Berlusconi invitava a non pagare le tasse, il suo emulo a non rispettare le leggi. Scrive ai sindaci: non vi fate frenare da pretese di tutela, via lacci e laccioli, avanzino ruspe e cemento. Tutti d'accordo? Chi tace acconsente, poi piangerete per le conseguenze. Il manifesto, 3 giugno 2004
Dal senato ai cantieri, è tutta «L’ottimismo è il profumo della vita», ripeteva anni fa Tonino Guerra in un tormentone pubblicitario (commissionato, guarda caso, da quell’Oscar Farinetti destinato a diventare uomo simbolo del renzismo). E oggi, seconda settimana dell’era post 40,8%, di ottimismo se ne annusa parecchio ai vertici della politica. Il presidente Napolitano infila un rallegramento dietro una felicitazione. Dopo essersi compiaciuto per l’esito elettorale, ieri ha testimoniato di aver scorto ai bordi della parata del 2 giugno «una folla che non avevo mai visto, una grande serenità, un popolo sorridente e fiducioso». Si trattava di «un popolo in cui si è rafforzato e si rafforza il sentimento nazionale». Merito anche questo delle elezioni?
Matteo Renzi, tra due ali di folla, ha approfittato della festa della Repubblica per diffondere la sua lettera ai sindaci d’Italia: «Caro sindaco, l’Italia riparte. I segnali di fiducia tuttavia, non bastano. Possiamo e dobbiamo fare di più». La richiesta ai primi cittadini — «sono stato sindaco anche io» — è di segnalare a palazzo Chigi, se non direttamente al presidente del Consiglio (l’indirizzo essendo matteo@governo.it), «una caserma bloccata, un immobile abbandonato, un cantiere fermo, un procedimento amministrativo da accelerare». Entro il 15 giugno, così che il governo possa provvedere con il pacchetto «Sblocca Italia». Segue esempio dei «blocchi» che si intende forzare: «La mancanza di un parere, un diniego incomprensibile di una sovrintendenza, le lungaggini procedurali». Dunque non si parla di risorse, ma di procedure. E non siamo lontanissimi da quei «piani» berlusconiani che proprio autorizzazioni, vincoli e controlli puntavano a rimuovere. Solo che stavolta non si tratta più delle piccole opere private, ma delle grandi e pubbliche. «Caro sindaco (e non più «caro collega» come nella precedente lettera di marzo, ndr), nessuna riforma sarà credibile se non diamo per primi noi il segnale che la musica è cambiata davvero».
«Riforma», per lo più coniugata al plurale, è parola che sotto il nuovo governo finisce col comprendere tutto: dalle grandi strategie di politica economica italiana ed europea ai piccoli sconti fiscali, dall’asta delle auto blu alla riscrittura di 45 articoli della Costituzione, dalla nuova legge elettorale alle annunciate novità per la pubblica amministrazione. Ma le «riforme» per eccellenza sono quella costituzionale e quella elettorale. Le uniche due per le quali ci sia una scadenza: «Entro l’estate». È vero, l’ultimatum è stato più volte spostato. E non si tratta di passaggi decisivi: la legge costituzionale è solo alla prima lettura su quattro, la legge elettorale alla seconda ma di certo dovrà tornare al senato. Le soglie sottoscritte da Renzi e Berlusconi due mesi fa, e da Renzi difese contro tutte le critiche (risale ad allora, e alla risposta a un appello pubblicato su queste pagine, l’invenzione del termine «professoroni»), non vanno più bene. Non perché si siano fatti strada i dubbi dei costituzionalisti (ripetuti ieri da Rodotà, Carlassare, Azzariti, Zagrebelsky alla manifestazione di Libertà e Giustizia a Modena) che vedono nell’Italicum la replica del Porcellum. Ma perché i risultati delle europee hanno rimescolato le convenienze. Dunque si fa strada l’innalzamento della soglia per la vittoria al primo turno (dal 37,5% a oltre il 40%) e il livellamento di tutte le altre soglie al 4% come suggerisce da tempo anche Roberto D’Alimonte, primo ispiratore dell’Italicum. Una legge, cioè, disegnata smaccatamente sulle indicazioni dall’ultimo test elettorale; quando proprio la recente sorpresa se non il rispetto delle forme dovrebbero suggerire prudenza. Quanto alla riforma costituzionale, che viene prima, proprio questa per Renzi dovrebbe essere la «settimana decisiva». Quella cioè in cui si cominceranno a votare gli emendamenti in commissione al senato. La relatrice Finocchiaro presenterà una proposta di mediazione sulla composizione della nuova camera alta. Il modello è l’elezione indiretta del senato francese, ma l’elettorato passivo qui da noi sarebbe limitato ai consiglieri comunali e regionali (in Francia è universale). Più che i limiti oggettivi, però, saranno le intese politiche a segnare il destino del disegno di legge governativo. Se Berlusconi, come pare, deciderà di restare nel patto, Renzi ha ragione di essere ottimista.
«Senza un orizzonte che dia una speranza di futuro - senza una nuova Ventotene -, sarà difficile mobilitare gli europei su obiettivi importanti quali un New Deal europeo per l’occupazione o la ristrutturazione del debito pubblico».
CNS ecologia politica, n.4, giugno 2014
L’affermazione delle destre xenofobe e antieuropee nelle recenti elezioni europee non era inaspettata, ma ha superato le previsioni e ha coinvolto anche paesi della “vecchia” Europa come la Francia e la Gran Bretagna , e in parte l’Italia. Questo “xunami” politico è frutto della grave crisi sociale ed economica, che ha investito l’Europa negli ultimi 10-15 anni. Ma è frutto anche delle politiche di austerità con cui i governi hanno affrontato la crisi, scaricandola sui più deboli e aprendo così la strada alle forze politiche pronte a strumentalizzare il disagio economico e sociale delle classi colpite dalla crisi e dalle politiche di austerità – quella parte maggioritaria di popolazione impoverita e priva di futuro. La crisi e l’austerità hanno infatti creato una divaricazione abissale tra “ricchi” e “poveri”, usata da alcune forze politiche per “convincere” i più poveri a sostenere gli interessi dei più ricchi.
Questo breve resoconto dei risultati i elettorali e delle loro cause coglie bene, mi pare, la traiettoria da correggere, per evitare altri danni. Ma per farlo, occorre avere uno sguardo lungo capace di esprimere un nuovo orizzonte, che vada oltre il sogno di Ventotene e risponda alle aspettative di oggi, che sono assai diverse. Il sogno di allora era la pace in Europa, dopo secoli di guerre, la carneficina delle due guerre mondiali del Novecento e lo stermino degli ebrei nei campi di concentramento. Il sogno di oggi è un’Europa accogliente, dove la diversità è fonte di arricchimento reciproco, non una minaccia; un’Europa capace di una crescita sociale oltre che economica, che assicuri un buona qualità della vita; un’Europa dove non si muoia più né di lavoro né di inquinamento; un’Europa dove le persone contano e possono decidere della loro vita partecipando alle scelte che le riguardano.
Senza un orizzonte che dia una speranza di futuro – senza una nuova Ventotene -, sarà difficile mobilitare gli europei su obiettivi importanti quali un New Deal europeo per l’occupazione o la ristrutturazione del debito pubblico. Nell’ultimo numero di questa rivista, avevamo pubblicato un articolo/manifesto sui beni comuni e le comunità (Avallone, Parascandolo, Torre, Ricoveri), un tema che è oggi al centro delle lotte e dell’analisi sociale in tutto il mondo. Il paradigma dei beni comuni e delle comunità esprime un orizzonte alternativo e una speranza di futuro per uscire dalla crisi del sistema dominante, quello della società dei consumi di massa e dell’egemonia politica e culturale dell’Occidente. Forse questo paradigma potrebbe essere utile per avviare il discorso su un’altra Europa, capace di rispondere alle istanze delle popolazioni impoverite e di restituire all’Europa un ruolo positivo nei confronti di tutti i Sud del mondo.
«Alle spalle dei movimenti per i beni comuni comincia ad affermarsi l’ambizione di dare una risposta all’altezza della crisi sistemica, strutturale, di valori e di senso che attraversa la nostra civiltà».
Left, 31 maggio 2014
Non c’è angolo del nostro paese in cui non sia attivo un comitato, un gruppo di cittadini, una associazione di volontariato e che non abbia issato la bandiera dei beni comuni. Giusto tre anni fa (referendum dell’11 giugno 2011, 26 milioni al voto) fu mobilitazione generale per l’“acqua bene comune”. Poi vennero gli studenti e i ricercatori universitari che si arrampicarono sulla Torre di Pisa, sui tetti delle università e dei musei al grido “cultura bene comune” per rivendicare l’accesso ai saperi, ai codici informatici, a internet. Persino un grande sindacato di lavoratori dipendenti, la Fiom, usò l’eretico slogan “Lavoro bene comune”. Da sempre i movimenti ambientalisti tentano di praticare il concetto caro ai giuristi come Maddalena e Rodotà, agli urbanisti come Salzano e Magnaghi, agli storici come Settis e Bevilacqua secondo cui il suolo, il paesaggio, le città, il “territorio” sono da considerarsi proprietà collettive.
Teatri, ex caserme, beni demaniali abbandonati sono diventati simbolo della inettitudine tanto degli apparati statali, quanto dell’imprenditoria privata di prendersi cura del patrimonio culturale. Medici, epidemiologi, psicanalisti ci spiegano come la salute dipenda da condizioni socio-ambientali che determinano la qualità generale della vita. Sempre più spesso contadini e consumatori hanno stretto alleanze creative (mercatini biologici, gruppi di acquisto solidali, orti urbani) nel tentativo di controllare le filiere produttive del cibo. Incominciano a diffondersi esperienze di cooperative che si sostituiscono a gestioni fallimentari di aziende private anche in settori industriali. La mutualità viene riscoperta nella diffusione del nuovo welfare di prossimità autogestito. Più recentemente, dopo la grande truffa della crisi del debito messa in scena dalle banche, sono iniziate campagne popolari per chiedere alle amministrazioni pubbliche un audit dei loro debiti e per mettere sotto controllo pubblico le istituzioni finanziarie di interesse generale a cominciare dalla Cassa Depositi e Prestiti. Anche il denaro, così come ogni altro strumento finanziario, infatti, è un bene comune costitutivo della sovranità popolare.
Facile comprendere la ragione della forza persuasiva che è alla base di questi variegati movimenti: il disastroso fallimento delle privatizzazioni (un colossale processo di espropriazione in atto non solo in Italia); dalle banche ai treni, dai beni demaniali alla telefonia, dai servizi pubblici locali ai fondi pensioni assicurativi. La grande ubriacatura neoliberista - il privato è bello e arricchisce tutti - si è finalmente esaurita. Persino negli ambienti accademici sono sempre più frequenti i casi di pentimento e ripensamento. Grande merito va agli studi di Elinor Ostrom, premio Nobel per l’economia, che con i suoi studi sulle common pool resources ha dimostrato che le gestioni comunitarie di alcuni beni naturali consentono una loro più lunga preservazione e una più equa distribuzione degli usufrutti. Storici come David Harvey hanno dimostrato che la vera “tragedia dei beni comuni”, all’inizio della rivoluzione industriale, è stata la loro recinzione (proprietà esclusiva) e la distruzione delle economie di sussistenza. Esattamente ciò che sta ora accadendo in Africa con il fenomeno dell’accaparramento delle terre fertili (land grabbing) in Cina e in India con l’espulsione forzata dalle campagne di milioni di contadini.
Insomma, alle spalle dei movimenti per i beni comuni non vi sono solo micro buone pratiche di cittadini virtuosi, asceti francescani e fricchettoni new age, ma comincia ad affermarsi un pensiero che ha l’ambizione di dare una risposta all’altezza della crisi sistemica, strutturale, di valori e persino di senso che attraversa la nostra declinante civiltà. “I beni comuni – ha scritto David Bollier, uno dei teorici di punta del Commons Movement – sono un paradigma socio-economico-politico-culturale, un modo di vivere il mondo”. Un modo di soddisfare i bisogni quotidiani creando forme di gestione partecipate che generano legami sociali solidali, fiduciari, cooperativi; sottraendo alla disponibilità del mercato quei beni e i servizi (res extra commercium) che la collettività considera indispensabili e funzionali alla realizzazione dei diritti fondamentali delle persone, al buon vivere di ciascuno e di tutti (res communes omnia). I beni comuni costituiscono quel tessuto primario che consente la rigenerazione della vita: the life’s support system, direbbero gli ecologi.
“I beni comuni - scrive Carlo Donolo - vanno presi sul serio”, non solo perché “si nascondono un po’ dovunque”, ma perché “produttori di comunalità”. Si potrebbe dire molto semplicemente che i beni comuni sono un repertorio di modalità di socializzazione della ricchezza.
Di fronte alla sua diffusione, diventa inevitabile la domanda se attorno al concetto di beni comuni non possa costituirsi una vasta comunità politica. Se i beni comuni prospettano un ordine sociale, economico, giuridico e persino simbolico decisamente alternativo a quello esistente, è allora plausibile attendersi una loro irruzione sulla scena politica. Già ci sono stati tentativi – invero alquanto maldestri – di rinchiudere i movimenti dei beni comuni in un quadro organizzativo di tipo partitico tradizionale. Ricordo la nascita di Alba (Alleanza per il lavoro, beni comuni e ambiente) e ora la stessa Lista Tsipras che intendono, almeno in parte, richiamarsi alla cittadinanza attiva. Anche il Movimento di Grillo, nella misura in cui afferma di voler essere un megafono delle proteste, si presenta come naturale espressione dei movimenti. Lo stesso Pd di Renzi è nato sotto lo slogan “L’Italia bene comune”. Ma il processo di presa di coscienza politica dei movimenti per i beni comuni non si presenta così lineare e la loro inclusione nei sistemi politici della rappresentanza non è affatto scontata.
Per loro natura i movimenti per i beni comuni sono fortemente territorializzati, nemici di qualsiasi forma di gestione centralizzata, gerarchica e patriarcale del potere. Il loro ideale – come dicono i latinoamericani – è una società che si sappia auto-organizzare dal basso, de bajo. Per intenderci, i loro riferimenti sono le “giunte del buongoverno” zapatiste nei territori liberati del Chiapas o le comunità agricole brasiliane dei Sem Tera o le Transition Tows del nord d’Europa. La gestione condivisa dei beni comuni genera capacitazione (empowerment), forma cittadinanza attiva, corresponsabilizza, abbassa e orizzontalizza il potere, lo rende permeabile e diffuso, inclusivo e non discriminante delle donne. Il processo di riconoscimento, rivendicazione e gestione comunitaria dei beni comuni mira ad una democrazia sostanziale e progressiva.
Un incontro tra la politica e i movimenti per i beni comuni potrà avvenire quindi solo se e quando cambierà il contesto di riferimento – il dominio della ragione economica mercantile - dentro cui si è attualmente impantanata la tradizionale azione della politica rappresentativa. Nel frattempo dovremmo attenderci una loro presenza sempre più numerosa e inaspettata nelle elezioni locali dei comuni, attraverso la formazione delle liste locali di cittadinanza. Da questo livello basico potranno sorgere collegamenti e confederazioni delle autonomie. Una rete dei Comuni per i beni comuni era già stata tentata dall’amministrazione di Napoli. Da tempo agiscono associazioni come la Rete dei comuni virtuosi e la Rete dei comuni solidali. Dalla Val di Susa a Messina la rigenerazione della politica passa dai territori.
«Barbara Spinelli ci ripensa: potrebbe accettare di andare nel parlamento che porta il nome di Altiero. A Roma la lista apre un "processo comune", e il leader Tsipras chiede di dire no a presidenti non indicati dagli elettori».
Il manifesto, 1 giugno 2014, con postilla
«E poi che facciamo?» era la domanda più frequente in campagna elettorale, giura Massimo Torelli, uno degli uomini-macchina della lista Tsipras. E così ieri, dopo il risultato acciuffato per un soffio (il 4,03 per cento ovvero 1.108.457 voti) i 73 candidati si sono riuniti a Roma a porte chiuse per abbozzare una prima risposta. Ciascuno, stravotato o poco votato che sia stato, con il suo tesoretto di voti decisivi e indispensabili, visto che l’asticella è stata superata per meno di 8mila schede. Dibattito fitto, intervengono praticamente tutti sull’onda dell’entusiasmo di una campagna elettorale inedita, la sinistra italiana tutta insieme (o quasi) con la cittadinanza attiva e alcuni intellettuali. «Erano anni che aspettavo di farmi questa chiacchierata tutti insieme», attacca mezzo commosso il romano Sandro Medici. Tema dunque come trasformare del cartello elettorale in una ’cosa’ comune, se non già in una ’casa’. Per ora la definizione più in voga è «un processo». «Abbiamo messo insieme le migliori intelligenze del paese, ma adesso apriamo le porte della nostra organizzazione» (Guido Viale).
Ma è una scelta delicata per i partiti che fanno parte della compagnia. In queste ore Sel affronta una discussione interna che esclude l’adesione a una «costituente» di sinistra, almeno per ora. Dall’altra parte Fabio Amato, Prc, invece spinge per «un soggetto politico alternativo al centrosinistra e alle larghe intese» (Paolo Ferrero, il suo segretario, propone «una Syriza italiana» già «in vista delle elezioni»). Raffaella Bolini (Arci) chiede invece «un processo che vada avanti in maniera naturale e orizzontale», che intanto parta dal fatto che i tre eletti a Strasburgo saranno «eletti della lista, non dei partiti o delle culture di provenienza».
Ma intorno proprio a questi tre nomi gira buona parte del futuro della scommessa. Uno degli eletti è scattato nel collegio nord-ovest, dove il capolista Moni Ovadia ha già annunciato che rinuncerà a favore del giornalista Curzio Maltese (che è già al lavoro e già immagina un giornale online della lista). Gli altri due sono scattati al centro e al sud, capolista Barbara Spinelli, che però dall’inizio — persino prima della composizione delle liste — ha annunciato,la sua intenzione di non sedere nell’europarlamento. Al suo posto subentrerebbero due giovani combattenti, già campioni di preferenze: Marco Furfaro (classe 1980) di Sel, e Eleonora Forenza (classe 1976), Prc. Quindi per una fortunata casualità la «terna» — «la troika», è la battuta che circola — sarebbe composta da un nome della società civile e da uno per ciascuno dei due partiti aderenti alla lista.
La novità è che Barbara Spinelli ora potrebbe ripensarci e accettare di sedere nell’europarlamento. In un’intervista pubblicata oggi su quotidiano greco Avgy, vicino a Syriza, spiega all’intervistatore Argiris Panagopoulos, a sua volta candidato nella lista italiana: «Ancora non ho deciso, ricevo pressioni dai molti elettori, ho ancora dei dubbi. Di sicuro daremo battaglia a tutti i livelli a fianco di Tsipras nella Sinistra europea». Nodo delicato, peggio se affrontato alla fine di una campagna elettorale in cui si è sostenuto il contrario, non senza qualche difficoltà. Nelle scorse settimane Tsipras ha chiesto a Spinelli di restare in parlamento. E se ne capisce il motivo: la figlia di Altiero Spinelli è un valore aggiunto per le file della sinistra europea, e per Tsipras in questi giorni già impegnato a tessere la tela delle relazioni con le altre forze europarlamentari. A Altiero è dedicata la monumentale ala principale del palazzo di Bruxelles. L’elezione di Barbara ha già scatenato la curiosità dei media e dei parlamentari non italiani. C’è chi le offre un ruolo di prestigio. Per questo il comitato dei garanti della lista «le ha chiesto di accettare l’incarico», spiega Viale.
E però questo ’cambio di verso’, fatto ora, finirebbe per mettere a rischio il delicato equilibro fra partiti e cittadinanza. Spinelli dovrebbe scegliere se favorire il candidato di Sel o quella del Prc; con le inevitabili ripercussioni nei partiti, soprattutto in Sel, dove l’area scettica sul futuro della Tsipras (e sbilanciata verso il dialogo con Renzi) riceverebbe un assist proprio dalla lista. D’altro canto è molto difficile immaginare un futuro per la lista senza Sel, per lo meno un futuro che non sia la riedizione di film già visti a sinistra. «La scelta è di Barbara», ripetono tutti i candidati, a cui «Barbara» ha inviato una mail in cui spiega le ragioni di questa «ulteriore riflessione». Ma le conseguenze andrebbero ben oltre i nomi degli europarlamentari. Il dossier è stato affidato a sociologo Marco Revelli, portavoce della lista, la decisione arriverà forse già domani.
Intanto la road map del «processo» comincia a prendere forma: la prossima settimana si riuniscono i comitati, entro l’estate l’assemblea nazionale. Ma la pattuglia italiana dovrà andare presto a sedersi sui propri euroscranni: Tsipras sta già dando battaglia contro le larghe intese avvertendo il parlamento di «non approvare presidenti che non abbiano partecipato alla competizione elettorale», in caso contrario «le elezioni che diventerebbero una pantomima». Martedì Nichi Vendola volerà a Bruxelles per incontrare Tsipras, ma anche l’ex candidato Pse Martin Schultz e i neoparlamentari verdi.
Postilla
Un problema per chi voglia costituire una nuova formazione politica (che cioè possa realizzare una sintesi tra le molteplici esigenze settoriali e locali che danno anima al variegato arcipelago dei movimenti), tagliando i ponti con le logiche della vecchia partitocrazia. Ls presenza nella lista Tsipras di due partiti ha provocato qualche danno, ma senza di essa non si arebbero raggiunte le firme necessarie per partecipare alle elezioni. Che fare? la discussione e la ricerca sono aperte. Ne parleremo anche su eddyburg.
Il komeinista della rottamazione del Belpaese , dopo aver inseguito e superato D’Alema nel recupero del supremo evasore fiscale, segue le orme di quest'ultimo con rafforzata capacità distruttiva.
Corriere della Sera, 2 giugno 2014, con postilla
La fase due della rottamazione di Matteo Renzi è rivolta a 360 gradi dentro e fuori il Paese. L’Europa, quella attuale, quella che «ci dice tutto di come un pescatore dell’Adriatico deve fare il suo mestiere» è anche quella dei «tecnocrati», che «girano la faccia dall’altra parte quando un bambino muore» nel canale di Sicilia, in quelli che sono anche mari europei, ma evidentemente più per la tipologia delle lenze e le tecniche di pesca, che per i principi morali, quelli «latitano», accusa e insieme ironizza il capo del governo.
Ma accanto a questo tipo di Ue c’è anche una questione interna, con altri due tipi di potere da riformare. Quello politico, la classe che «per anni è stata campione mondiale di alibi, quella che non si è mai presa una responsabilità», quella che il giorno dopo le elezioni «non avevano mai perso». E quello meno appariscente, che in parte era seduto ieri mattina all’Auditorium di Santa Chiara, nel centro storico di Trento, che lo applaudiva, ma che ha avuto un attimo di sussulto quando il premier l’ha messa giù senza perifrasi, perché «dopo le riforme del Senato e della legge elettorale» ci occuperemo anche «della classe dirigente di questo Paese, che per anni ci ha fatto la morale».
Al Festival dell’Economia Renzi arriva in jeans sdruciti, scoloriti, come gli capita sempre più spesso. In prima fila ex ministri come Fabrizio Saccomanni, l’ad di Fiat Chrysler, Sergio Marchionne, un simbolo della sinistra come Franco Marini (in realtà la fila è la settima). L’economista Tito Boeri gli gira una serie lunga di domande, Enrico Mentana sviluppa i temi di Boeri e conduce l’intervista pubblica. Alla fine, proprio Marchionne dirà: «Mi è piaciuto, è l’unica agenda che in questo momento ha l’Italia e anche l’Europa, condivido tutto».
Agenda dice Marchionne, quasi un manifesto dicono in sala, sicuramente c’è un elogio del ruolo migliore della politica, una rivendicazione impostata su parametri a tratti drammatici. Se negli Stati Uniti, in Asia, in Giappone, spiega Renzi, «hanno tutti dato una risposta alla crisi economica, risposte diverse ma efficaci, qui in Europa ancora cerchiamo la formula giusta». Conseguenza: delle raccomandazioni in arrivo dalla Ue «terremo conto, ma non sono il problema, non ho timori», come non è un problema il nome del futuro vertice dell’Unione, piuttosto «la Ue ha bisogno di cambiare linea economica o la politica torna a fare il suo mestiere e riprende il suo potere di indirizzo sulla burocrazia o non ci salviamo».
Una politica diversa a Bruxelles come a Roma. Se lì manca fra gli altri «una politica estera», qui da noi occorre una «rivoluzione pacifica del buon senso», che può significare tante cose, tutte finora difficilissime. Per esempio occorre smetterla di fare calcoli e cominciare a pensare che «il risultato elettorale dimostra che possiamo andare verso due schieramenti, che mettono la residenza al 40%». Occorre cambiare mentalità, che ci sia «uno che abbia responsabilità, il ballottaggio serve a dire questo, a dire chiaramente chi ha vinto e che deve fare delle cose che se non gli riescono, anche per colpe non sue, gli verranno attribuite». Occorre ancora diminuire il numero dei politici, anche con un Senato senza compensi, perché viceversa i posti si moltiplicano, «i politici sono come le ciliege, uno tira l’altro».
Uno schema che ha anche ricadute personali: «Siamo i teorici della rottamazione, un governo di 30enni o 40enni, fra dieci anni dovremo noi essere rottamati, andare a fare un altro lavoro, perché così accade negli altri Paesi».
Se questo è il manifesto dei prossimi anni ci sono anche altri tabù della sinistra da abbattere: dopo i magistrati, dopo la Costituzione che non è la più bella del mondo («lo sapete che per i padri costituenti il bicameralismo perfetto fu un ripiego?»), dopo i sindacati da snobbare, entrano nel mirino le Soprintendenze, mentre annuncia un provvedimento che chiamerà sblocca Italia: anche i custodi del bello del Paese impediscono gli investimenti, bloccano il Paese. Una volta, poco tempo fa, erano uno dei feticci della sinistra. E invece ora «faremo entro luglio un provvedimento che si chiamerà sblocca Italia, chiederemo ai sindaci di dirci tutte le opere bloccate dalla mancanza di concerto, dai vincoli e dai divieti delleSoprintendenze. La regia sarà a Palazzo Chigi, vi abbineremo il massimo dell’open government, trasparenza assoluta, dobbiamo essere più trasparenti degli anglosassoni».
E figuriamoci se in questo schema le polemiche sulla Rai, la minaccia di uno sciopero di fronte ai tagli chiesti dal governo, trovano il capo del governo in posizione di difesa: «Abbiamo dato alla Rai due chance, vendere Rai Way o riorganizzare le sedi regionali, non mi sembra tanto. Se poi uno dei luoghi più politicizzati del Paese, dove ancora c’è chi scambia la carriera con la vicinanza ad un partito, luogo dal quale io voglio stare il più lontano possibile, se vogliono fare lo sciopero lo facciano, è umiliante, poi faremo due conti sulle sedi regionali, siamo l’azionista, a me piace la Rai dei professionisti, con una governance sganciata dalle ansie dei partiti, non una polemica incredibile fatta dal sindacato interno».
L’unico argomento che non si può aggredire è quello del fisco: «La riforma l’ho un po’ bloccata io, è un tema molto complesso. Abbiamo 271 forme di deducibilità, dobbiamo tornare ad essere un Paese come gli altri, dove si pagano le tasse una volta l’anno. Ma ci vorrà del tempo».
postilla
Avevamo già sentito proclamare “via lacci e lacciuoli” ai tempi di Benito Craxi (e di Lucio Libertini). Avevamo già sentito dichiarare dall’ex premier fedifrago Berlusconi, in difesa della proprietà privata degli immobiliaristi grandi e piccoli, che “ciascuno è padrone a casa sua”. Conoscendo l’ideologia di Matteo Renzi non dubitavamo che giunto al potere, avrebbe proposto, di abolire quelle poche regole che ancora ostacolano la distruzione del Belpaese, come ha fatto a Trento. Ciò che vivamente ci colpisce e ci addolora è che tanti italiani perbene lo applaudiscano. A cominciare da molti di quelli che militano nel suo stesso partito. Ci auguriamo che la resistenza al rottamatore dei patrimoni comuni si consolidi e si accresca.
Nel sessantottesimo compleanno della nostra Repubblica, mentre nuove monarchie ci minacciano, riflettiamo sul simbolo: la ruota dentata, la quercia, l'ulivo, la stella.
Il Fatto Quotidiano, 2 giugno 2014
Oggi è la festa della Repubblica: il due giugno di 68 anni fa i nostri nonni scelsero di non avere più un re. E un anno e mezzo dopo la Costituzione disse una volta per tutte che «la sovranità appartiene al popolo»: cioè ad ognuno di noi, non importa quanto sia piccolo o povero. La nuova Italia repubblicana aveva bisogno di un emblema: quello che oggi vedete sulle vostre pagelle scolastiche e sullo stendardo del Presidente, sulle targhe poste all'ingresso dei musei e sulle fascette delle bottiglie di vino. Esso fu scelto attraverso due successivi concorsi, che selezionarono il disegno dell'artista Paolo Paschetto. E un decreto del primo presidente della Repubblica, stabilì: «L'emblema dello Stato, approvato dall'Assemblea Costituente con deliberazione del 31 gennaio 1948, è composto di una stella a cinque raggi di bianco, bordata di rosso, accollata agli assi di una ruota di acciaio dentata, tra due rami di olivo e di quercia, legati da un nastro di rosso, con la scritta di bianco in carattere capitale "Repubblica italiana"».
La stella è il più antico simbolo dell'Italia: i Greci vedevano sorgere dalla parte del nostro paese, al loro occidente, la stella della sera, cioè il pianeta Venere, e chiamavano l'Italia Esperia, cioè la terra del tramonto. E così lo 'stellone' è stato sempre raffigurato sulle figure dell'Italia: e ci dovremmo ricordare che Venere è anche la stella del mattino. Dell'inizio, oltre che della fine.
La ruota dentata d'acciaio è l'ingranaggio di una macchina: e rappresenta il lavoro, su cui la Repubblica è fondata. Perché solo il lavoro ci fa eguali, liberi e forti. Il ramo di quercia significa la forza e la fermezza dello Stato e del popolo italiano: e ci ricorda come dovremmo essere. L'ulivo è simbolo di una Repubblica pacifica, una Repubblica che «ripudia la guerra»: e che speriamo ripudi anche le spese per i bombardieri.
Nei secoli passati gli stemmi e gli emblemi delle nazioni diventavano vere opere d'arte, scolpite e dipinte da grandi artisti: oggi non succede più, e forse il nostro stemma non è proprio bellissimo. Ma sbaglia chi, ciclicamente, lo vorrebbe cambiare: perché si è ormai avverata la profezia del presidente della Costituente, Umberto Terracini, che disse saggiamente: «Credo che qualunque emblema, quando ci saremo abituati a vederlo, finirà per l’apparirci caro». E soprattutto perché ancora non ne abbiamo attuato il programma: quando la nostra Repubblica sarà davvero forte e pacifica, davvero fondata sul lavoro, beh, allora magari ne riparleremo.
«
La recente vittoria di Syriza in Grecia offre un forte barlume di speranza per il futuro della democrazia economica e sociale in Europa. Però, allo stesso tempo, la crescita del nazionalismo di destra, con i suoi sentimenti razzisti e antisemititi, minaccia gli ideali di un’Europa plurale e democratica. Quei racconti mediatici che rappresentano in maniera scorretta l’importanza del crescente supporto elettorale per Syriza come la nascita dell’«estremismo» di sinistra vanno contrastati duramente.
Non vi è alcuna asimmetria contemporanea tra i cosiddetti «estremismi» di destra e sinistra. I tentativi di sminuire le richieste di giustizia economica in Grecia e Spagna (dove Podemos ha guadagnato l’8% dei voti) e di etichettarle come «populiste», «anti-Europee» o «euro-scettiche», non comprende la loro ampiezza e importanza. Queste vittorie della sinistra radicale non possono essere comparate con la nascita del Fronte Nazionale in Francia, dell’Ukip in Inghilterra, o con il rafforzamento dei partiti antisemiti in Grecia e Ungheria o con il populismo anti-immigranti in Belgio e Danimarca.
La crescita della destra «euro-scettica» risponde alle politiche di austerità e ai cambiamenti demografici con delle piattaforme chiaramente razziste. Mentre la crescita della sinistra offre una critica chiara e un’alternativa ben formulata alle diseguaglianze sociali ed economiche prodotte dalle politiche di austerità. Per impedire che la violenza e la disperazione si diffondano ulteriormente, l’Unione Europea ha bisogno di nuove alleanze attraverso i confini nazionali e di una riorganizzazione delle proprie istituzioni, al fine di raggiungere una più ampia uguaglianza economica.
Si dovrebbe lanciare un dibattito pubblico serio per discutere il futuro dell’Unione, il ruolo della solidarietà e della giustizia sociale e il significato dell’idea di Europa. Ma il successo di un dibattito pubblico democratico dipende dalla verità e dalla trasparenza delle rappresentazioni mediatiche dei movimenti politici e delle loro rivendicazioni. In questo senso, chiediamo attenzione per le differenze tra le varie forme di opposizione politica all’austerità, tra chi vuole più eguaglianza e chi vuole più disuguaglianza. Solo così è possibile vedere in maniera più chiara quanto sia davvero in gioco il futuro della democrazia.
Etienne Balibar, Joanna Bourke, Wendy Brown, Judith Butler, Drucilla Cornell, Simon Critchley, Jodi Dean, Costas Douzinas, Eric Fassin, Engin Isen, Chantal Mouffe, Jean-Luc Nancy, Toni Negri, Micael Lowy, Sandro Mezzadra, Bruce Robbins, Jacqueline Rose, Eleni Varikas, Hayden White, Slavoj Zize
«Interrompere l'esperienza lista Tsipras un suicidio senza resurrezioni. Aprire una fase costituente di una forza di sinistra, dal basso e dall’alto, nella produzione culturale, nell’elaborazione politica, nella prassi nei movimenti, il compito che ci spetta.».
Ilmanifesto, 31 maggio 2014
Il voto di domenica, richiama innanzitutto una lettura europea che non si presta a giudizi semplificati. Per alcuni paesi, come il nostro o la Francia si è trattato di un vero terremoto; nel contempo, pur marcando inquietanti successi, le destre antieuropeiste non travolgono i rapporti di forza nel parlamento europeo, ove aumenta di consistenza l’area di un europeismo critico da sinistra attorno a Tsipras. I popolari, pur restando primi, indietreggiano e non poco, la stessa cosa fanno i socialdemocratici, seppure in misura minore.
Nel contempo per la prima volta dal 1979 la percentuale dei votanti non è scesa, se non di un decimale, attestandosi sul 43%. In Italia è invece diminuita fortemente, del 7,7%, scendendo sotto il 60% per la prima volta in una elezione di carattere generale.
La strada delle larghe intese sul modello tedesco continua a essere la più probabile in quel di Strasburgo, anche se le figure di riferimento possono cambiare. Né Juncker né Schulz escono dalla contesa in grande salute ed è possibile che il ruolo di presidente della commissione possa andare ad altri. Matteo Renzi progetta di chiedere il posto per qualcuno dei suoi, in subordine di aspirare alla carica di ministro degli esteri, in sostituzione della scialba Ashton, o di avere il ricco portafoglio dell’Agricoltura. Insomma il partito di Renzi si prepara a contare di più in Europa, al di là del prossimo semestre italiano. Mentre il duopolio Francia – Germania su cui si era fondata tutta la costruzione politica, economica e istituzionale europea da Maastricht in poi è travolto dal disastro francese.
Questi cambiamenti e nello stesso tempo il perdurare e il confermarsi di vecchie tendenze, producono un effetto di spiazzamento anche nei giudizi di intellettuali da sempre attenti alla dimensione europea (si parva licet componere magnis). Ulrich Beck proclama la fine dell’austerità. E’ vero che la Merkel appare più sola nel contesto europeo; soprattutto la Bce nella sua imminente riunione dei primi di giugno si appresta ad abbassare verso lo zero i già bassissimi tassi di interesse e di renderli negativi per ostacolare i depositi delle banche presso l’istituto di Francoforte che inibiscono il credito alle imprese e alle persone; dunque che qualche misura contro la deflazione e la recessione verrà presa.
Ma risulta difficile pensare che una teoria come quella dell’austerità espansiva, falsificata dall’evidenza dei fatti e delle cifre, possa essere superata per autoriforma, senza che compaia a contrastarla una teoria almeno di uguale forza e capacità di attrazione. Questa c’è, ma per ora vive solo nei programmi che hanno portato all’affermazione le liste che facevano riferimento a Tsipras e poco più. Quello che è vero, e le conseguenze sono ancora peggiori, è che le teorie del rigore rivivono nella dimensione della precarietà espansiva, ovvero delle devastanti misure strutturali che precarizzano definitivamente il lavoro, su cui il nostro governo si è particolarmente distinto con il decreto Poletti.
Dal canto suo Alain Touraine, prima invoca un sussulto repubblicano in Francia per contenere l’ondata populista dei Le Pen, poi consiglia di dare più poteri al primo ministro Manuel Valls, ovvero al più destrorso della scombiccherata compagine di Hollande, il che provocherebbe esattamente l’effetto opposto se è vera la sua analisi di una “connessione sentimentale” fra il Fn e gli strati popolari.
In questo quadro assume una importanza decisiva l’affermazione di liste che fanno riferimento a Tsipras o che chiedono di fare gruppo assieme — come “Podemos” la formazione elettorale che trae origine dal movimento degli indignados spagnoli (che con il suo 8% ha eletto ben 5 deputati) – e naturalmente il risultato di Syriza che lo conferma primo partito in Grecia. E’ dall’insieme di queste forze che bisogna ripartire per mettere seriamente in crisi le politiche di austerità, evitare la loro camaleontica riproposizione e invertire la rotta verso politiche anticicliche, solidali e occupazionali.
La vicenda italiana è contrassegnata dall’enorme balzo in avanti del Pd su livelli che solo la vecchia Dc aveva toccato in un lontano passato e dalla sconfitta secca del M5Stelle che cede soprattutto voti all’astensione. Chi aveva pensato a un neobipolarismo Renzi-Grillo deve rivedere le sue analisi. Verrebbe da dire che dal bipartitismo imperfetto di cui parlava lo storico Giorgio Galli, basato sul duopolio Dc-Pci (con la conventio ad excludendum nei confronti di quest’ultimo) si stia passando a un monopartitismo imperfetto, fondato sul Pd e su un sistema di partiti il maggiore dei quali non raggiunge che la metà dei suoi voti.
In questo quadro è evidente che l’espressione stessa centrosinistra, con o senza trattino, ha perso ogni significato. Almeno per quanto riguarda il governo nazionale. Veltroni non ha torto di gongolare, anche se il partito a vocazione maggioritaria che lui aveva pensato, mandando in crisi di fatto il secondo governo Prodi e riaprendo la strada a Berlusconi, si realizza sotto un’altra stella. Chi, d’altro canto, parla di fare un partito unico con il Pd, finge di non accorgersi di predicare una semplice confluenza.
Il quorum de “L’altra Europa con Tsipras” ha interrotto la serie dei fallimenti elettorali a sinistra. E’ vero che è un risultato risicato e che il numero di voti conquistati non fa la somma delle organizzazioni che hanno dato il loro appoggio alla lista. Ma questo segnala per l’appunto la perdita di consensi di questi micro partiti e la scelta vincente di dare vita a una lista di cittadinanza.
Interrompere questa esperienza sarebbe un suicidio senza resurrezioni. Lo sarebbe anche per la democrazia italiana che vedrebbe ulteriormente ristretta le possibilità di espressione e rappresentanza politica, aprendo a nuove derive neoautoritarie. Aprire una fase costituente di una forza di sinistra, dal basso e dall’alto, sul piano della produzione culturale e dell’elaborazione politica, come su quello della prassi nei movimenti è il compito che ci spetta.
Il filosofo lancia l’allarme: «Si mostra troppo disprezzo verso gli elettori Nessuno dei capi di governo sembra in grado di dare risposte all’avanzata populista». Intervista di Nils Minkmar.
La Repubblica, 31 maggio 2014
CON trattative e giochi di potere sul prossimo presidente della Commissione i leader europei si mostrano incapaci di liberarsi dalla logica del potere e di dare all’Europa le nuove risposte che la situazione del dopo-voto esige. Ecco il j’accuse di Jürgen Habermas.
Signor Habermas, come giudica i negoziati in corso dopo l’ultimo vertice dei leader Ue?
«Come una nuova prova che in questo circolo dei capi dell’esecutivo pare che nessun leader e nessuna leader sia capace di liberarsi dalla routine del poker del potere quotidiano e di porsi davanti a una situazione che esige nuove risposte».
Perché secondo Lei Cameron e Orbàn hanno detto no a Juncker?
«Per gli altri leader quelle prevedibili obiezioni dei due sono state probabilmente un pretesto benvenuto. Angela Merkel, per mesi, si è schierata contro i candidati capolista. Ma questi sono stati effettivamente nominati (Juncker e Schulz tra gli altri, ndr) e ciò ha scatenato l’escalation di democrazia che pare che lei tema. Anche per questo l’Europa istituzionale è entrata di prepotenza nella realtà della volontà popolare polarizzata dei suoi cittadini. Per la prima volta il Parlamento europeo ha una vera legittimità — proprio perché i nemici dell’Europa hanno ottenuto voti e seggi, per scuotere e svegliare i sonnolenti europeisti — e così vengono separati i caproni dalle pecore. Mi chiedo da che parte stia un gruppo parlamentare del Ppe che non osa nemmeno appoggiare compatto il suo candidato Juncker. In Germania la Cdu si fa bella con l’immagine di partito europeista, ma la sua famiglia nell’Europarlamento sembra non volerne sapere di escludere dai suoi ranghi gente come Orbàn e Berlusconi».
Merkel poche ore fa ha chiesto Juncker. Lo si può imporre contro la volontà di Regno Unito e Ungheria?«La situazione ha due volti, uno politico e uno di diritto. Per la prima volta si sono svolte elezioni europee che almeno a metà meritano di essere chiamate elezioni. Da una parte abbiamo la chiara alternativa tra Juncker e Schulz, dall’altra abbiamo quella tra gli integrazionisti e i fautori di uno scioglimento delle istituzioni europee. Perciò, ben cosciente, il Presidio dell’Europarlamento ha dichiarato che il Consiglio europeo deve considerare in modo vincolante il risultato del voto. E come hanno risposto i nostri capi di governo? Chiudendo le paratie stagne della nave, per difendere il loro potere autoconferitosi contro la rabbia popolare, presunta irrazionale. Se davvero proporranno un’altra persona rispetto ai due candidati principali, ciò colpirà al cuore il progetto europeo. E non sarebbe più possibile conquistare i cittadini alla partecipazione a nuove elezioni europei. Gli altri leader potrebbero chiedere l’uscita dalla Ue dei paesi ostruzionisti».
A fronte del successo degli euroscettici e antieuropei, quale Commissione serve, per quale politica europea?
«Certo non è abituale che ben più del dieci per cento dei deputati eletti in un Parlamento vogliano abrogarlo o ridurre i suoi poteri. Ma questa anomalia rifletta solo la realtà: ci troviamo in un processo controverso di sviluppo costituzionale. Trovo sia un bene che gli avversari dell’Europa abbiamo trovato un Foro dove possono dire in faccia alle élites politiche che è necessario alla fine decidersi a coinvolgere i popoli nel processo di unificazione. Il populismo di destra impone un cambiamento di parametri: dall’elitarismo in uso finora ad un sistema di partecipazione dei cittadini. Ciò può solo essere positivo per il Parlamento europeo e per quel che riguarda la sua influenza sul processo legislativo europeo. Altro è il discorso per quanto concerne le conseguenze di questi risultati a livello nazionale nei singoli paesi membri della Ue. In questo senso, in alcuni Stati può crearsi il pericolo che i partiti politici si lascino intimidire, e scelgano la linea del tentativo di adeguarsi a idee dei populisti, come fa la Csu da noi in Baviera».
Come giudica l’angoscia per il successo del Front National in Francia?
«Qui tocchiamo un punto nevralgico. Domenica sera mi ha colto il pensiero scioccante che il progetto europeo potrebbe fallire non solo a medio termine a causa delle crescenti disuguaglianze economiche nell’eurozona, bensì anche a breve termine per le conseguenze di politica interna di una destabilizzazione della Repubblica francese, cioè del paese che si sente sempre più nell’ombra della Germania. In ogni caso si è data l’impressione che il governo tedesco, dall’inizio della crisi nell’ottobre 2008, si sia comportato in modo non cooperativo e che non tratti più a pari dignità il suo partner di gran lunga più importante. Presumibilmente soltanto una svolta politica in Euro- pa, quella che ci si aspettava da Hollande, potrebbe ristabilire l’equilibrio, evitando che in Europa una ulteriore costruzione della comunità della valuta unica e un suo sviluppo come Euro-unione politica diventi impossibile, in un percorso non democraticamente legittimato. Io capisco il riflesso difensivo del Consiglio europeo contro le proposte di Juncker (che vanno nella direzione dell’unione politica, ndr), lo vedo anche come sintomo di insicurezza. Angela Merkel, la patrona dei paesi donatori, vuole richiudere al più presto la finestra di un possibile cambiamento politico che si è aperta con l’aria fresca delle elezioni europee».
In che misura la disuguaglianza tra i due paesi leader è conseguenza anche della politica tedesca?
«Dopo la riunificazione è cambiata la mentalità nella Repubblica federale. La Germania si sente di nuovo Stato nazionale normale, e il nostro governo si comporta di conseguenza. In questo modo l’Unione europea, proprio attraverso la sua crisi peggiore, ha perduto la voce tedesca cui era abituata, la voce che chiedeva con insistenza più integrazione. Ma quella voce europeista tedesca è necessaria oggi più che mai. Invece di imporre un corso politico ai membri più deboli dell’unione monetaria, il governo tedesco avrebbe dovuto mettere in conto l’assunzione di proprie responsabilità in anticipo, come fu con Adenauer, Schmidt e Kohl. Invece, insensibile agli osceni disuguali destini di crisi, la Germania ha persino profittato della crisi. Questo comportamento non solidale deve rivolgersi contro di noi. Dobbiamo smetterla a dispiegare una posizione semiegemonica in cui la Bundesrepublik si spinge di nuovo in vecchi ruoli e stili tedeschi. O i risultati elettorali negli altri paesi devono lasciarci indifferenti?».
I socialdemocratici sono con Schulz e per una politica europea come quella che lei auspica. Prevede tensioni nella Grosse Koalition?«Spero che Sigmar Gabriel (vicecancelliere e leader dell’Spd, ndr) abbia la statura di capire che la pace nella coalizione è un gran bene, ma non da difendere a ogni costo. Ci sono anche altri europeisti nel governo, sebbene pochi. Gabriel è l’unico in cui vedo un senso di consapevolezza della piccola finestra di apertura storica apertasi col voto di domenica, l’unico che sappia guardare a Parigi. Dovrebbe essere consapevole del fatto che Merkel sappia quanto si fa presto a richiudere quella finestra temporale».
La Repubblica, 31 maggio 2014
Possiamo dire che comincia a prendere forma una costituzione per la Rete, un vero Internet Bill of Rights? Proprio negli ultimi due mesi vi è stato un affollarsi di novità che non solo giustificano la domanda, ma sono il segno concreto di una tendenza in atto, che ritroviamo in sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea, nell’imminente nuovo regolamento europeo sulla privacy, in una importante legge brasiliana su Internet. Si manifesta così la consapevolezza della impossibilità di lasciare il Web al dominio delle sole logiche del mercato o della sicurezza. E soprattutto viene smentita la tesi della morte della privacy. Questa è tornata al centro dell’attenzione planetaria dopo le rivelazioni sul Datagate, tanto da indurre uno dei più convinti certificatori di quella morte, Mark Zuckerberg, ad affrettarsi ad assicurare che Facebook garantirà a questo diritto una più forte tutela.
La Corte di giustizia è intervenuta fondando le sue sentenze sull’articolo 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che garantisce la protezione dei dati appunto come un diritto fondamentale della persona, al quale viene data protezione costituzionale. L’interesse economico di
Google, e in generale dei motori di ricerca, non può prevalere su un diritto fondamentale che la Carta dei diritti colloca nella parte dedicata alla dignità della persona. Inoltre, si è affermato che ai motori di ricerca, se hanno nei paesi dell’Unione una loro presenza organizzata, si applicano le norme contenute nelle direttive europee.
Quest’ultima è una affermazione di grandissimo rilievo. L’idea di un mondo globale vuoto di diritto e soggetto solo al potere incontrollato delle imprese multinazionali viene rigettata. Si manifestano così, concretamente, i segni di un Internet Bill of Rights, di un riconoscimento alle persone di una effettiva garanzia del libero governo della loro sfera privata, quali che siano i soggetti che trattano le loro informazioni e i luoghi dove vengono conservate. Molto di più del solo riconoscimento del “diritto all’oblio”, per il quale comunque Google ha già predisposto una procedura per presentare e valutare le richieste di deindicizzazione.
Il Parlamento europeo aveva detto chiaramente che lo spazio comune di Internet deve essere libero dal rischio che se ne impadroniscano le grandi società, e rimanere uno spazio dove possano prosperare la libertà di comunicazione e l’innovazione. Con la sentenza della Corte di Giustizia si fa un passo importante in questa direzione, restituendo anche rilevanza a principi già previsti dalle direttive europee, ai quali quei motori di ricerca avevano cercato di sottrarsi. Ricordo i principi di finalità, proporzionalità, necessità e la norma che già dava alla persona interessata il potere di opporsi, per “motivi legittimi”, al trattamento dei suoi dati, anche se raccolti in maniera legale. Proprio partendo da queste premesse, erano già state rivolte molte richieste ai motori di ricerca, che potrebbero ora essere anche classificate come manifestazione del diritto all’oblio. Ma oggi il fondamento della garanzia discende direttamente dalla Carta dei diritti. Ragionare trascurando questa sostanziale novità, impedisce di cogliere il valore profondo della sentenza come tassello di una più generale costruzione costituzionale dei diritti sul Web.
Vi è poi un significativo legame tra questa sentenza ed una precedente che ha dichiarato l’illegittimità della direttiva europea sulla conservazione dei dati. In entrambe, infatti, compare il riferimento alla necessità di evitare che possano essere costruiti “profili” delle persone fondati non solo su informazioni sgradite all’interessato, ma nell’ambito di un contesto che può distorcerne la personalità. La crescita quantitativa delle informazioni disponibili ha determinato un mutamento qualitativo, che investe la stessa identità delle persone, che ha messo in evidenza l’enorme potere di Google e la necessità di controllarlo giuridicamente e socialmente, tanto che si è sottolineato che Google è vittima del suo stesso successo. Non a caso si è detto che “tu sei quello che Google dice che tu sei”, considerazione particolarmente rilevante in Europa, dove Google controlla il 90% degli accessi. La linea indicata dalle due sentenze, infatti, non ci ricorda soltanto che le ragioni di sicurezza non possono giustificare qualsiasi forma di raccolta di dati personali e qualsiasi periodo di conservazione, da una parte, e che, dall’altra, che vi è un diritto all’oblio. Si definiscono limiti all’azione di soggetti pubblici e privati per garantire alla persona interessata la possibilità di tornare ad essere quella alla quale viene riconosciuto il potere di governare la costruzione della propria identità.
Proprio per la sua radicalità, la sentenza riguardante Google si è attirata diverse critiche. L’argomento del pregiudizio per il mercato, tuttavia, trascura la nuova gerarchia istituita tra diritti fondamentali e interessi economici. Il mercato non può essere considerato come una sorta di legge naturale, che prevale su ogni altra. Più seria è la preoccupazione riferita ai possibili rischi per la libertà di espressione, ma la Corte ha escluso che le “figure pubbliche” possano invocare il diritto all’oblio e ha sottolineato che in casi specifici si dovrà confrontare la natura delle informazioni e il loro carattere sensibile per l’interessato con l’interesse alla conoscenza dell’opinione pubblica.Si è dunque aperta una fase di riflessione che richiederà una valutazione del bilanciamento tra i vari diritti e interessi in gioco. Ma questo non può divenire un pretesto per rimettere in discussione il primato attribuito al diritto fondamentale alla protezione dei dati. Qualcuno teme che, muovendo da queste premesse, si possa giungere a un Web 3.0 dominato dal potere dell’interessato di controllare i dati che lo riguardano. Questo è un modo per travisare la questione. A quel Web 3.0 si dovrà guardare come ad uno spazio costituzionalizzato, dove gli Over the Top o altri padroni del mondo non possano considerarsi liberi da ogni regola o controllo. La versione integrale di quest’articolo esce su Eutopia, rivista web europea promossa da Laterza © Commons creative eutopia magazine
«Perché si affermano i partiti populisti? Basta guardare al profilo per età del voto, giovane al Sud e vecchio al Nord. La soluzione passa per politiche europee che sappiano affrontare il problema della disoccupazione giovanile nei paesi più periferici». Lavoce.info
, 27 maggio 2014 (m.p.r.)
Squilibri e spinte migratorie. Se si pensa all’Unione Europea come a un unico paese e si guarda alla diseguaglianza dei redditi, concentrandosi in particolare sui giovani, si comprendono bene le ragioni che stanno dietro alla vittoria dei movimenti populisti alle elezioni europee. L’indice più comune per misurare la diseguaglianza, il coefficiente di Gini, tra i redditi delle famiglie con capofamiglia di meno di 30 anni è cresciuto marcatamente in tutto il periodo della grande recessione e della crisi del debito dell’Eurozona. È passato dal 28,5 per cento nel 2007 al 31,5 per cento nel 2011: un aumento del 10 per cento. E il rapporto “primi dieci-ultimi dieci” è aumentato in maniera simile, da 4 a 5: significa che il reddito medio nel decile più alto nella distribuzione è ora cinque volte maggiore del reddito medio nel decile più basso. L’aumento della disuguaglianza tra i giovani non è dovuto, come per gli altri gruppi d’età, a una concentrazione nella parte più alta della scala dei redditi, con alcune persone molto ricche che aumentano la loro distanza dal resto della popolazione. I giovani, che già all’inizio della crisi erano sottorappresentati nella parte più alta della distribuzione del reddito, sono oggi una percentuale ancora minore rispetto agli altri gruppi di età.
La diseguaglianza dei redditi è aumentata principalmente a causa delle differenze nei livelli di disoccupazione giovanile. In Grecia e Spagna i tassi di disoccupazione in quella fascia sono oltre il 50 per cento, in Italia sopra il 40 per cento, mentre in Austria e Germania sono sotto la doppia cifra. È significativo che sia l’aumento della diseguaglianza dei redditi sia l’aumento delle differenze nei tassi di disoccupazione giovanile tra le diverse aree dell’Unione Europea abbiano una dimensione marcatamente nazionale: la diseguaglianza tra paesi è quasi raddoppiata, mentre all’interno dei paesi la crescita delle diseguaglianze è stata molto più contenuta; nel caso dei tassi di disoccupazione, la variazione inter-regionale all’interno di ogni paese si è dimezzata, mentre la differenza tra paesi è aumentata di due volte e mezzo.
Populismi del nord e populismi del sud. Perché tutto questo è importante per capire la vittoria del populismo alle elezioni europee? I giovani sono la componente più mobile della popolazione e sperimentare la disoccupazione così presto, quasi all’inizio della loro vita lavorativa, lascia cicatrici profonde. Quelli che vivono nei paesi con un’alta disoccupazione (il cosiddetto ClubMed, incluso il Portogallo) hanno solo due opzioni: exit or voice - andarsene via o “farsi sentire”. Londra e Berlino sono state inondate da giovani italiani e spagnoli. E ancora di più da giovani bulgari o rumeni che hanno lasciato l’Italia o la Spagna per cercare lavoro altrove. L’alternativa è farsi sentire e i movimenti populisti del Sud Europa tendono a consentire ai giovani proprio quel tipo diprotesta radicale contro le istituzioni europee e l’euro che più apprezzano. Il profilo di età dei voti di Tsipras in Grecia, del movimento di Grillo in Italia, di Podemos in Spagna e del Front National in Francia è molto ben definito: in molte circoscrizioni, questi movimenti sono il primo partito tra coloro che hanno meno di 30 anni.
L’altro lato della medaglia è il populismo del Nord Europa, che somiglia molto a una collezione di sentimenti anti-immigrazione. L’Ukip ha fatto la sua campagna contro il flusso di cittadini europei, chiedendo lo smantellamento della libera mobilità dei lavoratori, uno dei pilastri dell’Unione Europea fin dal trattato di Roma. E non sorprende che il profilo di età sia, in questo caso, speculare rispetto al populismo del Sud: quasi il 90 per cento dei sostenitori di Nigel Farage ha più di 40 anni, 3 sostenitori del People’s Party danese su 4 hanno più di 50 anni e il FPÖ austriaco ha percentuali doppie tra gli ultra cinquantenni. La concentrazione all’altro capo dello spettro di età nel populismo del Nord è dovuta al fatto che i lavoratori più anziani rappresentano le componenti meno mobili della popolazione ed è quindi probabile che soffrano di più per la competizione dei giovani lavoratori che arrivano da altre parti dell’Unione.
Come spendere meglio le risorse. Se l’analisi è corretta, ne consegue che sarà difficile per i movimenti populisti europei coordinare i loro voti utilizzando la grande fetta di seggi che si sono guadagnati nel Parlamento europeo. Ma ci sono lezioni ancora più importanti da imparare riguardo al futuro dell’Europa. A meno che non si faccia qualcosa per affrontare il problema delle diseguaglianze tra paesi e della disoccupazione giovanile, questa tendenza proseguirà e porterà con sé, al Nord, tensioni per l’immigrazione e, al Sud, fuga di cervelli ed euroscetticismo. Non è una prospettiva positiva per l’integrazione: è poco probabile che così si promuova un’identità europea, qualunque essa sia. I politici tedeschi conoscono molto bene la questione, dal momento che l’hanno dovuta affrontare dopo l’unificazione della Germania, spendendo molto per prevenire la migrazione da Est a Ovest. Fortunatamente, in questo caso, non c’è bisogno dei massicci trasferimenti fiscali registrati dall’Ovest verso l’Est dopo la caduta del Muro di Berlino. Sarebbe sufficiente prestare più attenzione allo sviluppo nelle economie più periferiche quando si prendono decisioni di politica monetaria, partendo col pianificare una svalutazione dell’euro rispetto al dollaro.
Allo stesso tempo, il bilancio europeo dovrebbe essere usato meglio per affrontare i problemi legati alla disoccupazione giovanile. Oltre a essere troppo contenuta (6 miliardi di euro, ovvero, circa 400 euro per giovane disoccupato all’anno), l’Iniziativa europea per l’occupazione giovanile si dà obiettivi sbagliati e coinvolge attori sbagliati: si propone di avviare al lavoro i giovani nei paesi in cui non ci sono posti disponibili per loro; inoltre, trasferisce denaro dal bilancio europeo direttamente alle regioni povere, saltando le giurisdizioni nazionali, mentre l’aumento della disoccupazione giovanile ha una dimensione marcatamente nazionale. Il risultato sono programmi regionali co-finanziati dall’Ue che, per contrastare la disoccupazione giovanile, si affidano a una grande varietà di progetti di piccola portata e di durata limitata. Vi rientrano molti corsi di formazione più adatti ad arricchire chi tiene il corso (spesso con curricula limitati, come quelli per estetista) che ad aiutare effettivamente coloro che dovrebbero beneficiare della formazione.
Nell’ambito dell’iniziativa non c’è spazio, invece, per le riduzioni fiscali permanenti e i sussidi salariali che promuoverebbero la domanda di lavoro per i più giovani nei paesi con un alto tasso di disoccupazione. Insomma, si ripetono esattamente gli stessi errori compiuti nell’allocazione dei fondi strutturali: spesso i governi locali non sanno che fare di questi soldi e finiscono o per non spenderli (la stessa efficiente amministrazione tedesca utilizza non più del 60 per cento delle allocazioni dei fondi strutturali) o per disperderli in una miriade di piccoli progetti, i cui costi di gestione superano frequentemente il 50 per cento del budget di ciascun singolo progetto.
Con le regole attuali, alle nazioni in crisi converrebbe arrivare a un accordo di “zero a zero”: non contribuire in alcun modo al bilancio Ue e non riceverne nulla in cambio. Ma se chi più ha bisogno di sostegno sotto i colpi di crisi asimmetriche ricava un maggior beneficio chiamandosi fuori dal fondo comune, è evidente che quel fondo comune non ha ragione di esistere sotto il profilo della condivisione del rischio e del mutuo soccorso. L’Iniziativa europea per l’occupazione giovanile dovrebbe quindi essere riconsiderata, consentendo il finanziamento di programmi nazionali per la creazione di posti di lavoro nei paesi con un’alta disoccupazione giovanile, mentre i fondi strutturali dovrebbero trasformarsi in strumenti per sostenere quelle riforme strutturali che incrementino la convergenza economica all’interno dell’Unione. Dovrebbero essere fondi per compensare gli svantaggi della liberalizzazione economica secondo la filosofia dei Contractual Arrangements, oltre che per assorbire gli shock. Oggi non ci sono le basi per un ampliamento del bilancio dell’Ue, ma possiamo iniziare a spendere meglio il denaro a disposizione.
Europee 2014. Il record elettorale del Pd non è una vittoria sul populismo, Renzi non è meno populista di Grillo. E i voti per Syriza sono una spinta per coltivare il nucleo nascente di un’alternativa».
Il manifesto, 28 maggio 2014
La riduzione della competizione per le elezioni europee a un match frontale tra due icone vuote di contenuti quanto piene di invadente presenzialismo ha premiato Renzi e punito Grillo. Ma a perdere sono stati gli italiani o, meglio, ha perso la democrazia. Perché la riforma elettorale, quella del Senato o l’abolizione delle Province volute da Renzi non fanno che ridurne progressivamente il campo di applicazione.
Ha perso il pluralismo: ora c’è un uomo solo al comando di un partito, del governo, arbitro, anche, dei destini dello Stato; e gli altri partiti, satelliti o comprimari, sono in via di sparizione, né hanno molte ragioni per continuare ad esistere. E ha perso, rendendo sempre meno sindacabili le scelte del “premier”, la prospettiva di un vero cambiamento: il quadro europeo in cui il Pd si inserisce e di cui sarà un garante non consente cambi di rotta. E con tutte queste cose hanno perso i lavoratori, i disoccupati, i giovani, i pensionati; anche, e forse soprattutto, quelli che lo hanno votato.
Ma non si tratta, come sostengono molti commentatori, di una vittoria sul populismo. Renzi non è meno populista di Grillo se per populismo si intende un richiamo identitario (le “riforme”, presentate come intervento salvifico, senza specificarne il contenuto, e la “rottamazione” presentata come programma) che fa aggio sui contenuti specifici delle misure proposte. Il programma di Grillo, se si eccettua la sua ambivalenza di fondo sull’euro, che è ambivalenza sul ruolo che può e deve avere l’Europa nel determinare un cambio di rotta per tutti, era addirittura più concreto di quello con cui Renzi ha affrontato questa scadenza elettorale. Entrambi comunque avevano gli occhi puntati sugli equilibri interni al pollaio italiano; la resa dei conti con le politiche europee l’avevano rimandata a un indeterminato domani: eurobond o uscita dall’euro per uno; ridiscussione dei margini del deficit per l’altro; nessuno dei due sembra rendersi conto che la crisi europea impone una revisione radicale del quadro istituzionale e delle strategie politiche, prima ancora che economiche.
Non è stata nemmeno, quindi, una vittoria dell’europeismo contro l’antieuropeismo: se per Grillo il problema è inesistente — la sua “indipendenza” da tutto e da tutti gli impedisce di avere alleati e prospettive che vadano al di là delle Alpi e dei mari di casa, per Renzi è l’assoluta subalternità al patto tra Schulz e Merkel, ormai ratificato dall’esito elettorale anche in Europa, che gli impedisce di avere, se non a parole — ma di parole la sua politica non manca mai — una visione delle misure, delle strategie e delle conseguenze di una vera rimessa in discussione dell’austerità. Quell’austerità che l’Europa la sta disintegrando (e i primi a pagarne le conseguenze saremo noi).
Meno che mai quella di Renzi è stata una vittoria della speranza contro il rancore. Se nell’ultimo anno il Movimento 5S ha dato prova della sua sostanziale inconcludenza, dovuta al controllo ferreo che i suoi due
leader pretendono di esercitare sui quadri e sui parlamentari, la motivazione di fondo del voto a Renzi è stata un clima da “ultima spiaggia”. Paradigma di questo atteggiamento sono gli editoriali su la Repubblica di
Eugenio Scalfari, che non approva praticamente alcuna delle misure varate da Renzi e meno che mai i suoi progetti, ma che invita a votarlo lo stesso perché “non c’è alternativa”.
Così, se con queste elezioni la parabola del M5S ha imboccato irrevocabilmente una curva discendente, mentre Renzi sembra invece sulla cresta dell’onda — forse raggiunta troppo in fretta per poter consolidare una posizione del genere — è il vuoto di prospettive e la mancanza di una proposta di respiro strategico per riformare l’Europa a condannarlo a sgonfiarsi altrettanto rapidamente. Il che succederà inevitabilmente — pensate alla parabola di Monti! — non appena Renzi dovrà fare i conti con quella governance che forse immagina di riuscire a conquistare con la stessa facilità, superficialità e disinvoltura con cui si è impadronito, gli uni dopo le altre, di primarie, partito, governo ed elettorato. Ma là, invece, c’è la “scorza dura” dell’alta finanza che Renzi non si è mai nemmeno sognato di voler intaccare, ma che non è certo disposta a concedergli qualcosa che vada al di là di un sostegno formale e simbolico (un po’ di spread in meno, forse; e solo per un po’).
Ma come Grillo sta lasciando dietro di sé, in modo forse irreversibile, perché non facile da prosciugare, un mare di macerie (la politica trasformata in pernacchia, come Berlusconi l’aveva, prima di lui, e aprendogli la strada, trasformata in barzelletta e licenza), così anche Renzi lascerà dietro la sua prossima quanto inevitabile parabola, altri danni irreversibili. Danni alla democrazia e alla costituzione; al diritto del lavoro e alle condizioni dei lavoratori, precari e non (se ancora ce ne sono); alla scuola, alla sanità, al welfare, alle autonomie locali (che da sindaco non ha mai difeso dal patto di stabilità); a quel che resta della macchina dello Stato, smantellandone i capisaldi in nome del risparmio e dell’efficienza; al sistema delle imprese e dei servizi pubblici, messi in svendita per fare cassa; e, soprattutto, danni alla tenuta morale della cittadinanza, messa per la terza o la quarta volta alla prova di una politica fondata sulle apparenze.
"L'altra Europa con Tsipras" rappresenta un piccolo ma importante episodio di resistenza. Di fronte a questo panorama, di cui l’elettorato non potrà evitare di prendere atto in tempi stretti, i risultati della lista “L’altra Europa con Tsipras” rappresentano un piccolo ma importante episodio di resistenza; perché in quella lista, e in nessun’altra proposta di livello nazionale ed europeo, è contenuto il nucleo di un’alternativa possibile e praticabile alla perpetrazione di politiche destinate a portare allo sfascio l’intero continente, Germania compresa.
Certamente i nostri numeri non sono esaltanti, anche se lo sono quelli di alcuni dei nostri partner europei. Però sono il frutto di un lavoro di conquista, voto per voto, consenso per consenso, impegno per impegno, che ha coinvolto migliaia di compagni e di sostenitori delle più diverse provenienze, che non avevano certo come obiettivo finale o esclusivo il risultato elettorale. Ma che proprio sperimentando, almeno in parte, e non senza molte contraddizioni, forme nuove, o profondamente rinnovate, di condivisione e di coesione, fondate su nuove pratiche, sono ben determinati ad andare avanti lungo la strada appena intrapresa. E non ciascuno per conto suo, o facendo ricorso alle proprie appartenenze, ma tutti insieme, aprendosi a quel mondo di delusi, di arrabbiati, di abbandonati, di incerti che la crisi del M5S e il mutamento antropologico del Partito Democratico si stanno lasciando, e continueranno a lasciarsi, dietro le spalle.
In questa piccola affermazione i voti di preferenza raccolti da due capolista come Barbara Spinelli e Moni Ovadia, che hanno messo il loro nome, la loro faccia e un mare di fatica a disposizione del progetto per rappresentarne il carattere unitario, sono una importante dimostrazione di quella spinta a un radicale rinnovamento delle proprie identità che fin dall’inizio è stata la cifra della nostra intrapresa.
In pochi anni, sotto la guida di Alexis Tsipras, Syriza, da piccola aggregazione di identità differenti si è fatta partito di governo. Dunque, si può fare. Se abbiamo messo quel nome nel simbolo della nostra lista non è per caso.
Il trionfo renziano è una sfida per la sinistra di Tsipras. Dopo aver vinto la scommessa europea con i parlamentari italiani eletti a Strasburgo, ora le persone che in pochi mesi hanno creato questa esperienza politica «dovranno capire come collocarsi nell’inedito scenario italiano».
Il manifesto, 27 maggio 2014, con postilla
I poveri sondaggisti anche questa volta avevano immaginato un altro mondo (l’astensione a valanga, il testa a testa tra Renzi e Grillo…), ma a parziale discolpa della loro inaffidabilità bisogna dire che sono stati sommersi, più che dal ridicolo, da una vera e propria onda anomala, apparsa a una certa ora della notte accanto alla casella del Pd: 40,8%. Quando un partito in un anno quasi raddoppia c’è molto da capire ma una cosa è chiara: siamo di fronte a un risultato elettorale che cambia i connotati a tutto il sistema politico.
Il primo e unico riferimento storico del nuovo partito pigliatutto è la balena bianca democristiana, capace di salire così in alto da contenere tutto l’arco costituzionale, dalle sinistre dei Bodrato e dei Granelli alle destre dei Forlani e degli Andreotti. Questo Pd ha ingoiato in un solo boccone il 10% dei montiani con annessi cespugli (da Casini in giù) insieme a brandelli berlusconiani, portandoli nella stessa casa dei Fassina e dei Civati. Poi, come nella più collaudata tradizione democristiana, ha messo nelle tasche di dieci milioni di italiani 80 euro, biglietto da visita recapitato il venerdì per la messa elettorale della domenica.
In realtà questa febbre a 40 realizza la famosa vocazione maggioritaria di Veltroni, con ex dc e ex pci nucleo centrale di un trasversalismo destinato a produrre una mutazione genetica. Ha la febbre alta il paese che, dopo Berlusconi, dopo Grillo conferma l’anomalia italiana affidandosi al leader vincente, alla stabilità di governo.
Da oggi abbiamo davanti una sfida per tutti. A cominciare dall’uomo solo al comando che deve governare tenendosi in equilibrio sull’imponente onda anomala che egli stesso ha sollevato, dimostrando di saper gestire un sostanziale monocolore: la cura prevede le riforme costituzionali di stampo presidenzialista, i sindacati al tappeto con l’imposizione del lavoro precario per tutti. Da domani Renzi non potrà più tirarsi fuori dai disastri del paese addebitandoli ai suoi rottamati predecessori.
Il populismo di governo ha pagato più del populismo di opposizione, e dunque è una sfida anche per Grillo. L’ex comico ha lavorato per il nemico provocando la reazione del “voto utile” contro le urla e gli insulti. Molti, a sinistra, preoccupati di disperdere il voto, si sono turati il naso e hanno votato Pd per scampare un pericolo maggiore. Grillo deve scegliere se continuare a invocare improbabili caroselli intorno al Quirinale, se insistere con la politica del “vaffa” o traghettare i sei milioni di voti (un potenziale grandissimo) in una strategia parlamentare capace di trasformare la forza elettorale in alleanze, battaglie e obiettivi concreti. In Italia come in Europa.
Il trionfo renziano è, infine, una sfida per la sinistra di Tsipras. Dopo aver vinto la scommessa europea con i tre parlamentari italiani eletti a Strasburgo, ora le donne e gli uomini che in pochi mesi hanno creato questa esperienza politica dovranno capire come collocarsi nell’inedito scenario italiano.
L’analisi del voto rileva un potenziale molto al di là della sofferta soglia del 4% (il 5 a Palermo, l’8 a Bologna, il 6 a Roma il 9 a Firenze), testimoniato anche dal consenso ai candidati (molti i giovani) e ai capilista. Senza maratone televisive, forti del prestigio personale e delle lotte sul territorio hanno oltrepassato le 30 mila preferenze. Vincere controcorrente è un buon segno.
L'autrice afferma che le donne e gli uomini della lista di Tsipras «dovranno capire come collocarsi nell’inedito scenario italiano». Mi sembra che molti elementi della scelta siano già chiari. Quelle donne e quegli uomini si collocano a sinistra, dalla parte della maggioranza del popolo, quella che paga il prezzo maggiore a causa delle scelte funeste dei governi degli stati europei, e della stessa loro espressione sovranazionale: quelli che non hanno trovato lavoro o l'hanno perduto, quelli cui è stato ridotto l'accesso al welfare o al godimento della pensione. Si collocano dalla parte di quella miriade di associazioni, comitati, gruppi di cittadini che si sono uniti in mille avventure di difesa di beni comuni, a livello locale o associati in reti a livello nazionale o sovranazionale, che hanno imparato a denunciare, protestare e proporre insieme per una città più equa e più bella. Si collocano sulle posizioni di una sinistra radicale, nel senso che vuole andare alla radice delle cose per combattere le cause di fondo che hanno generato la crisi del sistema e la sofferenza dei più: una posizione, quindi, anticapitalista particolarmente contraria alla forma attuale che il sistema capitalistico ha assunto: il "finanzcapitalismo". Sono chiare anche le proposte precise che quelle donne e quegli uomini hanno sostenuto sia quelle per le cose da fare con conseguenza più vicine nel tempo che in quelle in prospettiva. Sarebbero note a tutti se i media avessero fatto il loro lavoro e non si fossero appiattiti sulle esigenze del Palazzo e su quelle della "pronta cassa" e avessero dato spazio alla presentazione e alla discussione dei programmi.
Molte cose, però, bisogna ancora sceglierle, e alcune contraddizioni superate, se si vuole dare un futuro all'esperienza della lista Tsipras.
Intanto, bisognerebbe porsi alcune domande. Come mai il voto ottenuto dalla lista Tsipras è inferiore alla somma dei voti ottenuti in precedenza dai due partiti che erano entrati, insieme ai gruppi di cittadini, a sostegno della lista? Come mai così pochi voti sono venuti dal bacino costituito dai voti espressi in occasione dei referendum in difesa dei beni comuni e delle mille battaglie locali o su singoli temi? Che ruolo ha svolto la presenza di PRC e SEL nella lista, che da una parte ha fatto prevalere in molti potenziali elettori lo spirito dell'"antipolitica", dall'altro lato ha portato alla lista un contributo d'impegno personale e organizzativo senza il quale non si sarebbe raggiunto nemmeno il numero di firme necessario per la presentazione della lista? Che peso ha avuto, sull'altro versante, la difficoltà dei movimenti di superare il carattere meramente locale o settoriale della singola iniziativa per cogliere il nesso tra le diverse questioni, e comprendere che i mille anelli che imprigionano la possibilità di una società migliore sono parte di una sola catena, e quindi possono essere affrontati solo con una visione (e un'organizzazione) politica dei problemi?
Per rispondere a queste domande occorre certamente riferirsi al quadro generale: al perché del trionfo di Matteo Renzi e della sua conchiglia, il PD, e al perché del fallimento della formazione che ha dato voce più matura e ampia alla protesta (nonché dell’aberrazione rappresentata dall’ancora cospicuo numero di italiani che vota per il reo di evasione fiscale plurimiliardaria). E bisogna poi domandarsi in che modo superare quella che è senza dubbio la causa prima dei limiti della vittoria della lista Tsipras: il tradimento dei media, il silenzio gettato sulle proposte, e sulla stessa esistenza della lista Tsipras. Il peso di questo tradimento è testimoniato dal vistosissimo divario tra i voti ottenuti dalla lista nelle città, dove funziona la comunicazione tradizionale, e quelli raccolti nel resto del territorio, dove l’unica voce è la grande stampa e la televisione. Ecco alcuni esempi: nel Veneto, 2,7 %, a Venezia, 5,83%, Padova 5,62%, Vicenza 4,62; Emilia-Romagna 4,07%, Bologna 8,89%; Trentino-AA 6,66%, Bolzano 8,92%; Friuli-VG 3,70%, Trieste 5,95%; Lombardia 4,93%, Milano 6,48%, Toscana 5,12%, Firenze 8,91% Lazio 4,68 %, Roma 6,16%; Campania 3,80%, Napoli 5,67%. Ma sarebbe interessante fare un'analisi seria della distribuzione territoriale dei voti. Da essa risulterebbe comunque con evidenza che la prima domanda nella quale dovrebbe rispondere chi volesse proseguire l'esperienza della lista Tsipras è: come attrezzarsi per superare il deficit d'informazione: dando per scontato il tradimento dei media (salvo recupero quando si sarà sconfitta l'egemonia del neoliberismo). La discussione è aperta. (e.s.)
«». Idominjanni.com
L’Europa esce dalle urne ferita e trasformata. Ferita, perché per quanto non abbiano sfondato le forze antieuropee hanno avuto risultati tutt’altro che trascurabili e in Francia, Gran Bretagna e Ungheria esplosivi. Trasformata, perché l’equilibrio fra stati (l’asse franco-tedesco) e fra partiti (le due grandi famiglie dei socialisti e dei popolari europei) non c’è più. Per quanto Angela Merkel, la custode dell’Europa neoliberale, austera e avara, incassi l’ennesima conferma della sua politica in casa, la soluzione di una grande coalizione che prosegua a livello continentale le dissennate politiche degli ultimi anni che hanno portato molte popolazioni europee alla disperazione è tutt’altro che scontata. Altre maggioranze sono possibili, e in ogni caso le forze portatrici della continuità non potranno non fare i conti non più con gli umori, ma con i numeri che esprimono una rivolta diffusa contro l’Unione che abbiamo sperimentato finora e una forte e allarmante istanza dal basso di ritorno alla sovranità popolare, la bandiera non a caso più fortemente agitata nell’immediatezza dei risultati da Marina Le Pen.
Il vento della trasformazione non spira però solo da destra, o dalle formazioni trasversali cosiddette populiste. Spira da sinistra, anzi nella sinistra, perché i risultati penalizzano ciò che resta della tradizione socialista novecentesca e fanno spazio a due sinistre nuove e diverse se non opposte fra loro, emblematicamente raffigurate dal partito di Renzi in Italia e da Syriza in Grecia, che rappresentano due uscite diverse dalla crisi, due visioni diverse della società, due ipotesi opposte di ricostruzione della sinistra post-novecentesca. Il trionfo di Renzi, che ne fa in primo luogo il leader più forte del fronte ”progressista” in Europa e lo carica di un potere e di una responsabilità insperati nel semestre europeo, va valutato in questo quadro di trasformazione della sinistra continentale.
La domanda cruciale, e qui dal contesto europeo scivoliamo in quello italiano, è se questo trionfo si debba a un sinistra che si risveglia dopo il ventennio berlusconiano o a una sinistra che in tanto finalmente sfonda in quanto ne incorpora gli elementi portanti. Non solo, va sottolineato, l’abilità comunicativa dell’attuale premier, mutuata dal precedente. Bensì molti e cruciali contenuti, dalla torsione populistico-plebiscitaria della democrazia al disegno di riforma costituzionale, dalla concezione del lavoro, dell’autoimprenditorialità e della flessibilità a quella della rottamazione del settore pubblico, secondo la versione lievemente corretta delle politiche neoliberali del ventennio passato sostenuta dal segretario del Pd. E’ la continuità nella discontinuità che l’elettorato italiano – un elettorato evidentemente molto trasversale – ha premiato, sostituendo nel suo immaginario la narrativa dell’ex sindaco di Firenze a quella ormai usurata dell’ex cavaliere di Arcore.
Il trionfo di Renzi tuttavia è di tale entità da mettere in difficoltà i suoi più accesi sostenitori, e non solo perché il risultato fa piazza pulita del ”duello” con Grillo montato dai media e smontato dalle urne. Ma perché il problema vero è quello della configurazione che il sistema politico prenderà. L’avvento di Renzi, e l’accordo del Nazareno fra Renzi e Berlusconi, era stato salutato dai più come garanzia di ricostituzione di un bipolarismo di cui Berlusconi era stato creatore e garante , e di cui col declino di Berlusconi avrebbe dovuto diventare perno e garante il ”conquistatore” del Pd. Una prospettiva tranquillizzante, di sostanziale continuità con la cosiddetta seconda Repubblica, assunta come premessa dai due stessi contraenti del patto del Nazareno sulle riforme e sulla legge elettorale. Non era tuttavia imprevedibile – mi ero permessa di segnalarlo in un seminario Crs sulle riforme - prima che la sondaggistica preelettorale, sbagliando clamorosamente, inchiodasse la gara sul match Renzi-Grillo - che si stesse delineando tutt’altro scenario, con un Pd pigliatutto saldamente piazzato al centro del sistema politico, a vocazione più totalitaria (uso questo termine depurandolo dai suoi connotati tragici novecenteschi) che maggioritaria, un partito-Stato senza nessuna alternanza bipolarista e nessuna necessità coalizionale all’orizzonte. Si parla adesso, per questo, di nuova Dc, ma è bene sapere che il Pd non è la Dc, è un animale nuovo figlio della seconda repubblica e non della prima, della società forgiata dal berlusconismo e non di quella plasmata dal dopoguerra. L’effetto di ritorno segnala al contempo quanto sia stata fragile la costruzione della seconda repubblica sul piano istituzionale, e quanto sia stata forte sul piano della trasformazione antropologica, sociale e delle identità politiche. Sono i miracoli delle rivoluzioni passive, che restanopd come a un partito « la caratteristica più singolare di questo singolare paese.
Postilla
De animalia: coccodrilli e paguri
All'articolo molto equilibrato di Dominijanni vorrei aggiungere due osservazioni. (1) La responsabilità dei media nel ridurre le elezioni per il Parlamento europeo al duello Renzi/Grillo è enorme, e i giornalisti della carta e quelli dell'etere diventano coccodrilli quando, post factum, lagrimano perchè non si è parlato di problemi e di proposte. (2) Ha ragione Dominijanni quando parla del Pd come a un partito «a vocazione più totalitaria che maggioritaria». Una "parte" che pretende di divenire “tutto“ è il contrario della democrazia. Ciò che mi stupisce e addolora è che Renzi (a differenza dei paguri) non s'è impadronito di un guscio vuoto per portarlo nella direzione diversa da quella del suo abitatore, ma d'un corpo vivente, benchè ammaccato. E nessuna porzione di quel corpo se n'è accorto, talché tutti viaggiano felici nel verso opposto a quello della loro storia. Mi dispiace. (e.s.)
L'Espresso, 26 maggio 2014
«Siamo al Parlamento europeo!». L'urlo, soffocato per troppe ore, arriva alle sei e mezza del mattino, quando finalmente i dati del Viminale permettono ai coordinatori, ai candidati e agli attivisti della lista Tsipras di andare a dormire. Quel 4,03 per cento comunicato da ministero degli Interni quando mancano un centinaio di sezioni su oltre 61 mila consente alla sinistra radicale di mettere fine con un sorriso a una lunga notte di speranza e paura trascorsa nel quartier generale scelto per aspettare i risultati, un locale del quartiere San Lorenzo di Roma subito sotto la tangenziale.
Quattro virgola zero tre: al fotofinish, insomma. E il risultato minimo accettabile per una lista che era partita con ambizioni più alte (a febbraio Spinelli aveva indicato come obiettivo il sette per cento) ma che dopo una travagliatissima campagna elettorale gli istituti di ricerca davano tutti, negli ultimi sondaggi, sotto la soglia necessaria per andare a Bruxelles.
Per tutta la notte gli exit polls e le proiezioni vedevano la lista Tsipras ballare attorno al 4. Attorno all'una però nella sala di San Lorenzo ha iniziato a diffondersi un certo ottimismo per le telefonate dei rappresentanti di lista, che fornivano cifre non statisticamente valide ma tutte positive sull'andamenti nelle varie sezioni. Poco dopo le due Barbara Spinelli ha lasciato la sede elettorale con un sorriso («Siamo contenti, ci sentiamo domattina») e così ha fatto anche Moni Ovadia. Ancora alle cinque del mattino però il responsabile della lista Massimo Torelli scriveva su Facebook un cautissimo «Aspettiamo». Un'ora dopo, era con Marco Revelli e Argiris Panagopoulos (l'uomo di Tsipras in Italia) a festeggiare con cappuccio e cornetto al bar lì accanto, che aveva appena aperto.
In termini assoluti, la lista Tsipras ha conquistato poco più di un milione e centomila voti, sesto partito dopo i tre più grossi (Pd, M5s e Fi), Lega e Nuovo Centro Destra. A questo punto dovrebbe portare a Bruxelles tre eurodeputati. Data l'annunciata rinuncia dei “candidati di testimonianza” come Spinelli e Ovadia, al centro potrebbe entrare uno tra Marco Furfaro e Fabio Amato: il primo di Sel, il secondo di Rifondazione. A riprova che anche in una lista della “società civile autonoma dai partiti” (com'era stata battezzata alla nascita) al momento delle preferenze prevalgono le strutture organizzate. Notevole però anche il risultato al sud del giovane Claudio Riccio, espressione dei movimenti studenteschi nati al tempo della riforma Gelmini e animatori del gruppo “Quaderni Corsari”, che avrebbe avuto quasi 17 mila voti personali.
«Senza soldi, senza struttura, senza organizzazione, con molti ostacoli anche di natura interna, abbiamo fatto l'impresa», dice Lorenzo Zamponi, giovane della rete dei movimenti che è stato tra i più attivi nelle settimane precedenti il voto: «Abbiamo sfondato il muro del silenzio mediatico e riportato la sinistra italiana nel Parlamento Europeo. Nelle prossime ore, con calma, discuteremo del resto. Per ora, l'importante è aver compiuto ciò che sembrava impossibile, tenendo aperto lo spazio dell'alternativa. Come riempirlo, poi, lo vedremo. Preferibilmente, almeno secondo me, dal basso, con un processo di reale partecipazione e coinvolgimento delle persone».
Il risultato positivo, seppur per il rotto della cuffia, è insomma considerato un passo indispensabile per la costruzione della 'cosa rossa': un'area unitaria a sinistra del Pd, inseguendo il sogno di Syriza che è passato da pochi punti percentuali a diventare il primo partito della Grecia attraverso un lungo percorso di radicamento sociale. All'interno della lista italiana la forza numericamente più significativa, Sinistra ecologia e Libertà, da tempo è divisa in due anime: una che guarda verso il Pd e l'altra che invece tende appunto al modello greco di Syriza. Il risultato delle europee, seppur risicato, è una vittoria per questa componente.
Alla lista Tsipras, nata da un appello di sei intellettuali di cui la Spinelli era capofila, hanno aderito Sinistra Ecologia e Libertà e Rifondazione. Sostegno alla lista è arrivato tra l'altro dall'ex presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, dal giurista Stefano Rodotà, dal fondatore di Emergency Gino Strada, dallo scrittore Aldo Nove, dall’ex direttore di Italia1 e di Raidue Carlo Freccero.
L'anno scorso, alle politiche, la sinistra radicale nel suo complesso aveva preso il 5,4 per cento, ma in un contesto completamente diverso: Sel infatti era in coalizione con il Pd e in questa veste aveva ottenuto il 3,3, mentre Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia si era fermata al 2,2. A Rivoluzione Civile tuttavia avevano aderito nel 2013 anche l'Italia dei Valori e i Verdi, che a questo turno si sono invece presentati in liste autonome con il proprio simbolo (restando largamente al di sotto dello sbarramento).
Intervista al sociologo Gallino: Renzi è un grande spot, ma il voto può cambiare l’Europa. La precarietà, il trattato segreto con gli Usa, l’austerity: ecco di cosa non si è parlato in questa campagna elettorale.
Il manifesto, 25 maggio 2014
Una campagna elettorale in cui «è stato fatto il possibile per trasformare il voto europeo in un voto sui partiti. I veri temi in questione? Assenti». Al professore Luciano Gallino, sociologo del lavoro e tra i promotori della lista l’Altra Europa con Tsipras, il modo in cui i grandi partiti e i media hanno affrontato il voto europeo è sbagliato: «Potrebbe essere un’elezione che si svolge in Australia o in Guatemala: i tre principali partiti sgomitano solo in vista del dopo».
Una ragione può essere che per le due grandi famiglie, Pse e Ppe, le larghe intese sono un esito scontato?
Comunque non giustifica l’omissione. Faccio un esempio: la Commissione Europea da un anno conduce trattative segrete con gli Stati Uniti per stabilire un partenariato sugli investimenti nel commercio, il Ttip (il Transatlantic trade and investment partnership, ndr). È un dispositivo che presenta rischi colossali per i diritti dei lavoratori, per la sicurezza alimentare, per la proprietà intellettuale. E i commissari lo sanno bene, tant’è che si chiudono in segrete stanze per discuterne. Da noi non se ne parla, in altri paesi sì. O anche: eleggere un presidente o un altro può fare la differenza, dopo i cinque anni di presidenza ottusamente liberale di Barroso.
Il socialdemocratico Schulz però sarebbe eletto con i voti del partito di Barroso.
Su alcuni temi Schulz potrebbe fare la differenza. Certo è un esponente della Spd tedesca post-Schroeder, dimissionaria da ogni tipo di sinistra. Il Pse si accorderà con il Ppe, in fondo la pensano allo stesso modo sul trattato di Maastricht, che è uno statuto di una corporation, non un documento politico.
L’Italia rispetterà le regole del six pack e del fiscal compact, o non potrà farlo, come ormai ammette anche il Pd?
I dati dicono che il nostro debito pubblico ormai è impagabile. Il Pil è sceso intorno ai 1550 miliardi, il debito è balzato oltre i 2mila. Per fare fronte ai requisiti del fiscal compact servirebbe destinare 40–50 miliardi l’anno dell’avanzo primario. Ma è insensato. Già oggi lo stato incassa circa 500 miliardi di imposte e tasse e ne spende intorno a 420–430. Toglierne altri 40–50 sarebbe un disastro per lo stato sociale e per l’amministrazione pubblica. Le strade sono due: o, appunto, il disastro, ovvero che l’Italia non si adegua e vengono erogate ulteriori misure punitive; oppure che i principali paesi con debito rilevante si accordano per diluire o abolire il fiscal compact; o comunque per procedere a una ristrutturazione pacifica del debito. Molto dipende dal risultato di questo voto.
È la proposta di Tsipras, che lei sostiene. Una conferenza per cancellare parte del debito, sul modello di quella di Londra del ’53 che permise di risolvere il debito della Germania. È fattibile, a suo parere?Sarebbe un primo passo concreto. L’idea di battere i pugni sul tavolo, quella di Renzi, è ridicola: ci vuole un certo numero di paesi, Francia Spagna e altri, per ottenere una la conferenza. Documentando che il debito non si può pagare. Parlarne ad alto livello sarebbe già un passo avanti rispetto alla litania del ’ce lo chiede l’Europa’. La Germania non va demonizzata: ma va ricordato che ha tratto vantaggio dal fatto di non aver mai pagato i suoi debiti. Ha pagato in misura minima le riparazioni della guerra del ’15-’18. E quanto all’enorme debito lasciato dai nazisti, è stato cancellato dagli americani che hanno stampato miliardi di marchi deutsche mark, non più di reichsmark, nel giugno del ’48 li hanno portati in Germania, e il giorno dopo hanno distribuito la nuova moneta. Così si è abbattuto il debito pubblico tedesco. Sono argomenti delicati, ma qualcuno ben preparato che li affronti avrebbe più possibilità di successo che non uno che si faccia male battendo i pugni sul tavolo.
Le politiche di Renzi rispondono a criteri europei?
Agli aspetti peggiori, però. La Troika e il Consiglio europeo da vent’anni lavorano per comprimere le condizioni di lavoro i diritti e i salari, in linea con le misure regressive che hanno visto alla testa i partiti di sinistra, socialdemocratici tedeschi, socialisti francesi e laburisti britannici. C’è un documento del ’99, un proclama di Blair e Schroeder, che sembra scritto da Confindustria. E dice chiaro che bisogna tagliare lo stato sociale.
Renzi segue ancora quelle vecchie linee di direzione, per esempio sul lavoro?
La generalizzazione del lavoro precario è già una realtà. Nessun governo era arrivato a imporre spinte alla precarizzazione del lavoro come è stato fatto oggi.
Ora dovrebbe arrivare il vero cuore del job act, il contratto unico e la costosa riforma degli ammortizzatori sociali.
Prima che costosa è rischiosa. La cassa integrazione ha un vantaggio fondamentale: mantiene il posto di lavoro, quindi mantiene una qualche titolarità di diritti per il lavoratore. Quello che si prospetta, a quanto si capisce, cancellerebbe questa minima difesa di un lavoratore. Le ricette di Renzi sono figlie di quelle di Blair, a loro volta nipoti di quelle di Thatcher, e cugine di quelle di Schroeder, per il quale la socialdemocrazia doveva smettere di pensare che i lavoratori hanno diritto a un posto fisso. Appuntandosi il badge di partiti di sinistra hanno ridotto i salari e moltiplicato la precarietà. Così è l’Italia oggi. La precarietà è elevatissima, lo dice l’Ocse (l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, ndr). E porta a un impoverimento di tutta la struttura economica. Lavoratori malpagati consumano meno, la domanda aggregata — ricordava Keynes — soffre. E un’azienda che deve retribuire in modo decente e continuativo i lavoratori è incentivata a fare ricerca e sviluppo, gli altri fronti che fanno il successo di un’impresa. Invece poter usare i lavoratori con il criterio on-off, cioè quando mi servi ti uso e quando no ti butto, spinge le imprese a puntare solo sul costo del lavoro e trascurare il resto. I nostri impianti sono i più vecchi d’ Europa, le spese in ricerca sono miserande, sul 34 paesi Ocse siamo intorno al 30esimo.
Renzi dice: ce la faremo, no ai gufi.
È uno spot pubblicitario, ma se non si affrontano i nodi prima o poi, anzi presto, il conto lo pagheranno i lavoratori.
Su questo Grillo pesca voti a piene mani.
La proposta di Grillo sul lavoro è un insieme di cose differenti, alcune generiche e condivisibili, altre no. E tra i lavoratori c’è il malcontento, che ovviamente si sfoga contro i sindacati. È già successo con la Lega, oggi succede con il M5S.
Anche Renzi prova a intercettare il malcontento contro i sindacati, attaccando apertamente la Cgil.
lavoratori sono insofferenti per quello che i sindacati non hanno fatto. Ma va detto che ai sindacati è stata fatta una guerra senza quartiere, dagli anni 80 in poi. La precarietà, appunto: come si fa a organizzare i lavoratori in presenza di venti contratti differenti piccole aziende sparse sul territorio? La globalizzazione ha significato una radicale trasformazione nel modo di produrre: i mille lavoratori che stavano sotto lo stesso padrone con lo stesso contratto sono diventati dipendenti di 15 aziende differenti con contratti differenti. E con un padrone che non si sa più chi sia. Di lì bisogna partire per ricostruire una qualche forma solida di sindacato.
La lista per l'altra Europa punta oggi al risultato elettorale che scaturirà dalle urne, ma le donne e gli uomini che hanno lavorato controcorrente nei mesi scorsi proiettano già il loro impegno al di là delle elezioni.
Il manifesto, 25 maggio 2014
Negli infiniti incontri «di chiusura» di questa campagna elettorale, c’era sempre un momento in cui l’applauso scattava immediato, istintivo, convinto. Ed era quando si diceva che «non termineremo il 25 maggio». Che l’appuntamento è già il 26, per continuare il percorso insieme. Perché sarebbe folle disperdere il «bene comune» accumulato in questi due mesi di fatica e di passione dalla moltitudine di donne e di uomini che ne hanno condiviso l’impegno.
Non so per gli altri. Ma nelle mie esperienze di territorio, da un palco su una piazza o da un banchetto a un angolo di strada, in un teatro o in un sottoscala, l’immagine che mi porto dietro è quella di una sinistra che scopre, quasi con sorpresa, ciò che potrebbe essere, se solo riuscisse ad andare oltre il proprio passato prossimo di frammentazione, chiusure mentali e gergali, sconfitte. Una sorta di respiro ampio, nel senso comune delle persone più che nei riflessi d’organizzazione. Uno stato d’animo più che un progetto consapevole, ma forte: la sensazione di poter tornare a parlare al di fuori di sé, dei propri steccati, e di poter trovare ascolto, se solo la parola riesce a forare il muro di silenzio mediatico, la cintura sanitaria ossessiva e oppressiva che ci è stata stretta intorno. E l’orgoglio di poterlo fare con in testa idee forti, credibili, adeguate all’altezza delle sfide, grazie alle quali ritrovare il rapporto, storico, che lega la sinistra alla schiera non piccola dei democratici conseguenti preoccupati per questa notte della democrazia.
Non sono mancati – sarebbe sciocco negarlo – errori, ingenuità, inefficienze, riserve mentali e ritardi organizzativi. Ma non possiamo nasconderci i tratti di nobiltà che hanno caratterizzato l’impresa nel suo complesso.
In primo luogo il fatto che L’altra Europa con Tsipras è l’unica lista che si è misurata nelle elezioni europee con un discorso sull’Europa e per l’Europa. Non ha proiettato su scala continentale le liti da pollaio del cortile di casa, come hanno fatto le tre forze politiche – anzi i tre istrioni – a cui un sistema mediatico malato e pigro ha riservato la totalità dello spazio informativo, ma ha fatto della trasformazione radicale delle politiche europee l’asse portante della propria proposta. Non perché siamo più colti, o raffinati e sensibili degli altri (anche per questo). Ma soprattutto perché sappiamo che sulla possibilità di rovesciare gli equilibri politici nel cuore d’Europa si gioca la possibilità di sopravvivenza del nostro Paese. Che o si cambia l’Europa o si affonda.
In secondo luogo L’altra Europa con Tsipras è l’unica lista che ha un programma europeo credibile, realistico e radicale insieme, come, appunto, la situazione drammatica richiede. Una Conferenza europea per la socializzazione e la ristrutturazione del debito, come un’Unione degna di questo nome non potrebbe non fare. Un New Deal continentale con al centro un programma per l’occupazione, capace di produrre a livello europeo 6–7 milioni di posti di lavoro (quanti la crisi ha distrutto) investendo 100 miliardi di euro all’anno, per un triennio, finanziati con una fiscalità europea (una tassa sugli inquinatori e una sulla speculazione finanziaria). L’autorizzazione alla Bce a funzionare da prestatore di ultima istanza a sostegno delle economie più deboli. E infine un’intransigente opposizione al Ttip, il Trattato Transatlantico negoziato in segreto che consegnerà le nostre vite e i beni comuni alla fame di profitto delle transnazionali.
Non sono utopie. Non è un programma per un futuro lontano. È un programma per oggi (anche perché domani sarebbe tardi). È, d’altra parte, un programma realisticamente proponibile perché le forze che si riconoscono nella leadership di Alexis Tsipras costituiranno il terzo gruppo nel nuovo Parlamento europeo (dove, per formare un gruppo, e quindi per fare politica, è necessario raccogliere adesioni di rappresentanti di almeno sette paesi). E quanto maggiore sarà la sua forza, tanto più alta sarà la possibilità di spezzare l’asse tra Partito popolare e Partito socialista che, senza un’azione efficace a sinistra, riprodurrebbe inevitabilmente le larghe intese che Schulz e Merkel hanno costituito in Germana e che dominano in Grecia e Italia.
Un forte gruppo parlamentare europeo di sinistra (di sinistra vera), potrebbe fare il miracolo di ricondurre almeno la parte più sensibile della socialdemocrazia europea su una linea di solidarietà continentale. E insieme di catalizzare anche quelle forze (penso naturalmente ai Verdi, ma anche ai parlamentari del Movimento 5 Stelle, che saranno numerosi ma orfani in quel contesto) che si oppongono alle attuali politiche europee e che non hanno i tratti osceni del neonazionalismo xenofobo, intorno a una linea, potenzialmente maggioritaria, di efficace contrasto del dogma dell’Austerità e di radicale alternativa ad essa.
Questo vuol dire fare politica in Europa. Per questo diciamo che il voto per L’altra Europa con Tsipras è l’unico voto utile, oggi. Non vederlo sarebbe miopia politica, pericolosa per sé e soprattutto per gli altri, cioè tutti noi. «La via da percorrere non è facile, né sicura. Ma deve essere percorsa, e lo sarà!». Così si chiudeva, settant’anni fa,
il Manifesto di Ventotene. Le stesse parole possiamo continuare a ripeterci, noi, oggi.
«Il web-party contesta alla radice i corpi intermedi sui quali si fonda la rappresentatività: il partito politico strutturato e il giornalismo professionale»,
La Repubblica, 25 maggio 2014
L’invenzione di Internet e la sua economicità e facilità d’uso cambiano la fisionomia della democrazia rappresentativa, una forma di governo per mezzo del consenso elettorale e dell’opinione organizzata mediante partiti e media. Questa rivoluzione accade in un tempo di altre trasformazioni epocali: quelle relative alle società di mercato e capitalistiche, insofferenti dei lacci imposti dal governo della maggioranza, e sempre meno disposte ad accettare di moderare le diseguaglianze consentendo politiche redistributive e una tassazione progressiva. Assistiamo oggi a un’inasprimento delle diseguaglianze di classe al punto che gli stessi economisti riconoscono come la ricchezza tenda a concentrarsi in pochissimi e a non produrre più sviluppo per i molti.
Le nostre società oscillano tra il rischio di trasformazione oligarchica e autoritaria delle sue leadership e la non volontà di garantire a tutti i cittadini lo stesso diritto di contare e di essere rappresentati e, dall’altro, la convinzione di molti cittadini che Internet offra la possibilità di risolvere questi problemi e combattere il privilegio come ormai i partiti non fanno più. In Islanda, il Paese dal quale la crisi del 2008 è partita, i cittadini hanno cercato di riscrivere la costituzione servendosi della partecipazione via Facebook e Twitter, aggirando i partiti, diventati parte del problema perchè essi stessi oligarchici. Il successo di Matteo Renzi si è consumato e si consolida sui social network. Ma l’esempio più dirompente viene dal Movimento 5 Stelle, un partito-non-partito, o webparty, che ha contestato alla radice i due corpi intermedi sui quali si è costruita la democrazia rappresentativa: il partito politico strutturato e il giornalismo professionale.
Internet sembra dunque consentire una selezione della leadership fuori dalla mediazione dei partiti. Ma ci sono almeno due problemi: la democrazia dei cittadini rischia di essere soppiantata da quella dell’audience, un’entità indistinta e generata da chi la muove, la provoca e la cerca, ovvero da chi ha l’ambizione della leadership; il leader che incontra il pubblico di Internet non deve rendere conto al partito ma al pubblico che egli stesso alimenta fino al punto di essere egli stesso il popolo che crea via Twitter. Inoltre, Internet è aperta a tutti, ma il suo popolo è comunque una minoranza, non meno di quella che formava i partiti.
La democrazia via Internet sembra annullare la distanza tra cittadini e istituzioni e rilanciare la cittadinanza diretta e invece genera nuovi livelli di mediazione e di potere, per ora meno controllabili di quelli in uso nei partiti perché senza statuti, organi dirigenti eletti e regole di partecipazione e decisione. I due problemi sono sintomatici di una trasformazione della democrazia rappresentativa in plebiscito permanente via-rete che non necessariamente premia l’inclusione di tutti né distribuisce il potere della voce più equamente, come promette di fare.
«Il costo della coesione dell’élite,è una distanza sempre maggiore tra chi governa e chi è governato. Serrando i ranghi, l’élite ha garantito che non ci fossero voci moderate di dissenso dall’ortodossia politica. La mancanza di un dissenso moderato ha dato vigore a gruppi come il gruppo lepinista».
La Repubblica, 25 maggio 2014
Un secolo fa l’Europa si lacerò in quella che, per un certo periodo, fu nota come la Grande Guerra - quattro anni di morte e devastazione senza precedenti. In seguito quel conflitto fu rinominato Prima guerra mondiale perché, a distanza di un quarto di secolo, l’Europa ci ricascò e ricominciò tutto daccapo.
Ciò, tuttavia, avvenne molto tempo fa. È difficile pensare alla guerra nell’Europa odierna, che si è unificata attorno ai valori democratici e ha intrapreso i suoi primi passi verso un’unione politica. Mentre sto scrivendo, in tutta Europa si stanno svolgendo elezioni, per scegliere non i governi nazionali, ma i membri del Parlamento europeo. È vero, il Parlamento ha poteri limitati, ma la sua esistenza è già un trionfo dell’idea europea. C’è un problema, però: si prevede che un’allarmante percentuale di voti andrà agli estremisti di destra, ostili a quei valori che hanno reso possibile indire quest’elezione. Mettiamola in questi termini: alcuni dei vincitori delle elezioni europee verosimilmente saranno pronti a schierarsi dalla parte di Vladimir Putin nella crisi dell’Ucraina.
In verità, il progetto europeo — una pace garantita da democrazia e prosperità — è nei guai. Il continente vive in pace, ma la prosperità sta venendo meno e così pure, in modo più impercettibile, la democrazia. Se l’Europa metterà il piede in fallo vi saranno ripercussioni per tutto il mondo.
Perché l’Europa è nei guai? Il problema più immediato è la sua scarsa performance economica. Si supponeva che l’euro, la valuta comune, potesse essere il punto culminante dell’integrazione economica. Invece, si è rivelato una trappola. Ha generato una pericolosa compiacenza, dato che gli investitori hanno versato contanti nell’Europa meridionale, senza prendersi cura dei rischi. Poi, quando il boom ha fatto cilecca, i paesi debitori si sono trovati con le mani legate, incapaci di recuperare la competitività perduta senza anni di disoccupazione a livelli da depressione. I problemi dell’euro sono stati inaspriti da una cattiva politica. I leader europei hanno insistito, e continuano contro ogni evidenza, che la crisi ha a che vedere con l’irresponsabilità fiscale, e hanno imposto un’austerità selvaggia che aggrava la situazione.
La buona notizia — beh, per modo di dire — è che malgrado i passi falsi l’euro tiene, e ciò sorprende molti analisti (compreso il sottoscritto) che pensavano potesse andare a pezzi. Come si spiega questa resilienza? In parte col fatto che la Banca centrale europea ha tranquillizzato i mercati promettendo che avrebbe fatto «tutto ciò che era necessario » per salvare l’euro. Al di là di ciò, tuttavia, l’élite europea resta dedita a questo progetto, e finora nessun governo è stato disposto a uscire dai ranghi.
Il costo della coesione dell’élite, tuttavia, è una distanza sempre maggiore tra chi governa e chi è governato. Serrando i ranghi, l’élite ha garantito che non ci fossero voci moderate di dissenso dall’ortodossia politica. La mancanza di un dissenso moderato ha dato vigore a gruppi come il Front National francese, la cui candidata di punta per il Parlamento europeo denuncia «un’élite tecnocratica al servizio dell’America e dell’oligarchia finanziaria europea».
L’amaro paradosso, però, è che questa élite europea non è affatto tecnocratica. La creazione dell’euro aveva a che vedere con la politica e l’ideologia, non era una risposta a una puntuale analisi economica (che fin dall’inizio indicava che l’Europa non era pronta per una valuta comune). Lo stesso vale per la svolta verso l’austerità: qualsiasi ricerca economica che si presumeva giustificasse quella svolta è stata smentita, ma le politiche non sono cambiate. Oltretutto, l’abitudine di mascherare l’ideologia da competenza, di fingere che quello che vuole fare è quello che deve essere fatto, ha dato luogo a un deficit di legittimazione. L’influenza dell’élite riposa sull’assunto di una competenza superiore. Quando queste presunte dichiarazioni di competenza sono smascherate, non rimane nient’altro.
Finora l’élite è riuscita a tenere tutto assieme, ma non sappiamo quanto a lungo potrà durare, e negli schieramenti ci sono alcuni soggetti che incutono paura. Se saremo fortunati - e se i funzionari della Banca centrale europea agiranno con sufficiente coraggio contro la crescente minaccia di deflazione - nei prossimi anni potremmo assistere a una certa ripresa economica. Ciò, a sua volta, potrebbe concedere un margine di respiro all’intero progetto europeo.
Da sola, però, la ripresa economica non sarà sufficiente. L’élite europea deve tenere a mente di cosa si parla quando si parla di progetto europeo. È tremendo vedere quanti europei stiano ricusando i valori democratici, ma almeno parte della colpa è da addossare ai funzionari che più che alla democrazia sembrano interessati alla stabilità dei prezzi e alla probità fiscale. L’Europa moderna è eretta su una nobile idea, ma quell’idea ha bisogno di più difensori.
«Il manifesto, 24 maggio 2014, con postilla
Peccato che i maestri della sinistra non riescano a cogliere la novità vera dell’operazione Tsipras, che ritengo sarà comunque compresa e largamente premiata dagli elettori domenica. Mi riferisco all’articolo di Asor Rosa (
il manifesto, 21 maggio), il quale parla di “larghe intese” con il M5S lasciando intendere che quella sarebbe una buona ragione per non votare “L’Altra Europa per Tsipras”.
D’altra parte Asor Rosa un paio d’anni fa aveva avuto modo di antipatizzare con il movimento per i beni comuni pasticciando soprattutto con la dottrina politica ed esso sottostante, proclamando la propria convinzione statalista e rifiutando (in compagnia di diversi altri compagni figli della stessa stagione) ogni ipotesi di equidistanza fra il comune, il pubblico ed il privato. Di acqua da allora ne è passata sotto i ponti. Quello Stato, che tanta sinistra ancora considera più “amico” del mercato, mostra quotidianamente la sua faccia autoritaria e brutale, la sua frustrata impotenza, la sua inadeguatezza a farsi carico dei problemi messi sul tappeto dall’attuale condizione del mondo. Lo “Stato amico” (non era così negli anni Settanta quando il debito era interno) è in balia dei suoi creditori, vende disperatamente i gioielli di famiglia mentendo per giunta, come ogni buon tossico o ludopatico, sulla natura di quanto sta facendo. Solo nelle ultime settimane la privatizzazione di beni pubblici sovrani come gli slot aerei (Enav) e le Poste è stata gabellata come azionariato popolare dalla comunicazione di regime. Lo Stato amico perseguita i militanti No-Tav, i compagni che lottano per implementare in concreto e non con le chiacchiere da salotto buono il diritto costituzionale all’ abitazione per tutti.
Oggi l’onda lunga del referendum sui beni comuni si presenta sotto le sembianze della lista Tsipras provando ad andare in Europa per far sentire, grazie al megafono del parlamento di Strasburgo, la voce di chi ha capito che la partita si può vincere soltanto con uno stravolgimento profondo degli assetti istituzionali dominanti, ponendo la questione democratica là dove essa può essere determinante, ossia nei meccanismi istituzionale dell’economia. Da Strasburgo ci renderemo conto una volta per tutte che è proprio la contrapposizione fra privato e pubblico la grande ideologia che ci fa perder tempo discutendo di modalità di votazione del Senato o di altre questioni altrettanto inutili. Abbiamo pagato lo scorso anno quasi 9 miliardi di servizio ad un debito in massima parte giuridicamente odioso; abbiamo privatizzato beni per altri 140 miliardi; abbiamo trasferito 11 punti di Pil dal lavoro al profitto, grazie alle politiche neoliberali, che sono un altro centinaio di miliardi; il Fiscal compact ed il pareggio di bilancio in Costituzione, che sono parte dello stesso deliberato processo di robotizzazione dell’Europa iniziato con l’Atto Unico del 1986, aggiungerà un’altra cinquantina di miliardi al salasso che il nostro paese dovrà pagare ogni anno.
Facendo il conto della serva, noi ogni anno dovremo pagare il valore intero di tutte le privatizzazioni fin qui fatte! Quanta argenteria da vendere avrà ancora il nobile Stato decaduto?
Col Referendum 2011 ci siamo espressi in maggioranza contro privatizzazioni e grandi opere. Quel referendum ha messo lo Stato sul banco degli imputati e ha fatto capire a chi poteva o voleva farlo che lottare contro le privatizzazioni non significa restaurazione del pubblico statalista e burocratico. Poi ci siamo scontrati con la traducibilità del voto referendario in rappresentanza politica (Alba; Cambiare si può). Successivamente abbiamo perso la grande occasione di capire per tempo che la partita per il Quirinale era davvero costituente e che così andava giocata. Non è tuttavia stato un caso che il voto pentastellato e di sinistra fossero confluiti su una figura prestigiosa, rappresentativa e genuinamente garantista come quella di Stefano Rodotà.
Non sono larghe intese politiche quelle fra Tsipras e Grillo. E’ piuttosto la presa d’atto di una natura costituente di questa fase, che è dettata dalla catastrofe ecologica e sociale determinata dal modello di società che ancora il potere costituito si ostina a chiamare crescita.
Tanto l’Altra Europa, quanto M5S hanno capito che non esistono alternative alla ridiscussione radicale dei meccanismi che dall’Atto Unico del 1986 hanno trasformato l’Europa in un robot, un meccanismo infernale che trasforma in capitale ogni bene comune. In questo senso entrambe, ciascuna con la sua assai diversa connotazione politica, portano la discussione sull’Europa a livello costituente. L’Altra Europa e il M5S hanno capito che oggi abbiamo troppo capitale e troppo pochi beni comuni e che invertire la rotta significa inventare nuove istituzioni del comune, partecipate in modo diretto, che abbiano finalmente la forza ed il coraggio di trasformare il primo nei secondi.
Condividere la necessità costituente non significa essere uguali e neppure simili. Sostenere questo ha lo stesso senso di considerare uguali Einaudi e Togliatti, solo perché insieme parteciparono allo stesso sforzo costituente dopo la catastrofe del fascismo. La differenza politica è assai rilevante e sta proprio nel garantismo, nell’accoglienza, nell’orrore per le manette nel desiderio di utilizzare la ragione più della pancia.
Postilla
Pubblico, comune, privato. L'attenzione va posta al contesto nel quale concretamente si pongono le cose cui le parole rinviano o alludono. La lista Tsipras non dice no all'Europa, dice No a questa Europa e si a un'alrea Europa. Analogamente, a me sembra che si debba dire no a questo Stato, ma non a ogni possibile Stato. Come del resto occorre dire no a questa economia, ma no a ogni economia. Allora ha senso, e diventa impegno serio, provare a immaginare e costruire un'altra Europa, un altro Stato e un'altra economia.
Due interventi (di Massimo Torelli e di Edoardo Salzano)a proposito di un articolo di Alberto Asor Rosa sulle elezioni del 25 maggio.
Il manifesto, 24 maggio 2014
Con Machiavelli o con Gramsci?
di Massimo Torelli*,
Alberto Asor Rosa, a proposito delle elezioni europee, ha “simpatizzato” con la “massa” di coloro che non hanno ancora scelto, e forse non sceglieranno, così elevata da sfiorare la maggioranza assoluta, con un articolo che non esitiamo a definire volutamente ostile. Vogliamo provare a rispondere a lui e, soprattutto, ad interloquire con quella massa, a partire da ciò che abbiamo provato a fare con la lista L’Altra Europa con Tsipras. E cioè ricostruire una “connessione sentimentale” la cui mancanza è ciò che determina lo stato attuale delle cose. Questa ricerca di connessione sentimentale l’abbiamo proposta ai lettori della piazza gremita di Bologna, con il testo dell’intervento di Barbara Spinelli, strumentalmente richiamato nell’articolo.
Vorremmo porre, con animo benevolo, ad Alberto Asor Rosa le domande che Alexis Tsipras ha posto alla piazza: «Questa è l’Europa che vogliamo? Questa politica e questi politici noi confermeremo con il nostro voto domenica? Diremo sì all’Europa di Machiavelli? O diremo sì all’Europa dell’Illuminismo e di Gramsci? Diremo sì ad un’Europa già lontana dai Cittadini dai valori dei suoi principi fondanti e dalla partecipazione? O con il nostro voto per “L’altra Europa” diremo sì all’Europa dei suoi Fondatori, all’Europa della Democrazia, della coesione, della solidarietà e della politica di eguaglianza dei suoi Paesi?».
*Responsabile della lista L’Altra Europa con Tsipras
Se sarò eletto collaborerò con i pentastellati
di Edoardo Salzano*
Sono d’accordo con molte delle cose che Alberto Asor Rosa ha scritto per il
manifesto del 21 maggio. Ma non con tutte. Mi sembra che anche lui subisca il clima che la mediocrazia ha creato attorno alle elezioni per il parlamento europeo. Per la grande informazione questo evento politico ha come suo centro l’Italia, non l’Europa; sul palcoscenico ci sono solo due attori: Renzi e Grillo. Anche Asor Rosa mi sembra accettare questa impostazione. E allora - mi sembra che affermi Asor Rosa - se si vuole combattere il comico demagogo non c’è che appoggiare il Pd di Renzi, e se si vuole combattere Renzi e il renzismo non c’è che da allearsi con Grillo.
Se la mia sintesi non è troppo infedele e se questo fosse il succo dell’articolo di Asor Rosa allora bisognerebbe esaminare un po’ più a fondo sia Grillo e il suo movimento sia Renzi e il Pd. Se si approfondisse l’analisi forse si giungerebbe a condividere le parole di Barbara Spinelli, su cui Asor Rosa invece ironizza, deprecandole. Per guardare alle cose così come stanno alcune distinzioni sono essenziali.
Io, ad esempio, penso che occorra distinguere tra la figura di Grillo, che anche a me fa paura, e le persone che oggi lo seguono. Per molte di loro ho personalmente lo stesso rispetto e la stessa condivisioni che ho per molti degli attuali militanti del partito oggi guidato (comandato) dall’asfaltatore Renzi.
Mi considero anch’io, come Asor Rosa, un “rosso-verde”. Ma nel Pd renziano di “rosso” ne vedo solo qualche pallido residuo, e invece del “verde” vedo il grigio-nero del cemento e dell’asfalto. Nel movimento di Grillo, se mi turba l’ombra del nero, non perderei ‚né perdo, l’occasione di collaborare con quanto di “verde” (e non è poco) vi abita.
Poiché poi preferisco discutere di Parlamenti e non di duci e ducetti, non escludo affatto di collaborare (se per caso dovessi essere eletto nel Parlamento europeo) con i grillini che vi fossero eletti, come con i piddini (si dice così?) che vi arriveranno. Come con chiunque altro eletto che dimostrerà di voler difendere l’ambiente, il lavoro e (non dimentichiamolo) la democrazia minacciata, mi sembra, dall’una parte e dall’altra del teatrino.
*candidato della lista L'altra Europa con Tsipras
L'Europa non è nata secondo il progetto disegnato a Ventotene, ma come strumento degli USA nella guerra fredda.Lo testimonia il ruolo svolto dall'UE ieri in Kossovo, oggi in Ucraina Oggi l'affermazionne di un'autonoma identità europea è minacciata a morte dalla volontà dei governi di approvare il Trattato di libero scambio transatlantico, che solo la lista Tsipras denuncia .
Il manifesto, 23 maggio 2014
L’Europa nata nel 1957 non è quella che era stata sognata dagli antifascisti al confino di Ventotene. Nel loro Manifesto l’obiettivo dell’unità fra paesi che allora erano per la seconda volta in pochi decenni impegnati in una guerra sanguinosa, era la pace. E invece il primo embrione della futura Unione, che fu significativamente chiamata Mec, l’Europa la spaccò. Fu infatti pensato soprattutto come strumento della guerra fredda: un avamposto dell’occidente a ridosso della cortina di ferro, strettamente collegato alla Nato. Pochi lo ricordano: il primo atto istituzionale a favore della nuova creatura europea non fu dei nostri parlamenti, bensì di quello americano. Fu votato nel 1947, il 10 marzo al Senato, il 23 al Congresso, auspice il potente segretario di stato John Foster Dulles, fratello dell’altrettanto potente Allen, capo della Cia.
Da questa nascita bastarda l’Europa è rimasta segnata, sicché, anche quando è caduto il muro, non è migliorata. Basti pensare alla sua politica estera che, anziché ricercare un rapporto di cooperazione con il grande vicino euroasiatico che avrebbe potuto conferire al continente la possibilità di garantirsi un ruolo autonomo nel mondo, si è invece appiattita sulla linea di Washington, interessata a mantenere il proprio controllo: accettazione di tutti i possibili missili sul proprio territorio ai tempi di Breznev e Andropov, anche quando sarebbe stato necessario aiutarlo ad uscire dalla fatale spirale del riarmo; e oggi estensione della Nato ai confini della Russia, come se dovessimo rilanciare la guerra fredda, una linea che copre solo i più biechi competitivi interessi petroliferi americani (nell’insieme un bel regalo all’odioso Putin, che per via del comportamento occidentale ha ritrovato popolarità nel suo paese).
L’impronta colonialista, così come l’arroganza occidentale, sono rimasti il tratto dell’orientamento dell’Ue in politica internazionale: ciò che possiamo fare noi europei non è concesso agli altri. Ad esempio, il precipitoso unilaterale riconoscimento dell’indipendenza da Belgrado delle repubbliche slovena e croata nel ’93 in nome del diritto dei popoli all’autodeterminazione e la violenta denuncia di chi in Ucraina sta rivendicando il medesimo diritto (significativo che nessuno ricordi oggi come la Jugoslava sia stata sbranata in nome di quel diritto senza che l’Ue nemmeno tentasse di aprire un tavolo di discussione fra le parti, come previsto dalla Conferenza per la sicurezza europea in cui era stato stabilito che nessun confine possa esser toccato senza un accordo. L’Unione europea plaudì persino al bombardamento di Belgrado in difesa dell’autodeterminazione dei kosovari).
Sull’incongruenza europea si potrebbe continuare, citando i casi del Sahara occidentale, di Timor Est, di Cipro e naturalmente della Palestina. Per non parlare del silenzio sulla bomba atomica posseduta da Israele, con buona pace del Trattato di non proliferazione. Così come delle guerresche punizioni a chi non obbedisce alle decisioni dell’Onu, ma dell’assoluzione delle tante avventure belliche che quella copertura non hanno avuto. Nel caso, ancora una volta, di Israele, e di quelle che hanno avuto l’Europa stessa come protagonista.
E poi, forse più grave di tutte, la politica verso il sud Mediterraneo. Con sonore fanfare si lanciò anni fa l’Accordo di Barcellona, che avrebbe dovuto essere un amichevole partenariato, in grado di lanciare un compromesso per un lungimirante co-sviluppo delle rispettive economie ed è stato invece solo un’apertura al libero scambio che non avrebbe mai potuto colmare – e infatti l’approfondì — l’enorme dislivello storico coloniale fra le economie delle due sponde.
Oggi il dramma gigantesco dell’immigrazione clandestina dovrebbe proporre una seria riflessione sulla politica internazionale dell’Europa, che non si esaurisce certo solo in un po’ di aiuti all’Italia per l’accoglienza degli scampati ai naufragi. Occorrerebbe ripensare il mondo, capire che siamo di fronte ad uno sconvolgimento storico che non si può fronteggiare né con le armi ma nemmeno con una politica miope che pensa l’Europa possa rimanere un giardino chiuso.
Qualche sintomo di ravvedimento? No, il contrario: l’impegno principale degli esecutivi dell’Unione consiste ora nel varo di un Trattato di libero scambio transatlantico che, se andrà in porto, cancellerà tutto quanto è stato conquistato nel ventesimo secolo in Europa dal movimento operaio e democratico. Nessuno, salvo la lista Tsipras, ne ha parlato in questa campagna elettorale. Non è un caso: sarebbe sufficiente questo problema a determinare il voto del 25 maggio ove la gente sapesse di cosa si tratta.
La prospettiva che questo accordo apre è di un’Europa che perde la specificità del suo modello sociale, che nel dopoguerra, e grazie a grandi lotte, ha rappresentato il compromesso sociale più alto. Se così finirà per essere, a che pro un’Unione europea? Diverrebbe solo un pezzetto del mercato globale e avrebbe cessato di avere una sua ragion d’essere, l’espressione di un modello diverso. I più pericolosi antieuropeisti sono senz’altro tutti quelli che vogliono farle perdere ogni identità, omologandola al peggio del mondo.
«Con l’austerity è in corso una "pulizia etnica" di quella parte di popolazione più fragile. E i paesi in crisi sono presentati come casi unici. Così si lacera il tessuto sociale»
. Il manifesto, 22 maggio 2014
Perché l’Europa ha gestito la crisi di questi anni nel modo in cui l’ha fatto? L’obiettivo era salvare la finanza, le multinazionali e la classe politica – a spese dei lavoratori, delle piccole imprese e delle economie locali. In sostanza, la strategia è stata quella di tutelare i proprietari di grandi capitali e di scaricare i costi sul 20–30% più povero della società. La storia degli ultimi vent’anni è fatta di aumento dei profitti, caduta delle tasse sulle imprese e gonfiarsi dei deficit pubblici.
La tesi del mio ultimo libro, Expulsions: brutality and complexity in the global economy, è che siamo entrati in una nuova fase storica, caratterizzata dall’ “espulsione” delle persone dalle condizioni economiche e sociali precedenti, dai loro progetti di vita, dalla loro esclusione dal “contratto sociale” che era al centro delle democrazie liberali. È molto più di un aumento nelle disuguaglianze e nella povertà. Non è un fenomeno ancora pienamente visibile, e non è una condizione che riguardi la maggioranza delle persone. Si tratta però della generalizzazione di condizioni estreme finora presenti solo ai margini del sistema, spostamenti che non sono ancora individuati dalle statistiche tradizionali. Le classi medie impoverite possono vivere ancora nelle stesse belle case di prima, ma dietro la facciata crescono povertà e disperazione, si trovano costrette a vendere i loro beni per pagare il mutuo, i figli adulti non possono andare via di casa.
La Grecia, la Spagna e il Portogallo sono la dimostrazione di quanto un’economia si possa contrarre in poco tempo e mostrano la tendenza generale al ridimensionamento dello spazio dell’economia nei paesi avanzati. Si parla di «bassa crescita e alta disoccupazione», ma questi termini sono troppo vaghi per descrivere il diffondersi di condizioni estreme a cui assistiamo in tutti i paesi.
In realtà, stiamo assistendo a una ridefinizione di quella che è “l’economia”. I disoccupati che perdono tutto si ritrovano al di fuori di quella che è considerata “l’economia”, e vengono esclusi dalle statistiche dei senza lavoro. Lo stesso vale per i piccoli imprenditori che perdono tutto e si suicidano. O per i professionisti e laureati che abbandonano i loro paesi o l’Europa. Questi fenomeni ridimensionano lo spazio dell’economia, escludendo i più fragili. E’ un processo di espulsione analogo alla “pulizia etnica”, in cui gli elementi problematici della popolazione vengono semplicemente eliminati. Quello che rimane dell’economia – perfino in Grecia e Portogallo — può essere presentato come «sulla via della ripresa», ed è questa la narrazione che offrono in Europa Fondo monetario e Banca centrale europea, le uniche voci ascoltate.
Una seconda caratteristica delle politiche europee è stata quella di presentare tutti i paesi in crisi come «casi unici». La Grecia era un paese povero con altissima evasione fiscale e inefficienza burocratica. Il Portogallo e la Spagna erano anch’essi casi estremi, ma per motivi diversi. Non è così. Gli stessi fenomeni che sono estremi in questi paesi sono diffusi in tutta Europa: si tratta delle condizioni strutturali della fase del capitalismo apertasi negli anni ottanta. I pesantissimi tagli alla spesa sociale, il crollo dell’occupazione e l’aumento delle imposte in Grecia e Spagna sono i segni di una profonda ristrutturazione, che in misura minore sta avvenendo in tutta l’eurozona, e anche in paesi come gli Stati Uniti.
Un aspetto chiave di questo processo è il tentativo di tener in piedi l’economia privata eliminando le spese eccessive legate al contratto sociale. Il rimborso del debito e l’austerità sono meccanismi che impongono disciplina e tutelano le imprese, ma non fanno crescere produzione e occupazione. Qualunque sia la logica che divide in Europa vincitori e vinti, essa lacera profondamente il tessuto sociale ed economico di un paese: negli ultimi anni la produzione è crollata in tutto il Sud Europa, smentendo l’idea secondo cui il l’austerità favorisca la crescita. E i dati dimenticano i tanti che sono oggi esclusi dell’economia formale.
Il nuovo libro di Saskia Sassen, Expulsions: brutality and complexity in the global economy sarà pubblicato in Italia da Il Mulino
«». Il manifesto
Finora ho fatto politica con i miei libri, occupandomi di Shoah, razzismo, resistenza ai regimi. Nel mio primo incontro elettorale, mi sono trovata a parlare della tassonomia di Linneo e della costruzione che è all’origine di quella “gerarchia del disprezzo” che costituisce una radice profonda della nostra cultura. Mi sono interrotta per scusarmi: di certo non era il linguaggio della politica che ci è consueto, ma mi è stato chiesto di continuare. È iniziata una meravigliosa discussione, forse eccentrica in una campagna elettorale; tutti ne eravamo un po’ stupiti, ma abbiamo parlato delle categorie che separano l’umano dall’animale, della nascita dello schiavismo, dell’attribuzione alla natura della dicotomia tra uomo e donna. Perché le persone (noi) abbiamo desiderio di scambiarci e riflettere, conoscere, studiare, anche fuori dai luoghi normati, istituzionalizzati, nella consapevolezza del deserto che ci circonda. Mario Lodi, appena uscito di prigione, il 25 aprile 1945, decise che era necessario cominciare a ricostruire una cultura distrutta dal ventennio fascista; lo fece proprio partendo dal desiderio di scambio, di racconto di sé, di conoscenza critica impedita dal regime. Il suo insegnamento passava essenzialmente per il racconto degli uni agli altri, e dalla conoscenza, non sociologica ma umana, della realtà circostante.
Questa splendida e quasi clandestina campagna elettorale è stata — per la parte che ne ho potuto vedere — una grande scuola, prima di tutto per me. Girando per le città, ho incontrato una vita partecipativa sotterranea, non rappresentata dai media eppure capace di costituire un reticolo di scambi, speranze, lotte, invenzioni, pratiche di solidarietà. Dai progetti di microcredito alle cooperative per l’inserimento lavorativo dei carcerati; dalle esperienze di social street ai Gruppi di Acquisto Solidale; dalle cooperative di donne immigrate ai collettivi di studio sull’energia alternativa e la lotta al nucleare. Progetti, intelligenze, competenze che modificano le realtà del territorio.
Ma questa campagna elettorale si è svolta in gran parte anche sul web, in un continuo scambio di informazioni e contatti. Giorno dopo giorno, i candidati si sono visti inoltrare decine di richieste di adesione a piattaforme, impegni, punti programmatici sui quali verranno giudicati e scelti. Dall’Agenda per i diritti umani in Europa, a sostegno di politiche di tutela dei migranti, dei rom e dei detenuti — promossa da Lunaria, Associazione 21 luglio e Antigone — alla campagna di Ilga per i diritti di gay e lesbiche; dal programma per i Diritti Digitali per l’autodeterminazione dell’informazione e la tutela della privacy, a quello per i diritti dei migranti proposto dalla Rete Primo Marzo; dalla campagna di Libera contro le mafie, Miseria ladra, che mette al centro la lotta alla povertà, a NewDeal4Europe, iniziativa europea di cittadinanza per un piano straordinario di sviluppo sostenibile e per l’occupazione; dai punti programmatici delle associazioni animaliste a Riparte il futuro, la campagna trasversale e apartitica contro corruzione e criminalità organizzata.
Una sorta di “mente estesa” formata dalle numerosissime associazioni che da anni si occupano di temi fondamentali per l’agenda politica europea, fuori dalle appartenenze partitiche. Una forza programmatica e progettuale, un reticolo di competenze ed esperienze alle quali chiunque verrà eletto al Parlamento europeo potrà appoggiarsi, e al tempo stesso dovrà render conto.
Così ho deciso che la mia campagna non sarebbe stata costituita solo da comizi, banchetti, volantinaggi, interventi e iniziative elettorali nella circoscrizione, ma che avrei organizzato tre convegni per riflettere su argomenti per me centrali, chiedendo a persone con le quali ho spesso condiviso percorsi di studio e di lavoro di darmi una mano. È nato così un convegno su «Lavoro, precarietà e nuovo schiavismo», che ha avuto tra i relatori Gianni Rinaldini, Mario Agostinelli e Guido Viale. Un convegno su «Razzismo e xenofobia», al quale hanno preso parte, tra gli altri, il genetista Guido Barbujani, la scrittrice Igiaba Scego, lo storico del porrajmos Luca Bravi, il portavoce della comunità senegalese di Firenze Pape Diaw. E infine un convegno sulla comunità del vivente come fondamento della politica, al quale hanno preso parte, oltre ai responsabili di alcune tra le più importanti associazioni animaliste e antispeciste, il filosofo Leonardo Caffo e lo scrittore Milton Fernandez, che ha spiegato, ad esempio, come il presidente ex tupamaro dell’Uruguay, Pepe Mujica, abbia appena promosso una legge per la tutela dei diritti animali, compreso quello alla dignità. Tutte queste voci, intelligenze, progettualità — che andranno a formare un archivio mediatico che resterà oltre il 25 maggio, per riannodare i fili degli argomenti che l’orizzonte europeo ci ha spinto a considerare nella loro ampiezza politica — sono una «folla dentro il cuore» che, come nei versi di Emily Dickinson, «nessuna polizia potrà disperdere».
Naturalmente non tutto è stato radioso in questa difficile costruzione di un soggetto unitario: inevitabilmente sono entrate in gioco logiche di appartenenza, ripetizioni del già visto, rendite di potere, malcelate ambizioni personali — una politica che assomiglia ai carrarmatini del Risiko, nel suo insediarsi su piccolissimi territori vedendo il vicino come un nemico o un pericolo. Forse il viaggio vero è stato l’aver avuto l’opportunità di partecipare fin dalla nascita a un progetto che vuole uscire dalle secche di ragionamenti che hanno portato a troppi anni di sconfitte, divisioni, incapacità del frammentato mondo post-sessantottesco di smettere di credersi il centro del mondo; «di andare oltre il bricolage organizzativo e il balbettio ideologico», come scrive Marco Revelli in Oltre il Novecento, «alla ricerca delle parole, o delle formule, con cui nominare la propria rivoluzione introvabile».
Per la prima volta dopo tanti anni è nato un progetto che può essere vincente, anche oltre l’appuntamento delle elezioni europee, a patto che sappia superare le logiche dell’appartenenza e aprirsi alle pluralità che ha messo in campo.