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Berlusconi invitava a non pagare le tasse, il suo emulo a non rispettare le leggi. Scrive ai sindaci: non vi fate frenare da pretese di tutela, via lacci e laccioli, avanzino ruspe e cemento. Tutti d'accordo? Chi tace acconsente, poi piangerete per le conseguenze. Il manifesto, 3 giugno 2004

Dal senato ai cantieri, è tutta «L’ottimismo è il pro­fumo della vita», ripe­teva anni fa Tonino Guerra in un tor­men­tone pub­bli­ci­ta­rio (com­mis­sio­nato, guarda caso, da quell’Oscar Fari­netti desti­nato a diven­tare uomo sim­bolo del ren­zi­smo). E oggi, seconda set­ti­mana dell’era post 40,8%, di otti­mi­smo se ne annusa parec­chio ai ver­tici della poli­tica. Il pre­si­dente Napo­li­tano infila un ral­le­gra­mento die­tro una feli­ci­ta­zione. Dopo essersi com­pia­ciuto per l’esito elet­to­rale, ieri ha testi­mo­niato di aver scorto ai bordi della parata del 2 giu­gno «una folla che non avevo mai visto, una grande sere­nità, un popolo sor­ri­dente e fidu­cioso». Si trat­tava di «un popolo in cui si è raf­for­zato e si raf­forza il sen­ti­mento nazio­nale». Merito anche que­sto delle elezioni?

Mat­teo Renzi, tra due ali di folla, ha appro­fit­tato della festa della Repub­blica per dif­fon­dere la sua let­tera ai sin­daci d’Italia: «Caro sin­daco, l’Italia riparte. I segnali di fidu­cia tut­ta­via, non bastano. Pos­siamo e dob­biamo fare di più». La richie­sta ai primi cit­ta­dini — «sono stato sin­daco anche io» — è di segna­lare a palazzo Chigi, se non diret­ta­mente al pre­si­dente del Con­si­glio (l’indirizzo essendo matteo@​governo.​it), «una caserma bloc­cata, un immo­bile abban­do­nato, un can­tiere fermo, un pro­ce­di­mento ammi­ni­stra­tivo da acce­le­rare». Entro il 15 giu­gno, così che il governo possa prov­ve­dere con il pac­chetto «Sblocca Ita­lia». Segue esem­pio dei «bloc­chi» che si intende for­zare: «La man­canza di un parere, un diniego incom­pren­si­bile di una sovrin­ten­denza, le lun­gag­gini pro­ce­du­rali». Dun­que non si parla di risorse, ma di pro­ce­dure. E non siamo lon­ta­nis­simi da quei «piani» ber­lu­sco­niani che pro­prio auto­riz­za­zioni, vin­coli e con­trolli pun­ta­vano a rimuo­vere. Solo che sta­volta non si tratta più delle pic­cole opere pri­vate, ma delle grandi e pub­bli­che. «Caro sin­daco (e non più «caro col­lega» come nella pre­ce­dente let­tera di marzo, ndr), nes­suna riforma sarà cre­di­bile se non diamo per primi noi il segnale che la musica è cam­biata davvero».

«Riforma», per lo più coniu­gata al plu­rale, è parola che sotto il nuovo governo fini­sce col com­pren­dere tutto: dalle grandi stra­te­gie di poli­tica eco­no­mica ita­liana ed euro­pea ai pic­coli sconti fiscali, dall’asta delle auto blu alla riscrit­tura di 45 arti­coli della Costi­tu­zione, dalla nuova legge elet­to­rale alle annun­ciate novità per la pub­blica ammi­ni­stra­zione. Ma le «riforme» per eccel­lenza sono quella costi­tu­zio­nale e quella elet­to­rale. Le uni­che due per le quali ci sia una sca­denza: «Entro l’estate». È vero, l’ultimatum è stato più volte spo­stato. E non si tratta di pas­saggi deci­sivi: la legge costi­tu­zio­nale è solo alla prima let­tura su quat­tro, la legge elet­to­rale alla seconda ma di certo dovrà tor­nare al senato. Le soglie sot­to­scritte da Renzi e Ber­lu­sconi due mesi fa, e da Renzi difese con­tro tutte le cri­ti­che (risale ad allora, e alla rispo­sta a un appello pub­bli­cato su que­ste pagine, l’invenzione del ter­mine «pro­fes­so­roni»), non vanno più bene. Non per­ché si siano fatti strada i dubbi dei costi­tu­zio­na­li­sti (ripe­tuti ieri da Rodotà, Car­las­sare, Azza­riti, Zagre­bel­sky alla mani­fe­sta­zione di Libertà e Giu­sti­zia a Modena) che vedono nell’Italicum la replica del Por­cel­lum. Ma per­ché i risul­tati delle euro­pee hanno rime­sco­lato le con­ve­nienze. Dun­que si fa strada l’innalzamento della soglia per la vit­to­ria al primo turno (dal 37,5% a oltre il 40%) e il livel­la­mento di tutte le altre soglie al 4% come sug­ge­ri­sce da tempo anche Roberto D’Alimonte, primo ispi­ra­tore dell’Italicum. Una legge, cioè, dise­gnata smac­ca­ta­mente sulle indi­ca­zioni dall’ultimo test elet­to­rale; quando pro­prio la recente sor­presa se non il rispetto delle forme dovreb­bero sug­ge­rire pru­denza. Quanto alla riforma costi­tu­zio­nale, che viene prima, pro­prio que­sta per Renzi dovrebbe essere la «set­ti­mana deci­siva». Quella cioè in cui si comin­ce­ranno a votare gli emen­da­menti in com­mis­sione al senato. La rela­trice Finoc­chiaro pre­sen­terà una pro­po­sta di media­zione sulla com­po­si­zione della nuova camera alta. Il modello è l’elezione indi­retta del senato fran­cese, ma l’elettorato pas­sivo qui da noi sarebbe limi­tato ai con­si­glieri comu­nali e regio­nali (in Fran­cia è uni­ver­sale). Più che i limiti ogget­tivi, però, saranno le intese poli­ti­che a segnare il destino del dise­gno di legge gover­na­tivo. Se Ber­lu­sconi, come pare, deci­derà di restare nel patto, Renzi ha ragione di essere ottimista.

«Senza un orizzonte che dia una speranza di futuro - senza una nuova Ventotene -, sarà difficile mobilitare gli europei su obiettivi importanti quali un New Deal europeo per l’occupazione o la ristrutturazione del debito pubblico».

CNS ecologia politica, n.4, giugno 2014

L’affermazione delle destre xenofobe e antieuropee nelle recenti elezioni europee non era inaspettata, ma ha superato le previsioni e ha coinvolto anche paesi della “vecchia” Europa come la Francia e la Gran Bretagna , e in parte l’Italia. Questo “xunami” politico è frutto della grave crisi sociale ed economica, che ha investito l’Europa negli ultimi 10-15 anni. Ma è frutto anche delle politiche di austerità con cui i governi hanno affrontato la crisi, scaricandola sui più deboli e aprendo così la strada alle forze politiche pronte a strumentalizzare il disagio economico e sociale delle classi colpite dalla crisi e dalle politiche di austerità – quella parte maggioritaria di popolazione impoverita e priva di futuro. La crisi e l’austerità hanno infatti creato una divaricazione abissale tra “ricchi” e “poveri”, usata da alcune forze politiche per “convincere” i più poveri a sostenere gli interessi dei più ricchi.

Questo breve resoconto dei risultati i elettorali e delle loro cause coglie bene, mi pare, la traiettoria da correggere, per evitare altri danni. Ma per farlo, occorre avere uno sguardo lungo capace di esprimere un nuovo orizzonte, che vada oltre il sogno di Ventotene e risponda alle aspettative di oggi, che sono assai diverse. Il sogno di allora era la pace in Europa, dopo secoli di guerre, la carneficina delle due guerre mondiali del Novecento e lo stermino degli ebrei nei campi di concentramento. Il sogno di oggi è un’Europa accogliente, dove la diversità è fonte di arricchimento reciproco, non una minaccia; un’Europa capace di una crescita sociale oltre che economica, che assicuri un buona qualità della vita; un’Europa dove non si muoia più né di lavoro né di inquinamento; un’Europa dove le persone contano e possono decidere della loro vita partecipando alle scelte che le riguardano.

Senza un orizzonte che dia una speranza di futuro – senza una nuova Ventotene -, sarà difficile mobilitare gli europei su obiettivi importanti quali un New Deal europeo per l’occupazione o la ristrutturazione del debito pubblico. Nell’ultimo numero di questa rivista, avevamo pubblicato un articolo/manifesto sui beni comuni e le comunità (Avallone, Parascandolo, Torre, Ricoveri), un tema che è oggi al centro delle lotte e dell’analisi sociale in tutto il mondo. Il paradigma dei beni comuni e delle comunità esprime un orizzonte alternativo e una speranza di futuro per uscire dalla crisi del sistema dominante, quello della società dei consumi di massa e dell’egemonia politica e culturale dell’Occidente. Forse questo paradigma potrebbe essere utile per avviare il discorso su un’altra Europa, capace di rispondere alle istanze delle popolazioni impoverite e di restituire all’Europa un ruolo positivo nei confronti di tutti i Sud del mondo.

«Alle spalle dei movimenti per i beni comuni comincia ad affermarsi l’ambizione di dare una risposta all’altezza della crisi sistemica, strutturale, di valori e di senso che attraversa la nostra civiltà».

Left, 31 maggio 2014

Non c’è angolo del nostro paese in cui non sia attivo un comitato, un gruppo di cittadini, una associazione di volontariato e che non abbia issato la bandiera dei beni comuni. Giusto tre anni fa (referendum dell’11 giugno 2011, 26 milioni al voto) fu mobilitazione generale per l’“acqua bene comune”. Poi vennero gli studenti e i ricercatori universitari che si arrampicarono sulla Torre di Pisa, sui tetti delle università e dei musei al grido “cultura bene comune” per rivendicare l’accesso ai saperi, ai codici informatici, a internet. Persino un grande sindacato di lavoratori dipendenti, la Fiom, usò l’eretico slogan “Lavoro bene comune”. Da sempre i movimenti ambientalisti tentano di praticare il concetto caro ai giuristi come Maddalena e Rodotà, agli urbanisti come Salzano e Magnaghi, agli storici come Settis e Bevilacqua secondo cui il suolo, il paesaggio, le città, il “territorio” sono da considerarsi proprietà collettive.

Teatri, ex caserme, beni demaniali abbandonati sono diventati simbolo della inettitudine tanto degli apparati statali, quanto dell’imprenditoria privata di prendersi cura del patrimonio culturale. Medici, epidemiologi, psicanalisti ci spiegano come la salute dipenda da condizioni socio-ambientali che determinano la qualità generale della vita. Sempre più spesso contadini e consumatori hanno stretto alleanze creative (mercatini biologici, gruppi di acquisto solidali, orti urbani) nel tentativo di controllare le filiere produttive del cibo. Incominciano a diffondersi esperienze di cooperative che si sostituiscono a gestioni fallimentari di aziende private anche in settori industriali. La mutualità viene riscoperta nella diffusione del nuovo welfare di prossimità autogestito. Più recentemente, dopo la grande truffa della crisi del debito messa in scena dalle banche, sono iniziate campagne popolari per chiedere alle amministrazioni pubbliche un audit dei loro debiti e per mettere sotto controllo pubblico le istituzioni finanziarie di interesse generale a cominciare dalla Cassa Depositi e Prestiti. Anche il denaro, così come ogni altro strumento finanziario, infatti, è un bene comune costitutivo della sovranità popolare.

Facile comprendere la ragione della forza persuasiva che è alla base di questi variegati movimenti: il disastroso fallimento delle privatizzazioni (un colossale processo di espropriazione in atto non solo in Italia); dalle banche ai treni, dai beni demaniali alla telefonia, dai servizi pubblici locali ai fondi pensioni assicurativi. La grande ubriacatura neoliberista - il privato è bello e arricchisce tutti - si è finalmente esaurita. Persino negli ambienti accademici sono sempre più frequenti i casi di pentimento e ripensamento. Grande merito va agli studi di Elinor Ostrom, premio Nobel per l’economia, che con i suoi studi sulle common pool resources ha dimostrato che le gestioni comunitarie di alcuni beni naturali consentono una loro più lunga preservazione e una più equa distribuzione degli usufrutti. Storici come David Harvey hanno dimostrato che la vera “tragedia dei beni comuni”, all’inizio della rivoluzione industriale, è stata la loro recinzione (proprietà esclusiva) e la distruzione delle economie di sussistenza. Esattamente ciò che sta ora accadendo in Africa con il fenomeno dell’accaparramento delle terre fertili (land grabbing) in Cina e in India con l’espulsione forzata dalle campagne di milioni di contadini.

Insomma, alle spalle dei movimenti per i beni comuni non vi sono solo micro buone pratiche di cittadini virtuosi, asceti francescani e fricchettoni new age, ma comincia ad affermarsi un pensiero che ha l’ambizione di dare una risposta all’altezza della crisi sistemica, strutturale, di valori e persino di senso che attraversa la nostra declinante civiltà. “I beni comuni – ha scritto David Bollier, uno dei teorici di punta del Commons Movement – sono un paradigma socio-economico-politico-culturale, un modo di vivere il mondo”. Un modo di soddisfare i bisogni quotidiani creando forme di gestione partecipate che generano legami sociali solidali, fiduciari, cooperativi; sottraendo alla disponibilità del mercato quei beni e i servizi (res extra commercium) che la collettività considera indispensabili e funzionali alla realizzazione dei diritti fondamentali delle persone, al buon vivere di ciascuno e di tutti (res communes omnia). I beni comuni costituiscono quel tessuto primario che consente la rigenerazione della vita: the life’s support system, direbbero gli ecologi.

“I beni comuni - scrive Carlo Donolo - vanno presi sul serio”, non solo perché “si nascondono un po’ dovunque”, ma perché “produttori di comunalità”. Si potrebbe dire molto semplicemente che i beni comuni sono un repertorio di modalità di socializzazione della ricchezza.

Di fronte alla sua diffusione, diventa inevitabile la domanda se attorno al concetto di beni comuni non possa costituirsi una vasta comunità politica. Se i beni comuni prospettano un ordine sociale, economico, giuridico e persino simbolico decisamente alternativo a quello esistente, è allora plausibile attendersi una loro irruzione sulla scena politica. Già ci sono stati tentativi – invero alquanto maldestri – di rinchiudere i movimenti dei beni comuni in un quadro organizzativo di tipo partitico tradizionale. Ricordo la nascita di Alba (Alleanza per il lavoro, beni comuni e ambiente) e ora la stessa Lista Tsipras che intendono, almeno in parte, richiamarsi alla cittadinanza attiva. Anche il Movimento di Grillo, nella misura in cui afferma di voler essere un megafono delle proteste, si presenta come naturale espressione dei movimenti. Lo stesso Pd di Renzi è nato sotto lo slogan “L’Italia bene comune”. Ma il processo di presa di coscienza politica dei movimenti per i beni comuni non si presenta così lineare e la loro inclusione nei sistemi politici della rappresentanza non è affatto scontata.

Per loro natura i movimenti per i beni comuni sono fortemente territorializzati, nemici di qualsiasi forma di gestione centralizzata, gerarchica e patriarcale del potere. Il loro ideale – come dicono i latinoamericani – è una società che si sappia auto-organizzare dal basso, de bajo. Per intenderci, i loro riferimenti sono le “giunte del buongoverno” zapatiste nei territori liberati del Chiapas o le comunità agricole brasiliane dei Sem Tera o le Transition Tows del nord d’Europa. La gestione condivisa dei beni comuni genera capacitazione (empowerment), forma cittadinanza attiva, corresponsabilizza, abbassa e orizzontalizza il potere, lo rende permeabile e diffuso, inclusivo e non discriminante delle donne. Il processo di riconoscimento, rivendicazione e gestione comunitaria dei beni comuni mira ad una democrazia sostanziale e progressiva.

Un incontro tra la politica e i movimenti per i beni comuni potrà avvenire quindi solo se e quando cambierà il contesto di riferimento – il dominio della ragione economica mercantile - dentro cui si è attualmente impantanata la tradizionale azione della politica rappresentativa. Nel frattempo dovremmo attenderci una loro presenza sempre più numerosa e inaspettata nelle elezioni locali dei comuni, attraverso la formazione delle liste locali di cittadinanza. Da questo livello basico potranno sorgere collegamenti e confederazioni delle autonomie. Una rete dei Comuni per i beni comuni era già stata tentata dall’amministrazione di Napoli. Da tempo agiscono associazioni come la Rete dei comuni virtuosi e la Rete dei comuni solidali. Dalla Val di Susa a Messina la rigenerazione della politica passa dai territori.
«Barbara Spinelli ci ripensa: potrebbe accettare di andare nel parlamento che porta il nome di Altiero. A Roma la lista apre un "processo comune", e il leader Tsipras chiede di dire no a presidenti non indicati dagli elettori».

Il manifesto, 1 giugno 2014, con postilla

«E poi che fac­ciamo?» era la domanda più fre­quente in cam­pa­gna elet­to­rale, giura Mas­simo Torelli, uno degli uomini-macchina della lista Tsi­pras. E così ieri, dopo il risul­tato acciuf­fato per un sof­fio (il 4,03 per cento ovvero 1.108.457 voti) i 73 can­di­dati si sono riu­niti a Roma a porte chiuse per abboz­zare una prima rispo­sta. Cia­scuno, stra­vo­tato o poco votato che sia stato, con il suo teso­retto di voti deci­sivi e indi­spen­sa­bili, visto che l’asticella è stata supe­rata per meno di 8mila schede. Dibat­tito fitto, inter­ven­gono pra­ti­ca­mente tutti sull’onda dell’entusiasmo di una cam­pa­gna elet­to­rale ine­dita, la sini­stra ita­liana tutta insieme (o quasi) con la cit­ta­di­nanza attiva e alcuni intel­let­tuali. «Erano anni che aspet­tavo di farmi que­sta chiac­chie­rata tutti insieme», attacca mezzo com­mosso il romano San­dro Medici. Tema dun­que come tra­sfor­mare del car­tello elet­to­rale in una ’cosa’ comune, se non già in una ’casa’. Per ora la defi­ni­zione più in voga è «un pro­cesso». «Abbiamo messo insieme le migliori intel­li­genze del paese, ma adesso apriamo le porte della nostra orga­niz­za­zione» (Guido Viale).

Ma è una scelta deli­cata per i par­titi che fanno parte della com­pa­gnia. In que­ste ore Sel affronta una discus­sione interna che esclude l’adesione a una «costi­tuente» di sini­stra, almeno per ora. Dall’altra parte Fabio Amato, Prc, invece spinge per «un sog­getto poli­tico alter­na­tivo al cen­tro­si­ni­stra e alle lar­ghe intese» (Paolo Fer­rero, il suo segre­ta­rio, pro­pone «una Syriza ita­liana» già «in vista delle ele­zioni»). Raf­faella Bolini (Arci) chiede invece «un pro­cesso che vada avanti in maniera natu­rale e oriz­zon­tale», che intanto parta dal fatto che i tre eletti a Stra­sburgo saranno «eletti della lista, non dei par­titi o delle cul­ture di provenienza».

Ma intorno pro­prio a que­sti tre nomi gira buona parte del futuro della scom­messa. Uno degli eletti è scat­tato nel col­le­gio nord-ovest, dove il capo­li­sta Moni Ova­dia ha già annun­ciato che rinun­cerà a favore del gior­na­li­sta Cur­zio Mal­tese (che è già al lavoro e già imma­gina un gior­nale online della lista). Gli altri due sono scat­tati al cen­tro e al sud, capo­li­sta Bar­bara Spi­nelli, che però dall’inizio — per­sino prima della com­po­si­zione delle liste — ha annunciato,la sua inten­zione di non sedere nell’europarlamento. Al suo posto suben­tre­reb­bero due gio­vani com­bat­tenti, già cam­pioni di pre­fe­renze: Marco Fur­faro (classe 1980) di Sel, e Eleo­nora Forenza (classe 1976), Prc. Quindi per una for­tu­nata casua­lità la «terna» — «la troika», è la bat­tuta che cir­cola — sarebbe com­po­sta da un nome della società civile e da uno per cia­scuno dei due par­titi ade­renti alla lista.

La novità è che Bar­bara Spi­nelli ora potrebbe ripen­sarci e accet­tare di sedere nell’europarlamento. In un’intervista pub­bli­cata oggi su quo­ti­diano greco Avgy, vicino a Syriza, spiega all’intervistatore Argi­ris Pana­go­pou­los, a sua volta can­di­dato nella lista ita­liana: «Ancora non ho deciso, ricevo pres­sioni dai molti elet­tori, ho ancora dei dubbi. Di sicuro daremo bat­ta­glia a tutti i livelli a fianco di Tsi­pras nella Sini­stra euro­pea». Nodo deli­cato, peg­gio se affron­tato alla fine di una cam­pa­gna elet­to­rale in cui si è soste­nuto il con­tra­rio, non senza qual­che dif­fi­coltà. Nelle scorse set­ti­mane Tsi­pras ha chie­sto a Spi­nelli di restare in par­la­mento. E se ne capi­sce il motivo: la figlia di Altiero Spi­nelli è un valore aggiunto per le file della sini­stra euro­pea, e per Tsi­pras in que­sti giorni già impe­gnato a tes­sere la tela delle rela­zioni con le altre forze euro­par­la­men­tari. A Altiero è dedi­cata la monu­men­tale ala prin­ci­pale del palazzo di Bru­xel­les. L’elezione di Bar­bara ha già sca­te­nato la curio­sità dei media e dei par­la­men­tari non ita­liani. C’è chi le offre un ruolo di pre­sti­gio. Per que­sto il comi­tato dei garanti della lista «le ha chie­sto di accet­tare l’incarico», spiega Viale.

E però que­sto ’cam­bio di verso’, fatto ora, fini­rebbe per met­tere a rischio il deli­cato equi­li­bro fra par­titi e cit­ta­di­nanza. Spi­nelli dovrebbe sce­gliere se favo­rire il can­di­dato di Sel o quella del Prc; con le ine­vi­ta­bili riper­cus­sioni nei par­titi, soprat­tutto in Sel, dove l’area scet­tica sul futuro della Tsi­pras (e sbi­lan­ciata verso il dia­logo con Renzi) rice­ve­rebbe un assist pro­prio dalla lista. D’altro canto è molto dif­fi­cile imma­gi­nare un futuro per la lista senza Sel, per lo meno un futuro che non sia la rie­di­zione di film già visti a sini­stra. «La scelta è di Bar­bara», ripe­tono tutti i can­di­dati, a cui «Bar­bara» ha inviato una mail in cui spiega le ragioni di que­sta «ulte­riore rifles­sione». Ma le con­se­guenze andreb­bero ben oltre i nomi degli euro­par­la­men­tari. Il dos­sier è stato affi­dato a socio­logo Marco Revelli, por­ta­voce della lista, la deci­sione arri­verà forse già domani.

Intanto la road map del «pro­cesso» comin­cia a pren­dere forma: la pros­sima set­ti­mana si riu­ni­scono i comi­tati, entro l’estate l’assemblea nazio­nale. Ma la pat­tu­glia ita­liana dovrà andare pre­sto a sedersi sui pro­pri euro­scranni: Tsi­pras sta già dando bat­ta­glia con­tro le lar­ghe intese avver­tendo il par­la­mento di «non appro­vare pre­si­denti che non abbiano par­te­ci­pato alla com­pe­ti­zione elet­to­rale», in caso con­tra­rio «le ele­zioni che diven­te­reb­bero una pan­to­mima». Mar­tedì Nichi Ven­dola volerà a Bru­xel­les per incon­trare Tsi­pras, ma anche l’ex can­di­dato Pse Mar­tin Schultz e i neo­par­la­men­tari verdi.

Postilla
Un problema per chi voglia costituire una nuova formazione politica (che cioè possa realizzare una sintesi tra le molteplici esigenze settoriali e locali che danno anima al variegato arcipelago dei movimenti), tagliando i ponti con le logiche della vecchia partitocrazia. Ls presenza nella lista Tsipras di due partiti ha provocato qualche danno, ma senza di essa non si arebbero raggiunte le firme necessarie per partecipare alle elezioni. Che fare? la discussione e la ricerca sono aperte. Ne parleremo anche su eddyburg.

Il komeinista della rottamazione del Belpaese , dopo aver inseguito e superato D’Alema nel recupero del supremo evasore fiscale, segue le orme di quest'ultimo con rafforzata capacità distruttiva.

Corriere della Sera, 2 giugno 2014, con postilla

La fase due della rottamazione di Matteo Renzi è rivolta a 360 gradi dentro e fuori il Paese. L’Europa, quella attuale, quella che «ci dice tutto di come un pescatore dell’Adriatico deve fare il suo mestiere» è anche quella dei «tecnocrati», che «girano la faccia dall’altra parte quando un bambino muore» nel canale di Sicilia, in quelli che sono anche mari europei, ma evidentemente più per la tipologia delle lenze e le tecniche di pesca, che per i principi morali, quelli «latitano», accusa e insieme ironizza il capo del governo.

Ma accanto a questo tipo di Ue c’è anche una questione interna, con altri due tipi di potere da riformare. Quello politico, la classe che «per anni è stata campione mondiale di alibi, quella che non si è mai presa una responsabilità», quella che il giorno dopo le elezioni «non avevano mai perso». E quello meno appariscente, che in parte era seduto ieri mattina all’Auditorium di Santa Chiara, nel centro storico di Trento, che lo applaudiva, ma che ha avuto un attimo di sussulto quando il premier l’ha messa giù senza perifrasi, perché «dopo le riforme del Senato e della legge elettorale» ci occuperemo anche «della classe dirigente di questo Paese, che per anni ci ha fatto la morale».

Al Festival dell’Economia Renzi arriva in jeans sdruciti, scoloriti, come gli capita sempre più spesso. In prima fila ex ministri come Fabrizio Saccomanni, l’ad di Fiat Chrysler, Sergio Marchionne, un simbolo della sinistra come Franco Marini (in realtà la fila è la settima). L’economista Tito Boeri gli gira una serie lunga di domande, Enrico Mentana sviluppa i temi di Boeri e conduce l’intervista pubblica. Alla fine, proprio Marchionne dirà: «Mi è piaciuto, è l’unica agenda che in questo momento ha l’Italia e anche l’Europa, condivido tutto».

Agenda dice Marchionne, quasi un manifesto dicono in sala, sicuramente c’è un elogio del ruolo migliore della politica, una rivendicazione impostata su parametri a tratti drammatici. Se negli Stati Uniti, in Asia, in Giappone, spiega Renzi, «hanno tutti dato una risposta alla crisi economica, risposte diverse ma efficaci, qui in Europa ancora cerchiamo la formula giusta». Conseguenza: delle raccomandazioni in arrivo dalla Ue «terremo conto, ma non sono il problema, non ho timori», come non è un problema il nome del futuro vertice dell’Unione, piuttosto «la Ue ha bisogno di cambiare linea economica o la politica torna a fare il suo mestiere e riprende il suo potere di indirizzo sulla burocrazia o non ci salviamo».

Una politica diversa a Bruxelles come a Roma. Se lì manca fra gli altri «una politica estera», qui da noi occorre una «rivoluzione pacifica del buon senso», che può significare tante cose, tutte finora difficilissime. Per esempio occorre smetterla di fare calcoli e cominciare a pensare che «il risultato elettorale dimostra che possiamo andare verso due schieramenti, che mettono la residenza al 40%». Occorre cambiare mentalità, che ci sia «uno che abbia responsabilità, il ballottaggio serve a dire questo, a dire chiaramente chi ha vinto e che deve fare delle cose che se non gli riescono, anche per colpe non sue, gli verranno attribuite». Occorre ancora diminuire il numero dei politici, anche con un Senato senza compensi, perché viceversa i posti si moltiplicano, «i politici sono come le ciliege, uno tira l’altro».

Uno schema che ha anche ricadute personali: «Siamo i teorici della rottamazione, un governo di 30enni o 40enni, fra dieci anni dovremo noi essere rottamati, andare a fare un altro lavoro, perché così accade negli altri Paesi».

Se questo è il manifesto dei prossimi anni ci sono anche altri tabù della sinistra da abbattere: dopo i magistrati, dopo la Costituzione che non è la più bella del mondo («lo sapete che per i padri costituenti il bicameralismo perfetto fu un ripiego?»), dopo i sindacati da snobbare, entrano nel mirino le Soprintendenze, mentre annuncia un provvedimento che chiamerà sblocca Italia: anche i custodi del bello del Paese impediscono gli investimenti, bloccano il Paese. Una volta, poco tempo fa, erano uno dei feticci della sinistra. E invece ora «faremo entro luglio un provvedimento che si chiamerà sblocca Italia, chiederemo ai sindaci di dirci tutte le opere bloccate dalla mancanza di concerto, dai vincoli e dai divieti delleSoprintendenze. La regia sarà a Palazzo Chigi, vi abbineremo il massimo dell’open government, trasparenza assoluta, dobbiamo essere più trasparenti degli anglosassoni».

E figuriamoci se in questo schema le polemiche sulla Rai, la minaccia di uno sciopero di fronte ai tagli chiesti dal governo, trovano il capo del governo in posizione di difesa: «Abbiamo dato alla Rai due chance, vendere Rai Way o riorganizzare le sedi regionali, non mi sembra tanto. Se poi uno dei luoghi più politicizzati del Paese, dove ancora c’è chi scambia la carriera con la vicinanza ad un partito, luogo dal quale io voglio stare il più lontano possibile, se vogliono fare lo sciopero lo facciano, è umiliante, poi faremo due conti sulle sedi regionali, siamo l’azionista, a me piace la Rai dei professionisti, con una governance sganciata dalle ansie dei partiti, non una polemica incredibile fatta dal sindacato interno».

L’unico argomento che non si può aggredire è quello del fisco: «La riforma l’ho un po’ bloccata io, è un tema molto complesso. Abbiamo 271 forme di deducibilità, dobbiamo tornare ad essere un Paese come gli altri, dove si pagano le tasse una volta l’anno. Ma ci vorrà del tempo».

postilla
Avevamo già sentito proclamare “via lacci e lacciuoli” ai tempi di Benito Craxi (e di Lucio Libertini). Avevamo già sentito dichiarare dall’ex premier fedifrago Berlusconi, in difesa della proprietà privata degli immobiliaristi grandi e piccoli, che “ciascuno è padrone a casa sua”. Conoscendo l’ideologia di Matteo Renzi non dubitavamo che
giunto al potere, avrebbe proposto, di abolire quelle poche regole che ancora ostacolano la distruzione del Belpaese, come ha fatto a Trento. Ciò che vivamente ci colpisce e ci addolora è che tanti italiani perbene lo applaudiscano. A cominciare da molti di quelli che militano nel suo stesso partito. Ci auguriamo che la resistenza al rottamatore dei patrimoni comuni si consolidi e si accresca.

Nel sessantottesimo compleanno della nostra Repubblica, mentre nuove monarchie ci minacciano, riflettiamo sul simbolo: la ruota dentata, la quercia, l'ulivo, la stella.

Il Fatto Quotidiano, 2 giugno 2014

Oggi è la festa della Repubblica: il due giugno di 68 anni fa i nostri nonni scelsero di non avere più un re. E un anno e mezzo dopo la Costituzione disse una volta per tutte che «la sovranità appartiene al popolo»: cioè ad ognuno di noi, non importa quanto sia piccolo o povero. La nuova Italia repubblicana aveva bisogno di un emblema: quello che oggi vedete sulle vostre pagelle scolastiche e sullo stendardo del Presidente, sulle targhe poste all'ingresso dei musei e sulle fascette delle bottiglie di vino. Esso fu scelto attraverso due successivi concorsi, che selezionarono il disegno dell'artista Paolo Paschetto. E un decreto del primo presidente della Repubblica, stabilì: «L'emblema dello Stato, approvato dall'Assemblea Costituente con deliberazione del 31 gennaio 1948, è composto di una stella a cinque raggi di bianco, bordata di rosso, accollata agli assi di una ruota di acciaio dentata, tra due rami di olivo e di quercia, legati da un nastro di rosso, con la scritta di bianco in carattere capitale "Repubblica italiana"».

La stella è il più antico simbolo dell'Italia: i Greci vedevano sorgere dalla parte del nostro paese, al loro occidente, la stella della sera, cioè il pianeta Venere, e chiamavano l'Italia Esperia, cioè la terra del tramonto. E così lo 'stellone' è stato sempre raffigurato sulle figure dell'Italia: e ci dovremmo ricordare che Venere è anche la stella del mattino. Dell'inizio, oltre che della fine.

La ruota dentata d'acciaio è l'ingranaggio di una macchina: e rappresenta il lavoro, su cui la Repubblica è fondata. Perché solo il lavoro ci fa eguali, liberi e forti. Il ramo di quercia significa la forza e la fermezza dello Stato e del popolo italiano: e ci ricorda come dovremmo essere. L'ulivo è simbolo di una Repubblica pacifica, una Repubblica che «ripudia la guerra»: e che speriamo ripudi anche le spese per i bombardieri.

Nei secoli passati gli stemmi e gli emblemi delle nazioni diventavano vere opere d'arte, scolpite e dipinte da grandi artisti: oggi non succede più, e forse il nostro stemma non è proprio bellissimo. Ma sbaglia chi, ciclicamente, lo vorrebbe cambiare: perché si è ormai avverata la profezia del presidente della Costituente, Umberto Terracini, che disse saggiamente: «Credo che qualunque emblema, quando ci saremo abituati a vederlo, finirà per l’apparirci caro». E soprattutto perché ancora non ne abbiamo attuato il programma: quando la nostra Repubblica sarà davvero forte e pacifica, davvero fondata sul lavoro, beh, allora magari ne riparleremo.

«

La recente vit­to­ria di Syriza in Gre­cia offre un forte bar­lume di spe­ranza per il futuro della demo­cra­zia eco­no­mica e sociale in Europa. Però, allo stesso tempo, la cre­scita del nazio­na­li­smo di destra, con i suoi sen­ti­menti raz­zi­sti e anti­se­mi­titi, minac­cia gli ideali di un’Europa plu­rale e demo­cra­tica. Quei rac­conti media­tici che rap­pre­sen­tano in maniera scor­retta l’importanza del cre­scente sup­porto elet­to­rale per Syriza come la nascita dell’«estremismo» di sini­stra vanno con­tra­stati dura­mente.

Non vi è alcuna asim­me­tria con­tem­po­ra­nea tra i cosid­detti «estre­mi­smi» di destra e sini­stra. I ten­ta­tivi di smi­nuire le richie­ste di giu­sti­zia eco­no­mica in Gre­cia e Spa­gna (dove Pode­mos ha gua­da­gnato l’8% dei voti) e di eti­chet­tarle come «popu­li­ste», «anti-Europee» o «euro-scettiche», non com­prende la loro ampiezza e impor­tanza. Que­ste vit­to­rie della sini­stra radi­cale non pos­sono essere com­pa­rate con la nascita del Fronte Nazio­nale in Fran­cia, dell’Ukip in Inghil­terra, o con il raf­for­za­mento dei par­titi anti­se­miti in Gre­cia e Unghe­ria o con il popu­li­smo anti-immigranti in Bel­gio e Danimarca.

La cre­scita della destra «euro-scettica» risponde alle poli­ti­che di auste­rità e ai cam­bia­menti demo­gra­fici con delle piat­ta­forme chia­ra­mente raz­zi­ste. Men­tre la cre­scita della sini­stra offre una cri­tica chiara e un’alternativa ben for­mu­lata alle dise­gua­glianze sociali ed eco­no­mi­che pro­dotte dalle poli­ti­che di auste­rità. Per impe­dire che la vio­lenza e la dispe­ra­zione si dif­fon­dano ulte­rior­mente, l’Unione Euro­pea ha biso­gno di nuove alleanze attra­verso i con­fini nazio­nali e di una rior­ga­niz­za­zione delle pro­prie isti­tu­zioni, al fine di rag­giun­gere una più ampia ugua­glianza eco­no­mica.

Si dovrebbe lan­ciare un dibat­tito pub­blico serio per discu­tere il futuro dell’Unione, il ruolo della soli­da­rietà e della giu­sti­zia sociale e il signi­fi­cato dell’idea di Europa. Ma il suc­cesso di un dibat­tito pub­blico demo­cra­tico dipende dalla verità e dalla tra­spa­renza delle rap­pre­sen­ta­zioni media­ti­che dei movi­menti poli­tici e delle loro riven­di­ca­zioni. In que­sto senso, chie­diamo atten­zione per le dif­fe­renze tra le varie forme di oppo­si­zione poli­tica all’austerità, tra chi vuole più egua­glianza e chi vuole più disu­gua­glianza. Solo così è pos­si­bile vedere in maniera più chiara quanto sia dav­vero in gioco il futuro della democrazia.

Etienne Bali­bar, Joanna Bourke, Wendy Brown, Judith Butler, Dru­cilla Cor­nell, Simon Crit­chley, Jodi Dean, Costas Dou­zi­nas, Eric Fas­sin, Engin Isen, Chan­tal Mouffe, Jean-Luc Nancy, Toni Negri, Micael Lowy, San­dro Mez­za­dra, Bruce Rob­bins, Jac­que­line Rose, Eleni Vari­kas, Hay­den White, Sla­voj Zize

«Inter­rom­pere l'espe­rienza lista Tsipras un sui­ci­dio senza resur­re­zioni. Aprire una fase costi­tuente di una forza di sini­stra, dal basso e dall’alto, nella produzione cul­tu­rale, nell’elaborazione poli­tica, nella prassi nei movi­menti, il com­pito che ci spetta.».

Ilmanifesto, 31 maggio 2014

Il voto di dome­nica, richiama innan­zi­tutto una let­tura euro­pea che non si pre­sta a giu­dizi sem­pli­fi­cati. Per alcuni paesi, come il nostro o la Fran­cia si è trat­tato di un vero ter­re­moto; nel con­tempo, pur mar­cando inquie­tanti suc­cessi, le destre anti­eu­ro­pei­ste non tra­vol­gono i rap­porti di forza nel par­la­mento euro­peo, ove aumenta di con­si­stenza l’area di un euro­pei­smo cri­tico da sini­stra attorno a Tsi­pras. I popo­lari, pur restando primi, indie­treg­giano e non poco, la stessa cosa fanno i social­de­mo­cra­tici, sep­pure in misura minore.

Nel con­tempo per la prima volta dal 1979 la per­cen­tuale dei votanti non è scesa, se non di un deci­male, atte­stan­dosi sul 43%. In Ita­lia è invece dimi­nuita for­te­mente, del 7,7%, scen­dendo sotto il 60% per la prima volta in una ele­zione di carat­tere generale.

La strada delle lar­ghe intese sul modello tede­sco con­ti­nua a essere la più pro­ba­bile in quel di Stra­sburgo, anche se le figure di rife­ri­mento pos­sono cam­biare. Né Junc­ker né Schulz escono dalla con­tesa in grande salute ed è pos­si­bile che il ruolo di pre­si­dente della com­mis­sione possa andare ad altri. Mat­teo Renzi pro­getta di chie­dere il posto per qual­cuno dei suoi, in subor­dine di aspi­rare alla carica di mini­stro degli esteri, in sosti­tu­zione della scialba Ash­ton, o di avere il ricco por­ta­fo­glio dell’Agricoltura. Insomma il par­tito di Renzi si pre­para a con­tare di più in Europa, al di là del pros­simo seme­stre ita­liano. Men­tre il duo­po­lio Fran­cia – Ger­ma­nia su cui si era fon­data tutta la costru­zione poli­tica, eco­no­mica e isti­tu­zio­nale euro­pea da Maa­stri­cht in poi è tra­volto dal disa­stro francese.

Que­sti cam­bia­menti e nello stesso tempo il per­du­rare e il con­fer­marsi di vec­chie ten­denze, pro­du­cono un effetto di spiaz­za­mento anche nei giu­dizi di intel­let­tuali da sem­pre attenti alla dimen­sione euro­pea (si parva licet com­po­nere magnis). Ulrich Beck pro­clama la fine dell’austerità. E’ vero che la Mer­kel appare più sola nel con­te­sto euro­peo; soprat­tutto la Bce nella sua immi­nente riu­nione dei primi di giu­gno si appre­sta ad abbas­sare verso lo zero i già bas­sis­simi tassi di inte­resse e di ren­derli nega­tivi per osta­co­lare i depo­siti delle ban­che presso l’istituto di Fran­co­forte che ini­bi­scono il cre­dito alle imprese e alle per­sone; dun­que che qual­che misura con­tro la defla­zione e la reces­sione verrà presa.

Ma risulta dif­fi­cile pen­sare che una teo­ria come quella dell’austerità espan­siva, fal­si­fi­cata dall’evidenza dei fatti e delle cifre, possa essere supe­rata per auto­ri­forma, senza che com­paia a con­tra­starla una teo­ria almeno di uguale forza e capa­cità di attra­zione. Que­sta c’è, ma per ora vive solo nei pro­grammi che hanno por­tato all’affermazione le liste che face­vano rife­ri­mento a Tsi­pras e poco più. Quello che è vero, e le con­se­guenze sono ancora peg­giori, è che le teo­rie del rigore rivi­vono nella dimen­sione della pre­ca­rietà espan­siva, ovvero delle deva­stanti misure strut­tu­rali che pre­ca­riz­zano defi­ni­ti­va­mente il lavoro, su cui il nostro governo si è par­ti­co­lar­mente distinto con il decreto Poletti.
Dal canto suo Alain Tou­raine, prima invoca un sus­sulto repub­bli­cano in Fran­cia per con­te­nere l’ondata popu­li­sta dei Le Pen, poi con­si­glia di dare più poteri al primo mini­stro Manuel Valls, ovvero al più destrorso della scom­bic­che­rata com­pa­gine di Hol­lande, il che pro­vo­che­rebbe esat­ta­mente l’effetto oppo­sto se è vera la sua ana­lisi di una “con­nes­sione sen­ti­men­tale” fra il Fn e gli strati popolari.

In que­sto qua­dro assume una impor­tanza deci­siva l’affermazione di liste che fanno rife­ri­mento a Tsi­pras o che chie­dono di fare gruppo assieme — come “Pode­mos” la for­ma­zione elet­to­rale che trae ori­gine dal movi­mento degli indi­gna­dos spa­gnoli (che con il suo 8% ha eletto ben 5 depu­tati) – e natu­ral­mente il risul­tato di Syriza che lo con­ferma primo par­tito in Gre­cia. E’ dall’insieme di que­ste forze che biso­gna ripar­tire per met­tere seria­mente in crisi le poli­ti­che di auste­rità, evi­tare la loro cama­leon­tica ripro­po­si­zione e inver­tire la rotta verso poli­ti­che anti­ci­cli­che, soli­dali e occupazionali.

La vicenda ita­liana è con­tras­se­gnata dall’enorme balzo in avanti del Pd su livelli che solo la vec­chia Dc aveva toc­cato in un lon­tano pas­sato e dalla scon­fitta secca del M5Stelle che cede soprat­tutto voti all’astensione. Chi aveva pen­sato a un neo­bi­po­la­ri­smo Renzi-Grillo deve rive­dere le sue ana­lisi. Ver­rebbe da dire che dal bipar­ti­ti­smo imper­fetto di cui par­lava lo sto­rico Gior­gio Galli, basato sul duo­po­lio Dc-Pci (con la con­ven­tio ad exclu­den­dum nei con­fronti di quest’ultimo) si stia pas­sando a un mono­par­ti­ti­smo imper­fetto, fon­dato sul Pd e su un sistema di par­titi il mag­giore dei quali non rag­giunge che la metà dei suoi voti.

In que­sto qua­dro è evi­dente che l’espressione stessa cen­tro­si­ni­stra, con o senza trat­tino, ha perso ogni signi­fi­cato. Almeno per quanto riguarda il governo nazio­nale. Vel­troni non ha torto di gon­go­lare, anche se il par­tito a voca­zione mag­gio­ri­ta­ria che lui aveva pen­sato, man­dando in crisi di fatto il secondo governo Prodi e ria­prendo la strada a Ber­lu­sconi, si rea­lizza sotto un’altra stella. Chi, d’altro canto, parla di fare un par­tito unico con il Pd, finge di non accor­gersi di pre­di­care una sem­plice confluenza.

Il quo­rum de “L’altra Europa con Tsi­pras” ha inter­rotto la serie dei fal­li­menti elet­to­rali a sini­stra. E’ vero che è un risul­tato risi­cato e che il numero di voti con­qui­stati non fa la somma delle orga­niz­za­zioni che hanno dato il loro appog­gio alla lista. Ma que­sto segnala per l’appunto la per­dita di con­sensi di que­sti micro par­titi e la scelta vin­cente di dare vita a una lista di cit­ta­di­nanza.

Inter­rom­pere que­sta espe­rienza sarebbe un sui­ci­dio senza resur­re­zioni. Lo sarebbe anche per la demo­cra­zia ita­liana che vedrebbe ulte­rior­mente ristretta le pos­si­bi­lità di espres­sione e rap­pre­sen­tanza poli­tica, aprendo a nuove derive neoau­to­ri­ta­rie. Aprire una fase costi­tuente di una forza di sini­stra, dal basso e dall’alto, sul piano della pro­du­zione cul­tu­rale e dell’elaborazione poli­tica, come su quello della prassi nei movi­menti è il com­pito che ci spetta.
Il filosofo lancia l’allarme: «Si mostra troppo disprezzo verso gli elettori Nessuno dei capi di governo sembra in grado di dare risposte all’avanzata populista». Intervista di Nils Minkmar.

La Repubblica, 31 maggio 2014

CON trattative e giochi di potere sul prossimo presidente della Commissione i leader europei si mostrano incapaci di liberarsi dalla logica del potere e di dare all’Europa le nuove risposte che la situazione del dopo-voto esige. Ecco il j’accuse di Jürgen Habermas.

Signor Habermas, come giudica i negoziati in corso dopo l’ultimo vertice dei leader Ue?
«Come una nuova prova che in questo circolo dei capi dell’esecutivo pare che nessun leader e nessuna leader sia capace di liberarsi dalla routine del poker del potere quotidiano e di porsi davanti a una situazione che esige nuove risposte».

Perché secondo Lei Cameron e Orbàn hanno detto no a Juncker?
«Per gli altri leader quelle prevedibili obiezioni dei due sono state probabilmente un pretesto benvenuto. Angela Merkel, per mesi, si è schierata contro i candidati capolista. Ma questi sono stati effettivamente nominati (Juncker e Schulz tra gli altri, ndr) e ciò ha scatenato l’escalation di democrazia che pare che lei tema. Anche per questo l’Europa istituzionale è entrata di prepotenza nella realtà della volontà popolare polarizzata dei suoi cittadini. Per la prima volta il Parlamento europeo ha una vera legittimità — proprio perché i nemici dell’Europa hanno ottenuto voti e seggi, per scuotere e svegliare i sonnolenti europeisti — e così vengono separati i caproni dalle pecore. Mi chiedo da che parte stia un gruppo parlamentare del Ppe che non osa nemmeno appoggiare compatto il suo candidato Juncker. In Germania la Cdu si fa bella con l’immagine di partito europeista, ma la sua famiglia nell’Europarlamento sembra non volerne sapere di escludere dai suoi ranghi gente come Orbàn e Berlusconi».

Merkel poche ore fa ha chiesto Juncker. Lo si può imporre contro la volontà di Regno Unito e Ungheria?«La situazione ha due volti, uno politico e uno di diritto. Per la prima volta si sono svolte elezioni europee che almeno a metà meritano di essere chiamate elezioni. Da una parte abbiamo la chiara alternativa tra Juncker e Schulz, dall’altra abbiamo quella tra gli integrazionisti e i fautori di uno scioglimento delle istituzioni europee. Perciò, ben cosciente, il Presidio dell’Europarlamento ha dichiarato che il Consiglio europeo deve considerare in modo vincolante il risultato del voto. E come hanno risposto i nostri capi di governo? Chiudendo le paratie stagne della nave, per difendere il loro potere autoconferitosi contro la rabbia popolare, presunta irrazionale. Se davvero proporranno un’altra persona rispetto ai due candidati principali, ciò colpirà al cuore il progetto europeo. E non sarebbe più possibile conquistare i cittadini alla partecipazione a nuove elezioni europei. Gli altri leader potrebbero chiedere l’uscita dalla Ue dei paesi ostruzionisti».

A fronte del successo degli euroscettici e antieuropei, quale Commissione serve, per quale politica europea?
«Certo non è abituale che ben più del dieci per cento dei deputati eletti in un Parlamento vogliano abrogarlo o ridurre i suoi poteri. Ma questa anomalia rifletta solo la realtà: ci troviamo in un processo controverso di sviluppo costituzionale. Trovo sia un bene che gli avversari dell’Europa abbiamo trovato un Foro dove possono dire in faccia alle élites politiche che è necessario alla fine decidersi a coinvolgere i popoli nel processo di unificazione. Il populismo di destra impone un cambiamento di parametri: dall’elitarismo in uso finora ad un sistema di partecipazione dei cittadini. Ciò può solo essere positivo per il Parlamento europeo e per quel che riguarda la sua influenza sul processo legislativo europeo. Altro è il discorso per quanto concerne le conseguenze di questi risultati a livello nazionale nei singoli paesi membri della Ue. In questo senso, in alcuni Stati può crearsi il pericolo che i partiti politici si lascino intimidire, e scelgano la linea del tentativo di adeguarsi a idee dei populisti, come fa la Csu da noi in Baviera».

Come giudica l’angoscia per il successo del Front National in Francia?
«Qui tocchiamo un punto nevralgico. Domenica sera mi ha colto il pensiero scioccante che il progetto europeo potrebbe fallire non solo a medio termine a causa delle crescenti disuguaglianze economiche nell’eurozona, bensì anche a breve termine per le conseguenze di politica interna di una destabilizzazione della Repubblica francese, cioè del paese che si sente sempre più nell’ombra della Germania. In ogni caso si è data l’impressione che il governo tedesco, dall’inizio della crisi nell’ottobre 2008, si sia comportato in modo non cooperativo e che non tratti più a pari dignità il suo partner di gran lunga più importante. Presumibilmente soltanto una svolta politica in Euro- pa, quella che ci si aspettava da Hollande, potrebbe ristabilire l’equilibrio, evitando che in Europa una ulteriore costruzione della comunità della valuta unica e un suo sviluppo come Euro-unione politica diventi impossibile, in un percorso non democraticamente legittimato. Io capisco il riflesso difensivo del Consiglio europeo contro le proposte di Juncker (che vanno nella direzione dell’unione politica, ndr), lo vedo anche come sintomo di insicurezza. Angela Merkel, la patrona dei paesi donatori, vuole richiudere al più presto la finestra di un possibile cambiamento politico che si è aperta con l’aria fresca delle elezioni europee».

In che misura la disuguaglianza tra i due paesi leader è conseguenza anche della politica tedesca?
«Dopo la riunificazione è cambiata la mentalità nella Repubblica federale. La Germania si sente di nuovo Stato nazionale normale, e il nostro governo si comporta di conseguenza. In questo modo l’Unione europea, proprio attraverso la sua crisi peggiore, ha perduto la voce tedesca cui era abituata, la voce che chiedeva con insistenza più integrazione. Ma quella voce europeista tedesca è necessaria oggi più che mai. Invece di imporre un corso politico ai membri più deboli dell’unione monetaria, il governo tedesco avrebbe dovuto mettere in conto l’assunzione di proprie responsabilità in anticipo, come fu con Adenauer, Schmidt e Kohl. Invece, insensibile agli osceni disuguali destini di crisi, la Germania ha persino profittato della crisi. Questo comportamento non solidale deve rivolgersi contro di noi. Dobbiamo smetterla a dispiegare una posizione semiegemonica in cui la Bundesrepublik si spinge di nuovo in vecchi ruoli e stili tedeschi. O i risultati elettorali negli altri paesi devono lasciarci indifferenti?».

I socialdemocratici sono con Schulz e per una politica europea come quella che lei auspica. Prevede tensioni nella Grosse Koalition?«Spero che Sigmar Gabriel (vicecancelliere e leader dell’Spd, ndr) abbia la statura di capire che la pace nella coalizione è un gran bene, ma non da difendere a ogni costo. Ci sono anche altri europeisti nel governo, sebbene pochi. Gabriel è l’unico in cui vedo un senso di consapevolezza della piccola finestra di apertura storica apertasi col voto di domenica, l’unico che sappia guardare a Parigi. Dovrebbe essere consapevole del fatto che Merkel sappia quanto si fa presto a richiudere quella finestra temporale».

© Frankfurter Allgemeine

La Repubblica, 31 maggio 2014

Possiamo dire che comincia a prendere forma una costituzione per la Rete, un vero Internet Bill of Rights? Proprio negli ultimi due mesi vi è stato un affollarsi di novità che non solo giustificano la domanda, ma sono il segno concreto di una tendenza in atto, che ritroviamo in sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea, nell’imminente nuovo regolamento europeo sulla privacy, in una importante legge brasiliana su Internet. Si manifesta così la consapevolezza della impossibilità di lasciare il Web al dominio delle sole logiche del mercato o della sicurezza. E soprattutto viene smentita la tesi della morte della privacy. Questa è tornata al centro dell’attenzione planetaria dopo le rivelazioni sul Datagate, tanto da indurre uno dei più convinti certificatori di quella morte, Mark Zuckerberg, ad affrettarsi ad assicurare che Facebook garantirà a questo diritto una più forte tutela.

La Corte di giustizia è intervenuta fondando le sue sentenze sull’articolo 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che garantisce la protezione dei dati appunto come un diritto fondamentale della persona, al quale viene data protezione costituzionale. L’interesse economico di Google, e in generale dei motori di ricerca, non può prevalere su un diritto fondamentale che la Carta dei diritti colloca nella parte dedicata alla dignità della persona. Inoltre, si è affermato che ai motori di ricerca, se hanno nei paesi dell’Unione una loro presenza organizzata, si applicano le norme contenute nelle direttive europee.

Quest’ultima è una affermazione di grandissimo rilievo. L’idea di un mondo globale vuoto di diritto e soggetto solo al potere incontrollato delle imprese multinazionali viene rigettata. Si manifestano così, concretamente, i segni di un Internet Bill of Rights, di un riconoscimento alle persone di una effettiva garanzia del libero governo della loro sfera privata, quali che siano i soggetti che trattano le loro informazioni e i luoghi dove vengono conservate. Molto di più del solo riconoscimento del “diritto all’oblio”, per il quale comunque Google ha già predisposto una procedura per presentare e valutare le richieste di deindicizzazione.

Il Parlamento europeo aveva detto chiaramente che lo spazio comune di Internet deve essere libero dal rischio che se ne impadroniscano le grandi società, e rimanere uno spazio dove possano prosperare la libertà di comunicazione e l’innovazione. Con la sentenza della Corte di Giustizia si fa un passo importante in questa direzione, restituendo anche rilevanza a principi già previsti dalle direttive europee, ai quali quei motori di ricerca avevano cercato di sottrarsi. Ricordo i principi di finalità, proporzionalità, necessità e la norma che già dava alla persona interessata il potere di opporsi, per “motivi legittimi”, al trattamento dei suoi dati, anche se raccolti in maniera legale. Proprio partendo da queste premesse, erano già state rivolte molte richieste ai motori di ricerca, che potrebbero ora essere anche classificate come manifestazione del diritto all’oblio. Ma oggi il fondamento della garanzia discende direttamente dalla Carta dei diritti. Ragionare trascurando questa sostanziale novità, impedisce di cogliere il valore profondo della sentenza come tassello di una più generale costruzione costituzionale dei diritti sul Web.
Vi è poi un significativo legame tra questa sentenza ed una precedente che ha dichiarato l’illegittimità della direttiva europea sulla conservazione dei dati. In entrambe, infatti, compare il riferimento alla necessità di evitare che possano essere costruiti “profili” delle persone fondati non solo su informazioni sgradite all’interessato, ma nell’ambito di un contesto che può distorcerne la personalità. La crescita quantitativa delle informazioni disponibili ha determinato un mutamento qualitativo, che investe la stessa identità delle persone, che ha messo in evidenza l’enorme potere di Google e la necessità di controllarlo giuridicamente e socialmente, tanto che si è sottolineato che Google è vittima del suo stesso successo. Non a caso si è detto che “tu sei quello che Google dice che tu sei”, considerazione particolarmente rilevante in Europa, dove Google controlla il 90% degli accessi. La linea indicata dalle due sentenze, infatti, non ci ricorda soltanto che le ragioni di sicurezza non possono giustificare qualsiasi forma di raccolta di dati personali e qualsiasi periodo di conservazione, da una parte, e che, dall’altra, che vi è un diritto all’oblio. Si definiscono limiti all’azione di soggetti pubblici e privati per garantire alla persona interessata la possibilità di tornare ad essere quella alla quale viene riconosciuto il potere di governare la costruzione della propria identità.
Proprio per la sua radicalità, la sentenza riguardante Google si è attirata diverse critiche. L’argomento del pregiudizio per il mercato, tuttavia, trascura la nuova gerarchia istituita tra diritti fondamentali e interessi economici. Il mercato non può essere considerato come una sorta di legge naturale, che prevale su ogni altra. Più seria è la preoccupazione riferita ai possibili rischi per la libertà di espressione, ma la Corte ha escluso che le “figure pubbliche” possano invocare il diritto all’oblio e ha sottolineato che in casi specifici si dovrà confrontare la natura delle informazioni e il loro carattere sensibile per l’interessato con l’interesse alla conoscenza dell’opinione pubblica.Si è dunque aperta una fase di riflessione che richiederà una valutazione del bilanciamento tra i vari diritti e interessi in gioco. Ma questo non può divenire un pretesto per rimettere in discussione il primato attribuito al diritto fondamentale alla protezione dei dati. Qualcuno teme che, muovendo da queste premesse, si possa giungere a un Web 3.0 dominato dal potere dell’interessato di controllare i dati che lo riguardano. Questo è un modo per travisare la questione. A quel Web 3.0 si dovrà guardare come ad uno spazio costituzionalizzato, dove gli Over the Top o altri padroni del mondo non possano considerarsi liberi da ogni regola o controllo. La versione integrale di quest’articolo esce su Eutopia, rivista web europea promossa da Laterza © Commons creative eutopia magazine
«Perché si affermano i partiti populisti? Basta guardare al profilo per età del voto, giovane al Sud e vecchio al Nord. La soluzione passa per politiche europee che sappiano affrontare il problema della disoccupazione giovanile nei paesi più periferici». Lavoce.info, 27 maggio 2014 (m.p.r.)
Squilibri e spinte migratorie. Se si pensa all’Unione Europea come a un unico paese e si guarda alla diseguaglianza dei redditi, concentrandosi in particolare sui giovani, si comprendono bene le ragioni che stanno dietro alla vittoria dei movimenti populisti alle elezioni europee. L’indice più comune per misurare la diseguaglianza, il coefficiente di Gini, tra i redditi delle famiglie con capofamiglia di meno di 30 anni è cresciuto marcatamente in tutto il periodo della grande recessione e della crisi del debito dell’Eurozona. È passato dal 28,5 per cento nel 2007 al 31,5 per cento nel 2011: un aumento del 10 per cento. E il rapporto “primi dieci-ultimi dieci” è aumentato in maniera simile, da 4 a 5: significa che il reddito medio nel decile più alto nella distribuzione è ora cinque volte maggiore del reddito medio nel decile più basso. L’aumento della disuguaglianza tra i giovani non è dovuto, come per gli altri gruppi d’età, a una concentrazione nella parte più alta della scala dei redditi, con alcune persone molto ricche che aumentano la loro distanza dal resto della popolazione. I giovani, che già all’inizio della crisi erano sottorappresentati nella parte più alta della distribuzione del reddito, sono oggi una percentuale ancora minore rispetto agli altri gruppi di età.
La diseguaglianza dei redditi è aumentata principalmente a causa delle differenze nei livelli di disoccupazione giovanile. In Grecia e Spagna i tassi di disoccupazione in quella fascia sono oltre il 50 per cento, in Italia sopra il 40 per cento, mentre in Austria e Germania sono sotto la doppia cifra. È significativo che sia l’aumento della diseguaglianza dei redditi sia l’aumento delle differenze nei tassi di disoccupazione giovanile tra le diverse aree dell’Unione Europea abbiano una dimensione marcatamente nazionale: la diseguaglianza tra paesi è quasi raddoppiata, mentre all’interno dei paesi la crescita delle diseguaglianze è stata molto più contenuta; nel caso dei tassi di disoccupazione, la variazione inter-regionale all’interno di ogni paese si è dimezzata, mentre la differenza tra paesi è aumentata di due volte e mezzo.

Populismi del nord e populismi del sud. Perché tutto questo è importante per capire la vittoria del populismo alle elezioni europee? I giovani sono la componente più mobile della popolazione e sperimentare la disoccupazione così presto, quasi all’inizio della loro vita lavorativa, lascia cicatrici profonde. Quelli che vivono nei paesi con un’alta disoccupazione (il cosiddetto ClubMed, incluso il Portogallo) hanno solo due opzioni: exit or voice - andarsene via o “farsi sentire”. Londra e Berlino sono state inondate da giovani italiani e spagnoli. E ancora di più da giovani bulgari o rumeni che hanno lasciato l’Italia o la Spagna per cercare lavoro altrove. L’alternativa è farsi sentire e i movimenti populisti del Sud Europa tendono a consentire ai giovani proprio quel tipo diprotesta radicale contro le istituzioni europee e l’euro che più apprezzano. Il profilo di età dei voti di Tsipras in Grecia, del movimento di Grillo in Italia, di Podemos in Spagna e del Front National in Francia è molto ben definito: in molte circoscrizioni, questi movimenti sono il primo partito tra coloro che hanno meno di 30 anni.

L’altro lato della medaglia è il populismo del Nord Europa, che somiglia molto a una collezione di sentimenti anti-immigrazione. L’Ukip ha fatto la sua campagna contro il flusso di cittadini europei, chiedendo lo smantellamento della libera mobilità dei lavoratori, uno dei pilastri dell’Unione Europea fin dal trattato di Roma. E non sorprende che il profilo di età sia, in questo caso, speculare rispetto al populismo del Sud: quasi il 90 per cento dei sostenitori di Nigel Farage ha più di 40 anni, 3 sostenitori del People’s Party danese su 4 hanno più di 50 anni e il FPÖ austriaco ha percentuali doppie tra gli ultra cinquantenni. La concentrazione all’altro capo dello spettro di età nel populismo del Nord è dovuta al fatto che i lavoratori più anziani rappresentano le componenti meno mobili della popolazione ed è quindi probabile che soffrano di più per la competizione dei giovani lavoratori che arrivano da altre parti dell’Unione.
Come spendere meglio le risorse. Se l’analisi è corretta, ne consegue che sarà difficile per i movimenti populisti europei coordinare i loro voti utilizzando la grande fetta di seggi che si sono guadagnati nel Parlamento europeo. Ma ci sono lezioni ancora più importanti da imparare riguardo al futuro dell’Europa. A meno che non si faccia qualcosa per affrontare il problema delle diseguaglianze tra paesi e della disoccupazione giovanile, questa tendenza proseguirà e porterà con sé, al Nord, tensioni per l’immigrazione e, al Sud, fuga di cervelli ed euroscetticismo. Non è una prospettiva positiva per l’integrazione: è poco probabile che così si promuova un’identità europea, qualunque essa sia. I politici tedeschi conoscono molto bene la questione, dal momento che l’hanno dovuta affrontare dopo l’unificazione della Germania, spendendo molto per prevenire la migrazione da Est a Ovest. Fortunatamente, in questo caso, non c’è bisogno dei massicci trasferimenti fiscali registrati dall’Ovest verso l’Est dopo la caduta del Muro di Berlino. Sarebbe sufficiente prestare più attenzione allo sviluppo nelle economie più periferiche quando si prendono decisioni di politica monetaria, partendo col pianificare una svalutazione dell’euro rispetto al dollaro.
Allo stesso tempo, il bilancio europeo dovrebbe essere usato meglio per affrontare i problemi legati alla disoccupazione giovanile. Oltre a essere troppo contenuta (6 miliardi di euro, ovvero, circa 400 euro per giovane disoccupato all’anno), l’Iniziativa europea per l’occupazione giovanile si dà obiettivi sbagliati e coinvolge attori sbagliati: si propone di avviare al lavoro i giovani nei paesi in cui non ci sono posti disponibili per loro; inoltre, trasferisce denaro dal bilancio europeo direttamente alle regioni povere, saltando le giurisdizioni nazionali, mentre l’aumento della disoccupazione giovanile ha una dimensione marcatamente nazionale. Il risultato sono programmi regionali co-finanziati dall’Ue che, per contrastare la disoccupazione giovanile, si affidano a una grande varietà di progetti di piccola portata e di durata limitata. Vi rientrano molti corsi di formazione più adatti ad arricchire chi tiene il corso (spesso con curricula limitati, come quelli per estetista) che ad aiutare effettivamente coloro che dovrebbero beneficiare della formazione.
Nell’ambito dell’iniziativa non c’è spazio, invece, per le riduzioni fiscali permanenti e i sussidi salariali che promuoverebbero la domanda di lavoro per i più giovani nei paesi con un alto tasso di disoccupazione. Insomma, si ripetono esattamente gli stessi errori compiuti nell’allocazione dei fondi strutturali: spesso i governi locali non sanno che fare di questi soldi e finiscono o per non spenderli (la stessa efficiente amministrazione tedesca utilizza non più del 60 per cento delle allocazioni dei fondi strutturali) o per disperderli in una miriade di piccoli progetti, i cui costi di gestione superano frequentemente il 50 per cento del budget di ciascun singolo progetto.
Con le regole attuali, alle nazioni in crisi converrebbe arrivare a un accordo di “zero a zero”: non contribuire in alcun modo al bilancio Ue e non riceverne nulla in cambio. Ma se chi più ha bisogno di sostegno sotto i colpi di crisi asimmetriche ricava un maggior beneficio chiamandosi fuori dal fondo comune, è evidente che quel fondo comune non ha ragione di esistere sotto il profilo della condivisione del rischio e del mutuo soccorso. L’Iniziativa europea per l’occupazione giovanile dovrebbe quindi essere riconsiderata, consentendo il finanziamento di programmi nazionali per la creazione di posti di lavoro nei paesi con un’alta disoccupazione giovanile, mentre i fondi strutturali dovrebbero trasformarsi in strumenti per sostenere quelle riforme strutturali che incrementino la convergenza economica all’interno dell’Unione. Dovrebbero essere fondi per compensare gli svantaggi della liberalizzazione economica secondo la filosofia dei Contractual Arrangements, oltre che per assorbire gli shock. Oggi non ci sono le basi per un ampliamento del bilancio dell’Ue, ma possiamo iniziare a spendere meglio il denaro a disposizione.

Europee 2014. Il record elettorale del Pd non è una vittoria sul populismo, Renzi non è meno populista di Grillo. E i voti per Syriza sono una spinta per coltivare il nucleo nascente di un’alternativa».

Il manifesto, 28 maggio 2014

La ridu­zione della com­pe­ti­zione per le ele­zioni euro­pee a un match fron­tale tra due icone vuote di con­te­nuti quanto piene di inva­dente pre­sen­zia­li­smo ha pre­miato Renzi e punito Grillo. Ma a per­dere sono stati gli ita­liani o, meglio, ha perso la demo­cra­zia. Per­ché la riforma elet­to­rale, quella del Senato o l’abolizione delle Pro­vince volute da Renzi non fanno che ridurne pro­gres­si­va­mente il campo di applicazione.

Ha perso il plu­ra­li­smo: ora c’è un uomo solo al comando di un par­tito, del governo, arbi­tro, anche, dei destini dello Stato; e gli altri par­titi, satel­liti o com­pri­mari, sono in via di spa­ri­zione, né hanno molte ragioni per con­ti­nuare ad esi­stere. E ha perso, ren­dendo sem­pre meno sin­da­ca­bili le scelte del “pre­mier”, la pro­spet­tiva di un vero cam­bia­mento: il qua­dro euro­peo in cui il Pd si inse­ri­sce e di cui sarà un garante non con­sente cambi di rotta. E con tutte que­ste cose hanno perso i lavo­ra­tori, i disoc­cu­pati, i gio­vani, i pen­sio­nati; anche, e forse soprat­tutto, quelli che lo hanno votato.

Ma non si tratta, come sosten­gono molti com­men­ta­tori, di una vit­to­ria sul populismo. Renzi non è meno popu­li­sta di Grillo se per popu­li­smo si intende un richiamo iden­ti­ta­rio (le “riforme”, pre­sen­tate come inter­vento sal­vi­fico, senza spe­ci­fi­carne il con­te­nuto, e la “rot­ta­ma­zione” pre­sen­tata come pro­gramma) che fa aggio sui con­te­nuti spe­ci­fici delle misure pro­po­ste. Il pro­gramma di Grillo, se si eccet­tua la sua ambi­va­lenza di fondo sull’euro, che è ambi­va­lenza sul ruolo che può e deve avere l’Europa nel deter­mi­nare un cam­bio di rotta per tutti, era addi­rit­tura più con­creto di quello con cui Renzi ha affron­tato que­sta sca­denza elet­to­rale. Entrambi comun­que ave­vano gli occhi pun­tati sugli equi­li­bri interni al pol­laio ita­liano; la resa dei conti con le poli­ti­che euro­pee l’avevano riman­data a un inde­ter­mi­nato domani: euro­bond o uscita dall’euro per uno; ridi­scus­sione dei mar­gini del defi­cit per l’altro; nes­suno dei due sem­bra ren­dersi conto che la crisi euro­pea impone una revi­sione radi­cale del qua­dro isti­tu­zio­nale e delle stra­te­gie poli­ti­che, prima ancora che economiche.

Non è stata nem­meno, quindi, una vit­to­ria dell’europeismo con­tro l’antieuropeismo: se per Grillo il pro­blema è ine­si­stente — la sua “indi­pen­denza” da tutto e da tutti gli impe­di­sce di avere alleati e pro­spet­tive che vadano al di là delle Alpi e dei mari di casa, per Renzi è l’assoluta subal­ter­nità al patto tra Schulz e Mer­kel, ormai rati­fi­cato dall’esito elet­to­rale anche in Europa, che gli impe­di­sce di avere, se non a parole — ma di parole la sua poli­tica non manca mai — una visione delle misure, delle stra­te­gie e delle con­se­guenze di una vera rimessa in discus­sione dell’austerità. Quell’austerità che l’Europa la sta disin­te­grando (e i primi a pagarne le con­se­guenze saremo noi).

Meno che mai quella di Renzi è stata una vit­to­ria della spe­ranza con­tro il ran­core. Se nell’ultimo anno il Movi­mento 5S ha dato prova della sua sostan­ziale incon­clu­denza, dovuta al con­trollo fer­reo che i suoi due lea­der pre­ten­dono di eser­ci­tare sui qua­dri e sui par­la­men­tari, la moti­va­zione di fondo del voto a Renzi è stata un clima da “ultima spiag­gia”. Para­digma di que­sto atteg­gia­mento sono gli edi­to­riali su la Repub­blica di Euge­nio Scal­fari, che non approva pra­ti­ca­mente alcuna delle misure varate da Renzi e meno che mai i suoi pro­getti, ma che invita a votarlo lo stesso per­ché “non c’è alternativa”.

Così, se con que­ste ele­zioni la para­bola del M5S ha imboc­cato irre­vo­ca­bil­mente una curva discen­dente, men­tre Renzi sem­bra invece sulla cre­sta dell’onda — forse rag­giunta troppo in fretta per poter con­so­li­dare una posi­zione del genere — è il vuoto di pro­spet­tive e la man­canza di una pro­po­sta di respiro stra­te­gico per rifor­mare l’Europa a con­dan­narlo a sgon­fiarsi altret­tanto rapi­da­mente. Il che suc­ce­derà ine­vi­ta­bil­mente — pen­sate alla para­bola di Monti! — non appena Renzi dovrà fare i conti con quella gover­nance che forse imma­gina di riu­scire a con­qui­stare con la stessa faci­lità, super­fi­cia­lità e disin­vol­tura con cui si è impa­dro­nito, gli uni dopo le altre, di pri­ma­rie, par­tito, governo ed elet­to­rato. Ma là, invece, c’è la “scorza dura” dell’alta finanza che Renzi non si è mai nem­meno sognato di voler intac­care, ma che non è certo dispo­sta a con­ce­der­gli qual­cosa che vada al di là di un soste­gno for­male e sim­bo­lico (un po’ di spread in meno, forse; e solo per un po’).

Ma come Grillo sta lasciando die­tro di sé, in modo forse irre­ver­si­bile, per­ché non facile da pro­sciu­gare, un mare di mace­rie (la poli­tica tra­sfor­mata in per­nac­chia, come Ber­lu­sconi l’aveva, prima di lui, e apren­do­gli la strada, tra­sfor­mata in bar­zel­letta e licenza), così anche Renzi lascerà die­tro la sua pros­sima quanto ine­vi­ta­bile para­bola, altri danni irre­ver­si­bili. Danni alla demo­cra­zia e alla costi­tu­zione; al diritto del lavoro e alle con­di­zioni dei lavo­ra­tori, pre­cari e non (se ancora ce ne sono); alla scuola, alla sanità, al wel­fare, alle auto­no­mie locali (che da sin­daco non ha mai difeso dal patto di sta­bi­lità); a quel che resta della mac­china dello Stato, sman­tel­lan­done i capi­saldi in nome del rispar­mio e dell’efficienza; al sistema delle imprese e dei ser­vizi pub­blici, messi in sven­dita per fare cassa; e, soprat­tutto, danni alla tenuta morale della cit­ta­di­nanza, messa per la terza o la quarta volta alla prova di una poli­tica fon­data sulle apparenze.

"L'altra Europa con Tsipras" rappresenta un piccolo ma importante episodio di resistenza. Di fronte a que­sto pano­rama, di cui l’elettorato non potrà evi­tare di pren­dere atto in tempi stretti, i risul­tati della lista “L’altra Europa con Tsi­pras” rap­pre­sen­tano un pic­colo ma impor­tante epi­so­dio di resi­stenza; per­ché in quella lista, e in nessun’altra pro­po­sta di livello nazio­nale ed euro­peo, è con­te­nuto il nucleo di un’alternativa pos­si­bile e pra­ti­ca­bile alla per­pe­tra­zione di poli­ti­che desti­nate a por­tare allo sfa­scio l’intero con­ti­nente, Ger­ma­nia com­presa.
Cer­ta­mente i nostri numeri non sono esal­tanti, anche se lo sono quelli di alcuni dei nostri part­ner euro­pei. Però sono il frutto di un lavoro di con­qui­sta, voto per voto, con­senso per con­senso, impe­gno per impe­gno, che ha coin­volto migliaia di com­pa­gni e di soste­ni­tori delle più diverse pro­ve­nienze, che non ave­vano certo come obiet­tivo finale o esclu­sivo il risul­tato elet­to­rale. Ma che pro­prio spe­ri­men­tando, almeno in parte, e non senza molte con­trad­di­zioni, forme nuove, o pro­fon­da­mente rin­no­vate, di con­di­vi­sione e di coe­sione, fon­date su nuove pra­ti­che, sono ben deter­mi­nati ad andare avanti lungo la strada appena intra­presa. E non cia­scuno per conto suo, o facendo ricorso alle pro­prie appar­te­nenze, ma tutti insieme, apren­dosi a quel mondo di delusi, di arrab­biati, di abban­do­nati, di incerti che la crisi del M5S e il muta­mento antro­po­lo­gico del Par­tito Demo­cra­tico si stanno lasciando, e con­ti­nue­ranno a lasciarsi, die­tro le spalle.

In que­sta pic­cola affer­ma­zione i voti di pre­fe­renza rac­colti da due capo­li­sta come Bar­bara Spi­nelli e Moni Ova­dia, che hanno messo il loro nome, la loro fac­cia e un mare di fatica a dispo­si­zione del pro­getto per rap­pre­sen­tarne il carat­tere uni­ta­rio, sono una impor­tante dimo­stra­zione di quella spinta a un radi­cale rin­no­va­mento delle pro­prie iden­tità che fin dall’inizio è stata la cifra della nostra intrapresa.

In pochi anni, sotto la guida di Ale­xis Tsi­pras, Syriza, da pic­cola aggre­ga­zione di iden­tità dif­fe­renti si è fatta par­tito di governo. Dun­que, si può fare. Se abbiamo messo quel nome nel sim­bolo della nostra lista non è per caso.

Il trionfo ren­ziano è una sfida per la sini­stra di Tsi­pras. Dopo aver vinto la scom­messa euro­pea con i par­la­men­tari ita­liani eletti a Stra­sburgo, ora le persone che in pochi mesi hanno creato que­sta espe­rienza poli­tica «dovranno capire come col­lo­carsi nell’inedito sce­na­rio ita­liano».

Il manifesto, 27 maggio 2014, con postilla

I poveri son­dag­gi­sti anche que­sta volta ave­vano imma­gi­nato un altro mondo (l’astensione a valanga, il testa a testa tra Renzi e Grillo…), ma a par­ziale discolpa della loro inaf­fi­da­bi­lità biso­gna dire che sono stati som­mersi, più che dal ridi­colo, da una vera e pro­pria onda ano­mala, apparsa a una certa ora della notte accanto alla casella del Pd: 40,8%. Quando un par­tito in un anno quasi rad­dop­pia c’è molto da capire ma una cosa è chiara: siamo di fronte a un risul­tato elet­to­rale che cam­bia i con­no­tati a tutto il sistema politico.

Il primo e unico rife­ri­mento sto­rico del nuovo par­tito piglia­tutto è la balena bianca demo­cri­stiana, capace di salire così in alto da con­te­nere tutto l’arco costi­tu­zio­nale, dalle sini­stre dei Bodrato e dei Gra­nelli alle destre dei For­lani e degli Andreotti. Que­sto Pd ha ingo­iato in un solo boc­cone il 10% dei mon­tiani con annessi cespu­gli (da Casini in giù) insieme a bran­delli ber­lu­sco­niani, por­tan­doli nella stessa casa dei Fas­sina e dei Civati. Poi, come nella più col­lau­data tra­di­zione demo­cri­stiana, ha messo nelle tasche di dieci milioni di ita­liani 80 euro, biglietto da visita reca­pi­tato il venerdì per la messa elet­to­rale della domenica.

In realtà que­sta feb­bre a 40 rea­lizza la famosa voca­zione mag­gio­ri­ta­ria di Vel­troni, con ex dc e ex pci nucleo cen­trale di un tra­sver­sa­li­smo desti­nato a pro­durre una muta­zione gene­tica. Ha la feb­bre alta il paese che, dopo Ber­lu­sconi, dopo Grillo con­ferma l’anomalia ita­liana affi­dan­dosi al lea­der vin­cente, alla sta­bi­lità di governo.

Da oggi abbiamo davanti una sfida per tutti. A comin­ciare dall’uomo solo al comando che deve gover­nare tenen­dosi in equi­li­brio sull’imponente onda ano­mala che egli stesso ha sol­le­vato, dimo­strando di saper gestire un sostan­ziale mono­co­lore: la cura pre­vede le riforme costi­tu­zio­nali di stampo pre­si­den­zia­li­sta, i sin­da­cati al tap­peto con l’imposizione del lavoro pre­ca­rio per tutti. Da domani Renzi non potrà più tirarsi fuori dai disa­stri del paese adde­bi­tan­doli ai suoi rot­ta­mati pre­de­ces­sori.

Il popu­li­smo di governo ha pagato più del popu­li­smo di oppo­si­zione, e dun­que è una sfida anche per Grillo. L’ex comico ha lavo­rato per il nemico pro­vo­cando la rea­zione del “voto utile” con­tro le urla e gli insulti. Molti, a sini­stra, pre­oc­cu­pati di disper­dere il voto, si sono turati il naso e hanno votato Pd per scam­pare un peri­colo mag­giore. Grillo deve sce­gliere se con­ti­nuare a invo­care impro­ba­bili caro­selli intorno al Qui­ri­nale, se insi­stere con la poli­tica del “vaffa” o tra­ghet­tare i sei milioni di voti (un poten­ziale gran­dis­simo) in una stra­te­gia par­la­men­tare capace di tra­sfor­mare la forza elet­to­rale in alleanze, bat­ta­glie e obiet­tivi con­creti. In Ita­lia come in Europa.

Il trionfo ren­ziano è, infine, una sfida per la sini­stra di Tsi­pras. Dopo aver vinto la scom­messa euro­pea con i tre par­la­men­tari ita­liani eletti a Stra­sburgo, ora le donne e gli uomini che in pochi mesi hanno creato que­sta espe­rienza poli­tica dovranno capire come col­lo­carsi nell’inedito sce­na­rio ita­liano.
L’analisi del voto rileva un poten­ziale molto al di là della sof­ferta soglia del 4% (il 5 a Palermo, l’8 a Bolo­gna, il 6 a Roma il 9 a Firenze), testi­mo­niato anche dal con­senso ai can­di­dati (molti i gio­vani) e ai capi­li­sta. Senza mara­tone tele­vi­sive, forti del pre­sti­gio per­so­nale e delle lotte sul ter­ri­to­rio hanno oltre­pas­sato le 30 mila pre­fe­renze. Vin­cere con­tro­cor­rente è un buon segno.

postilla

L'autrice afferma che le donne e gli uomini della lista di Tsipras «dovranno capire come collocarsi nell’inedito scenario italiano». Mi sembra che molti elementi della scelta siano già chiari. Quelle donne e quegli uomini si collocano a sinistra, dalla parte della maggioranza del popolo, quella che paga il prezzo maggiore a causa delle scelte funeste dei governi degli stati europei, e della stessa loro espressione sovranazionale: quelli che non hanno trovato lavoro o l'hanno perduto, quelli cui è stato ridotto l'accesso al welfare o al godimento della pensione. Si collocano dalla parte di quella miriade di associazioni, comitati, gruppi di cittadini che si sono uniti in mille avventure di difesa di beni comuni, a livello locale o associati in reti a livello nazionale o sovranazionale, che hanno imparato a denunciare, protestare e proporre insieme per una città più equa e più bella. Si collocano sulle posizioni di una sinistra radicale, nel senso che vuole andare alla radice delle cose per combattere le cause di fondo che hanno generato la crisi del sistema e la sofferenza dei più: una posizione, quindi, anticapitalista particolarmente contraria alla forma attuale che il sistema capitalistico ha assunto: il "finanzcapitalismo". Sono chiare anche le proposte precise che quelle donne e quegli uomini hanno sostenuto sia quelle per le cose da fare con conseguenza più vicine nel tempo che in quelle in prospettiva. Sarebbero note a tutti se i media avessero fatto il loro lavoro e non si fossero appiattiti sulle esigenze del Palazzo e su quelle della "pronta cassa" e avessero dato spazio alla presentazione e alla discussione dei programmi.
Molte cose, però, bisogna ancora sceglierle, e alcune contraddizioni superate, se si vuole dare un futuro all'esperienza della lista Tsipras.
Intanto, bisognerebbe porsi alcune domande. Come mai il voto ottenuto dalla lista Tsipras è inferiore alla somma dei voti ottenuti in precedenza dai due partiti che erano entrati, insieme ai gruppi di cittadini, a sostegno della lista? Come mai così pochi voti sono venuti dal bacino costituito dai voti espressi in occasione dei referendum in difesa dei beni comuni e delle mille battaglie locali o su singoli temi? Che ruolo ha svolto la presenza di PRC e SEL nella lista, che da una parte ha fatto prevalere in molti potenziali elettori lo spirito dell'"antipolitica", dall'altro lato ha portato alla lista un contributo d'impegno personale e organizzativo senza il quale non si sarebbe raggiunto nemmeno il numero di firme necessario per la presentazione della lista? Che peso ha avuto, sull'altro versante, la difficoltà dei movimenti di superare il carattere meramente locale o settoriale della singola iniziativa per cogliere il nesso tra le diverse questioni, e comprendere che i mille anelli che imprigionano la possibilità di una società migliore sono parte di una sola catena, e quindi possono essere affrontati solo con una visione (e un'organizzazione) politica dei problemi?
Per rispondere a queste domande occorre certamente riferirsi al quadro generale: al perché del trionfo di Matteo Renzi e della sua conchiglia, il PD, e al perché del fallimento della formazione che ha dato voce più matura e ampia alla protesta (nonché dell’aberrazione rappresentata dall’ancora cospicuo numero di italiani che vota per il reo di evasione fiscale plurimiliardaria). E bisogna poi domandarsi in che modo superare quella che è senza dubbio la causa prima dei limiti della vittoria della lista Tsipras: il tradimento dei media, il silenzio gettato sulle proposte, e sulla stessa esistenza della lista Tsipras. Il peso di questo tradimento è testimoniato dal vistosissimo divario tra i voti ottenuti dalla lista nelle città, dove funziona la comunicazione tradizionale, e quelli raccolti nel resto del territorio, dove l’unica voce è la grande stampa e la televisione. Ecco alcuni esempi: nel Veneto, 2,7 %, a Venezia, 5,83%, Padova 5,62%, Vicenza 4,62; Emilia-Romagna 4,07%, Bologna 8,89%; Trentino-AA 6,66%, Bolzano 8,92%; Friuli-VG 3,70%, Trieste 5,95%; Lombardia 4,93%, Milano 6,48%, Toscana 5,12%, Firenze 8,91% Lazio 4,68 %, Roma 6,16%; Campania 3,80%, Napoli 5,67%. Ma sarebbe interessante fare un'analisi seria della distribuzione territoriale dei voti. Da essa risulterebbe comunque con evidenza che la prima domanda nella quale dovrebbe rispondere chi volesse proseguire l'esperienza della lista Tsipras è: come attrezzarsi per superare il deficit d'informazione: dando per scontato il tradimento dei media (salvo recupero quando si sarà sconfitta l'egemonia del neoliberismo). La discussione è aperta. (e.s.)

«». Idominjanni.com

L’Europa esce dalle urne ferita e trasformata. Ferita, perché per quanto non abbiano sfondato le forze antieuropee hanno avuto risultati tutt’altro che trascurabili e in Francia, Gran Bretagna e Ungheria esplosivi. Trasformata, perché l’equilibrio fra stati (l’asse franco-tedesco) e fra partiti (le due grandi famiglie dei socialisti e dei popolari europei) non c’è più. Per quanto Angela Merkel, la custode dell’Europa neoliberale, austera e avara, incassi l’ennesima conferma della sua politica in casa, la soluzione di una grande coalizione che prosegua a livello continentale le dissennate politiche degli ultimi anni che hanno portato molte popolazioni europee alla disperazione è tutt’altro che scontata. Altre maggioranze sono possibili, e in ogni caso le forze portatrici della continuità non potranno non fare i conti non più con gli umori, ma con i numeri che esprimono una rivolta diffusa contro l’Unione che abbiamo sperimentato finora e una forte e allarmante istanza dal basso di ritorno alla sovranità popolare, la bandiera non a caso più fortemente agitata nell’immediatezza dei risultati da Marina Le Pen.

Il vento della trasformazione non spira però solo da destra, o dalle formazioni trasversali cosiddette populiste. Spira da sinistra, anzi nella sinistra, perché i risultati penalizzano ciò che resta della tradizione socialista novecentesca e fanno spazio a due sinistre nuove e diverse se non opposte fra loro, emblematicamente raffigurate dal partito di Renzi in Italia e da Syriza in Grecia, che rappresentano due uscite diverse dalla crisi, due visioni diverse della società, due ipotesi opposte di ricostruzione della sinistra post-novecentesca. Il trionfo di Renzi, che ne fa in primo luogo il leader più forte del fronte ”progressista” in Europa e lo carica di un potere e di una responsabilità insperati nel semestre europeo, va valutato in questo quadro di trasformazione della sinistra continentale.

La domanda cruciale, e qui dal contesto europeo scivoliamo in quello italiano, è se questo trionfo si debba a un sinistra che si risveglia dopo il ventennio berlusconiano o a una sinistra che in tanto finalmente sfonda in quanto ne incorpora gli elementi portanti. Non solo, va sottolineato, l’abilità comunicativa dell’attuale premier, mutuata dal precedente. Bensì molti e cruciali contenuti, dalla torsione populistico-plebiscitaria della democrazia al disegno di riforma costituzionale, dalla concezione del lavoro, dell’autoimprenditorialità e della flessibilità a quella della rottamazione del settore pubblico, secondo la versione lievemente corretta delle politiche neoliberali del ventennio passato sostenuta dal segretario del Pd. E’ la continuità nella discontinuità che l’elettorato italiano – un elettorato evidentemente molto trasversale – ha premiato, sostituendo nel suo immaginario la narrativa dell’ex sindaco di Firenze a quella ormai usurata dell’ex cavaliere di Arcore.

Il trionfo di Renzi tuttavia è di tale entità da mettere in difficoltà i suoi più accesi sostenitori, e non solo perché il risultato fa piazza pulita del ”duello” con Grillo montato dai media e smontato dalle urne. Ma perché il problema vero è quello della configurazione che il sistema politico prenderà. L’avvento di Renzi, e l’accordo del Nazareno fra Renzi e Berlusconi, era stato salutato dai più come garanzia di ricostituzione di un bipolarismo di cui Berlusconi era stato creatore e garante , e di cui col declino di Berlusconi avrebbe dovuto diventare perno e garante il ”conquistatore” del Pd. Una prospettiva tranquillizzante, di sostanziale continuità con la cosiddetta seconda Repubblica, assunta come premessa dai due stessi contraenti del patto del Nazareno sulle riforme e sulla legge elettorale. Non era tuttavia imprevedibile – mi ero permessa di segnalarlo in un seminario Crs sulle riforme - prima che la sondaggistica preelettorale, sbagliando clamorosamente, inchiodasse la gara sul match Renzi-Grillo - che si stesse delineando tutt’altro scenario, con un Pd pigliatutto saldamente piazzato al centro del sistema politico, a vocazione più totalitaria (uso questo termine depurandolo dai suoi connotati tragici novecenteschi) che maggioritaria, un partito-Stato senza nessuna alternanza bipolarista e nessuna necessità coalizionale all’orizzonte. Si parla adesso, per questo, di nuova Dc, ma è bene sapere che il Pd non è la Dc, è un animale nuovo figlio della seconda repubblica e non della prima, della società forgiata dal berlusconismo e non di quella plasmata dal dopoguerra. L’effetto di ritorno segnala al contempo quanto sia stata fragile la costruzione della seconda repubblica sul piano istituzionale, e quanto sia stata forte sul piano della trasformazione antropologica, sociale e delle identità politiche. Sono i miracoli delle rivoluzioni passive, che restanopd come a un partito « la caratteristica più singolare di questo singolare paese.

Postilla
De animalia: coccodrilli e paguri

All'articolo molto equilibrato di Dominijanni vorrei aggiungere due osservazioni. (1) La responsabilità dei media nel ridurre le elezioni per il Parlamento europeo al duello Renzi/Grillo è enorme, e i giornalisti della carta e quelli dell'etere diventano coccodrilli quando, post factum, lagrimano perchè non si è parlato di problemi e di proposte. (2) Ha ragione Dominijanni quando parla del Pd come a un partito «a vocazione più totalitaria che maggioritaria». Una "parte" che pretende di divenire “tutto“ è il contrario della democrazia. Ciò che mi stupisce e addolora è che Renzi (a differenza dei paguri) non s'è impadronito di un guscio vuoto per portarlo nella direzione diversa da quella del suo abitatore, ma d'un corpo vivente, benchè ammaccato. E nessuna porzione di quel corpo se n'è accorto, talché tutti viaggiano felici nel verso opposto a quello della loro storia. Mi dispiace. (e.s.)

L'Espresso, 26 maggio 2014
«Siamo al Parlamento europeo!». L'urlo, soffocato per troppe ore, arriva alle sei e mezza del mattino, quando finalmente i dati del Viminale permettono ai coordinatori, ai candidati e agli attivisti della lista Tsipras di andare a dormire. Quel 4,03 per cento comunicato da ministero degli Interni quando mancano un centinaio di sezioni su oltre 61 mila consente alla sinistra radicale di mettere fine con un sorriso a una lunga notte di speranza e paura trascorsa nel quartier generale scelto per aspettare i risultati, un locale del quartiere San Lorenzo di Roma subito sotto la tangenziale.

Quattro virgola zero tre: al fotofinish, insomma. E il risultato minimo accettabile per una lista che era partita con ambizioni più alte (a febbraio Spinelli aveva indicato come obiettivo il sette per cento) ma che dopo una travagliatissima campagna elettorale gli istituti di ricerca davano tutti, negli ultimi sondaggi, sotto la soglia necessaria per andare a Bruxelles.

Per tutta la notte gli exit polls e le proiezioni vedevano la lista Tsipras ballare attorno al 4. Attorno all'una però nella sala di San Lorenzo ha iniziato a diffondersi un certo ottimismo per le telefonate dei rappresentanti di lista, che fornivano cifre non statisticamente valide ma tutte positive sull'andamenti nelle varie sezioni. Poco dopo le due Barbara Spinelli ha lasciato la sede elettorale con un sorriso («Siamo contenti, ci sentiamo domattina») e così ha fatto anche Moni Ovadia. Ancora alle cinque del mattino però il responsabile della lista Massimo Torelli scriveva su Facebook un cautissimo «Aspettiamo». Un'ora dopo, era con Marco Revelli e Argiris Panagopoulos (l'uomo di Tsipras in Italia) a festeggiare con cappuccio e cornetto al bar lì accanto, che aveva appena aperto.

In termini assoluti, la lista Tsipras ha conquistato poco più di un milione e centomila voti, sesto partito dopo i tre più grossi (Pd, M5s e Fi), Lega e Nuovo Centro Destra. A questo punto dovrebbe portare a Bruxelles tre eurodeputati. Data l'annunciata rinuncia dei “candidati di testimonianza” come Spinelli e Ovadia, al centro potrebbe entrare uno tra Marco Furfaro e Fabio Amato: il primo di Sel, il secondo di Rifondazione. A riprova che anche in una lista della “società civile autonoma dai partiti” (com'era stata battezzata alla nascita) al momento delle preferenze prevalgono le strutture organizzate. Notevole però anche il risultato al sud del giovane Claudio Riccio, espressione dei movimenti studenteschi nati al tempo della riforma Gelmini e animatori del gruppo “Quaderni Corsari”, che avrebbe avuto quasi 17 mila voti personali.

«Senza soldi, senza struttura, senza organizzazione, con molti ostacoli anche di natura interna, abbiamo fatto l'impresa», dice Lorenzo Zamponi, giovane della rete dei movimenti che è stato tra i più attivi nelle settimane precedenti il voto: «Abbiamo sfondato il muro del silenzio mediatico e riportato la sinistra italiana nel Parlamento Europeo. Nelle prossime ore, con calma, discuteremo del resto. Per ora, l'importante è aver compiuto ciò che sembrava impossibile, tenendo aperto lo spazio dell'alternativa. Come riempirlo, poi, lo vedremo. Preferibilmente, almeno secondo me, dal basso, con un processo di reale partecipazione e coinvolgimento delle persone».

Il risultato positivo, seppur per il rotto della cuffia, è insomma considerato un passo indispensabile per la costruzione della 'cosa rossa': un'area unitaria a sinistra del Pd, inseguendo il sogno di Syriza che è passato da pochi punti percentuali a diventare il primo partito della Grecia attraverso un lungo percorso di radicamento sociale. All'interno della lista italiana la forza numericamente più significativa, Sinistra ecologia e Libertà, da tempo è divisa in due anime: una che guarda verso il Pd e l'altra che invece tende appunto al modello greco di Syriza. Il risultato delle europee, seppur risicato, è una vittoria per questa componente.

Alla lista Tsipras, nata da un appello di sei intellettuali di cui la Spinelli era capofila, hanno aderito Sinistra Ecologia e Libertà e Rifondazione. Sostegno alla lista è arrivato tra l'altro dall'ex presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, dal giurista Stefano Rodotà, dal fondatore di Emergency Gino Strada, dallo scrittore Aldo Nove, dall’ex direttore di Italia1 e di Raidue Carlo Freccero.

L'anno scorso, alle politiche, la sinistra radicale nel suo complesso aveva preso il 5,4 per cento, ma in un contesto completamente diverso: Sel infatti era in coalizione con il Pd e in questa veste aveva ottenuto il 3,3, mentre Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia si era fermata al 2,2. A Rivoluzione Civile tuttavia avevano aderito nel 2013 anche l'Italia dei Valori e i Verdi, che a questo turno si sono invece presentati in liste autonome con il proprio simbolo (restando largamente al di sotto dello sbarramento).

Intervista al sociologo Gallino: Renzi è un grande spot, ma il voto può cambiare l’Europa. La precarietà, il trattato segreto con gli Usa, l’austerity: ecco di cosa non si è parlato in questa campagna elettorale.

Il manifesto, 25 maggio 2014
Una cam­pa­gna elet­to­rale in cui «è stato fatto il pos­si­bile per tra­sfor­mare il voto euro­peo in un voto sui par­titi. I veri temi in que­stione? Assenti». Al pro­fes­sore Luciano Gal­lino, socio­logo del lavoro e tra i pro­mo­tori della lista l’Altra Europa con Tsi­pras, il modo in cui i grandi par­titi e i media hanno affron­tato il voto euro­peo è sba­gliato: «Potrebbe essere un’elezione che si svolge in Austra­lia o in Gua­te­mala: i tre prin­ci­pali par­titi sgo­mi­tano solo in vista del dopo».

Una ragione può essere che per le due grandi fami­glie, Pse e Ppe, le lar­ghe intese sono un esito scontato?
Comun­que non giu­sti­fica l’omissione. Fac­cio un esem­pio: la Com­mis­sione Euro­pea da un anno con­duce trat­ta­tive segrete con gli Stati Uniti per sta­bi­lire un par­te­na­riato sugli inve­sti­menti nel com­mer­cio, il Ttip (il Tran­sa­tlan­tic trade and invest­ment part­ner­ship, ndr). È un dispo­si­tivo che pre­senta rischi colos­sali per i diritti dei lavo­ra­tori, per la sicu­rezza ali­men­tare, per la pro­prietà intel­let­tuale. E i com­mis­sari lo sanno bene, tant’è che si chiu­dono in segrete stanze per discu­terne. Da noi non se ne parla, in altri paesi sì. O anche: eleg­gere un pre­si­dente o un altro può fare la dif­fe­renza, dopo i cin­que anni di pre­si­denza ottu­sa­mente libe­rale di Barroso.

Il social­de­mo­cra­tico Schulz però sarebbe eletto con i voti del par­tito di Barroso.
Su alcuni temi Schulz potrebbe fare la dif­fe­renza. Certo è un espo­nente della Spd tede­sca post-Schroeder, dimis­sio­na­ria da ogni tipo di sini­stra. Il Pse si accor­derà con il Ppe, in fondo la pen­sano allo stesso modo sul trat­tato di Maa­stri­cht, che è uno sta­tuto di una cor­po­ra­tion, non un docu­mento politico.

L’Italia rispet­terà le regole del six pack e del fiscal com­pact, o non potrà farlo, come ormai ammette anche il Pd?
I dati dicono che il nostro debito pub­blico ormai è impa­ga­bile. Il Pil è sceso intorno ai 1550 miliardi, il debito è bal­zato oltre i 2mila. Per fare fronte ai requi­siti del fiscal com­pact ser­vi­rebbe desti­nare 40–50 miliardi l’anno dell’avanzo pri­ma­rio. Ma è insen­sato. Già oggi lo stato incassa circa 500 miliardi di impo­ste e tasse e ne spende intorno a 420–430. Toglierne altri 40–50 sarebbe un disa­stro per lo stato sociale e per l’amministrazione pub­blica. Le strade sono due: o, appunto, il disa­stro, ovvero che l’Italia non si ade­gua e ven­gono ero­gate ulte­riori misure puni­tive; oppure che i prin­ci­pali paesi con debito rile­vante si accor­dano per diluire o abo­lire il fiscal com­pact; o comun­que per pro­ce­dere a una ristrut­tu­ra­zione paci­fica del debito. Molto dipende dal risul­tato di que­sto voto.

È la pro­po­sta di Tsi­pras, che lei sostiene. Una con­fe­renza per can­cel­lare parte del debito, sul modello di quella di Lon­dra del ’53 che per­mise di risol­vere il debito della Ger­ma­nia. È fat­ti­bile, a suo parere?Sarebbe un primo passo con­creto. L’idea di bat­tere i pugni sul tavolo, quella di Renzi, è ridi­cola: ci vuole un certo numero di paesi, Fran­cia Spa­gna e altri, per otte­nere una la con­fe­renza. Docu­men­tando che il debito non si può pagare. Par­larne ad alto livello sarebbe già un passo avanti rispetto alla lita­nia del ’ce lo chiede l’Europa’. La Ger­ma­nia non va demo­niz­zata: ma va ricor­dato che ha tratto van­tag­gio dal fatto di non aver mai pagato i suoi debiti. Ha pagato in misura minima le ripa­ra­zioni della guerra del ’15-’18. E quanto all’enorme debito lasciato dai nazi­sti, è stato can­cel­lato dagli ame­ri­cani che hanno stam­pato miliardi di mar­chi deu­tsche mark, non più di rei­ch­smark, nel giu­gno del ’48 li hanno por­tati in Ger­ma­nia, e il giorno dopo hanno distri­buito la nuova moneta. Così si è abbat­tuto il debito pub­blico tede­sco. Sono argo­menti deli­cati, ma qual­cuno ben pre­pa­rato che li affronti avrebbe più pos­si­bi­lità di suc­cesso che non uno che si fac­cia male bat­tendo i pugni sul tavolo.

Le poli­ti­che di Renzi rispon­dono a cri­teri europei?
Agli aspetti peg­giori, però. La Troika e il Con­si­glio euro­peo da vent’anni lavo­rano per com­pri­mere le con­di­zioni di lavoro i diritti e i salari, in linea con le misure regres­sive che hanno visto alla testa i par­titi di sini­stra, social­de­mo­cra­tici tede­schi, socia­li­sti fran­cesi e labu­ri­sti bri­tan­nici. C’è un docu­mento del ’99, un pro­clama di Blair e Schroe­der, che sem­bra scritto da Con­fin­du­stria. E dice chiaro che biso­gna tagliare lo stato sociale.

Renzi segue ancora quelle vec­chie linee di dire­zione, per esem­pio sul lavoro?
La gene­ra­liz­za­zione del lavoro pre­ca­rio è già una realtà. Nes­sun governo era arri­vato a imporre spinte alla pre­ca­riz­za­zione del lavoro come è stato fatto oggi.

Ora dovrebbe arri­vare il vero cuore del job act, il con­tratto unico e la costosa riforma degli ammor­tiz­za­tori sociali.

Prima che costosa è rischiosa. La cassa inte­gra­zione ha un van­tag­gio fon­da­men­tale: man­tiene il posto di lavoro, quindi man­tiene una qual­che tito­la­rità di diritti per il lavo­ra­tore. Quello che si pro­spetta, a quanto si capi­sce, can­cel­le­rebbe que­sta minima difesa di un lavo­ra­tore. Le ricette di Renzi sono figlie di quelle di Blair, a loro volta nipoti di quelle di That­cher, e cugine di quelle di Schroe­der, per il quale la social­de­mo­cra­zia doveva smet­tere di pen­sare che i lavo­ra­tori hanno diritto a un posto fisso. Appun­tan­dosi il badge di par­titi di sini­stra hanno ridotto i salari e mol­ti­pli­cato la pre­ca­rietà. Così è l’Italia oggi. La pre­ca­rietà è ele­va­tis­sima, lo dice l’Ocse (l’organizzazione per la coo­pe­ra­zione e lo svi­luppo eco­no­mico, ndr). E porta a un impo­ve­ri­mento di tutta la strut­tura eco­no­mica. Lavo­ra­tori mal­pa­gati con­su­mano meno, la domanda aggre­gata — ricor­dava Key­nes — sof­fre. E un’azienda che deve retri­buire in modo decente e con­ti­nua­tivo i lavo­ra­tori è incen­ti­vata a fare ricerca e svi­luppo, gli altri fronti che fanno il suc­cesso di un’impresa. Invece poter usare i lavo­ra­tori con il cri­te­rio on-off, cioè quando mi servi ti uso e quando no ti butto, spinge le imprese a pun­tare solo sul costo del lavoro e tra­scu­rare il resto. I nostri impianti sono i più vec­chi d’ Europa, le spese in ricerca sono mise­rande, sul 34 paesi Ocse siamo intorno al 30esimo.

Renzi dice: ce la faremo, no ai gufi.
È uno spot pub­bli­ci­ta­rio, ma se non si affron­tano i nodi prima o poi, anzi pre­sto, il conto lo paghe­ranno i lavoratori.

Su que­sto Grillo pesca voti a piene mani.
La pro­po­sta di Grillo sul lavoro è un insieme di cose dif­fe­renti, alcune gene­ri­che e con­di­vi­si­bili, altre no. E tra i lavo­ra­tori c’è il mal­con­tento, che ovvia­mente si sfoga con­tro i sin­da­cati. È già suc­cesso con la Lega, oggi suc­cede con il M5S.

Anche Renzi prova a inter­cet­tare il mal­con­tento con­tro i sin­da­cati, attac­cando aper­ta­mente la Cgil.


lavo­ra­tori sono insof­fe­renti per quello che i sin­da­cati non hanno fatto. Ma va detto che ai sin­da­cati è stata fatta una guerra senza quar­tiere, dagli anni 80 in poi. La pre­ca­rietà, appunto: come si fa a orga­niz­zare i lavo­ra­tori in pre­senza di venti con­tratti dif­fe­renti pic­cole aziende sparse sul ter­ri­to­rio? La glo­ba­liz­za­zione ha signi­fi­cato una radi­cale tra­sfor­ma­zione nel modo di pro­durre: i mille lavo­ra­tori che sta­vano sotto lo stesso padrone con lo stesso con­tratto sono diven­tati dipen­denti di 15 aziende dif­fe­renti con con­tratti dif­fe­renti. E con un padrone che non si sa più chi sia. Di lì biso­gna par­tire per rico­struire una qual­che forma solida di sindacato.

La lista per l'altra Europa punta oggi al risultato elettorale che scaturirà dalle urne, ma le donne e gli uomini che hanno lavorato controcorrente nei mesi scorsi proiettano già il loro impegno al di là delle elezioni.

Il manifesto, 25 maggio 2014
Negli infi­niti incon­tri «di chiu­sura» di que­sta cam­pa­gna elet­to­rale, c’era sem­pre un momento in cui l’applauso scat­tava imme­diato, istin­tivo, con­vinto. Ed era quando si diceva che «non ter­mi­ne­remo il 25 mag­gio». Che l’appuntamento è già il 26, per con­ti­nuare il per­corso insieme. Per­ché sarebbe folle disper­dere il «bene comune» accu­mu­lato in que­sti due mesi di fatica e di pas­sione dalla mol­ti­tu­dine di donne e di uomini che ne hanno con­di­viso l’impegno.

Non so per gli altri. Ma nelle mie espe­rienze di ter­ri­to­rio, da un palco su una piazza o da un ban­chetto a un angolo di strada, in un tea­tro o in un sot­to­scala, l’immagine che mi porto die­tro è quella di una sini­stra che sco­pre, quasi con sor­presa, ciò che potrebbe essere, se solo riu­scisse ad andare oltre il pro­prio pas­sato pros­simo di fram­men­ta­zione, chiu­sure men­tali e ger­gali, scon­fitte. Una sorta di respiro ampio, nel senso comune delle per­sone più che nei riflessi d’organizzazione. Uno stato d’animo più che un pro­getto con­sa­pe­vole, ma forte: la sen­sa­zione di poter tor­nare a par­lare al di fuori di sé, dei pro­pri stec­cati, e di poter tro­vare ascolto, se solo la parola rie­sce a forare il muro di silen­zio media­tico, la cin­tura sani­ta­ria osses­siva e oppres­siva che ci è stata stretta intorno. E l’orgoglio di poterlo fare con in testa idee forti, cre­di­bili, ade­guate all’altezza delle sfide, gra­zie alle quali ritro­vare il rap­porto, sto­rico, che lega la sini­stra alla schiera non pic­cola dei demo­cra­tici con­se­guenti pre­oc­cu­pati per que­sta notte della democrazia.

Non sono man­cati – sarebbe sciocco negarlo – errori, inge­nuità, inef­fi­cienze, riserve men­tali e ritardi orga­niz­za­tivi. Ma non pos­siamo nascon­derci i tratti di nobiltà che hanno carat­te­riz­zato l’impresa nel suo complesso.

In primo luogo il fatto che L’altra Europa con Tsi­pras è l’unica lista che si è misu­rata nelle ele­zioni euro­pee con un discorso sull’Europa e per l’Europa. Non ha pro­iet­tato su scala con­ti­nen­tale le liti da pol­laio del cor­tile di casa, come hanno fatto le tre forze poli­ti­che – anzi i tre istrioni – a cui un sistema media­tico malato e pigro ha riser­vato la tota­lità dello spa­zio infor­ma­tivo, ma ha fatto della tra­sfor­ma­zione radi­cale delle poli­ti­che euro­pee l’asse por­tante della pro­pria pro­po­sta. Non per­ché siamo più colti, o raf­fi­nati e sen­si­bili degli altri (anche per que­sto). Ma soprat­tutto per­ché sap­piamo che sulla pos­si­bi­lità di rove­sciare gli equi­li­bri poli­tici nel cuore d’Europa si gioca la pos­si­bi­lità di soprav­vi­venza del nostro Paese. Che o si cam­bia l’Europa o si affonda.

In secondo luogo L’altra Europa con Tsi­pras è l’unica lista che ha un pro­gramma euro­peo cre­di­bile, rea­li­stico e radi­cale insieme, come, appunto, la situa­zione dram­ma­tica richiede. Una Con­fe­renza euro­pea per la socia­liz­za­zione e la ristrut­tu­ra­zione del debito, come un’Unione degna di que­sto nome non potrebbe non fare. Un New Deal con­ti­nen­tale con al cen­tro un pro­gramma per l’occupazione, capace di pro­durre a livello euro­peo 6–7 milioni di posti di lavoro (quanti la crisi ha distrutto) inve­stendo 100 miliardi di euro all’anno, per un trien­nio, finan­ziati con una fisca­lità euro­pea (una tassa sugli inqui­na­tori e una sulla spe­cu­la­zione finan­zia­ria). L’autorizzazione alla Bce a fun­zio­nare da pre­sta­tore di ultima istanza a soste­gno delle eco­no­mie più deboli. E infine un’intransigente oppo­si­zione al Ttip, il Trat­tato Tran­sa­tlan­tico nego­ziato in segreto che con­se­gnerà le nostre vite e i beni comuni alla fame di pro­fitto delle transnazionali.

Non sono uto­pie. Non è un pro­gramma per un futuro lon­tano. È un pro­gramma per oggi (anche per­ché domani sarebbe tardi). È, d’altra parte, un pro­gramma rea­li­sti­ca­mente pro­po­ni­bile per­ché le forze che si rico­no­scono nella lea­der­ship di Ale­xis Tsi­pras costi­tui­ranno il terzo gruppo nel nuovo Par­la­mento euro­peo (dove, per for­mare un gruppo, e quindi per fare poli­tica, è neces­sa­rio rac­co­gliere ade­sioni di rap­pre­sen­tanti di almeno sette paesi). E quanto mag­giore sarà la sua forza, tanto più alta sarà la pos­si­bi­lità di spez­zare l’asse tra Par­tito popo­lare e Par­tito socia­li­sta che, senza un’azione effi­cace a sini­stra, ripro­dur­rebbe ine­vi­ta­bil­mente le lar­ghe intese che Schulz e Mer­kel hanno costi­tuito in Ger­mana e che domi­nano in Gre­cia e Italia.

Un forte gruppo par­la­men­tare euro­peo di sini­stra (di sini­stra vera), potrebbe fare il mira­colo di ricon­durre almeno la parte più sen­si­bile della social­de­mo­cra­zia euro­pea su una linea di soli­da­rietà con­ti­nen­tale. E insieme di cata­liz­zare anche quelle forze (penso natu­ral­mente ai Verdi, ma anche ai par­la­men­tari del Movi­mento 5 Stelle, che saranno nume­rosi ma orfani in quel con­te­sto) che si oppon­gono alle attuali poli­ti­che euro­pee e che non hanno i tratti osceni del neo­na­zio­na­li­smo xeno­fobo, intorno a una linea, poten­zial­mente mag­gio­ri­ta­ria, di effi­cace con­tra­sto del dogma dell’Austerità e di radi­cale alter­na­tiva ad essa.

Que­sto vuol dire fare poli­tica in Europa. Per que­sto diciamo che il voto per L’altra Europa con Tsi­pras è l’unico voto utile, oggi. Non vederlo sarebbe mio­pia poli­tica, peri­co­losa per sé e soprat­tutto per gli altri, cioè tutti noi. «La via da per­cor­rere non è facile, né sicura. Ma deve essere per­corsa, e lo sarà!». Così si chiu­deva, settant’anni fa, il Mani­fe­sto di Ven­to­tene. Le stesse parole pos­siamo con­ti­nuare a ripe­terci, noi, oggi.

«Il web-party contesta alla radice i corpi intermedi sui quali si fonda la rappresentatività: il partito politico strutturato e il giornalismo professionale»,

La Repubblica, 25 maggio 2014

L’invenzione di Internet e la sua economicità e facilità d’uso cambiano la fisionomia della democrazia rappresentativa, una forma di governo per mezzo del consenso elettorale e dell’opinione organizzata mediante partiti e media. Questa rivoluzione accade in un tempo di altre trasformazioni epocali: quelle relative alle società di mercato e capitalistiche, insofferenti dei lacci imposti dal governo della maggioranza, e sempre meno disposte ad accettare di moderare le diseguaglianze consentendo politiche redistributive e una tassazione progressiva. Assistiamo oggi a un’inasprimento delle diseguaglianze di classe al punto che gli stessi economisti riconoscono come la ricchezza tenda a concentrarsi in pochissimi e a non produrre più sviluppo per i molti.

Le nostre società oscillano tra il rischio di trasformazione oligarchica e autoritaria delle sue leadership e la non volontà di garantire a tutti i cittadini lo stesso diritto di contare e di essere rappresentati e, dall’altro, la convinzione di molti cittadini che Internet offra la possibilità di risolvere questi problemi e combattere il privilegio come ormai i partiti non fanno più. In Islanda, il Paese dal quale la crisi del 2008 è partita, i cittadini hanno cercato di riscrivere la costituzione servendosi della partecipazione via Facebook e Twitter, aggirando i partiti, diventati parte del problema perchè essi stessi oligarchici. Il successo di Matteo Renzi si è consumato e si consolida sui social network. Ma l’esempio più dirompente viene dal Movimento 5 Stelle, un partito-non-partito, o webparty, che ha contestato alla radice i due corpi intermedi sui quali si è costruita la democrazia rappresentativa: il partito politico strutturato e il giornalismo professionale.

Internet sembra dunque consentire una selezione della leadership fuori dalla mediazione dei partiti. Ma ci sono almeno due problemi: la democrazia dei cittadini rischia di essere soppiantata da quella dell’audience, un’entità indistinta e generata da chi la muove, la provoca e la cerca, ovvero da chi ha l’ambizione della leadership; il leader che incontra il pubblico di Internet non deve rendere conto al partito ma al pubblico che egli stesso alimenta fino al punto di essere egli stesso il popolo che crea via Twitter. Inoltre, Internet è aperta a tutti, ma il suo popolo è comunque una minoranza, non meno di quella che formava i partiti.

La democrazia via Internet sembra annullare la distanza tra cittadini e istituzioni e rilanciare la cittadinanza diretta e invece genera nuovi livelli di mediazione e di potere, per ora meno controllabili di quelli in uso nei partiti perché senza statuti, organi dirigenti eletti e regole di partecipazione e decisione. I due problemi sono sintomatici di una trasformazione della democrazia rappresentativa in plebiscito permanente via-rete che non necessariamente premia l’inclusione di tutti né distribuisce il potere della voce più equamente, come promette di fare.

«Il costo della coesione dell’élite,è una distanza sempre maggiore tra chi governa e chi è governato. Serrando i ranghi, l’élite ha garantito che non ci fossero voci moderate di dissenso dall’ortodossia politica. La mancanza di un dissenso moderato ha dato vigore a gruppi come il gruppo lepinista».

La Repubblica, 25 maggio 2014
Un secolo fa l’Europa si lacerò in quella che, per un certo periodo, fu nota come la Grande Guerra - quattro anni di morte e devastazione senza precedenti. In seguito quel conflitto fu rinominato Prima guerra mondiale perché, a distanza di un quarto di secolo, l’Europa ci ricascò e ricominciò tutto daccapo.

Ciò, tuttavia, avvenne molto tempo fa. È difficile pensare alla guerra nell’Europa odierna, che si è unificata attorno ai valori democratici e ha intrapreso i suoi primi passi verso un’unione politica. Mentre sto scrivendo, in tutta Europa si stanno svolgendo elezioni, per scegliere non i governi nazionali, ma i membri del Parlamento europeo. È vero, il Parlamento ha poteri limitati, ma la sua esistenza è già un trionfo dell’idea europea. C’è un problema, però: si prevede che un’allarmante percentuale di voti andrà agli estremisti di destra, ostili a quei valori che hanno reso possibile indire quest’elezione. Mettiamola in questi termini: alcuni dei vincitori delle elezioni europee verosimilmente saranno pronti a schierarsi dalla parte di Vladimir Putin nella crisi dell’Ucraina.

In verità, il progetto europeo — una pace garantita da democrazia e prosperità — è nei guai. Il continente vive in pace, ma la prosperità sta venendo meno e così pure, in modo più impercettibile, la democrazia. Se l’Europa metterà il piede in fallo vi saranno ripercussioni per tutto il mondo.

Perché l’Europa è nei guai? Il problema più immediato è la sua scarsa performance economica. Si supponeva che l’euro, la valuta comune, potesse essere il punto culminante dell’integrazione economica. Invece, si è rivelato una trappola. Ha generato una pericolosa compiacenza, dato che gli investitori hanno versato contanti nell’Europa meridionale, senza prendersi cura dei rischi. Poi, quando il boom ha fatto cilecca, i paesi debitori si sono trovati con le mani legate, incapaci di recuperare la competitività perduta senza anni di disoccupazione a livelli da depressione. I problemi dell’euro sono stati inaspriti da una cattiva politica. I leader europei hanno insistito, e continuano contro ogni evidenza, che la crisi ha a che vedere con l’irresponsabilità fiscale, e hanno imposto un’austerità selvaggia che aggrava la situazione.

La buona notizia — beh, per modo di dire — è che malgrado i passi falsi l’euro tiene, e ciò sorprende molti analisti (compreso il sottoscritto) che pensavano potesse andare a pezzi. Come si spiega questa resilienza? In parte col fatto che la Banca centrale europea ha tranquillizzato i mercati promettendo che avrebbe fatto «tutto ciò che era necessario » per salvare l’euro. Al di là di ciò, tuttavia, l’élite europea resta dedita a questo progetto, e finora nessun governo è stato disposto a uscire dai ranghi.

Il costo della coesione dell’élite, tuttavia, è una distanza sempre maggiore tra chi governa e chi è governato. Serrando i ranghi, l’élite ha garantito che non ci fossero voci moderate di dissenso dall’ortodossia politica. La mancanza di un dissenso moderato ha dato vigore a gruppi come il Front National francese, la cui candidata di punta per il Parlamento europeo denuncia «un’élite tecnocratica al servizio dell’America e dell’oligarchia finanziaria europea».

L’amaro paradosso, però, è che questa élite europea non è affatto tecnocratica. La creazione dell’euro aveva a che vedere con la politica e l’ideologia, non era una risposta a una puntuale analisi economica (che fin dall’inizio indicava che l’Europa non era pronta per una valuta comune). Lo stesso vale per la svolta verso l’austerità: qualsiasi ricerca economica che si presumeva giustificasse quella svolta è stata smentita, ma le politiche non sono cambiate. Oltretutto, l’abitudine di mascherare l’ideologia da competenza, di fingere che quello che vuole fare è quello che deve essere fatto, ha dato luogo a un deficit di legittimazione. L’influenza dell’élite riposa sull’assunto di una competenza superiore. Quando queste presunte dichiarazioni di competenza sono smascherate, non rimane nient’altro.

Finora l’élite è riuscita a tenere tutto assieme, ma non sappiamo quanto a lungo potrà durare, e negli schieramenti ci sono alcuni soggetti che incutono paura. Se saremo fortunati - e se i funzionari della Banca centrale europea agiranno con sufficiente coraggio contro la crescente minaccia di deflazione - nei prossimi anni potremmo assistere a una certa ripresa economica. Ciò, a sua volta, potrebbe concedere un margine di respiro all’intero progetto europeo.

Da sola, però, la ripresa economica non sarà sufficiente. L’élite europea deve tenere a mente di cosa si parla quando si parla di progetto europeo. È tremendo vedere quanti europei stiano ricusando i valori democratici, ma almeno parte della colpa è da addossare ai funzionari che più che alla democrazia sembrano interessati alla stabilità dei prezzi e alla probità fiscale. L’Europa moderna è eretta su una nobile idea, ma quell’idea ha bisogno di più difensori.

«Il manifesto, 24 maggio 2014, con postilla

Pec­cato che i mae­stri della sini­stra non rie­scano a cogliere la novità vera dell’operazione Tsi­pras, che ritengo sarà comun­que com­presa e lar­ga­mente pre­miata dagli elet­tori dome­nica. Mi rife­ri­sco all’articolo di Asor Rosa (il mani­fe­sto, 21 mag­gio), il quale parla di “lar­ghe intese” con il M5S lasciando inten­dere che quella sarebbe una buona ragione per non votare “L’Altra Europa per Tsipras”.

D’altra parte Asor Rosa un paio d’anni fa aveva avuto modo di anti­pa­tiz­zare con il movi­mento per i beni comuni pastic­ciando soprat­tutto con la dot­trina poli­tica ed esso sot­to­stante, pro­cla­mando la pro­pria con­vin­zione sta­ta­li­sta e rifiu­tando (in com­pa­gnia di diversi altri com­pa­gni figli della stessa sta­gione) ogni ipo­tesi di equi­di­stanza fra il comune, il pub­blico ed il pri­vato. Di acqua da allora ne è pas­sata sotto i ponti. Quello Stato, che tanta sini­stra ancora con­si­dera più “amico” del mer­cato, mostra quo­ti­dia­na­mente la sua fac­cia auto­ri­ta­ria e bru­tale, la sua fru­strata impo­tenza, la sua ina­de­gua­tezza a farsi carico dei pro­blemi messi sul tap­peto dall’attuale con­di­zione del mondo. Lo “Stato amico” (non era così negli anni Set­tanta quando il debito era interno) è in balia dei suoi cre­di­tori, vende dispe­ra­ta­mente i gio­ielli di fami­glia men­tendo per giunta, come ogni buon tos­sico o ludo­pa­tico, sulla natura di quanto sta facendo. Solo nelle ultime set­ti­mane la pri­va­tiz­za­zione di beni pub­blici sovrani come gli slot aerei (Enav) e le Poste è stata gabel­lata come azio­na­riato popo­lare dalla comu­ni­ca­zione di regime. Lo Stato amico per­se­guita i mili­tanti No-Tav, i com­pa­gni che lot­tano per imple­men­tare in con­creto e non con le chiac­chiere da salotto buono il diritto costi­tu­zio­nale all’ abi­ta­zione per tutti.

Oggi l’onda lunga del refe­ren­dum sui beni comuni si pre­senta sotto le sem­bianze della lista Tsi­pras pro­vando ad andare in Europa per far sen­tire, gra­zie al mega­fono del par­la­mento di Stra­sburgo, la voce di chi ha capito che la par­tita si può vin­cere sol­tanto con uno stra­vol­gi­mento pro­fondo degli assetti isti­tu­zio­nali domi­nanti, ponendo la que­stione demo­cra­tica là dove essa può essere deter­mi­nante, ossia nei mec­ca­ni­smi isti­tu­zio­nale dell’economia. Da Stra­sburgo ci ren­de­remo conto una volta per tutte che è pro­prio la con­trap­po­si­zione fra pri­vato e pub­blico la grande ideo­lo­gia che ci fa per­der tempo discu­tendo di moda­lità di vota­zione del Senato o di altre que­stioni altret­tanto inu­tili. Abbiamo pagato lo scorso anno quasi 9 miliardi di ser­vi­zio ad un debito in mas­sima parte giu­ri­di­ca­mente odioso; abbiamo pri­va­tiz­zato beni per altri 140 miliardi; abbiamo tra­sfe­rito 11 punti di Pil dal lavoro al pro­fitto, gra­zie alle poli­ti­che neo­li­be­rali, che sono un altro cen­ti­naio di miliardi; il Fiscal com­pact ed il pareg­gio di bilan­cio in Costi­tu­zione, che sono parte dello stesso deli­be­rato pro­cesso di robo­tiz­za­zione dell’Europa ini­ziato con l’Atto Unico del 1986, aggiun­gerà un’altra cin­quan­tina di miliardi al salasso che il nostro paese dovrà pagare ogni anno.

Facendo il conto della serva, noi ogni anno dovremo pagare il valore intero di tutte le pri­va­tiz­za­zioni fin qui fatte! Quanta argen­te­ria da ven­dere avrà ancora il nobile Stato decaduto?

Col Refe­ren­dum 2011 ci siamo espressi in mag­gio­ranza con­tro pri­va­tiz­za­zioni e grandi opere. Quel refe­ren­dum ha messo lo Stato sul banco degli impu­tati e ha fatto capire a chi poteva o voleva farlo che lot­tare con­tro le pri­va­tiz­za­zioni non signi­fica restau­ra­zione del pub­blico sta­ta­li­sta e burocratico. Poi ci siamo scon­trati con la tra­du­ci­bi­lità del voto refe­ren­da­rio in rap­pre­sen­tanza poli­tica (Alba; Cam­biare si può). Suc­ces­si­va­mente abbiamo perso la grande occa­sione di capire per tempo che la par­tita per il Qui­ri­nale era dav­vero costi­tuente e che così andava gio­cata. Non è tut­ta­via stato un caso che il voto pen­ta­stel­lato e di sini­stra fos­sero con­fluiti su una figura pre­sti­giosa, rap­pre­sen­ta­tiva e genui­na­mente garan­ti­sta come quella di Ste­fano Rodotà.

Non sono lar­ghe intese poli­ti­che quelle fra Tsi­pras e Grillo. E’ piut­to­sto la presa d’atto di una natura costi­tuente di que­sta fase, che è det­tata dalla cata­strofe eco­lo­gica e sociale deter­mi­nata dal modello di società che ancora il potere costi­tuito si ostina a chia­mare crescita.

Tanto l’Altra Europa, quanto M5S hanno capito che non esi­stono alter­na­tive alla ridi­scus­sione radi­cale dei mec­ca­ni­smi che dall’Atto Unico del 1986 hanno tra­sfor­mato l’Europa in un robot, un mec­ca­ni­smo infer­nale che tra­sforma in capi­tale ogni bene comune. In que­sto senso entrambe, cia­scuna con la sua assai diversa con­no­ta­zione poli­tica, por­tano la discus­sione sull’Europa a livello costi­tuente. L’Altra Europa e il M5S hanno capito che oggi abbiamo troppo capi­tale e troppo pochi beni comuni e che inver­tire la rotta signi­fica inven­tare nuove isti­tu­zioni del comune, par­te­ci­pate in modo diretto, che abbiano final­mente la forza ed il corag­gio di tra­sfor­mare il primo nei secondi.

Con­di­vi­dere la neces­sità costi­tuente non signi­fica essere uguali e nep­pure simili. Soste­nere que­sto ha lo stesso senso di con­si­de­rare uguali Einaudi e Togliatti, solo per­ché insieme par­te­ci­pa­rono allo stesso sforzo costi­tuente dopo la cata­strofe del fasci­smo. La dif­fe­renza poli­tica è assai rile­vante e sta pro­prio nel garan­ti­smo, nell’accoglienza, nell’orrore per le manette nel desi­de­rio di uti­liz­zare la ragione più della pancia.

Postilla
Pubblico, comune, privato. L'attenzione va posta al contesto nel quale concretamente si pongono le cose cui le parole rinviano o alludono. La lista Tsipras non dice no all'Europa, dice No a questa Europa e si a un'alrea Europa. Analogamente, a me sembra che si debba dire no a questo Stato, ma non a ogni possibile Stato. Come del resto occorre dire no a questa economia, ma no a ogni economia. Allora ha senso, e diventa impegno serio, provare a immaginare e costruire un'altra Europa, un altro Stato e un'altra economia.

Due interventi (di Massimo Torelli e di Edoardo Salzano)a proposito di un articolo di Alberto Asor Rosa sulle elezioni del 25 maggio.

Il manifesto, 24 maggio 2014

Con Machiavelli o con Gramsci?
di Massimo Torelli*,

Alberto Asor Rosa, a pro­po­sito delle ele­zioni euro­pee, ha “sim­pa­tiz­zato” con la “massa” di coloro che non hanno ancora scelto, e forse non sce­glie­ranno, così ele­vata da sfio­rare la mag­gio­ranza asso­luta, con un arti­colo che non esi­tiamo a defi­nire volu­ta­mente ostile. Vogliamo pro­vare a rispon­dere a lui e, soprat­tutto, ad inter­lo­quire con quella massa, a partire da ciò che abbiamo pro­vato a fare con la lista L’Altra Europa con Tsi­pras. E cioè rico­struire una “con­nes­sione sen­ti­men­tale” la cui man­canza è ciò che deter­mina lo stato attuale delle cose. Que­sta ricerca di con­nes­sione sen­ti­men­tale l’abbiamo pro­po­sta ai let­tori della piazza gre­mita di Bolo­gna, con il testo dell’intervento di Bar­bara Spi­nelli, stru­men­tal­mente richia­mato nell’articolo.

Vor­remmo porre, con animo bene­volo, ad Alberto Asor Rosa le domande che Ale­xis Tsi­pras ha posto alla piazza: «Que­sta è l’Europa che vogliamo? Que­sta poli­tica e que­sti poli­tici noi con­fer­me­remo con il nostro voto dome­nica? Diremo sì all’Europa di Machia­velli? O diremo sì all’Europa dell’Illuminismo e di Gram­sci? Diremo sì ad un’Europa già lon­tana dai Cit­ta­dini dai valori dei suoi prin­cipi fon­danti e dalla par­te­ci­pa­zione? O con il nostro voto per “L’altra Europa” diremo sì all’Europa dei suoi Fon­da­tori, all’Europa della Demo­cra­zia, della coe­sione, della soli­da­rietà e della poli­tica di egua­glianza dei suoi Paesi?».

*Respon­sa­bile della lista L’Altra Europa con Tsipras

Se sarò eletto collaborerò con i pentastellati
di Edoardo Salzano*


Sono d’accordo con molte delle cose che Alberto Asor Rosa ha scritto per il mani­fe­sto del 21 mag­gio. Ma non con tutte. Mi sem­bra che anche lui subi­sca il clima che la medio­cra­zia ha creato attorno alle ele­zioni per il par­la­mento euro­peo. Per la grande infor­ma­zione que­sto evento poli­tico ha come suo cen­tro l’Italia, non l’Europa; sul pal­co­sce­nico ci sono solo due attori: Renzi e Grillo. Anche Asor Rosa mi sem­bra accet­tare que­sta impo­sta­zione. E allora - mi sem­bra che affermi Asor Rosa - se si vuole com­bat­tere il comico dema­gogo non c’è che appog­giare il Pd di Renzi, e se si vuole com­bat­tere Renzi e il ren­zi­smo non c’è che da allearsi con Grillo.

Se la mia sin­tesi non è troppo infe­dele e se que­sto fosse il succo dell’articolo di Asor Rosa allora biso­gne­rebbe esa­mi­nare un po’ più a fondo sia Grillo e il suo movi­mento sia Renzi e il Pd. Se si appro­fon­disse l’analisi forse si giun­ge­rebbe a con­di­vi­dere le parole di Bar­bara Spi­nelli, su cui Asor Rosa invece iro­nizza, depre­can­dole. Per guar­dare alle cose così come stanno alcune distin­zioni sono essen­ziali.

Io, ad esem­pio, penso che occorra distin­guere tra la figura di Grillo, che anche a me fa paura, e le per­sone che oggi lo seguono. Per molte di loro ho per­so­nal­mente lo stesso rispetto e la stessa con­di­vi­sioni che ho per molti degli attuali mili­tanti del par­tito oggi gui­dato (coman­dato) dall’asfaltatore Renzi.

Mi con­si­dero anch’io, come Asor Rosa, un “rosso-verde”. Ma nel Pd ren­ziano di “rosso” ne vedo solo qual­che pal­lido resi­duo, e invece del “verde” vedo il grigio-nero del cemento e dell’asfalto. Nel movi­mento di Grillo, se mi turba l’ombra del nero, non per­de­rei ‚né perdo, l’occasione di col­la­bo­rare con quanto di “verde” (e non è poco) vi abita.

Poi­ché poi pre­fe­ri­sco discu­tere di Par­la­menti e non di duci e ducetti, non escludo affatto di col­la­bo­rare (se per caso dovessi essere eletto nel Par­la­mento euro­peo) con i gril­lini che vi fos­sero eletti, come con i pid­dini (si dice così?) che vi arri­ve­ranno. Come con chiun­que altro eletto che dimo­strerà di voler difen­dere l’ambiente, il lavoro e (non dimen­ti­chia­molo) la demo­cra­zia minac­ciata, mi sem­bra, dall’una parte e dall’altra del teatrino.

*can­di­dato della lista L'altra Europa con Tsipras

L'Europa non è nata secondo il progetto disegnato a Ventotene, ma come strumento degli USA nella guerra fredda.Lo testimonia il ruolo svolto dall'UE ieri in Kossovo, oggi in Ucraina Oggi l'affermazionne di un'autonoma identità europea è minacciata a morte dalla volontà dei governi di approvare il Trat­tato di libero scam­bio tran­sa­tlan­tico, che solo la lista Tsipras denuncia .

Il manifesto, 23 maggio 2014

L’Europa nata nel 1957 non è quella che era stata sognata dagli anti­fa­sci­sti al con­fino di Ven­to­tene. Nel loro Mani­fe­sto l’obiettivo dell’unità fra paesi che allora erano per la seconda volta in pochi decenni impe­gnati in una guerra san­gui­nosa, era la pace. E invece il primo embrione della futura Unione, che fu signi­fi­ca­ti­va­mente chia­mata Mec, l’Europa la spaccò. Fu infatti pen­sato soprat­tutto come stru­mento della guerra fredda: un avam­po­sto dell’occidente a ridosso della cor­tina di ferro, stret­ta­mente col­le­gato alla Nato. Pochi lo ricor­dano: il primo atto isti­tu­zio­nale a favore della nuova crea­tura euro­pea non fu dei nostri par­la­menti, bensì di quello ame­ri­cano. Fu votato nel 1947, il 10 marzo al Senato, il 23 al Con­gresso, auspice il potente segre­ta­rio di stato John Foster Dul­les, fra­tello dell’altrettanto potente Allen, capo della Cia.

Da que­sta nascita bastarda l’Europa è rima­sta segnata, sic­ché, anche quando è caduto il muro, non è miglio­rata. Basti pen­sare alla sua poli­tica estera che, anzi­ché ricer­care un rap­porto di coo­pe­ra­zione con il grande vicino euroa­sia­tico che avrebbe potuto con­fe­rire al con­ti­nente la pos­si­bi­lità di garan­tirsi un ruolo auto­nomo nel mondo, si è invece appiat­tita sulla linea di Washing­ton, inte­res­sata a man­te­nere il pro­prio con­trollo: accet­ta­zione di tutti i pos­si­bili mis­sili sul pro­prio ter­ri­to­rio ai tempi di Brez­nev e Andro­pov, anche quando sarebbe stato neces­sa­rio aiu­tarlo ad uscire dalla fatale spi­rale del riarmo; e oggi esten­sione della Nato ai con­fini della Rus­sia, come se doves­simo rilan­ciare la guerra fredda, una linea che copre solo i più bie­chi com­pe­ti­tivi inte­ressi petro­li­feri ame­ri­cani (nell’insieme un bel regalo all’odioso Putin, che per via del com­por­ta­mento occi­den­tale ha ritro­vato popo­la­rità nel suo paese).

L’impronta colo­nia­li­sta, così come l’arroganza occi­den­tale, sono rima­sti il tratto dell’orientamento dell’Ue in poli­tica inter­na­zio­nale: ciò che pos­siamo fare noi euro­pei non è con­cesso agli altri. Ad esem­pio, il pre­ci­pi­toso uni­la­te­rale rico­no­sci­mento dell’indipendenza da Bel­grado delle repub­bli­che slo­vena e croata nel ’93 in nome del diritto dei popoli all’autodeterminazione e la vio­lenta denun­cia di chi in Ucraina sta riven­di­cando il mede­simo diritto (signi­fi­ca­tivo che nes­suno ricordi oggi come la Jugo­slava sia stata sbra­nata in nome di quel diritto senza che l’Ue nem­meno ten­tasse di aprire un tavolo di discus­sione fra le parti, come pre­vi­sto dalla Con­fe­renza per la sicu­rezza euro­pea in cui era stato sta­bi­lito che nes­sun con­fine possa esser toc­cato senza un accordo. L’Unione euro­pea plaudì per­sino al bom­bar­da­mento di Bel­grado in difesa dell’autodeterminazione dei koso­vari).

Sull’incongruenza euro­pea si potrebbe con­ti­nuare, citando i casi del Sahara occi­den­tale, di Timor Est, di Cipro e natu­ral­mente della Pale­stina. Per non par­lare del silen­zio sulla bomba ato­mica pos­se­duta da Israele, con buona pace del Trat­tato di non pro­li­fe­ra­zione. Così come delle guer­re­sche puni­zioni a chi non obbe­di­sce alle deci­sioni dell’Onu, ma dell’assoluzione delle tante avven­ture bel­li­che che quella coper­tura non hanno avuto. Nel caso, ancora una volta, di Israele, e di quelle che hanno avuto l’Europa stessa come pro­ta­go­ni­sta.

E poi, forse più grave di tutte, la poli­tica verso il sud Medi­ter­ra­neo. Con sonore fan­fare si lan­ciò anni fa l’Accordo di Bar­cel­lona, che avrebbe dovuto essere un ami­che­vole par­te­na­riato, in grado di lan­ciare un com­pro­messo per un lun­gi­mi­rante co-sviluppo delle rispet­tive eco­no­mie ed è stato invece solo un’apertura al libero scam­bio che non avrebbe mai potuto col­mare – e infatti l’approfondì — l’enorme disli­vello sto­rico colo­niale fra le eco­no­mie delle due sponde.

Oggi il dramma gigan­te­sco dell’immigrazione clan­de­stina dovrebbe pro­porre una seria rifles­sione sulla poli­tica inter­na­zio­nale dell’Europa, che non si esau­ri­sce certo solo in un po’ di aiuti all’Italia per l’accoglienza degli scam­pati ai nau­fragi. Occor­re­rebbe ripen­sare il mondo, capire che siamo di fronte ad uno scon­vol­gi­mento sto­rico che non si può fron­teg­giare né con le armi ma nem­meno con una poli­tica miope che pensa l’Europa possa rima­nere un giar­dino chiuso.
Qual­che sin­tomo di rav­ve­di­mento? No, il con­tra­rio: l’impegno prin­ci­pale degli ese­cu­tivi dell’Unione con­si­ste ora nel varo di un Trat­tato di libero scam­bio tran­sa­tlan­tico che, se andrà in porto, can­cel­lerà tutto quanto è stato con­qui­stato nel ven­te­simo secolo in Europa dal movi­mento ope­raio e demo­cra­tico. Nes­suno, salvo la lista Tsi­pras, ne ha par­lato in que­sta cam­pa­gna elet­to­rale. Non è un caso: sarebbe suf­fi­ciente que­sto pro­blema a deter­mi­nare il voto del 25 mag­gio ove la gente sapesse di cosa si tratta.
La pro­spet­tiva che que­sto accordo apre è di un’Europa che perde la spe­ci­fi­cità del suo modello sociale, che nel dopo­guerra, e gra­zie a grandi lotte, ha rap­pre­sen­tato il com­pro­messo sociale più alto. Se così finirà per essere, a che pro un’Unione euro­pea? Diver­rebbe solo un pez­zetto del mer­cato glo­bale e avrebbe ces­sato di avere una sua ragion d’essere, l’espressione di un modello diverso. I più peri­co­losi anti­eu­ro­pei­sti sono senz’altro tutti quelli che vogliono farle per­dere ogni iden­tità, omo­lo­gan­dola al peg­gio del mondo.

«Con l’austerity è in corso una "pulizia etnica" di quella parte di popolazione più fragile. E i paesi in crisi sono presentati come casi unici. Così si lacera il tessuto sociale»

. Il manifesto, 22 maggio 2014

Per­ché l’Europa ha gestito la crisi di que­sti anni nel modo in cui l’ha fatto? L’obiettivo era sal­vare la finanza, le mul­ti­na­zio­nali e la classe poli­tica – a spese dei lavo­ra­tori, delle pic­cole imprese e delle eco­no­mie locali. In sostanza, la stra­te­gia è stata quella di tute­lare i pro­prie­tari di grandi capi­tali e di sca­ri­care i costi sul 20–30% più povero della società. La sto­ria degli ultimi vent’anni è fatta di aumento dei pro­fitti, caduta delle tasse sulle imprese e gon­fiarsi dei defi­cit pub­blici.

La tesi del mio ultimo libro, Expul­sions: bru­ta­lity and com­ple­xity in the glo­bal eco­nomy, è che siamo entrati in una nuova fase sto­rica, carat­te­riz­zata dall’ “espul­sione” delle per­sone dalle con­di­zioni eco­no­mi­che e sociali pre­ce­denti, dai loro pro­getti di vita, dalla loro esclu­sione dal “con­tratto sociale” che era al cen­tro delle demo­cra­zie libe­rali. È molto più di un aumento nelle disu­gua­glianze e nella povertà. Non è un feno­meno ancora pie­na­mente visi­bile, e non è una con­di­zione che riguardi la mag­gio­ranza delle per­sone. Si tratta però della gene­ra­liz­za­zione di con­di­zioni estreme finora pre­senti solo ai mar­gini del sistema, spo­sta­menti che non sono ancora indi­vi­duati dalle sta­ti­sti­che tra­di­zio­nali. Le classi medie impo­ve­rite pos­sono vivere ancora nelle stesse belle case di prima, ma die­tro la fac­ciata cre­scono povertà e dispe­ra­zione, si tro­vano costrette a ven­dere i loro beni per pagare il mutuo, i figli adulti non pos­sono andare via di casa.

La Gre­cia, la Spa­gna e il Por­to­gallo sono la dimo­stra­zione di quanto un’economia si possa con­trarre in poco tempo e mostrano la ten­denza gene­rale al ridi­men­sio­na­mento dello spa­zio dell’economia nei paesi avan­zati. Si parla di «bassa cre­scita e alta disoc­cu­pa­zione», ma que­sti ter­mini sono troppo vaghi per descri­vere il dif­fon­dersi di con­di­zioni estreme a cui assi­stiamo in tutti i paesi.

In realtà, stiamo assi­stendo a una ride­fi­ni­zione di quella che è “l’economia”. I disoc­cu­pati che per­dono tutto si ritro­vano al di fuori di quella che è con­si­de­rata “l’economia”, e ven­gono esclusi dalle sta­ti­sti­che dei senza lavoro. Lo stesso vale per i pic­coli impren­di­tori che per­dono tutto e si sui­ci­dano. O per i pro­fes­sio­ni­sti e lau­reati che abban­do­nano i loro paesi o l’Europa. Que­sti feno­meni ridi­men­sio­nano lo spa­zio dell’economia, esclu­dendo i più fra­gili. E’ un pro­cesso di espul­sione ana­logo alla “puli­zia etnica”, in cui gli ele­menti pro­ble­ma­tici della popo­la­zione ven­gono sem­pli­ce­mente eli­mi­nati. Quello che rimane dell’economia – per­fino in Gre­cia e Por­to­gallo — può essere pre­sen­tato come «sulla via della ripresa», ed è que­sta la nar­ra­zione che offrono in Europa Fondo mone­ta­rio e Banca cen­trale euro­pea, le uni­che voci ascol­tate.

Una seconda carat­te­ri­stica delle poli­ti­che euro­pee è stata quella di pre­sen­tare tutti i paesi in crisi come «casi unici». La Gre­cia era un paese povero con altis­sima eva­sione fiscale e inef­fi­cienza buro­cra­tica. Il Por­to­gallo e la Spa­gna erano anch’essi casi estremi, ma per motivi diversi. Non è così. Gli stessi feno­meni che sono estremi in que­sti paesi sono dif­fusi in tutta Europa: si tratta delle con­di­zioni strut­tu­rali della fase del capi­ta­li­smo aper­tasi negli anni ottanta. I pesan­tis­simi tagli alla spesa sociale, il crollo dell’occupazione e l’aumento delle impo­ste in Gre­cia e Spa­gna sono i segni di una pro­fonda ristrut­tu­ra­zione, che in misura minore sta avve­nendo in tutta l’eurozona, e anche in paesi come gli Stati Uniti.
Un aspetto chiave di que­sto pro­cesso è il ten­ta­tivo di tener in piedi l’economia pri­vata eli­mi­nando le spese ecces­sive legate al con­tratto sociale. Il rim­borso del debito e l’austerità sono mec­ca­ni­smi che impon­gono disci­plina e tute­lano le imprese, ma non fanno cre­scere pro­du­zione e occu­pa­zione. Qua­lun­que sia la logica che divide in Europa vin­ci­tori e vinti, essa lacera pro­fon­da­mente il tes­suto sociale ed eco­no­mico di un paese: negli ultimi anni la pro­du­zione è crol­lata in tutto il Sud Europa, smen­tendo l’idea secondo cui il l’austerità favo­ri­sca la cre­scita. E i dati dimen­ti­cano i tanti che sono oggi esclusi dell’economia for­male.

Il nuovo libro di Saskia Sas­sen, Expul­sions: bru­ta­lity and com­ple­xity in the glo­bal eco­nomy sarà pub­bli­cato in Ita­lia da Il Mulino

«». Il manifesto

Finora ho fatto poli­tica con i miei libri, occu­pan­domi di Shoah, raz­zi­smo, resi­stenza ai regimi. Nel mio primo incon­tro elet­to­rale, mi sono tro­vata a par­lare della tas­so­no­mia di Lin­neo e della costru­zione che è all’origine di quella “gerar­chia del disprezzo” che costi­tui­sce una radice pro­fonda della nostra cul­tura. Mi sono inter­rotta per scu­sarmi: di certo non era il lin­guag­gio della poli­tica che ci è con­sueto, ma mi è stato chie­sto di con­ti­nuare. È ini­ziata una mera­vi­gliosa discus­sione, forse eccen­trica in una cam­pa­gna elet­to­rale; tutti ne era­vamo un po’ stu­piti, ma abbiamo par­lato delle cate­go­rie che sepa­rano l’umano dall’animale, della nascita dello schia­vi­smo, dell’attribuzione alla natura della dico­to­mia tra uomo e donna. Per­ché le per­sone (noi) abbiamo desi­de­rio di scam­biarci e riflet­tere, cono­scere, stu­diare, anche fuori dai luo­ghi nor­mati, isti­tu­zio­na­liz­zati, nella con­sa­pe­vo­lezza del deserto che ci cir­conda. Mario Lodi, appena uscito di pri­gione, il 25 aprile 1945, decise che era neces­sa­rio comin­ciare a rico­struire una cul­tura distrutta dal ven­ten­nio fasci­sta; lo fece pro­prio par­tendo dal desi­de­rio di scam­bio, di rac­conto di sé, di cono­scenza cri­tica impe­dita dal regime. Il suo inse­gna­mento pas­sava essen­zial­mente per il rac­conto degli uni agli altri, e dalla cono­scenza, non socio­lo­gica ma umana, della realtà circostante.

Que­sta splen­dida e quasi clan­de­stina cam­pa­gna elet­to­rale è stata — per la parte che ne ho potuto vedere — una grande scuola, prima di tutto per me. Girando per le città, ho incon­trato una vita par­te­ci­pa­tiva sot­ter­ra­nea, non rap­pre­sen­tata dai media eppure capace di costi­tuire un reti­colo di scambi, spe­ranze, lotte, inven­zioni, pra­ti­che di soli­da­rietà. Dai pro­getti di micro­cre­dito alle coo­pe­ra­tive per l’inserimento lavo­ra­tivo dei car­ce­rati; dalle espe­rienze di social street ai Gruppi di Acqui­sto Soli­dale; dalle coo­pe­ra­tive di donne immi­grate ai col­let­tivi di stu­dio sull’energia alter­na­tiva e la lotta al nucleare. Pro­getti, intel­li­genze, com­pe­tenze che modi­fi­cano le realtà del ter­ri­to­rio.

Ma que­sta cam­pa­gna elet­to­rale si è svolta in gran parte anche sul web, in un con­ti­nuo scam­bio di infor­ma­zioni e con­tatti. Giorno dopo giorno, i can­di­dati si sono visti inol­trare decine di richie­ste di ade­sione a piat­ta­forme, impe­gni, punti pro­gram­ma­tici sui quali ver­ranno giu­di­cati e scelti. Dall’Agenda per i diritti umani in Europa, a soste­gno di poli­ti­che di tutela dei migranti, dei rom e dei dete­nuti — pro­mossa da Luna­ria, Asso­cia­zione 21 luglio e Anti­gone — alla cam­pa­gna di Ilga per i diritti di gay e lesbi­che; dal pro­gramma per i Diritti Digi­tali per l’autodeterminazione dell’informazione e la tutela della pri­vacy, a quello per i diritti dei migranti pro­po­sto dalla Rete Primo Marzo; dalla cam­pa­gna di Libera con­tro le mafie, Mise­ria ladra, che mette al cen­tro la lotta alla povertà, a NewDeal4Europe, ini­zia­tiva euro­pea di cit­ta­di­nanza per un piano straor­di­na­rio di svi­luppo soste­ni­bile e per l’occupazione; dai punti pro­gram­ma­tici delle asso­cia­zioni ani­ma­li­ste a Riparte il futuro, la cam­pa­gna tra­sver­sale e apar­ti­tica con­tro cor­ru­zione e cri­mi­na­lità organizzata.

Una sorta di “mente estesa” for­mata dalle nume­ro­sis­sime asso­cia­zioni che da anni si occu­pano di temi fon­da­men­tali per l’agenda poli­tica euro­pea, fuori dalle appar­te­nenze par­ti­ti­che. Una forza pro­gram­ma­tica e pro­get­tuale, un reti­colo di com­pe­tenze ed espe­rienze alle quali chiun­que verrà eletto al Par­la­mento euro­peo potrà appog­giarsi, e al tempo stesso dovrà ren­der conto.

Così ho deciso che la mia cam­pa­gna non sarebbe stata costi­tuita solo da comizi, ban­chetti, volan­ti­naggi, inter­venti e ini­zia­tive elet­to­rali nella cir­co­scri­zione, ma che avrei orga­niz­zato tre con­ve­gni per riflet­tere su argo­menti per me cen­trali, chie­dendo a per­sone con le quali ho spesso con­di­viso per­corsi di stu­dio e di lavoro di darmi una mano. È nato così un con­ve­gno su «Lavoro, pre­ca­rietà e nuovo schia­vi­smo», che ha avuto tra i rela­tori Gianni Rinal­dini, Mario Ago­sti­nelli e Guido Viale. Un con­ve­gno su «Raz­zi­smo e xeno­fo­bia», al quale hanno preso parte, tra gli altri, il gene­ti­sta Guido Bar­bu­jani, la scrit­trice Igiaba Scego, lo sto­rico del por­ra­j­mos Luca Bravi, il por­ta­voce della comu­nità sene­ga­lese di Firenze Pape Diaw. E infine un con­ve­gno sulla comu­nità del vivente come fon­da­mento della poli­tica, al quale hanno preso parte, oltre ai respon­sa­bili di alcune tra le più impor­tanti asso­cia­zioni ani­ma­li­ste e anti­spe­ci­ste, il filo­sofo Leo­nardo Caffo e lo scrit­tore Mil­ton Fer­nan­dez, che ha spie­gato, ad esem­pio, come il pre­si­dente ex tupa­maro dell’Uruguay, Pepe Mujica, abbia appena pro­mosso una legge per la tutela dei diritti ani­mali, com­preso quello alla dignità. Tutte que­ste voci, intel­li­genze, pro­get­tua­lità — che andranno a for­mare un archi­vio media­tico che resterà oltre il 25 mag­gio, per rian­no­dare i fili degli argo­menti che l’orizzonte euro­peo ci ha spinto a con­si­de­rare nella loro ampiezza poli­tica — sono una «folla den­tro il cuore» che, come nei versi di Emily Dic­kin­son, «nes­suna poli­zia potrà disperdere».

Natu­ral­mente non tutto è stato radioso in que­sta dif­fi­cile costru­zione di un sog­getto uni­ta­rio: ine­vi­ta­bil­mente sono entrate in gioco logi­che di appar­te­nenza, ripe­ti­zioni del già visto, ren­dite di potere, mal­ce­late ambi­zioni per­so­nali — una poli­tica che asso­mi­glia ai car­rar­ma­tini del Risiko, nel suo inse­diarsi su pic­co­lis­simi ter­ri­tori vedendo il vicino come un nemico o un peri­colo. Forse il viag­gio vero è stato l’aver avuto l’opportunità di par­te­ci­pare fin dalla nascita a un pro­getto che vuole uscire dalle sec­che di ragio­na­menti che hanno por­tato a troppi anni di scon­fitte, divi­sioni, inca­pa­cità del fram­men­tato mondo post-sessantottesco di smet­tere di cre­dersi il cen­tro del mondo; «di andare oltre il bri­co­lage orga­niz­za­tivo e il bal­bet­tio ideo­lo­gico», come scrive Marco Revelli in Oltre il Nove­cento, «alla ricerca delle parole, o delle for­mule, con cui nomi­nare la pro­pria rivo­lu­zione introvabile».

Per la prima volta dopo tanti anni è nato un pro­getto che può essere vin­cente, anche oltre l’appuntamento delle ele­zioni euro­pee, a patto che sap­pia supe­rare le logi­che dell’appartenenza e aprirsi alle plu­ra­lità che ha messo in campo.

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