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«Micromega newsletter, 14 aprile 2024

Voce bassa, idee chiare. Come al solito. Gli 80 euro? “Uno spot, era meglio investire quei soldi in nuova occupazione”. La Cgil? “Sta appannando la bandiera di vero sindacato”. E sul Job Act, “è un progetto vecchio vent’anni che porterà all’estremo la precarietà”. Il sociologo Luciano Gallino riflette sulle misure del governo Renzi - dal Def al provvedimento del ministro Poletti - arrivando ad una netta bocciatura: “Sul lavoro non c’è quel cambiamento auspicato”.

Professore, partiamo proprio dal Def. Dopo settimane di annunci e proclami, sembra che la montagna abbia partorito un topolino. Il premier Matteo Renzi ha deciso di rispettare i vincoli imposti dall’Europa rinunciando ad utilizzare il margine fino al 3% del deficit annuo. Non doveva avere più coraggio nei confronti della trojka?
Sicuramente, ma Renzi esprime un governo e una classe politica interamente supina nei confronti dei dettati dell’Europa, i quali invece vanno messi in discussione. Per farlo ci vorrebbero due prerogative, avulse all’attuale governo: una vera forza politica nazionale e le competenze per poter intervenire su punti specifici.

Tra la varie misure ipotizzate, i mille euro all'anno per i dipendenti che ne guadagnano meno di 25mila lordi. È un reale antidoto per contrastare la crisi o le appare una mossa più che altro propagandistica? E, per Lei, ha una reale copertura economica?
Non si è ancora ben capito da dove arriveranno i fondi. Pur ipotizzando che abbiano trovate le risorse sufficienti, siamo ad una “partita di giro” per i cittadini: si toglie da un lato per spostarlo all’altro, si mette un’esigua cifra in tasca alla gente e si preleva altrove. L’operazione ha un grande impatto mediatico, 10 miliardi per 10 milioni di persone è uno spot che rimane impresso nelle menti. Ma siamo nel campo di interventi a pioggia a fronte di una recessione gravissima nel Paese e in Europa. Quei fondi si sarebbero dovuti concentrare su qualche singolo aspetto con effetti a breve e sicuri.

Per esempio?
Con 10 miliardi di euro si creano quasi un milione di posti di lavoro, a 1200 euro netti al mese più i benefici del caso. L’impatto sull’economia sarebbe stato più forte: questi 80 euro non cambiano infatti le sorti delle persone, mentre concentrati su un tot di cittadini questa cifra avrebbe inciso nelle loro vite. Renzi ha preferito lo spot ad effetto al reale cambiamento.

Passiamo al Job Act, qual è il suo giudizio?
Siamo di fronte ad un conducente che affronta una strada tortuosa di montagna guardando soprattutto nello specchietto retrovisore. Una cosa pericolosa. Da non fare.

Ci spieghi meglio…
Il progetto del Job Act nasce vecchio. Di vent’anni. Nel 1994 l’OCSE – uno dei tanti organismi internazionali che entra negli affari dei singoli Stati raccomandando sempre flessibilità, taglio dello stato sociale, concertazione etc… –produsse uno studio sull’indice di LPL (Legislazione a Protezione dei Lavoratori), un indicatore di rigidità del mercato: riteneva che tanto più alto fosse l’indicatore quanto più alta era la disoccupazione. Da allora molti giuristi, economisti, sociologi hanno dimostrato come lo studio fosse stato scritto scegliendo prima le conclusioni, ovvero dall’idea che bisognava smantellare e ridurre la protezione giuridica del lavoro per creare nuovi posti di lavoro, e solo successivamente analizzati i dati che, ovviamente, suffragavano quest’impostazione. In realtà non c’è alcuna conferma che il taglio dell’indice LPL possa portare ad aumento dell’occupazione. Nel 2006 la stessa OCSE, dopo una serie di risultati, ha ammesso la contraddittorietà del fondamento. L’indice LPL per l’Italia nel 1994 era superiore al 3,5, dopo 12 anni con le riforme delle leggi Treu 1997 e Maroni-Sacconi 2003 era sceso ad 1,5. Più che dimezzato. I precari sono diventati 4 milioni. La riforma Fornero ha seguito la stessa scia e ora il Job Act, a favorire ancora la mobilità in uscita. Nel 2014 siamo con progetti lanciati su scala nazionale nel 1994 e l’idea di continuare a perseverare con la medesima tecnica, che ha prodotto l’attuale disastro sociale, è preoccupante.

Quindi boccia il concetto di precarizzazione espansiva, ovvero l’idea è che attraverso ulteriori dosi di precarizzazione del lavoro si dovrebbe generare una crescita dei redditi e dell’occupazione?
La precarietà mina la vita di milioni di persone, com’ è evidente dagli ultimi 15-20 anni. Distrugge professionalità, costringendo una persona nell’arco di 10 anni a passare da un mestiere all’altro penalizzando esperienze magari indispensabili. E inoltre riduce la produttività del lavoro come si palesa nelle statistiche. In Italia, culla della precarietà, le imprese ottengono un minimo di profitto e fanno quadrare il bilancio tagliando sul costo del lavoro e puntando sulla compressione salariale dei dipendenti o sulla loro estrema flessibilizzazione. Invece di investire su tecnologia qualificata, innovazione, ricerca e nuovi settori produttivi. Così la precarietà non rappresenta una pessima strada solo per le condizioni di vita dei lavoratori ma anche per l’economia perché incentiva una strada sbagliata.

L’associazione di giuristi democratici ritiene incompatibile il Job Act con il diritto comunitario, per questo ha denunciato l’Italia e il presidente del consiglio Renzi alla Commissione europea. Che ne pensa?
Azione meritoria che sottoscrivo, senz’altro.

Durante il congresso della Fiom. Il segretario Maurizio Landini ha attaccato duramente la Cgil di Susanna Camusso. Siamo alle porte di un quarto sindacato confederale?
Mi dispiaccio del conflitto interno alla prima grande confederazione italiana che porta ancora la bandiera di vero sindacato, ovvero quell’organizzazione capace di aprire discussioni, avanzare vertenze e produrre conflitti a vantaggio del lavoratore. La Cgil è l’ultima a rappresentare quest’idea di sindacato. Ultimamente, però, con Camusso questa bandiera si è appannata. L’unico soggetto che riesce a tenerla alta è la Fiom.

Sul comportamento del braccio armato del potere: «Ha torto chi dice: ad un’offesa si reagisce con l’offesa, e chi per principio prova a dimostrare che la provocazione è partita dalla piazza».

La Repubblica, 17 aprile 2014 (m.p.r.)

La premessa è che vorremmo poterci fidare della polizia. Dovremmo. La polizia rappresenta lo Stato, e lo Stato siamo noi. Lo Stato sono le istituzioni che rappresentano i cittadini e sono i cittadini che delegano altri cittadini a rappresentarli,col voto democratico . In un regime democratico le istituzioni sono al servizio di chi dà loro mandato ad esercitare un potere di governo e non viceversa. Lo Stato ci tutela dalle ingiustizie e dai soprusi, non li esercita. Questo è quello che insegniamo ai nostri bambini a scuola, fin dalle elementari.

Sabato scorso si è svolta a Roma una manifestazione che aveva come oggetto, appunto, il diritto alla casa. Le immagini degli scontri e delle violenze sono lì, non c’è molto da commentare. In alcune si vedono manifestanti vestiti di nero con gli elastici delle fionde tesi, in altre poliziotti, ugualmente vestiti di nero, che colpiscono coi manganelli e prendono a cal- ci persone disarmate e già a terra. Nell’epoca dei telefonini, nel tempo in cui di ogni evento ci sono decine e decine di filmati c’è davvero poco da discutere: i fatti sono questi. Ha torto chi dice: ad un’offesa si reagisce con l’offesa, ha torto per principio chi prova a dimostrare che la “provocazione” è partita dalla piazza, in molti lo fanno in queste ore — provano a mostrare che, come direbbe un bambino, “hanno cominciato loro”. È questo il senso delle parole del prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, intervistato oggi da Carlo Bonini: contesta il capo della Polizia Alessandro Pansa che aveva definito l’artificiere che ha calpestato la ragazza a terra «un cretino da identificare». Non un cretino, dissente Pecoraro, ma «uno che dava una mano ai suoi colleghi». Come se fossero due eserciti che, sullo stesso piano, si affrontano. Questo è l’equivoco, se di buona fede si tratta: che sia una battaglia combattuta ad armi pari tra pari, dove ci si dà manforte fra eserciti contrapposti, e non quel che è, invece. Da una parte cittadini che manifestano, dall’altra esponenti delle istituzioni che rappresentano anche quei cittadini, e che sono chiamati a tutelare l’incolumità di tutti: anche dei manifestanti.

È dal G8 di Genova che si è persa questa nozione elementare. È lì, nelle molotov messe ad arte a posteriori per giustificare l’assalto alla scuola Diaz, la ferita originaria mai più rimarginata. Abusi e violazioni da parte di chi dovrebbe per mandato garantire la sicurezza di tutti sono poco a poco, omeopaticamente, divenuti una circostanza di fatto.

Senza arrivare al rosario di morti che da Giuliani passa per Uva, Sandri, Cucchi, Aldrovandi; senza difendersi dietro la retorica delle “mele marce”, ché come dice l’ex capo dell’ispettorato di polizia inglese John Woodcock: «Non credo nelle mele marce, il problema non riguarda un’individuale predisposizione alla trasgressione ma un deficit strutturale, culturale». Il problema non è, in fondo, neppure il singolo episodio di abuso: la vera questione è quale sia la reazione istituzionale all’abuso. Nel caso delle piazze come delle curve calcistiche: quale la risposta di chi detiene il potere alla violazione e all’abuso di potere.

Non si hanno segnali, sinora, di una levata di scudi di chi dovrebbe e potrebbe evitare la violenza in divisa. Al contrario, ogni richiesta di identificare le “mele marce”, per esempio con un numero che consenta di riconoscere gli agenti anonimi come in molti Paesi del mondo accade, è stata accolta quasi come una provocazione. Da ministri di precedenti governi, dai sindacati di polizia — da ultimo, qualche giorno fa, Franco Maccari del Coisp ha bollato il numero identificativo come una proposta sciocca e inutile. Sono molti però — La maggioranza? — i poliziotti a disagio. Sono molti gli agenti che non si riconoscono in questa difesa corporativa, che prendono le distanze dalla logica degli eserciti contrapposti. Noi e loro, noi contro di loro. Proprio per non fare di ogni erba un fascio, proprio per dare atto a chi fa il suo dovere per uno stipendio infimo, proprio per chi veste una divisa con coraggio e dignità sarebbe indispensabile, invece, adottare strumenti che consentano di identificare i violenti protetti dall’uniforme. E chiamare alle loro responsabilità i violenti senza uniforme, evidentemente. Per il bene di tutti. Dello Stato, cioè di tutti. Ha torto chi dice: ad un’offesa si reagisce con l’offesa, e chi per principio prova a dimostrare che la provocazione è partita dalla piazza

«Lavoce.info, 15 aprile 2014

Un decreto dalle molte incertezze. Il decreto legge n. 34/2014 è stato criticato da più parti, oltre che nel merito, soprattutto per una questione di metodo, data l'evidente contraddizione tra liberalizzazione dei contratti a termine e introduzione di un contratto di inserimento “a tutele crescenti” come strumento di razionalizzazione delle forme contrattuali annunciato dal Jobs Act e ora previsto dal disegno di legge delega. Alla critica il Governo ha replicato invocando la politica dei due tempi: il decreto servirebbe ora a dare una “scossa”, per favorire assunzioni semplificate, il disegno organico si farebbe dopo, attuando la legge delega. Ma è proprio così? Davvero siamo di fronte a una liberalizzazione semplificatrice?

Mettiamoci nei panni di una impresa che voglia assumere con un contratto a termine. Il decreto dice che il primo contratto può essere stipulato senza causale e prorogato ovvero rinnovato sempre senza causale per otto volte fino a tre anni. È quello che il decreto dice ora: non si sa, però, cosa dirà fra qualche settimana quando sicuramente in sede di conversione qualcosa verrà cambiato, come ha annunciato lo stesso Governo. Forse è meglio attendere. Già questo è un primo effetto negativo della legislazione stop and go all’italiana: non si sa mai quale sia la normativa attendibile. Ma nel caso si decida ugualmente di assumere c’è da chiedersi quale termine di scadenza sia meglio indicare: allo stato attuale si potrebbe assumere con un termine abbastanza lungo, ad esempio per quattro o sei mesi, dato che otto proroghe in tre anni danno ampio margine.

Ma se poi, in sede di conversione, come già si dice, le proroghe vengono ridotte e si passa a un arco di tempo inferiore, il termine lungo non conviene: meglio due mesi, massimo tre. Ecco che la legislazione variabile produce un altro effetto negativo, la ulteriore frammentazione dei termini, che non serve né alle imprese che vogliano investire sul lavoratore e non solo averlo come usa e getta, né, tanto meno, ai lavoratori, che in quel periodo piuttosto che cercare di legarsi all’impresa cercheranno altre forme di impiego solo che ne abbiano l’opportunità. Il decreto dice anche che si può assumere o prorogare senza causa per il primo contratto e per le stessa attività lavorativa: ma se quel lavoratore è stato già assunto in passato, quand’è il “primo” contratto, e come si calcolano le diverse forme di assunzione temporanea (lavoro a termine, somministrazione, altre possibili forme atipiche), si sommano o no? E che succede se nel frattempo tra una precedente assunzione e nuove proroghe c’è un cambio di mansioni?

Comunque, si può obiettare che c’è da stare tranquilli perché ora è fissato un limite massimo di assunzioni a termine nel 20 per cento dell’organico, questa è una cosa sicura. Già, ma come si calcola la percentuale? Nel 20 per cento vanno incluse anche le assunzioni interinali e nell’organico vanno calcolati anche i contratti di collaborazione o le partite Iva? E che accade se il contratto di categoria stabilisce una limite inferiore? Siamo poi sicuri che la legge dia un colpo di spugna ai contratti vigenti? E se per caso l’impresa ha superato quel limite non essendo prima soggetta a vincoli quantitativi, deve licenziare i lavoratori temporanei in soprannumero? E se con le varie proroghe accade che una lavoratrice entri in maternità, siamo sicuri che non riassumendola non si incorra in un atto discriminatorio? Ed è proprio vero che tutta questa bella liberalizzazione mette al riparo dal contenzioso giudiziario? Non è che il lavoratore assunto senza causa e prorogato invoca la direttiva comunitaria che vieta le reiterazioni abusive dei contratti a termine, per la quale le assunzioni “sono di norma a tempo indeterminato” e si finisce alla Corte di giustizia europea?

È bene tenere presente che quella direttiva è scritta in inglese, quindi non ha bisogno di essere “traducibile”, è comprensibile in tutte le lingue europee. L’elenco delle incertezze interpretative potrebbe continuare a lungo: basta vedere quanto hanno detto non i sindacati, ma gli esperti e gli operatori nelle audizioni alla Commissione lavoro della Camera per rendersene conto.

La questione dell'apprendistato. Si dirà, ma c’è pur sempre il buon contratto di apprendistato, molto conveniente sul piano contributivo e retributivo, ora semplificato, senza più l’obbligo del piano formativo scritto, della formazione trasversale e del vincolo di assunzione di almeno il 30 per cento di apprendisti come condizione per assumerne di nuovi. Già, ma è molto probabile che qualcuno di questi obblighi sia reintrodotto in sede di conversione parlamentare perché ci si è resi conto che un apprendistato senza formazione assomiglia come una goccia d’acqua ai vecchi contratti di formazione lavoro, a suo tempo caduti sotto la scure delle autorità comunitarie.

Meglio aspettare, quindi, e alla faccia della “scossa” o non si assume o si assume con un termine il più breve possibile. Queste sono le conseguenze della semplificazione malfatta, della semplificazione che complica, già largamente sperimentata negli scorsi dieci anni nella caotica legislazione sul mercato del lavoro, sempre annunciata in nome della flessibilizzazione e della liberalizzazione. Meglio tenerlo presente, anche per non ripetere l’errore a scala più grande, quando si tratterà di attuare la legge delega che annuncia il vasto programma del codice del lavoro naturalmente “semplificato”. Forse è il caso di stare a vedere se i provvedimenti economici del Governo producono qualche risultato in termini di crescita della domanda e, nel frattempo, dare corso a una sana moratoria legislativa ovvero a una più approfondita riflessione.

E' davvero interessante che un notista politico così acuto e informato si limiti a constatare che in Italia il gioco è interamente ristretto al duello tra i due populismi (direi i due "autoritarismi" o meglio ancora i due ducetti). A sinistra, per un'Europa nuova, non c'è proprio nulla? Guardi meglio.

La Repubblica, 14 aprile 2014
NON ci sono ancora dati attendibili, in vista delle Europee. Stimare in modo credibile le scelte di voto, con troppo anticipo, è difficile. E, prima ancora, rischioso. Basti l’esempio delle elezioni politiche del 2013. E fare pronostici, partendo dai sondaggi, oggi è ancor più insidioso dell’anno scorso. Un po' per i limiti dello strumento. Ma soprattutto perché sono molti gli elettori indecisi, che scelgono all’ultimo momento se e per chi votare. L’anno scorso, ad esempio, secondo le indagini del La Polis dell’Università di Urbino (pubblicate in Un salto nel voto, Laterza), oltre il 10% degli elettori del M5s (3-4 punti, in termini complessivi) maturarono la loro scelta negli ultimi due giorni. I last minute voter premiarono largamente il M5s ai danni del Pd.

Oggi, comunque, per azzardare stime di voto — usandole come previsioni — c’è la complicazione del tempo. E del tipo di elezione. Manca ancora molto. E, soprattutto, si tratta di elezioni europee. Che gli elettori hanno sempre affrontato in modo diverso, rispetto alle altre consultazioni. Usandole, di frequente, come un test per lanciare messaggi “interni” ma anche “esterni” al Paese. Contro le forze politiche nazionali e i governi europei. Tanto più che si vota con un sistema proporzionale, senza alleanze né alleati di coalizione. In più, c’è il problema dell’astensione. La quota di chi non si reca alle urne, infatti, è sempre più ampia rispetto alle altre elezioni. Nel 2009, in Italia, votò il 65% degli aventi diritto: 10 meno delle politiche di un anno fa. Per questo è difficile cogliere tendenze attendibili, in questa fase. Anche se, per quel che mi riguarda, io mi sono fatto un’impressione, abbastanza precisa. Confortata solo in parte dai sondaggi.

Personalmente, infatti, io credo che si delinei un risultato diverso, rispetto alle elezioni politiche dell’anno scorso, quando sono emerse tre grandi minoranze. Fra loro incompatibili oppure alternative. Dopo un anno di governi di intese larghe e nebulose; un anno di frazionamento partitico, a destra, e di cambiamento di leadership — e di premiership — a sinistra: penso che molto sia cambiato, rispetto al 2013. Ritengo, in particolare, che in questa occasione le grandi minoranze, in grado di ottenere un risultato importante, siano, di nuovo, due. Renzisti e Grillini. Che il voto si concentrerà, dunque, sui due principali partiti che oggi occupano la scena politica. Il (post) Pd, unica maggioranza. E il M5s, unica forza di opposizione.

Le ragioni per cui, a mio avviso, potrebbe avvenire ciò sono diverse. Tutto sommato, prevedibili e comprensibili. Anzitutto, vent’anni di Berlusconismo hanno abituato gli italiani a personalizzare il loro voto. A votare pro o contro Berlusconi. L’anno scorso questo gioco non ha funzionato. Perché Berlusconi, ormai, è invecchiato. Più delle inchieste della Magistratura, l’hanno logorato anni e anni di governo e di promesse senza esito. Il mito dell’imprenditore e dell’individualismo possessivo. Reso in-credibile dalla crisi. Come la figura che ne è simbolo e interprete. Appunto. Certo, Berlusconi è in grado di sopravvivere alla fine del Berlusconismo. Anche perché è stato cooptato. Da Renzi. A cui garantisce sostegno per le riforme istituzionali — anche se formalmente sta all’opposizione. Ottenendone, in cambio, una legittimazione che gli permette di resistere. O, almeno, di esistere. Renzi. È lui, ormai, il leader di riferimento. Il “capo” (come scandiscono Mauro Calise e Fabio Bordignon nei loro ultimi saggi). Difficile non misurarsi pro o contro di lui. Ma contro di lui sono pochi, a potersi schierare, tra le forze politiche dell’era berlusconiana. Sel (accanto a Tsipras), i leghisti. Mentre i problemi gli giungono, semmai, dall’interno. Da quel partito incompiuto che è il Pd. Renzi, tuttavia, l’ha addomesticato. Dopo aver vinto le primarie, ha agito “come se” il partito non ci fosse. D’altronde, gli altri partiti della maggioranza senza di lui non esisterebbero. I centristi: chi li ha visti? Il Ncd: pare impossibile, in futuro, che si allei con Berlusconi. Ultimo segnale: il passaggio di Bonaiuti, storico portavoce di Berlusconi. FI, come ho già detto, fa l’opposizione a parole, ma agisce da complemento al premier. Mentre Renzi tratta con Berlusconi per neutralizzarlo e intercettare i suoi voti, più che per restituirgli credito.

Così, non resta che Grillo. Insieme al M5s. L’unico oppositore e l’unica opposizione. L’unico canale del dissenso tematico — sulle spese della politica, le regole istituzionali e costituzionali. Ma soprattutto, del dissenso-e-basta. Contro lo Stato centrale, contro l’Europa dell’Euro, contro il ceto politico e la classe dirigente. Per questo Grillo cavalca e alimenta ogni manifestazione anticentralista. Da ultimo, in modo clamoroso, la mobilitazione per l’indipendenza regionale promossa e gestita dai “venetisti”. Condivisa da gran parte dei suoi elettori (circa il 60%, secondo Demos ma anche Ipsos). L’in-dipendenza, secondo l’interpretazione di Grillo, come non-dipendenza da Roma, dallo Stato, dall’Europa. In nome della democrazia della Rete. La democrazia diretta, senza mediazioni e senza mediatori. Salvo Grillo, Casaleggio e il loro sistema operativo. Per questo Grillo ha, ormai, puntato le sue armi — retoriche e polemiche — con un solo, unico bersaglio. Renzi. “Colpevole” di essere visibile, anche troppo. Capace di comunicare, di usare i media. Come lui. Grillo. Veterano delle piazze, dei teatri, delle arene. Della tivù. Cerca, così, di personalizzare l’alternativa pro o contro Renzi. Di trasformarla in una contesa fra renzismo e grillismo. Un po’ come al secondo turno delle presidenziali oppure, per analogia, delle elezioni per il sindaco. Com’è avvenuto a Parma, nel 2012, quando Pizzarotti intercettò il voto della destra, determinata a battere la sinistra. Certo, le europee non sono le amministrative né le politiche. Tanto meno le presidenziali. Però, l’ election day associa il voto europeo a quello amministrativo. In molte città. Grillo non è Pizzarotti. E Renzi è un Capo capace di polarizzare il consenso e la competizione. Per cui non mi sorprenderei se, il prossimo 25 maggio, il voto si bi-personalizzasse. E i primi due partiti — Pd e M5s — e i loro Capi ottenessero, insieme, i due terzi dei voti. Riproponendo quel “bipartitismo imperfetto” che, secondo Giorgio Galli, ha segnato la storia della nostra Repubblica.

Le regge di quello che a troppi italiani piacque, e magari piace ancora, anche perché di travestiva da Re (Mida). L

a NuovaSardegna, 13 aprile 2014
La richiesta di Berlusconi di essere affidato ai servizi sociali all'interno della sua tenuta di Arcore (secondo Il Messaggero) è l'ultima incredibile mossa che conferma il ruolo polifunzionale attribuito alle sue case.

Per raccontare e interpretare l'ultimo ventennio, non si potrà eluderlo l'intreccio pubblico-privato – condensato nell'intimo di quelle case – e al quale l'Italia si è appassionata fino ai dettagli. Palese nelle intercettazioni che sono ormai testi con una loro cifra (la cronaca è letteratura compressa, diceva Oscar Wilde). Berlusconi si capirà solo traducendo la fiction e spiegando l'iconografia che molto si è giovata di sfondi domestici. In parte svelati da giornalisti coraggiosi o fortunati: per via di un filtro potente, una regia con il compito di escludere il caso nella rappresentazione (o pronta a volgerlo a vantaggio).

Le case di Berlusconi sono la location del format – direbbero gli esperti di televisione. Hanno contribuito molto al suo successo e alle sue disgrazie, e avranno un posto nel resoconto degli storici. Sono i palazzi del potere di quest'epoca, indispensabili alla recita allestita volta per volta (la libreria con foto di famiglia nei momenti solenni). Case di un uomo politico molto ricco, diventate scenari della politica. Come mai era accaduto nella storia della Repubblica, e com'era, piuttosto, nelle monarchie, quando la reggia assicurava i fondali per le movenze simboliche del sovrano e della corte. Gli organi di informazione hanno continuamente titolato di incontri a Palazzo Grazioli (tutto maiuscolo). E così la sua casa di Belusconi divenuta per molti una sede istituzionale. Talmente attrezzata da rendere sconsigliabile ogni attività distante da quelle mura protettive. Tant'è che il giorno drammatico della decadenza il pubblico è stato convocato nella strada lì davanti

Nessuno ha mai fantasticato sulle case dei leader della prima Repubblica, che so, sull' appartamento di Prodi a Bologna. E neppure Mussolini, in quell'altro ventennio, ha mai esibito una sua casa a Roma (era ospite dei Torlonia e vedeva Claretta a Palazzo Venezia).Dopo il 1994 le sedi del governo e della politica sono finite in secondo piano, e architetture come Palazzo Chigi (la “prua d'Italia” secondo il duce) sono state declassate a succursali della casa romana di Berlusconi, o addirittura della villa in Sardegna.

In primo piano le tre case dislocate tre regioni. Un corpus solido, una macchina scenica unitaria nonostante le distanze. La monumentale villa di Arcore congeniale all'immagine dell'imprenditore di successo, il palazzo nella capitale (in affitto:25milioni all'anno) motore dell' attività politica, e la casa nel mare di Olbia.

Due splendide residenze aristocratiche, impianto seicentesco, interni sempre troppo agghindati per le foto ufficiali; mentre la casa sarda, già di Flavio Carboni, rispecchia il sogno della villeggiatura dei molto danarosi. Stile “Costa Crociere”, attrezzata per gli show estivi con gli effetti speciali noti (finto nuraghe, vulcano telecomandato, anfiteatro con luci psichedeliche, ecc.), resterà nella memoria per gli illustri ospiti stranieri costretti a perdere l'aplomb istituzionale in quel clima spensierato.

E' in questo set di edifici che la corte berlusconiana ha affiancato tutti i comportamenti del leader, nelle vesti improbabili dello statista con le note derive dal pop al trash. E ognuno di questi luoghi ha consentito lo svolgimento di attività diverse in un mix simultaneo (incontri di affari, strip tease, riunioni di partito e cene eleganti). Il modello è l'abitare del sovrano per il quale tutte le occasioni – un'udienza solenne come un ballo in maschera – erano buone per prendere decisioni.

Gli studiosi che si sono interrogati sul potere sanno che pure grazie ai simboli l' autorità politica viene percepita e riconosciuta. E' andata come sappiamo in questi anni. E ora potrebbe cominciare un'altra storia, almeno affrancata da comportamenti da antico regime. Gli interrogativi di queste ore sul futuro di Berlusconi in declino sottintendono pure il destino delle sue case, con quel surplus di valore simbolico che forse impedirà un loro ritorno nella normalità della dimensione privata. E comunque vadano le cose per Berlusconi, è facile immaginare che per i suoi sostenitori conserveranno la capacità di evocare i fasti del passato, nonostante il senso di malinconia che mettono i luoghi dove i leader concludono la loro carriera.

A tutti gli altri basterà che i palazzi delle istituzioni tornino ad assumere appieno il loro ruolo.

Intervistato da Antonio Sciotto il costituzionalista ammonisce: «stiamo attenti, perché l’esclusione e la povertà hanno rag­giunto ormai pesi inso­ste­ni­bili, e la poli­tica non può can­cel­lare il con­flitto evi­tando il confronto». Ma c'è da dubitare che il balilla che conduce il paese lo ascolti.

Il manifesto, 13 aprile 2014
A con­clu­dere il con­gresso della Fiom, giu­sto poco prima della sfida tra Susanna Camusso e Mau­ri­zio Lan­dini, non poteva che essere Ste­fano Rodotà. Il pro­fes­sore, ama­tis­simo dai metal­mec­ca­nici e legato a dop­pio filo a Lan­dini, ha esor­dito toglien­dosi qual­che sas­so­lino mes­so­gli nella scarpa dal pre­si­dente del con­si­glio: «C’è il popu­li­smo di Ber­lu­sconi – ha spie­gato – e c’è quello di Grillo, ma c’è anche un nuovo popu­li­smo, più sof­fice, di Renzi. Come si può defi­nire altri­menti l’atteggiamento di chi rifiuta il con­fronto con i corpi inter­medi come il sin­da­cato, per rimuo­vere for­zo­sa­mente la com­ples­sità che c’è nella società?».

E non basta, Renzi viene anche accu­sato di voler rea­liz­zare un «neoau­to­ri­ta­ri­smo, un auto­ri­ta­ri­smo soft, che man­tiene le forme della demo­cra­zia e ne svuota la sostanza». Bru­cia ancora al costi­tu­zio­na­li­sta l’attacco del pre­mier ai «pro­fes­so­roni» che lo cri­ti­cano sull’Ita­li­cum e la riforma del Senato. Ma soprat­tutto, Rodotà è pre­oc­cu­pato dalla tenuta della demo­cra­zia: «Si vuole tenere fuori chi sta sotto l’8% – dice – Si intende dire a chi pren­derà magari 3 milioni di voti che per lui non c’è posto. Si pro­fila una con­cen­tra­zione del potere che sovra­rap­pre­sen­terà pochi sog­getti, i due par­titi a cui si vuole ridurre il Par­la­mento, e lascerà fuori tutti gli altri. Il governo e la mag­gio­ranza della nuova Camera coin­ci­de­ranno, con l’opposizione che sarà sim­bo­lica. E tutto senza con­trap­pesi ade­guati negli organi di con­trollo: per­ché dallo stesso blocco ver­ranno il pre­si­dente della Repub­blica, i giu­dici della Corte costi­tu­zio­nale, i mem­bri del Csm. E il Senato stesso non avrà suf­fi­cienti fun­zioni di controllo».

Rischio di auto­ri­ta­ri­smo, dun­que: «Noi diciamo sì alla fine del bica­me­ra­li­smo per­fetto – con­ti­nua Rodotà – ma se la legge di bilan­cio e la fidu­cia le avrà la sola Camera, si costi­tui­sca allora un Senato elet­tivo, con legge pro­por­zio­nale, così da assi­cu­rare la rap­pre­sen­tanza a tutti e poter avere con­trap­pesi. Io sono stato depu­tato negli anni di piombo, e far entrare allora i par­titi “extra­par­la­men­tari” fu un modo per evi­tare rischi di col­la­te­ra­li­smo con il ter­ro­ri­smo. Stiamo attenti, per­ché l’esclusione e la povertà hanno rag­giunto ormai pesi inso­ste­ni­bili, e la poli­tica non può can­cel­lare il con­flitto evi­tando il confronto».

Il pro­fes­sore pone un paral­le­li­smo tra due recenti pro­nun­cia­menti della Corte costi­tu­zio­nale: «Mi rife­ri­sco alle sen­tenze sulla Fiat e sul Por­cel­lum, neces­sa­ria­mente col­le­gate, per­ché ven­gono dalla stessa Con­sulta e par­lano entrambe di rap­pre­sen­tanza». In una pas­sata ini­zia­tiva della Fiom, tra l’altro, Rodotà aveva espli­ci­ta­mente cri­ti­cato il Testo Unico fir­mato anche dalla Cgil e attac­cato dalla Fiom, rile­vando dei pos­si­bili rischi di inco­sti­tu­zio­na­lità: ma ieri, pro­ba­bil­mente a causa della pre­senza di Susanna Camusso – che lo ha ascol­tato con atten­zione seduta alla pre­si­denza – su que­sto tema ha pre­fe­rito non pren­dere posi­zione in modo espli­cito, per non far pre­ci­pi­tare la tensione.

Rodotà ha quindi con­fer­mato l’annuncio già fatto da Lan­dini: il gruppo della «Via mae­stra» si appre­sta a «rac­co­gliere le firme per un refe­ren­dum sull’articolo 81 della Costi­tu­zione», in modo da abro­gare l’obbligo del pareg­gio di bilan­cio. Subito dopo, ha elen­cato le bat­ta­glie che lo vedranno alleato alla Fiom di Lan­dini: la richie­sta al governo Renzi e al Par­la­mento di «abro­gare l’articolo 8» voluto da Sac­coni su pres­sioni della Fiat, «isti­tuire un red­dito minimo o di cit­ta­di­nanza che dir si voglia», «appro­vare una legge sulla rap­pre­sen­tanza». Infine, «tor­nare a spe­ri­men­tare nuovi modelli di par­te­ci­pa­zione, come il bilan­cio par­te­ci­pato nei comuni»

«Per quanto la Rete sia meravigliosamente elastica e resistente, non possiamo dimenticare che fu concepita alle origini per qualche milione di utenti al massimo, ora siamo miliardi. È un sistema che si sta avvicinando al livello di guardia, nel senso che sta raggiungendo quel limite oltre il quale potrebbe sfuggire al controllo umano». La

Repubblica, 13 aprile 2014 (m.p.r.)

«Se esistesse una scala Richter da 1 a 10 per i terremoti su Internet, quello che abbiamo subìto pochi giorni fa sarebbe a quota 11». L’esperto di crittografia Bruce Schneier ha fatto questo bilancio drammatico sul New Yorker, a proposito del super-virus Heartbleed. 500.000 siti violati per due anni, inclusi colossi come Twitter, Yahoo, Amazon, Dropbox, Tumblr. Centinaia di milioni di password, carte di credito, accessi bancari potrebbero essere finiti in mano a hacker, ladri, truffatori. Il bilancio è ancora provvisorio. Questi disastri si susseguono sempre più spesso e con un’intensità crescente: è di pochi mesi fa il maxifurto di milioni di carte di credito dei clienti di Target, la catena di grandi magazzini. Tra le cause, spiccano due anomalie. Primo, nella Rete la sicurezza non è una priorità così stringente come lo è per esempio nel trasporto aereo (dove gli incidenti diminuiscono da anni anziché aumentare). Secondo punto, a conferma del primo: molti dispositivi di sicurezza (come il software di crittografia OpenSsl che è stato vittima del supervirus Heartbleed) sono frutto di lavoro volontario, semi-gratuito o scarsamente remunerato, nonostante gli immensi profitti incassati dai giganti dell’economia digitale. Ma questa sottovalutazione potrebbe portarci verso un cataclisma molto peggiore. È il Grande Blackout della Rete, evocato in una conferenza Ted da Dan Dennett, raccogliendo plausi e allarme nel mondo degli esperti. «Cerchiamo almeno di prepararci a sopravvivere per le prime 48 ore di caos e paralisi totale», è una delle esortazioni di Dennett. In quei primi due giorni forse ci giocheremmo tutto, l’umanità (almeno quella che abita nei paesi avanzati) rischierebbe di retrocedere in una sorta di Medioevo. «L’11 settembre 2001 sembrerebbe un episodio minore al confronto», rincara Dennett, ricordando che in effetti l’attacco alle Torri Gemelle avvenne in un’era quasi preistorica dal punto di vista della nostra dipendenza digitale.

Dennett non è un apocalittico. Al contrario, a 72 anni il celebre scienziato e filosofo cognitivo è considerato uno dei più grandi esponenti di un pensiero laico, iper-razionale. Direttore del Center for Cognitive Studies alla Tufts University di Boston, Dennett è autore di numerosi saggi tradotti in italiano (tra gli ultimi La religione come fenomeno naturale da Raffaello Cortina, Coscienza da Laterza). Ai cicli di conferenze Ted, affollati di esperti di informatica, lui viene presentato come “il filosofo preferito dagli studiosi dell’intelligenza artificiale” per le sue analisi sull’analogia tra il pensiero umano e il funzionamento della robotica. Quando lo intervisto, partiamo dallo scalpore che ha suscitato la sua profezia sul Grande Blackout.
Questo pericolo è sempre apparso remoto, per via della struttura stessa di Internet: agli antipodi di un sistema centralizzato, la Rete è stata concepita fin dalle origini per essere policentrica, federata, non gerarchica, diffusa, flessibile, perciò stesso non esposta ad un collasso generale. «Verissimo – mi dice Dennett – e infatti tutti sono ammirati dalla robustezza, anzi dalla resilienza di Internet. E tuttavia il monito che ho lanciato non è un’idea mia, l’ho raccolta consultando molti esperti di tecnologia. Per quanto la Rete sia meravigliosamente elastica e resistente, non possiamo dimenticare che fu concepita alle origini per qualche milione di utenti al massimo, ora siamo miliardi. È un sistema che si sta avvicinando al livello di guardia, nel senso che sta raggiungendo quel limite oltre il quale potrebbe sfuggire al controllo umano. Alcuni esperti calcolano che un Grande Blackout abbia probabilità remote, ma non nulle. Potrebbe accadere fra moltissimo tempo, o la settimana prossima ». Evento improbabile ma non impossibile, un po’ come il Big One nella versione estrema (con mezza California che sprofonda nel Pacifico).
Ieri, intanto, si è registrato il down di Instagram, il social network di condivisione di fotografie, rimasto fermo per ore. Quello che preoccupa Dennett è la totale mancanza di preparativi. O perfino di immaginazione. «La gente non si rende conto che oggi tutto dipende dalla Rete, nessuna funzione vitale può continuare se si blocca Internet. Qui negli Stati Uniti si spegnerebbero tv e cellulari, si fermerebbero bancomat, supermercati, distributori di benzina. Ecco perché il maggiore pericolo sarebbe il panico, il folle panico delle prime 48 ore, quando la gente non sa che fare, non ha notizie, non ha istruzioni, non ha mai fatto un’esercitazione per prepararsi. Occorre un piano B per resistere le prime 48 ore, in attesa che si riattivi qualche funzione essenziale della società. Altrimenti si rischia la disperazione di massa, e dunque la disintegrazione di una civiltà».
Il piano B, come “battello di salvataggio”. Dennett usa proprio quest’immagine, il vecchio canotto di salvataggio in dotazione obbligatoria sulle navi e i traghetti, con torce elettriche, acqua potabile e altri strumenti di soccorso. Ma il suo canotto di salvataggio dovrebbe includere «una seconda Rete, un Internet isolato e autonomo, pronto a mettersi in funzione, riservato esclusivamente agli scopi vitali, alle comunicazioni di emergenza ». Quando ci fu l’attacco dell’11 settembre, c’erano ancora delle tecnologie pre-digitali che ora stanno scomparendo. Molti telefonini a Manhattan si ammutolirono, ma le tv funzionavano, la radio pure. Oggi è tutto talmente interconnesso che il Grande Blackout sarebbe davvero totale.
Proprio perché è uno dei massimi pensatori della razionalità, Dannett mi spiega di aver lanciato il suo appello «anche per dare un’alternativa ai Survivalist, quei movimenti apocalittico-religiosi che hanno una presa sull’opinione pubblica americana, ispirano filoni di cinema e tv, s’impadronirebbero del Grande Blackout digitale per immaginare un mondo post-civilizzato, uno scenario da Independence Day». Curiosamente, mentre nella Silicon Valley è obbligatorio fare esercitazioni regolari per le evacuazioni in caso di terremoto (la zona è sismica), non esiste nulla di simile per un cataclisma digitale. Presunzione? O avarizia?
«Certo i costi del piano B sono elevati – riconosce Dennett – ma bisogna prendere sul serio questo pericolo, il buio elettronico non è abitabile per gli occidentali del 2014, abituati ad avere un intero universo d’informazione alla portata dei polpastrelli sul display dello smartphone. In uno scenario di caos generale, molti di noi hanno perso da tempo quei nuclei locali di sostegno che un tempo si chiamavano la parrocchia, il club, le associazioni di quartiere. Una parte delle spese per attrezzarci collettivamente dovrebbero sostenerle le banche, che sono tra le più vulnerabili». E la Casa Bianca, dopo gli avvertimenti dei cyber-attacchi contro i suoi siti? È possibile che Washington non abbia pensato di prepararsi all’ipotesi finale, la più estrema? «Ci pensano, c’è dell’interesse – risponde – ma c’è anche una reticenza, un gioco di veti. La destra repubblicana non vuole che sia un’amministrazione democratica ad aprire un cantiere di sicurezza di queste dimensioni, che potrebbe sfociare in nuovi poteri per il governo federale ». Di certo lui trova paradossale che «Internet ci abbia reso così dipendenti, al punto da poterci ricacciare verso l’età della pietra».

Continuità a oltranza col peggior passato .

Il manifesto, 13 aprile 2014, con postilletta
C’era qual­che pre­oc­cu­pa­zione nel pen­sare di aprire il ragio­na­mento sul Piano casa del governo Renzi ricor­dando la figura di Gior­gio La Pira. Temevo infatti che la lin­gua incon­ti­nente del pre­mier avrebbe sepolto il grande sin­daco della Firenze degli anni del dopo­guerra sotto la sequela di insulti che dedica ormai al meglio della cul­tura ita­liana, da Rodotà a Zagre­bel­sky e Set­tis. Un altro pro­fes­so­rone da disprez­zare, o meglio un estre­mi­sta. La Pira lasciò infatti di stucco l’opinione pub­blica dell’epoca per­ché requisì molti appar­ta­menti non uti­liz­zati per asse­gnarli alle fami­glie povere e per i senza tetto. Un adem­pi­mento audace, ma iscritto nella Costi­tu­zione (art. 3) che cono­sceva alla per­fe­zione avendo fatto parte dell’assemblea costituente.

Anche oggi ci sono decine di migliaia di fami­glie e di gio­vani che non hanno la pos­si­bi­lità di avere una casa, ma la musica è cam­biata. Nell’articolo 5 del decreto legge n. 47 (final­mente pub­bli­cato pochi giorni fa) «Piano casa per l’emergenza abi­ta­tiva» si afferma che nelle occu­pa­zioni abi­ta­tive che pun­teg­giano molte grandi aree urbane del paese e che riguar­dano, come è noto, edi­fici abban­do­nati da tempo, è vie­tato allac­ciare i pub­blici ser­vizi, acqua e luce elet­trica. La Pira era un cat­to­lico come il pre­mier e come il mini­stro per le infra­strut­ture Mau­ri­zio Lupi e quell’articolo dimo­stra l’abisso cul­tu­rale che li divide. Quest’ultimo ha defi­nito delin­quenti gli occupanti.

Ma non è que­sta l’unica ver­go­gna pre­sente nel testo di legge pre­pa­rato con tutta evi­denza dall’ufficio studi dell’associazione dei costrut­tori e dalla pro­prietà edi­li­zia e pron­ta­mente vei­co­lato dal pre­mier. Nei venti anni di can­cel­la­zione di ogni regola, si è costruito molto nel nostro paese: i dati uffi­ciali ci dicono che gli alloggi recenti inven­duti sono un milione e mezzo: da soli potreb­bero ospi­tare quat­tro o cin­que milioni di abi­tanti. Ancora i dati uffi­ciali ci dicono poi che ci sono oltre 200 mila fami­glie in grave disa­gio abi­ta­tivo. Ma figu­ria­moci se chi si è arric­chito oltre misura in que­sti due decenni rinunci ad una mode­sta parte delle pre­vi­sioni di gua­da­gno. Così, all’articolo 10 si per­mette di assi­mi­lare que­gli alloggi, dovun­que siano ubi­cati e qua­lun­que qua­lità abbiano, in alloggi «sociali», che vuol dire otte­nere tutte le age­vo­la­zioni di legge ed eco­no­mi­che per desti­narli a fami­glie in grado di pagarsi un mutuo immobiliare.

Se la ven­dita di auto­mo­bili supera la domanda di mer­cato e i piaz­zali delle aziende si riem­piono, si riduce la pro­du­zione e per sal­va­guar­dare i lavo­ra­tori si ricorre a con­tratti di soli­da­rietà o agli ammor­tiz­za­tori sociali. Il com­parto abi­ta­tivo con­ti­nua a sfug­gire alle logi­che del mer­cato tanto osan­nate a parole. Se il mer­cato tira, gli ope­ra­tori immo­bi­liari pos­sono gua­da­gnare ciò che vogliono per­ché lo Stato ha rinun­ciato da tempo a qual­siasi azione cal­mie­ra­trice. Nel decreto legge, ad esem­pio (arti­colo 3) si pre­vede ancora di ven­dere le poche case rima­ste di pro­prietà pub­bli­che. Se il mer­cato entra invece in una crisi epo­cale che neces­si­te­rebbe di ben altre ana­lisi e solu­zioni, si ricorre agli aiuti pubblici.

Una volta piaz­zate le case inven­dute, non si rinun­cia nep­pure a costruire ancora nuovi quar­tieri. Sem­pre l’articolo 10 dice infatti che lo stesso trucco che tra­sforma l’edilizia pri­vata in alloggi assi­stiti dal denaro pub­blico si applica anche alle grandi lot­tiz­za­zioni che non erano nep­pure ini­ziate pro­prio per la crisi di mer­cato. Si per­pe­tua dun­que il modello dis­si­pa­tivo che ha por­tato all’attuale crisi di sovraproduzione.

La Pira viveva in un pic­colo allog­gio all’interno di un con­vento anche se non gli man­ca­vano certo amici in grado di for­nir­gli una casa a prezzi van­tag­giosi. Renzi quando era sin­daco della stessa città ha scelto di farsi pagare l’alloggio da un facol­toso amico. Un altro segnale elo­quente della distanza morale e cul­tu­rale che ci separa da quel fecondo periodo. La con­se­guenza di que­sta distanza cul­tu­rale stava ieri sotto gli occhi di Roma: decine di migliaia di per­sone e di gio­vani senza casa chie­de­vano prov­ve­di­menti veri in grado di risol­vere dav­vero l’emergenza abi­ta­tiva. Prov­ve­di­menti nep­pure sfio­rati da un decreto legge scritto in con­ti­nuità con le teo­rie eco­no­mi­che respon­sa­bili dell’attuale crisi

postilla
qui potete scaricare il testo della legge, e verificare l'abilità del governo Renzusconi di coprire, col velo delle belle frasi e delle nobili dichiarazioni d'intenti, il connubio tra la repressione dei diritti sociali e la promozionegli affarismi immobiliari (privati, parapubblici o cooperativi che siano)

«L’ex rettore della Normale insegna a tutelare il territorio (anche dai disastri del Tav) e il premier lo tratta con sarcasmo: vietato criticare il governo».

Il Fatto Quotidiano, 13 aprile 2014

In presentazione di un suo saggio uscito da pochi anni (Azione popolare. Cittadini per il bene comune Einaudi, 2012) il giornalista che intervista Salvatore Settis commenta: “L’ex rettore della Normale di Pisa è un 71enne signore dai modi gentili e leggermente impacciati, tipici di chi ha trascorso più di dieci lustri della propria vita tra libri, convegni, testi antichi, banchi delle più prestigiose istituzioni universitarie”.

Salvatore Settis, dice: “Il mio non è un atteggiamento estremista né ammiccante all’antipolitica, cioè all’odio e alla volontà di eliminare gli altri, ma è invece un modo di pormi fatto di indignazione e radicalità. Tutti i cittadini dovrebbero mobilitarsi per l’interesse generale, a difesa dei beni comuni. Compresi quelli artistici”.

Conosco Salvatore Settis da parecchi anni. Ho avuto la fortuna di tenere lezioni e convegni sul teatro e sull’arte della messa in scena alla Normale di Pisa, che ha diretto lungamente. Ho imparato dai suoi saggi e dagli articoli che trattano della salvaguardia del paesaggio e del territorio sommerso quanta negligenza criminale deve sopportare il nostro Paese; non solo, ma il Prof. Settis si inoltra con analisi chiare e inconfutabili a proposito dei progetti ferroviari di transito veloce che causano veri e propri disastri ambientali e che non tengono conto dei sacrosanti diritti delle popolazioni che grazie a questo atto di feroce modernizzazione perdono la propria autonomia e libertà; inoltre, lo scienziato Settis, sottolinea con giusta ironia come siano abili e spudorati i responsabili di questa tutela nello scaricare addosso alla natura e alle calamità imprevedibili la causa dei disastri che ciclicamente colpiscono la nostra terra.

Questi suoi scritti sono lezioni impagabili che ogni gestore della cosa pubblica dovrebbe imparare a memoria. Eppure è talmente desueta la coscienza dell’apprendere che uno scienziato come Settis che ha l’ardire di avanzare una critica al programma politico del governo in carica, fa scattare l’indignazione immediata da parte del presidente del Consiglio Matteo Renzi che con evidente sarcasmo commenta la scienza alla quale è legato il critico Settis, l’archeologia, anzi tout court lo definisce l’archeologo, cioè qualcuno che è con il cervello nel sottosuolo.

Secondo l’enciclopedia Treccani, caratteristica dell’Archeologia è il metodo di acquisizione delle conoscenze, mediante cioè lo scavo sul terreno, la ricognizione di superficie e la lettura dei resti monumentali residui, cioè è la scienza che invita a guardare sotto, in profondità ai problemi e non dare nulla riguardo alla base per scontato. Come diceva Socrate: “Chi non scava, non sa su cosa cammina e trascorre la vita”.

Si vede subito che il Signor Renzi è uno che resta in superficie e si limita piuttosto ai ‘si dice che’. Andare in profondo significa scegliere la fatica di osservare le cose sempre da punti di vista diversi, scoprire spesso il rovescio della propria condizione sia statica che dinamica; ed è proprio di lì che Eratostene di Cirene, nel II sec. a.C., intuisce che non solo gli umani vanno vivendo su una superficie sferica ma ha l’illuminazione che, grazie alla rivoluzione del nostro pianeta, nell’universo non esiste né sopra né sotto né donne e uomini all’in piedi o capovolti.

Ma questo Renzi non l’ha ancora capito. Se il governo ha un’idea bisogna che tutti i cittadini la condividano. Chi fa obiezione si ritrova fuori dall’universo. E non bisogna quindi prenderlo in considerazione, specie se è un archeologo.

«Il legame tra le attività estrattive e terremoto non si può escludere».La

Repubblica, 11 aprile 2014

Non si può dire né sì né no, ma di certo non si può escludere. E di certo si deve continuare a indagare. Sarebbe questa la sintesi di un rapporto stilato per conto della Regione Emilia Romagna da un panel di esperti chiamati a dire se i terremoti che hanno colpito la regione nel 2012 possano aver avuto come concausa le attività estrattive del petrolio (che nella regione si praticano da decenni) e, più in generale, trivellazioni e perforazioni del suolo. Il rapporto non è ancora stato reso pubblico, ma già circola negli ambienti scientifici e politici. Se ne occupa l'ultimo numero della rivista scientifica Science, secondo la quale il documento è stato consegnato agli amministratori emiliani da almeno un mese, ma ci sarebbe imbarazzo nel parlarne. Non solo: la rivista americana precisa come sul rapporto si baseranno le decisioni in merito a nuove autorizzazioni per le attività estrattive nella regione.

Ed è molto probabile che la linea sarà quella della massima cautela. Il panel si chiama Ichese (Commissione tecnico-scientifica per la valutazione delle possibili relazioni tra attività di esplorazione per gli idrocarburi e aumento di attività sismica nel territorio della regione Emilia Romagna colpita dal sisma del mese di maggio 2012) ed è stato convocato dalla Regione guidata da Vasco Errani nel maggio del 2013: è composto da due esperti italiani e da tre stranieri che hanno effettuato sopralluoghi sia nelle aree colpite dal terremoto sia negli impianti petroliferi di Cavone, quelli contro i quali oggi si punta il dito. Ichese ha interpellato esperti, aziende e istituzioni. Ed è giunto alle conclusioni che Science riporta tra virgolette: il legame tra le attività estrattive e terremoto «non si può escludere ».

Da anni si sa che alcune attività umane possono causare terremoti. Non è mai stata una novità e gli scienziati hanno sempre preso l’ipotesi molto sul serio. L’idea è che il ricorso ad alcune tecniche geoingegneristiche, tra cui il famigerato fracking che però in Italia non si pratica, almeno non ufficialmente), se effettuato ad alta intensità può causare l'instabilità delle faglie su cui poggiamo i piedi. In particolare, il nesso è stato studiato laddove le ricerche di petrolio comportano trivellazioni numerose e profonde, come nel centro degli Stati Uniti. Indagini statistiche hanno rafforzato questo timore e alcuni degli ultimi terremoti in Texas e Oklahoma sono stati ritenuti probabili “figli” delle trivellazioni. Bisogna però considerare che al momento è molto difficile dire se un dato sisma è stato causato da una certa attività. Resta il fatto che quelli per i quali è stata ipotizzata una concausa umana sono stati pochi e, in ogni caso, più deboli di quelli generati solamente dalla natura in una specifica zona. Comunque, se i sospetti su certe responsabilità dell’uomo dovessero diventare forti, è probabile che non sarebbe solo la Regione Emilia Romagna a rivedere le proprie scelte sull’utilizzo del territorio.

Il rapporto di Ichesa, prosegue Science, spiega anche che rimuovere e reiniettare liquidi non basta a causare un terremoto più intenso di quanto non sarebbe senza quell’attività. Ma è possibile che la faglia coinvolta nella sequenza sismica del maggio di due anni fa fosse sul punto di muoversi e che l’uomo abbia accelerato il processo. Non solo: le attività estrattive nel sito di Cavone erano state aumentate dall’aprile del 2011 e questo stabilirebbe un legame temporale. Però, conclude la rivista, manca ancora un modello fisico di sostegno: insomma, ipotizzato il nesso, non è ancora chiaro come e perché funzioni. Science spiega infine di non aver ricevuto risposte sul rapporto né da parte degli estensori né da parte delle compagnie che sarebbero implicate, ma riferisce di altri sismologi per i quali questi legami sarebbero molto deboli e tutto il rapporto poco chiaro: l’impianto di Cavone, del resto, è molto piccolo e si trova ad almeno venti chilometri dall’epicentro.

La pro­po­sta del PD di Renzi «invece di can­cel­lare il Senato, come dice la vul­gata dema­go­gica, lo vor­rebbe rici­clare come pen­sio­nato di lusso per quel ceto di ammi­ni­stra­tori poli­tici locali e regio­nali che si affolla in cerca di altri inca­ri­chi pub­blici e non vuole pas­sare attra­verso altre ele­zioni».

Il Manifesto, 11 aprile 2014

Nella discus­sione intorno alle riforme isti­tu­zio­nali in corso in Ita­lia lo schema conservazione-innovazione si è sosti­tuito da tempo alla cop­pia antica destra-sinistra. Così si è giunti all’esito di defi­nire con­ser­va­tori i cri­tici delle pro­po­ste del governo Renzi, anche se qual­cuno ha ricor­dato (come un dato nega­tivo) che si tratta di figure appar­te­nenti alla «sini­stra radi­cale»: radi­cali ingua­ri­bili, attar­dati pro­fes­sio­ni­sti dello scontento.

Inu­tile, davanti al vento di tem­pe­sta che sospinge le vele dell’opinione pub­blica, ricor­dare che non tutto ciò che è nuovo è bene e tutto ciò che è con­ser­va­zione è male: anche se tutti sap­piamo quanto sia neces­sa­rio con­ser­vare beni come l’ambiente, i beni cul­tu­rali, i diritti umani, la memo­ria del pas­sato, e così via.

Pole­mi­che a parte, la discus­sione di merito si è svolta pre­va­len­te­mente tra esperti di diritto: ogni parte ha sfo­de­rato i suoi costi­tu­zio­na­li­sti. E tut­ta­via davanti all’importanza dei muta­menti oggi in via di rati­fica ma anche alla lunga discus­sione e alle molte pole­mi­che che li hanno pre­ce­duti negli anni scorsi, vale forse la pena di fare qual­che rifles­sione sulla genesi sto­rica delle costituzioni.

È noto che da sem­pre le Costi­tu­zioni, mate­riali o scritte che siano, sono figlie di tempi agi­tati: guerre e rivo­lu­zioni . Senza biso­gno di risa­lire alla Costi­tu­zione di Atene, basta con­si­de­rare la sto­ria medie­vale e moderna degli stati euro­pei: dallaMagna Charta e dal Bill of Right del Par­la­mento nella lotta con­tro la monar­chia inglese del ’600 fino alla Costi­tu­zione degli Stati uniti d’America e a quelle della Fran­cia moderna, si è trat­tato ogni volta di inter­venti rego­la­tori dei rap­porti for­mali di potere resi neces­sari da pro­fonde tra­sfor­ma­zioni nei rap­porti sostanziali.

Il caso ita­liano con­ferma che all’introduzione o al cam­bia­mento di Costi­tu­zione si arriva solo in momenti gra­vis­simi, quando vi si è costretti dalla pres­sione di eventi straor­di­nari. Non avremmo avuto la nostra Costi­tu­zione se non ci fosse stata una guerra per­duta, seguita dalla per­dita della sovra­nità nazio­nale e dall’auto-cancellazione delle isti­tu­zioni sta­tali vigenti rati­fi­cata dal refe­ren­dum isti­tu­zio­nale del 1946. Senza una feroce guerra civile, senza la Resi­stenza non ci sarebbe stato quel fer­mento di volontà inno­va­tiva che soprav­vive ancora nella Costi­tu­zione repub­bli­cana dan­dole un valore di esor­ta­zione ad andare al di là dell’esistente.

Si pensi a quel fon­da­men­tale secondo comma dell’art.3 sulla neces­sità di rimuo­vere gli osta­coli di ordine eco­no­mico che limi­tano di fatto libertà e ugua­glianza dei cit­ta­dini e impe­di­scono il pieno svi­luppo della per­sona umana e l’effettiva par­te­ci­pa­zione dei lavo­ra­tori all’organizzazione poli­tica, eco­no­mica e sociale del Paese. Mai come in que­sti tempi si è avver­tita tutta l’importanza e l’angosciante attua­lità di que­sto testo, ban­diera di una bat­ta­glia che riguarda ancora e sem­pre i lavo­ra­tori tutti intesi come per­sone, ma oggi soprat­tutto chi per non avere lavoro o per averlo pre­ca­rio e revo­ca­bile a pia­cere sci­vola nella cate­go­ria delle non persone.

E tut­ta­via non va dimen­ti­cato che alla nascita della Costi­tu­zione repub­bli­cana si arrivò non per una rivo­lu­zione popo­lare con­tro il regime pre­ce­dente ma per effetto della rice­zione del nuovo ordine mon­diale in cui aveva finito per tro­vare col­lo­ca­zione lo scon­fitto stato ita­liano. Que­sto aiuta a capire la debo­lezza e l’inefficacia della Carta costi­tu­zio­nale una volta ripar­tita la vita del paese sotto il saldo con­trollo di forze mode­rate e di appa­rati ere­di­tati dallo stato fasci­sta. Fu allora che, invece dell’alternanza al potere di forze diverse e di una dia­let­tica sana del con­flitto sociale e poli­tico, si aprì l’epoca del par­tito unico al potere e dell’opposizione bloc­cata da una insor­mon­ta­bile esclu­sione. L’Italia di allora fu uno dei paesi dove un solo par­tito aveva accesso al governo dello Stato: una delle uncommon demo­cra­cies, secondo la defi­ni­zione di T. J.Pempel evo­cata di recente da Sabino Cas­sese inGover­nare gli ita­liani. Sto­ria dello Stato (Il Mulino). Dun­que, se rivo­lu­zione ci fu con l’avvento della Costi­tu­zione repub­bli­cana, si trattò ancora una volta di una spe­cie par­ti­co­lare di rivoluzione.

Nella sto­ria ita­liana si mate­ria­lizzò di nuovo un fan­ta­sma antico, quello della «rivo­lu­zione pas­siva». Un con­cetto che Vin­cenzo Cuoco nel Sag­gio sto­rico sulla rivo­lu­zione napo­le­tana del 1799, intro­dusse nel voca­bo­la­rio poli­tico ita­liano. Ricor­dia­molo: secondo lui quella rivo­lu­zione napo­le­tana era stata «pas­siva» per­ché impor­tata da fuori e attuata da una mino­ranza , un’élite intel­let­tuale, senza che ci fosse stata una coscienza,una par­te­ci­pa­zione dif­fusa in mezzo al popolo. Quel fal­li­mento dimo­strava, secondo Cuoco, che nes­suna rivo­lu­zione poteva calare dall’alto, da «un’assemblea di filo­sofi» o essere impo­sta con «la forza delle baio­nette». Una Costi­tu­zione auten­tica come patto dure­vole di un popolo poteva nascere e man­te­nersi solo se ade­guata alle carat­te­ri­sti­che, alla sto­ria e alla cul­tura di quel popolo.

L’appuntamento per una nuova Costi­tu­zione si pre­sentò alla metà dell ’800. Fu nel 1848 che prese forma lo Sta­tuto alber­tino, un docu­mento fon­da­men­tale della sto­ria d’Italia. Era una costi­tu­zione octroyée, con­cessa dal sovrano sabaudo ai suoi sud­diti, non con­qui­stata da una rivo­lu­zione popo­lare, ma det­tata dal timore dei movi­menti che agi­ta­vano l’Europa e in modo spe­ciale la Fran­cia. Ancora una rivo­lu­zione pas­siva, dun­que. E così si entra in quella sta­gione della sto­ria d’Italia che è stata chia­mata Risor­gi­mento quando, per la prima volta sulla scena euro­pea, prese forma un stato ita­liano uni­ta­rio. Lo Sta­tuto alber­tino fu esteso senza modi­fi­che a tutta l’Italia di cui fu la Carta fon­da­men­tale dal 1861 al 1944 (con la cesura del Fasci­smo). Fu un feno­meno sin­go­lare: lo potremmo defi­nire una fusione fredda, lon­tana come fu dal calore e dal rumore di popoli in rivolta, anzi com­piuta pro­prio allo scopo di evi­tarne il rischio. Per­ché avve­nisse que­sta tra­sfor­ma­zione in punta di piedi ci volle la paura dello «spet­tro rosso» del comu­ni­smo, deci­siva nel con­vin­cere le classi domi­nanti della peni­sola a rifu­giarsi sotto la ban­diera sabauda. Così quello Sta­tuto fu non il frutto di una rivo­lu­zione ma lo stru­mento di una restau­ra­zione. E pro­prio così – restau­ra­zione – la definì un appas­sio­nato osser­va­tore della realtà ita­liana, Edgar Qui­net. Biso­gnava – come ha scritto Giu­seppe Tomasi di Lam­pe­dusa – che tutto cam­biasse per­ché tutto restasse com’era.

Sulla que­stione della «rivo­lu­zione pas­siva» doveva riflet­tere in pri­gione Anto­nio Gram­sci in pagine che restano fon­da­men­tali e da rileg­gere in que­sto nostro pre­sente. Il Risor­gi­mento secondo lui era stato una «rivo­lu­zione pas­siva», una «restau­ra­zione»: una «rea­zione delle classi domi­nanti al sov­ver­si­vi­smo spo­ra­dico e disor­ga­nico delle masse popo­lari con ‘restau­ra­zioni’ che accol­gono una qual­che parte delle esi­genze popo­lari». Era man­cata l’ ini­zia­tiva delle masse popo­lari , c’era stato ancora una volta lo scol­la­mento con l’élite intel­let­tuale del paese.

Uno scol­la­mento che oggi emerge di nuovo pur se in con­di­zioni sto­ri­che e sociali diver­sis­sime: il titolo di «pro­fes­sori», con la variante peg­gio­ra­tiva di «pro­fes­so­roni» ne è l’espressione più popo­lare. Le esi­genze di muta­mento sostan­ziale nell’assetto della catena di comando e di orga­niz­za­zione del con­senso nascono ancora una volta dall’esterno: dopo il crollo del muro di Ber­lino c’è stato quello degli assetti sta­tali davanti alla glo­ba­liz­za­zione come governo del mondo da parte della finanza inter­na­zio­nale. Da qui la neces­sità di ren­dere liquida la società e per­mea­bili gli esseri umani ai rapidi rias­setti di un sistema pro­dut­tivo fun­zio­nale all’illimitato arric­chi­mento di pochi .
Avremo dun­que ancora una volta una «rivo­lu­zione pas­siva». Se ne fa por­ta­tore un governo di emer­genza soste­nuto da un Par­la­mento di nomi­nati e da un pre­si­dente della Repub­blica da tempo con­vinto che il ritorno alle ele­zioni sia un male da evi­tare, una «scioc­chezza». Quello che sulle riforme costi­tu­zio­nali pro­po­ste fa aleg­giare il sospetto di una restau­ra­zione è il fatto che manca in tutto il dise­gno una parola impor­tante: la parola Par­tito. Se c’è oggi una realtà costo­sis­sima e che si è resa odiosa alla popo­la­zione attra­verso innu­me­re­voli scan­dali è pro­prio il sistema attuale dei par­titi. Mac­chine di potere refrat­ta­rie a qua­lun­que disci­plina di legge e sorde al refe­ren­dum dell’abolizione del finan­zia­mento pub­blico, assi­stono adesso a una sot­ter­ra­nea rina­scita. È il Par­tito che vin­cerà le future ele­zioni con l’Italicum (il nome lo lasciamo alla fan­ta­sia dei let­tori) l’entità che si cela die­tro la pro­po­sta di un Senato-fenice che muore e rina­sce dalle sue ceneri come Camera delle auto­no­mie. Camera non elet­tiva, benin­teso, che invece di can­cel­lare il Senato, come dice la vul­gata dema­go­gica, lo vor­rebbe rici­clare come pen­sio­nato di lusso per quel ceto di ammi­ni­stra­tori poli­tici locali e regio­nali che si affolla in cerca di altri inca­ri­chi pub­blici e non vuole pas­sare attra­verso altre ele­zioni. Una pic­cola pre­ghiera, dun­que: si eli­mini pure il Senato, ma senza resur­re­zioni sospette. Altri­menti la defi­ni­zione di con­ser­va­tori sarà meglio usarla per i «rinnovatori».

«Non nasciamo cittadini del mondo. Le comunità umane hanno confini. L’Europa non ne tiene conto».

La Repubblica, 10 aprile 2014

La crisi dell’Europa non è, essenzialmente, una crisi economica. La crisi dell’Europa è una crisi mentale; di più: una crisi di immaginazione della buona vita al di là del consumismo. Gran parte dei critici dell’Europa, degli anti-europei, che ora alzano la loro voce, è prigioniera di una impolverata nostalgia nazionale. In questo senso argomenta ad esempio l’intellettuale francese Alain Finkielkraut: l’Europa ha creduto di potersi costituire senza, o addirittura contro le nazioni

Voleva punire le nazioni per gli orrori del XX secolo. Ma non c’è una democrazia post-nazionale. La democrazia parla una sola lingua. Non nasciamo cittadini del mondo. Le comunità umane hanno confini. L’Europa non ne tiene conto. Ma questa critica all’Europa si basa sull’illusione nazionale che in una società e in una politica europeizzate sia possibile un ritorno all’idillio nazional-statale. Essa presuppone l’orizzonte nazionale come quadro diagnostico per il presente e per il futuro dell’Europa. A queste critiche rispondo: aprite il vostro sguardo, e vedrete che non solo l’Europa, ma il mondo intero si trova in una transizione dove i confini entro i quali l’Europa si pensa politicamente non sono più reali.

Due esempi paradossali a questo riguardo: tutti i giornali, tutti i notiziari televisivi britannici sono pieni di accuse all’Ue — l’euroscettica Gran Bretagna è attraversata da un’ondata mai conosciuta di opinione pubblica europea. Oppure: la Cina, per effetto della sua politica degli investimenti e delle sue dipendenze economiche, è da tempo un membro informale dell’eurozona — se l’euro fallisse, per la Cina sarebbe un colpo durissimo. È chiaro, perciò, che la cosmopolitizzazione non crea cittadini del mondo, anzi: mentre la globalizzazione dissolve le frontiere, le persone ne cercano di nuove. Il bisogno di confini diventa tanto più forte, quanto più il mondo diviene cosmopolitico. Da un lato, lo dimostra il successo del Front National alle ultime elezioni locali in Francia, ottenuto con il motto «Fuori dall’euro, fuori dall’Ue!». Dall’altro, questo bisogno di confini ha contribuito al consenso raccolto da Vladimir Putin, con la sua massima «Dove abitano dei russi, lì c’è la Russia».

Tuttavia, proprio l’aggressivo nazionalismo interventista russo dimostra che non si può proiettare il passato delle nazioni sul futuro dell’Europa, senza distruggere il futuro dell’Europa. E se l’etno-nazionalismo imperiale di Putin fosse uno shock salutare per l’Europa afflitta dall’egoismo nazionale?

Alain Finkielkraut controbatte: noi europei siamo traumatizzati da Hitler. Eppure Hitler disprezzava la nazione. Voleva sostituire la nazione con la razza. Oggi, però, facciamo espiare alle nazioni la follia hitleriana. Per il loro trauma da Olocausto i tedeschi vogliono forse eliminare l’intero nazionalismo? No, ma abbiamo un presupposto in comune: la catastrofe di Hitler, dell’Olocausto e della Germania nazionalsocialista.

Proprio questa catastrofe, con i processi di Norimberga, ci ha fatto elaborare il concetto di crimini contro l’umanità. I soldati tedeschi o i guardiani dei campi di concentramento colpevoli di crimini nei confronti di ebrei erano soltanto criminali, anche se il diritto nazionale non puniva i loro misfatti. Così è nata una nuova dimensione, il diritto europeo, che relativizza il diritto nazionale — e, nello stesso tempo, una nuova visione mondiale dell’umanità: l’etica del “mai più”.

Noi, e il mondo, abbiamo più che mai bisogno (anch’io lo ho argomentato) di una visione europea, per venire a capo dei mali della globalizzazione — mutamento climatico, povertà, disuguaglianza estrema, guerra e violenza. L’idea è che la forza mobilitante della catastrofe anticipata fonda l’identità europea. La lotta contro i rischi globali è indubbiamente uno sforzo erculeo. Può perfino dar vita a una nuova morale mondiale della giustizia. Il mutamento climatico è un rischio storicamente sconosciuto che minaccia tutti e costringe inevitabilmente ad agire. Chi dice “mutamento climatico” deve pensare al di là dei confini, cooperare con i nemici, tenere presenti le generazioni future, immedesimarsi nella situazione dei più poveri — non perché li ama, ma perché ne ha bisogno per creare assieme un futuro vivibile. Qui si delinea uno stile di vita purificato dal mutamento climatico, un “cosmopolitismo egoistico”, per così dire. Ma, siamo sinceri, lo spirito del mutamento climatico è la pozione magica che concilierà gli europei euroscettici con l’Unione Europea?

Un altro consiglio (tra gli altri, anche di Alain Finkielkraut) suggerisce che se l’Europa vuole superare la sua crisi della convivenza deve ritrovare la propria identità nelle grandi opere dell’Europa, nei monumenti, nei paesaggi della civiltà. Certo, rileggere l’opera di classici come Shakespeare, Cartesio, Dante o Goethe o farsi incantare dalla musica di Mozart e di Verdi non può che far bene. A me, ad esempio, interessa politicamente il concetto di “letteratura mondiale” di Goethe. Con esso egli intende un processo di apertura al mondo, nel quale l’alterità dello straniero diventa componente anche della propria autocoscienza. Ciò implica l’apertura dell’orizzonte, del nazionale, della propria lingua. In questo senso Thomas Mann parla di “tedeschi del mondo”; ma si può parlare anche di “italiani del mondo”, “francesi del mondo”, “spagnoli del mondo”, “inglesi del mondo”, “polacchi del mondo”, ecc., cioè di un’Europa delle nazioni cosmopolitiche.

«Dalle coste dell’Africa», scrive Albert Camus, «dove sono nato, si vede meglio il volto dell’Europa. E si sa che non è bello». Per Camus, allievo di Nietzsche, la bellezza è un criterio della verità e della vita buona. La storia ha logorato tante cose — l’idea di nazione, l’astuzia della ragione, la speranza nella forza liberatrice della razionalità e del mercato; perfino l’idea di progresso è diventata l’origine dell’apocalisse. La poesia brilla, ma lo fa nel modo più intenso dove lotta con la disperazione, lo sdegno, la perversità, la mancanza di senso. Anzi, essa manifesta la sua massima efficacia quando fa dileguare il volto dell’uomo (europeo).

Il segreto dell’Europa, afferma un disilluso Camus, è «che non ama più la vita… ». E allora qual è l’antidoto, la visione alternativa di un’altra Unione Europea, nella quale si viva la gioia per il puro presente? L’Europa italiana! Ad esempio, il sogno di un «letto matrimoniale mediterraneo» (Michael Chevalier), nel quale l’Est e l’Ovest, il Nord e il Sud si amerebbero. Nasce così l’immagine di un’Europa delle regioni dove valga la pena di vivere e che meriti di essere amata. Il nesso apparentemente necessario tra Stato, identità nazionale e lingua unitaria si è dissolto. L’Unione, gli Stati membri e le loro regioni si occupano a diversi livelli del bene dei cittadini. Da un lato, essi danno loro una voce nel mondo globalizzato; dall’altro, un senso di sicurezza e un’identità regionale. La democrazia diventa democrazia a più livelli, come già cominciamo a praticarla: il Mediterraneo — come savoir vivre, come gioia di vivere, indifferenza, disperazione, bellezza e speranza, cioè quella mescolanza contraddittoria che noi nord-europei veneriamo e romanticizziamo come i giardini del Sud, dove «fioriscono i limoni» (Goethe).

D’accordo, il senso di colpa ha imposto anche a questa estetica e a questa poetica dell’esistenza gioiosa, cosmopolitica, mediterranea un volto grigio, brutto. Ma non è forse vero che se i tedeschi fossero andati a scuola dai giocatori di bocce del Sud non avrebbero precipitato il mondo nella Seconda guerra mondiale? Oppure che se la cancelliera Merkel fosse stata un’appassionata giocatrice di bocce non avrebbe mai predicato con zelo missionario una politica protestante di risparmio ai Paesi mediterranei? O, ancora, che se Putin fosse nato giocatore di bocce mediterraneo non avrebbe mai concepito l’idea del tutto folle di annettere l’Ucraina?

Iris Radisch scrive che «il pensiero mediterraneo regionale e confederale è sopravvissuto alle grandi ideologie nazionali e politiche, e forse è la sola utopia sociale del XXI secolo che abbia ancora un futuro». E dunque, cosa potrebbe conciliare gli europei con l’Europa? Un anticentralismo. L’ibernazione della nostalgia etnico-nazionale in tutte le sue forme. Un riavvicinamento e un ritorno alla bellezza delle regioni. Il sentimento mediterraneo. La capacità di affrontare in modo non sgradevole il caos della vita. Di rispettare la natura interna ed esterna. La coesistenza con l’altro, lo straniero, per cercare il proprio arricchimento. Ovvero, come dice Gabriel Audisio, vivere bene e morire bene.

(Traduzione di Carlo Sandrelli)

Non è solo per avere meno tagli al welfare e più risorse finanziarie per il lavoro, l'ambiente e la povertà nel mondo, ma anche perchè la pace è un bene e la guerra un male. Il nostrto nemico non è nel mirino dei "sistemi d'arma", ma al centro dei opoiteri che ci domninano. Sbilanciamoci.info, 9 aprile 2014

1.700 addetti per un fatturato di oltre 120 milioni di euro l’anno. Non parliamo di una multinazionale, ma dell’esercito di lobbisti che affolla le istituzioni europee a Bruxelles e della quantità di denaro fornita ogni anno da banche e altre imprese del settore per sostenerne le attività. Sono alcuni dei dati riassunti nel rapporto pubblicato il 9 aprile da Corporate Europe Observatory – CEO e intitolato “la potenza di fuoco della lobby finanziaria”.

Se è banale, se non ingenuo, pensare di sorprendersi di fronte alla notizia di un mondo finanziario che esercita una fortissima attività di lobby sulle istituzioni europee, ben diverso è vedere nero su bianco i dati e le cifre in gioco. Ogni regola, Direttiva, o ricerca passi da Parlamento, Commissione, BCE o qualsivoglia altra istituzione europea è soggetta a questa “potenza di fuoco”. “Probabilmente la lobby più potente del mondo”; parole non di un qualche gruppo di complottari, ma del Commissario Europeo Algirdas Semeta.

Così come non sono gruppi di complottari ma decine di parlamentari europei di diversi partiti e schieramenti che già a giugno 2010 sottoscrivono un appello nel quale testualmente si segnala che “possiamo vedere ogni giorno la pressione esercitata dall’industria bancaria e finanziaria per influenzare le leggi che li governano. Non c’è nulla di straordinario se queste imprese fanno conoscere il proprio punto di vista e hanno discussioni con i legislatori. Ma ci sembra che l’asimmetria tra il potere di questa attività di lobby e la mancanza di una esperienza opposta ponga un pericolo per la democrazia”.

Questo “pericolo per la democrazia” diventa purtroppo evidente scorrendo il rapporto di CEO. In sede europea il mondo finanziario supera la spesa in attività di lobby di ogni altro gruppo di interesse per un fattore di 30 a 1. Per fare un esempio tra i molti possibili, una recente discussione al Parlamento europeo su una Direttiva riguardante hedge fund e private equity, 900 emendamenti sui 1.700 totali sono stati redatti non da parlamentari ma da lobbisti del mondo finanziario.

Al Parlamento europeo sono attivi gruppi come il European Parliamentary Financial Services Forum (EPFSF) che comprende membri del Parlamento e lobbisti finanziari per “promuovere un dialogo tra il Parlamento europeo e l’industria dei servizi finanziari”. Questo dialogo comprende ad esempio inviti ai parlamentari per “seminari educativi sul trading dei derivati”. Il forum è finanziato principalmente dai suoi 52 membri, tra i quali JP Morgan, Goldman Sachs International, Deutsche Bank, Citigroup e altri. E’ possibile saperlo perché ad oggi è l’unico gruppo di rilievo in ambito finanziario a rivelare il nome dei propri membri. Il “Registro per la Trasparenza” delle attività di lobby, istituito in UE nel 2008 per provare a fare chiarezza, è infatti unicamente volontario, lasciando a imprese e lobbisti la scelta di registrarsi o meno. Sta di fatto che un singolo parlamentare europeo rivela di avere ricevuto qualcosa come 142 inviti in due anni dal mondo finanziario per “eventi”, “seminari” o simili.

Secondo il rapporto, dopo lo scoppio della crisi la lobby finanziaria ha partecipato ad almeno 1.900 incontri e consultazioni con la Commissione e le altre istituzioni europee. Un numero da mettere in relazione con il centinaio di incontri che coinvolgevano reti e organizzazioni della società civile e con gli 84 con il mondo sindacale.

Analogamente, il dato (prudenziale) di 120 milioni di euro l’anno speso per le lobby finanziarie è da mettere a confronto con una disponibilità intorno ai 4 milioni per ONG, società civile e sindacati. Un rapporto superiore a 30 a 1 che fa impallidire i pur evidenti squilibri presenti in altri settori. Ad esempio per quanto riguarda l’agro-alimentare, la stima è di 50 milioni di euro dell’industria a fronte di 12 milioni per associazioni di consumatori, ONG e sindacati.

Lo squilibrio è se possibile ancora più impressionante quando si va a vedere la composizione dei “gruppi di esperti” ovvero gli organi consultivi ufficialmente costituiti da Commissione, BCE o agenzie di supervisione finanziaria per ricevere consigli e pareri su aspetti e normative specifiche. In molti casi la rappresentanza supera abbondantemente il limite della decenza, se non quello del ridicolo. Nel De Larosière Group on financial supervision in the European Union 62 membri dal mondo finanziario, 0 da società civile, sindacati o altri gruppi di interesse; sulla MIFID, direttiva fondamentale sul funzionamento dei mercati finanziari europei, 77 contro 5; nel gruppo di esperti sui Derivati, 86 esperti del mondo finanziario, 0 tra Ong, consumatori o sindacati. Secondo il rapporto, in totale oltre il 70% dei consulenti e degli esperti nei gruppi della Commissione ha legami diretti con il mondo finanziario, a fronte di uno 0,8% delle Ong e del 0,5% dei sindacati.

Se possibile va ancora peggio alla BCE, che ha promosso degli “Stakeholder Groups”. La parola stakeholder viene solitamente tradotta in italiano con “portatore di interesse” e dovrebbe indicare chiunque ha appunto un qualche interesse in una determinata impresa o istituzione. Il gruppo presso la BCE prevedeva 95 membri provenienti dal settore finanziario, e 0 (zero!) tra organizzazioni della società civile, consumatori, sindacati. Veniamo così a scoprire che le politiche della Banca Centrale Europea non hanno evidentemente nessun interesse per cittadini e lavoratori europei.

I risultati? Qualsiasi proposta di regolamentazione va avanti nel migliore dei casi con il freno a mano tirato, e le legislazioni in materia finanziaria vengono diluite fino a renderle spesso totalmente inefficaci. Il mondo finanziario in massima parte responsabile dell’attuale crisi continua a lavorare indisturbato, mentre al culmine del paradosso sono Stati e cittadini che la stessa crisi l’hanno subita a ritrovarsi con il cerino in mano e a dovere accettare sacrifici e austerità.

La burocrazia europea procede a ritmi impressionanti quando si tratta di imporre vincoli e controlli, se non una vera e propria ingerenza, sugli Stati sovrani, i loro conti economici e le loro politiche. Ma dall’altra parte la bozza di Direttiva sulla tassa sulle transazioni finanziarie rimane impantanata tra infinite discussioni e veti incrociati. La separazione tra banche commerciali e banche di investimento, che tutti gli studi riconoscono come un passo essenziale per evitare il ripetersi di disastri come quello degli ultimi anni, è ancora un vago progetto. A settembre 2013 il Commissario europeo Barnier annuncia tranquillamente in un comunicato stampa che “dobbiamo ora affrontare i rischi posti dal sistema bancario ombra”. Mentre gli Stati sono sottoposti a un controllo strettissimo, per il gigantesco sistema bancario ombra che si muove al di là di qualsiasi regola o controllo, a cinque anni dal fallimento della Lehman Brothers e oltre sei dallo scoppio della crisi, la Commissione, bontà sua, dichiara che è tempo di mostrare un qualche interesse.

Se le istituzioni europee avessero dimostrato verso il gigantesco casinò finanziario che ci ha trascinato nella crisi solo una frazione dell’impegno messo per imporre sacrifici e austerità a chi ne ha pagato le conseguenze, probabilmente oggi i cittadini europei starebbero leggermente meglio. In una recente intervista, Luciano Gallino ricorda che “il paradosso è che la crisi, fino all’inizio del 2010, è stata una crisi delle banche. Poi è iniziata una straordinaria operazione di marketing: si è fatta passare l’idea che il problema fossero i debiti pubblici degli stati”. Da oggi riusciamo a capire un po’ meglio con quali mezzi e risorse tale straordinaria operazione di marketing sia stata e continui ad essere realizzata.

Il rapporto integrale è disponibile su: http://corporateeurope.org

Niente di nuovo sotto il sole. « Il fascino cupo del carisma ritorna, come extrema ratio, e contrappone l’Azione al Pensiero, il Demiurgo al Riflessivo, il Fare al Pensare. Dall’intellettuale dei miei stivali di craxiana memoria al renzismo di oggi. Un po’ Craxi, un po’ Berlusconi, con la velocità del prestigiatore». Il manifesto, 9 aprile 2014

«Certo, Socrate, la filo­so­fia è un’amabile cosa, pur­ché uno vi si dedi­chi, con misura, in gio­vane età; ma se uno vi passi più tempo del dovuto, allora essa diventa rovina degli uomini», tanto più se s’intende ammi­ni­strare la città.
Così dice Cal­li­cle nel Gor­gia, il dia­logo pla­to­nico dedi­cato alla Reto­rica, e aggiunge che «chi si attar­dasse più tempo del dovuto» su quel sapere astratto, e pre­ten­desse di dir la pro­pria sulle cose della Polis, fini­rebbe per infa­sti­dire e intral­ciare, per­ché ine­sperto delle “cose del mondo”: degli “affari” pri­vati e pub­blici, «dei costumi degli uomini nor­mali», tanto da «ren­dersi ridi­colo allo stesso modo in cui si ren­dono ridi­coli i poli­tici quando s’intromettono nelle vostre dispute e nei vostri astrusi ragio­na­menti». E’, il suo, il primo esem­pio – un arche­tipo – di quel disprezzo per la cono­scenza e per i“sapienti” (per gli intel­let­tuali, appunto) che ritor­nerà infi­nite volte nelle zone gri­gie della storia.
Su chi fosse Cal­li­cle si hanno poche infor­ma­zioni. Com­pare come una meteora in quest’unico dia­logo, e poi scom­pare. Di lui si sa solo che era un gio­vane (più gio­vane di Socrate e anche di Pla­tone) molto ambi­zioso. Che mili­tava nel par­tito oli­gar­chico. E che era un sofi­sta nel senso prag­ma­tico del ter­mine, cioè un fau­tore di quell’intreccio tra sapere e affari che si pra­ti­cava nella scuola di Gor­gia (sorta di Cepu dell’età clas­sica), e di quell’idea della Reto­rica come arte della per­sua­sione altrui che teo­riz­zava il pri­mato del Discorso sulla Giu­sti­zia, sfor­nando schiere di pri­mi­ge­nii Ghe­dini ate­niesi. Volendo fare il gioco della tra­spo­si­zione dall’Atene del IV secolo a.c. alla nostra disa­strata Città, potremmo dire che Cal­li­cle incar­nava in sé un po’ di Renzi e un po’ di Berlusconi.
Del primo aveva, oltre all’età e all’ambizione, il mito dell’energia e della forza, e l’insofferenza (tipica anche dell’altro) per le regole e le leggi, con­si­de­rate impacci. Peg­gio, inven­zioni di «uomini deboli e del volgo» fatte per fre­nare i forti, i «ben dotati dalla natura», — i “veloci”, potremmo dire, o i furbi — e impe­dir loro di fare «e di pre­va­ri­care» (testual­mente nell’originale) come richie­de­rebbe invece il «diritto di natura», il quale risponde alla regola del fatto com­piuto, del diritto del più forte e del più capace a «scrol­larsi di dosso» e «fare a pezzi… i nostri scritti, incan­te­simi, sor­ti­legi e leggi, che sono tutti con­tro natura».
Del secondo (e solo di que­sto) con­di­vi­deva il culto per la sen­sua­lità e l’intemperanza, per la dila­ta­zione del desi­de­rio e del pia­cere come cul­mine della feli­cità, nella con­vin­zione che «colui che intende vivere con ret­ti­tu­dine [«secondo natura»] deve lasciare che i pro­pri desi­deri s’ingigantiscano il più pos­si­bile e non deve met­tervi freno» per «saperli ser­vire, con corag­gio e accu­ra­tezza» una volta che essi abbiano rag­giunto il cul­mine. Pul­sioni, umori, diversi, ma in qual­che misura uni­fi­cati dalla comune osti­lità – dall’odio rive­stito di disprezzo — per la rifles­si­vità, il lavoro, ine­vi­ta­bil­mente più lento e meno ferino, del pen­siero. I suoi moniti e le sue dub­bio­sità. In una parola per il ruolo sto­rico dei cosid­detti “intellettuali”.
Sem­bra impos­si­bile, ma è così. Ogni volta che il nostro Paese risco­pre il fascino cupo del cari­sma come , è lì che ritorna, alla velo­cità della luce: a quell’archetipo tos­sico che con­trap­pone l’Azione al Pen­siero. Il Demiurgo al Rifles­sivo. Il Fare al Pen­sare. E addita nell’“intellettuale” il nemico della Patria. Il peda­groso posa­piano che ral­lenta gli arditi. L’ostacolo pignolo al radioso futuro che il piè veloce Achille pro­mette e manterrà.
E’ suc­cesso una tren­tina di anni fa con Craxi, nel momento in cui la Prima Repub­blica entrava nella sua fase coma­tosa (ricor­date l’invettiva con­tro gli «intel­let­tuali dei miei sti­vali»?). E si è ripe­tuto una ven­tina di anni or sono, con Ber­lu­sconi, quando nac­que (male, malis­simo) la cosid­detta Seconda Repub­blica, nell’odore di fango e nella mar­cia trion­fale dei media. Era suc­cesso, con aspetti ben più tra­gici, quasi un secolo or sono, con la crisi dello stato libe­rale e l’avvento del mus­so­li­ni­smo. Suc­cede oggi – si parva licet – con Mat­teo Renzi, al suo esor­dio come impro­ba­bile sal­va­tore della patria. Ogni volta si è assi­stito all’esibizione dello stesso les­sico, con poche varia­zioni. E chi richia­mava all’opportunità di sof­fer­marsi sulla pro­ble­ma­ti­cità dell’accadere, sulla sua com­ples­sità non ridu­ci­bile con le parole magi­che, è stato liqui­dato con una catena di ter­mini che vanno dal post­bel­lico ““disfat­ti­sta” e “imbelle”, al deni­gra­to­rio “insulso” («insulso intel­let­tuale» fu la for­mula con cui Mus­so­lini invitò il Pre­fetto di Torino a per­se­gui­tare Gobetti) ai più didat­tici «pro­fes­so­roni» o «pro­fes­so­rini» (in qual­che caso «pro­fes­so­ru­coli»), all’enfatico «Soloni» o «sapien­toni», oltre i quali la crea­ti­vità dei cri­tici della cri­tica non sa andare. Né la cosa stu­pi­sce. Fa parte dell’ordine delle cose il fasti­dio per la fatica del pen­siero e l’affidamento all’uomo che risolve, tanto più quando non s’intravvedono solu­zioni possibili.

Quello che può incu­rio­sire, piut­to­sto, è l’estensione della ragna­tela oggi, che giunge a lam­bire figure che si cre­de­vano esenti da que­ste fol­go­ra­zioni sulla via del Naza­reno: non più i soliti Fel­tri e Bel­pie­tro, se pos­si­bile i meno aggres­sivi per esau­ri­mento delle bat­te­rie, ma i Gra­mel­lini, i Meni­chini, le mini­stre­bo­schi, gli edi­to­ria­li­sti dell’Unità e di Europa, gli spin doc­tors di com­ple­mento del Tg3, su lun­ghezze d’onda non dis­si­mili dai vari Gasparri (memo­ra­bile per vol­ga­rità la sua mimica sulla lun­ghezza delle par­ruc­che di Zagre­bel­sky e Rodotà, ma non molto diversa da quella del vice­di­ret­tore della Stampa sulle «vec­chie cin­ture di castità» …), tutti ad acca­nirsi con­tro l’intellettuale fre­na­tore, il disin­can­tato disin­can­ta­tore, lo scet­tico blu che spe­gne i sogni, il fasti­dioso acri­bioso che cerca sem­pre il pel nell’uovo alla mensa dei giganti… E’ molto pro­ba­bile che alcuni di que­sti “per­suasi” pro­ve­ranno un giorno ver­go­gna del pro­prio invol­ga­ri­mento, una volta sva­nito l’effetto della fasci­na­zione. Ma resta l’interrogativo sull’origine miste­riosa di quel fascino improv­viso. Che cari­sma è que­sto, che bypassa ogni lezione della sto­ria, e fa cadere ogni bar­riera all’accesso alle menti, tanto da can­cel­lare decenni di cul­tura cri­tica, razio­na­li­sta e demo­cra­tica per­ché col­pi­sce, ora, anche quei set­tori che si erano fino ad ora difesi dall’“invasione degli Iksos”?

Non è il cari­sma guer­riero del Benito Mus­so­lini delle ori­gini, uscito dalle tem­pe­ste d’acciaio e dalle trin­cee di fango. E nem­meno quello del Craxi-rapinatore di passo (Ghino di Tacco), fon­dato sul ricorso a una spre­giu­di­ca­tezza ine­dita nella sto­ria della sini­stra ita­liana nell’assalto alle ban­che e alle dili­genze. O il cari­sma pro­prie­ta­rio e geni­tale del Ber­lu­sconi re del video e delle veline final­mente spo­gliate. Il suo sem­bra più il cari­sma vir­tuale – e impal­pa­bile — della ver­ti­gine. Il trauma della velo­cità come meta­fora (e sur­ro­gato) dell’energia e come tec­nica di con­vin­ci­mento. L’essere ogni volta altrove, rispetto al luogo dei pro­blemi, così da appa­rirne il solu­tore (e il salvatore).

E’, in fondo, a ben guar­dare, la tec­nica dell’illusionista. Il segreto del pre­stige, inteso come gioco di pre­sti­gio, in cui la rapi­dità del movi­mento e l’uso del diver­sivo – del gesto che disto­glie l’attenzione – sono la chiave del suc­cesso, e per­met­tono a chi sta sul palco di con­qui­stare la dedi­zione del pub­blico pagante. Renzi in que­sto è mae­stro: fa com­pa­rire, e subito dopo scom­pa­rire, la legge elet­to­rale, una volta veri­fi­cato che di lì non si passa, subito sosti­tuita, coni­glio dal cilin­dro, dal Jobs act e dalle sli­des, esi­bendo gli 80 euro in busta paga men­tre scom­pa­iono in un fou­lard viola pezzi di sistema sani­ta­rio e di ser­vizi sociali o interi bloc­chi di patri­mo­nio pub­blico avviati alla pri­va­tiz­za­zione. Dice di aver abo­lito le pro­vince, come pro­messo, e quelle se ne stanno sem­pre lì, intatte sotto il tap­peto por­pora del tavolo, non più elet­tive ma pur sem­pre inte­gre. Pre­para la Gre­cia, ma sem­bra la Ger­ma­nia. Finge un bat­ter di pugni men­tre in realtà batte i tac­chi. Ma non importa, gli occhi sognanti del pub­blico sono persi nel volo di colombe e guai a chi, restando fermo nel ver­ti­gi­noso movi­mento, scruta sotto il man­tello per cogliere il trucco.

L’odiato intel­let­tuale è odiato per que­sto. Per­ché minac­cia di sve­lare il pre­stige. Di disin­can­tare l’illusione. Nemico con­di­viso di tutti gli spet­ta­tori che, inca­paci di par­te­ci­pare alla solu­zione del pro­blema, pre­fe­ri­scono vedersi rap­pre­sen­tata la mate­ria­liz­za­zione della spe­ranza. La sua filo­so­fia è peri­co­losa, come lo fu l’occhio inge­nuo del bam­bino che rive­lava la nudità del re. Pas­serà pro­ba­bil­mente, come tutte le infa­tua­zioni. Ma intanto sarà dura. Unica con­so­la­zione: la con­sta­ta­zione che oggi, dell’“uomo di mondo” Cal­li­cle – che con­tra­ria­mente all’“insulso” e “inge­nuo” Socrate non inse­guiva le nuvole e le idee -, nes­suno ricorda nep­pure più il nome.

Primi commenti su un documento che conferma ldeologia neoliberista dominante e fa temere ombre ancora più cupe sul nostro futuro. Il manifesto, 9 aprile 2014

Il governo Renzi odia la spesa pub­blica, ama lo stato minimo, il mer­cato, la fles­si­bi­lità e tutto l’armamentario della teo­ria eco­no­mica libe­ri­sta. Ogni misura o inter­vento passa dal taglio alla spesa pub­blica. Volete 80 euro al mese a par­tire da mag­gio, la famosa quat­tor­di­ce­sima? Allora taglio un valore cor­ri­spon­dente di ser­vizi pub­blici. La misura vale 6,6 mld di euro per il 2014, che a regime diven­tano di 32 mld di tagli. Quindi il governo pro­gramma un appro­fon­di­mento della spen­din review, cioè una ulte­riore stretta della spesa pub­blica. Tagli mirati e attenti ai biso­gni dei cit­ta­dini? La spesa sani­ta­ria si riduce? Gli inve­sti­menti dimi­nui­scono? I salari del pub­blico impiego non saranno ade­guati? Gli inca­pienti? Effetti col­la­te­rali. Aspet­tiamo con curio­sità il decreto del 18 aprile e que­sta volta Renzi non potrà elu­dere il tema come ha fatto durante la con­fe­renza stampa.
Nei pros­simi giorni valu­te­remo meglio il Def (docu­mento eco­no­mico e finan­zia­ria), ma il sospetto è quello di un taglio aggiun­tivo di spesa rispetto a quelli già programmati. Se i cal­coli sono cor­retti, i tagli potreb­bero rag­giun­gere i 42 mld di euro. Sotto trac­cia c’è il fiscal com­pact e la ridu­zione di un ven­te­simo del debito pub­blico ecce­dente il 60% del rap­porto debito/Pil. La recente cre­scita del debito è una­tan­tum, legata al paga­mento dei debiti pre­gressi e al con­tri­buto ita­liano al fondo salva stati europeo.
Se il Pil cre­scesse del 2% risol­viamo il pro­blema (Padoan). Pec­cato che la cre­scita, per il 2014, sarà dello 0,8%. L’effetto macroe­co­no­mico delle misure, su cui il governo sta ancora ragio­nando come ha comu­ni­cato il pre­si­dente del Con­si­glio, è di qual­che deci­male, e non potrebbe essere diver­sa­mente. Se con­so­li­diamo l’avanzo pri­ma­rio, cioè una ridu­zione secca della domanda effet­tiva, la spesa pub­blica, una ridu­zione della domanda di ser­vizi pub­blici e di lavoro equi­va­lente, signi­fica ridurre la domanda aggre­gata di non meno di 40–50 mld di euro.
Il defi­cit è coe­rente con il pro­gramma di rien­tro deli­neato dal governo Letta. Per il 2014 il defi­cit sarà del 2,6% e del 2% nel 2015. Nel 2016 sarà rag­giunto il pareg­gio di bilan­cio strut­tu­rale, come impo­sto dall’infelice modi­fica della costi­tu­zione fatta dal Governo Monti. Nel frat­tempo cre­sce la disoc­cu­pa­zione. Ci vuole tempo per vedere gli effetti delle misure del job act. Imma­gino di quanto possa cre­scere il lavoro a tempo deter­mi­nato. La cre­scita è stata del 164%, la più alta a livello euro­peo. In tutta one­stà non vedo molti altri spazi di crescita.

Un appunto. Non c’è trac­cia di poli­tica indu­striale. Il primo job act almeno faceva finta di trat­tarla. Ma la realtà ha supe­rato di molto la fantasia

«». Il manifesto, 8 aprile 2014 (m.p.r.)

Vor­rei invi­tare tutti (opi­nione pub­blica, sog­getti poli­tici, respon­sa­bili isti­tu­zio­nali, noi stessi) a fare uno sforzo per uscire dalla vuota reto­rica domi­nante, dalla poli­tica dello sber­leffo, dalla fasci­na­zione della frase ad effetto. Per guar­dare al merito delle cose. Impres­siona, in effetti, vedere come la discus­sione pub­blica sulle riforme costi­tu­zio­nali si svolga ormai pre­scin­dendo del tutto dai fatti e dal con­te­nuto della riforma pro­po­sta. Alle cri­ti­che non si risponde nel merito, ma ci si limita ad adot­tare una stra­te­gia di dele­git­ti­ma­zione delle per­sone (la pole­mica con­tro il «pro­fes­so­roni» ne rap­pre­senta l’epitome). Par­tiamo allora dai fatti, per poi espri­mere delle valutazioni.

Ini­ziamo dal metodo. Nel nostro ordi­na­mento costi­tu­zio­nale al governo non spet­tano tutti i poteri, bensì solo alcune fon­da­men­tali, ma pur sem­pre defi­nite, fun­zioni. Esso prin­ci­pal­mente è tito­lare — assieme ad altri organi — dell’indirizzo poli­tico che si rea­lizza nel pro­gramma di governo. Tra­di­zio­nal­mente sfugge all’esecutivo la mate­ria costi­tu­zio­nale ed è per que­sto che le ini­zia­tive per l’eventuale revi­sione della costi­tu­zione sono prese dal par­la­mento, che è l’organo a cui spetta il potere di revi­sione. La ragione sostan­ziale che porta a que­sta sepa­ra­zione di com­piti (al governo l’ordinaria gestione del potere, al par­la­mento la straor­di­na­ria manu­ten­zione del testo della costi­tu­zione) dovrebbe essere intui­tiva e accet­tata da ogni per­sona che abbia con­sa­pe­vo­lezza dell’importanza del prin­ci­pio della divi­sione dei poteri: ad evi­tare il rischio che una mag­gio­ranza poli­tica inter­venga impro­pria­mente sulle regole di tutti. È vero che abbiamo assi­stito — anche nel recente pas­sato — ad ini­zia­tive gover­na­tive per la modi­fica della costi­tu­zione, ovvero si pos­sono richia­mare espe­rienze di altri Stati. Non è dun­que un «colpo di stato» (a pro­po­sito di toni ecces­sivi) quello che si è posto in essere con la pre­sen­ta­zione da parte del governo di un dise­gno di legge di revi­sione del bica­me­ra­li­smo per­fetto e del Titolo V. Ciò non toglie però che l’assunzione della respon­sa­bi­lità diretta della revi­sione da parte del governo Renzi evi­den­zia uno squi­li­brio a favore dell’esecutivo e a sca­pito del legislativo.

Ad evi­tare di aggra­vare lo scom­penso si dovrebbe pen­sare di sot­to­porre alla più libera discus­sione il dise­gno del governo, soprat­tutto in sede par­la­men­tare, che — si ripete — è l’organo tito­lare del potere di revi­sione. Invece, si assi­ste alla chiu­sura di ogni spa­zio di dibat­tito: si impone una tem­pi­stica (entro il 25 mag­gio la prima let­tura del senato), si esclude ogni con­fronto con le diverse pro­po­ste pre­sen­tate da gruppi di par­la­men­tari (quella ben più medi­tata pre­sen­tata da 22 sena­tori dello stesso par­tito di Renzi), si pre­an­nun­ciano impro­prie san­zioni poli­ti­che in caso di fal­li­mento del pro­getto gover­na­tivo (far fal­lire le ambi­zioni del lea­der di governo ver­rebbe san­zio­nato con il clas­sico e un po’ inquie­tante «tutti a casa»). Com­por­ta­menti for­mal­mente legali (tutto ciò che non è vie­tato e pos­si­bile), cio­non­di­meno sostan­zial­mente privi di legit­ti­mità (ponen­dosi in con­tra­sto con i prin­cipi di fondo del nostro ordi­na­mento politico).

Per quanto riguarda il metodo, dun­que, può dirsi che esso tende ad imporre una deci­sione, sot­traendo al legit­timo tito­lare del potere di revi­sione — ma anche al libero dibat­tito dell’opinione pub­blica — ogni spa­zio di discus­sione. È pos­si­bile avan­zare delle cri­ti­che sul metodo senza per que­sto essere messi all’indice e tac­ciati di osta­co­lare le riforme? La richie­sta di discu­tere nel merito e nelle sedi appro­priate le riforme costi­tu­zio­nali è una esi­genza sen­tita sola da disprez­zati «intel­let­tuali mili­tanti»? Il fatto — sem­pre richia­mato — che sono trent’anni che si parla di riforme può rap­pre­sen­tare una giu­sti­fi­ca­zione per non discu­tere più nulla pro­prio nel momento in cui si cerca di dare seguito a que­sto dibattito?

Pas­siamo ora al merito. Per quanto riguarda la riforma del senato ho già argo­men­tato sul mani­fe­sto del 25 marzo la mia opi­nione. Ora vor­rei pormi solo la domanda che a me pare essere quella fon­da­men­tale per poter giu­di­care la pro­po­sta avan­zata dal governo. Dopo l’approvazione della riforma avremmo raf­for­zato o inde­bo­lito il sistema par­la­men­tare? Sarebbe infatti assai discu­ti­bile cam­biare per sbi­lan­ciare ulte­rior­mente gli equi­li­bri tra i poteri, a favore del governo e a sca­pito del par­la­mento. Non è allora tanto un’astratta model­li­stica costi­tu­zio­nale che viene in gioco (ovvero la sua ver­sione pro­pa­gan­di­stica: ridu­zione dei costi e odio alla casta), quanto l’effettivo ruolo che si vuole asse­gnare ai distinti poteri. Come scri­vono i costi­tu­zio­na­li­sti, si tratta di ride­fi­nire gli equi­li­bri incri­nati della forma di governo par­la­men­tare ita­liana. Qui scatta l’allarme: secondo alcuni la ridu­zione della seconda camera a organo pri­vato di legit­ti­ma­zione diretta e di fun­zioni di garan­zia, senza un cor­ri­spet­tivo aumento dei poteri dell’altro ramo del par­la­mento, non­ché la con­cen­tra­zione di ulte­riori poteri nelle mani del governo (la «ghi­gliot­tina» per l’approvazione delle leggi), rende que­sta riforma costi­tu­zio­nale temi­bile. È un sospetto infon­dato? Discu­tia­mone. E invece no, non si può fer­mare il treno delle riforme. Non c’è dub­bio che alcuni costi­tu­zio­na­li­sti pos­sono apprez­zare l’impianto del dise­gno di legge gover­na­tivo (ci sarebbe da stu­pirsi se così non fosse), ma forse si dovrebbe dare ascolto anche alle voci dis­sen­zienti. La poli­tica di dele­git­ti­ma­zione delle cri­ti­che e delle per­sone non alli­neate non solo è una caduta di stile, ma anche un’altro argo­mento di pre­oc­cu­pa­zione di una pos­si­bile «svolta auto­ri­ta­ria». Una frase che ha fatto irri­tare molti e ha sca­te­nato rea­zioni allarmate.

Anche in que­sto caso — al di là dei toni ecces­sivi da tutti uti­liz­zati — andiamo alla sostanza. Il rilievo che i modelli demo­cra­tici stiano subendo una tor­sione auto­ri­ta­ria non mi sem­bra molto ori­gi­nale. Sono decenni che si discute di una ridu­zione degli spazi di par­te­ci­pa­zione e di pro­gres­siva con­cen­tra­zione del potere. In Ita­lia, poi, sono vent’anni almeno che si assi­ste ad un gra­duale slit­ta­mento verso forme sem­pre più auto­cra­ti­che di gestione del potere. La vera que­stione è allora: la riforma costi­tu­zio­nale annun­ciata accen­tua o restringe la ten­denza alla ridu­zione degli spazi di demo­cra­zia? Inde­bo­lire il par­la­mento, aumen­tare i poteri del governo, non sta­bi­lire misure di rie­qui­li­brio e di garan­zia a fronte di una legge elet­to­rale con cui si vuole for­zare la rap­pre­sen­tanza per con­se­guire lo scopo di asse­gnare ad un solo com­pe­ti­tore la mag­gio­ranza asso­luta dei seggi nell’unica camera poli­tica rima­sta, mi sem­bra riveli la dire­zione di mar­cia. Non è ancora suf­fi­ciente per par­lare di «svolta auto­ri­ta­ria»? In effetti, si potrebbe anche dire che si sta sem­pli­ce­mente pro­se­guendo sulla stessa strada del pas­sato. Sco­prendo così, final­mente, quel è il segno della svolta annunciata.

Giunti a que­sto punto sarebbe vera­mente auspi­ca­bile una seria discus­sione sulle poli­ti­che costi­tu­zio­nali. Dovremmo anzi­tutto aver chiaro però che non si cam­bia la costi­tu­zione solo per ragioni d’immagine, bensì per inver­tire una rotta che ci ha con­dotto ad inde­bo­lire pro­gres­si­va­mente il sistema par­la­men­tare e ad un’eccessiva con­cen­tra­zione ed auto­re­fe­ren­zia­lità dei poteri, non com­pen­sata da una mito­lo­gia della gover­na­bi­lità senza popolo. È pro­prio da quella parte della dot­trina che oggi viene accu­sata di aver bloc­cato per trenta anni il cam­bia­mento costi­tu­zio­nale che sono state avan­zate le pro­po­ste più radi­cali. Per dirne una: per­ché anzi­ché limi­tarci a dif­fe­ren­ziare il bica­me­ra­li­smo non pen­siamo ad adot­tare un sistema mono­ca­me­rale eletto a suf­fra­gio uni­ver­sale con sistema proporzionale?

Qual­cuno, lascian­dosi pren­dere da un eccesso pole­mico, ha rite­nuto di poter assi­mi­lare que­sta ipo­tesi all’attuale pro­po­sta di riforma. Forse vale la pena allora spie­gare quel’è la dif­fe­renza abis­sale: in un sistema demo­cra­tico il mono­ca­me­ra­li­smo pre­tende la rinun­cia ad ogni distor­sione della rap­pre­sen­tanza (un sistema elet­to­rale pro­por­zio­nale). Altro che «la sera delle ele­zioni si cono­sce chi governa per i suc­ces­sivi cin­que anni», sarebbe il ritorno alla cen­tra­lità dell’Assemblea dei rap­pre­sen­tanti. Un vero cam­bio di rotta. Chi è dispo­sto a seguire que­sta via «rivoluzionaria»?

Se non si volesse essere così radi­cali e ci si volesse limi­tare a dif­fe­ren­ziare il bica­me­ra­li­smo, se inol­tre non si volesse rinun­ciare alla mal­sana idea di adot­tare un sistema elet­to­rale che assi­cura la gover­na­bi­lità sacri­fi­cando la rap­pre­sen­tanza (nella per­versa forma ideata dall’Italicum), si dovrebbe quan­to­meno assi­cu­rare che la seconda camera possa bilan­ciare l’accentramento dei poteri. Costi­tuen­dosi come senato di garan­zia i cui mem­bri non siano espres­sioni delle isti­tu­zioni, bensì rap­pre­sen­tanti scelti in base al prin­ci­pio di pura pro­por­zio­na­lità, con uno sta­tuto che assi­curi un forte peso poli­tico di con­trollo alle minoranze.

Ma è dif­fi­cile, di que­sti tempi, solo adom­brare pos­si­bili sce­nari alter­na­tivi, biso­gne­rebbe far com­pren­dere ai soloni della riforma, che cam­biare una costi­tu­zione non è solo un pro­blema di velo­cità, ma anche di equilibrio.

«Stanno rendendo impossibile l’arresto, anche domiciliare, per la corruzione e gli altri reati tipici dei colletti bianchi”, comprese le bancarotte, le evasioni fiscali anche di grandi dimensioni, le malversazioni e altre violazioni di tipo economico». Il Fatto quotidiano, 6 aprile 2014
Circolano due balle sesquipedali. La prima, sostenuta da Corriere , Stampa, Foglio, Giornale, Libero e avallata dal premier Renzi e dall’autorevole ministra delle Riforme Maria Elena Boschi, formatasi su Topolino e Tiramolla, è che da 30 anni non si fanno le riforme per colpa dei terribili veti imposti dai “professoroni” Zagrebelsky, Rodotà & C. La seconda è che il Senato è un ente inutile, dunque tanto vale abolirlo, anzi trasformarlo in una bocciofila per il tempo libero di governatori, sindaci, consiglieri regionali e amichetti ottuagenari del Colle.
Purtroppo per lorsignori, a smentire entrambe le balle in un colpo solo c’è la cosiddetta “riforma della custodia cautelare”, votata da tutti i partiti (tranne M5S, FdI e Lega) alla Camera, emendata dal Senato e ora di nuovo a Montecitorio per l’approvazione definitiva. A sbugiardare chi dice che da 30 anni non si fanno riforme, c’è il fatto che questa è la diciannovesima riforma delle manette dal 1990, cioè dall’entrata in vigore del nuovo Codice di procedura penale. A smentire chi dice che il Senato non serve, c’è il fatto che – se fosse già in vigore la riforma Renzusconi – quella legge sarebbe partita dalla Camera e il Senato avrebbe potuto esprimere solo un parere consultivo, che la Camera avrebbe potuto ignorare. Dunque la legge sarebbe già in vigore.
Con questi bei risultati, illustrati – come riferisce Giovanni Bianconi sul Corriere – dal procuratore di Roma Giuseppe Pignatone (non una toga rossa, un fanatico giustizialista, un professorone conservatore: Pignatone): “Stanno rendendo impossibile l’arresto, anche domiciliare, per la corruzione e gli altri reati tipici dei colletti bianchi”, comprese le bancarotte, le evasioni fiscali anche di grandi dimensioni, le malversazioni e altre violazioni di tipo economico. Non solo: dalle porte delle galere spalancate per lorsignori passeranno indenni anche i delinquenti comuni.
“Il legislatore – prosegue Pignatone – deve sapere che non si potrà arrestare neppure chi compie delitti di strada, come lo scippo, il furto, fino alla rapina, a meno che uno non entri in banca col kalashnikov. Potremo applicare la carcerazione preventiva solo a chi ha precedenti condanne definitive, forse, ma agli incensurati no. Mi auguro che il Parlamento ci pensi bene, per non trovarsi costretto a tornare sui propri passi al prossimo allarme sulle città insicure o sulla criminalità diffusa che si fatica a contenere. Spero che deputati e senatori siano consapevoli di quello che stanno facendo, prima delle prevedibili polemiche in cui ci si chiederà perché un presunto rapinatore si trovava libero di colpire ancora, anziché in galera”.
La porcata, infatti, partorita da menti superiori come la pidina Ferranti, il ministro Orlando e i loro degni compari forzisti, prevede tra l’altro la quasi impossibilità di arrestare gli incensurati (tanto lorsignori, a furia di prescrizioni, delinquono a manetta, ma sono sempre incensurati) e soprattutto pretende che i magistrati si trasformino in indovini e in aruspici: quando beccano uno con le mani nel sacco, possono arrestarlo solo se prevedono che, alla fine del processo (una decina di anni dopo), verrà condannato definitivamente a più di 4 anni. Altrimenti niente manette, e neppure i domiciliari.
Il sogno di B., che provò infinite volte a esentare all’arresto i colletti bianchi, dal decreto Biondi dal ‘94 in poi, sta per avverarsi grazie ai berluscopidini. A meno che l’appello di Pignatone non induca la Camera a ripensarci in terza lettura. Oggi, grazie al bicameralismo regalatoci dai padri costituenti (quelli veri, non i cialtroni di adesso), il Parlamento può ancora “pensarci bene”: rimediando alla Camera i guai combinati al Senato da una classe politica dissennata, che per metà non sa quello che fa e per l’altra metà lo sa benissimo. Con il nuovo Senato e la Camera signora e padrona delle leggi, invece, cosa fatta capo avrà: i danni saranno irrimediabili e i cocci saranno tutti nostri. Tanto lorsignori viaggiano blindati e scortati, e di criminali non ne incontrano mai. A parte i loro colleghi, si capisce.
«Il governo non risponde alle critiche sulla riforma elettorale e su quella del Senato e attacca le persone. Renzi e Boschi non sanno di cosa parlano. In confronto all’Italicum, la legge truffa del 1953 è un modello di garanzie. La riforma del Senato provocherà pasticci infiniti». Il manifesto, 5 aprile 2014

«Sono uno di quei “pro­fes­sori” che blocca da trent’anni le riforme costi­tu­zio­nali? — sor­ride Ste­fano Rodotà dopo avere appreso il giu­di­zio del mini­stro per le riforme costi­tu­zio­nali Maria Elena Boschi – Credo che la mini­stra mi attri­bui­sca una sen­sa­zione di onni­po­tenza che non cor­ri­sponde alla realtà dei fatti. Mi sem­bra inve­ro­si­mile il fatto che i «pro­fes­sori», da soli, siano riu­sciti a bloc­care le riforme di Craxi, Cos­siga, Ber­lu­sconi o D’Alema. Chiun­que abbia una minima nozione di sto­ria sa che le riforme della bica­me­rale furono fatte cadere da Ber­lu­sconi. E quando quest’ultimo fece la sua riforma, fu respinto da 16 milioni di ita­liani con un refe­ren­dum. Mi pia­ce­rebbe molto avere avuto la pos­si­bi­lità di eser­ci­tare un potere così radi­cale, ma que­sto non cor­ri­sponde allo stato dei fatti e dimo­stra che una poli­tica inca­pace di effet­tuare riforme oggi cerca di rifu­giarsi in que­sti argomenti».
Anche la mini­stra Boschi sostiene che lei nel 1985 ha pro­po­sto una riforma del Senato. Ha cam­biato idea?
A parte il fatto che non c’è nulla di male nel cam­biare idea, ma que­sto rife­ri­mento è del tutto inap­pro­priato per­ché Renzi e Boschi dovreb­bero sapere – e pur­troppo non lo sanno – che la pro­po­sta pre­sen­tata 29 anni fa dalla Sini­stra Indi­pen­dente, con me Gianni Fer­rara e Franco Bas­sa­nini, andava in senso oppo­sto alla loro. Allora ci oppo­ne­vamo al ten­ta­tivo di Craxi di con­cen­trare i poteri del governo, esat­ta­mente come vuole fare oggi Renzi.
In cosa con­si­steva quella riforma?
nten­deva raf­for­zare il par­la­mento e i diritti e aveva uno spi­rito che si ritrova nella sen­tenza della Corte Costi­tu­zio­nale sul «Por­cel­lum» che non garan­ti­sce la rap­pre­sen­tanza. Avan­zammo quella pro­po­sta quando c’era una legge elet­to­rale pro­por­zio­nale, i depu­tati veni­vano scelti con il voto di pre­fe­renza, i rego­la­menti rico­no­sce­vano un potere alle mino­ranze par­la­men­tari, non c’erano ghi­gliot­tine né limiti agli emen­da­menti. L’ostruzionismo della sini­stra indi­pen­dente fece cadere il decreto Craxi sulla scala mobile, da quell’esperienza nac­que anche la com­mis­sione d’inchiesta sulla P2. In quel clima si voleva con­cen­trare il mas­simo potere in una sola camera, raf­for­zan­dolo però con la sua mas­sima rap­pre­sen­tanza. Pro­po­ne­vamo di ridurre a 500 i par­la­men­tari, ma per avere un con­tral­tare al governo. Cosa che invece Renzi non vuole con l’Italicum. Renzi e Boschi non sanno di cosa par­lano. Deno­tano igno­ranza isti­tu­zio­nale. È un fatto grave, oltre che moral­mente una cat­tiva azione.

Il governo, e non solo, sostiene che la sua pro­po­sta sul Senato per­met­terà di rispar­miare 1 miliardo di euro ai cit­ta­dini. Sem­bra una pro­po­sta allettante.
La trovo una con­ces­sione all’antipolitica. Si tratta di un argo­mento che può por­tare in qual­siasi dire­zione. Più che alla logica, risponde alla peg­giore ricerca del con­senso. Baste­rebbe la ridu­zione dei par­la­men­tari e delle retri­bu­zioni per otte­nere que­sto rispar­mio senza rovi­nare gli equi­li­bri costituzionali.

Ritiene che i ren­ziani stiano rea­gendo all’appello che lei ha fir­mato insieme a Gustavo Zagre­bel­sky e altri giu­ri­sti con­tro la «svolta auto­ri­ta­ria» del governo?
Abbiamo rite­nuto di intro­durre con deter­mi­na­zione que­ste argo­men­ta­zioni nel dibat­tito pub­blico. Ma non ci viene data rispo­sta e si attac­cano le per­sone. Ancora in tempi recenti ci sono state un’infinità di pro­po­ste da parte dei «pro­fes­sori» a dimo­stra­zione che sono del tutto alieni dal difen­dere o dal con­ser­vare. Su Il Mani­fe­sto c’è stata la pro­po­sta di Vil­lone o di Azza­riti, ad esem­pio. Vor­rei anche ricor­dare che ave­vamo indi­cato una solu­zione con la mani­fe­sta­zione della «Via Mae­stra» nell’ottobre 2013. Sull’articolo 138 e la modi­fica voluta dal governo Letta, abbiamo pro­po­sto di modi­fi­care il numero dei par­la­men­tari e rifor­mare il Senato, ma in un modo assai lon­tano dalla pro­po­sta attuale. Chie­de­vamo al governo Letta di ini­ziare subito. Se fosse stato seguito que­sto con­si­glio avremmo già una ridu­zione dei par­la­men­tari e un Senato come camera delle garan­zie che è asso­lu­ta­mente necessaria.
Cosa le rispose Letta?
Mi invitò a Palazzo Chigi, ne par­lammo. Il risul­tato di quella con­ver­sa­zione fu il refe­ren­dum con­fer­ma­tivo sulle pro­po­ste di riforma. Per quanto cri­ti­ca­bile fosse Letta, non aveva la posi­zione di chi pro­cede come un rullo com­pres­sore. Io non mi voglio fare schiac­ciare e per que­sto alzo la voce.
Da quello che dice ci tro­viamo in una situa­zione peg­giore della «legge truffa» pro­po­sta da Scelba nel 1953…
ispetto all’Italicum, non la si dovrebbe più chia­mare in que­sto modo. Anzi, quella era un modello di garan­zia. Pensi che per con­tra­starla si usava l’argomento che non si poteva met­tere nelle mani di mag­gio­ranze costruite arti­fi­cial­mente il destino delle isti­tu­zioni. Aggiungo, a bene­fi­cio di chi ci insulta, che quella legge non passò per­chè alcuni pro­fes­sori come Cala­man­drei, Jemolo, Codi­gnola, Parri, si riu­ni­rono nel gruppo «Unità popo­lare» e insieme ad altri la bloc­ca­rono. Oggi, invece, si con­se­gna il destino della demo­cra­zia nelle mani di mag­gio­ranze costruite arti­fi­cial­mente. Quanto alla riforma del Senato non ha nulla a che vedere con le camere rap­pre­sen­ta­tive delle auto­no­mie locali come in Ger­ma­nia. È più che altro un’esercitazione da stu­denti che crea pasticci infiniti.

Che peso ha il patto del Naza­reno tra Renzi e Berlusconi?
Que­sto patto è stato una scelta infau­sta. Viola il pro­gramma elet­to­rale sul quale il Pd ha rice­vuto milioni di voti.
Ma rispetta le inten­zioni di Renzi…
C’è una bella dif­fe­renza tra un pro­gramma elet­to­rale e le pri­ma­rie di un par­tito, che sono con­sul­ta­zioni impor­tanti ma sono del tutto pri­vate. Quello di Renzi è un altro modo per dele­git­ti­mare il voto e la volontà dei cit­ta­dini. Per legit­ti­mare un’impresa così grave è stata fatta un’alleanza con Ber­lu­sconi, esclusa dal pro­gramma del Pd.
La vostra bat­ta­glia è dun­que con­tro le geo­me­trie varia­bili delle lar­ghe intese?
Non pen­savo di essere eletto a pre­si­dente della Repub­blica, ma quella can­di­da­tura era per cer­care una mag­gio­ranza diversa dalle lar­ghe intese che sareb­bero state disa­strose. Il fal­li­mento di quelle intese hanno pro­vo­cato gli esiti attuali e hanno can­cel­lato l’impegno di Renzi sul red­dito ai lavo­ra­tori o sulle unioni civili.
Dopo gli appelli orga­niz­ze­rete una mobilitazione?

Vediamo. Non cor­riamo troppo. L’appello era un passo neces­sa­rio e non saranno gli insulti a fer­marci. Le rea­zioni comin­ciano ad emer­gere: ci sono i 22 sena­tori del Pd che hanno pre­sen­tato un’eccellente pro­po­sta. Non voglio pren­dermi meriti, ma credo che espri­mano un minimo di ragionevolezza.

«La crisi infinita fa aumentare il divario tra il nord da una parte, il sud e l’est dall’altra. Le politiche dei Piigs aggravano la situazione: tagli a istruzione e ricerca, nessuna garanzia per chi rimane senza lavoro. La soluzione è inventare un modello sociale continentale, sottraendolo alle nazioni».

Il manifesto, 4 aprile 2014

I wel­fare state nazio­nali in Europa sono attra­ver­sati da più di una crisi, non ridu­ci­bili solo a quella finan­zia­ria. In primo luogo, e forse da più tempo, vi è una crisi di effi­ca­cia e appro­pria­tezza a fronte dei muta­menti avve­nuti negli assetti fami­gliari, demo­gra­fici, di mer­cato del lavoro ed eco­no­mici. Que­sta crisi a sua volta pro­duce ten­sioni tra il biso­gno di inno­vare e modi­fi­care in parte i modelli di wel­fare con­so­li­dati, per ren­derli più ade­guati alle nuove cir­co­stanze, e le resi­stenze che deri­vano non solo da diritti, e tal­volta pri­vi­legi, acqui­siti, ma dal timore che l’innovazione si tra­duca sem­pli­ce­mente in una ridu­zione gene­ra­liz­zata di diritti, senza che ciò pro­duca miglio­ra­menti com­ples­sivi e nep­pure mag­giore equità. Si tratta, per­ciò, anche di una crisi di legit­ti­mità.
La terza crisi è finan­zia­ria, in un con­te­sto in cui i governi nazio­nali hanno poco potere deci­sio­nale. Que­sta terza crisi, infatti, è l’esito di tre feno­meni distinti: a) la ridu­zione delle ricorse a causa della crisi ini­ziata a fine 2009 e tut­tora per­du­rante; b) l’indebolimento della capa­cità dei governi nazio­nali di con­trol­lare il flusso delle risorse a causa della glo­ba­liz­za­zione e di quello che è stato chia­mato foo­tlose capi­ta­lism, il capi­ta­li­smo senza ter­ri­to­rio; per i paesi dell’eurozona, gli squi­li­bri creati da un’unione mone­ta­ria senza unione poli­tica e fiscale e dall’acuirsi delle divi­sioni tra i paesi cosid­detti cre­di­tori e quelli cosid­detti debi­tori. Non vi è dub­bio che la crisi finan­zia­ria acui­sce le prime due, ridu­cendo lo spa­zio per com­pen­sa­zioni e com­pro­messi. Il ruolo di primo piano che tut­ta­via ha assunto nel discorso pub­blico e nelle deci­sioni che infor­mano le poli­ti­che nazio­nali ed euro­pee, rischia di met­tere in ombra le altre due, o di ridurle a sem­plici esiti di una man­canza di risorse, senza, quindi, per­met­tere di affron­tare i pro­blemi da cui ori­gi­nano, indi­pen­den­te­mente dalla carenza di risorse.

Allo stesso tempo, il ruolo assunto dall’Unione Euro­pea nel det­tare le regole per affron­tare la crisi ha ulte­rior­mente inde­bo­lito lo spa­zio che hanno le poli­ti­che sociali e la costru­zione di un modello sociale euro­peo nella costru­zione della Unione.

Ovvia­mente, sia l’intensità di cia­scuna di que­ste tre crisi distinte, il grado della loro inter­di­pen­denza, le risorse per affron­tarli variano da paese a paese sulla base non solo della salute delle loro eco­no­mie e del potere nego­ziale che hanno all’interno dell’Unione Euro­pea, ma anche della lun­gi­mi­ranza che hanno avuto nel recente pas­sato nell’affrontare la prima crisi. I paesi, infatti, che da più tempo si sono attrez­zati per rispon­dere all’aumento nella par­te­ci­pa­zione delle donne al mer­cato del lavoro, alla richie­sta di mag­giore egua­glianza tra uomini e donne, ai biso­gni pro­vo­cati dall’invecchiamento, alla neces­sità di non spre­care le pro­prie risorse umane creando con­di­zioni di pari oppor­tu­nità tra i bam­bini per cor­reg­gere le disu­gua­glianze nell’origine fami­gliare, che hanno capito che un mer­cato del lavoro mobile e fles­si­bile aveva biso­gno di raf­for­zare e modi­fi­care le pro­prie reti di pro­te­zione, sono stati colti meno impre­pa­rati dalla crisi, con stru­menti più ade­guati. Anche se in tutti i paesi vi sono ten­sioni attorno a se e come ride­fi­nire gli stru­menti di welfare.

In que­sto con­te­sto, non solo le poli­ti­che di auste­rità, ma il discorso con cui sono state argo­men­tate a livello Ue, il diverso uso delle san­zioni e dei richiami che ven­gono fatti se si sfora il patto di sta­bi­lità piut­to­sto che se non si rea­liz­zano gli obiet­tivi sociali ha for­te­mente inde­bo­lito i wel­fare state già in par­tenza più deboli e più biso­gnosi di riforma, come quello ita­liano, facendo pas­sare l’idea che il wel­fare state sia la causa, se non della crisi tout court, del debito pubblico.

Gli occhi di Bru­xel­les sono tutti per il defi­cit di bilan­cio. Il defi­cit sociale di alcuni paesi, tra cui l’Italia, con i tassi di povertà asso­luta e depri­va­zione che aumen­tano, la disoc­cu­pa­zione che cre­sce, le poli­ti­che di con­ci­lia­zione che non ven­gono nep­pure più nomi­nate – ben­ché visto­sa­mente lon­tani dagli obiet­tivi di Europa 2020 – non pro­duce né richiami, né ripen­sa­menti della poli­tica di austerità

«Ci sono soluzioni già note dai tempi del New Deal. L’austerità deve finire, bisogna rafforzare la domanda interna, ci vogliono investimenti pubblici nelle infrastrutture, nel campo della conoscenza. Noi europei non ci siamo indebitati per salvare le banche e poi osservarle da lontano mentre tengono chiusi i rubinetti per l’economia reale. Non abbiamo garanzie di successo ma la voglia di batterci sì, quella ce l’abbiamo ».

La Repubblica, 4 aprile 2014

«Ho fiducia nei cittadini di questo Paese. Sono convinto che le liste de “L’Altra Europa con Tsipras” troveranno le adesioni necessarie per partecipare a pieno titolo alle elezioni di maggio. Anzi, lancio un appello: Io, Alexis Tsipras, chiedo agli italiani di andare a firmare per l’unica vera forza politica controcorrente... ».

Con il leader greco di Syriza, candidato alla Presidenza della Commissione Europea, parliamo al telefono mentre si prepara al viaggio palermitano di oggi. Un programma fittissimo che prevede l’omaggio all’albero Falcone e l’incontro con i lavoratori ex Fiat Termini Imerese. Un programma mirato soprattutto a garantire sprint finale alla faticosa raccolta di firme dell’Altra Europa, regione per regione, in ossequio ad una legge parecchio punitiva. Chiacchierata a tutto campo. Su Matteo Renzi, Tsipras non è tranchant: «Sarà giudicato anche dalle sue alleanze politiche in Europa...».

Lei dice: io non sono il candidato dell’Europa del Sud. Mi scusi ma lei chi rappresenta veramente?
«Io non sono il candidato di uno Stato o di una nazione, né di una periferia geografica e neppure rappresento alleanze fra Stati. Io sono un candidato della Sinistra Europea che presenta un programma politico e di priorità programmatiche per l’uscita definitiva e solidale dalla crisi e per la riconquista della democrazia in Europa. Sono il candidato di ogni cittadino europeo che combatte contro l’austerity, indipendentemente dal voto che questo cittadino esprime alle elezioni politiche nazionali e indipendentemente da dove questo cittadino vive».

Italiani, tedeschi, greci o francesi uniti dall’avversione nei confronti del neoliberismo...
«Rappresentiamo tutti quelli che non vogliono assistere al dramma di una generazione perduta a causa dell’austerità. Rappresentiamo le classi e gli interessi sociali, non gli interessi nazionali. La mia candidatura unisce quel che il neoliberismo divide. Siamo una forza politica governativa, non uno spazio di protesta».

Cosa pensa di Matteo Renzi e delle sue riforme del lavoro e costituzionali? Un dialogo con questo Pd sarà possibile?
«Non sono qui in Italia per criticare i vostri rappresentanti politici, tantomeno per commentare la vostra agenda di politica interna. Pensa che possa essere io a suggerire al vostro governo cosa deve fare e come lo deve fare o decidere quali interlocutori debbano scegliere i nostri compagni italiani? Assolutamente no. Le posso dire però che il signor Renzi va giudicato adesso e in futuro per le scelte che farà per il suo Paese e per il segno che esse porteranno. Sarà anche giudicato sulla base delle sue alleanze politiche in Europa».

Nel senso?
«Mi riferisco al percorso che Angela Merkel considera virtuoso per l’Italia, per la Grecia e per tutta la zona Euro. Bisogna sapere che quello è un binario morto».

La Merkel come il diavolo.
«Non uso un approccio teologico con gli avversari politici. Certamente Syriza e Sinistra Europea lottano contro la politica dell’austerità che la Merkel ha imposto a tutti, eccezion fatta forse per il suo Paese. Noi ci battiamo per un’Europa democratica, non per l’Europa tedesca vestita di neoliberismo».

Lei non è di quelli, come i populisti, che vogliono uscire dall’euro. Dopo le elezioni sarà inevitabile il dialogo con gli esponenti del Pse?
«Milioni di cittadini europei credono alla moneta comune, senza il corsetto dell’austerità, senza quelle politiche che allargano sempre di più la distanza tra ricchi e poveri in tutti i Paesi. Con i rappresentanti di questi cittadini possiamo trovare un linguaggio comune».

In Italia i dati sulla disoccupazione giovanile sono agghiaccianti. Si possono garantire nuovi posti di lavoro con nuove ricette?

«Ci sono soluzioni già note dai tempi del New Deal. L’austerità deve finire, bisogna rafforzare la domanda interna, ci vogliono investimenti pubblici nelle infrastrutture, nel campo della conoscenza. Noi europei non ci siamo indebitati per salvare le banche e poi osservarle da lontano mentre tengono chiusi i rubinetti per l’economia reale. Non abbiamo garanzie di successo ma la voglia di batterci sì, quella ce l’abbiamo ».

Tsipras ma un’altra Europa è possibile?
«La storia dell’umanità è piena di sogni che sono diventati realtà. Queste elezioni sono un inizio potente per rifondare l’Europa».

C'è chi. come Zagrebelsky nell'intervista di Liana Milella, continua con tenacia a esprimere le ragioni della ragione. Ma c'è chi ha venduto la sua faccia a una ditta di demolizioni, e dietro la faccia non ha mai avuto un gran che. E ci sono le teste di paglia che lo seguono, e i caimani che gli indicano la strada.

La Repubblica, 3 aprile 2014

Una definizione della riforma Renzi? «Un annuncio di rischio». È in sintonia con il resto della Costituzione? «L’insieme, sottolineo l’insieme, mi pare configuri, come si usa dire, una fuoriuscita». Il governo avrà troppi poteri? «La questione è piuttosto chi ne avrà troppo pochi o nessuno: le minoranze, la partecipazione, le istanze di controllo». Il Senato sarà ancora degno di questo nome? «I Senati storici erano altra cosa, ma con le parole si può far quel che si vuole». Governatori e sindaci sono degni di starci? «Dipende dai compiti, cosa non chiara. Piuttosto che farne un pasticcio, sarebbe meglio abolirlo del tutto». Tra Renzi e Grasso chi ha ragione? «Francamente, più saggio m’è parso il presidente del Senato». Quanto c’è di Berlusconi nel disegno di Renzi? «Essendo d’accordo, tutto è di tutti e due. Le schermaglie non sono divergenze sui contenuti, ma timori reciproci di mancamenti ai patti o calcoli d’utilità politica contingente». Il professor Gustavo Zagrebelsky spiega a Repubblica le ragioni del suo dissenso.

Lei non è mai stato tenero con chi ha messo o tentato di mettere mano alla Carta. Sono storiche le bacchettate a Berlusconi. Con Renzi non è che si sta superando?
«C’è un disegno istituzionale che cova da lungo tempo e che, oggi, a differenza di allora, viene alla luce del sole. Gli oppositori d’un tempo sono diventati sostenitori. Delle due, l’una: o tacere, con ciò acconsentendo di fatto, o parlare forte. È quanto s’è fatto col documento di Libertà e Giustizia».

Non la imbarazza che Grillo l’abbia firmato?
«Perché dovrebbe? Se, su una certa materia, si condividono le stesse idee… C’è un fondo d’intolleranza, in questa domanda che da molte parti ci è posta. M5S ha aderito all’appello per la difesa della democrazia costituzionale: è un brutto segno? Semmai, il contrario. Poi si vedrà».

È seccato perché Renzi ha detto che non dà retta a professori come lei e Rodotà?
«Non è questione di “dar retta”, ma di ragionare e soppesare gli argomenti. Sarà lecito invitare chi deve prendere le decisioni a considerare le cose “da tutti i lati”?».

E quale sarebbe il «lato» che manca?
«L’antiparlamentarismo. Ora s’abbatte sul Senato, capro espiatorio di mali collettivi. È un sentimento elementare che non s’accontenta di qualcosa ma vuole tutto. “Tutto” significa il demiurgo di turno: fuori i trafficanti della politica, i profittatori, i corrotti, gli incompetenti, i chiacchieroni. Eppure, negli anni trascorsi, non sono mancati gli avvertimenti. Si è chiesta “dissociazione”: per riconciliarsi con i cittadini. Siamo stati accusati di antipolitica, di populismo: noi, che ci preoccupavamo di quel che stava accadendo; loro, che preferivano non vedere. E ora, proprio di questo vento gonfiano le vele. Chi sono allora gli antipolitici, i populisti, i demagoghi?».

Ma è un nostalgico del bicameralismo perfetto?
«Per nulla. Ma per mettere mano a una riforma, bisognerebbe chiarirsene il senso. Qual è la vocazione di tutte le “seconde Camere”? I Senati devono corrispondere a un’esigenza di precauzione. La democrazia rappresentativa ha un difetto: divora risorse, materialie spirituali. È una vecchia storia, alla quale non ci piace pensare. I Senati dovrebbero servire ai tempi lunghi, dato che la democrazia rappresentativa pensa ai tempi brevi, i Senati dovrebbero servire ai tempi lunghi: dovrebbero essere “conservatori di futuro”».

Il Senato finora non l’avrebbe fatto?
«Non in misura sufficiente. Per questo, non sono un nostalgico. Mi piacerebbe che si discutesse d’un Senato autorevole, elettivo, per il quale valgano rigorose norme d’incompatibilità e d’ineleggibilità, diverso dalla Camera dei deputati, sottratto però all’opportunismo indotto dalla ricerca della rielezione. Una volta, i senatori erano nominati a vita. Oggi, la nomina e la durata vitalizia non sarebbero “repubblicane”. Ma si potrebbe prevedere una durata maggiore, rispetto all’altra Camera (come era originariamente), e il divieto di rielezione e di assunzione di cariche politiche ».

Ciò significherebbe differenziare i poteri delle due Camere?
«Per ciò, si dovrebbe andare oltre il bicameralismo perfetto, non per umiliare ma per valorizzare: eliminare il voto di fiducia, ma prevedere un ruolo importante sugli argomenti “etici”, di politica estera e militare, di politica finanziaria che gravano sul futuro. Altro potrebbe essere il controllo preventivo sulle nomine nei grandi enti dello Stato, sul modello statunitense. Sarebbe uno strumento di lotta alla corruzione e di bonifica nel campo dove alligna il clientelismo. Insomma, ci sarebbe molto di serio da fare».

Il manifesto, 2 aprile 2014

La crisi ita­liana sta pro­du­cendo uno dei feno­meni poli­tici più inquie­tanti, oggi, in Europa: un popu­li­smo di tipo nuovo, viru­lento e nello stesso tempo isti­tu­zio­nale. Tanto più pre­oc­cu­pante per­ché emer­gente non al mar­gine ma nel cen­tro stesso del sistema di potere. Non dal basso (come avviene per i movi­menti così eti­chet­tati) ma “dall’alto” (dal cuore del potere ese­cu­tivo, dal Governo stesso), assu­mendo come vet­tore (altro para­dosso) l’unico par­tito che con­ti­nua a defi­nirsi tale.

E che fino a ieri ten­deva a pre­sen­tarsi, a torto o a ragione, come la prin­ci­pale bar­riera con­tro le derive auto­ri­ta­rie e popu­li­sti­che. Mi rife­ri­sco al rozzo Stil novo intro­dotto da Mat­teo Renzi, con la con­vin­zione che non si tratti, solo, di una que­stione di stile. O di comu­ni­ca­zione, come fret­to­lo­sa­mente lo si clas­si­fica. Ma che tutto ciò che si con­suma sotto i nostri occhi alluda a una muta­zione gene­tica del nostro assetto isti­tu­zio­nale e dell’immaginario poli­tico che gli fa da con­torno, in senso, appunto, populista.

Se infatti per popu­li­smo si intende l’evocazione (in ampia misura reto­rica) di un “popolo” al di fuori delle sue isti­tu­zioni rap­pre­sen­ta­tive e per molti versi con­trap­po­sto alla pro­pria stessa rap­pre­sen­tanza (al corpo dei pro­pri rap­pre­sen­tanti ricon­fi­gu­rati in “casta”), allora non c’è dub­bio che Renzi ne inter­preta una variante par­ti­co­lar­mente viru­lenta. E’ tipico di Renzi, da quando ha var­cato la porta di palazzo Chigi, lavo­rare per aggi­rare e ten­den­zial­mente liqui­dare ogni media­zione isti­tu­zio­nale (a comin­ciare dal Par­la­mento) per isti­tuire un rap­porto diretto capo-massa.

Le mani­che di cami­cia osten­tate nei palazzi del potere (come fosse il lea­der di un movi­mento di desca­mi­sa­dos anzi­ché pro­ve­nire da una tra­di­zione demo­cri­stiana di lungo corso e da uno dei più for­ma­li­stici pezzi dell’establish­ment quale è stato in que­sti anni il Pd). Il les­sico da ricrea­zione sco­la­stica, anche dove si parla di cose serie. Il discorso al Senato — lo ricor­date? -, volu­ta­mente sgan­ghe­rato, infor­mal­mente invol­ga­rito, con quello sguardo per­duto lon­tano, nell’occhio delle tele­ca­mere per sem­brare pun­tato sull’intimità delle fami­glie, comun­que oltre i volti pre­oc­cu­pati dei sena­tori seduti davanti… Tutto allude a una volontà, espli­cita, di far tabula rasa della “società di mezzo”, delle mol­te­plici strut­ture di media­zione del rap­porto tra popolo e Stato, che siano le forme con­so­li­date della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva (il Par­la­mento in primo luogo), o quelle spe­ri­men­tate della rap­pre­sen­tanza sociale e dei gruppi di inte­resse (sin­da­cati, Con­fin­du­stria, liqui­dati tutti come con­cer­ta­tivi). E di ver­ti­ca­liz­zare quel rap­porto sull’asse per­so­na­liz­zato dell’uomo solo al comando. Del “mi gioco tutto io”. Anche “quello che è vostro”.

Ora non c’è dub­bio che in que­sta spe­ri­co­lata ope­ra­zione Renzi può con­tare su un dato sacro­santo di realtà, costi­tuito appunto dalla macro­sco­pica crisi della Rap­pre­sen­tanza. Dei suoi sog­getti e dei suoi isti­tuti, ben visi­bile nei fatti di cro­naca: nell’impotenza mostrata dal Par­la­mento a più riprese, dalla crisi che portò al governo Monti alle ver­go­gnose scene che accom­pa­gna­rono l’elezione del Pre­si­dente della Repub­blica. Nel discre­dito dei par­la­men­tari (quasi tutti), dei con­si­glieri regio­nali, degli ammi­ni­stra­tori pro­vin­ciali e comu­nali, giù giù a cascata lungo tutta la scala degli organi elet­tivi, nes­suno salvo. Per­sino nello sta­tus dei pro­ta­go­ni­sti attuali: nes­suno dei tre lea­der che si spar­ti­scono la scena, da Grillo, a Ber­lu­sconi a Renzi stesso è un “par­la­men­tare”. Ma a dif­fe­renza di chi di quella crisi non ha voluto nep­pur pren­dere atto (la pre­ce­dente mag­gio­ranza Pd, che infatti si è andata a schian­tare senza nep­pure capire per­ché), e di quanti (pochi) su quella crisi si arro­vel­lano per cer­carne una uscita in avanti (noi della lista per Tsi­pras, per fare un nome), Renzi ha deciso di quo­tarla alla pro­pria borsa.

E’ il primo che ha scelto con­sa­pe­vol­mente di capi­ta­liz­zare sulla crisi degli ordi­na­menti rap­pre­sen­ta­tivi. Per valo­riz­zare il pro­prio per­so­nale ruolo nel qua­dro di un modello di gestione del potere espli­ci­ta­mente post-democratico. O, dicia­molo pure senza temere di appa­rire retrò, anti-democratico. Fon­dato su una forma estrema di deci­sio­ni­smo, non più nep­pure legit­ti­mata dai con­te­nuti, ma dal metodo. Deci­dere per deci­dere. Deci­dere in fretta. Anzi, fare in fretta anche senza deci­dere, per­ché comun­que, quello che con­terà al fine del con­senso, non sarà un fatto con­creto ma piut­to­sto il rac­conto di un fare (Crozza docet).

Per que­sto hanno ragione, ter­ri­bil­mente ragione, gli autori del docu­mento di Libertà e giu­sti­zia, lad­dove denun­ciano il reale rischio di un auto­ri­ta­ri­smo di tipo nuovo. Basato sullo scon­quasso dell’architettura isti­tu­zio­nale e sulla rot­ta­ma­zione dell’idea stessa di demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva, fatta con gio­va­ni­li­stica non­cu­ranza (con “stu­den­te­sca spen­sie­ra­tezza”, per usare un’espressione gobet­tiana), nel qua­dro di una par­tita in cui l’azzardo pre­vale sul cal­colo, la velo­cità sul pen­siero. E’ pos­si­bile, come temono (o spe­rano) in molti, che Mat­teo Renzi “vada a sbat­tere”. Che, come il cat­tivo gio­ca­tore di poker costretto a rilan­ciare con­ti­nua­mente la posta ad ogni mano per­duta, alla resa dei conti (all’emergere dell’ice­berg som­merso del fiscal com­pact e delle decine di miliardi da pagare) fac­cia default. Prima o poi. Ma, appunto, dalla vici­nanza di quel prima o dalla distanza di quel poi dipende l’ampiezza dei danni (irre­ver­si­bili) che è desti­nato a fare. Den­tro que­sta for­bice tem­po­rale, si gioca la pos­si­bi­lità di costruire un’alternativa poli­tica, di sini­stra, par­te­ci­pa­tiva, non arresa ai vin­coli euro­pei, come vuole l’Altra Europa con Tsipras, e al malaf­fare ita­liano. Anche solo una testa di ponte, per tenere quando si dovranno calare le ultime carte.

La Repubblica, 2 aprile 2014
La democrazia deve cambiare forma e rimpicciolirsi, a causa della crisi? E andando alla sostanza: c’è un tempo per la democrazia e uno per l’economia — come c’è un tempo per piangere e ridere, per demolire e costruire — diversi l’uno dall’altro e concepibili solo in successione?A giudicare da quel che accade in Italia si direbbe che questo sia il convincimento di chi governa, quando non riesce a fronteggiare il degrado democratico nei modi che scelse il cancelliere Willy Brandt, in un altro momento critico della storia recente.

«Quel che vogliamo è osare più democrazia», disse Brandt il 28 ottobre 1969, e promise metodi di governo «più aperti ai bisogni di critica e informazione » espressi dalla società, «più discussioni in Parlamento », e una permanente concertazione «con i gruppi rappresentativi del popolo, in modo che ogni cittadino abbia la possibilità di contribuire attivamente alla riforma dello Stato e della società ». Ai cittadini si chiedeva più responsabilità (specie ai giovani contestatori del ‘68): ma i doveri s’iscrivevano in una democrazia più estesa, partecipata.

Non sembra vadano in questo senso le riforme costituzionali del Premier Pd, né le parole di chi gli è vicino, riportate su questo giornale da Claudio Tito: «Per governare efficacemente nelXXIsecolo serve soprattutto velocità: approvazione o bocciatura rapida dei disegni di legge e capacità di mantenere la sintonia con tutti i componenti della squadra ». Velocizzare, semplificare, dilatare i poteri dell’esecutivo: questi gli imperativi. Cambiano le sequenze, perfino i vocaboli: prioritaria diventa la rapidità, e i ministri sono «componenti di squadre».

Renzi non è il primo a dire queste cose, né l’Italia è l’unica democrazia debilitata dalla crisi. Sono spesso così, gli interregni: ci si congeda dal vecchio ordine, e al suo posto se ne insedia uno che solo in apparenza rispecchia le mutazioni in corso. Ovunque i governi sentono che la terra trema, sotto di loro, e imputano il terremoto a una democrazia troppo lenta, a elezioni troppo frequenti. Denunciano a ragione la fatica dell’azione, ma si guardano dallo smascherarne i motivi profondi. La perdita di sovranità e il trasferimento dei poteri reali verso entità internazionali spoliticizzate sono il problema, non i «lacci» interni che sono la Costituzione, i sindacati, addirittura il suffragio universale. Il farmaco non è la velocità in sé, ma il cambio di prospettiva. L’equivoco è ben spiegato dal sociologo Zygmunt Bauman: la crisi del governare è indubbia, «benché in definitiva sia una crisi di sovranità territoriale» (Repubblica 29/3).

Renzi non smaschera i mali autentici, quando propone l’accentramento crescente dei poteri in mano all’esecutivo, la diminuzione degli organi eletti dal popolo, lo svigorimento di istituzioni e associazioni nate dalla democrazia: Senato in primo luogo, ma anche sindacati e perfino soprintendenze (il cui scopo è quello di occuparsi del patrimonio artistico italiano resistendo ai privati). Una delle sue frasi emblematiche è: se Cgil o Confindustria s’oppongono, «ce ne faremo una ragione». I traumi ci saranno, ma alla lunga la loro razionalità sarà chiara. C’è una differenza, fra la sua accelerazione e quella di Brandt.

Scansare gli ingombri della democrazia è una tentazione ormai antica in Italia. Cominciò la P2, poi seguita da Berlusconi. Ma il pericolo di una bancarotta dello Stato, e i costi di una politica colpita dal discredito, hanno dato più forza a queste idee, seducendo governi tecnici e anche il Pd. Memorabile fu la dichiarazione di Monti, intervistato dallo Spiegel il 5 agosto 2012. Accennando ai veti opposti dai Paesi nordici alle decisioni europee, e al mandato affidatogli dalla Camera (difendere a Bruxelles gli eurobond), disse:«Capisco che debbano tener conto del loro Parlamento, ma ogni governo ha anche il dovere di educare le Camere. (...) Se io mi fossi attenuto in maniera del tutto meccanica alle direttivedel mio Parlamento, non avrei mai potuto approvare le decisioni dell’ultimo vertice di Bruxelles. Se i governi si lasciano totalmente ingabbiare dalle decisioni dei Parlamenti senza preservare la propria libertà di agire, avremmo lo sfaldamento dell’Europa».

Renzi dunque completa ragionamenti già in circolazione, e li trasforma in «spirito del tempo». Quel che non aveva previsto, era la critica che sarebbe venuta dal presidente del Senato Pietro Grasso, oltre che l’allarme creatosi fra costituzionalisti come Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà. La riforma potrebbe indebolire la democrazia, sostiene Grasso nell’intervista a Liana Milella su Repubblica di domenica. Mutare il ruolo del Senato e abolire le Province è importante, ma qui si stanno facendo altre cose. Il Senato resta, solo che cessa di essereelettivo. E restano di fatto le Province, anch’esse non più elettive ma governate da dirigenti comunali.

L’ambizione è liberare l’Italia dai lacci che l’imbrigliano, ma la paralisi decisionale non si supera riducendo gli organi intermedi creati per servire l’interesse generale, o rendendoli non elettivi. Tantomeno può imbarcarsi in simile impresa un Parlamento certo legale, ma che la Consulta ha sostanzialmente delegittimato giudicando incostituzionale il modo in cui è stato eletto.

Più fondamentalmente, l’impotenza dei governi non si sormonta ignorando il male scatenante che è appunto la loro dipendenza dai mercati, e cioè da forze anonime, non elette, quindi non licenziabili. Sono loro a decidere il lecito e l’illecito. È stata la JP Morgan a sentenziare, in un rapporto del 28-5-13, che l’intralcio, nel Sud Europa, viene da costituzioni troppo influenzate dall’antifascismo postbellico: costituzioni «caratterizzate da esecutivi e stati centrali deboli, dalla protezione dei diritti del lavoro, dal diritto di protesta contro ogni mutamento sgradito dello status quo».

Così come dalla crisi europea si esce con più Europa, anche dalla crisi delle democrazie si esce con più democrazia. Lo disse fin dall’800 Tocqueville, esaminando i difetti delle società democratiche. Si esce ampliando i sistemi del check and balance, dei controlli e contrappesi: frenando con altri poteri la tendenza del potere a straripare. I continui conflitti sociali e istituzionali sono un rischio delle democrazie, non una maledizione. Sbarazzarsene con leggi elettorali non rappresentative o eludendo le obiezioni («ce ne faremo una ragione») sfocia nel contrario esatto di quel che si vuole: i conflitti inacidiscono, l’opposizione non ascoltata disimpara a trattare. Resta il rapporto diretto fra leader e popolo, non dissimile dall’»unzione » plebiscitaria di Berlusconi. E Renzi neppure è un Premier eletto. Quando parla di «promesse fatte agli italiani », non si sa bene a cosa si riferisca.

Salvare le costituzioni in un solo Paese non è possibile: questo è vero e andrebbe detto. Occorre che l’Europa e il mondo si dotino di strumenti democratici per governare poteri già sconnessi dalle sovranità territoriali: gli interessi finanziari e commerciali, l’informazione, il commercio della droga e delle armi, la criminalità, il terrorismo. Manca un ordine nuovo che li controlli, e cui i cittadini aderiscano non più nazionalmente (è impossibile) ma per patriottismo costituzionale, come preconizzato nel ‘79 dal filosofo liberale Dolf Sternberger, prima che Habermas resuscitasse il concetto.

Manca uno spirito cosmopolita della democrazia: qui è il cambio di prospettiva. L’Europa potrebbe incarnarlo, se agisse come argine contro le crisi delle democrazie nazionali, e al contempo contro l’arbitrio dei mercati. Più democrazia e più governabilità non si escludono a vicenda; non si conquistano «in sequenza ». O si realizzano insieme, o perderemo l’una e l’altra.

«Il manifesto, 2 aprile 2014
Il dise­gno di legge costi­tu­zio­nale appro­vato ieri dal Con­si­glio dei mini­stri per il “supe­ra­mento” del bica­me­ra­li­smo per­fetto non ha il solo obiet­tivo che dichiara. Quello che declama è secon­da­rio, stru­men­tale. La sosti­tu­zione del Senato pari­ta­rio con que­sto fan­to­ma­tico assem­bra­mento di pre­si­denti di regione, di due dele­gati di ogni regione, di sin­daci e di “nomi­nati” dal Capo dello stato in numero cor­ri­spon­dente a quello delle regioni non mira solo allo svuo­ta­mento espli­cito di potere di quel ramo del Par­la­mento (lo si potrà ancora chia­mare cosi?) ma a qual­cosa di più rile­vante e inquie­tante.

Anche più che inquie­tante. Non uso a caso un ter­mine di tal tipo. Di fronte abbiamo l’estremismo revi­sio­ni­sta che sfo­cia nell’assolutismo maggioritario. Il supe­ra­mento del bica­me­ra­li­smo del pro­getto ren­ziano non è affatto diretto a con­cen­trare in una sola Camera la forza della rap­pre­sen­tanza nazio­nale, come chi scrive pro­pose alla Camere (IX Legi­sla­tura pro­po­sta di legge cost. n. 2452) in rigo­rosa coe­renza con il costi­tu­zio­na­li­smo demo­cra­tico della sini­stra. Si viveva in ben altro clima, in una sta­gione della sto­ria repub­bli­cana del tutto diversa dall’attuale. Era il 1985, i par­titi c’erano, erano di massa ed erano que­gli stessi dell’Assemblea costi­tuente, il regime elet­to­rale era quello pro­por­zio­nale, gli anti­corpi allo stra­po­tere delle mag­gio­ranza gli erano impli­citi ed inestricabili.

Mira all’opposto del raf­for­za­mento della rap­pre­sen­tanza popo­lare il dise­gno di Renzi, mira ad eli­mi­narne una sede, un organo, una isti­tu­zione. Pri­vato della par­te­ci­pa­zione al potere di indi­rizzo poli­tico, il Senato delle auto­no­mie non eser­ci­terà nean­che una fun­zione legi­sla­tiva di qual­che rilievo. Non è organo par­la­men­tare una assem­blea che non la eser­cita, dispo­nendo solo del potere di emen­da­mento il cui eser­ci­zio non pro­duce effetti di qual­che con­si­stenza. Ma come con­fi­gu­rato, il Senato delle auto­no­mie non può rile­vare come espres­sione di una qual­che forma di democrazia.

A com­porlo non vi saranno rap­pre­sen­tanti della Nazione ma i man­da­tari degli enti regio­nali e comu­nali o per­ché tito­lari di organi di enti regio­nali o comu­nali o per­ché scelti da tali tito­lari di organi di enti regio­nali o comu­nali.

Si aggiun­gono ad essi 21 cit­ta­dini nomi­nati dal Pre­si­dente della Repub­blica, che, stante il loro numero cor­ri­spon­dente al numero delle Regioni, potreb­bero imma­gi­narsi come fidu­ciari del Capo dello stato per mediare con quello nazio­nale l’interesse spe­ci­fico degli enti di pro­ve­nienza della mag­gio­ranza dei mem­bri di un tale Senato. La cui mag­gio­ranza rispon­derà agli enti di pro­ve­nienza e i 21 al Pre­si­dente della Repub­blica la cui figura ver­rebbe sfi­gu­rata con qual­che impronta di regia memo­ria. Comun­que né gli uni né gli altri rispon­de­ranno al corpo elet­to­rale, alla imme­diata espres­sione di quel popolo tito­lare unico della sovra­nità dalla quale sol­tanto può deri­vare la rap­pre­sen­tanza poli­tica. Come si vede dalla ricon­fi­gu­ra­zione ren­ziana del Senato la rap­pre­sen­tanza poli­tica ne esce e la demo­cra­zia è dimezzata.

Come dimez­zata, con­tratta, svuo­tata è la rap­pre­sen­tanza poli­tica con­fi­gu­rata dalla legge elet­to­rale per la Camera dei depu­tati, il ren­zu­sco­num. Il cui obiet­tivo — e lo abbiamo scritto e moti­vato — è la distor­sione della rap­pre­sen­tanza par­la­men­tare e la sua ridu­zione a fun­zione ser­vente del pre­mie­rato asso­luto con ten­sione alla mono­cra­zia.

Sil­vio Ber­lu­sconi ha ragione nel dichia­rare che il dise­gno isti­tu­zio­nale di Mat­teo Renzi è quello incor­po­rato nella legge costi­tu­zio­nale che volle fare appro­vare nel 2005 e che il corpo elet­to­rale respinse nel 2006. Ad opporsi a quel dise­gno con tutte le forze della sini­stra e della demo­cra­zia ita­liana c’era il Par­tito demo­cra­tico. A rea­liz­zare quel dise­gno c’è ora il suo lea­der. È tri­ste ma dove­roso constatarlo.
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