stato attuale si potrebbe assumere con un termine abbastanza lungo, ad esempio per quattro o sei mesi, dato che otto proroghe in tre anni danno ampio margine.
Ma se poi, in sede di conversione, come già si dice, le proroghe vengono ridotte e si passa a un arco di tempo inferiore, il termine lungo non conviene: meglio due mesi, massimo tre. Ecco che la legislazione variabile produce un altro effetto negativo, la ulteriore frammentazione dei termini, che non serve né alle imprese che vogliano investire sul lavoratore e non solo averlo come usa e getta, né, tanto meno, ai lavoratori, che in quel periodo piuttosto che cercare di legarsi all’impresa cercheranno altre forme di impiego solo che ne abbiano l’opportunità. Il decreto dice anche che si può assumere o prorogare senza causa per il primo contratto e per le stessa attività lavorativa: ma se quel lavoratore è stato già assunto in passato, quand’è il “primo” contratto, e come si calcolano le diverse forme di assunzione temporanea (lavoro a termine, somministrazione, altre possibili forme atipiche), si sommano o no? E che succede se nel frattempo tra una precedente assunzione e nuove proroghe c’è un cambio di mansioni?
Comunque, si può obiettare che c’è da stare tranquilli perché ora è fissato un limite massimo di assunzioni a termine nel 20 per cento dell’organico, questa è una cosa sicura. Già, ma come si calcola la percentuale? Nel 20 per cento vanno incluse anche le assunzioni interinali e nell’organico vanno calcolati anche i contratti di collaborazione o le partite Iva? E che accade se il contratto di categoria stabilisce una limite inferiore? Siamo poi sicuri che la legge dia un colpo di spugna ai contratti vigenti? E se per caso l’impresa ha superato quel limite non essendo prima soggetta a vincoli quantitativi, deve licenziare i lavoratori temporanei in soprannumero? E se con le varie proroghe accade che una lavoratrice entri in maternità, siamo sicuri che non riassumendola non si incorra in un atto discriminatorio? Ed è proprio vero che tutta questa bella liberalizzazione mette al riparo dal contenzioso giudiziario? Non è che il lavoratore assunto senza causa e prorogato invoca la direttiva comunitaria che vieta le reiterazioni abusive dei contratti a termine, per la quale le assunzioni “sono di norma a tempo indeterminato” e si finisce alla Corte di giustizia europea?
È bene tenere presente che quella direttiva è scritta in inglese, quindi non ha bisogno di essere “traducibile”, è comprensibile in tutte le lingue europee. L’elenco delle incertezze interpretative potrebbe continuare a lungo: basta vedere quanto hanno detto non i sindacati, ma gli esperti e gli operatori nelle audizioni alla Commissione lavoro della Camera per rendersene conto.
La questione dell'apprendistato. Si dirà, ma c’è pur sempre il buon contratto di apprendistato, molto conveniente sul piano contributivo e retributivo, ora semplificato, senza più l’obbligo del piano formativo scritto, della formazione trasversale e del vincolo di assunzione di almeno il 30 per cento di apprendisti come condizione per assumerne di nuovi. Già, ma è molto probabile che qualcuno di questi obblighi sia reintrodotto in sede di conversione parlamentare perché ci si è resi conto che un apprendistato senza formazione assomiglia come una goccia d’acqua ai vecchi contratti di formazione lavoro, a suo tempo caduti sotto la scure delle autorità comunitarie.
Meglio aspettare, quindi, e alla faccia della “scossa” o non si assume o si assume con un termine il più breve possibile. Queste sono le conseguenze della semplificazione malfatta, della semplificazione che complica, già largamente sperimentata negli scorsi dieci anni nella caotica legislazione sul mercato del lavoro, sempre annunciata in nome della flessibilizzazione e della liberalizzazione. Meglio tenerlo presente, anche per non ripetere l’errore a scala più grande, quando si tratterà di attuare la legge delega che annuncia il vasto programma del codice del lavoro naturalmente “semplificato”. Forse è il caso di stare a vedere se i provvedimenti economici del Governo producono qualche risultato in termini di crescita della domanda e, nel frattempo, dare corso a una sana moratoria legislativa ovvero a una più approfondita riflessione.
E' davvero interessante che un notista politico così acuto e informato si limiti a constatare che in Italia il gioco è interamente ristretto al duello tra i due populismi (direi i due "autoritarismi" o meglio ancora i due ducetti). A sinistra, per un'Europa nuova, non c'è proprio nulla? Guardi meglio.
La Repubblica, 14 aprile 2014
NON ci sono ancora dati attendibili, in vista delle Europee. Stimare in modo credibile le scelte di voto, con troppo anticipo, è difficile. E, prima ancora, rischioso. Basti l’esempio delle elezioni politiche del 2013. E fare pronostici, partendo dai sondaggi, oggi è ancor più insidioso dell’anno scorso. Un po' per i limiti dello strumento. Ma soprattutto perché sono molti gli elettori indecisi, che scelgono all’ultimo momento se e per chi votare. L’anno scorso, ad esempio, secondo le indagini del La Polis dell’Università di Urbino (pubblicate in Un salto nel voto, Laterza), oltre il 10% degli elettori del M5s (3-4 punti, in termini complessivi) maturarono la loro scelta negli ultimi due giorni. I last minute voter premiarono largamente il M5s ai danni del Pd.
Oggi, comunque, per azzardare stime di voto — usandole come previsioni — c’è la complicazione del tempo. E del tipo di elezione. Manca ancora molto. E, soprattutto, si tratta di elezioni europee. Che gli elettori hanno sempre affrontato in modo diverso, rispetto alle altre consultazioni. Usandole, di frequente, come un test per lanciare messaggi “interni” ma anche “esterni” al Paese. Contro le forze politiche nazionali e i governi europei. Tanto più che si vota con un sistema proporzionale, senza alleanze né alleati di coalizione. In più, c’è il problema dell’astensione. La quota di chi non si reca alle urne, infatti, è sempre più ampia rispetto alle altre elezioni. Nel 2009, in Italia, votò il 65% degli aventi diritto: 10 meno delle politiche di un anno fa. Per questo è difficile cogliere tendenze attendibili, in questa fase. Anche se, per quel che mi riguarda, io mi sono fatto un’impressione, abbastanza precisa. Confortata solo in parte dai sondaggi.
Personalmente, infatti, io credo che si delinei un risultato diverso, rispetto alle elezioni politiche dell’anno scorso, quando sono emerse tre grandi minoranze. Fra loro incompatibili oppure alternative. Dopo un anno di governi di intese larghe e nebulose; un anno di frazionamento partitico, a destra, e di cambiamento di leadership — e di premiership — a sinistra: penso che molto sia cambiato, rispetto al 2013. Ritengo, in particolare, che in questa occasione le grandi minoranze, in grado di ottenere un risultato importante, siano, di nuovo, due. Renzisti e Grillini. Che il voto si concentrerà, dunque, sui due principali partiti che oggi occupano la scena politica. Il (post) Pd, unica maggioranza. E il M5s, unica forza di opposizione.
Così, non resta che Grillo. Insieme al M5s. L’unico oppositore e l’unica opposizione. L’unico canale del dissenso tematico — sulle spese della politica, le regole istituzionali e costituzionali. Ma soprattutto, del dissenso-e-basta. Contro lo Stato centrale, contro l’Europa dell’Euro, contro il ceto politico e la classe dirigente. Per questo Grillo cavalca e alimenta ogni manifestazione anticentralista. Da ultimo, in modo clamoroso, la mobilitazione per l’indipendenza regionale promossa e gestita dai “venetisti”. Condivisa da gran parte dei suoi elettori (circa il 60%, secondo Demos ma anche Ipsos). L’in-dipendenza, secondo l’interpretazione di Grillo, come non-dipendenza da Roma, dallo Stato, dall’Europa. In nome della democrazia della Rete. La democrazia diretta, senza mediazioni e senza mediatori. Salvo Grillo, Casaleggio e il loro sistema operativo. Per questo Grillo ha, ormai, puntato le sue armi — retoriche e polemiche — con un solo, unico bersaglio. Renzi. “Colpevole” di essere visibile, anche troppo. Capace di comunicare, di usare i media. Come lui. Grillo. Veterano delle piazze, dei teatri, delle arene. Della tivù. Cerca, così, di personalizzare l’alternativa pro o contro Renzi. Di trasformarla in una contesa fra renzismo e grillismo. Un po’ come al secondo turno delle presidenziali oppure, per analogia, delle elezioni per il sindaco. Com’è avvenuto a Parma, nel 2012, quando Pizzarotti intercettò il voto della destra, determinata a battere la sinistra. Certo, le europee non sono le amministrative né le politiche. Tanto meno le presidenziali. Però, l’ election day associa il voto europeo a quello amministrativo. In molte città. Grillo non è Pizzarotti. E Renzi è un Capo capace di polarizzare il consenso e la competizione. Per cui non mi sorprenderei se, il prossimo 25 maggio, il voto si bi-personalizzasse. E i primi due partiti — Pd e M5s — e i loro Capi ottenessero, insieme, i due terzi dei voti. Riproponendo quel “bipartitismo imperfetto” che, secondo Giorgio Galli, ha segnato la storia della nostra Repubblica.
Le regge di quello che a troppi italiani piacque, e magari piace ancora, anche perché di travestiva da Re (Mida). L
a NuovaSardegna, 13 aprile 2014
La richiesta di Berlusconi di essere affidato ai servizi sociali all'interno della sua tenuta di Arcore (secondo Il Messaggero) è l'ultima incredibile mossa che conferma il ruolo polifunzionale attribuito alle sue case.
Per raccontare e interpretare l'ultimo ventennio, non si potrà eluderlo l'intreccio pubblico-privato – condensato nell'intimo di quelle case – e al quale l'Italia si è appassionata fino ai dettagli. Palese nelle intercettazioni che sono ormai testi con una loro cifra (la cronaca è letteratura compressa, diceva Oscar Wilde). Berlusconi si capirà solo traducendo la fiction e spiegando l'iconografia che molto si è giovata di sfondi domestici. In parte svelati da giornalisti coraggiosi o fortunati: per via di un filtro potente, una regia con il compito di escludere il caso nella rappresentazione (o pronta a volgerlo a vantaggio).
Le case di Berlusconi sono la location del format – direbbero gli esperti di televisione. Hanno contribuito molto al suo successo e alle sue disgrazie, e avranno un posto nel resoconto degli storici. Sono i palazzi del potere di quest'epoca, indispensabili alla recita allestita volta per volta (la libreria con foto di famiglia nei momenti solenni). Case di un uomo politico molto ricco, diventate scenari della politica. Come mai era accaduto nella storia della Repubblica, e com'era, piuttosto, nelle monarchie, quando la reggia assicurava i fondali per le movenze simboliche del sovrano e della corte. Gli organi di informazione hanno continuamente titolato di incontri a Palazzo Grazioli (tutto maiuscolo). E così la sua casa di Belusconi divenuta per molti una sede istituzionale. Talmente attrezzata da rendere sconsigliabile ogni attività distante da quelle mura protettive. Tant'è che il giorno drammatico della decadenza il pubblico è stato convocato nella strada lì davanti
Nessuno ha mai fantasticato sulle case dei leader della prima Repubblica, che so, sull' appartamento di Prodi a Bologna. E neppure Mussolini, in quell'altro ventennio, ha mai esibito una sua casa a Roma (era ospite dei Torlonia e vedeva Claretta a Palazzo Venezia).Dopo il 1994 le sedi del governo e della politica sono finite in secondo piano, e architetture come Palazzo Chigi (la “prua d'Italia” secondo il duce) sono state declassate a succursali della casa romana di Berlusconi, o addirittura della villa in Sardegna.
Due splendide residenze aristocratiche, impianto seicentesco, interni sempre troppo agghindati per le foto ufficiali; mentre la casa sarda, già di Flavio Carboni, rispecchia il sogno della villeggiatura dei molto danarosi. Stile “Costa Crociere”, attrezzata per gli show estivi con gli effetti speciali noti (finto nuraghe, vulcano telecomandato, anfiteatro con luci psichedeliche, ecc.), resterà nella memoria per gli illustri ospiti stranieri costretti a perdere l'aplomb istituzionale in quel clima spensierato.
E' in questo set di edifici che la corte berlusconiana ha affiancato tutti i comportamenti del leader, nelle vesti improbabili dello statista con le note derive dal pop al trash. E ognuno di questi luoghi ha consentito lo svolgimento di attività diverse in un mix simultaneo (incontri di affari, strip tease, riunioni di partito e cene eleganti). Il modello è l'abitare del sovrano per il quale tutte le occasioni – un'udienza solenne come un ballo in maschera – erano buone per prendere decisioni.
Gli studiosi che si sono interrogati sul potere sanno che pure grazie ai simboli l' autorità politica viene percepita e riconosciuta. E' andata come sappiamo in questi anni. E ora potrebbe cominciare un'altra storia, almeno affrancata da comportamenti da antico regime. Gli interrogativi di queste ore sul futuro di Berlusconi in declino sottintendono pure il destino delle sue case, con quel surplus di valore simbolico che forse impedirà un loro ritorno nella normalità della dimensione privata. E comunque vadano le cose per Berlusconi, è facile immaginare che per i suoi sostenitori conserveranno la capacità di evocare i fasti del passato, nonostante il senso di malinconia che mettono i luoghi dove i leader concludono la loro carriera.
A tutti gli altri basterà che i palazzi delle istituzioni tornino ad assumere appieno il loro ruolo.
Intervistato da Antonio Sciotto il costituzionalista ammonisce: «stiamo attenti, perché l’esclusione e la povertà hanno raggiunto ormai pesi insostenibili, e la politica non può cancellare il conflitto evitando il confronto». Ma c'è da dubitare che il balilla che conduce il paese lo ascolti.
Il manifesto, 13 aprile 2014
A concludere il congresso della Fiom, giusto poco prima della sfida tra Susanna Camusso e Maurizio Landini, non poteva che essere Stefano Rodotà. Il professore, amatissimo dai metalmeccanici e legato a doppio filo a Landini, ha esordito togliendosi qualche sassolino messogli nella scarpa dal presidente del consiglio: «C’è il populismo di Berlusconi – ha spiegato – e c’è quello di Grillo, ma c’è anche un nuovo populismo, più soffice, di Renzi. Come si può definire altrimenti l’atteggiamento di chi rifiuta il confronto con i corpi intermedi come il sindacato, per rimuovere forzosamente la complessità che c’è nella società?».
E non basta, Renzi viene anche accusato di voler realizzare un «neoautoritarismo, un autoritarismo soft, che mantiene le forme della democrazia e ne svuota la sostanza». Brucia ancora al costituzionalista l’attacco del premier ai «professoroni» che lo criticano sull’Italicum e la riforma del Senato. Ma soprattutto, Rodotà è preoccupato dalla tenuta della democrazia: «Si vuole tenere fuori chi sta sotto l’8% – dice – Si intende dire a chi prenderà magari 3 milioni di voti che per lui non c’è posto. Si profila una concentrazione del potere che sovrarappresenterà pochi soggetti, i due partiti a cui si vuole ridurre il Parlamento, e lascerà fuori tutti gli altri. Il governo e la maggioranza della nuova Camera coincideranno, con l’opposizione che sarà simbolica. E tutto senza contrappesi adeguati negli organi di controllo: perché dallo stesso blocco verranno il presidente della Repubblica, i giudici della Corte costituzionale, i membri del Csm. E il Senato stesso non avrà sufficienti funzioni di controllo».
Rischio di autoritarismo, dunque: «Noi diciamo sì alla fine del bicameralismo perfetto – continua Rodotà – ma se la legge di bilancio e la fiducia le avrà la sola Camera, si costituisca allora un Senato elettivo, con legge proporzionale, così da assicurare la rappresentanza a tutti e poter avere contrappesi. Io sono stato deputato negli anni di piombo, e far entrare allora i partiti “extraparlamentari” fu un modo per evitare rischi di collateralismo con il terrorismo. Stiamo attenti, perché l’esclusione e la povertà hanno raggiunto ormai pesi insostenibili, e la politica non può cancellare il conflitto evitando il confronto».
Il professore pone un parallelismo tra due recenti pronunciamenti della Corte costituzionale: «Mi riferisco alle sentenze sulla Fiat e sul Porcellum, necessariamente collegate, perché vengono dalla stessa Consulta e parlano entrambe di rappresentanza». In una passata iniziativa della Fiom, tra l’altro, Rodotà aveva esplicitamente criticato il Testo Unico firmato anche dalla Cgil e attaccato dalla Fiom, rilevando dei possibili rischi di incostituzionalità: ma ieri, probabilmente a causa della presenza di Susanna Camusso – che lo ha ascoltato con attenzione seduta alla presidenza – su questo tema ha preferito non prendere posizione in modo esplicito, per non far precipitare la tensione.
Rodotà ha quindi confermato l’annuncio già fatto da Landini: il gruppo della «Via maestra» si appresta a «raccogliere le firme per un referendum sull’articolo 81 della Costituzione», in modo da abrogare l’obbligo del pareggio di bilancio. Subito dopo, ha elencato le battaglie che lo vedranno alleato alla Fiom di Landini: la richiesta al governo Renzi e al Parlamento di «abrogare l’articolo 8» voluto da Sacconi su pressioni della Fiat, «istituire un reddito minimo o di cittadinanza che dir si voglia», «approvare una legge sulla rappresentanza». Infine, «tornare a sperimentare nuovi modelli di partecipazione, come il bilancio partecipato nei comuni»
«Per quanto la Rete sia meravigliosamente elastica e resistente, non possiamo dimenticare che fu concepita alle origini per qualche milione di utenti al massimo, ora siamo miliardi. È un sistema che si sta avvicinando al livello di guardia, nel senso che sta raggiungendo quel limite oltre il quale potrebbe sfuggire al controllo umano». La
Repubblica, 13 aprile 2014 (m.p.r.)
«Se esistesse una scala Richter da 1 a 10 per i terremoti su Internet, quello che abbiamo subìto pochi giorni fa sarebbe a quota 11». L’esperto di crittografia Bruce Schneier ha fatto questo bilancio drammatico sul New Yorker, a proposito del super-virus Heartbleed. 500.000 siti violati per due anni, inclusi colossi come Twitter, Yahoo, Amazon, Dropbox, Tumblr. Centinaia di milioni di password, carte di credito, accessi bancari potrebbero essere finiti in mano a hacker, ladri, truffatori. Il bilancio è ancora provvisorio. Questi disastri si susseguono sempre più spesso e con un’intensità crescente: è di pochi mesi fa il maxifurto di milioni di carte di credito dei clienti di Target, la catena di grandi magazzini. Tra le cause, spiccano due anomalie. Primo, nella Rete la sicurezza non è una priorità così stringente come lo è per esempio nel trasporto aereo (dove gli incidenti diminuiscono da anni anziché aumentare). Secondo punto, a conferma del primo: molti dispositivi di sicurezza (come il software di crittografia OpenSsl che è stato vittima del supervirus Heartbleed) sono frutto di lavoro volontario, semi-gratuito o scarsamente remunerato, nonostante gli immensi profitti incassati dai giganti dell’economia digitale. Ma questa sottovalutazione potrebbe portarci verso un cataclisma molto peggiore. È il Grande Blackout della Rete, evocato in una conferenza Ted da Dan Dennett, raccogliendo plausi e allarme nel mondo degli esperti. «Cerchiamo almeno di prepararci a sopravvivere per le prime 48 ore di caos e paralisi totale», è una delle esortazioni di Dennett. In quei primi due giorni forse ci giocheremmo tutto, l’umanità (almeno quella che abita nei paesi avanzati) rischierebbe di retrocedere in una sorta di Medioevo. «L’11 settembre 2001 sembrerebbe un episodio minore al confronto», rincara Dennett, ricordando che in effetti l’attacco alle Torri Gemelle avvenne in un’era quasi preistorica dal punto di vista della nostra dipendenza digitale.
Continuità a oltranza col peggior passato .
Il manifesto, 13 aprile 2014, con postilletta
C’era qualche preoccupazione nel pensare di aprire il ragionamento sul Piano casa del governo Renzi ricordando la figura di Giorgio La Pira. Temevo infatti che la lingua incontinente del premier avrebbe sepolto il grande sindaco della Firenze degli anni del dopoguerra sotto la sequela di insulti che dedica ormai al meglio della cultura italiana, da Rodotà a Zagrebelsky e Settis. Un altro professorone da disprezzare, o meglio un estremista. La Pira lasciò infatti di stucco l’opinione pubblica dell’epoca perché requisì molti appartamenti non utilizzati per assegnarli alle famiglie povere e per i senza tetto. Un adempimento audace, ma iscritto nella Costituzione (art. 3) che conosceva alla perfezione avendo fatto parte dell’assemblea costituente.
Anche oggi ci sono decine di migliaia di famiglie e di giovani che non hanno la possibilità di avere una casa, ma la musica è cambiata. Nell’articolo 5 del decreto legge n. 47 (finalmente pubblicato pochi giorni fa) «Piano casa per l’emergenza abitativa» si afferma che nelle occupazioni abitative che punteggiano molte grandi aree urbane del paese e che riguardano, come è noto, edifici abbandonati da tempo, è vietato allacciare i pubblici servizi, acqua e luce elettrica. La Pira era un cattolico come il premier e come il ministro per le infrastrutture Maurizio Lupi e quell’articolo dimostra l’abisso culturale che li divide. Quest’ultimo ha definito delinquenti gli occupanti.
Ma non è questa l’unica vergogna presente nel testo di legge preparato con tutta evidenza dall’ufficio studi dell’associazione dei costruttori e dalla proprietà edilizia e prontamente veicolato dal premier. Nei venti anni di cancellazione di ogni regola, si è costruito molto nel nostro paese: i dati ufficiali ci dicono che gli alloggi recenti invenduti sono un milione e mezzo: da soli potrebbero ospitare quattro o cinque milioni di abitanti. Ancora i dati ufficiali ci dicono poi che ci sono oltre 200 mila famiglie in grave disagio abitativo. Ma figuriamoci se chi si è arricchito oltre misura in questi due decenni rinunci ad una modesta parte delle previsioni di guadagno. Così, all’articolo 10 si permette di assimilare quegli alloggi, dovunque siano ubicati e qualunque qualità abbiano, in alloggi «sociali», che vuol dire ottenere tutte le agevolazioni di legge ed economiche per destinarli a famiglie in grado di pagarsi un mutuo immobiliare.
Se la vendita di automobili supera la domanda di mercato e i piazzali delle aziende si riempiono, si riduce la produzione e per salvaguardare i lavoratori si ricorre a contratti di solidarietà o agli ammortizzatori sociali. Il comparto abitativo continua a sfuggire alle logiche del mercato tanto osannate a parole. Se il mercato tira, gli operatori immobiliari possono guadagnare ciò che vogliono perché lo Stato ha rinunciato da tempo a qualsiasi azione calmieratrice. Nel decreto legge, ad esempio (articolo 3) si prevede ancora di vendere le poche case rimaste di proprietà pubbliche. Se il mercato entra invece in una crisi epocale che necessiterebbe di ben altre analisi e soluzioni, si ricorre agli aiuti pubblici.
Una volta piazzate le case invendute, non si rinuncia neppure a costruire ancora nuovi quartieri. Sempre l’articolo 10 dice infatti che lo stesso trucco che trasforma l’edilizia privata in alloggi assistiti dal denaro pubblico si applica anche alle grandi lottizzazioni che non erano neppure iniziate proprio per la crisi di mercato. Si perpetua dunque il modello dissipativo che ha portato all’attuale crisi di sovraproduzione.
La Pira viveva in un piccolo alloggio all’interno di un convento anche se non gli mancavano certo amici in grado di fornirgli una casa a prezzi vantaggiosi. Renzi quando era sindaco della stessa città ha scelto di farsi pagare l’alloggio da un facoltoso amico. Un altro segnale eloquente della distanza morale e culturale che ci separa da quel fecondo periodo. La conseguenza di questa distanza culturale stava ieri sotto gli occhi di Roma: decine di migliaia di persone e di giovani senza casa chiedevano provvedimenti veri in grado di risolvere davvero l’emergenza abitativa. Provvedimenti neppure sfiorati da un decreto legge scritto in continuità con le teorie economiche responsabili dell’attuale crisi
«L’ex rettore della Normale insegna a tutelare il territorio (anche dai disastri del Tav) e il premier lo tratta con sarcasmo: vietato criticare il governo».
Il Fatto Quotidiano, 13 aprile 2014
In presentazione di un suo saggio uscito da pochi anni (Azione popolare. Cittadini per il bene comune Einaudi, 2012) il giornalista che intervista Salvatore Settis commenta: “L’ex rettore della Normale di Pisa è un 71enne signore dai modi gentili e leggermente impacciati, tipici di chi ha trascorso più di dieci lustri della propria vita tra libri, convegni, testi antichi, banchi delle più prestigiose istituzioni universitarie”.
Salvatore Settis, dice: “Il mio non è un atteggiamento estremista né ammiccante all’antipolitica, cioè all’odio e alla volontà di eliminare gli altri, ma è invece un modo di pormi fatto di indignazione e radicalità. Tutti i cittadini dovrebbero mobilitarsi per l’interesse generale, a difesa dei beni comuni. Compresi quelli artistici”.
Conosco Salvatore Settis da parecchi anni. Ho avuto la fortuna di tenere lezioni e convegni sul teatro e sull’arte della messa in scena alla Normale di Pisa, che ha diretto lungamente. Ho imparato dai suoi saggi e dagli articoli che trattano della salvaguardia del paesaggio e del territorio sommerso quanta negligenza criminale deve sopportare il nostro Paese; non solo, ma il Prof. Settis si inoltra con analisi chiare e inconfutabili a proposito dei progetti ferroviari di transito veloce che causano veri e propri disastri ambientali e che non tengono conto dei sacrosanti diritti delle popolazioni che grazie a questo atto di feroce modernizzazione perdono la propria autonomia e libertà; inoltre, lo scienziato Settis, sottolinea con giusta ironia come siano abili e spudorati i responsabili di questa tutela nello scaricare addosso alla natura e alle calamità imprevedibili la causa dei disastri che ciclicamente colpiscono la nostra terra.
Questi suoi scritti sono lezioni impagabili che ogni gestore della cosa pubblica dovrebbe imparare a memoria. Eppure è talmente desueta la coscienza dell’apprendere che uno scienziato come Settis che ha l’ardire di avanzare una critica al programma politico del governo in carica, fa scattare l’indignazione immediata da parte del presidente del Consiglio Matteo Renzi che con evidente sarcasmo commenta la scienza alla quale è legato il critico Settis, l’archeologia, anzi tout court lo definisce l’archeologo, cioè qualcuno che è con il cervello nel sottosuolo.
Secondo l’enciclopedia Treccani, caratteristica dell’Archeologia è il metodo di acquisizione delle conoscenze, mediante cioè lo scavo sul terreno, la ricognizione di superficie e la lettura dei resti monumentali residui, cioè è la scienza che invita a guardare sotto, in profondità ai problemi e non dare nulla riguardo alla base per scontato. Come diceva Socrate: “Chi non scava, non sa su cosa cammina e trascorre la vita”.
Si vede subito che il Signor Renzi è uno che resta in superficie e si limita piuttosto ai ‘si dice che’. Andare in profondo significa scegliere la fatica di osservare le cose sempre da punti di vista diversi, scoprire spesso il rovescio della propria condizione sia statica che dinamica; ed è proprio di lì che Eratostene di Cirene, nel II sec. a.C., intuisce che non solo gli umani vanno vivendo su una superficie sferica ma ha l’illuminazione che, grazie alla rivoluzione del nostro pianeta, nell’universo non esiste né sopra né sotto né donne e uomini all’in piedi o capovolti.
Ma questo Renzi non l’ha ancora capito. Se il governo ha un’idea bisogna che tutti i cittadini la condividano. Chi fa obiezione si ritrova fuori dall’universo. E non bisogna quindi prenderlo in considerazione, specie se è un archeologo.
«Il legame tra le attività estrattive e terremoto non si può escludere».La
Repubblica, 11 aprile 2014
Non si può dire né sì né no, ma di certo non si può escludere. E di certo si deve continuare a indagare. Sarebbe questa la sintesi di un rapporto stilato per conto della Regione Emilia Romagna da un panel di esperti chiamati a dire se i terremoti che hanno colpito la regione nel 2012 possano aver avuto come concausa le attività estrattive del petrolio (che nella regione si praticano da decenni) e, più in generale, trivellazioni e perforazioni del suolo. Il rapporto non è ancora stato reso pubblico, ma già circola negli ambienti scientifici e politici. Se ne occupa l'ultimo numero della rivista scientifica Science, secondo la quale il documento è stato consegnato agli amministratori emiliani da almeno un mese, ma ci sarebbe imbarazzo nel parlarne. Non solo: la rivista americana precisa come sul rapporto si baseranno le decisioni in merito a nuove autorizzazioni per le attività estrattive nella regione.
Ed è molto probabile che la linea sarà quella della massima cautela. Il panel si chiama Ichese (Commissione tecnico-scientifica per la valutazione delle possibili relazioni tra attività di esplorazione per gli idrocarburi e aumento di attività sismica nel territorio della regione Emilia Romagna colpita dal sisma del mese di maggio 2012) ed è stato convocato dalla Regione guidata da Vasco Errani nel maggio del 2013: è composto da due esperti italiani e da tre stranieri che hanno effettuato sopralluoghi sia nelle aree colpite dal terremoto sia negli impianti petroliferi di Cavone, quelli contro i quali oggi si punta il dito. Ichese ha interpellato esperti, aziende e istituzioni. Ed è giunto alle conclusioni che Science riporta tra virgolette: il legame tra le attività estrattive e terremoto «non si può escludere ».
Da anni si sa che alcune attività umane possono causare terremoti. Non è mai stata una novità e gli scienziati hanno sempre preso l’ipotesi molto sul serio. L’idea è che il ricorso ad alcune tecniche geoingegneristiche, tra cui il famigerato fracking che però in Italia non si pratica, almeno non ufficialmente), se effettuato ad alta intensità può causare l'instabilità delle faglie su cui poggiamo i piedi. In particolare, il nesso è stato studiato laddove le ricerche di petrolio comportano trivellazioni numerose e profonde, come nel centro degli Stati Uniti. Indagini statistiche hanno rafforzato questo timore e alcuni degli ultimi terremoti in Texas e Oklahoma sono stati ritenuti probabili “figli” delle trivellazioni. Bisogna però considerare che al momento è molto difficile dire se un dato sisma è stato causato da una certa attività. Resta il fatto che quelli per i quali è stata ipotizzata una concausa umana sono stati pochi e, in ogni caso, più deboli di quelli generati solamente dalla natura in una specifica zona. Comunque, se i sospetti su certe responsabilità dell’uomo dovessero diventare forti, è probabile che non sarebbe solo la Regione Emilia Romagna a rivedere le proprie scelte sull’utilizzo del territorio.
Il rapporto di Ichesa, prosegue Science, spiega anche che rimuovere e reiniettare liquidi non basta a causare un terremoto più intenso di quanto non sarebbe senza quell’attività. Ma è possibile che la faglia coinvolta nella sequenza sismica del maggio di due anni fa fosse sul punto di muoversi e che l’uomo abbia accelerato il processo. Non solo: le attività estrattive nel sito di Cavone erano state aumentate dall’aprile del 2011 e questo stabilirebbe un legame temporale. Però, conclude la rivista, manca ancora un modello fisico di sostegno: insomma, ipotizzato il nesso, non è ancora chiaro come e perché funzioni. Science spiega infine di non aver ricevuto risposte sul rapporto né da parte degli estensori né da parte delle compagnie che sarebbero implicate, ma riferisce di altri sismologi per i quali questi legami sarebbero molto deboli e tutto il rapporto poco chiaro: l’impianto di Cavone, del resto, è molto piccolo e si trova ad almeno venti chilometri dall’epicentro.
La proposta del PD di Renzi «invece di cancellare il Senato, come dice la vulgata demagogica, lo vorrebbe riciclare come pensionato di lusso per quel ceto di amministratori politici locali e regionali che si affolla in cerca di altri incarichi pubblici e non vuole passare attraverso altre elezioni».
Il Manifesto, 11 aprile 2014
Inutile, davanti al vento di tempesta che sospinge le vele dell’opinione pubblica, ricordare che non tutto ciò che è nuovo è bene e tutto ciò che è conservazione è male: anche se tutti sappiamo quanto sia necessario conservare beni come l’ambiente, i beni culturali, i diritti umani, la memoria del passato, e così via.
Polemiche a parte, la discussione di merito si è svolta prevalentemente tra esperti di diritto: ogni parte ha sfoderato i suoi costituzionalisti. E tuttavia davanti all’importanza dei mutamenti oggi in via di ratifica ma anche alla lunga discussione e alle molte polemiche che li hanno preceduti negli anni scorsi, vale forse la pena di fare qualche riflessione sulla genesi storica delle costituzioni.
È noto che da sempre le Costituzioni, materiali o scritte che siano, sono figlie di tempi agitati: guerre e rivoluzioni . Senza bisogno di risalire alla Costituzione di Atene, basta considerare la storia medievale e moderna degli stati europei: dallaMagna Charta e dal Bill of Right del Parlamento nella lotta contro la monarchia inglese del ’600 fino alla Costituzione degli Stati uniti d’America e a quelle della Francia moderna, si è trattato ogni volta di interventi regolatori dei rapporti formali di potere resi necessari da profonde trasformazioni nei rapporti sostanziali.
Il caso italiano conferma che all’introduzione o al cambiamento di Costituzione si arriva solo in momenti gravissimi, quando vi si è costretti dalla pressione di eventi straordinari. Non avremmo avuto la nostra Costituzione se non ci fosse stata una guerra perduta, seguita dalla perdita della sovranità nazionale e dall’auto-cancellazione delle istituzioni statali vigenti ratificata dal referendum istituzionale del 1946. Senza una feroce guerra civile, senza la Resistenza non ci sarebbe stato quel fermento di volontà innovativa che sopravvive ancora nella Costituzione repubblicana dandole un valore di esortazione ad andare al di là dell’esistente.
Si pensi a quel fondamentale secondo comma dell’art.3 sulla necessità di rimuovere gli ostacoli di ordine economico che limitano di fatto libertà e uguaglianza dei cittadini e impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Mai come in questi tempi si è avvertita tutta l’importanza e l’angosciante attualità di questo testo, bandiera di una battaglia che riguarda ancora e sempre i lavoratori tutti intesi come persone, ma oggi soprattutto chi per non avere lavoro o per averlo precario e revocabile a piacere scivola nella categoria delle non persone.
E tuttavia non va dimenticato che alla nascita della Costituzione repubblicana si arrivò non per una rivoluzione popolare contro il regime precedente ma per effetto della ricezione del nuovo ordine mondiale in cui aveva finito per trovare collocazione lo sconfitto stato italiano. Questo aiuta a capire la debolezza e l’inefficacia della Carta costituzionale una volta ripartita la vita del paese sotto il saldo controllo di forze moderate e di apparati ereditati dallo stato fascista. Fu allora che, invece dell’alternanza al potere di forze diverse e di una dialettica sana del conflitto sociale e politico, si aprì l’epoca del partito unico al potere e dell’opposizione bloccata da una insormontabile esclusione. L’Italia di allora fu uno dei paesi dove un solo partito aveva accesso al governo dello Stato: una delle uncommon democracies, secondo la definizione di T. J.Pempel evocata di recente da Sabino Cassese inGovernare gli italiani. Storia dello Stato (Il Mulino). Dunque, se rivoluzione ci fu con l’avvento della Costituzione repubblicana, si trattò ancora una volta di una specie particolare di rivoluzione.
Nella storia italiana si materializzò di nuovo un fantasma antico, quello della «rivoluzione passiva». Un concetto che Vincenzo Cuoco nel Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, introdusse nel vocabolario politico italiano. Ricordiamolo: secondo lui quella rivoluzione napoletana era stata «passiva» perché importata da fuori e attuata da una minoranza , un’élite intellettuale, senza che ci fosse stata una coscienza,una partecipazione diffusa in mezzo al popolo. Quel fallimento dimostrava, secondo Cuoco, che nessuna rivoluzione poteva calare dall’alto, da «un’assemblea di filosofi» o essere imposta con «la forza delle baionette». Una Costituzione autentica come patto durevole di un popolo poteva nascere e mantenersi solo se adeguata alle caratteristiche, alla storia e alla cultura di quel popolo.
L’appuntamento per una nuova Costituzione si presentò alla metà dell ’800. Fu nel 1848 che prese forma lo Statuto albertino, un documento fondamentale della storia d’Italia. Era una costituzione octroyée, concessa dal sovrano sabaudo ai suoi sudditi, non conquistata da una rivoluzione popolare, ma dettata dal timore dei movimenti che agitavano l’Europa e in modo speciale la Francia. Ancora una rivoluzione passiva, dunque. E così si entra in quella stagione della storia d’Italia che è stata chiamata Risorgimento quando, per la prima volta sulla scena europea, prese forma un stato italiano unitario. Lo Statuto albertino fu esteso senza modifiche a tutta l’Italia di cui fu la Carta fondamentale dal 1861 al 1944 (con la cesura del Fascismo). Fu un fenomeno singolare: lo potremmo definire una fusione fredda, lontana come fu dal calore e dal rumore di popoli in rivolta, anzi compiuta proprio allo scopo di evitarne il rischio. Perché avvenisse questa trasformazione in punta di piedi ci volle la paura dello «spettro rosso» del comunismo, decisiva nel convincere le classi dominanti della penisola a rifugiarsi sotto la bandiera sabauda. Così quello Statuto fu non il frutto di una rivoluzione ma lo strumento di una restaurazione. E proprio così – restaurazione – la definì un appassionato osservatore della realtà italiana, Edgar Quinet. Bisognava – come ha scritto Giuseppe Tomasi di Lampedusa – che tutto cambiasse perché tutto restasse com’era.
Sulla questione della «rivoluzione passiva» doveva riflettere in prigione Antonio Gramsci in pagine che restano fondamentali e da rileggere in questo nostro presente. Il Risorgimento secondo lui era stato una «rivoluzione passiva», una «restaurazione»: una «reazione delle classi dominanti al sovversivismo sporadico e disorganico delle masse popolari con ‘restaurazioni’ che accolgono una qualche parte delle esigenze popolari». Era mancata l’ iniziativa delle masse popolari , c’era stato ancora una volta lo scollamento con l’élite intellettuale del paese.
«Non nasciamo cittadini del mondo. Le comunità umane hanno confini. L’Europa non ne tiene conto».
La Repubblica, 10 aprile 2014
Voleva punire le nazioni per gli orrori del XX secolo. Ma non c’è una democrazia post-nazionale. La democrazia parla una sola lingua. Non nasciamo cittadini del mondo. Le comunità umane hanno confini. L’Europa non ne tiene conto. Ma questa critica all’Europa si basa sull’illusione nazionale che in una società e in una politica europeizzate sia possibile un ritorno all’idillio nazional-statale. Essa presuppone l’orizzonte nazionale come quadro diagnostico per il presente e per il futuro dell’Europa. A queste critiche rispondo: aprite il vostro sguardo, e vedrete che non solo l’Europa, ma il mondo intero si trova in una transizione dove i confini entro i quali l’Europa si pensa politicamente non sono più reali.
Due esempi paradossali a questo riguardo: tutti i giornali, tutti i notiziari televisivi britannici sono pieni di accuse all’Ue — l’euroscettica Gran Bretagna è attraversata da un’ondata mai conosciuta di opinione pubblica europea. Oppure: la Cina, per effetto della sua politica degli investimenti e delle sue dipendenze economiche, è da tempo un membro informale dell’eurozona — se l’euro fallisse, per la Cina sarebbe un colpo durissimo. È chiaro, perciò, che la cosmopolitizzazione non crea cittadini del mondo, anzi: mentre la globalizzazione dissolve le frontiere, le persone ne cercano di nuove. Il bisogno di confini diventa tanto più forte, quanto più il mondo diviene cosmopolitico. Da un lato, lo dimostra il successo del Front National alle ultime elezioni locali in Francia, ottenuto con il motto «Fuori dall’euro, fuori dall’Ue!». Dall’altro, questo bisogno di confini ha contribuito al consenso raccolto da Vladimir Putin, con la sua massima «Dove abitano dei russi, lì c’è la Russia».
Tuttavia, proprio l’aggressivo nazionalismo interventista russo dimostra che non si può proiettare il passato delle nazioni sul futuro dell’Europa, senza distruggere il futuro dell’Europa. E se l’etno-nazionalismo imperiale di Putin fosse uno shock salutare per l’Europa afflitta dall’egoismo nazionale?
Alain Finkielkraut controbatte: noi europei siamo traumatizzati da Hitler. Eppure Hitler disprezzava la nazione. Voleva sostituire la nazione con la razza. Oggi, però, facciamo espiare alle nazioni la follia hitleriana. Per il loro trauma da Olocausto i tedeschi vogliono forse eliminare l’intero nazionalismo? No, ma abbiamo un presupposto in comune: la catastrofe di Hitler, dell’Olocausto e della Germania nazionalsocialista.
Proprio questa catastrofe, con i processi di Norimberga, ci ha fatto elaborare il concetto di crimini contro l’umanità. I soldati tedeschi o i guardiani dei campi di concentramento colpevoli di crimini nei confronti di ebrei erano soltanto criminali, anche se il diritto nazionale non puniva i loro misfatti. Così è nata una nuova dimensione, il diritto europeo, che relativizza il diritto nazionale — e, nello stesso tempo, una nuova visione mondiale dell’umanità: l’etica del “mai più”.
Noi, e il mondo, abbiamo più che mai bisogno (anch’io lo ho argomentato) di una visione europea, per venire a capo dei mali della globalizzazione — mutamento climatico, povertà, disuguaglianza estrema, guerra e violenza. L’idea è che la forza mobilitante della catastrofe anticipata fonda l’identità europea. La lotta contro i rischi globali è indubbiamente uno sforzo erculeo. Può perfino dar vita a una nuova morale mondiale della giustizia. Il mutamento climatico è un rischio storicamente sconosciuto che minaccia tutti e costringe inevitabilmente ad agire. Chi dice “mutamento climatico” deve pensare al di là dei confini, cooperare con i nemici, tenere presenti le generazioni future, immedesimarsi nella situazione dei più poveri — non perché li ama, ma perché ne ha bisogno per creare assieme un futuro vivibile. Qui si delinea uno stile di vita purificato dal mutamento climatico, un “cosmopolitismo egoistico”, per così dire. Ma, siamo sinceri, lo spirito del mutamento climatico è la pozione magica che concilierà gli europei euroscettici con l’Unione Europea?
Un altro consiglio (tra gli altri, anche di Alain Finkielkraut) suggerisce che se l’Europa vuole superare la sua crisi della convivenza deve ritrovare la propria identità nelle grandi opere dell’Europa, nei monumenti, nei paesaggi della civiltà. Certo, rileggere l’opera di classici come Shakespeare, Cartesio, Dante o Goethe o farsi incantare dalla musica di Mozart e di Verdi non può che far bene. A me, ad esempio, interessa politicamente il concetto di “letteratura mondiale” di Goethe. Con esso egli intende un processo di apertura al mondo, nel quale l’alterità dello straniero diventa componente anche della propria autocoscienza. Ciò implica l’apertura dell’orizzonte, del nazionale, della propria lingua. In questo senso Thomas Mann parla di “tedeschi del mondo”; ma si può parlare anche di “italiani del mondo”, “francesi del mondo”, “spagnoli del mondo”, “inglesi del mondo”, “polacchi del mondo”, ecc., cioè di un’Europa delle nazioni cosmopolitiche.
«Dalle coste dell’Africa», scrive Albert Camus, «dove sono nato, si vede meglio il volto dell’Europa. E si sa che non è bello». Per Camus, allievo di Nietzsche, la bellezza è un criterio della verità e della vita buona. La storia ha logorato tante cose — l’idea di nazione, l’astuzia della ragione, la speranza nella forza liberatrice della razionalità e del mercato; perfino l’idea di progresso è diventata l’origine dell’apocalisse. La poesia brilla, ma lo fa nel modo più intenso dove lotta con la disperazione, lo sdegno, la perversità, la mancanza di senso. Anzi, essa manifesta la sua massima efficacia quando fa dileguare il volto dell’uomo (europeo).
Il segreto dell’Europa, afferma un disilluso Camus, è «che non ama più la vita… ». E allora qual è l’antidoto, la visione alternativa di un’altra Unione Europea, nella quale si viva la gioia per il puro presente? L’Europa italiana! Ad esempio, il sogno di un «letto matrimoniale mediterraneo» (Michael Chevalier), nel quale l’Est e l’Ovest, il Nord e il Sud si amerebbero. Nasce così l’immagine di un’Europa delle regioni dove valga la pena di vivere e che meriti di essere amata. Il nesso apparentemente necessario tra Stato, identità nazionale e lingua unitaria si è dissolto. L’Unione, gli Stati membri e le loro regioni si occupano a diversi livelli del bene dei cittadini. Da un lato, essi danno loro una voce nel mondo globalizzato; dall’altro, un senso di sicurezza e un’identità regionale. La democrazia diventa democrazia a più livelli, come già cominciamo a praticarla: il Mediterraneo — come savoir vivre, come gioia di vivere, indifferenza, disperazione, bellezza e speranza, cioè quella mescolanza contraddittoria che noi nord-europei veneriamo e romanticizziamo come i giardini del Sud, dove «fioriscono i limoni» (Goethe).
D’accordo, il senso di colpa ha imposto anche a questa estetica e a questa poetica dell’esistenza gioiosa, cosmopolitica, mediterranea un volto grigio, brutto. Ma non è forse vero che se i tedeschi fossero andati a scuola dai giocatori di bocce del Sud non avrebbero precipitato il mondo nella Seconda guerra mondiale? Oppure che se la cancelliera Merkel fosse stata un’appassionata giocatrice di bocce non avrebbe mai predicato con zelo missionario una politica protestante di risparmio ai Paesi mediterranei? O, ancora, che se Putin fosse nato giocatore di bocce mediterraneo non avrebbe mai concepito l’idea del tutto folle di annettere l’Ucraina?
Iris Radisch scrive che «il pensiero mediterraneo regionale e confederale è sopravvissuto alle grandi ideologie nazionali e politiche, e forse è la sola utopia sociale del XXI secolo che abbia ancora un futuro». E dunque, cosa potrebbe conciliare gli europei con l’Europa? Un anticentralismo. L’ibernazione della nostalgia etnico-nazionale in tutte le sue forme. Un riavvicinamento e un ritorno alla bellezza delle regioni. Il sentimento mediterraneo. La capacità di affrontare in modo non sgradevole il caos della vita. Di rispettare la natura interna ed esterna. La coesistenza con l’altro, lo straniero, per cercare il proprio arricchimento. Ovvero, come dice Gabriel Audisio, vivere bene e morire bene.
(Traduzione di Carlo Sandrelli)
Non è solo per avere meno tagli al welfare e più risorse finanziarie per il lavoro, l'ambiente e la povertà nel mondo, ma anche perchè la pace è un bene e la guerra un male. Il nostrto nemico non è nel mirino dei "sistemi d'arma", ma al centro dei opoiteri che ci domninano. Sbilanciamoci.info, 9 aprile 2014
1.700 addetti per un fatturato di oltre 120 milioni di euro l’anno. Non parliamo di una multinazionale, ma dell’esercito di lobbisti che affolla le istituzioni europee a Bruxelles e della quantità di denaro fornita ogni anno da banche e altre imprese del settore per sostenerne le attività. Sono alcuni dei dati riassunti nel rapporto pubblicato il 9 aprile da Corporate Europe Observatory – CEO e intitolato “la potenza di fuoco della lobby finanziaria”.
Se è banale, se non ingenuo, pensare di sorprendersi di fronte alla notizia di un mondo finanziario che esercita una fortissima attività di lobby sulle istituzioni europee, ben diverso è vedere nero su bianco i dati e le cifre in gioco. Ogni regola, Direttiva, o ricerca passi da Parlamento, Commissione, BCE o qualsivoglia altra istituzione europea è soggetta a questa “potenza di fuoco”. “Probabilmente la lobby più potente del mondo”; parole non di un qualche gruppo di complottari, ma del Commissario Europeo Algirdas Semeta.
Così come non sono gruppi di complottari ma decine di parlamentari europei di diversi partiti e schieramenti che già a giugno 2010 sottoscrivono un appello nel quale testualmente si segnala che “possiamo vedere ogni giorno la pressione esercitata dall’industria bancaria e finanziaria per influenzare le leggi che li governano. Non c’è nulla di straordinario se queste imprese fanno conoscere il proprio punto di vista e hanno discussioni con i legislatori. Ma ci sembra che l’asimmetria tra il potere di questa attività di lobby e la mancanza di una esperienza opposta ponga un pericolo per la democrazia”.
Questo “pericolo per la democrazia” diventa purtroppo evidente scorrendo il rapporto di CEO. In sede europea il mondo finanziario supera la spesa in attività di lobby di ogni altro gruppo di interesse per un fattore di 30 a 1. Per fare un esempio tra i molti possibili, una recente discussione al Parlamento europeo su una Direttiva riguardante hedge fund e private equity, 900 emendamenti sui 1.700 totali sono stati redatti non da parlamentari ma da lobbisti del mondo finanziario.
Al Parlamento europeo sono attivi gruppi come il European Parliamentary Financial Services Forum (EPFSF) che comprende membri del Parlamento e lobbisti finanziari per “promuovere un dialogo tra il Parlamento europeo e l’industria dei servizi finanziari”. Questo dialogo comprende ad esempio inviti ai parlamentari per “seminari educativi sul trading dei derivati”. Il forum è finanziato principalmente dai suoi 52 membri, tra i quali JP Morgan, Goldman Sachs International, Deutsche Bank, Citigroup e altri. E’ possibile saperlo perché ad oggi è l’unico gruppo di rilievo in ambito finanziario a rivelare il nome dei propri membri. Il “Registro per la Trasparenza” delle attività di lobby, istituito in UE nel 2008 per provare a fare chiarezza, è infatti unicamente volontario, lasciando a imprese e lobbisti la scelta di registrarsi o meno. Sta di fatto che un singolo parlamentare europeo rivela di avere ricevuto qualcosa come 142 inviti in due anni dal mondo finanziario per “eventi”, “seminari” o simili.
Secondo il rapporto, dopo lo scoppio della crisi la lobby finanziaria ha partecipato ad almeno 1.900 incontri e consultazioni con la Commissione e le altre istituzioni europee. Un numero da mettere in relazione con il centinaio di incontri che coinvolgevano reti e organizzazioni della società civile e con gli 84 con il mondo sindacale.
Analogamente, il dato (prudenziale) di 120 milioni di euro l’anno speso per le lobby finanziarie è da mettere a confronto con una disponibilità intorno ai 4 milioni per ONG, società civile e sindacati. Un rapporto superiore a 30 a 1 che fa impallidire i pur evidenti squilibri presenti in altri settori. Ad esempio per quanto riguarda l’agro-alimentare, la stima è di 50 milioni di euro dell’industria a fronte di 12 milioni per associazioni di consumatori, ONG e sindacati.
Lo squilibrio è se possibile ancora più impressionante quando si va a vedere la composizione dei “gruppi di esperti” ovvero gli organi consultivi ufficialmente costituiti da Commissione, BCE o agenzie di supervisione finanziaria per ricevere consigli e pareri su aspetti e normative specifiche. In molti casi la rappresentanza supera abbondantemente il limite della decenza, se non quello del ridicolo. Nel De Larosière Group on financial supervision in the European Union 62 membri dal mondo finanziario, 0 da società civile, sindacati o altri gruppi di interesse; sulla MIFID, direttiva fondamentale sul funzionamento dei mercati finanziari europei, 77 contro 5; nel gruppo di esperti sui Derivati, 86 esperti del mondo finanziario, 0 tra Ong, consumatori o sindacati. Secondo il rapporto, in totale oltre il 70% dei consulenti e degli esperti nei gruppi della Commissione ha legami diretti con il mondo finanziario, a fronte di uno 0,8% delle Ong e del 0,5% dei sindacati.
Se possibile va ancora peggio alla BCE, che ha promosso degli “Stakeholder Groups”. La parola stakeholder viene solitamente tradotta in italiano con “portatore di interesse” e dovrebbe indicare chiunque ha appunto un qualche interesse in una determinata impresa o istituzione. Il gruppo presso la BCE prevedeva 95 membri provenienti dal settore finanziario, e 0 (zero!) tra organizzazioni della società civile, consumatori, sindacati. Veniamo così a scoprire che le politiche della Banca Centrale Europea non hanno evidentemente nessun interesse per cittadini e lavoratori europei.
I risultati? Qualsiasi proposta di regolamentazione va avanti nel migliore dei casi con il freno a mano tirato, e le legislazioni in materia finanziaria vengono diluite fino a renderle spesso totalmente inefficaci. Il mondo finanziario in massima parte responsabile dell’attuale crisi continua a lavorare indisturbato, mentre al culmine del paradosso sono Stati e cittadini che la stessa crisi l’hanno subita a ritrovarsi con il cerino in mano e a dovere accettare sacrifici e austerità.
La burocrazia europea procede a ritmi impressionanti quando si tratta di imporre vincoli e controlli, se non una vera e propria ingerenza, sugli Stati sovrani, i loro conti economici e le loro politiche. Ma dall’altra parte la bozza di Direttiva sulla tassa sulle transazioni finanziarie rimane impantanata tra infinite discussioni e veti incrociati. La separazione tra banche commerciali e banche di investimento, che tutti gli studi riconoscono come un passo essenziale per evitare il ripetersi di disastri come quello degli ultimi anni, è ancora un vago progetto. A settembre 2013 il Commissario europeo Barnier annuncia tranquillamente in un comunicato stampa che “dobbiamo ora affrontare i rischi posti dal sistema bancario ombra”. Mentre gli Stati sono sottoposti a un controllo strettissimo, per il gigantesco sistema bancario ombra che si muove al di là di qualsiasi regola o controllo, a cinque anni dal fallimento della Lehman Brothers e oltre sei dallo scoppio della crisi, la Commissione, bontà sua, dichiara che è tempo di mostrare un qualche interesse.
Se le istituzioni europee avessero dimostrato verso il gigantesco casinò finanziario che ci ha trascinato nella crisi solo una frazione dell’impegno messo per imporre sacrifici e austerità a chi ne ha pagato le conseguenze, probabilmente oggi i cittadini europei starebbero leggermente meglio. In una recente intervista, Luciano Gallino ricorda che “il paradosso è che la crisi, fino all’inizio del 2010, è stata una crisi delle banche. Poi è iniziata una straordinaria operazione di marketing: si è fatta passare l’idea che il problema fossero i debiti pubblici degli stati”. Da oggi riusciamo a capire un po’ meglio con quali mezzi e risorse tale straordinaria operazione di marketing sia stata e continui ad essere realizzata.
Il rapporto integrale è disponibile su: http://corporateeurope.org
Quello che può incuriosire, piuttosto, è l’estensione della ragnatela oggi, che giunge a lambire figure che si credevano esenti da queste folgorazioni sulla via del Nazareno: non più i soliti Feltri e Belpietro, se possibile i meno aggressivi per esaurimento delle batterie, ma i Gramellini, i Menichini, le ministreboschi, gli editorialisti dell’Unità e di Europa, gli spin doctors di complemento del Tg3, su lunghezze d’onda non dissimili dai vari Gasparri (memorabile per volgarità la sua mimica sulla lunghezza delle parrucche di Zagrebelsky e Rodotà, ma non molto diversa da quella del vicedirettore della Stampa sulle «vecchie cinture di castità» …), tutti ad accanirsi contro l’intellettuale frenatore, il disincantato disincantatore, lo scettico blu che spegne i sogni, il fastidioso acribioso che cerca sempre il pel nell’uovo alla mensa dei giganti… E’ molto probabile che alcuni di questi “persuasi” proveranno un giorno vergogna del proprio involgarimento, una volta svanito l’effetto della fascinazione. Ma resta l’interrogativo sull’origine misteriosa di quel fascino improvviso. Che carisma è questo, che bypassa ogni lezione della storia, e fa cadere ogni barriera all’accesso alle menti, tanto da cancellare decenni di cultura critica, razionalista e democratica perché colpisce, ora, anche quei settori che si erano fino ad ora difesi dall’“invasione degli Iksos”?
Non è il carisma guerriero del Benito Mussolini delle origini, uscito dalle tempeste d’acciaio e dalle trincee di fango. E nemmeno quello del Craxi-rapinatore di passo (Ghino di Tacco), fondato sul ricorso a una spregiudicatezza inedita nella storia della sinistra italiana nell’assalto alle banche e alle diligenze. O il carisma proprietario e genitale del Berlusconi re del video e delle veline finalmente spogliate. Il suo sembra più il carisma virtuale – e impalpabile — della vertigine. Il trauma della velocità come metafora (e surrogato) dell’energia e come tecnica di convincimento. L’essere ogni volta altrove, rispetto al luogo dei problemi, così da apparirne il solutore (e il salvatore).
E’, in fondo, a ben guardare, la tecnica dell’illusionista. Il segreto del prestige, inteso come gioco di prestigio, in cui la rapidità del movimento e l’uso del diversivo – del gesto che distoglie l’attenzione – sono la chiave del successo, e permettono a chi sta sul palco di conquistare la dedizione del pubblico pagante. Renzi in questo è maestro: fa comparire, e subito dopo scomparire, la legge elettorale, una volta verificato che di lì non si passa, subito sostituita, coniglio dal cilindro, dal Jobs act e dalle slides, esibendo gli 80 euro in busta paga mentre scompaiono in un foulard viola pezzi di sistema sanitario e di servizi sociali o interi blocchi di patrimonio pubblico avviati alla privatizzazione. Dice di aver abolito le province, come promesso, e quelle se ne stanno sempre lì, intatte sotto il tappeto porpora del tavolo, non più elettive ma pur sempre integre. Prepara la Grecia, ma sembra la Germania. Finge un batter di pugni mentre in realtà batte i tacchi. Ma non importa, gli occhi sognanti del pubblico sono persi nel volo di colombe e guai a chi, restando fermo nel vertiginoso movimento, scruta sotto il mantello per cogliere il trucco.
L’odiato intellettuale è odiato per questo. Perché minaccia di svelare il prestige. Di disincantare l’illusione. Nemico condiviso di tutti gli spettatori che, incapaci di partecipare alla soluzione del problema, preferiscono vedersi rappresentata la materializzazione della speranza. La sua filosofia è pericolosa, come lo fu l’occhio ingenuo del bambino che rivelava la nudità del re. Passerà probabilmente, come tutte le infatuazioni. Ma intanto sarà dura. Unica consolazione: la constatazione che oggi, dell’“uomo di mondo” Callicle – che contrariamente all’“insulso” e “ingenuo” Socrate non inseguiva le nuvole e le idee -, nessuno ricorda neppure più il nome.
«». Il manifesto, 8 aprile 2014 (m.p.r.)
Vorrei invitare tutti (opinione pubblica, soggetti politici, responsabili istituzionali, noi stessi) a fare uno sforzo per uscire dalla vuota retorica dominante, dalla politica dello sberleffo, dalla fascinazione della frase ad effetto. Per guardare al merito delle cose. Impressiona, in effetti, vedere come la discussione pubblica sulle riforme costituzionali si svolga ormai prescindendo del tutto dai fatti e dal contenuto della riforma proposta. Alle critiche non si risponde nel merito, ma ci si limita ad adottare una strategia di delegittimazione delle persone (la polemica contro il «professoroni» ne rappresenta l’epitome). Partiamo allora dai fatti, per poi esprimere delle valutazioni.
Iniziamo dal metodo. Nel nostro ordinamento costituzionale al governo non spettano tutti i poteri, bensì solo alcune fondamentali, ma pur sempre definite, funzioni. Esso principalmente è titolare — assieme ad altri organi — dell’indirizzo politico che si realizza nel programma di governo. Tradizionalmente sfugge all’esecutivo la materia costituzionale ed è per questo che le iniziative per l’eventuale revisione della costituzione sono prese dal parlamento, che è l’organo a cui spetta il potere di revisione. La ragione sostanziale che porta a questa separazione di compiti (al governo l’ordinaria gestione del potere, al parlamento la straordinaria manutenzione del testo della costituzione) dovrebbe essere intuitiva e accettata da ogni persona che abbia consapevolezza dell’importanza del principio della divisione dei poteri: ad evitare il rischio che una maggioranza politica intervenga impropriamente sulle regole di tutti. È vero che abbiamo assistito — anche nel recente passato — ad iniziative governative per la modifica della costituzione, ovvero si possono richiamare esperienze di altri Stati. Non è dunque un «colpo di stato» (a proposito di toni eccessivi) quello che si è posto in essere con la presentazione da parte del governo di un disegno di legge di revisione del bicameralismo perfetto e del Titolo V. Ciò non toglie però che l’assunzione della responsabilità diretta della revisione da parte del governo Renzi evidenzia uno squilibrio a favore dell’esecutivo e a scapito del legislativo.
Ad evitare di aggravare lo scompenso si dovrebbe pensare di sottoporre alla più libera discussione il disegno del governo, soprattutto in sede parlamentare, che — si ripete — è l’organo titolare del potere di revisione. Invece, si assiste alla chiusura di ogni spazio di dibattito: si impone una tempistica (entro il 25 maggio la prima lettura del senato), si esclude ogni confronto con le diverse proposte presentate da gruppi di parlamentari (quella ben più meditata presentata da 22 senatori dello stesso partito di Renzi), si preannunciano improprie sanzioni politiche in caso di fallimento del progetto governativo (far fallire le ambizioni del leader di governo verrebbe sanzionato con il classico e un po’ inquietante «tutti a casa»). Comportamenti formalmente legali (tutto ciò che non è vietato e possibile), cionondimeno sostanzialmente privi di legittimità (ponendosi in contrasto con i principi di fondo del nostro ordinamento politico).
Per quanto riguarda il metodo, dunque, può dirsi che esso tende ad imporre una decisione, sottraendo al legittimo titolare del potere di revisione — ma anche al libero dibattito dell’opinione pubblica — ogni spazio di discussione. È possibile avanzare delle critiche sul metodo senza per questo essere messi all’indice e tacciati di ostacolare le riforme? La richiesta di discutere nel merito e nelle sedi appropriate le riforme costituzionali è una esigenza sentita sola da disprezzati «intellettuali militanti»? Il fatto — sempre richiamato — che sono trent’anni che si parla di riforme può rappresentare una giustificazione per non discutere più nulla proprio nel momento in cui si cerca di dare seguito a questo dibattito?
Passiamo ora al merito. Per quanto riguarda la riforma del senato ho già argomentato sul manifesto del 25 marzo la mia opinione. Ora vorrei pormi solo la domanda che a me pare essere quella fondamentale per poter giudicare la proposta avanzata dal governo. Dopo l’approvazione della riforma avremmo rafforzato o indebolito il sistema parlamentare? Sarebbe infatti assai discutibile cambiare per sbilanciare ulteriormente gli equilibri tra i poteri, a favore del governo e a scapito del parlamento. Non è allora tanto un’astratta modellistica costituzionale che viene in gioco (ovvero la sua versione propagandistica: riduzione dei costi e odio alla casta), quanto l’effettivo ruolo che si vuole assegnare ai distinti poteri. Come scrivono i costituzionalisti, si tratta di ridefinire gli equilibri incrinati della forma di governo parlamentare italiana. Qui scatta l’allarme: secondo alcuni la riduzione della seconda camera a organo privato di legittimazione diretta e di funzioni di garanzia, senza un corrispettivo aumento dei poteri dell’altro ramo del parlamento, nonché la concentrazione di ulteriori poteri nelle mani del governo (la «ghigliottina» per l’approvazione delle leggi), rende questa riforma costituzionale temibile. È un sospetto infondato? Discutiamone. E invece no, non si può fermare il treno delle riforme. Non c’è dubbio che alcuni costituzionalisti possono apprezzare l’impianto del disegno di legge governativo (ci sarebbe da stupirsi se così non fosse), ma forse si dovrebbe dare ascolto anche alle voci dissenzienti. La politica di delegittimazione delle critiche e delle persone non allineate non solo è una caduta di stile, ma anche un’altro argomento di preoccupazione di una possibile «svolta autoritaria». Una frase che ha fatto irritare molti e ha scatenato reazioni allarmate.
Anche in questo caso — al di là dei toni eccessivi da tutti utilizzati — andiamo alla sostanza. Il rilievo che i modelli democratici stiano subendo una torsione autoritaria non mi sembra molto originale. Sono decenni che si discute di una riduzione degli spazi di partecipazione e di progressiva concentrazione del potere. In Italia, poi, sono vent’anni almeno che si assiste ad un graduale slittamento verso forme sempre più autocratiche di gestione del potere. La vera questione è allora: la riforma costituzionale annunciata accentua o restringe la tendenza alla riduzione degli spazi di democrazia? Indebolire il parlamento, aumentare i poteri del governo, non stabilire misure di riequilibrio e di garanzia a fronte di una legge elettorale con cui si vuole forzare la rappresentanza per conseguire lo scopo di assegnare ad un solo competitore la maggioranza assoluta dei seggi nell’unica camera politica rimasta, mi sembra riveli la direzione di marcia. Non è ancora sufficiente per parlare di «svolta autoritaria»? In effetti, si potrebbe anche dire che si sta semplicemente proseguendo sulla stessa strada del passato. Scoprendo così, finalmente, quel è il segno della svolta annunciata.
Giunti a questo punto sarebbe veramente auspicabile una seria discussione sulle politiche costituzionali. Dovremmo anzitutto aver chiaro però che non si cambia la costituzione solo per ragioni d’immagine, bensì per invertire una rotta che ci ha condotto ad indebolire progressivamente il sistema parlamentare e ad un’eccessiva concentrazione ed autoreferenzialità dei poteri, non compensata da una mitologia della governabilità senza popolo. È proprio da quella parte della dottrina che oggi viene accusata di aver bloccato per trenta anni il cambiamento costituzionale che sono state avanzate le proposte più radicali. Per dirne una: perché anziché limitarci a differenziare il bicameralismo non pensiamo ad adottare un sistema monocamerale eletto a suffragio universale con sistema proporzionale?
Qualcuno, lasciandosi prendere da un eccesso polemico, ha ritenuto di poter assimilare questa ipotesi all’attuale proposta di riforma. Forse vale la pena allora spiegare quel’è la differenza abissale: in un sistema democratico il monocameralismo pretende la rinuncia ad ogni distorsione della rappresentanza (un sistema elettorale proporzionale). Altro che «la sera delle elezioni si conosce chi governa per i successivi cinque anni», sarebbe il ritorno alla centralità dell’Assemblea dei rappresentanti. Un vero cambio di rotta. Chi è disposto a seguire questa via «rivoluzionaria»?
Se non si volesse essere così radicali e ci si volesse limitare a differenziare il bicameralismo, se inoltre non si volesse rinunciare alla malsana idea di adottare un sistema elettorale che assicura la governabilità sacrificando la rappresentanza (nella perversa forma ideata dall’Italicum), si dovrebbe quantomeno assicurare che la seconda camera possa bilanciare l’accentramento dei poteri. Costituendosi come senato di garanzia i cui membri non siano espressioni delle istituzioni, bensì rappresentanti scelti in base al principio di pura proporzionalità, con uno statuto che assicuri un forte peso politico di controllo alle minoranze.
Ma è difficile, di questi tempi, solo adombrare possibili scenari alternativi, bisognerebbe far comprendere ai soloni della riforma, che cambiare una costituzione non è solo un problema di velocità, ma anche di equilibrio.
«Il governo non risponde alle critiche sulla riforma elettorale e su quella del Senato e attacca le persone. Renzi e Boschi non sanno di cosa parlano. In confronto all’Italicum, la legge truffa del 1953 è un modello di garanzie. La riforma del Senato provocherà pasticci infiniti». Il manifesto, 5 aprile 2014
«La crisi infinita fa aumentare il divario tra il nord da una parte, il sud e l’est dall’altra. Le politiche dei Piigs aggravano la situazione: tagli a istruzione e ricerca, nessuna garanzia per chi rimane senza lavoro. La soluzione è inventare un modello sociale continentale, sottraendolo alle nazioni».
Il manifesto, 4 aprile 2014
Allo stesso tempo, il ruolo assunto dall’Unione Europea nel dettare le regole per affrontare la crisi ha ulteriormente indebolito lo spazio che hanno le politiche sociali e la costruzione di un modello sociale europeo nella costruzione della Unione.
Ovviamente, sia l’intensità di ciascuna di queste tre crisi distinte, il grado della loro interdipendenza, le risorse per affrontarli variano da paese a paese sulla base non solo della salute delle loro economie e del potere negoziale che hanno all’interno dell’Unione Europea, ma anche della lungimiranza che hanno avuto nel recente passato nell’affrontare la prima crisi. I paesi, infatti, che da più tempo si sono attrezzati per rispondere all’aumento nella partecipazione delle donne al mercato del lavoro, alla richiesta di maggiore eguaglianza tra uomini e donne, ai bisogni provocati dall’invecchiamento, alla necessità di non sprecare le proprie risorse umane creando condizioni di pari opportunità tra i bambini per correggere le disuguaglianze nell’origine famigliare, che hanno capito che un mercato del lavoro mobile e flessibile aveva bisogno di rafforzare e modificare le proprie reti di protezione, sono stati colti meno impreparati dalla crisi, con strumenti più adeguati. Anche se in tutti i paesi vi sono tensioni attorno a se e come ridefinire gli strumenti di welfare.
In questo contesto, non solo le politiche di austerità, ma il discorso con cui sono state argomentate a livello Ue, il diverso uso delle sanzioni e dei richiami che vengono fatti se si sfora il patto di stabilità piuttosto che se non si realizzano gli obiettivi sociali ha fortemente indebolito i welfare state già in partenza più deboli e più bisognosi di riforma, come quello italiano, facendo passare l’idea che il welfare state sia la causa, se non della crisi tout court, del debito pubblico.
Gli occhi di Bruxelles sono tutti per il deficit di bilancio. Il deficit sociale di alcuni paesi, tra cui l’Italia, con i tassi di povertà assoluta e deprivazione che aumentano, la disoccupazione che cresce, le politiche di conciliazione che non vengono neppure più nominate – benché vistosamente lontani dagli obiettivi di Europa 2020 – non produce né richiami, né ripensamenti della politica di austerità
«Ci sono soluzioni già note dai tempi del New Deal. L’austerità deve finire, bisogna rafforzare la domanda interna, ci vogliono investimenti pubblici nelle infrastrutture, nel campo della conoscenza. Noi europei non ci siamo indebitati per salvare le banche e poi osservarle da lontano mentre tengono chiusi i rubinetti per l’economia reale. Non abbiamo garanzie di successo ma la voglia di batterci sì, quella ce l’abbiamo ».
La Repubblica, 4 aprile 2014
«Ho fiducia nei cittadini di questo Paese. Sono convinto che le liste de “L’Altra Europa con Tsipras” troveranno le adesioni necessarie per partecipare a pieno titolo alle elezioni di maggio. Anzi, lancio un appello: Io, Alexis Tsipras, chiedo agli italiani di andare a firmare per l’unica vera forza politica controcorrente... ».
Lei dice: io non sono il candidato dell’Europa del Sud. Mi scusi ma lei chi rappresenta veramente?
«Io non sono il candidato di uno Stato o di una nazione, né di una periferia geografica e neppure rappresento alleanze fra Stati. Io sono un candidato della Sinistra Europea che presenta un programma politico e di priorità programmatiche per l’uscita definitiva e solidale dalla crisi e per la riconquista della democrazia in Europa. Sono il candidato di ogni cittadino europeo che combatte contro l’austerity, indipendentemente dal voto che questo cittadino esprime alle elezioni politiche nazionali e indipendentemente da dove questo cittadino vive».
Cosa pensa di Matteo Renzi e delle sue riforme del lavoro e costituzionali? Un dialogo con questo Pd sarà possibile?
«Non sono qui in Italia per criticare i vostri rappresentanti politici, tantomeno per commentare la vostra agenda di politica interna. Pensa che possa essere io a suggerire al vostro governo cosa deve fare e come lo deve fare o decidere quali interlocutori debbano scegliere i nostri compagni italiani? Assolutamente no. Le posso dire però che il signor Renzi va giudicato adesso e in futuro per le scelte che farà per il suo Paese e per il segno che esse porteranno. Sarà anche giudicato sulla base delle sue alleanze politiche in Europa».
Nel senso?
«Mi riferisco al percorso che Angela Merkel considera virtuoso per l’Italia, per la Grecia e per tutta la zona Euro. Bisogna sapere che quello è un binario morto».
Lei non è di quelli, come i populisti, che vogliono uscire dall’euro. Dopo le elezioni sarà inevitabile il dialogo con gli esponenti del Pse?
«Milioni di cittadini europei credono alla moneta comune, senza il corsetto dell’austerità, senza quelle politiche che allargano sempre di più la distanza tra ricchi e poveri in tutti i Paesi. Con i rappresentanti di questi cittadini possiamo trovare un linguaggio comune».
In Italia i dati sulla disoccupazione giovanile sono agghiaccianti. Si possono garantire nuovi posti di lavoro con nuove ricette?
«Ci sono soluzioni già note dai tempi del New Deal. L’austerità deve finire, bisogna rafforzare la domanda interna, ci vogliono investimenti pubblici nelle infrastrutture, nel campo della conoscenza. Noi europei non ci siamo indebitati per salvare le banche e poi osservarle da lontano mentre tengono chiusi i rubinetti per l’economia reale. Non abbiamo garanzie di successo ma la voglia di batterci sì, quella ce l’abbiamo ».
Tsipras ma un’altra Europa è possibile?
«La storia dell’umanità è piena di sogni che sono diventati realtà. Queste elezioni sono un inizio potente per rifondare l’Europa».
C'è chi. come Zagrebelsky nell'intervista di Liana Milella, continua con tenacia a esprimere le ragioni della ragione. Ma c'è chi ha venduto la sua faccia a una ditta di demolizioni, e dietro la faccia non ha mai avuto un gran che. E ci sono le teste di paglia che lo seguono, e i caimani che gli indicano la strada.
La Repubblica, 3 aprile 2014
Lei non è mai stato tenero con chi ha messo o tentato di mettere mano alla Carta. Sono storiche le bacchettate a Berlusconi. Con Renzi non è che si sta superando?
«C’è un disegno istituzionale che cova da lungo tempo e che, oggi, a differenza di allora, viene alla luce del sole. Gli oppositori d’un tempo sono diventati sostenitori. Delle due, l’una: o tacere, con ciò acconsentendo di fatto, o parlare forte. È quanto s’è fatto col documento di Libertà e Giustizia».
Non la imbarazza che Grillo l’abbia firmato?
«Perché dovrebbe? Se, su una certa materia, si condividono le stesse idee… C’è un fondo d’intolleranza, in questa domanda che da molte parti ci è posta. M5S ha aderito all’appello per la difesa della democrazia costituzionale: è un brutto segno? Semmai, il contrario. Poi si vedrà».
È seccato perché Renzi ha detto che non dà retta a professori come lei e Rodotà?
«Non è questione di “dar retta”, ma di ragionare e soppesare gli argomenti. Sarà lecito invitare chi deve prendere le decisioni a considerare le cose “da tutti i lati”?».
E quale sarebbe il «lato» che manca?
«L’antiparlamentarismo. Ora s’abbatte sul Senato, capro espiatorio di mali collettivi. È un sentimento elementare che non s’accontenta di qualcosa ma vuole tutto. “Tutto” significa il demiurgo di turno: fuori i trafficanti della politica, i profittatori, i corrotti, gli incompetenti, i chiacchieroni. Eppure, negli anni trascorsi, non sono mancati gli avvertimenti. Si è chiesta “dissociazione”: per riconciliarsi con i cittadini. Siamo stati accusati di antipolitica, di populismo: noi, che ci preoccupavamo di quel che stava accadendo; loro, che preferivano non vedere. E ora, proprio di questo vento gonfiano le vele. Chi sono allora gli antipolitici, i populisti, i demagoghi?».
Ma è un nostalgico del bicameralismo perfetto?
«Per nulla. Ma per mettere mano a una riforma, bisognerebbe chiarirsene il senso. Qual è la vocazione di tutte le “seconde Camere”? I Senati devono corrispondere a un’esigenza di precauzione. La democrazia rappresentativa ha un difetto: divora risorse, materialie spirituali. È una vecchia storia, alla quale non ci piace pensare. I Senati dovrebbero servire ai tempi lunghi, dato che la democrazia rappresentativa pensa ai tempi brevi, i Senati dovrebbero servire ai tempi lunghi: dovrebbero essere “conservatori di futuro”».
Il Senato finora non l’avrebbe fatto?
«Non in misura sufficiente. Per questo, non sono un nostalgico. Mi piacerebbe che si discutesse d’un Senato autorevole, elettivo, per il quale valgano rigorose norme d’incompatibilità e d’ineleggibilità, diverso dalla Camera dei deputati, sottratto però all’opportunismo indotto dalla ricerca della rielezione. Una volta, i senatori erano nominati a vita. Oggi, la nomina e la durata vitalizia non sarebbero “repubblicane”. Ma si potrebbe prevedere una durata maggiore, rispetto all’altra Camera (come era originariamente), e il divieto di rielezione e di assunzione di cariche politiche ».
Ciò significherebbe differenziare i poteri delle due Camere?
«Per ciò, si dovrebbe andare oltre il bicameralismo perfetto, non per umiliare ma per valorizzare: eliminare il voto di fiducia, ma prevedere un ruolo importante sugli argomenti “etici”, di politica estera e militare, di politica finanziaria che gravano sul futuro. Altro potrebbe essere il controllo preventivo sulle nomine nei grandi enti dello Stato, sul modello statunitense. Sarebbe uno strumento di lotta alla corruzione e di bonifica nel campo dove alligna il clientelismo. Insomma, ci sarebbe molto di serio da fare».
Il manifesto, 2 aprile 2014
La crisi italiana sta producendo uno dei fenomeni politici più inquietanti, oggi, in Europa: un populismo di tipo nuovo, virulento e nello stesso tempo istituzionale. Tanto più preoccupante perché emergente non al margine ma nel centro stesso del sistema di potere. Non dal basso (come avviene per i movimenti così etichettati) ma “dall’alto” (dal cuore del potere esecutivo, dal Governo stesso), assumendo come vettore (altro paradosso) l’unico partito che continua a definirsi tale.
E che fino a ieri tendeva a presentarsi, a torto o a ragione, come la principale barriera contro le derive autoritarie e populistiche. Mi riferisco al rozzo Stil novo introdotto da Matteo Renzi, con la convinzione che non si tratti, solo, di una questione di stile. O di comunicazione, come frettolosamente lo si classifica. Ma che tutto ciò che si consuma sotto i nostri occhi alluda a una mutazione genetica del nostro assetto istituzionale e dell’immaginario politico che gli fa da contorno, in senso, appunto, populista.
Se infatti per populismo si intende l’evocazione (in ampia misura retorica) di un “popolo” al di fuori delle sue istituzioni rappresentative e per molti versi contrapposto alla propria stessa rappresentanza (al corpo dei propri rappresentanti riconfigurati in “casta”), allora non c’è dubbio che Renzi ne interpreta una variante particolarmente virulenta. E’ tipico di Renzi, da quando ha varcato la porta di palazzo Chigi, lavorare per aggirare e tendenzialmente liquidare ogni mediazione istituzionale (a cominciare dal Parlamento) per istituire un rapporto diretto capo-massa.
Le maniche di camicia ostentate nei palazzi del potere (come fosse il leader di un movimento di descamisados anziché provenire da una tradizione democristiana di lungo corso e da uno dei più formalistici pezzi dell’establishment quale è stato in questi anni il Pd). Il lessico da ricreazione scolastica, anche dove si parla di cose serie. Il discorso al Senato — lo ricordate? -, volutamente sgangherato, informalmente involgarito, con quello sguardo perduto lontano, nell’occhio delle telecamere per sembrare puntato sull’intimità delle famiglie, comunque oltre i volti preoccupati dei senatori seduti davanti… Tutto allude a una volontà, esplicita, di far tabula rasa della “società di mezzo”, delle molteplici strutture di mediazione del rapporto tra popolo e Stato, che siano le forme consolidate della democrazia rappresentativa (il Parlamento in primo luogo), o quelle sperimentate della rappresentanza sociale e dei gruppi di interesse (sindacati, Confindustria, liquidati tutti come concertativi). E di verticalizzare quel rapporto sull’asse personalizzato dell’uomo solo al comando. Del “mi gioco tutto io”. Anche “quello che è vostro”.
Ora non c’è dubbio che in questa spericolata operazione Renzi può contare su un dato sacrosanto di realtà, costituito appunto dalla macroscopica crisi della Rappresentanza. Dei suoi soggetti e dei suoi istituti, ben visibile nei fatti di cronaca: nell’impotenza mostrata dal Parlamento a più riprese, dalla crisi che portò al governo Monti alle vergognose scene che accompagnarono l’elezione del Presidente della Repubblica. Nel discredito dei parlamentari (quasi tutti), dei consiglieri regionali, degli amministratori provinciali e comunali, giù giù a cascata lungo tutta la scala degli organi elettivi, nessuno salvo. Persino nello status dei protagonisti attuali: nessuno dei tre leader che si spartiscono la scena, da Grillo, a Berlusconi a Renzi stesso è un “parlamentare”. Ma a differenza di chi di quella crisi non ha voluto neppur prendere atto (la precedente maggioranza Pd, che infatti si è andata a schiantare senza neppure capire perché), e di quanti (pochi) su quella crisi si arrovellano per cercarne una uscita in avanti (noi della lista per Tsipras, per fare un nome), Renzi ha deciso di quotarla alla propria borsa.
E’ il primo che ha scelto consapevolmente di capitalizzare sulla crisi degli ordinamenti rappresentativi. Per valorizzare il proprio personale ruolo nel quadro di un modello di gestione del potere esplicitamente post-democratico. O, diciamolo pure senza temere di apparire retrò, anti-democratico. Fondato su una forma estrema di decisionismo, non più neppure legittimata dai contenuti, ma dal metodo. Decidere per decidere. Decidere in fretta. Anzi, fare in fretta anche senza decidere, perché comunque, quello che conterà al fine del consenso, non sarà un fatto concreto ma piuttosto il racconto di un fare (Crozza docet).
Per questo hanno ragione, terribilmente ragione, gli autori del documento di Libertà e giustizia, laddove denunciano il reale rischio di un autoritarismo di tipo nuovo. Basato sullo sconquasso dell’architettura istituzionale e sulla rottamazione dell’idea stessa di democrazia rappresentativa, fatta con giovanilistica noncuranza (con “studentesca spensieratezza”, per usare un’espressione gobettiana), nel quadro di una partita in cui l’azzardo prevale sul calcolo, la velocità sul pensiero. E’ possibile, come temono (o sperano) in molti, che Matteo Renzi “vada a sbattere”. Che, come il cattivo giocatore di poker costretto a rilanciare continuamente la posta ad ogni mano perduta, alla resa dei conti (all’emergere dell’iceberg sommerso del fiscal compact e delle decine di miliardi da pagare) faccia default. Prima o poi. Ma, appunto, dalla vicinanza di quel prima o dalla distanza di quel poi dipende l’ampiezza dei danni (irreversibili) che è destinato a fare. Dentro questa forbice temporale, si gioca la possibilità di costruire un’alternativa politica, di sinistra, partecipativa, non arresa ai vincoli europei, come vuole l’Altra Europa con Tsipras, e al malaffare italiano. Anche solo una testa di ponte, per tenere quando si dovranno calare le ultime carte.
La Repubblica, 2 aprile 2014
La democrazia deve cambiare forma e rimpicciolirsi, a causa della crisi? E andando alla sostanza: c’è un tempo per la democrazia e uno per l’economia — come c’è un tempo per piangere e ridere, per demolire e costruire — diversi l’uno dall’altro e concepibili solo in successione?A giudicare da quel che accade in Italia si direbbe che questo sia il convincimento di chi governa, quando non riesce a fronteggiare il degrado democratico nei modi che scelse il cancelliere Willy Brandt, in un altro momento critico della storia recente.
«Quel che vogliamo è osare più democrazia», disse Brandt il 28 ottobre 1969, e promise metodi di governo «più aperti ai bisogni di critica e informazione » espressi dalla società, «più discussioni in Parlamento », e una permanente concertazione «con i gruppi rappresentativi del popolo, in modo che ogni cittadino abbia la possibilità di contribuire attivamente alla riforma dello Stato e della società ». Ai cittadini si chiedeva più responsabilità (specie ai giovani contestatori del ‘68): ma i doveri s’iscrivevano in una democrazia più estesa, partecipata.
Non sembra vadano in questo senso le riforme costituzionali del Premier Pd, né le parole di chi gli è vicino, riportate su questo giornale da Claudio Tito: «Per governare efficacemente nelXXIsecolo serve soprattutto velocità: approvazione o bocciatura rapida dei disegni di legge e capacità di mantenere la sintonia con tutti i componenti della squadra ». Velocizzare, semplificare, dilatare i poteri dell’esecutivo: questi gli imperativi. Cambiano le sequenze, perfino i vocaboli: prioritaria diventa la rapidità, e i ministri sono «componenti di squadre».
Renzi non è il primo a dire queste cose, né l’Italia è l’unica democrazia debilitata dalla crisi. Sono spesso così, gli interregni: ci si congeda dal vecchio ordine, e al suo posto se ne insedia uno che solo in apparenza rispecchia le mutazioni in corso. Ovunque i governi sentono che la terra trema, sotto di loro, e imputano il terremoto a una democrazia troppo lenta, a elezioni troppo frequenti. Denunciano a ragione la fatica dell’azione, ma si guardano dallo smascherarne i motivi profondi. La perdita di sovranità e il trasferimento dei poteri reali verso entità internazionali spoliticizzate sono il problema, non i «lacci» interni che sono la Costituzione, i sindacati, addirittura il suffragio universale. Il farmaco non è la velocità in sé, ma il cambio di prospettiva. L’equivoco è ben spiegato dal sociologo Zygmunt Bauman: la crisi del governare è indubbia, «benché in definitiva sia una crisi di sovranità territoriale» (Repubblica 29/3).
Renzi non smaschera i mali autentici, quando propone l’accentramento crescente dei poteri in mano all’esecutivo, la diminuzione degli organi eletti dal popolo, lo svigorimento di istituzioni e associazioni nate dalla democrazia: Senato in primo luogo, ma anche sindacati e perfino soprintendenze (il cui scopo è quello di occuparsi del patrimonio artistico italiano resistendo ai privati). Una delle sue frasi emblematiche è: se Cgil o Confindustria s’oppongono, «ce ne faremo una ragione». I traumi ci saranno, ma alla lunga la loro razionalità sarà chiara. C’è una differenza, fra la sua accelerazione e quella di Brandt.
Scansare gli ingombri della democrazia è una tentazione ormai antica in Italia. Cominciò la P2, poi seguita da Berlusconi. Ma il pericolo di una bancarotta dello Stato, e i costi di una politica colpita dal discredito, hanno dato più forza a queste idee, seducendo governi tecnici e anche il Pd. Memorabile fu la dichiarazione di Monti, intervistato dallo Spiegel il 5 agosto 2012. Accennando ai veti opposti dai Paesi nordici alle decisioni europee, e al mandato affidatogli dalla Camera (difendere a Bruxelles gli eurobond), disse:«Capisco che debbano tener conto del loro Parlamento, ma ogni governo ha anche il dovere di educare le Camere. (...) Se io mi fossi attenuto in maniera del tutto meccanica alle direttivedel mio Parlamento, non avrei mai potuto approvare le decisioni dell’ultimo vertice di Bruxelles. Se i governi si lasciano totalmente ingabbiare dalle decisioni dei Parlamenti senza preservare la propria libertà di agire, avremmo lo sfaldamento dell’Europa».
Renzi dunque completa ragionamenti già in circolazione, e li trasforma in «spirito del tempo». Quel che non aveva previsto, era la critica che sarebbe venuta dal presidente del Senato Pietro Grasso, oltre che l’allarme creatosi fra costituzionalisti come Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà. La riforma potrebbe indebolire la democrazia, sostiene Grasso nell’intervista a Liana Milella su Repubblica di domenica. Mutare il ruolo del Senato e abolire le Province è importante, ma qui si stanno facendo altre cose. Il Senato resta, solo che cessa di essereelettivo. E restano di fatto le Province, anch’esse non più elettive ma governate da dirigenti comunali.
L’ambizione è liberare l’Italia dai lacci che l’imbrigliano, ma la paralisi decisionale non si supera riducendo gli organi intermedi creati per servire l’interesse generale, o rendendoli non elettivi. Tantomeno può imbarcarsi in simile impresa un Parlamento certo legale, ma che la Consulta ha sostanzialmente delegittimato giudicando incostituzionale il modo in cui è stato eletto.
Più fondamentalmente, l’impotenza dei governi non si sormonta ignorando il male scatenante che è appunto la loro dipendenza dai mercati, e cioè da forze anonime, non elette, quindi non licenziabili. Sono loro a decidere il lecito e l’illecito. È stata la JP Morgan a sentenziare, in un rapporto del 28-5-13, che l’intralcio, nel Sud Europa, viene da costituzioni troppo influenzate dall’antifascismo postbellico: costituzioni «caratterizzate da esecutivi e stati centrali deboli, dalla protezione dei diritti del lavoro, dal diritto di protesta contro ogni mutamento sgradito dello status quo».
Così come dalla crisi europea si esce con più Europa, anche dalla crisi delle democrazie si esce con più democrazia. Lo disse fin dall’800 Tocqueville, esaminando i difetti delle società democratiche. Si esce ampliando i sistemi del check and balance, dei controlli e contrappesi: frenando con altri poteri la tendenza del potere a straripare. I continui conflitti sociali e istituzionali sono un rischio delle democrazie, non una maledizione. Sbarazzarsene con leggi elettorali non rappresentative o eludendo le obiezioni («ce ne faremo una ragione») sfocia nel contrario esatto di quel che si vuole: i conflitti inacidiscono, l’opposizione non ascoltata disimpara a trattare. Resta il rapporto diretto fra leader e popolo, non dissimile dall’»unzione » plebiscitaria di Berlusconi. E Renzi neppure è un Premier eletto. Quando parla di «promesse fatte agli italiani », non si sa bene a cosa si riferisca.
Salvare le costituzioni in un solo Paese non è possibile: questo è vero e andrebbe detto. Occorre che l’Europa e il mondo si dotino di strumenti democratici per governare poteri già sconnessi dalle sovranità territoriali: gli interessi finanziari e commerciali, l’informazione, il commercio della droga e delle armi, la criminalità, il terrorismo. Manca un ordine nuovo che li controlli, e cui i cittadini aderiscano non più nazionalmente (è impossibile) ma per patriottismo costituzionale, come preconizzato nel ‘79 dal filosofo liberale Dolf Sternberger, prima che Habermas resuscitasse il concetto.
«Il manifesto, 2 aprile 2014
Il disegno di legge costituzionale approvato ieri dal Consiglio dei ministri per il “superamento” del bicameralismo perfetto non ha il solo obiettivo che dichiara. Quello che declama è secondario, strumentale. La sostituzione del Senato paritario con questo fantomatico assembramento di presidenti di regione, di due delegati di ogni regione, di sindaci e di “nominati” dal Capo dello stato in numero corrispondente a quello delle regioni non mira solo allo svuotamento esplicito di potere di quel ramo del Parlamento (lo si potrà ancora chiamare cosi?) ma a qualcosa di più rilevante e inquietante.
Anche più che inquietante. Non uso a caso un termine di tal tipo. Di fronte abbiamo l’estremismo revisionista che sfocia nell’assolutismo maggioritario. Il superamento del bicameralismo del progetto renziano non è affatto diretto a concentrare in una sola Camera la forza della rappresentanza nazionale, come chi scrive propose alla Camere (IX Legislatura proposta di legge cost. n. 2452) in rigorosa coerenza con il costituzionalismo democratico della sinistra. Si viveva in ben altro clima, in una stagione della storia repubblicana del tutto diversa dall’attuale. Era il 1985, i partiti c’erano, erano di massa ed erano quegli stessi dell’Assemblea costituente, il regime elettorale era quello proporzionale, gli anticorpi allo strapotere delle maggioranza gli erano impliciti ed inestricabili.
Mira all’opposto del rafforzamento della rappresentanza popolare il disegno di Renzi, mira ad eliminarne una sede, un organo, una istituzione. Privato della partecipazione al potere di indirizzo politico, il Senato delle autonomie non eserciterà neanche una funzione legislativa di qualche rilievo. Non è organo parlamentare una assemblea che non la esercita, disponendo solo del potere di emendamento il cui esercizio non produce effetti di qualche consistenza. Ma come configurato, il Senato delle autonomie non può rilevare come espressione di una qualche forma di democrazia.
A comporlo non vi saranno rappresentanti della Nazione ma i mandatari degli enti regionali e comunali o perché titolari di organi di enti regionali o comunali o perché scelti da tali titolari di organi di enti regionali o comunali.
Come dimezzata, contratta, svuotata è la rappresentanza politica configurata dalla legge elettorale per la Camera dei deputati, il renzusconum. Il cui obiettivo — e lo abbiamo scritto e motivato — è la distorsione della rappresentanza parlamentare e la sua riduzione a funzione servente del premierato assoluto con tensione alla monocrazia.