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La marcia in ordine sparso dei sindacati è costata cara ai lavoratori e all’economia. Oggi prima condizione è l’unità del mondo del lavoro; seconda avanzare le richieste giuste, evitando gli errori del passato.

La Repubblica, 23 giugno 2013

VEDERE una piazza piena di lavoratori appartenenti alle maggiori confederazioni sindacali che manifestano il loro scontento per lo stato in cui versano l’occupazione e l’economia, mentre i segretari si alternano sul palco per chiedere che il governo assuma finalmente qualche iniziativa seria in tema di politiche del lavoro, è un buon segno per l’intera società – con una nube residua all’orizzonte che speriamo arrivi a dissiparsi.
La marcia in ordine sparso dei sindacati italiani, durata un decennio, è costata cara ai lavoratori e all’intera economia. Lo attestano sia i dati sia molte diagnosi sugli effetti della crisi nel nostro Paese. Fra il 1990 e il 2009 la quota salari sul Pil si è ridotta di quasi il 7 per cento in Italia, ma solo del 5 in Germania, del 4 nel Regno Unito, e meno del 3 in Francia. I sette punti in meno andati al lavoro, che in moneta corrente valgono oltre 110 miliardi, sono andati ai profitti e alle rendite. Ma non si sono affatto trasformati in investimenti produttivi. Per quasi tutto il periodo gli investimenti in capitale fisso (impianti, macchinari) sono regrediti, segnando un picco negativo nel 2008-2009. Dove sono finiti profitti e rendite? In prevalenza hanno preso la strada degli investimenti finanziari. Per alcuni anni, questi ultimi hanno reso molto di più degli investimenti nell’economia reale, per cui le imprese hanno destinato ad essi i profitti, in misura maggiore che non negli altri paesi Ue. Con una ricaduta che ha nuociuto anche alle imprese. Infatti almeno l’80 per cento del Pil è formato dai consumi delle famiglie, e se a queste vengono a mancare decine di miliardi l’anno, i risultati si vedono: migliaia di serrande abbassate e d’impianti fermi.

Se mai i sindacati pensassero di presentare unitariamente al governo dei temi su cui discutere, in luogo della pioggerella di miniprovvedimenti sul lavoro che esso ha finora escogitato, c’è solo da scegliere. In primo luogo bisognerebbe chiedere al governo di mettere al primo posto nella sua agenda il tema della piena occupazione. Può sembrare chiedere troppo, di fronte ai numeri della disoccupazione. Il fatto è che se lo scopo primo della politica economica è quello di puntare alla pienaoccupazione, molte altre politiche ne discendono a cascata in modo preordinato, a cominciare da quelle riguardanti la crescita. Nel caso che il Pil dovesse ricominciare a crescere, ma l’occupazione no — situazione assai probabile — quei tot milioni non ne trarrebbero nessun vantaggio. La piena occupazione non è nemmeno un obbiettivo di sinistra. Uno dei libri più acuti e concreti sull’importanza economica, sociale, politica di porre la piena occupazione in cima all’agenda governativa è stato scritto tempo fa da un grande liberale (William Beveridge).

Nell’agenda del governo i sindacati uniti potrebbero pure chiedere di inserire la distribuzione del reddito e della ricchezza. Il più drammatico mutamento sociale degli ultimi trent’anni è stata la redistribuzione dell’uno e dell’altra dal basso verso l’alto che si è verificata nella Ue come in Usa. La caduta della quota salari in quasi tutti i paesi Ocse è stata soltanto un aspetto di tale redistribuzione alla rovescia, che facendo crescere a dismisura le disuguaglianze ha contribuito non poco a preparare la crisi esplosa nel 2007. I sindacati non hanno molti mezzi per premere in tale direzione, ma almeno uno di peso ce l’hanno: il contratto nazionale di lavoro. La sua funzione è stato ridotta dall’importanza che gli ultimi governi e una parte dei sindacati hanno inteso dare alla contrattazione decentrata. Ma se si vuole restituire ai lavoratori qualcosa di ciò che hanno perso negli ultimi vent’anni, è difficile individuare altre strade che non comprendano la contrattazione a livello nazionale.

Vi sarebbe ancora una richiesta da portare unitariamente al governo: elaborare una politica industriale. Ma non una politica qualunque. Piuttosto una politica che parta da una quasi certezza: i posti di lavoro andati persi dopo il 2007 non saranno mai più recuperati nei medesimi settori produttivi o affini. Il motivo va visto nel grande sviluppo che l’automazione di terza generazione ha avuto in pochi anni. Il suo punto di forza sono i robot intelligenti, capaci di fare moltissime cose che appena un lustro fa soltanto la mano dell’essere umano era capace di fare. Ora si dà il caso che l’Italia sia stato nel triennio 2010-2012 il maggior acquirente di robot industriali d’Europa, dopo l’irraggiungibile Germania. Cessata per ora, con qualche delusione, l’euforia per gli investimenti finanziari, le imprese hanno ripreso a investire in capitale fisso, dando però la preferenza ai macchinari che sostituiscono il lavoro umano. Una politica industriale che guardi un po’ più avanti dell’anno prossimo, dovrebbe quindi essere concepita per attuare una transizione ordinata di masse di lavoratori dai settori produttivi investiti dalla nuova automazione, ad altri settori sia tradizionali che innovativi, purché essi comportino un’alta intensità di lavoro e una difficile sostituibilità da parte delle macchine.

Con proposte del genere, i sindacati di nuovo uniti potrebbero riempire l’agenda del governo per lungo tempo. Tra un intervallo e l’altro della discussione, potrebbero anche cercar di diradare la nube cui ho accennato all’inizio. Va bene l’unità al tavolo del governo. Ma per far avanzare qualsiasi genere di proposta non effimera, sarebbe necessaria anche l’unità ai tavoli dove i sindacati hanno di fronte le imprese. Tale unità al momento non esiste, perché una delle maggiori federazioni a quei tavoli non ha il diritto di sedersi, o di esservi rappresentata. Potrebbe essere giunto il momento di dar attuazione per legge all’articolo 39 della Costituzione, stando al quale tutti i sindacati registrati hanno uguale personalità giuridica.

Chiosando Alberto Asor Rosa, un'analisi delle radici (e delle devastanti e inconfessabili "ragioni") del connubio destra-sinistra in Italia.

il manifesto, 19 giugno 2013

Ha di certo ragione Alberto Asor Rosa quando osserva che il cosiddetto governo delle larghe intese (l'attuale consociazione coalizionale tra Pd e Pdl) nasce da «lucida consapevolezza e superiore capacità di controllo della crisi». Forse merita un supplemento di riflessione approfondire le condizioni strutturali determinanti tale esito; che - a parere dello scrivente - va ben oltre il regolamento di conti con la forma-partito novecentesca. Nella convinzione che tali condizioni derivano da processi tenuti a lungo sottotraccia; proprio per sottrarli alla vista della pubblica opinione, a cui si è preferito offrire altri modelli di rappresentazione delle dinamiche politiche vigenti in quanto funzionali a meglio proteggere il lavorio nei laboratori occulti del potere. Dove si determinavano trasformazioni fino a un certo punto inconfessabili. Perché imbarazzanti. Dunque un gioco di fate morgane create dagli opinion maker da establishment; come ad esempio il Corriere della Sera, che persiste nel diffondere l'idea anestetica che il sistema politico di Seconda Repubblica sarebbe stato «bipolare» fino ad ora; dunque ossequiente al classico schema Westminster centrato sulla dialettica tra maggioranza e opposizione. Sicché il retropensiero di tale descrizione è che l'Italia risulterebbe un Paese normale, con tutti gli effetti accreditativi e sdrammatizzanti insiti nell'assunto.

In effetti, a lungo si è persistito nel gioco di prospettare una rigorosa competitività radicale tra schieramenti, che - in effetti - ha caratterizzato solo brevi fasi del ventennio trascorso. Una verità che fu dichiarata già nel 2003 quando - non è chiaro se per tracotanza o ingenuità - l'onorevole Luciano Violante, in un intervento alla Camera, dichiarò testualmente: «L'onorevole Berlusconi sa per certo che nel 1994 gli venne data piena garanzia che non sarebbero state toccate le sue televisioni nel cambio di governo... ci si accusa di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interesse, dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni...».

Quale pistola più fumante di questa si vorrebbe trovare per smascherare il crimine di collusività che marchia a fuoco la Seconda Repubblica? A cui si potrebbe aggiungere che le prove generali collusive avvennero già prima della catastrofe di Tangentopoli, nelle negoziazioni per la pax televisiva come nel coinvolgimento della parte migliorista del Pci nell'affarismo craxiano, il cui grande elemosiniere era già allora Silvio Berlusconi (che probabilmente già da allora iniziò a raccogliere pezze d'appoggio sui vari personaggi con cui entrava in negozio, poi utilizzate e messe all'incasso politico dopo la propria «discesa in campo»). Qualcuno fa risalire l'interlocuzione diretta tra miglioristi comunisti e l'imprenditore rampante all'epoca dell'acquisizione da parte di Fininvest del monopolio pubblicitario delle televisioni dell'Unione Sovietica.

Era l'anno di grazia 1988. Poi arriva Mani Pulite con le sue indagini su corruzioni e concussioni; tra l'altro una poderosa spinta a rinserrare le fila per la classe politica, che si ritiene minacciata complessivamente, indiscriminatamente. E quindi rafforza la tendenza già in atto di percepirsi in qualche misura come ceto. E come ceto trova una via d'uscita dall'impasse, riuscendo a spostare la «questione morale» in «questione istituzionale» (sistema maggioritario, elezioni dirette, accenno al presidenzialismo...): dai comportamenti concreti alle regole astratte. Operazione che segna il passaggio di Repubblica, con l'affermazione di nuove regole per la costruzione del discorso pubblico e l'acquisizione del consenso largamente influenzate dal format berlusconiano. Il berlusconismo come agente dell'americanizzazione (al ribasso) dell'Italia. Con due recezioni dal crogiuolo anglosassone reaganizzato-thatcherizzato, che determinano l'ulteriore omologazione del personale politico nostrano: il passaggio dalla politica partecipata allo star-system, l'accantonamento del paradigma keynesiano a vantaggio delle ricette friedmaniane. A questo punto la Sinistra mediatizzata e liberista diventa concettualmente indistinguibile dalla Destra; di cui condivide il principio cardine dell'approccio berlusconiano a quella branca della promopubblicità che è diventata la politica: il pubblico è composto da ragazzini di undici anni, neppure troppo intelligenti. Con la chiosa - a sinistra - che considera come «pubblico» la propria base elettorale.

L'idea presunta post-industriale che se l'economia finanziarizzata fa a meno delle persone, la politica smaterializzata non ha più bisogno del consenso come fonte della propria legittimazione. In una logica che potremmo definire "massonica", intendendo con questo il privilegio accordato all'opacizzazione dei processi decisionali. Per inciso, si sarebbero potute individuare queste "liaison con il grembiulino" nel fronte che si oppose tenacemente alla candidatura di Stefano Rodotà al Quirinale (inquilino uscente e rientrante compreso).

Poi staremo a vedere dove si andrà a finire con questo sbaraccamento dell'intero patrimonio storico di cultura e pratiche finalizzato a "fare società". E già si percepiscono sinistri scricchiolii. Intanto è giunta a compimento la trasformazione del ceto politico in una corporazione trasversale del potere (vulgo "Casta", ma a cui si accede per cooptazione, non per nascita), cementata dalla consapevolezza dei comuni interessi a mantenere in vita l'habitat di sopravvivenza.

Tanto che la percezione dei "sinistri scricchiolii" di cui si diceva ha costretto a portare rapidamente alla luce la natura collusiva del potere vigente, con le maggioranze di riferimento degli ultimi due governi (Mario Monti e Letta jr.). Con i massacri rituali di Franco Marini e Romano Prodi sulla via del Quirinale. Cui si è aggiunto quello del maldestro PierLuigi Bersani, che nella fregola di premierato ipotizzava aggregazioni "divisive", che confliggevano con il tratto della collusività.

«La Grecia è la
macchia umana
che imbratta l’Europa, da quando è partita la cura d’austerità. Ha pagato per tutti noi, ci è servita al tempo stesso da capro espiatorio e da cavia».

La Repubblica, 19 giugno 2013

Forse capirebbero, i Greci, come mai a Roma s’è riunito venerdì un vertice di ministri dell’Economia e del Lavoro, tra Italia, Spagna, Francia, Germania, per discutere il lavoro fattosi d’un colpo cruciale, e nessuno di essi ha pensato di convocare la più impoverita delle nazioni: 27 per cento di disoccupazione, più del 62 per cento giovani. Sono i tassi più alti d’Europa. Forse avevano qualcosa da dire, i Greci, sui
disastri della guerra
che le istituzioni comuni continuano a infliggere con inerte incaponimento, e senza frutti, al paese reo di non fare i compiti a casa, come recita il lessico Ue.


La Grecia è la
macchia umana 
che imbratta l’Europa, da quando è partita la cura d’austerità. Ha pagato per tutti noi, ci è servita al tempo stesso da capro espiatorio e da cavia. In una conferenza stampa del 6 giugno, Simon O'Connor, portavoce del commissario economico Olli Rehn, ha ammesso che per gli Europei è stato un «processo di apprendimento ». In altri paesi magari si farà diversamente, ma non per questo scema la soddisfazione: «Non è stata cosa da poco, tenere Atene nell’euro»; «Dissentiamo vivamente da chi dice che non è stato fatto abbastanza per la crescita». Poi ha aggiunto piccato: «Sono accuse del tutto infondate».
O'Connor e Rehn reagivano così a un rapporto appena pubblicato dal Fondo Monetario: lo stesso Fmi che con la Banca centrale europea e la Commissione è nella famosa troika che ha concepito l’austerità nei paesi deficitari e dall’alto li sorveglia.

L’atto di accusa è pesante, contro strategie e comportamenti dell’Unione durante la crisi. La Grecia «poteva uscirne meglio», se fin dall’inizio il debito ellenico fosse stato ristrutturato, alleggerendone l’onere. Se non si fosse proceduto con la micidiale lentezza delle decisioni prese all’unanimità. Se per tempo si fosse concordata una supervisione unica delle banche. Se crescita e consenso sociale non fossero stati quantità trascurabili. Solo contava evitare il contagio, e salvaguardare i soldi dei creditori. Per questo la Grecia andava punita. Oggi è paria dell’Unione, e tutti ne vanno fieri perché tecnicamente rimane nell’euro pur essendo
outcast
sotto ogni altro profilo.


Addio alla troika dunque? È improbabile, visto che nessun cittadino può censurare i suoi misfatti, e visto il sussiego con cui è stato accolto il rapporto del Fondo. L’ideale sarebbe di licenziarla fin dal Consiglio europeo del 27-28 giugno, dedicato proprio alla disoccupazione che le tre Moire della troika hanno così spensieratamente dilatato. Il Parlamento europeo non oserà parlare, e quanto alla Bce, le parole di Draghi sono state evasive, perfino un po’ compiaciute: «Di buono, nel rapporto FMI, è che la Banca centrale europea non è criticata ». Il Fondo stesso è ambivalente, ogni suo dire è costellato di ossimori (di asserzioni
acute-stupide,
etimologicamente è questo un ossimoro). Il fallimento c’è, ma è chiamato «necessario». La recessione greca è «più vasta d’ogni previsione », ma è «ineludibile». Il fato illogico regna ancora sovrano, solo che a gestirlo oggi sono gli umani.
In realtà c’è poco da compiacersi. L’Unione non ha compreso la natura politica della crisi – la mancata Europa unita, solidale – e quel che resta è un perverso intreccio di moralismi e profitti calcolati. Resta l’incubo del contagio e dell’azzardo
morale.
Condonare subito il debito, come chiedevano tanti esperti, significava premiare la colpa. E poi all’Europa stava a cuore proteggere i creditori, dice il rapporto del Fondo, più che scongiurare contagi: dilazionare le decisioni «dava tutto il tempo alle banche di ritirar soldi dalle periferie dell’eurozona
». La Banca dei regolamenti internazionali cita il caso tedesco: 270 miliardi di euro hanno abbandonato nel 2010-11 cinque paesi critici (Grecia, Irlanda, Portogallo, Italia, Spagna).
Ma la vera macchia umana è più profonda, e se non riconosciuta come tale sarà ferita che non si rimargina.

È l’ascia abbattutasi sull’idea stessa dei beni pubblici, guatati con ininterrotto sospetto. È qui soprattutto che salari e lavori sono crollati. E la democrazia ne ha risentito, a cominciare dalla politica dell’informazione. Il colmo è stato raggiunto la notte dell’11 giugno, quando d’un tratto il governo ha chiuso radio e tv pubblica – l’Ert, equivalente della Bbc o della Rai – con la tacita complicità della troika che esigeva licenziamenti massicci di dipendenti pubblici. Non che fosse una Tv specialmente pluralista, ma perfino chi era stato emarginato (come l’economista Yanis Varoufakis) ha accusato i governanti di golpe. Le televisioni private, scrive Varoufakis, sono spazzatura: «un torrente di media commerciali di stampo berlusconiano: templi di inculcata superficialità» da quando inondarono gli schermi negli anni ’90.
Il giorno dopo l’oscuramento di Ert (2700 licenziati) c’è stata una manifestazione di protesta a Salonicco. Tra gli oratori l’economista James Galbraith, figlio di John Kenneth, e il verdetto è spietato: cinque anni di crisi son più della seconda guerra mondiale condotta dall’America in Europa, più della recessione combattuta da Roosevelt. E la via d’uscita ancora non c’è.
Perché non c’è? Galbraith denuncia un nostro male: la
mentalità del giocatore d’azzardo.
Il giocatore anche se perde s’ostina sullo stesso numero, patologicamente. Continuando a ventilare l’ipotesi dell’uscita greca l’Europa ha spezzato la fiducia fra gli Stati dell’Unione, creando una specie di guerra. Ci sono paesi poco fidati, e poco potenti, che non hanno più spazio: i
Disastri
di Goya, appunto. Non è stata invitata Atene, alla riunione romana, ma neppure Lisbona: la sua Corte costituzionale ritiene contrari alla Carta due paragrafi del piano della troika, e da allora anche il Portogallo è paria. «Ci felicitiamo che Lisbona prosegua la terapia concordata: è essenziale che le istituzioni chiave siano unite nel sostenerla», ha comunicato la Commissione due giorni dopo la sentenza, rifiutando ogni rinegoziato. Mai direbbe cose analoghe sui verdetti della Corte tedesca, giudicati questi sì inaggirabili.
Macchie simili non si cancellano, a meno di non riscoprire l’Europa degli esordi. Non dimentichiamolo: si volle metter fine alle guerre tra potenze diminuite dopo due conflitti, ma anche alla povertà che aveva spinto i popoli nelle braccia delle dittature. Non a caso fu un europeista, William Beveridge, a concepire il
Welfare
in mezzo all’ultima guerra.
Le istituzioni europee non sono all’altezza di quel compito, attualissimo. Tanto più occorre che i cittadini parlino, tramite il Parlamento che sarà votato nel maggio 2014 e una vera Costituzione. È necessario che la Commissione diventi un governo eletto dai popoli, responsabile verso i deputati europei. Una Commissione come quella presente nella troika deve poter esser mandata a casa, avendo generato rovine. Ha perso il denaro, il tempo e l’onore. Ha seminato odio fra nazioni. Ha precipitato un popolo, quello greco, nel deperimento. Si fa criticare da un Fmi malato di doppiezze. È affetta da quello che Einstein considerava (la frase forse non è sua, ma gli somiglia) il sommo difetto del politico e dello scienziato: «L’insania che consiste nel fare la stessa cosa ripetutamente, ma aspettandosi risultati differenti

Un titolo fazioso e distorcente a un articolo che nella sostanza dice: Zagrebelsky, Rodotà e Diamanti concordi nell'affermare che la colpa non è di Grillo ma di chi gli dà ragioni da vendere".

La Repubblica, 9 giugno 2013

È una parola abusata nel lessico della politica italiana, ma su cui proprio per questo è indispensabile interrogarsi con franchezza. Populismo «vizio italiano » sul banco degli imputati, ieri sera in Palazzo Vecchio per Repubblica delle idee, con Ilvo Diamanti, Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà intervistati da Lucia Annunziata su «L’Italia postpopulista », sebbene parlare di «post», al momento, ha osservato la moderatrice, non sembri ancora il caso. Nell’aria l’eco dell’ultimo j’accuse di Grillo sul parlamento «tomba», «espressione inaccettabile», commenta Zagrebelsky (con Rodotà fra i primi dieci candidati alla presidenza della Repubblica dal movimento 5 stelle), «alla cui radice, però, c’è il discredito delle istituzioni parlamentari », «lessico di tempi feroci di cui Grillo non ha l’unica colpa», dice Diamanti, introducendo il tema della serata in modo problematico: «Il populismo deriva da demos, popolo, cioè fa parte della democrazia, e se se ne parla tanto vuol dire che la democrazia rappresentativa è percepita come poco nobile, incompleta, escludente». E insomma si trovi il coraggio di dirlo, dati alla mano (quel 50% di elettori italiani che non si ritrova più nei maggiori storici): «La colpa è di chi non ti dà più buone ragioni per votarlo, non di Grillo».

Non basta: «E se accusassimo di populismo semplicemente il cambiamento del nostro tempo? Cioè la democrazia ai tempi della tv, del web, dei social network?» propone Diamanti. Domande scomode, che intaccano sicurezze (politiche) sedimentate: «È vero» conferma Rodotà, «demonizzare la rete è un errore pericoloso», e bisogna ammetterlo: «La democrazia rappresentativa non è messa a rischio dalla democrazia partecipata, ma dalla ignoranza di questo strumento che può invece rivitalizzarla in modo straordinario». Perché sia chiaro: la democrazia, in Italia, non sta affatto bene, «e il populismo non è che un modo per usare il popolo facendolo coincidere con la democrazia». Basta vedere «come è facile distorcere l’idea stessa di sovranità popolare, usarla a favore della personalizzazione della politica», e magari sostenere che «se i cittadini mi votano ho il diritto al potere anche se ho addosso duecento condanne ». E’ l’effetto, nota Zagrebelsky, «del venir meno dei simboli, di cui, però, la politica non può fare a meno». Quelli che un tempo evocavano intere culture politiche (vedi lo scudo crociato), e «oggi sono soppiantati dai simboli semplificati dei leader in persona, movimenti e partiti che hanno successo solo perché sono personali, come Pdl e M5S. Ve lo immaginate - chiede al pubblico il costituzionalista - il Movimento 5 Stelle senza Grillo?».
Ma parlare di populismo e discutere di presidenzialismo, è un attimo, e il dibattito si schiera ben presto sul fronte rovente, toccando anche il tema riforme istituzionali, su cui il premier Letta, poco prima, nello stesso Salone dei ‘500, «ha dato, dice Diamanti, «risposte che non erano risposte». Concorda Rodotà: «Eludere il tema della legge elettorale mi sembra un fatto molto grave, quella attuale insidia anche la possibilità di lavoro del governo» osserva il giurista a proposito della mancata «messa in sicurezza» del Porcellum, «quando lo ritenesse conveniente qualcuno che può dire “stacchiamo la spina e andiamo a votare con questa legge” ci sarà
sempre», e invece «una legge elettorale dovrebbe garantire sempre la neutralità del gioco».
Quanto al presidenzialismo «attenzione» avverte Diamanti, se «per fare riforme istituzionali non ci vuole molto», per quelle costituzionali «occorrono molte buone ragioni e condivisione», e insomma guai a confondere «la Costituente con il governo di larghe intese». «Le riforme costituzionali possono essere un salto nel buio» avverte Zagerbelsky, che insiste nel mettere in guardia l’Italia dal “salto” presidenzialista: «In un paese con un alto tasso di corruzione, e un basso tasso di istruzione e cultura, introdurre forme di governo semplificato sarebbe un pericolo». Anziché sulle ingegnerie istituzionali, che considerano la vita politica come un puro meccanismo mentre serve sempre «uno studio profondo dell’ambiente politico istituzionale cui si far riferimento», si punti piuttosto, dice Zagrebelsky, «a cambiare la qualità della politica », per non correre il rischio di «fare le riforme, e poi tenerci la politica così com’è, anche se non piace a nessuno».

«Non abbiamo ancora un ministero della Verità deputato a tagliare le notizie che danno fastidio al grande fratello, ma il sottile, continuo e sordo limare i significati delle parole prosegue a ritmo incessante».

La Repubblica, 6 giugno 2013

NEL mondo orwelliano della neolingua il bianco è nero, il freddo è caldo, e la guerra è pace. Non abbiamo ancora un ministero della Verità deputato a tagliare le notizie che danno fastidio al grande fratello, ma il sottile, continuo e sordo limare i significati delle parole prosegue a ritmo incessante. Così il governo di emergenza diventa il governo delle larghe intese. La difesa delle istituzioni un conservatorismo codino e reazionario, la legalità un fastidioso impedimento (non legittimo, ovviamente). E infine, a coronamento di questo strisciante rovesciamento del mondo, una situazione eccezionale e transitoria — come giustamente l’ha definita lo stesso auspice di tale situazione, il presidente Giorgio Napolitano — diventa nientemeno che la «pacificazione nazionale». Come fossimo all’indomani del 1945 dopo i due anni di morti e violenze per tutto il paese. C’è da rimanere allibiti per paragoni del genere. Nemmeno alla fine degli anni di piombo, nonostante venisse invocata anche allora dai protagonisti delle violenze, aveva senso parlare di pacificazione: non si poteva riconoscere alcuna legittimità a chi aveva imbracciato il mitra o maneggiato il tritolo contro la democrazia e i suoi rappresentanti. Figurarsi se ha senso adesso quando, per fortuna - e grazie anche al movimento di Beppe Grillo - la frustrazione e la rabbia di tanti non ha preso la via della disperazione distruttiva. Una via che ha solcato la storia della nostra nazione.

Fino agli anni Ottanta lo scontro politico non conosceva limiti e l’avversario politico non aveva dignità alcuna, con tutte le conseguenze del caso. Ma poi si aprì una stagione nuova, di «riconoscimento » reciproco, in cui i neofascisti, con Giorgio Almirante in testa, andavano a rendere omaggio alla salma di Enrico Berlinguer, e i comunisti, guidati da Giancarlo Pajetta, onoravano il feretro di Almirante. Quella stagione ha posto le basi per il superamento di antichi steccati e per il crollo del vecchio sistema dei partiti. Si avviava una fase inedita. Lo prova la fiducia che tanti riformatori riponevano nel cambiamento del sistema elettorale al tempo dei referendum del 1993: quel passaggio metteva in moto un «nuovo sistema», riformato ma intatto nell’impianto. Il bilanciamento tra rinnovamento e conservazione era garantito proprio da un quel clima di ottimismo riformatore. Poi tutto si è invelenito. Basti pensare al fallimento della Bicamerale.

Chi oggi invoca senza retropensieri la riscrittura della Costituzione dovrebbe tenere presente quella esperienza. Finché serve a Berlusconi il dialogo può continuare, ma se le «cose» cambiano allora viene buttato tutto alle ortiche. E per «cose» intendiamo, ovviamente, i processi del leader della destra. Il Cavaliere vuole una cosa sola, l’immunità/impunità. La cerca attraverso varie strade: un ennesimo intervento legislativo ad hoc (e in poche settimane ne abbiamo contati un bel numero), un intervento dall’”alto” per ammorbidire i procedimenti giudiziari, e persino un laticlavio senatoriale. E, in prospettiva, anche una repubblica presidenziale. Il suo destino personale, ancora una volta, si sovrappone al normale funzionamento di un sistema democratico, che si fonda sul bilanciamento e l’autonomia reciproca dei poteri e sul primato della legge.

Contro il rispetto di questi cardini fondamentali la destra gioca le carte dell’emotività neo orwelliana, introducendo nel linguaggio politico il termine falso di pacificazione, e dello stravolgimento delle regole. Non c’è nulla da pacificare — ed è sconcertante che questa espressione abbia circolazione al di là del manipolo dei fedelissimi del Cavaliere — perché è la fedeltà alle norme democratiche sancite dalla costituzione che garantisce a tutti una «pacifica» cittadinanza politica. Pertanto, ogni intervento su quel patto fondante va fatto con molta cura e attenzione, per evitare un esito da apprendisti stregoni.

Durissima invettiva, condivisibile in ogni passaggio. «La nostra guerra d’Algeria l’abbiamo in casa: è la nostra casa, squassata, che va decolonizzata. Sono qui i golpisti, non lontani nelle colonie. Piazzare all’ingresso un padre-padrone, non preserva la casa dalla rovina».

LaRepubblica, 5 giugno 2013

COME se fosse l’architettura dei poteri e una Costituzione difettosa, a impedire alla politica e ai partiti di ritrovare la decenza perduta, o a darsene una ex novo. Come se un capo di Stato eletto direttamente dal popolo, e più dominatore – è il farmaco offerto in questi giorni – servisse a curare mali che non vengono da fuori, ma tutti da dentro, dentro la coscienza dei partiti, dentro il loro rapporto con la cosa pubblica, con l’elettore, con la verità delle parole dette.

De Gaulle in Francia concepì la Repubblica presidenziale per sormontare la guerra d’Algeria: aveva di fronte a sé un compito immane – la decolonizzazione – e alle spalle una classe politica incapace di decidere. Non aveva tuttavia uno Stato intimamente corroso come il nostro, in cui i cittadini credono sempre meno. La costituzione semi-monarchica nacque per adattarsi a lui – l’uomo che da solo era entrato in Resistenza, nel 1940 – non per servire un capopopolo stile Berlusconi, che non sopporta il laccio di leggi e costituzioni. La politica francese prima del 1958 era inservibile, ma la corruzione morale e mentale non l’aveva sgretolata sino a farla svanire. La nostra guerra d’Algeria l’abbiamo in casa: è la nostra casa, squassata, che va decolonizzata. Sono qui dentro i golpisti, non lontani nelle colonie. Piazzare all’ingresso dell’edificio un padre-padrone, con poteri più vasti ancora di quelli che già possiede, non preserva la casa dalla rovina.

E poi non dimentichiamolo. Non fu facile far nascere la Quinta Repubblica. L’accentramento dei poteri all’Eliseo rese il Paese più efficiente, ma moltiplicò opache derive e non lo democratizzò. Avvenne piuttosto il contrario: un Presidente autocrate e decisamente di parte; un Parlamento in gran parte esautorato; un governo sempre sacrificabile dal Capo supremo, e non a caso chiamato fusibile: la Quinta Repubblica è anche questo, e venne confutata da politici e costituzionalisti di rilievo. Non si oppose solo il socialista Mitterrand, che nel ’64 scrisse Il colpo di Stato permanente, denunciando antiche vocazioni bonapartiste e la perdita – grave – della funzione di arbitro del Presidente. Pur esecrando il precedente regno dei partiti, pur approvando l’elezione diretta, si sollevarono anche costituzionalisti come Maurice Duverger: nella nuova Costituzione, egli scorse fin dal ’59 «spirito di rivincita» e partigianeria: “Ogni costituzione è un’arma politica, attraverso la quale un partito vincitore cerca di consolidare la propria vittoria e trasformare gli avversari in vinti”.

Né la rivolta fu solo di sinistra. L’attacco finale venne da Jean-François Revel che, osservando l’uso socialista della Carta gollista, scrisse un pamphlet feroce: L’assolutismo inefficace. Mitterrand fu accusato di indossare il detestato manto presidenzialista per spezzare la dialettica democratica: “Le costituzioni sono cattive quando il controllo può divenire invadente al punto di paralizzare l’esecutivo, oppure quando l’esecutivo diventa onnipotente al punto di annientare il controllo”. Testi simili aiutano a capire. Una costituzione è buona se consente controlli: “Senza contropoteri costituzionali – così Revel – il Presidente reagisce solo a forze esterne alle istituzioni: ai media e alle piazze”. Né si può dire che il presidenzialismo sia, almeno, più efficace: “Una buona costituzione non solo associa controllo ed efficacia senza sacrificarli l’un l’altro, ma garantisce l’efficaciaperché esiste il controllo”.

Bisogna comunque avere uno Stato e virtù pubbliche ben solidi, per schivare questi pericoli. E l’Italia di oggi, dopo la Prima repubblica degradata in Tangentopoli, nella P2, nei patti Stato-mafia, dopo il ventennio dominato da uno scardinatore di istituzioni come Berlusconi, faticherà a salvaguardare la democrazia se cincischia la Carta proprio ora: è come se De Gaulle l’avesse negoziata con l’Organizzazione dell’armata segreta Oas. E non perché possediamo
“la Costituzione più bella del mondo”, ma perché il vero check and balance, il reciproco controllo fra poteri indipendenti, non è compiuto.

Più che bellissima, la nostra Carta è finalmente da realizzare. Credere di raddrizzarla con il presidenzialismo vuol dire aggiungere un potere, lasciandola storta. Dicono che il popolo tornerebbe a esser sovrano, votando il Presidente. Non è detto affatto, rammentano i detrattori della V Repubblica. Mitterrand descrive rischi che saranno anche i nostri: una volta svuotati Parlamento, politica, governi, “si installa una tecnocrazia rampante, una sfera di amministratori indifferenti al popolo” che “confiscano il potere della Rappresentanza nazionale”. Citiamo ancora Revel: “La logica della V Repubblica deresponsabilizza, perché il potere è attribuito da un onnipotente irresponsabile a creature che sono solo emanazioni della sua essenza, e che dunque partecipano del suo privilegio di irresponsabilità”. De Gaulle non era temuto come tiranno. Ma i suoi successori?

Altro scenario in Italia. Primo, perché non c’è un De Gaulle fra noi. Secondo, perché il contesto conta quando si disfa la Carta e il contesto nostro è quello di uno Stato diviso in bande, che ha patteggiato finanche con le mafie. Un male come il nostro nemmeno sappiamo più bene nominarlo, e proprio quest’afonia trasforma le discussioni sul presidenzialismo in furbo escamotage. In doppia fuga: fuga dai fondamenti (quale bene pubblico è difeso da partiti o sindacati?) e fuga da noi, dalla nostra storia di colpe e misfatti. Una storia in cui si bagnano ormai destra e sinistra.

Se evochiamo parole morali come colpe e misfatti è perché qui è il nostro guaio, dilatatosi a dismisura: l’aggiramento voluto delle volontà cittadine, la parola sistematicamente non tenuta, il tradimento. Il governo Letta è visto come inciucio perché nato da intese tutte fuoriscena, ob-scaena.

È strano come i politici, perfino gli innovatori, evitino di menzionare una tema che resta cruciale: la morale pubblica. Giacché è per immoralità che si rinviano le cose prioritarie, anteponendo l’escamotage. Mai come adesso invece, la questione posta da Berlinguer nei primi ’80 è stata così attuale. Oggi come allora, è obbligo etico il «corretto ripristino del dettato costituzionale», il divieto ai partiti di occupare lo Stato. Nulla è cambiato rispetto a quando Berlinguer diceva a Scalfari che la questione morale «è il centro del nostro problema»: quell’«occupazione » produce sprechi, debito, ingiustizia. È questione morale allontanarsene subito. È urgente, fattibile, e però intollerato dalle oligarchie. Per questo pesa ilcontesto delle riforme istituzionali, e inane è mimare Parigi. Questo è un paese dove non è stata mai fatta una legge sul conflitto di interessi. Dove un magnate tv ha governato nonostante una legge del ’57 proibisca l’elezione di titolari di concessioni pubbliche (frequenze tv). E restano le leggi ad personam, grazie a cui quest’ultimo elude processi e condanne.

Questo è il paese dove si ha l’impressione che niente sia vero, di quanto detto in politica. Che tutto sia fumo o diversivo. Il Pd aveva promesso di non governare con Berlusconi, e ora Berlusconi comanda. Aveva promesso di cambiare subito la legge elettorale, restituendo all’elettore la scelta dei suoi rappresentanti, e neppure questo fa. Quel che è accaduto giorni fa è una pagina nera, simile alla pugnalata di Prodi. La mattina del 29 maggio il deputato Pd Giachetti raccoglie adesioni contro il Porcellum per tornare automaticamente alla legge Mattarella (1 milione 210.000 italiani hanno chiesto un referendum per ottenere proprio questo, il 30-9-11). Circa 100 firmano: di Pd, Sel e 5 Stelle. Ma arriva l’altolà di Enrico Letta e Finocchiaro («È intempestivo, prepotente!») e dei Pd resta solo Giachetti. Se ne parlerà, sì, ma se vorrà Berlusconi.

Questo è un paese dove si mente al popolo, annunciando pompose abolizioni del finanziamento pubblico ai partiti, e poi ecco una proposta che obbliga i contribuenti a sovvenzionarli col 2 per mille, anche quando non lo dichiarano (le cosiddette somme “inoptate”) Questo è un paese dove il presidente della Repubblica esercita poteri imprevisti. Con che diritto, sabato, ha definito «eccezionale» il governo: «a termine»? Il Quirinale già ha pesato molto, influenzando il voto presidenziale e favorendo le grandi intese. Formidabile è la coazione a ripetere inganni, tradimenti. La chiamano addirittura pace, responsabilità. In realtà nessuno risponde di quel che fa o non fa. Deridono Grillo, che chiama portavoce i rappresentanti. Ma loro non sono affatto rappresentanti, essendo nominati. Nessuno è imputabile, e che altro è la non-imputabilità se non la fine d’ogni etica pubblica.

Una lettera aperta ai/alle parlamentari del Partito democratico. I pessimisti direbbero:”interrogato il morto, non rispose”; gli ottimisti: “ finché c’è vita c’è speranza”. Vedremo chi in questo caso avrà ragione.

L’Unità, 4 giugno 2013

Caro deputato/a del PD, con il sostegno di 80.000 firme, e di 650 associazioni e 50 enti locali, 158 tuoi colleghi e colleghe (14 dei quali del tuo gruppo) hanno sottoscritto una mozione per interrompere la partecipazione italiana al programma di acquisizione e costruzione dei cacciabombardieri F35. Non è ancora nota la posizione ufficiale del Pd, quindi mi permetto di rivolgerti alcune domande.


1. Bersani affermava in campagna elettorale che «il lavoro viene prima degli F35»: il Pd mantiene ancora questa posizione o l’ha mutata, e perché?
2. Per l’Italia il costo complessivo del programma F35 è 14 miliardi di euro, e lo stanziamento 2013 per gli investimenti in sistemi d’arma (F35 e sommergibili U-212) è oltre 5 miliardi e 200 milioni di euro. Ritieni che siano cifre sostenibili, in un Paese in cui si stenta a trovare risorse per cassa integrazione, scuola, lavoro?

3. Il ministro Mauro ha dichiarato che gli F35, aerei armati anche di ordigni nucleari, sono «uno strumento di pace» necessario per la difesa. Si tratta di una posizione decisa collegialmente dal governo, e quando? Quale posizione hanno preso i ministri del Pd, e sulla base di quale mandato?
4. Molti Paesi partner del programma (Canada, Gran Bretagna, Danimarca, Olanda, Australia, Norvegia) stanno rivedendo la scelta degli F35, o l’hanno rinviata. Il Gao (la Corte dei Conti Usa) ha criticato le spese folli per un cacciabombardiere che presenta molti problemi tecnici (vulnerabilità ai fulmini, problemi al motore e al casco del pilota, ecc), documentati peraltro anche da un’inchiesta della Rai. Non servirebbe un supplemento di riflessione anche in Italia?

5. La mozione parlamentare chiede di destinare le somme oggi previste per gli F35 ad un piano di investimenti per la messa in sicurezza degli edifici scolastici, la tutela del territorio dal rischio idrogeologico, l’apertura di asili nido. Tale piano garantirebbe decine di migliaia di posti di lavoro, a fronte delle poche centinaia previsti per la costruzione degli F35. Il Pd ritiene più urgenti questi investimenti, o l’acquisizione di cacciabombardieri?

6. Durante la campagna elettorale anche Berlusconi dichiarò che agli F35 si può rinunciare: il Pdl non farà cadere il governo per difendere lo sperpero di 14 miliardi. Non credi che su questo tema valga la pena di far valere l’autonomia del Parlamento?

7. Non ritieni che questioni di così grande portata richiedano una trasparenza del dibattito e del percorso decisionale, e che dunque il Pd debba incontrare al più presto i firmatari della mozione e le associazioni che la sostengono, per ascoltarne e valutarne le ragioni? Tutto qui. Attendo con fiducia le tue risposte, non tanto a me, ma all’opinione pubblica e al tuo stesso elettorato.

Addolorata dalla scelta presidenzialista di Letta, Prodi e altri esponenti del suo partito l'ex presidente del PD afferma:«è una scelta che stravolge la Carta. Io non scambio il governo Letta e la sua tenuta con la Costituzione, che deve durare ben oltre le larghe intese». LaRepubblica, 4 giugno 2013

Rosy Bindi, ha ricominciato a dare battaglia?
«Se la coerenza in politica è ancora un valore, faccio la battaglia che considero giusta per la Costituzione e che ho sempre fatto quando qualcuno ha cercato di indebolire e stravolgere la Carta. Ora, se vogliamo, ci sono le condizioni per le riforme di revisione costituzionale indispensabili perché funzioni la nostra democrazia».
Però lei è contraria sia al presidenzialismo che al semi presidenzialismo?
«Premetto che noi come Parlamento non abbiamo un potere costituente, ma solo di revisione della Costituzione, cioè non possiamo dare alla Carta un impianto completamente nuovo rispetto alla Costituente del 1946. Possiamo invece intervenire per rendere funzionante quell’impianto, le scelte che sono state compiute. E la nostra è una democrazia parlamentare».
Che però funziona male?
«Con il bicameralismo perfetto e mille parlamentari, con una riforma federalista incompleta, con il cambiamento delle leggi elettorali in senso maggioritario, senza pesi e contrappesi, il nostro assetto democratico non funziona. Cambiamenti quindi sì, ma per rendere efficiente la forma di governo e di Stato nella cornice costituzionale. Il Pd è stato in prima linea in questi anni contro i tentativi di stravolgere la Costituzione e ha vinto un referendum contro la destra. L’Assemblea del partito nel 2011 ha detto “no” a ogni forma di presidenzialismo e ha avanzato la proposta del modello tedesco con il cancellierato e la sfiducia costruttiva per rafforzare il capo del governo e rendere più funzionante il Parlamento ».
Ma adesso il Pd ha cambiato opinione?
«Vedo prese di posizione anche molto autorevoli, che sembrano andare in senso opposto».
Come quella di Prodi?
«Penso al segretario Epifani; al presidente del Consiglio Enrico Letta che si è lasciato scappare che mai più eleggeremo in parlamento un presidente della Repubblica. Penso a Veltroni. C’è stata anche la presa di posizione di Prodi, che mi addolora in modo particolare. Ma non cambio idea».
Perché? «La scelta del semi presidenzialismo è quella più innaturale per la nostra Costituzione e per il nostro paese».
Per via di Berlusconi e del rischio “caudillo”?
«Se diventa un’altra battaglia anti berlusconiana punto e basta, è più difficile vincerla. Il nostro è un paese che in questi anni ha visto crescere spinte populiste e tentazioni plebiscitarie, nel quale manca la legge sul conflitto d’interessi. Con il semi presidenzialismo alla francese, indeboliremmo la figura di garanzia del capo dello Stato, che non avrebbe più quel profilo di garante che è un capolavoro della nostra Carta. Renderemmo marginali il Parlamento e il capo del governo. Proporrei di fare come prima riforma il conflitto d’interessi in Costituzione. Vediamo se il centrodestra ci sta, e mettiamo poi mano
al resto».
Sempre senza introdurre il semi presidenzialismo?
«In un paese così diviso, con una corruzione così forte, con un rischio di criminalità invasiva abbiamo bisogno di rafforzare la democrazia parlamentare e partecipativa, non di prendere la scorciatoia del presidenzialismo. Invocando questo tipo di riforma istituzionale, rischiamo - è l’errore dell’affer-mazione di Letta - di pensare che la settimana di calvario per l’ultima elezione del capo dello Stato sia dipesa dalla mancata riforma della Costituzione. No. La responsabilità è stata dell’inadeguatezza delle forze politiche e degli errori del Pd».
I partiti sono deboli?
«Vanno rafforzati e riformati profondamente».
È favorevole all’abrogazione del finanziamento pubblico?
«Ritengo sia una sferzata utile. Però dobbiamo stare in Europa dove ovunque cisono forme di finanziamento pubblico».

Per ripristinare l'equilibrio tra i poteri istituzionali, condizione necessaria della democrazia rappresentativa, è necessario restituire autorità ed efficacia al Parlamento, non accentuare ulteriormente il potere del Presidente. I

l manifesto, 4 giugno 2013

Un centrosinistra allo sbando si appresta a discutere di riforme costituzionali con un centrodestra agguerrito. Può non essere piacevole dirlo per chi milita tra le file degli «sbandati», ma questa è la realtà ed è inutile nasconderla. Basta pensare al modo in cui si è aperta la discussione sulla modifica della nostra forma di governo parlamentare per avere una conferma del grave stato di confusione in cui versa il centrosinistra. Il 22 maggio il ministro per le riforme costituzionali (esponente del centrodestra) indica le diverse ipotesi possibili: «Abbiamo di fronte due strade - scrive Quagliariello - la forma di governo parlamentare razionalizzata e il semipresidenzialismo secondo il modello francese». Consapevole dunque che alla proposta tradizionale della sua parte politica, da sempre favorevole all'elezione diretta del presidente della Repubblica, si contrappone quella della parte politica avversa che nella razionalizzazione della nostra forma di governo trova il suo ambito naturale. Veniva così definito il terreno del confronto. È bastata una settimana, senza neppure bisogno di aprire la discussione nelle sedi parlamentari proprie, perché autorevoli esponenti del centrosinistra - l'accorto presidente del Consiglio in primo luogo - dichiarassero la resa: che si discuta esclusivamente di come eleggere il capo dello Stato, l'unica via per riformare il sistema costituzionale.
A questo punto un doppio risultato è già stato ottenuto: da un lato la rottura del fronte di centrosinistra, che sarà condannato a dividersi e a lacerarsi in scontri traumatici tra neopresidenzialisti e filo parlamentaristi; dall'altro la sicurezza per il centrodestra di aver già ottenuto il pieno successo culturale, avendo portato l'avversario storico a riconoscere la bontà delle sue tradizionali proposte.
Diventa urgente rimettere le cose al loro posto, nella speranza che non sia troppo tardi. È necessario dire ad esempio che gli argomenti di chi a sinistra auspica l'elezione diretta del capo dello Stato non sono per nulla innovativi, bensì espressione di una cultura conservatrice. È necessario dire ad esempio che il passaggio da una forma di governo parlamentare a una semipresidenziale non risolverà la crisi politica e istituzionale in cui versa l'Italia, bensì la farà definitivamente precipitare rendendo ancor più incerto il governo democratico del paese. Un'accusa di arretratezza culturale e di miopia politica che - a sinistra - dovremmo impegnarci a dimostrare se vogliamo dare un contributo critico, ma anche costruttivo, alla prossima discussione sulle riforme della costituzione. Se vogliamo uscire dalla subalternità cui da troppi anni siamo costretti e che ci hanno portato a subire - distratti e afoni - l'egemonia altrui.
Per ora, nelle poche righe di un articolo, limitiamoci a ricordare l'essenziale. Il problema - culturale e politico al tempo stesso - delle forme di governo (tanto di quelle parlamentari, quanto di quelle presidenziali) è principalmente quello di definire un equilibrio tra i poteri e tra gli organi costituzionali. In ogni caso in cui il rapporto tra parlamento, governo e capo dello Stato volge a favore di uno solo di tali organi si produce una degenerazione e la crisi politica comincia ad avvitarsi su se stessa, con pericolosi spostamenti di potere e tendenze all'assolutismo di uno dei tre organi. Esattamente quel che è avvenuto in Italia. Potremmo ripercorrere la storia dell'ultimo ventennio per vedere i progressivi spostamenti dei poteri tra un organo e un altro, ci renderemmo così facilmente conto di come, a fasi alterne, ora il governo, ora il capo dello Stato, hanno assunto un ruolo di dominanza, rompendo il fisiologico equilibrio tra i poteri. Da questo scompenso deriva la crisi della nostra forma di governo.
L'affermazione comunemente ripetuta di un governo senza poteri adeguati è priva di senso costituzionale: la migrazione del potere legislativo dal parlamento all'esecutivo dimostra il contrario. Tutti i governi dell'ultimo trentennio - e da ultimo con sempre maggiore intensità - hanno dettato l'agenda legislativa, relegando il parlamento in un ruolo servente. In caso sono le divisioni politiche, le debolezze strategiche, gli opportunismi dei leader a rendere instabile un esecutivo dotato di poteri in eccesso. Immaginare che un rafforzamento del governo possa passare per un'ulteriore concentrazione dei poteri nelle mani di chi già ne ha troppi dimostra un'elevata dose di spregiudicatezza costituzionale. Non sarà rafforzando l'esecutivo che usciremo dalla crisi politica.
Per quanto riguarda più direttamente il capo dello Stato, l'ultima convulsa fase politica ha imposto una «reggenza» proprio a quell'organo che nel nostro paese svolge le funzioni di garanzia degli equilibri costituzionali. Può essere compreso che nel vuoto della politica e nella perdita di potere delle altre istituzioni il garante del sistema sia spinto a dare soluzioni alle crisi, ma dovrebbe essere anche evidente che per evitare una degenerazione degli equilibri costituzionali è necessario ristabilire quanto prima la fisiologia, puntando dunque ad un riequilibrio. Immaginare, invece, che la soluzione alla crisi della nostra forma di governo possa passare stabilizzando lo sbilanciamento e snaturando la figura di garanzia del presidente è illusorio e pericoloso.
Pericoloso soprattutto perché negli ultimi vent'anni un organo è certamente stato sacrificato e ha bisogno di essere riqualificato se si vuole evitare la degenerazione della forma di governo: il parlamento. Non può esservi strategia culturalmente consapevole e politicamente efficace che non ponga al centro della riforma istituzionale e costituzionale la questione dell'organo della rappresentanza politica.
Espandere i poteri del parlamento, rilanciare la rappresentanza politica, mettendo in discussione le chiusure prodotte nell'ultimo ventennio, dovrebbe essere il compito di riformatori consapevoli della gravità in cui versa il sistema costituzionale italiano. Una strada che appare ostruita dai tanti che non sono disposti ad andare alla radice delle disfunzioni della nostra forma di governo. Il paradosso è che questi, che sono i veri conservatori, si presentano come finti innovatori. Un ribaltamento di senso che spiega molto delle sventure della sinistra e della confusione del nostro tempo.

Parole sante. Una visione politica ed etica dell'Italia di oggi nell'intervista allo scrittore siciliano: «Dal Colle invasione di campo non da Repubblica parlamentare. Berlusconi, Marchionne, i Riva, l'Italia è nelle mani di queste persone».

Il Fatto Quotidiano, 2 giugno 2013

La signora Rosetta apre la porta di casa sorridente. Un filo di fumo ci guida da Andrea Camilleri, al lavoro nel suo studio: è appena uscito Come la penso, autobiografia in forma di saggi e racconti (Chiarelettere). E da Sellerio il nuovo Montalbano, Un covo di vipere. Nuovo, ultimo no. “Quando mai! L’ultimo Montalbano l’ho già scritto, quando ho compiuto ottant’anni: posso dire che il commissario non muore. E che non sposa Livia, non è tipo da matrimonio Salvo Montalbano”. Lui no, ma Andrea Camilleri sì: quest’anno fanno 56 anniversari di nozze. “Ci vuole tanta voglia di stare assieme. E tanta pazienza”. “Ma il commissario è diventato un fedifrago cronico”, proviamo a protestare. “È perché i maschi quando sentono arrivare la vecchiezza diventano di una fragilità sentimentale incredibile. Quando l’ho detto a mia moglie, mi ha risposto: Spero che non sia autobiografico, Andrea”.

In Come la penso tratteggia una sorta di ritratto “genetico” dell’italiano: impietoso.
C’è un modo di pensare, nell’italiano, che è ancora fascista: piace la prevaricazione, la sopraffazione. È un virus mutante, come quello dell’influenza. Si fa il vaccino e già il virus è cambiato. Noi italiani, è sgradevole dirlo, non amiamo i politici che ragionano e agiscono onestamente. Ferruccio Parri, un uomo mite, onesto, era appena stato nominato presidente del Consiglio e già tutta l’Italia lo chiama “Fessuccio”. Non piacciono, all’italiano, le persone dimesse: bello il luccicore delle divise, bella la parola tonante. Berlusconi no, non è un fascista. Ma ha un modo di proporsi, da gerarca, che piace molto perché è speculare a una certa mentalità italiana. I giudici scrivono: “Anche da presidente del Consiglio gestì una colossale evasione fiscale”. In un Paese normale, questo avrebbe annullato Berlusconi; in Italia gli fa guadagnare voti.

Che dice delle ragazze?
Chi è causa del suo mal pianga se stesso. Credo che anche queste storie destino l’ammirazione di tanti maschi italiani, e pure di tante femminelle che vorrebbero essere “olgettinizzate”: mettiamo sul mercato questo verbo. Tu ti porti a casa una ragazza, due, tre. E puoi passare inosservato. Ma lui se ne porta a casa trenta perché non vuole affatto passare inosservato: è scioccamente esibizionista.

Su MicroMega lei ha sostenuto l’ineleggibilità di Berlusconi.
I suoi cosiddetti avversari dicono: “Preferiamolo batterlo politicamente”. Solo che non ci sono mai riusciti. E dire questo, batterlo politicamente piuttosto che per vie giudiziarie, è sottilmente pericoloso. I processi se ne vanno per i fatti loro e non si tratta di battere Berlusconi, si tratta di giudicarlo per i reati che ha commesso o non commesso. Dire: preferisco sconfiggerlo politicamente, significa opzionare che la giustizia sia alleata dei politici. L’unica via che hanno è quella di ricorrere a questa legge.

Come fanno a far valere l’ineleggibilità? Il Pdl sta al governo con il Pd…
Io non faccio parte del Pd: se la vedano loro, che si sono consegnati mani e piedi a Berlusconi. Secondo me andrebbe rispettata la legge.

Cadrebbe il governo.
Non so se a Berlusconi converrebbe far cadere il governo, l’Italia è in una situazione difficilissima. Ma me lo faccia dire: come cittadino sono stanco dei ricatti. L’Italia è diventata un Paese che vive di ricatti. E non riguarda solo Berlusconi. Il ricatto lo fa Marchionne, lo fanno i Riva a Taranto. Ormai siamo condizionati dai ricattatori.

Lei ha la stessa età del presidente Napolitano.
Sì, siamo del ‘25 tutti e due: la rielezione non era cosa. Aveva fatto bene quando aveva detto “Me ne vado e buona sera”. Il secondo mandato è stato un errore, sia per chi l’ha proposto sia per chi ha accettato.

Un passaggio strano per i modi, quasi da Repubblica presidenziale.
Da quel momento tutto il fatto costituzionale è andato a vacca. C’è stato un allentamento delle briglie costituzionali, tanto valeva – a lume di logica e di naso e di buon senso – fare un governo del Presidente. È stato più grave l’intervento sui partiti del capo dello Stato. Una sorta d’invasione di campo, un fatto non da Repubblica parlamentare. Bisogna rispettare la Costituzione: non devo essere io a dirlo, dovrebbe essere il presidente Napolitano. Il secondo mandato non è proibito, ma non è un caso che non sia mai successo. Di solito, poi, uno non arriva a fare il capo dello Stato a 40 anni: due mandati fanno 14 anni e te ne vai a 54. Qui te ne vai a 95.

Non un bel segno non aver trovato un’alternativa.
Appena sentii che i Cinque Stelle proponevano Rodotà, feci un balzo di gioia. Dissi a mia moglie: “Che meraviglia, ora agguantano al volo questa liana sospesa, come Tarzan. Ed è fatta”. Quando mai… e sono riusciti a far fare quella figura a Prodi, Dio mio. L’alternativa c’era, era Rodotà. Cosa ostava a Rodotà?

Loro hanno detto che non ha telefonato…
Queste cose io a sei anni le facevo. “Eh no, perché non mi ha dato la caramella”. M’ha telefonato, non m’ha telefonato: non possono essere ragioni valide per la politica. Sono ragioni infantili, piccole scuse. Se ne possono trovare di migliori.

Tre anni fa in un’intervista al Fatto, disse: “Il Pd va verso il suicidio, avrebbe bisogno di una seduta psicanalitica collettiva”. Quasi profetico.
Devo ammettere, ahimè, che in queste ultime elezioni ho suggerito di votare Pd. Ho aderito a un invito di Alberto Asor Rosa. Lui temeva che un Pd debole fosse costretto ad allearsi con Monti: si pensava che Monti avrebbe avuto un successo maggiore. E l’idea di Asor Rosa era portare il Pd a un’alleanza con Sel, invece che Monti. Sbagliammo i calcoli, entrambi. Tutto potevamo prevedere, tranne le estrosità di Pier Luigi Bersani.

Estrosità?
Eh, chiamiamola così. Dissi quel fatto della psicanalisi per via delle due anime del Pd: una cattolica e una ex comunista. Invece la cosa è risultata ancora più complessa: la lunga convivenza tra queste due anime ha fatto sì che invece di essere una bianca e una nera, diventassero tutte e due grigie. Creando situazioni psicanalitiche ancora più oscure. Ora, onestamente, siamo più da psichiatria che da psicanalisi.

Che fine farà il Pd?
Sparisce. O si raccoglie attorno agli oppositori interni, come Civati.

Epifani?
Una toppa.

In questi giorni arrivano dalla sua Sicilia notizie del processo sulla trattativa Stato-mafia. Che idea si è fatto di questa storia?
Dunque: uomini dello Stato e mafiosi sono accusati di avere trattato insieme. Tu puoi ipotizzare che le prime trattative si svolsero con Totò Riina. Puoi pensare che un capomafia come lui vede sedersi davanti a sé un colonnello dei Carabinieri e non gli chiede le commendatizie?

Cosa sono?
Chi c’è dietro, chi ti manda. Da questa parte abbiamo un capomafia di grande potere e grande forza, dall’altra un semplice colonnello dei Carabinieri. È chiaro che mai lo avrebbe ricevuto se questo colonnello dei Carabinieri non gli avesse portato le credenziali. Cioè a dire: dietro di me, c’è questo e quest’altro ministro. E te ne do anche la prova. Oggi due ministri sono accusati di falsa testimonianza: è cosa da poco, uno scherzetto. Il generale Mori non ha mai detto chi lo mandò, ma è chiaro che non andò da solo. Nemmeno l’avrebbero fatto entrare. Nella seconda fase della trattativa intervenne Provenzano, con l’eliminazione di Riina: era indispensabile levarlo di mezzo, per poter trattare seriamente perché le pretese di Riina erano eccessive. Dopodiché un ex ministro viene a dire: “Ho allentato il 41 bis di mia spontanea volontà, decidendo da solo”. E va bene, allora. Questo processo ci viene a raccontare solo la mezza messa, come si usa dire dalle mie parti. La vera messa forse era nell’agenda di Borsellino.

Non sapremo mai la verità?
Ma quando mai abbiamo saputo la verità sulle cose italiane! Pensiamo alle stragi: Bologna, piazza Fontana, l’Italicus. In Italia esistono solo i servizi deviati, quelli non deviati no. Tutto il casino, tra il Colle e la Procura di Palermo, sta a dimostrare, così a fiuto, che la cosa è talmente grossa che hanno paura di uno sconvolgimento istituzionale, se la verità venisse a galla.

Possibile che non abbiamo anticorpi verso tutto questo?
Prendiamo l’informazione. I giornali degli anni Cinquanta parlavano chiaro: c’erano polemiche anche forti, ma l’informazione era esaustiva, non parziale come ora. A quei tempi noi ci esercitavamo nella libertà, non l’avevamo avuta per tanto tempo. Le tribune politiche si svolgevano di fronte a 30 giornalisti, liberissimi di fare tutte le domande che volevano al politico di turno. Le domande non erano concordate prima, le domande erano a levare la pelle. Oggi è tutto concordato e i giornalisti scelti a seconda della convenienza. Ho sentito un giorno un cronista chiedere a Tony Blair: “Lo sa che lei ha le mani sporche di sangue?” E lui, dopo un momento di esitazione, si è messo a rispondere. Provate a rivolgere una domanda di questa violenza a un politico italiano. Non è più possibile, negli anni Cinquanta era possibile.

Vale anche per la produzione culturale?
Il fervore di quei primi anni del Dopoguerra era dovuto al fatto che il mondo si apriva davanti a noi. E tutto quello che ci era stato negato – i grandi scrittori americani, i musicisti, i pittori, i francesi, gli inglesi – provocava un desiderio di linfa culturale e vitale. Tu ne eri così pieno che avevi la voglia di restituirla. Poi c’è stata una sorta di saturazione. E quando arrivò la Democrazia cristiana con la censura, fu in un certo senso stimolante: ti ribellavi alla censura.

Ogni censura trova il suo antidoto, si dice.
Ma certo. Mi ricordo quando Andreotti proibì L’Arialda con la regia di Luchino Visconti e successero macelli. Questo ci teneva svegli. Ora c’è un assopimento, un andazzo, senza più un vero scontro culturale.

Non è che abbiamo meno strumenti intellettuali?
Le persone si sono disabituate. Ormai tutti sono dei seguaci delle fabbriche del credere. La fabbrica del credere numero uno è la televisione: quello che dice la televisione è Vangelo.

Internet è una contromisura? Assolutamente. Se ci fossero state solo le tv senza Internet non avremmo avuto le primavere arabe, non sarebbero state possibili senza comunicazione diretta, non mediata. La comunicazione mediata è velenosa, è contraffatta.

Di mezzo ci sono i media, appunto.
E le proprietà: un giornale come il Fatto, se dovesse dipendere da un proprietario, sarebbe così libero di scrivere quello che scrive? Non credo. Quando c’era un solo canale in televisione, il colonnello Bernacca leggeva le previsioni del tempo. E diceva: “Domenica potete fare tutti una bellissima gita, perché splenderà il sole”. E la domenica veniva una pioggia fottuta. O viceversa. Io avevo un compare, Peppe Fiorentino, il quale sentiva le previsioni di Bernacca e diceva: ”OI po si o po no ‘u paracqua m’u porto”. E allora dico: quando guardate la televisione, portatevi appresso il paracqua. Cioè a dire: apritelo, in modo che il cervello non vi si bagni e voi possiate ragionare di testa vostra; altrimenti la tv v’inonda. Ma è un esercizio difficile, anche perché si dice che la Rai offre la possibilità di avere tre canali, di cui il terzo è quello più di sinistra. Ma dove? Come segnale stradale? A momenti ho sentito più elogi di Berlusconi sul Tg3 che sul Tg1. Dov’è tutta questa differenza? Ai miei tempi c’era.

Questo dipende dal fatto che anche i partiti si sono omologati?
Mi rifiuto di chiamare quello che vedo e sento in questi ultimi tempi “Politica”. Politica oggi è sinonimo di corruzione. Vogliamo dissentire? Dopo Mani pulite sembrava chissà che cosa, invece siamo ridotti peggio di prima. Ed è del tutto trasversale. Una volta almeno Berlinguer poteva permettersi di teorizzare la diversità, ora il signor Penati mi pare che appartenga al Pd. Come il presidente della Provincia di Taranto. L’Italia dei Valori te la raccomando. Alla gente comune, che dice “sono tutti ladri” non gli puoi dare torto. Perfino i consiglieri regionali e comunali rubano. Allora perché io lo devo chiamare “uomo politico”? Lo chiamo ladro, perché i ladri sono quelli che rubano.

Una politica che cambia casacca nel giro di ventiquattro ore è politica?
In Sicilia si dice: u porco pa’ coda e l’omo pe’ a parora. Il porco si riconosce perché ha la coda a tortiglione. E l’uomo si riconosce per la parola data. Dicono: “Non faremo mai il governo con Berlusconi”, allora i cittadini li votano. Dopo un giorno, fanno il governo con Berlusconi. Tu non sei un uomo politico, sei un truffatore. Perché dovremmo avere fiducia in una corporazione che non fa altro che difendersi?

A cosa pensa?
Do un esempio, incontrovertibile. La Camera nega l’autorizzazione a procedere per Cosentino. Appena lui decade, se ne va in galera. Allora, io ho fiducia nella politica. Non ho fiducia in questa cosa oscena che ci spacciano per politica.

I partiti sono la vera antipolitica?
Non c’è dubbio. Sono la negazione della politica. Dicono che in politica tutto è possibile. Non è vero. In politica sono possibili più cose, ma non “tutto”. Altrimenti è un bordello, non politica. La politica è un patto che va continuamente rispettato tra gli elettori e coloro che vengono votati per rappresentare i cittadini. Ma è tradito dal fatto che questa legge elettorale fa sì che l’uomo politico non rappresenti un cazzo, perché è stato nominato dalle segreterie dei partiti e non votato. L’uomo politico, se lo possiamo chiamare così, è sempre più negato ai suoi doveri. Non solo: proprio questo porta a non rispettare le regole interne, vedi i 101 che votano contro Prodi.

Che pensa di Grillo?
Non so che pensarne. Una volta dissi: probabilmente i suoi grillini sono migliori di lui, più concreti. Lui è un capopopolo, un trascina folle. Poi quando si arriva al concreto della politica probabilmente lì in mezzo c’è qualcuno che è capace di fare la buona politica: hanno voglia di fare l’interesse dell’Italia. Non sono ridotti come la stragrande maggioranza dei politici italiani a fare il proprio interesse, o quello del partito.

Oltre i Cinque Stelle?
La Boldrini è una donna che si è occupata di profughi e rifugiati. Ebbene, ha accettato la candidatura di Sel e alla Camera ha tenuto un discorso estremamente politico, anzi di bella politica. Finalmente.

C’è un’ondata di rivalutazioni della Prima Repubblica. Lei ne ha nostalgia?
Ma per carità! La Prima Repubblica è stata una prova generale andata male. La Seconda non è andata meglio, la Terza sta andando peggio. Però non mi va di essere pessimista: gli elementi buoni a un certo punto si stancheranno di starsene tranquilli. Mi ricordo una frase bellissima di Alberto Savinio. Dicevano: “Dio riconoscerà i suoi”. E Alberto Savinio chiosava: “A fiuto”, perché una volta i cattolici non si lavavano per non commettere peccato mortale toccandosi le parti intime. Ecco, quelli giusti si riconosceranno a fiuto, indipendentemente dal partito cui appartengono.

Una rivoluzione?
Fino a oggi il popolo italiano ha dimostrato una pazienza e una resistenza psicologica notevoli. Basta pensare alla disoccupazione dilagante, alla difficoltà delle famiglie. Grillo ha ragione quando dice di aver incanalato un malcontento che avrebbe potuto anche essere violento.

La politica, compreso il governo tecnico, ha dimostrato un sostanziale disinteresse verso il disagio sociale.
Questi qui vivono in un ventre di balena! Non hanno nessun contatto con la gente, perché non sono stati più eletti. Il Papa tedesco è stato allevato sempre dentro la Chiesa, questo nuovo ci fa un’enorme impressione perché la sua origine è in mezzo ai poveri. Anche se pure lui… Va benissimo ricordare don Puglisi, ma si è ben guardato da ricordare Don Gallo. Quello sì che rompeva veramente i cabasisi… E così il Pd ha cominciato a morire quando ha perso il contatto con la base, con i lavoratori. Ma perché il Pd dovrebbe occuparsi dei lavoratori?

Forse perché è un partito di sinistra?
S’illude, cara. Di lavoro si occupa Sel, se ne occupa Landini. Che infatti ormai sembra un marziano.

«Usare l'espressione «governo Berlusconi-Napolitano» per l'attuale esecutivo guidato (?) da Enrico Letta, non è assolutamente una forzatura polemica, ma corrisponde a un dato di fatto difficilmente controvertibile».

Il manifesto, 28 maggio 2013

La giustificazione dei vari salvataggi di Berlusconi con lo stato di necessità ha legami evidenti con la concezione della modernità che fin dagli inizi degli anni Ottanta ha caratterizzato la linea di Napolitano. È lo stesso progetto del Craxi leader politico e uomo di Stato, che cancella il Craxi gravato da vicende giudiziarie. Usare l'espressione «governo Berlusconi-Napolitano» per l'attuale esecutivo guidato (?) da Enrico Letta, non è assolutamente una forzatura polemica, ma corrisponde a un dato di fatto difficilmente controvertibile. I due protagonisti dell'accordo, però, non potrebbero essere più diversi. Da una parte un avventuriero per cui la politica è nient'altro che la continuazione dei propri affari (e dei malaffari) con altri mezzi. Dall'altra un uomo politico di indubbia integrità personale. L'avventuriero considera le «larghe intese» alla stregua di un espediente contingente, un accordo da rompere al momento più opportuno secondo calcoli di convenienza personale. L'uomo politico, invece, sebbene sia cosciente (per lo meno oso credere) degli aspetti miserevoli di queste larghe intese, le fa derivare da una convinzione profonda maturata in tempi lontani.

Su tale base si prova a nobilitare l'ultima delle operazioni di salvataggio dell'avventuriero facendo esplicito riferimento alla tradizione togliattiana, a quella tradizione che vedeva nella rottura del 1947 una grave iattura per la prospettiva, aperta con il patto costituzionale, di una democrazia progressiva in Italia. Facendo riferimento, inoltre, al compromesso storico di Berlinguer, visto come la traduzione in proposta politica pratica della visione strategica di Palmiro Togliatti.

Si tratta, mi pare ovvio, di una pura copertura propagandistica. Il mio maestro universitario, Ernesto Ragionieri, un intellettuale comunista che Napolitano ha conosciuto bene, c'insegnava ad avere in sospetto la nostra stessa propaganda, a non crederci sempre, e comunque a non far derivare dalla propaganda le scelte politiche dirimenti. Penso che il presidente della Repubblica, il garante politico del governo, sia ben cosciente della impossibilità di accostare la tensione verso intese con forze che avevano contribuito alla stesura del patto costituzionale, nella prospettiva di progressi reali della democrazia, ad accordi con nemici di quella costituzione, nella prospettiva di rendere immutabili, anzi di rafforzare, gli equilibri economici e politici attuali. Se così non fosse il degrado culturale che ci circonda avrebbe raggiunto livelli che non osiamo immaginare.

In questa rappresentazione propagandistica costruita dal presidente della Repubblica c'è però anche un importante elemento di verità. La giustificazione dei vari salvataggi dell'avventuriero con lo stato di necessità (a ben vedere uno stato di eccezione permanente) ha legami evidenti con la concezione della modernità che fin dagli inizi degli anni Ottanta, per lo meno, è stata tipica dell'allora dirigente di primo piano del Partito comunista.

È in quella prima fase del mutamento del ciclo economico e politico che il problema della modernità diventa elemento di riflessione anche per l'iniziativa politica. Il termine riflessione è forse troppo impegnativo per il discorso sulla modernità condotto da una classe politica che stava rapidamente trasformandosi in ceto politico. A parte rarissime eccezioni, infatti, tale discorso non si sollevò mai al di sopra della banalità di una modernità concepita come naturale effetto dello svolgimento lineare del tempo. Quello che viene dopo, insomma, il nuovo, è il moderno, migliore del vecchio per essenza, spazio in cui necessariamente dislocarsi. La critica di quel moderno non poteva che essere antimoderna. Giorgio Napolitano non fu uno di quei politici capaci di sottrarsi alla pervasività del senso comune prevalente. Anzi il fastidio per gli aspetti radicali connessi alla funzione della critica non poteva che portarlo a considerare i processi in atto come fenomeni naturali. E, come è ovvio, non si dà critica della naturalità.

A leggere la rivista Il Moderno uscita a Milano nell'aprile del 1985, la rivista che, nella «capitale morale», rappresentava il «nuovo» della corrente del Pci di cui Napolitano era il punto di riferimento riconosciuto, si ha l'evidente prova, addirittura in eccesso, di questo dato di fatto. «L'innovazione nella società, nell'economia, nella cultura» di cui la rivista si proclama portatrice trova rapidamente la personificazione del processo auspicato, «il principale agente di modernizzazione»», in colui che «ha trasformato Milano in capitale televisiva e che ha fatto nascere (...) una cultura pubblicitaria nuova..» (febbraio 1986). La «Milano da bere», insomma, è la modernità.

Non devono stupire, dunque, quelli che sono i motivi profondi dell'opposizione davvero radicale di Giorgio Napolitano all'elaborazione culturale e politica che aveva contraddistinto gli ultimi anni della segreteria di Enrico Berlinguer. È proprio Berlinguer, infatti, che riflette, e di una vera riflessione si tratta, sulla dimensione ambigua e plurale delle promesse moderne. Sui processi di trasformazione in corso che stanno invalidando le promesse di emancipazione della modernità. Sui caratteri specifici delle molteplici modernità. Sulla crisi, e dunque sulla critica necessaria, di un modello di modernità politica incapace di sviluppare la dimensione economica in modo inclusivo/egalitario. Proprio questo è aspetto e problema costitutivo della modernità.

Che la critica della modernità, fondamento della modernità stessa, sia stata (sia) fatta passare per atteggiamento culturale antimoderno è uno dei portati del clima ideologico dominante dopo la fine delle ideologie. La riflessione critica di Berlinguer non poteva, quindi, sfuggire alla questione centrale del problema: la qualità della democrazia compatibile col capitalismo nella diversità dei suoi cicli di accumulazione. Ebbene, nello stesso tempo, Napolitano stava progressivamente lasciando quella dimensione della modernità, tipica della storia e della cultura del movimento operaio e socialista, che consiste nel pensare il capitalismo come problema. E allora la modernizzazione del sistema politico non poteva essere che quella ipotizzata da Bettino Craxi, l'interprete politico della modernità della «Milano da bere».

In una lettera scritta ad Anna Craxi in occasione del decennale della scomparsa del marito, i lineamenti di questa profonda convinzione di Napolitano emergono con particolare chiarezza. Anche in questo caso Napolitano cerca di nobilitare la sua operazione politica con l'esigenza di «un sereno giudizio storico», ma ai criteri di metodo e di analisi relativi al «giudizio storico» l'argomentazione del presidente della Repubblica resta del tutto estranea. L'asse portante di tale argomentazione concerne la considerazione a parte delle vicende giudiziarie di Craxi. La loro separazione dal giudizio complessivo «della sua figura di leader politico, e di uomo di governo». Una volta separate le ombre dalle luci sono queste a illuminare il quadro. È la luce della modernizzazione del sistema politico italiano, una modernizzazione che ha come stella polare il controllo degli «eccessi di democrazia», che fa risaltare il merito storico di chi ha pensato la «grande riforma».

Si comprende bene come per tutto questo lungo periodo la convinzione profonda di Napolitano sia stata quella di portare a termine, nelle condizioni possibili, il progetto del Craxi leader politico e uomo di Stato, senza il bagaglio del Craxi gravato da vicende largamente provate di corruzione a scopo di finanziamento del partito e di arricchimenti privati.Il fatto è che la forma tipica italiana risultante dalla programmata separazione di un ceto di governanti da quella dei governati, di un ceto politico da un popolo ritrasformato in plebe, è quella della formazione di una corte a suggello del successo dell'«imprenditore politico», dove di politico ci sono soltanto le forme attraverso cui si arriva al consenso pubblico, e il soggetto vero è l'imprenditore della propria fortuna. Il comune plebeismo, di ceto politico e soggetti che consentono, è una delle chiavi del successo dell'operazione.

Napolitano è certamente riuscito, dal punto di vista della sua persona, a proseguire nel programma del Craxi dimidiato, del Craxi uomo di Stato. Il governo Napolitano-Berlusconi però, ci riporta al Craxi intero. E non è un paradosso

Mentre Grillo urla e maledice e i grillini meditano, l'attenzione ritorna ai temi che, abbandonati e infine traditi dal PD, sono al centro dello tsunami elettorale. L'Unità, 31 maggio 2013

Posti in piedi, anzi neanche in piedi,con porte chiuse e fila fuori, ieri al ridotto del teatro Eliseo in viaNazionale a Roma, per il convegno sulla crisi della democrazia e dipresentazione del manifesto di Salvatore Settis, 15 tesi «non inchiodate alportone di una chiesa», come ha detto lui, ma affidate alla rivista left chele ha pubblicate e ha organizzato il convegno, al quale hanno partecipatoesponenti del Pd come Fabrizio Barca e Renato Soru, di Sel e dei Cinque Stelle,del Teatro Val- le Occupato e giornalisti tra cui il nuovo direttore di LeftMaurizio Torrealta.
L’archeologo, già direttore per oltre undecennio della Scuola Normale Superiore di Pisa, ora Accademico dei Lincei,editorialista di grandi quotidiani nazionali, è nel direttivo del Louvre diParigi, dopo aver anche diretto il Getty Research Institute di Los Angeles epresieduto il Consiglio Superiore dei Beni Culturali. È, senza tema dismentite, uno dei più importanti intellettuali italiani. Ma l’ap- proccio concui si è posto con le sue 15 tesi e nel discorso di ieri è tutto politico. Luiche, come ha ricordato, non ha mai avuto tessere ma ha «sempre votato a sinistra, per un’istanza di giustizia che ma- gari avrei voluto più radicale mami sem- brava comunque rappresentata come di- rezione». Un tempo, rimproveranegli ultimi anni «in particolare al Pd» di aver smarrito la bussola, inparticolare ades- so con il governo delle larghe intese ma anche prima, «avendoaperto la strada a progetti della destra» come la svendita del patrimoniomonumentale e culturale. Da professore dopo il suo ritorno dagli Usa ha scritto alcuni librisull’argomento, poi ha deciso di scendere in campo, «senza però averealcuna ambizione a fare l’assessore o il deputato», e invece per rivitalizzareil dibattito politico. Con- siderando l’Italia come il caso limite di unprocesso che investe anche l’Europa di «democrazia senza popolo», che puòevolvere in una riscossa dei cittadini o avvilupparsi in qualcosa di peggiore epe- ricoloso. In ogni caso che sarebbe sbagliato pensare di lasciare al«pilota auto- matico» di cui parla Mario Draghi, per- ché significaabbandonarla alla dominan- za dei mercati, alle oligarchie e tecnocra- zie, o aapparati di partito che si autoper- petrano inducendo fenomeni di sfiducia,astensionismo, gesti estremi di protesta fino al suicidio o movimenti diprotesta come quello di Beppe Grillo.
Il faro per Settis, applaudito per alcuni minuti al termine del suo lungo intervento da una platea attenta compostain gran parte da persone non giovanissime, è «l’associazionismo diffuso». Untessuto stimato da lui in 5-8 milioni di cittadini, inclusi i sindacati, pocoascoltato dalle istituzioni, cittadini che «guadando fuori dalla propriafinestra cercano di capire più in là» e difendere quelli checonsiderano beni comuni, dall’acqua pubblica al paesaggio, dai diritti aiservizi sociali. Settis richiama il diritto «alla resistenza del singolo controlo Stato in nome del bene pubblico e dello Stato», in inglese si chiama -spiega - adversary democracy o controllo pubblico, lui prende ilconcetto dalla Repubblica partenopea di Eleonora de Fonseca Pimentel, maspiega che l’elaborazione dossettiana non fu esplicitata nella Costituzioneperché «ritenuta implicita». Per altro la Carta del ’48 va bene così, non vaemendata né considerata come «litania di articoli staccati», ma solo attuata.Contrarissimo a Convenzioni o progetti di presidenzialismo.
Fabrizio Barca, ex ministro della Coesione sociale, ha aggiunto a queste «due gambe» - movimenti e Costituzione -l’idea di una terza, un partito in grado di fare da cassa di risonanza. Sapendoche il vero male, seme del liberismo ma non solo, è l’idea di una governancesemplice, di pochi che decidono perchè il sapere si pensa che sia di pochi,«dall’asse Torino-Lione ai termovalorizzatori». «Il li-mite anche delgoverno al quale ho parte- cipato».

A proposito di un genocidio travestito, in atto da tempo immemorabile e finalmente svelato.

LaRepubblica, 31 maggio 2013 C’È UNA vera ragione di allarme sulle donne uccise, o c’è un allarmismo colposo o doloso? Si è andata ampliando la reazione negatrice, fino a diventare una campagna. Lo scandalo sul femminicidio è montato lentamente e tardissimo. Ha da subito eccitato dissensi troppo aspri e ottusi per non essere rivelatori. C’è stato anche chi ammoniva che gli uomini uccisi sono più numerosi delle donne uccise: vero, salvo che il confronto va fatto fra le donne uccise da uomini e gli uomini uccisi da donne, e allora diventa irrisorio.

Strada facendo, le obiezioni si sono irrobustite, valendosi anche di una (effettiva) carenza di statistiche esatte. All’ingrosso, si è negato che le uccisioni di donne siano cresciute in numeri assoluti, e si è sottolineato che la crescita – impressionante – nella loro quota relativa rispetto al totale degli omicidi è dovuta solo alla riduzione degli altri omicidi, soprattutto quelli di mafia. Prima di motivare i dubbi sulla prima affermazione — il numero di femminicidi che resta sostanzialmente stabile nel tempo e nei luoghi — sbrighiamo la seconda: se nel complesso degli omicidi c’è una rilevante riduzione, e quelli contro donne restano inalterati, vuol dire che la nostra convivenza migliora tranne che nei rapporti fra uomini e donne. A questa allarmante constatazione si aggiunge l’altra

Abbiamo alle spalle (recenti) un mondo patriarcale e un codice penale che giudicavano con sfrenata indulgenza, o con malcelata simpatia, gli uomini che ammazzavano le “loro” donne; e ora ci illudiamo di vivere in un mondo più affrancato dai pregiudizi e più libero per tutti. Anzi, un altro dato, secondo cui le uccisioni di donne sono molto più frequenti al nord che al sud, segnala una relazione complicata se non inversa fra liberazione dei costumi e insofferenza maschile. Rinvio, per una replica generale, al blog di Loredana Lipperini (“Il fact-screwing dei negazionisti”, 27 maggio). Per parte mia, faccio alcune obiezioni peculiari.

Nella discussione “specialista” al neologismo “femminicidio” si è aggiunto da tempo l’altro “femicidio” (sono latinismi passati attraverso aggiustamenti anglofoni): il primo alludendo alle vessazioni che le donne subiscono da parte di uomini, il secondo all’assassinio. Il binomio mi sembra privo di senso e comunque di utilità, e tengo fermo il solo termine di femminicidio come, alla lettera, uccisione di donne. Gli obiettori all’esistenza di una “emergenza di femminicidi” hanno capito che la categoria riguardi le donne uccise da loro mariti e amanti e fidanzati o exmariti, ex-amanti, ex-fidanzati (e padri e fratelli…), dunque “dal loro partner”. Questa delimitazione è frutto di un significativo fraintendimento. È vero, e raccapricciante, che la gran parte delle violenze e delle stesse uccisioni di donne è perpetrata dentro le mura domestiche, dove i panni andavano lavati, cioè sporcati, al riparo da sguardi estranei. Ma questa selezione statistica toglie altre circostanze in cui donne vengono uccise “perché donne”. Addito le prostitute assassinate. Piuttosto: non “le prostitute”, ma le donne che si prostituiscono; correzione essenziale, se appena riflettiate alla differenza, di spazio e di emozione, fra i titoli che dicono “donna uccisa” o “prostituta uccisa”. Gli assassinii di prostitute sono molti e orrendi. Gran parte dei detenuti per omicidio di un carcere non speciale hanno ammazzato la “loro” donna, o una, o più, prostitute. Non è femminicidio? Per bassezza di rango? O perché le prostitute non hanno padre, coniuge, fidanzato, e gli assassini non sono i loro “partner”? Ma lo sono senz’altro.

Nel caso delle prostitute, l’assassino è “il loro partner”. Basta a renderlo tale la cifra che sborsa o promette per il prossimo quarto d’ora, o il loro stare su un marciapiede a disposizione di chi le voglia e prenda a nolo. La nudità esposta delle prostitute da strada – le più allo sbaraglio – è per loro un modo di aderire, per la durata della loro fatica, all’alienazione di sé, di sospendere la propria identità salvo rientrarvi a nottata passata; per gli uomini, è la manifestazione denudata dunque resa astratta e universale – come la moneta, corpo che sta per tutti i corpi – del piacere che può loro venire, della loro indimentegente questua di badanti sessuali. La gelosia maschile è così diversa da quella femminile (come attesta la sproporzione di botte e coltellate, salvo che lasi riduca alla differente musco-latura) perché noi uomini intuiamo e temiamo una superiorità sessuale femminile, una disposizione al piacere che nessunapresunzione amorosa può del tutto addomesticare. Lo sapevano gli antichi, e ne avevano confidato al mito la memoria anche dopo aver ridottole donne in cattività, prime fra gli animali domestici. Ne hanno ereditato la nozione, pur non sapendo più spiegarla né spiegarsela, e dandola falsa- come una prescrizione religiosa, le società che si dedicano scrupolosamente a mutilare le bambine degli organi sessuali, mutando in strumenti di dolore e anche di morte una fonte di piacere renitente al comando. (Ricordiamo il catalogo: “Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie di lui, né il suo schiavo e la sua schiava, né il suo bue né il suo asino…”). Alle donne che fanno le prostitute gli uomini prendono a basso costo e basso rischio un surrogato alla violenza casalinga e amorosa: come le bambole sulle quali i medici cinesi visitavano le loro pazienti vestite, le prostitute sono le fidanzate momentanee e traditrici su cui infierire. “Non era che una puttana”. Romena, russa, bielorussa, nigeriana: “Uccisa una nigeriana”. Titoli in corpo piccolo (si chiama così la statura delle lettere a stampa, corpo), al di sotto del femminicidio consacrato. Vuoi mettere, si dirà, una nigeriana uccisa con la ragazza quindicenne che ci ha spezzato il cuore? Certo che no. Eppure sì.È affare di noi uomini. Le donne che fanno le prostitute e partono ogni sera per la più asimmetrica delle guerre civili la sanno lunga, su noi, che esitiamo a seguire il filo dei pensieri fino al punto in cui fa il nodo. È seccante rileggere i più bei frutti della nostra creatività letteraria e artistica per scorgervi la rovina del Grande Delinquente che ha ucciso la puttana perché l’amava e la voleva solo per sé.

I volontari della campagna anti-scandalismo sul femminicidio protestano che una morte vale un’altra: la ragazza massacrata vale il pensionato rapinato (qualcuno si spinge a confrontare le uccisioni di donne con le vittime degli incidenti stradali!). Che si distingua chi perseguiti o uccida qualcuna o qualcuno perché è donna – o perché è gay, o perché è ebreo, o nero – sembra loro un’insensibilità costituzionale. Il paragone con le minoranze è improprio: le donne sono la sola maggioranza brutalizzata. Le leggi, dicono, valgono per tutti. È vero, e riconoscono aggravanti particolari. Come spiegano Lipperini e Murgia – e tante altre – occorre a un capo l’impegno culturale e all’altro capo il sostegno materiale ai centri antiviolenza. Aggravare le pene è il riflesso condizionato di legislatori di testa leggera e mano pesante.

Di una sola misura c’è bisogno, più efficace a impedire di nuocere a chi ha minacciato, picchiato e molestato abbastanza da annunciare l’esito assassino. Qui è il punto penale: solo in apparenza preventivo, perché quelle minacce e molestie e violenze, quando siano accertate, sono già sufficienti alla repressione che il femminicidio attuato renderà postuma.

La minimizzazione del femminicidio si presenta come un’obiezione al sensazionalismo. Si potrà dire almeno che ha avuto una gran fretta. Si sono ammazzate donne per qualche migliaio di anni, per avidità amorosa e per futili motivi: da qualche anno si protesta ad alta voce, e già non se ne può più?

«Nel caso della scuola come in quello dei partiti, la rinascita della fiducia dei cittadini nella politica passa per la rinascita del rispetto del valore del pubblico».

La Repubblica, 30 maggio 2013

LE RECENTI consultazioni amministrative e referendarie testimoniano che esiste un bisogno insoddisfatto di politica. Un bisogno che i partiti sembrano incapaci di comprendere. Non è l’anti-politica il problema, ma la non-politica. Per questo incolpare gli elettori, come ha fatto Beppe Grillo, è, oltre che irragionevole, bizzarro. Poiché è l’assenza di progetti e di idee, di credibilità e di coraggio dei partiti che allontana dai seggi, non l’avversione dei cittadini per la politica. Essi cercano una merce che non trovano sul mercato. Il giudizio deve essere diretto ai soggetti che si incaricano di mediare i bisogni degli elettori senza esserne capaci. Ciò che viene chiesto e manca non è solo la risoluzione dei problemi ma, prima ancora, l’interpretazione dei problemi. La carenza politica e della politica sta qui. Ed è una carenza grave che ha a che fare con una cronica mancanza di studio, di analisi, di esame non pregiudiziale delle trasformazioni della società e delle strategie che i principi democratici e i diritti suggeriscono di seguire o di non seguire.

Il partito sul quale molti italiani cercavano l’àncora per una sicura alternativa, il Pd, è più di altri vittima di questa sindrome da sopravvivenza che porta i suoi leader da un lato a farsi promotori di proposte radicali e dall’altro a persistere nella difesa testarda dello status quo. Due comportamenti opposti/uguali che denotano un’attitudine a inseguire l’opinione dominante piuttosto che interpretarla secondo principi e diritti.

Insistere per esempio come è avvenuto a Bologna sulla difesa d’ufficio della sussidiarietà senza voler esaminare o comprendere la differenza che c’è tra finanziare con i soldi pubblici i servizi sociali e i servizi educativi è segno di questa incomprensione della relazione tra principi/diritti e problemi da risolvere. Formare i cittadini, educarli cioè a vivere con gli altri nel rispetto delle diversità dovrebbe suggerire di pensare che le istituzioni educative non possano essere trattate alla stregua dei servizi di assistenza sanitaria o sociale. È per questa ragione, del resto, che i costituenti insistettero nel tenere separato, non commisto, il pubblico dal privato (cosa che non fecero quando si trattava di servizi alla salute per esempio). Non vedere questa specificità della scuola (anche quando è scuola materna) comporta non dare peso ai diritti eguali e quindi proporre soluzioni errate o insoddisfacenti. La difesa dello status quo – delle politiche già esistenti perché esistenti - è, questo sì, un esempio di anti-politica, di burocratica mancanza di saggezza politica.

Al polo opposto c’è l’atteggiamento di voler rovesciare l’esistente di trecentosessanta gradi nel tentativo di inseguire l’opinione corrente. Questo è il caso della proposta del governo sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. La proposta dovrebbe articolarsi su due pilastri, trasparenza (degli statuti e dei bilanci dei partiti) e risorse; e dovrebbe mirare a due scopi: “semplificare” e “privatizzare”. Semplificazione delle procedure per le erogazioni liberali dei privati in favore dei partiti; introduzione dei meccanismi di natura fiscale fondati sulla libera scelta dei contribuenti a favore dei partiti; e, infine,la possibilità di prevedere modalità di sostegno “non monetario”, per esempio donando “strutture” e “servizi”. All’insegna della privatizzazione: nel caso delle scuole materne come in quello dei partiti.

Anche in questo caso, senza prestare attenzione al bene in questione: un bene pubblico non solo per il servizio che eroga ma prima ancora per la sua specifica identità. Sappiamo inoltre quanto lasca (e insincera) sia la politica del dono nelle società di mercato – donare per avere in cambio non è donare. Soprattutto quando il ricettore è il partito, un mezzo per gestire il potere dello Stato, condizionare decisioni su leggi e regolamenti. Ne sanno qualcosa gli Stati Uniti che hanno un sistema nel quale si prevede il dono sia in spese vive (pubblicità televisive, cene elettorali, consulenze, ecc.) che in denaro. Studiosi e giuristi stanno da anni intensificando il loro impegno affinché questa politica dissennata sia fermata, anche perché la privatizzazione dei finanziamenti ai partiti ha portato le spese elettorali a cifre da capogiro e innescato logiche non egualitarie macroscopiche.

La proposta di cui si discute da noi in questi giorni sembra purtroppo seguire questa logica privatistica. Il governo vuole, con più di una giustificata ragione, abrogare l’attuale sistema dei rimborsi elettorali. Non tuttavia per sostituirlo con un nuovo sistema virtuoso e saggio di finanziamento pubblico. Propone invece il ricorso al sovvenzionamento privato diretto: se ami il tuo partito lo finanzi; questa la logica. Ovviamente i poveri cristi, di cui l’Italia comincia a essere molto popolata, daranno o nulla o briciole. Si tratta di un approccio perverso perché dà priorità alle possibilità economiche. Mentre la politica democratica vuole l’eguale distribuzione del potere e promette di bloccare il travaso delle diseguaglianze economiche nella sfera politica. Pensare di bonificare i partiti dalla corruzione facendone agenzie di cittadini e/o gruppi privati è come cadere dalla padella alla brace.

Del resto, non basta togliere soldi pubblici per togliere la corruzione. La nostra storia lo dimostra. La legge sul finanziamento pubblico fu introdotta nel 1974 per sostenere le strutture dei partiti presenti in Parlamento e fu voluta e approvata sull’onda degli scandali. Attraverso il sostentamento diretto dello Stato, si disse, i partiti non avrebbero avuto bisogno di collusione con i grandi interessi economici. Ma si trattò di una pia illusione perché gli scandali non si fermarono come mostrano le vicende Lockheed e Sindona. Evidentemente, la ragione della corruzione non sta nella sorgente del finanziamento. Che sia pubblico o privato, la corruzione resta. Quindi, pensare di rendere virtuosi i politici rendendoli dipendenti dai soldi privati è illusorio.

Questa proposta non varrebbe a togliere la piaga della corruzione e inoltre ne produrrebbe una peggiore. Aggiungerebbe alla corruzione classica (quella dello scambio sottobanco e della ruberia) un’altra forma che è semmai ancora più devastante per la democrazia: la diseguaglianza politica. Infatti, lasciando che siano i privati a finanziare i partiti si darebbe alle differenze economiche la possibilità di tradursi direttamente in differenze di potere di influenza politica. Quindi alla corruzione della legalità si aggiungerebbe la corruzione della legittimità democratica. Nel caso della scuola come in quello dei partiti, la rinascita della fiducia dei cittadini nella politica passa per la rinascita del rispetto del valore del pubblico.

«Lo Stato, la politica, i cittadini: il triangolo resta malato, corrotto, e se c’è chi si rallegra per la tenuta del Pd e la caduta di 5Stelle vuol dire che ha un rapporto storto con la verità. Il triangolo suscita non solo disgusto, ma voglia di altra politica».

La Repubblica, 29 maggio 2013
STRANE elezioni amministrative. Le capisci se l’occhio guarda oltre, se vede quel che accade intorno e ha viva la memoria. Le elezioni ci mostrano un’Italia che diserta il voto – quasi la metà dei romani si astiene – e al tempo stesso, ovunque, proliferano iniziative, associazioni. Come quella che a Bologna ha organizzato e vinto un referendum consultivo sullo Stato troppo avaro con le disastrate scuole materne comunali, troppo prodigo con quelle private: scarsa è stata l’affluenza, ma non la cocciuta grinta dei referendari. I cittadini fuggono i comizi ma intanto le piazze s’affollano di italiani pronti a salutare don Gallo, o padre Puglisi ucciso dalla mafia nel ’93. Due persone mitiche, amate perché politicamente eterodosse.

Lo Stato, la politica, i cittadini: il triangolo resta malato, corrotto, e se c’è chi si rallegra per la tenuta del Pd e la caduta di 5Stelle vuol dire che ha un rapporto storto con la verità. Il triangolo suscita non solo disgusto, ma voglia di altra politica. Nello Stato e nella politica gli elettori credono sempre meno. Sono anche delusi da Grillo, dall’assenza di leader locali forti, ma non smettono il desiderio di partecipare, anche usando la lama dell’astensione. Sono impolitici? Sì, se la politica si esaurisce tutta nei partiti. Se Ignazio Marino ha successo a Roma è perché nel Pd è un eretico: voleva Rodotà presidente della Repubblica, e non ha votato la fiducia alle larghe intese prescritte dal partito. Infine è un laico, mentre il Pd non lo è.

È come se davanti al nostro sguardo scorresse un film che narra più eventi paralleli, e però ha un unico titolo. Narra uno Stato di cui si diffida, perché predato da potenze che il cittadino non controlla: potenze che sprezzano lo Stato imparziale, laico, e se possibile se ne appropriano. È significativo che il Movimento 5Stelle vacilli, sospettato di non aver mantenuto le promesse. Ma è significativa anche la scarsa tenuta del Pdl, guidato da nonstatisti. Lo stesso Stato, non dimentichiamolo, è da lunedì sotto accusa al tribunale di Palermo per aver vissuto (per vivere tuttora, probabilmente) all’ombra di patti con la mafia, stretti in concomitanza con le stragi del ’92-93 con la scusa che solo destabilizzando fosse possibile stabilizzare l’Italia. Lo Stato è infine giudicato infedele alla Costituzione nel referendum bolognese.

Se guardiamo le tre cose insieme (elezioni, referendum di Bologna, processo di Palermo), il Partito democratico ha poco da festeggiare, e molto da rimproverarsi. È pur sempre il partito che dopo il voto di febbraio ha fatto abiura. Che ha mobilitato 101 traditori per affossare Prodi, ingraziarsi Berlusconi, confermare un Presidente favorevole alle larghe intese. Localmente il Pd ha apparati ferrei: ma apparati benpensanti più che pensanti, timorosi d’apparire di sinistra. A Bologna non ha saputo ascoltare chi difende la scuola pubblica, minacciata mortalmente in tempi di penuria. Di fronte ai processi di Palermo è afasico, avendo avallato l’isolamento delle procure per anni. Non è di sinistra la smemoratezza che regna sui patti con la mafia, avvenuti anche quando lo Stato era retto da politici «amici». Quando Veltroni denuncia i «pezzi di Stato» compromessi nelle stragi mafiose, mai ammette che pezzi del Pd hanno forse tollerato lo scempio.

Né può dirsi di sinistra la difesa delle scuole private dell’infanzia (il 99 per cento cattoliche) che, almeno a Bologna, hanno ricevuto dallo Stato finanziamenti sproporzionati, senza rapporto alcuno con il costo della vita. Una sovvenzione che negli ultimi 15 anni si è più che triplicata, mentre tantissimi genitori si trovavano nell’impossibilità di iscrivere i figli alle scuole comunali o statali gratuite, neglette dallo Stato, e costretti a optare per scuole private a pagamento di cui non condividevano l’impostazione religiosa.

Dice Daniel Cohn-Bendit in un’intervista al quotidiano online Lettera 43 che i partiti vanno trasformati radicalmente – se non soppressi come scriveva nell’immediato dopoguerra Simone Weil – e sostituiti da cooperative, da «spazi di dibattito politico dove la gente possa discutere di questioni ambientali, sociali, culturali». Perché le persone «vogliono oggi vivere, non offrire la propria vita al partito». Perché hanno l’impressione che dibattere serva a creare nuove realtà, ma a condizione di svolgersi «fuori dalle strutture della politica», e mutando il concetto di militanza.

Nella sostanza, pur diffidando di Grillo, è la democrazia deliberativa di 5Stelle che Cohn-Bendit propone: affiancando (ma non distruggendo) quella rappresentativa, rovinata da partiti «più interessati alla cucina interna che a risolvere i problemi ». Non si tratta di mandare tutti a casa («Non c’è nulla di più autoritario che questa concezione». Si potrebbe aggiungere: nulla di più impraticabile). Grillo non è riuscito né a deliberare né a rappresentare, con il risultato che i suoi elettori si sono in gran parte ritirati nelle terre selvagge dell’astensione. Voleva essere una diga contro i flussi incontrollati del disgusto, ma di questo disgusto ha sottovalutato l’impazienza, la voglia di risultati concreti: compreso il risultato di un governo di cambiamento, presieduto da persone non partitiche, che per calcoli tattici Grillo mancò di proporre a Napolitano.

Ciononostante le associazioni cittadine sopravvivono, ed è rivelatore che molte assumano nomi di articoli costituzionali. Per esempio il Comitato articolo 33, promotore del referendum bolognese: l’articolo garantisce scuole statali gratuite, e istituti privati «senza oneri per lo Stato». O il sito articolo 21, che si appella alla libertà di stampa nelle battaglie antimafia. Da tempo la bussola dell’associazionismo è la nostra Carta, non i programmi partitici. Sono iniziative sparse, spesso misconosciute. Ma sono accanite, non mollano. Nel Manifesto che presenterà il 30 maggio al teatro dell’Eliseo per la rivista Left, Salvatore Settis ne sottolinea la forza: un numero crescente di cittadini si associa dissociandosi, impegnandosi civilmente in modi diversi e inediti: sfiduciando lo Stato com’è fatto e rifugiandosi nell’astensione; militando in M5S; creando piccoli club di scopo volutamente antipartitici (ambiente, salute, giustizia, democrazia). Non meno di 5-8 milioni di cittadini si associano così. «Queste forme di opposizione “vedono” quel che sembra sfuggire a chi ci governa: il crescente baratro che si è aperto fra l’orizzonte delle nostre aspirazioni e dei nostri diritti e le pratiche di governo ». Non stupisce che Stefano Rodotà,sostenitore del Diritto di avere diritti per far fronte a poteri oligarchici sempre più endogamici e chiusi, sia divenuto per gli associati-dissociati un punto di riferimento. Nello stesso giorno in cui i candidati alle municipali parlavano in piazze vuote, sabato scorso, 80 mila persone affluivano a Palermo per la beatificazione di don Puglisi, e a Genova erano in più di 6000 a salutare Don Gallo. Lo storico Marco Revelli ne deduce: «Il Paese è sano. È la politica a essere ormai un ectoplasma, tenuto in vita solo dalla spartizione di poltrone ».

Don Puglisi, le folle l’hanno onorato con la canzone, scritta da Fabrizio Moro sull’uccisione di Borsellino, che s’intitola «Pensa». Proprio quello che i partiti hanno disimparato, specie a sinistra: pensare che«...ci sono stati uomini che hanno continuato nonostante intorno fosse tutto bruciato. Perché in fondo questa vita non ha significato, se hai paura di una bomba o di un fucile puntato». Non pensa, chi sopporta uno Stato che finge di scordare i patti stretti con la mafia, e dunque è pronto a ripeterli. Non pensa, un Pd comandato da 101 persone pronte a tradire l’elettore, e a intendersi con un avversario descritto fino al giorno prima come giaguaro da neutralizzare e bandire.

Il peggior sordo è chi non vuol sentire.

La Repubblica, 27 maggio 2013

In Italia tutte le elezioni hanno un impatto nazionale. Anche quelle amministrative. Regionali e comunali. Cinque anni fa, il successo di Alemanno a Roma, nel ballottaggio, fu, in parte, influenzato dalla vittoria, larga, di Berlusconi e del centrodestra alle politiche, contemporanee al primo turno. Reciprocamente, la sconfitta di Francesco Rutelli costò a Walter Veltroni forse più di quella alle elezioni politiche. Dove il Pd aveva ottenuto oltre il 33%. Un risultato che oggi appare stellare.

Tuttavia, questo turno amministrativo è passato quasi nel silenzio. Politico e mediatico. Piazze semivuote, spazio ridotto in tivù e sugli altri canali. Eppure, i motivi di interesse non mancano. Al contrario. Basti pensare al numero di elettori chiamati a votare: quasi 7 milioni. In 564 Comuni. Fra cui 92 con più di 15 mila abitanti. Infine, o meglio, in primo luogo: Roma. Appunto. La Capitale. La più importante. Governata dal centrodestra. Dopo una lunga stagione di centrosinistra. Oggi è al centro di una competizione quantomeno aperta. Ma non accesa. Il clima del dibattito politico intorno a Roma, tanto più alle altre città al voto, appare tiepido. Quasi freddo. Come quello della primavera invernale che ci avvolge. Per alcune ragioni, importanti per la valutazione dei risultati di oggi.

La prima ragione riguarda il disincanto politico — e antipolitico — del nostro tempo. Sottolineato, in primo luogo, dai tassi di astensione. Che già ieri risultavano elevati e in crescita. Anche se la comparazione con la precedente consultazione è deviante, in quanto, come abbiamo già ricordato, cinque anni fa si votò contemporaneamente per le elezioni politiche. Che contribuirono - e contribuiscono sempre - a incrementare la partecipazione elettorale. Tuttavia, è indubbio che il distacco degli italiani verso i partiti e le istituzioni sia diffuso anche a livello locale. Anche i sindaci, vent’anni fa protagonisti del cambiamento, oggi appaiono confusi nella nebbia della sfiducia politica.

Il secondo motivo di interesse richiama l’esito delle elezioni di febbraio. È, infatti, inevitabile la tentazione di cercare conferme o smentite al risultato del voto recente. In particolare, per misurare la capacità competitiva del M5S e il grado di tenuta del Pd e del Pdl. Nonostante che le elezioni amministrative siano influenzate da fattori specifici. Per prima: la figura del sindaco e dei candidati locali - noti e attivi nelle città. Inoltre: l’offerta politica, caratterizzata da liste civiche e “personali”. Tuttavia, nelle città maggiori, la competizione riflette la struttura emersa alle elezioni politiche di febbraio. Nonostante la frammentazione delle liste e dei candidati sindaci, si delinea, infatti, un confronto prevalentemente “tripolare”: fra centrosinistra, centrodestra e M5S. Se il voto in queste amministrative riproducesse i dati delle elezioni di febbraio, dunque, emergerebbe un quadro aperto e contrastato. (Come mostra la simulazione realizzata dall’Osservatorio elettorale del Lapolis-Università di Urbino). Solo in 2 Comuni (superiori a 15 mila abitanti) il sindaco verrebbe eletto al primo turno. Ma in nessun capoluogo di provincia. In tutti gli altri, invece, si andrebbe al secondo turno. Il M5S, in particolare, andrebbe al ballottaggio in 53 Comuni maggiori e in 10 capoluoghi di provincia. Fra cui Roma. Diverrebbe, così, il principale “sfidante” delle due maggiori coalizioni e dei loro partiti di riferimento: Pdl e Pd. I cui candidati, invece, si troverebbero faccia a faccia, al ballottaggio, in 35 Comuni e in 6 capoluoghi di provincia. Dunque: una (per quanto ampia) minoranza.

Naturalmente, meglio ripeterlo, il voto amministrativo è altra cosa rispetto a quello politico. Se n’è già visto un esempio alle elezioni regionali in Friuli. Dove il M5S è uscito ridimensionato. Tuttavia, è difficile anche pensare il contrario. Che le elezioni di febbraio non abbiano alcuna influenza su quel che avverrà in queste amministrative. Da ciò la cautela con cui i media — e prima ancora gli attori politici nazionali — affrontano questa scadenza. Da un lato, c’è il timore di alimentare, ulteriormente, la sindrome antipolitica, favorendo il M5S. D’altra parte, il Movimento 5Stelle stesso ha i suoi problemi a gestire il successo. A livello nazionale e in Parlamento. Ma anche in ambito locale, dove non è organizzato. E rischia di essere “usato”, opportunisticamente, da soggetti politici alla ricerca di un traino. Anche per questo non ha presentato liste in 16 Comuni (maggiori), dove pure aveva ottenuto risultati molto rilevanti.

Tuttavia, la bassa intensità del dibattito dipende, anzitutto, dall’asimmetria delle relazioni politiche a livello nazionale e locale. Fra Pd e Pdl: alleati di governo e antagonisti alle elezioni amministrative. Dovunque. Il timore che le tensioni elettorali locali producano fratture (nel governo e nei partiti), favorendo il M5S, spinge, dunque, Pdl e Pd, Alfano e Letta, a “sordinare” il confronto. Così Roma Capitale- politica oltre che nazionale - diventa solo una città al voto. Fra le altre.


«La consultazione riguarda 
un segmento dell’istruzione ma ha un significato nazionale e simbolico La città delle due torri anticipa tendenze generali della società».

L’Unità, 25 maggio 2013

Bononia caput mundi. Sui muri delle nostre camere di studenti universitari appendevamo manifesti con questo motto campanilista di cui andavano orgogliosi. E Bologna non ha mai deluso le aspettative poiché quando non anticipa trasformazioni della società nazionale, mostra come su un grande palcoscenico le sue interne contraddizioni. In questo senso, il referendum (solo consultivo) che si terrà domani è di grande significato nazionale e molto simbolico se la Cei stessa è intervenuta direttamente in campagna elettorale (mettendo il Comune a guida Pd nella imbarazzante situazione di doversi schierare con la Curia per riconfermare l’impegno a finanziare le scuole materne private).

Un referendum simbolico perché il campione di un conflitto insanabile che lacera il Pd (non da oggi). Poiché i due quesiti referendari pro e contro il finanziamento pubblico della scuola materna privata dividono la sinistra in tutte le sue situazioni: quella che governa il Comune da quella che sta fuori; e poi ancora, in quella che sta fuori, quella parte che ha una concezione cattolica dello Stato e quella parte che ne ha una laica. Le tensioni sotto le due torri sono rivelatrici di quelle che dividono il Pd, un esperimento volto a tenere insieme queste due anime (e forse altre ancora) che però quando si trova a dover fare scelte che implicano questioni «fondamentali» o si paralizza (una parte facendo veto all’altra) o si spacca, come a Bologna.

Veniamo al tema del referendum che è appunto il finanziamento pubblico delle scuole dell’infanzia private parificate. Scuole non dell’obbligo. Eppure il tema apre a più larghe implicazioni perché mette il dito sulla piaga della legge 62/2000, la quale aggirò l’ostacolo dell’art. 33 (che parla di scuola privata «senza oneri» per lo Stato) stabilendo che se le scuole private (quelle religiose in primis) rispettano determinati requisiti (stabiliti dallo Stato) possono richiedere e ottenere il finanziamento pubblico. La «parificazione» secondo gli interpreti di tradizione cattolica cambia il senso del pubblico poiché crea un sistema del pubblico nel quale le scuole statali e quelle parificate si equivalgono. Su questa base interpretativa il Comune ha diversi anni fa istituito convenzioni con le scuole private parificate. Il referendum chiede ai cittadini di dare un’indicazione all’amministrazione: se continuare a finanziare le scuole private parificate oppure no. La convenzione tra il Comune e le scuole materne private parificate venne messa in essere quando c’erano più disponibilità finanziarie. Ma oggi quella convenzione è un problema perché non riesce a gestire la penuria della risorse in maniera equa. Ma, dicono i politici «pratici», costa comunque meno sovvenzionare le private parificate che aprire nuovi posti per le comunali. Non vedono che il problema non è solo pratico. Infatti questa convenzione penalizza alcuni cittadini, in particolare quelli che volendo iscrivere i figli alla scuola pubblica vedono la loro domanda inevasa. Mentre la libera scelta non richiede il sostegno del finanziamento pubblico se non opta per un servizio pubblico, la libera scelta che opta per il servizio pubblico e resta insoddisfatta ha tutte le ragioni di protestare e chiedere di reperire le risorse. In questi tempi di grande crisi, il reperimento passa per la strada della ridiscussione della convenzione. Questo è il tema.

Ma in effetti il dissenso è ben più ampio e profondo: si scontrano nella sinistra, e nel Pd, due concezioni del pubblico. In un caso è visto come un «sistema» che comprende tutto il pubblico e quel privato riconosciuto dallo Stato o parificato. In un altro, è ciò che è pubblico dai fondamenti. La legge 62/2000 aggirò l’ostacolo dell’art. 33 ma non lo fece rendendo «pubblico» il privato. La legge dice che le scuole private che raggiungono determinati requisiti possono richiedere il finanziamento pubblico. La «parificazione» ci mostra una gerarchia di status tra le scuole. E inoltre, non trasforma la natura delle scuole private, ma stabilisce che queste, pur restando private, possono adeguarsi a criteri che le pubbliche hanno costitutivamente. Quindi il privato resta tale anche se «riconosciuto» dal potere pubblico. Finanziarlo è perciò un problema serio per chi ha una visione coerentemente costituzionale.

Eppure vi è una parte del Pd che si schiera per la difesa ideologica delle scuole cattoliche, con l’argomento che queste sono parte del «pubblico». La tensione tra visione cattolica e visione laica dei diritti e del pubblico è sotto gli occhi di tutti, e non c’è soluzione mediana. La tensione sui fondamenti dilacera il Pd, dunque, senza possibilità di soluzione. Questo di Bologna è un caso evidente della reale difficoltà di questo partito ad essere attore politico funzionale: poiché o si spacca quando deve prendere decisioni su questioni fondamentali, o non decide. Il fatto è che questi casi intrattabili sono sempre più frequenti e non rinviabili. E il Pd sempre meno attrezzato a risolverli con coerenza e forza argomentativa.

Non tutti nel Partito di D'Alema, Veltroni, Violante, Renzi ed Epifani sono - diciamo,- favorevoli a Berlusconi. La Repubblica, 24 maggio 2013

«Potrebbe essere la chiave di volta».Dice così il senatore democratico Felice Casson quando legge la notizia dellemotivazioni dei giudici di Milano sul caso Mediaset. Giusto in quei minuti èalle prese con la proposta di legge per cambiare radicalmente il meccanismodella prescrizione. Per bloccarne la corsa se, in un processo, è già statapronunciata la sentenza di appello. Una proposta che, se fosse stata già legge,avrebbe cancellato subito la prescrizione del caso Mediaset, in scadenza nelgiugno 2014.

Casson,componente della commissione Giustizia del Senato, ma anche della giunta per leautorizzazioni, convinto che la legge del ’57 sul conflitto d’interessi è daleggere in chiave anti- Berlusconi, resta fortemente impressionato dalladecisione di Milano. Non dice di più. Ma la sua reazione lascia intendere che,dopo quelle 194 pagine, anche la battaglia dell’ineleggibilità del Cavaliere alSenato potrebbe avere un corso diverso da quello disegnato fino a oggi.Soprattutto all’interno del Pd dove, negli ultimi due giorni e soprattutto dopola presa di posizione del segretario Guglielmo Epifani, pareva prevalere latesi che Berlusconi va combattuto sul piano politico e non su quellogiudiziario. E soprattutto che i precedenti pronunciamenti su di lui allaCamera — ovviamente favorevoli alla sua eleggibilità — vanificano l’ulterioretentativo su cui il partito di Grillo ha concentrato le energie al Senato.

Ma adesso lastoria potrebbe cambiare. Le motivazioni di Milano potrebberorappresentare quel «fatto nuovo» di cui andava in cerca la Pd Doris Lo Moro proprioper modificare indirizzo rispetto al passato. Ora, come lascia intendereCasson, è scritto nero su bianco in un atto giudiziario che, pur formalmentefuori dall’azienda, Berlusconi ha continuato a prendere le decisioni checontano. Tanto forte e documentata è questa convinzione da portare alla pesantecondanna del Cavaliere in ben due gradi digiudizio. Un fatto nuovo, inequivocabile, destinato per forza a pesare suidelicati equilibri nella giunta. Dove, ovviamente, il Pdl respingerà larichiesta del M5s, ma dove tutto dipende da cosa farà il Pd.

Ovviamente, sulfronte Pdl, la valutazione di Casson viene stroncata come «il giudizio di unaex toga di sinistra che vuole a tutti i costi cacciare Berlusconi, tant’è cheadesso modifica anche il meccanismo della prescrizione». Casson replica astretto giro: «Non è affatto così, tant’è che la mia proposta contiene ancheuna norma transitoria che impedisce di applicare la futura legge ai processi“per i quali sia già stata pronunciata sentenza di primo grado”». Se, peripotesi, la legge, che smonta del tutto la famosa legge Cirielli approvata nel2005 dal governo Berlusconi per accorciare la prescrizione, fosse approvataprima della fine del caso Mediaset, essa comunque non avrebbe effetti, nonfermerebbe l’orologio. Casson ha già depositato il testo in commissioneGiustizia. Tre articoli, il primo sulle fasce temporali legate all’entità dellapena, il secondo sui casi di sospensione, il terzo sulla norma transitoria. Ilcalendario dipende dal presidente Francesco Nitto Palma. Ma tutto lasciaintendere che la trattazione non sarà sollecita.

Qualcuno ricorderà pure che, a partire dagli anni 70, la grande industria italiana decise di alleare il profitto con la rendita e stracciare la possibile intesa col salario, e scelse di preferire il guadagno ottenuto con la speculazione immobiliare a quello conquistato con l’inprenditività e il rischio.

Il manifesto, 24 maggio 2013Era il 17 marzo del 2001, Confindustria aveva radunato 4.800 imprenditori a Parma per incoronare Silvio Berlusconi come proprio candidato alle elezioni di maggio, quando fece a pezzi Francesco Rutelli. Il capo degli industriali era uno dei peggiori, Antonio D'Amato, e presentò un progetto di centralità dell'impresa fondato su sgravi fiscali, flessibilità, precarizzazione del lavoro. Silvio B. lo definì «la fotocopia di un programma di governo, quello che noi presenteremo agli italiani». Da allora, quasi tutto di quel programma è stato realizzato - solo la riduzione della tutela dal licenziamento, fermata dall'enorme manifestazione Cgil del 2002, ha dovuto aspettare l'arrivo del governo Monti e i voti del Pd per essere introdotta l'anno scorso.

Confindustria aveva rinnovato l'invito a Berlusconi a Parma il 10 aprile 2010, davanti a 6000 imprenditori, un record di partecipazione. Allora Silvio B. - fresco vincitore del voto del 2008 - le aveva sparate grosse. «Non siamo un paese in declino» e i conti pubblici italiani «sono in ordine grazie a Tremonti». L'anno prima, nel 2009, la recessione aveva tagliato il Pil italiano del 5,1%, ma gli industriali avevano applaudito Silvio B. che annunciava che non dobbiamo «farci toccare dal pessimismo e dal catastrofismo».

Ora il catastrofista siede al vertice di Confindustria, si chiama Giorgio Squinzi e ieri ha dichiarato che «il Nord è sull'orlo di un baratro» - il Sud vi è precipitato da decenni, ma questo allarma assai meno l'assemblea degli industriali. Lacrime di coccodrillo o retorica dell'emergenza? «Ci aspetta un grande impegno comune: fare una nuova Italia, europea, moderna aperta», una grande alleanza col governo delle già larghissime intese. Ma contro chi? Contro il fisco, le banche che non danno soldi, il costo del lavoro (proprio così) a livelli insostenibili. Concorda il presidente del consiglio Enrico Letta, che dichiara di essere «dalla stessa parte» delle aziende. Soddisfatti i sindacati.

È possibile che i fatti - per non parlare delle responsabilità per le politiche passate - siano così completamente rimossi dai discorsi dell'élite economica e politica di questo paese? Dall'inizio della crisi nel 2008 al 2012 il Pil italiano è crollato dell'8%, la produzione industriale - quella che interessa a Squinzi - di oltre il 20%, gli investimenti - quelli che dovrebbero fare i suoi associati - del 17%.
L'Italia è passata nella serie B del sistema produttivo europeo per effetto delle politiche dei governi di centro-destra e di larghe intese e per effetto delle scelte delle imprese italiane di arricchirsi con la finanza, abbandonare innovazione e ricerca, vendere e chiudere gli impianti. Solo in Svizzera ci sono 150 miliardi di euro di capitali italiani trasferiti clandestinamente; se solo il 10% rientrasse in Italia per essere investito dagli associati di Confindustria, la ripresa invocata da Squinzi sarebbe immediata.

È tragico che non ci sia un ministro, un politico, un sindacalista che offra questa replica, mentre un italiano su sei non trova - o sta perdendo - il lavoro.

«La solidità e la credibilità del nostro sistema costituzionale è in gioco. Non potrebbe infatti facilmente giustificarsi un diniego di giustizia in materia di diritti fondamentali, tanto più se questi hanno a che fare con quei valori costituzionali primari che si pongono alla base del sistema della nostra democrazia rappresentativa».

Il manifesto, 22 maggio 2013

Per tre volte la corte costituzionale ha evidenziato l'intrinseca irragionevolezza e gli aspetti costituzionalmente problematici dell'attuale legge elettorale (sentenze 15 e 16 del 2008, 13 del 2012), non potendo però giungere a dichiarare l'incostituzionalità per ragioni di natura processuale (si trattava di giudizi relativi all'ammissibilità di referendum, ove è escluso il controllo sulla legittimità). Nella sede più solenne - la conferenza annuale sull'attività di palazzo della Consulta - il presidente della corte
il capo dello Stato ha esercitato tutta la sua moral suasion per indurre i partiti politici a trovare un accordo che eliminasse almeno le più evidenti storture della legge 270 del 2005 (il c.d. porcellum), senza però ottenere alcuna soddisfazione dalle forze politiche normalmente assai propense ad accettare i moniti presidenziali. Non c'è, infine, esponente politico, forza sociale, cittadino della repubblica che non sia ormai consapevole del grave vulnus costituzionale rappresentato da un sistema che anziché far scegliere democraticamente al popolo sovrano i propri rappresentanti permette ai partiti di nominare propri delegati in parlamento (grazie al sistema delle liste bloccate) e rende irrilevante il rapporto tra voti espressi dagli elettori e seggi ottenuti dalle forze politiche (in ragione di un sistema di premi abnorme per la camera e irrazionale per il senato).
In questa situazione è ora intervenuta anche la cassazione, con un'ordinanza coraggiosa. Superando ostacoli sia procedurali sia sostanziali che avevano sin qui impedito di aprire le porte al sindacato di costituzionalità della legge elettorale. La parola spetta adesso alla Consulta che dovrà stabilire se la questione proposta è ammissibile (respingendo l'obiezione che si sia qui dinanzi ad un accesso diretto «mascherato», non previsto nel nostro ordinamento) e se sia possibile adottare una sentenza che permetta di affermare i contenuti costituzionalmente negati senza invadere la discrezionalità del legislatore e senza far venir meno l'idoneità della legge elettorale a garantire il rinnovo del parlamento. Un'operazione tecnicamente complessa, ma sostenuta da una essenziale ragione di natura propriamente costituzionale, che possiamo così riassumere: possono i diritti politici fondamentali essere lesi senza poter trovare un giudice in grado di far prevalere la superiore legalità costituzionale?
Si è parlato a lungo, in sede scientifica - tra i costituzionalisti - della legge elettorale come di un'insopportabile "zona d'ombra", sottratta al giudizio di costituzionalità. La corte "suprema" tenta ora di accendere il riflettore e permettere il sindacato da parte del giudice delle leggi in base ad un'argomentazione che non può essere disattesa. Il giudizio della Consulta - scrive la cassazione - «può rappresentare l'unica strada percorribile per la tutela giurisdizionale di diritti fondamentali». La solidità e la credibilità del nostro sistema costituzionale è in gioco. Non potrebbe infatti facilmente giustificarsi un diniego di giustizia in materia di diritti fondamentali, tanto più se questi hanno a che fare con quei valori costituzionali primari che si pongono alla base del sistema della nostra democrazia rappresentativa.
L'ordinanza della cassazione può operare però anche su un secondo piano. In essa, infatti, sono linearmente indicati i tre vizi più rilevanti dell'attuale legge elettorale. Tutti lo dicono ed ora un giudice lo scrive. Non è accettabile un sistema che assegni un premio alla lista o alla coalizione che ha ottenuto il maggior numero di voti senza la previsione di alcuna soglia; non è ragionevole un sistema che distribuisca - sempre senza soglia - premi regione per regione alterando arbitrariamente gli equilibri istituzionali; non è democratico un sistema che non lasci alcuna possibilità all'elettore di scegliere il proprio rappresentante. Non sono questi gli unici difetti dell'attuale legge elettorale, anche l'indicazione del leader di coalizione appare assai impropria, tanto più venuto meno il bipolarismo; così come è da dubitare della ragionevolezza delle soglie di sbarramento multiple di cui è infarcita la vigente disciplina elettorale.
Malgrado ciò limitiamo le nostre considerazioni all'essenziale, a quanto rilevato dalla "suprema" corte. L'attuale eterogenea maggioranza, ma anche l'opposizione, dovrebbero sentirsi chiamate in causa e - unanimemente - stabilire di far venir meno immediatamente i profili di incostituzionalità denunciati. Sin qui non s'è modificato il sistema elettorale perché ogni forza politica ha badato più ai propri interessi immediati, alla propria convenienza, che non ad adottare una legge che garantisse la scelta dell'elettore. Ancora oggi vediamo che all'interno della stessa attuale innaturale larga maggioranza si dicono cose opposte (in particolare, c'è chi vuole tornate subito al mattarellum e chi, invece, vuole prima devastare l'impianto costituzionale per poi, solo in un secondo momento, stabilire quale legge elettorale adottare). Ma in tal modo si rischia di conservare la peggiore delle leggi, poiché essa lede i diritti fondamentali di ciascuno di noi.
Il presidente del consiglio Letta ha fornito un'indicazione di buon senso: intanto mettiamo in sicurezza il sistema elettorale per evitare il rischio maggiore di tornare a votare un'altra volta con una legge gravemente incostituzionale, poi si potrà procedere, con animo più sereno, ad individuare il migliore dei sistemi possibili, ovvero quello più condiviso dal nuovo assetto dei poteri. Bene, prendiamo sul serio questa indicazione e diamogli seguito. Senza scontrarsi dunque sui diversi modelli elettorali, si tratta solo di cancellare ciò che è insopportabile e che i giudici hanno indicato come incostituzionale. "Cancellare" senza - almeno espressamente - "innovare", lasciando così impregiudicata la possibilità di future scelte di sistema.
Ci si dovrebbe dunque limitare ad eliminare da un lato i premi, dall'altro le liste bloccate. Senza introdurre soglie, poiché esse rappresenterebbero già una scelta politica di parte (è, infatti, discutibile e assai delicato stabilire dove collocare l'asticella: al 40, al 45, ovvero oltre il 50 % al solo fine di rafforzare la coalizione?). L'eliminazione del premio tout court imprimerebbe alla legge vigente una chiara impronta proporzionale, ma appunto in una fase di incertezza sono proprio i sistemi elettorali proporzionali quelli che non avvantaggiano nessuno. Inoltre, in tal modo si risolverebbe in radice anche il problema dell'irragionevole distribuzione dei seggi al senato, con premi diversi regione per regione. La cancellazione delle liste bloccate dovrebbe naturalmente portare all'adozione di un sistema in cui è possibile indicare le preferenze per i singoli candidati. Qui è evidente che non basta la cancellazione, ma è necessario stabilire i criteri per assicurare la scelta di preferenza dell'elettore.
Volendosi limitare alla manutenzione costituzionale della legge vigente credo si possa concordare sul criterio più semplice: si permetta una sola scelta tra i candidati presentati nelle liste (se c'è accordo, magari si potrebbe adottare il più raffinato criterio della doppia scelta di genere). Non si faccia altro. Non sarebbe questo il migliore dei sistemi possibili (personalmente ritengo più opportuno un sistema elettorale sostanzialmente proporzionale, con un'unica soglia di sbarramento al 5%, piccoli collegi uninominali e riparto nazionale), ma almeno si sarebbe finalmente cancellata la peggiore legge elettorale che la storia d'Italia ha conosciuto.

Non tutto è chiaro nelle parole del premier francese. Occorre chiarire che cosa si intende per "Europa politica" «La politica in Europa si resuscita imbarcando i cittadini, grandi esclusi dell’Unione e fattisi scettici per motivi seri, non populisti».

La Repubblica, 22 maggio 2013
Un governo economico europeo, con un Presidente che possa agire nel lungo periodo. Un governo che riduca i debiti degli Stati, ma estenda in parallelo la «convergenza sociale», dismettendo l’idea – molto thatcheriana – secondo cui la competitività è tutto, e la società poca roba. È la promessa che Hollande ha fatto ai cittadini europei, nella conferenza stampa del 16 maggio, ed è il piano che presenta ai tedeschi: perché si chiuda la voragine apertasi non solo fra centro dell’Unione e periferia, fra Nord e Sud, ma fra Europa e i suoi cittadini.

In realtà non tutto è chiaro, nelle parole che ha pronunciato. Non si sa precisamente cosa intenda, quando reclama un’Europa politica: ridurre la politica a governo economico è un escamotage grazie al quale il potere viene trasmesso a oligarchie di tecnici che rispondono solo ai mercati, spoliticizzando la democrazia. Europa politica vuol dire che gli Stati trasferiscono alla superiore autorità federale gran parte delle loro sovranità, per recuperarne la forza perduta: Hollande non dice questo, né promette la politica estera e di difesa comune chiesta da sempre in Germania. Non è chiaro infine chi controlli il governo economico, limitato alla zona euro.

Ma il passo avanti c’è, e il fastidio con cui è stato accolto dalla cancelleria e da numerosi giornali tedeschi lo conferma. Soprattutto un passaggio del discorso francese indispone Berlino: quando Hollande propone investimenti europei (industrie e sistemi di comunicazione nuovi, energie rinnovabili), un’autonoma capacità di bilancio della zona euro, e la possibilità, progressiva, di indebitarsi in comune. Sono punti cruciali, perché l’Europa politica, anche se voluta a mezza voce, non può partire senza dotarsi di proprie risorse, e senza gestire insieme i debiti delle singole sue province. L’America sotto la guida del ministro del Tesoro Alexander Hamilton cominciò così, nel 1790, prima di mostrarsi severa con gli Stati morosi. Fu allora che la Confederazione intergovernativa divenne Federazione: uno scatto mentale che Hollande non osa.

Quali che siano le ambiguità francesi, tuttavia, spetta ora alla Germania dire quello che vuole sul serio. Da anni, i suoi governi sostengono che il solo Stato con vocazione federalista è il loro, che l’Europa è bloccata dal veto anti- federale della Francia. È colpa di Parigi se ancora non abbiamo un’Europa solidale, un debito comune, o gli eurobond. È Parigi a non voler cedere sovranità, impedendo l’unione politica che i tedeschi – così dice la vulgata – desiderano in special modo da quando è nata la moneta unica. A tali obiezioni, Hollande replica stavolta con una sfida: «La Germania ha più volte detto d’essere disposta a un’Unione politica, a una nuova tappa dell’integrazione. Anche la Francia è disposta a dare un contenuto a quest’Unione politica: da creare entro due anni».

La scadenza del 2015 è importante. Sempre l’Unione è progredita così: fissando una data. Questo vuol dire che subito, prima del voto di settembre, la Germania intera (non solo la Merkel) dovrà rispondere alla sfida, senza più usare Parigi come alibi. Non è più possibile dire, come ripete il governatore della Bundesbank Jens Weidmann, che gli eurobond, o altre azioni comuni, sono insensati fintanto che «il federalismo, cioè il trasferimento di sovranità che deve accompagnare gli eurobond, non è in Francia né discusso né sostenuto» (Le Monde, 26 giugno 2012).

Il piano Hollande non è esplicitamente federalista, ma estendendo di molto le politiche comuni implica per forza di cose la revisione dei patti esistenti – il ministro Bonino fa bene a dirlo – e tutti devono cessare i doppi giochi, a cominciare dall’egemone che oggi è Berlino. Tocca a quest’ultima dire se il federalismo che professa è un autentico obiettivo, o se lo sbandiera per accelerare il contrario: l’evaporazione della sovranità politica, la sua sottomissione a mercati incontrollati, il collettivo depotenziamento- abbassamento d’ogni Stato europeo tranne il proprio. Spetta a lei dire come mai l’argomento si ripeta con tanta monotonia: anche negli anni ’90, la Bundesbank osteggiò l’euro perché mancava un’unione politica non si sa quanto veramente desiderata.

Tener fede ai propri principi non è più così semplice in Germania, con l’antieuropeismo che s’espande. I principi sono acquisizioni, abiti, stracci graziosi, constata Joseph Conrad: in assenza di una fede deliberata volano via al primo serio scrollone, quando si viaggia nelle tenebre. Certo, non manca a Berlino chi rifiuta la linea Merkel. Peer Steinbrück, candidato-Cancelliere socialdemocratico, denuncia l’impoverimento economico e anche democratico dei paesi frantumati dall’austerità. Chiede per loro un piano Marshall. Ricorda quel che gli ha detto il Presidente Papoulias: la Grecia patì la fame durante l’occupazione nazista, e torna a patirla ora. Ma non entra nei dettagli, non critica i privilegi nazionalisti accampati dalla Bundesbank, e vietati alle altre Banche centrali dell’Eurosistema.

Nel discorso che Steinbrück ha tenuto il 14 maggio a Berlino, in occasione del premio attribuito dalla Fondazione Ebert al libro sull’Europa dello scrittore austriaco Robert Menasse, il divario tra parole e azione riappare: non sono gli Stati il problema – come sostiene Menasse – ma chi li governa. Con la Spd al posto della Merkel, l’Europa muterà. È l’inganno cui ricorre anche il Premier Letta: dopo il voto tedesco, verrà la manna. Troppo coraggio ci vorrebbe, per riconoscere che gli Stati nazione europei sono oggi irrilevanti nel mondo. Troppo svantaggioso ammettere che le oligarchie di cui parla Gustavo Zagrebelsky (Repubblica,18 maggio) prosperano – in Italia più che mai – nel vuoto della politica, e nella pochezza di Stati che sotto l’ombrello dei mercati si disfano dal di dentro, sino a perdere la nozione di legge e di giustizia.

Un ruolo indispensabile spetta a questo punto ai popoli europei. Per la prima volta, se partiti e movimenti sapranno pensare europeo, i cittadini potranno indicare un Presidente della Commissione, fra un anno alle elezioni europee, e bocciarlo qualora sia sgradito. Non solo: saranno i cittadini a chiedere alle due potenze chiave – Berlino e Parigi – di non mendicare più pretesti. Di fare quel che dicono di volere. Di render possibile quel che pare impossibile. Hollande fissa una data: anche se solo economico, il governo auspicato va preparato già oggi. Va preparato con i mezzi indicati da Parigi (fondo per i giovani, politica energetica unica, risorse europee attivate, debito comune) ma anche aumentando il bilancio dell’Unione: scandalosamente ridotto – col consenso di Hollande, di Monti – nel vertice del novembre scorso. Darsi nuove capacità di bilancio significa conferire all’Unione un potere di imposizione: dovrebbero far parte delle sue risorse i proventi della tassa sulle transazioni finanziarie,della carbon tax, di un’Iva europea.

La politica in Europa si resuscita imbarcando i cittadini, grandi esclusi dell’Unione e fattisi scettici per motivi seri, non populisti. Una tassa sovranazionale è difficile senza democrazia. Senza una nuova Costituzione che cominci, come quella americana, con le parole: «Noi, i popoli...». No taxation without representation – ogni tassa è illegittima senza rappresentanza parlamentare – è fondamento della democrazia. Anche nell’Unione lo è. Quel che si chiede a Parigi e Berlino è di smettere l’inganno in cui si compiacciono. Di non condannare la grande invenzione che è stata l’Europa. È possibile, e necessario: proprio perché siamo nel cuore delle tenebre. Perché sta tornando l’era dei sospetti, del disprezzo, dell’equilibrio ottocentesco fra potenze forte e deboli. Grazie dunque, signor Hollande, per averci ricordato che «l’idea europea esige il movimento». Esige il vostro movimento,
e il nostro.

Riconoscere l'illegittimità di Silvio Berlusconi in Parlamento e abolire il Porcellum: passaggi per tornare al livello minimo di decenza democratica. Articolo di Annalisa Cuzzocrea dal versante M5S e intervista di Liana Milella ad Anna Finocchiaro sul versante PD.

La Repubblica, 20 maggio 2013

«Berlusconi ineleggibile subito” sfida del M5S, il Pd si divide
di Annalisa Cuzzocrea

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Non faranno passi indietro, i 5 stelle, sull’ineleggibilità di Silvio Berlusconi. «Domani la giunta per le elezioni e le immunità parlamentari si riunirà per la prima volta al Senato ed eleggerà il suo presidente - dice Vito Crimi - poi, alla prima seduta utile, noi solleveremo la questione ». Il capogruppo dei grillini a Palazzo Madama è fiducioso:Secondo me stavolta passerà la giusta interpretazione della legge, quella per cui il Cavaliere non avrebbe mai dovuto sedere in Parlamento. Perché è chiaro che Berlusconi decadrà non appena sarà condannato dalla Cassazione, l’esclusione dai pubblici uffici scatterà immediatamente, e i suoi avversari politici hanno tutto l’interesse a dire: “Lo abbiamo fatto cadere prima. Lo abbiamo fatto caderenoi”. E ci faremo due risate visto che se ne sono accorti dopo 20 anni».

Si chiede quale strada prenderà il Pd, Crimi. Crede che il presidente dei senatori democratici Luigi Zanda - che giovedì scorso aveva ammonito: «Berlusconi è ineleggibile, non può fare il senatore a vita» - sia in buona fede, ma che di tutti gli altri non si possa ancora dire. Le scuole di pensiero all’interno del partito sono diverse: c’è chi pensa che non si debba guardare al passato, che bisognerebbe piuttosto riscrivere quella legge - la 361 del 1957 - rendendola più stringente per tutti, oltre che per il Cavaliere. Oggi l’articolo 10 prescrive l’ineleggibilità di «coloro che in proprio o in qualità di rappresentanti legali di società o di imprese private risultino vincolati con lo Stato per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica ». La concessionaria delle frequenze radio su cui trasmette Mediaset è una società quotata in borsa di cui la Fininvest della famiglia Berlusconi possiede il 38%. Il Cavaliere è proprietario de facto, quindi, ma questo - alle giunte che si sono succedute alla Camera dal 1994 a oggi - non è apparso sufficiente. «Per paradosso - ricorda Marco Follini, che la scorsa legislatura presiedeva la giunta del Senato - finora è stato considerato ineleggibile Confalonieri e non colui che gli ha dato l’incarico». «Qui non vige la Common Law, i precedenti interessano fino a un certo punto», dice chiaro il senatore pd Felice Casson che, da buon magistrato, ha già avuto modo di studiare le carte. «Credo sia meglio non anticipare le nostre posizioni visto che la giunta ha poteri paragiurisdizionali e non si è mai riunita», spiega cauto. «Certo, il centrosinistra ha qualche imbarazzo perché in passato, alla Camera, ha votato almeno una volta per l’eleggibilità, ma io su questo tema ragiono con la mia testa e sono contento che il segretario Epifani si sia espresso in questo senso, dicendo che saranno i componenti della giunta a decidere».Se ne parlerà quindi, tra i democratici, ma non ci saranno ordini di scuderia. «L’importante dice un dirigente - è che non sembri che facciamo un uso politico della giunta come ha fatto il Pdl per anni, da Cosentino in giù». Benedetto Della Vedova, in commissione per Scelta Civica, non vuole anticipare nulla: «Aspettiamo e si vedrà», dice sibillino. I tempi non sono maturi. Lo saranno presto però. E se mai la “mozione” dei 5 stelle dovesse passare in giunta, stavolta sarà l’aula del Senato a decidere.

Anna Finocchiaro: « La strada maestra è il Mattarellum i cittadini devono tornare protagonisti»
intervista di Liana Milella alla presidente della commissione Affari costituzionali

Il suo nuovo ddl sulla legge elettorale? “È già pronto per il deposito”.La caratteristica più importante? ”Restituire la libertà di scelta agli elettori, tendere a garantire la governabilità del Paese, riequilibrare la rappresentanza”. Cadrà davvero il Porcellum?"C’è il rischio che resti il mero involucro, ma io mi auguro che venga abrogato. È una promessa che abbiamo fatto ai cittadini”. La Democrat Anna Finocchiaro, al vertice della commissione Affari costituzionali del Senato, di una cosa è certa: “Dobbiamo cambiare la legge prima della Consulta.

Voi volete buttare via il Porcellum, Alfano vuole prima la grande riforma. Chi vince?
“Innanzitutto questo è il terreno su cui trovare la soluzione più condivisa possibile. Siamo di fronte a tre emergenze: costituzionale, come si desume anche dall’ordinanza della Cassazione, politica e istituzionale. Se, malauguratamente, si dovesse tornare a votare prima di approvare le riforme e una legge elettorale conseguente, ci troveremmo a farlo con il Porcellum o con un testo modificato dalla Consulta, misurato sui profili di incostituzionalità, piuttosto che sull’esigenza di dare agli elettori uno strumento efficace per garantire la governabilità del Paese”.

Lei è una fan del Mattarellum. Ha annunciato un ddl per ripristinarlo. A che punto è?
“Il ddl è pronto per essere depositato. È una mia iniziativa fondata sulle comunicazioni di Letta durante il dibattito sulla fiducia, su una forte condivisione dei gruppi parlamentari, su un indirizzo comune già nella scorsa legislatura e tra gli studiosi per un ritorno a un Mattarellum corretto. Allo stato, la mia sarebbe l’unica iniziativa già definita, e quindi un modo per aprire il dibattito”.

Ci anticipa i punti qualificanti?
“È una legge transitoria in vista di quella post riforme. Contiene norme per il riequilibrio della rappresentanza anche nei collegi. Elimina lo scorporo per rendere l’effetto più maggioritario. Restituisce agli elettori il diritto di scelta e quindi li responsabilizza rispetto alla futura governabilità. Favorisce le scelte di coalizione già in fase pre-elettorale, il premio viene attribuito alle forze politiche che raggiungano il 40%, ma con un sistema che garantisce una tendenziale omogeneità di maggioranza in entrambe le Camere”.

Il Pd punta i piedi o va al compromesso?
“Nel partito non ne abbiamo parlato. I gruppi ne discuteranno domani. Io resto convinta che questa sia una soluzione migliore rispetto al ritocco del Porcellum”.

In vista dell’incontro di mercoledì escono le prime indiscrezioni sul maquillage in versione Quagliariello. Via il premio di maggioranza o soglia al 40%. Il Pd tratterebbe?
“Dico quello che penso io. Questa soluzione, nel mutato quadro politico, rischia di consegnare all’ingovernabilità o necessariamente alle larghe coalizioni il governo del Paese. Preferisco la mia soluzione”.

Con le pecette non resterebbe l’amarezza di un inciucio?
“Alcune delle critiche che si fanno al Porcellum — violazione del voto diretto e premio abnorme — possono essere risolte anche con la soluzione Quagliariello. Ma il testo, anche così riformato,
non sarebbe utile a creare le condizioni per la governabilità del Paese e a sollecitare la responsabilità degli elettori. È questo, al di là del fatto simbolico di avversione al Porcellum, che in politica conta”.

Dopo la Cassazione il governo non ha una via obbligata?
“Qualunque sia il sistema elettorale scelto, il legislatore non potrà non tenere conto di tre osservazioni della Corte, la garanzia del voto diretto, l’irragionevolezza sia di un premio senza soglia, sia di un sistema di premio al Senato che determina maggioranze diverse nei due rami del Parlamento”.

Faccia un pronostico: farete prima voi a cambiare la legge o la Consulta a pronunciarsi? “Io mi auguro che facciamo prima noi. E mi auguro anche che si avverta in Parlamento non solo l’eco del monito di Napolitano sull’incapacità di dare una nuova legge elettorale al Paese, ma anche il fatto che la Corte si pronunzierà grazie all’intelligenza e determinazione di un cittadino, l’avvocato Bozzi, e grazie ai giudici della Cassazione che hanno scritto un’ordinanza che ci rassicura sulla qualità e responsabilità costituzionale della giurisdizione italiana”.

Mettere Berlusconi fuori dal parlamento per via
 del conflitto d’interessi? Il capogruppo del Pd al Senato, Luigi Zanda, osa: «Per la legge non può essere eletto». Il Pdl minaccia fuoco e fiamme e parte la ritirata.

Il manifesto, 19 maggio 2013, con postilla

Niente paura, «il governo non rischia», il Pd «non dà indicazioni di voto ai componenti della giunta» e insomma, solo «una posizione personale». Verso sera, rimasto praticamente solo a fronteggiare l’ira del Pdl, il presidente dei senatori democratici, Luigi Zanda, ingrana la retromarcia. Spiega che le sue considerazioni affidate all’Avvenire sull’ineleggibilità di Silvio Berlusconi «secondo la legge, in quanto concessionario, non è eleggibile. Ed è ridicolo che l’ineleggibilità colpisca Confalonieri e non lui» sono farina del suo sacco. La pensa così da anni e lo dice da sempre, aggiunge, quindi «non sarebbe serio» cambiare posizione ora solo perché è capogruppo del Pd. Con il Pd sottinteso alleato del partito di Berlusconi.

Alla lettura dell’intervista di Zanda a Avvenire , i pidiellini però hanno un travaso di bile. Uno dopo l’altro tuonano. C’è chi chiede che intervenga Guglielmo Epifani per richiamare Zanda all’ordine, chi, come la sottosegretaria Biancofiore, rivolge la stessa sollecitazione a Enrico Letta. Chi si infiamma per le parole «incendiarie» e chi avverte: così salta il governo. Guai, insomma, a toccare i molteplici conflitti d’interesse del Cavaliere. E a mettere in dubbio il suo alto profilo istituzionale. Perché Zanda si lascia andare anche a un’altra considerazione: «Non è mai stato nominato nessun senatore a vita che abbia condotto la propria vita come l’ha condotta Berlusconi. Non credo che debba aggiungere altro». Si indigna Schifani: «Valutazioni morali inopportune». Esagera Brunetta: «Intimidazione nei confronti del Colle». Da Zanda, invece, una strapazzata anche a Roberto Formigoni, che dovrebbe dimettersi da presidente della commissione agricoltura visto che ne è stato chiesto il rinvio a giudizio per il caso Maugeri.

Ce ne è abbastanza per far saltare sulla sedia lo stesso Enrico Letta, via Dario Franceschini parte felpato un richiamo all’ordine. Si adegua Donatella Ferranti, presidente della commissione giuistizia della camera, Pd: «Zanda ha parlato a titolo personale» di un tema, il conflitto d’interessi, che «va approfondito» (del resto se ne parla solo da vent’anni). Finora, del resto, il Pd aveva osato solo un «non è una priorità» rispondendo alla nuova offensiva sulle intercettazioni, capitolo dell’ennesima carica anti-toghe seguita alla condanna dell’ex premier sui diritti tv e alla requisitoria di Boccassini sul caso Ruby. Oltretutto, l’intervista di Zanda aveva eccitato i 5 Stelle, pronti a votare per l’ineleggibilità con il Pd.

E così, appunto, il capogruppo Pd si corregge. Chiarisce di non far partedella giunta delle elezioni e delle immunità di palazzo Madama «quindi non voterò su Berlusconi» e aggiunge spargendo ancora acqua «non mi sfuggono i precedenti della camera che ha già votato varie volte con un’interpretazione opposta alla mia». Interpretazione, del resto, quella pronunciata nell’intervista, che suonava come un’esibizione di bandiera, un modo per cercare di uscire dall’imbarazzo delle larghe intese in salsa berlusconiana. Proprio Zanda, infatti, l’altro giorno avrebbe spiegato al gruppo democratico provocando il malumore di una parte dello stesso gruppo, compreso Felice Casson che alla giunta per le elezioni e le immunità va votato come presidente il leghista Raffaele Volpi, come da accordo con il Pdl. E se finisse così, si può escludere in partenza che venga ammessa al dibattito (facoltà che attiene appunto al presidente della giunta) la richiesta di ineleggibilità del Cavaliere che i 5 Stelle presenteranno.

Interpellato sul tema rovente della giustizia, da Varsavia Letta chiude il caso: «Non mi faccio distrarre dal programma di governo». E dire che il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Sabelli, si sarebbe aspettato «una reazione un po’ più ferma, compatta e corale dalla politica e dalle istituzioni» dopo gli attacchi alle toghe. Ma le larghe intese hanno la meglio, anche se ogni giorno più strette. E anche se dopo l’altolà di Napolitano che al Messaggero dice «capisco chi si trova impigliato», ma «meno reazioni scomposte arrivano, meglio è» il Cavaliere promette di fare il buono per un po’: niente comizi, sarà solo a Roma il 24 per sostenere Alemanno.

Postilla
Avevamo espresso un dubbio sulla durata della giusta posizione di Zanda, quindi l'esito della sua denuncia dell'illegittimità di Berlusconi nel Parlamento non ci sorprende. Rimane in noi una domanda inquietante: di quale arma dispone il Cavaliere per asservire i manovratori del PD?

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