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Che cosa c'è dietro l'apparente stravaganza del fatto che secondo molti osservatori Grillo e Renzi sono molto simili? Un tentativo di risposta.

Il manifesto, 1 dicembre 2013

La prevalenza di Matteo Renzi tra gli iscritti al Pd nella corsa alla segreteria di quel partito costituisce un colpo al cuore del sistema politico strutturatosi nell'ultimo ventennio, e segue a distanza di appena un anno l'altro grande sintomo di quella crisi, l'affermazione della lista di Beppe Grillo alle elezioni politiche.

Che tra le due personalità politiche ci sia più di una affinità lo hanno colto molti osservatori: basti pensare che le inchieste sono unanimi nell'affermare che la scalata di Renzi ai vertici del Pd contribuirà ad essiccare l'acqua in cui nuota il pesce grillino. Tra tutte le similitudini tra le due vicende politiche, ve ne è tuttavia una che ha, all'apparenza, del paradossale: sia il partito di sinistra, geneticamente modificato da Renzi, che il M5S attingerebbero il proprio bacino di consenso da due culture inconciliabili, quella dei delusi dalla sinistra tradizionale (di matrice addirittura comunista) e dal berlusconismo. Che ciò si produca indica un panorama politico impazzito; e tuttavia le radici di questa «follia» possono essere razionalmente rintracciate nella nostra recentissima storia politica.

A partire dai primissimi anni Novanta si è passati, in Italia almeno, da una democrazia «orizzontale» a una «verticale». Il modello «orizzontale» del Novecento europeo è un modello in cui interessi appunto orizzontali, contrapposti nella società, trovano espressione in partiti, movimenti, o anche singole personalità che se ne fanno interpreti nell'agone politico. Non si tratta di un modello assolutizzante, per cui si verificano al suo interno vistose osmosi - la working class Tory inglese, l'imprenditore comunista emiliano... La contrapposizione di questi interessi struttura vistosamente il sistema politico della nostra «prima Repubblica».

A partire dagli anni Ottanta, tuttavia, una serie di macro-fenomeni sociali, accompagnati da scelte soggettive dei gruppi dirigenti, in specie della sinistra, contribuiscono a «periferizzare» gli interessi degli strati orizzontali inferiori, quando non lo stesso protagonismo politico dei loro esponenti. I luoghi e i riti della partecipazione alla politica dei ceti subalterni perdono di peso e di senso. Questi fenomeni profondi favoriscono e accompagnano il mutamento di paradigma che si produce negli anni Novanta, per cui i due poli che si confrontano si fanno portatori di interessi «verticali».

Oggi essi afferiscono entrambi a parti di gruppi dirigenti tradizionali, che menano le danze quasi a prescindere dallo scontro politico in atto - facilitati in questo dal trasferimento dei poteri decisionali dalle assemblee elettive a una tecnocrazia democraticamente irresponsabile. Si può a buon diritto argomentare a favore di una maggiore sensibilità civile e di un maggior cosmopolitismo di quella parte dei gruppi dirigenti di cui il centro-sinistra si è fatto espressione, ma poco cambia ai fini dell'argomentazione. Non è un caso che l'ultimo ventennio, pur contraddistinto da lunghi periodi di governi di centro-sinistra, sia stato marcato da un gigantesco spostamento di denaro (e di potere) dal salario diretto e indiretto al capitale e alla rendita. Il consenso di massa attorno a questo sistema di per sé elitario è mantenuto attraverso il meccanismo «verticale» della clientela - intesa in senso politico, non moralistico: spezzoni di società, che agiscono come somma di individui o tutt'al più come clan, che traggono il proprio sostentamento dalla vittoria dell'uno o dell'altro schieramento.

L'esplosione della Crisi ha inceppato questo meccanismo, dal momento che ha impedito ai gruppi dirigenti di assicurarsi il consenso dei «clienti» (emblematica la necessità di rinunciare allo strumento della Consulenza e del Condono fiscale). Gli esclusi dal meccanismo verticale hanno così iniziato a rispondere sul piano politico o con l'astensione, o con l'appoggio a movimenti e personalità che ne rivendicavano la rappresentanza. Si formano così, attorno ai leader «nuovisti», blocchi sociali eterogenei in lotta contro il sistema politico assodato: disoccupati e precari, giovani altamente formati, lavoratori dipendenti sono attratti dalle sirene di chi si scaglia contro manodopera occupata, pensionati e grandi industriali, genericamente accomunati dall'etichetta di «garantiti».

Renzi e Grillo, gli homines novi cui ci si rivolge, assediano il palazzo della larghe intese, asserragliate a difesa dell'esistente. I grandi organi di stampa, legati a doppio filo con interessi reali ben determinati, se ne accorgono per tempo, e pompano il fenomeno per non giungere impreparati alla nuova transizione. Ciò che si vuole assicurare è il perpetuarsi del modello «verticale», che sotto la coltre di una dialettica aspra mantiene inalterata la funzione dirigente dei gruppi di potere tradizionale. È probabile che l'attuale sistema politico verrà definitivamente travolto, oppure salvato dall'apatia di massa espressa nell'astensione.

La sinistra sembra aver imboccato la via più facile, quella di legittimarsi tirando a campare e a riciclarsi nel nuovo scenario. Per ritrovare le proprie ragioni, tuttavia, sarebbe più produttivo, ancorché di gran lunga più difficile, che essa si desse a un lavoro di lunga lena di scomposizione dei meccanismi verticali di conflitto e di ricomposizione di quelli orizzontali, per elaborare una via d'uscita convincente alla crisi sociale e a quella del sistema politico.

“Esista ancora o no Silvius Magnus, persona fisica, il berlusconismo costituisce ormai impronta genetica con i relativi effetti: contagio nel campo avverso e convulsioni utili al pifferaio». La Repubblica, 30 novembre 2013

Date da segnare in nero nell’affareCancellieri. Domenica sera 18 novembre una nota dal Colle (quante ne piovono)loda «rigore » e «chiarezza» della Procura torinese, perché manda il fascicoloa Roma senza indicare ipotesi delittuose: ovvio, era incompetente ratione loci,essendo avvenuto nell’Urbe l’ipotetico reato (dichiarazioni false o reticential pubblico ministero); qualunque atto d’indagine sarebbe irrituale (art. 54,c. 1, c. p. p.). Importa poco che vi siano o no reati: la signora deveandarsene perché nessun guardasigilli serio parla come lei nel dialogotelefonico del 17 luglio, né sono compatibili con l’ufficio gli sfondifamiliari emersi poi; lo capisce chiunque abbia barlumi d’orientamento etico.
Lunedì sera Letta nipote viene a ribadire lo ukase quirinalesco nell’assembleaPd: madame va difesa all’ultimo sangue; atto fuori d’ogni logica; e non stupisceche rispondano sull’attenti i berluscones annidati in vari dicasteri, docilelobby. Rex Neapolitanus, inventore nonché assiduo patrono delle “largheintese”, se l’era scelta e la impone, contro l’elementare decoro. Sia dettochiaro, qualunque cosa proclamino persone en place, quando anche stiano alposto più alto: finché l’Italia sia repubblica democratica con una Carta (erosadagl’insofferenti), sarà machiavellismo volgare presupporre scelte politicheinsindacabili; anche lì hanno corso equazioni morali, talvolta dissonanti dallaprassi, e chi abbia in sesto l’organo pensante se le formula.
L’assurdoitaliano configura una relazione transitiva (i termini vengono da BertrandRussell): Pd è solidale con quaglie- colombe centrodestrorse; i quali pennutirendono servizi all’Olonese; a gioco lungo, anche il Pd lavora pro pirata. Conqualche molto spiegabile eccezione (vedi l’eterno Bicamerista intrigante), iparlamentari Pd volevano disfarsi della impresentabile ma l’oracolo ha parlato:obtorto collo ubbidiscono; voteranno contro la mozione Cinquestelle, sebbenenessuno capisca perché un voto positivo suoni sfiducia al governo; se mail’accredita.
Se poi compariamo i due casi, appare feroce l’espulsione sei mesifa inflitta in materia veniale a Iosefa Idem, ministro per le pari opportunità.Dignitosamente non aveva fiatato, mentre costei strepita. Mercoledì mattina 20novembre Montecitorio ospita l’Opera italiana da due soldi, mai a corto d’idee.Madame viene «a testa alta», affermandosi ineccepibile, salvo un minuscolo«rammarico» sulle effusioni nella telefonata del 17 luglio. Non discutiamol’arringa, sarebbe inutilmente crudele.
Poche ore dopo erompe l’ultimofamilismo: don Salvatore Ligresti era intervenuto presso l’amico premierBerlusconi, affinché l’interessata, commissario prefettizio a Bologna, virestasse; lo racconta al pubblico ministero; lei nega, ma niente mette indubbio la parola del narrante. Pare meno credibile il mendacio persecutorio:«vuol vendicarsi »; di che cosa? Dal retroscena, qualunque sia, affioramalcostume politico.
Mala tempora e la diagnosi non richiede analisiparticolarmente fini. Dopo l’equivoca scissione nel Pdl le cose restano qualierano: Forza Italia rinata e Nuovo Centrodestra sono gemelli: in tutt’e duecomanda lui; l’unica differenza sta nella gestione interna del potere tracolonnelli. Rifulgono almeno tre obiettivi comuni: ante omnia gl’interessi suoi,onnipresenti; poi patrocinio d’affari parassitari (P2, 3, 5, finché vi sia darodere); e giustizia riformata nel senso cancellieresco, rispettosa dellegerarchie, morbida o dura secondo le persone, al qual proposito è requisitocapitale “ricondurre” la magistratura ai vecchi valori (il verbo era caro aLicio Gelli), ossia pubblico ministero sottomesso all’esecutivo, privacyermetica (quindi telefoni sicuri), giudici sensibili al vento.
Entrambi ipartiti hanno penchant clericofilo, accentuato nel nuovo, dove l’enfasi cattolico-militanteannovera cantori pronti all’urlo (vedi caso Englaro: «non è morta, l’aveteuccisa!»). L’esito naturale delle “larghe intese” è un’immobilità garrula.L’abbiamo sotto gli occhi da sette mesi. S’imponevano scelte indifferibili inmateria elettorale ed economica: rien de rien; l’osceno Porcellum viene comodoall’oligarchia politicante; né il governo tocca grovigli d’interessi a sfondospesso delittuoso; vi osta la lobby berlusconiana.
Inutile dire chi neapprofitti: stando dentro e fuori, accumula rendite elettorali; gli costanopoco esche verbali allucinatorie (fisco lieve, affari grassi, lavoro comodo,vita allegra). Non è ancora nato chi gli tenga testa nell’imbonimento da fiera.Ora, solo chiromanti governativi annunciano un invisibile 2014 fausto: némiseria, disgusto della politica, disordine favoriscono i buoni consigli; staquindi nel vago possibile che a Palazzo Chigi torni lui, riqualificato daCamere servili, e stavolta (quarta in vent’anni rovinosi) non crescerebbe piùl’erba.
L’ipotesi meno funesta è un’Italia mezza viva, non importa sotto qualeinsegna. Esista ancora o no Silvius Magnus, persona fisica, il berlusconismocostituisce ormai impronta genetica con i relativi effetti: contagio nel campoavverso e convulsioni utili al pifferaio; saremmo un paese povero, sologeograficamente europeo, perché l’autentico sviluppo economico richiede intellettisvegli e anime vive. Ancora una volta ha vinto l’Olonese, decaduto manient’affatto innocuo, nel cui programma l’affare Cancellieri è fieno incascina. Lo speaker delle colombe centrodestre, infatti (ex piduista, da annimonotono declamante contro «l’uso politico della giustizia»), ora improvvisoautonomista, definiva «cristallina» l’azione della guardasigilli. Circola delriso amaro: l’Italia sta in una spirale pericolosa finché sul Colle sieda lostratega delle famigerate intese, i cui ordini Letta nipote esegue, né possiamosperare l’atto spontaneamente abdicativo
Due commenti sull'evento atteso per vent'anni. Norma Rangeri su

il manifesto ed Ezio Mauro su La Repubblica, 28 novembre 2013. Un evasore fiscale condannato in via definitiva non può essere senatore della Repubblica. Ma il berlusconismo non è morto

il manifesto
SE CADE LA MASCHERA
di Norma Rangeri

L'atto simbolico dell'espulsione di Silvio Berlusconi dalle istituzioni parlamentari alla fine si è compiuto. L'aula del senato ha mostrato, in diretta televisiva, le ultime difese delle truppe dei fedelissimi: senatori che denunciavano il sacrificio del leader, senatrici vestite a lutto, non contro l'immagine femminile sfigurata dall'epopea del bunga-bunga, bensì contro il rito democratico che a metà pomeriggio ha scritto la parola fine alla carriera istituzionale di Berlusconi. Tra uno Scilipoti che farfugliava di democrazia e un Giovanardi che involontariamente infieriva su se stesso parlando del paese di Maramaldo, si è giunti a un risultato dignitoso contro i timori di un salvataggio in extremis. Il parlamento ha reagito decorosamente, ha votato in modo palese e il Pd ha tenuto le posizioni.

Naturalmente ci congediamo dal decaduto, non dalla decadenza del paese. Ma aver dimostrato, per una volta, che la legge è uguale per tutti, che il corpo del "sovrano" è soggetto alle sentenze e alla Costituzione, rende altrettanto evidente che, insieme al velo dell'intoccabilità del re, sono cadute altrettanto fragorosamente le maschere degli avversari. Sulla politica, sui partiti, sull'informazione pesa ora la responsabilità, con i fatti, i comportamenti e le scelte di cambiare l'agenda.

Da oggi Forza Italia è un partito come gli altri, una forza di opposizione guidata da un pregiudicato che paragona i magistrati alle Br, stretta tra il populismo grillino e l'anima governativa del gruppo ciellino. Vedremo se il mondo politico e quello dell'informazione (due facce della stessa malattia) intenderanno prenderne atto o preferiranno continuare come prima. I politici a farsi schermo dell'antiberlusconismo per non assumersi la responsabilità di parlare un'altra lingua, e l'informazione a mostrarsi Berlusconi-dipendente per non tagliare il cordone ombelicale che ha tenuto insieme servo e padrone, conflitto d'interessi e giustizialismo. Tutti sappiamo quanto profondo è il danno subito da un paese che per decenni si è piegato ai diktat dell'uomo forte, quanto larga la compenetrazione tra il movimento della destra arcoriana e la società che a lui si riferisce. Ma l'acutezza della crisi e gli anticorpi che tuttavia il ventennio ha prodotto ci spingono, più che a ripetere la diagnosi, all'urgenza della cura.

La Repubblica
L’ECCEZIONE È FINITA
Ezio Mauro

TUTTO è consumato, dunque. Quasi quattro mesi dopo la condanna definitiva per frode fiscale Silvio Berlusconi deve lasciare il Parlamento perché il Senato lo dichiara decaduto, e non potrà candidarsi per i prossimi sei anni. Tutto questo in forza del reato commesso, della sentenza pronunciata dalla Cassazione e di una legge che le Camere hanno approvato un anno fa a tutela della loro onorabilità istituzionale, come risposta alla corruzione montante e agli scandali crescenti della malapolitica. Persino in Italia, quindi, anche per un leader politico, addirittura per uno degli uomini più potenti del ventennio, valgono infine le regole democratiche dello Stato di diritto, e la legge si conferma uguale per tutti. Un processo è riuscito ad andare fino in fondo, l’imputato ha potuto difendersi con tutti i mezzi leciti e anche con quelli impropri, finché tutto si compie e le sentenze si eseguono, con tutte le conseguenze di legge. È certo una giornata particolare quella in cui si decide l’espulsione dal Senato di un uomo di Stato che ha guidato per tre volte il Paese come premier. Ma l’eccezione non è la decadenza, che segue la norma, una norma che il Paese si è dato da sobrio per essere regolato quand’è ubriaco, quando cioè il comportamento improprio dei suoi rappresentanti prende il sopravvento e viene certificato e sanzionato.

No, nonostante la propaganda. L’eccezione è che il leader di un grande partito che ha avuto l’onore di servire tre volte come presidente del Consiglio si sia macchiato di un reato così grave da subire una severa condanna, innescando con la sanzione del suo profilo criminale la norma di decadenza.

Questa verità è sparita dalla discussione, dall’analisi politica, dai giornali. Anzi, si è spezzato scientificamente il nesso tra l’inizio (il reato) e la fine della vicenda, cioè la decadenza. Con la scomparsa del nesso, si è smarrito il significato e il senso dell’intero percorso politico e istituzionale del caso Berlusconi. Domina il campo soltanto l’ultimo atto, privato dalla propaganda di ogni logica, trasformato in vendetta, camuffato da violenza politica. E così, il Cavaliere ha potuto evitare di affrontare politicamente e istituzionalmente la sua emergenza nella sede più solenne e propria, l’aula di Palazzo Madama che si preparava a farlo decadere, rinunciando a far valere le sue ragioni e a trasformare in politica le sue accuse. Ha scelto invece la piazza, dove i sentimenti contano più dei ragionamenti e i risentimenti cortocircuitano la politica,umiliandola in un vergognoso attacco alla magistratura di sinistra paragonata con incredibile ignoranza alle Brigate Rosse, mentre un cartello usava l’immagine tragica di Moro per trasportare Berlusconi dentro un uguale, immaginario e soprattutto abusivo martirio.

“Lutto per la democrazia”, “Colpo di Stato”, “Legge calpestata”. “Persecuzione senza uguali”, “Plotone di esecuzione”. Uscendo dall’aula del Senato per arringare la piazza con queste parole, Berlusconi è uscito nello stesso momento definitivamente — per scelta e per rinuncia, in questo caso, non per decadenza — dall’abito dell’uomo di Stato per indossare il maglione da combattimento, la sua personale mimetica da predellino populista. Una cornice straordinaria, bandiere nuove di zecca e palette pre-distribuite con scritte contro il “golpe”, una ribellione di strada contro il Parlamento e la decadenza, dunque contro le istituzioni e la legge. Ma in questa cornice, è andato in scena un discorso ordinario, faticoso nella pronuncia e nell’ascolto, già sentito decine di volte, virulento nelle accuse ma rassegnato nell’anima. Riassunto, alla fine, nell’ostensione del leader alla folla nel momento in cui si schiude l’abisso, il re pastore che incontra il suo popolo ma non sa andare oltre la tautologia fisica, affidandole la residua politica estenuata: «Siamo qui, non ci ritiriamo, noi ci siamo». Come se mostrarsi ai suoi fosse l’unica garanzia oggi possibile: per loro, ma soprattutto per se stesso, la sopravvivenza scambiata per l’eternità. Con un’ultima, minima via d’uscita per l’immediato futuro: «Si può essere leader anche fuori dal Parlamento, come Renzi e Grillo». Con la differenza — taciuta — che i due avranno piena libertà di movimento nei prossimi novemesi, Berlusconi no, oltre a non essere candidabile per sei anni. Subire infine la realtà che si continua a negare è possibile solo se si vive in un universo titanico, dove non valgono regole e ogni limite può essere violato. L’universo personale del ventennio, per il leader della destra italiana. Il guaio per il Paese è che questa visione dilatata che scambia la libertà con l’abuso è diventata programma politico, progetto istituzionale, mutazione costituzionale di fatto. Dal giorno in cui per Berlusconi è cominciata l’emergenza giudiziaria fino a domenica (quando il Quirinale ha richiuso la porta ad ogni richiesta impropria) il tentativo di imporre alla politica e ai vertici istituzionali una particolare condizione di privilegio per il leader è stata costante e opprimente. Questo tentativo poggia su una personalissima mitomania sacrale di sé, l’unto del Signore. E su una concezione della politica culturalmente di destra, che fa coincidere il deposito reale di sovranità col soggetto capace di rompere l’ordinamento creando l’eccezione, e ottenendo su questo consenso.

La partita della democrazia a cui abbiamo assistito aveva proprio questa posta: l’eccezione per un solo uomo, l’eccezione permanente. Prima deformando le norme, allungando il processo, accorciando la prescrizione, chiamando “lodo” i privilegi, trasformando in norme gli abusi. Poi contestando non l’accusa ma i magistrati, inizialmente i pm, in seguito i giudici, da ultimo l’intera categoria. Quindi contestando il processo. Naturalmente rifiutando la sentenza. Infine condannando la condanna.

E a questo punto è incominciato il mercato dei ricatti. Si è capito a cosa serviva la partecipazione di Berlusconi al governo di larghe intese: a usarlo minacciando la crisise non si fosse varata la grande deroga, con buona pace degli interessi del Paese. Minacce continue, sottobanco e anche sopra. Tentativi di accalappiare il Pd, scambiando l’esenzione berlusconiana con il via libera alle riforme. Blandizie e pressioni per il Quirinale, perché trasformasse i suoi poteri in arbitrio e la prassi in licenza, pur di arrivare alla grazia tombale.

Una grazia non chiesta come prescrive la norma, quindi uno schietto privilegio. Ecco la conferma che il Cavaliere non cercava solo una scappatoia, ma un’eccezione che confermasse la sua specia-lità, sanzionando definitivamente la sua differenza, già certificata dal conflitto d’interessi, ogni giorno, dall’uso sproporzionato di denaro e fondi neri (come dice la sentenza Mediaset) su mercati delicati e sensibili, come quello politico e giudiziario, alla legislazione ad personam.

Abbiamo dunque assistito a un vero e proprio urto di sistema. E il sistema non si è lasciato deformare, ha resistito, la politica ha ritrovato una sua autonomia, le istituzioni hanno retto, persino i giornali — naturalmente per ultimi, e quando la malattia della leadership era stata ampiamente diagnosticata dai medici — hanno incominciato a rifiutare i costi della grande deroga, scoprendo un’anomalia che dura in realtà da vent’anni, e non ha uguali in Occidente.

Il ricatto sul governo è costato a Berlusconi la secessione dei ministri, coraggiosi nel rompere con un potere che usa mezzi di guerra in tempo di pace, molto meno coraggiosi nel dare a se stessi un’identità repubblicana riconoscibile. Questa può nascere soltanto nel riconoscimento e nella denuncia dell’anomalia radicale del ventennio, una denuncia che determina una separazione politica e non solo fisica, una differenza culturale e non soltanto ministeriale, una scelta “repubblicana”, come dice Scalfari.

Per il momento il governo è più forte nei numeri certi (i dissidenti non possono certo rompere con Letta dopo aver rotto con Berlusconi), in una maggiore omogeneità programmatica, soprattutto nella libertà dai ricatti. Il governo usi quella libertà, questa presunta omogeneità e quei numeri per uno strappo sulla legge elettorale, offrendo al parlamento la sua maggioranza come base sufficiente di partenza per una riforma rapida, che venga prima di ogni altro programma, non in coda. Perché con Berlusconi libero e disperato, la tentazione lepeniana è a portata di mano per la destra italiana, un’opposizione a tutto, l’Italia, l’euro, l’Europa, e non importa se il firmatario del rigore con Bruxelles è proprio il Cavaliere, colpevole non certo di aver creato la crisi ma sicuramente di averla aggravata negandola.

Il governo è più forte, ma il quadro politico è terremotato. La tenuta delle istituzioni in questa prova di forza deve essere trasformata in un nuovo inizio per la politica: per riformare il sistema, dopo aver sconfitto il tentativo di

La maggioranza di governo si riduce, le intese da larghe si fanno strette, e sembra pure che si restringa il programma delle riforme costituzionali. Ricordate? Il “cronoprogramma”, diciotto mesi per vincere una sfida che dura da anni, comitati di saggi, una sessantina di articoli da modificare: una costruzione barocca, per certi versi politicamente e culturalmente insensata, culminata nel disegno di legge costituzionale di manipolazione dell’articolo 138 della Costituzione, l’essenziale norma di garanzia scritta per mettere il testo costituzionale al riparo da forzature congiunturali. Ora si parla di tornare sulla via maestra, di circoscrivere le modifiche da apportare alla Costituzione e di seguire la procedura dell’articolo 138 nella sua integralità.

Che cosa accadrà in concreto, è troppo presto per dirlo. E tuttavia questa tardiva resipiscenza merita un momento di attenzione. Tardiva, perché fin dai giorni della formazione del governo Letta s’era detto che sarebbe stato più corretto, e anche più funzionale, avviare una revisione sui punti già assistiti da un sufficiente consenso (uscita dal bicameralismo perfetto, riduzione del numero dei parlamentari). Se fosse stata subito imboccata questa strada, oggi potevamo essere vicini all’approvazione di questa non indifferente riforma. Ma questa resipiscenza, proprio perché tardiva, fa nascere problemi che debbono essere subito messi in evidenza, che non possono essere furbescamente elusi o occultati.

Il primo riguarda il fatto che proprio questa inversione di rotta conferma che ormai la Costituzione viene considerata come una semplice pedina di giochi politici a breve, di convenienze. Non siamo di fronte ad un vero recupero della cultura costituzionale, ma quasi al suo contrario. Che questo, oggi, possa avere un effetto positivo, non è certo indifferente. Ma la complessiva temperie istituzionale non muta e altri effetti, tutt’altro che positivi, possono prodursi.

L’attenzione, allora, deve essere rivolta al disegno di legge di modifica dell’articolo 138, già approvato dal Senato in seconda lettura e che sta per essere portato alla Camera per la sua approvazione definitiva. Che fine farà? Sarà messo prudentemente in un angolo o si procederà con la logica delle azioni parallele? In quest’ultimo caso saremmo di fronte ad una sorta di stralcio, con un paio di questioni – bicameralismo, riduzione dei parlamentari – affidate alla procedura di un articolo 138 non modificato, mentre la questione di fondo, dunque la modifica della forma di governo, rimarrebbe prigioniera dello strappo determinato dalla manipolazione dell’articolo 138, divenuta così ancor più evidente e clamorosa.

È una soluzione inaccettabile, in cui si riflette soltanto la disperazione di una maggioranza che proclama in ogni momento d’essere forte perché sa benissimo d’essere debolissima, e che assomiglia sempre di più a quel barone di Münchausen che voleva uscire dalle sabbie mobili tirandosi per i propri capelli. Un doppio binario non è ammissibile. Si certificherebbe che, là dove si riesce a costruire quel consenso largo necessario per le riforme costituzionali, si possono rispettare le regole. Dove, invece, questo non è possibile, si procede per strappi e forzature. Che razza di democrazia “costituzionale” diverrebbe la nostra?

Considerando il merito delle riforme, poiché vi sono molti modi di affrontare le questioni ricordate, si deve discutere seriamente almeno quali sarebbero gli effetti dell’abbandono del bicameralismo perfetto per quanto riguarda la nomina del presidente del Consiglio, che può avere riflessi sul ruolo del presidente della Repubblica; la questione della fiducia al governo; il procedimento legislativo, che non può essere totalmente concentrato in una sola camera. Inoltre, la furia un po’ cieca che ha portato a ritenere, troppe volte con argomentazioni soltanto di risparmio di spesa, che l’efficienza si raggiunga con il taglio dei parlamentari, dovrebbe essere temperata da una riflessione che, mantenendo fermo questo criterio, tuttavia si chieda quanto tutto questo inciderebbe sulla rappresentanza dei cittadini. Scomparsa, infatti, l’elezione diretta del Senato, questa sarebbe tutta affidata agli eletti alla Camera dei deputati, il cui numero diventa determinante. Emerge così la questione generale del mantenimento, attraverso la riforma, del carattere parlamentare e rappresentativo della nostra Repubblica.

Si giunge così ad un punto chiave. Sembra di scorgere, dietro questo possibile cambiamento di linea, anche la volontà di creare condizioni più propizie alla riforma della legge elettorale. Se, tuttavia, questa assumesse caratteristiche sostanzialmente ipermaggioritarie, sacrificando tutto all’affermazione falsa che in tutti i paesi democratici immediatamente dopo il voto è sempre automaticamente identificata la maggioranza di governo (e la Germania di oggi? e la Gran Bretagna di ieri?), la forma di governo ne risulterebbe modificata in maniera surrettizia, impropria.

Non sollevo difficoltà. Cerco di indicare i punti di una discussione che può essere proficua se viene liberata dalle forzature e dai secondi pensieri che l’hanno finora accompagnata, e rischiano di inquinarla ancora. E, soprattutto, se viene ricondotta al nuovo contesto politico così bene individuato ieri da Piero Ignazi, ricordando quanto sia mutato da quello originario, di cui era parte organica un’altra idea di riforma costituzionale. Questa è la novità dalla quale non si può sfuggire, e mi pare che lo abbia opportunamente messo in evidenza, con anticipo, Pippo Civati sottolineando come, al di là del fatto contabile, non vi siano più politicamente i “numeri” per la riforma dell’articolo 138. Questa è la riflessione alla quale non ci si può sottrarre, a meno che la politica non si incaponisca nel ritenere che l’unico orizzonte possibile sia quello della brevissima convenienza, senza recuperare un briciolo del rispetto dovuto alla sua fondazione costituzionale e al modo in cui questa, con ben diversa sensibilità, è ormai percepita in una parte sempre più larga della società italiana.

La Repubblica, 27 novembre 2013

La tentazione sarà grande, dopo il voto sulla decadenza di Berlusconi al Senato, di chiudere il ventennio mettendolo tra parentesi. È una tentazione che conosciamo bene: immaginando d’aver cancellato l’anomalia, si torna alla normalità come se mai l’anomalia - non fu che momentanea digressione - ci avesse abitati. Nel 1944, non fu un italiano ma un giornalista americano, Herbert Matthews, a dire sulla rivista Mercurio di Alba de Céspedes: «Non l’avete ucciso!» Tutt’altro che morto, il fascismo avrebbe continuato a vivere dentro gli italiani. Non certo nelle forme di ieri ma in tanti modi di pensare, di agire. ’infezione, «nostro mal du siècle », sarebbe durata a lungo: a ciascuno toccava «combatterlo per tutta la vita», dentro di sé. Lo stesso vale per la cosiddetta cadutadi Berlusconi.

È un sollievo sapere che non sarà più decisivo, in Parlamento e nel governo, ma il berlusconismo è sempre lì, e non sarà semplice disabituarsi a una droga che ha cattivato non solo politici e partiti, ma la società. Sylos Labini lo aveva detto, nell’ottobre 2004: «Non c’è un potere politico corrotto e una società civile sana». Fosse stata sana, la società avrebbe resistito subito all’ascesa del capopopolo, che fu invece irresistibile: «Siamo tutti immersi nella corruzione», avvertì Sylos. La servitù volontaria a dominatori stranieri e predatori ce l’abbiamo nel sangue dal Medioevo, anche se riscattata da Risorgimento e Resistenza. La stessa fine della guerra, l’8 settembre’43, fu disastrosamente ambigua: «Tutti a casa », disse Badoglio, ma senza rompere con Hitler, permettendogli di occupare mezza Italia. Tutte le nostre transizioni sono fangose doppiezze.

Dico cosiddetta caduta perché il berlusconismo continua, dopo la decadenza. Il che vuol dire: continua pure la battaglia di chi aspira a ricostruire, non solo stabilizzare la democrazia. Il ventennio dovrà essere finalmente giudicato: per come è nato, come ha potuto attecchire. Al pari di Mussolini non cadde dal cielo, non creò ma aggravò la crisi italiana. Nel ’94 irruppe per corazzare la cultura di illegalità e corruzione della Dc, di Craxi, della P2, e debellare non già la Prima repubblica ma la rigenerazione (una sorta di Risorgimento, anche se trascurò la dipendenza del Pci dall’oro di Mosca) avviata a Milano da Mani Pulite, e poco prima a Palermo da Falcone e Borsellino. Il berlusconismo resta innanzitutto come dispositivo del presente.

Anche decaduto, assegnato ai servizi sociali, il leader di Forza Italia disporrà di due armi insalubri e temibili: un apparato mediatico immutato, e gli enormi (Sylos li definiva mostruosi) mezzi finanziari. Tanto più mostruosi in tempi di magra. Assente in Senato, parlerà con video trasmessi a reti unificate. E in campagna elettorale avrà a fianco la destra di Alfano: nessuno da quelle parti ha i suoi mezzi, la sua maestria. Monti contava su 15-16 punti, prima del voto a febbraio. Alfano solo su 8-9 punti. La scissione potrebbe favorire Berlusconi, e farlo vincere contro ogni nuova gioiosa macchina di guerra. Ma ancora più fondamentale è l’eredità culturale e politica del ventennio: i suoi modi di pensare, d’agire, il mal du siècle che perdura. Senza uno spietato esame di coscienza non cesseranno d’intossicare l’Italia. Il conflitto d’interessi in primis, e l’ibrido politica-affarismo: ambedue persistono, come modus vivendi della politica. La decadenza non li delegittima affatto. La famosa legge del ’57 dichiara ineleggibili i titolari di importanti concessioni pubbliche (la Tv per esempio): marchiata di obsolescenza, cade nell’oblio. Sylos Labini sostenne che fu l’opposizione a inventare il trucco per aggirarla. Non fu smentito. L’onta non è lavata né pianta.

Altro lascito: la politica non distinta ma separata dalla morale, anzi contrapposta. È un’abitudine mentale ormai, un credo epidemico. Già Leopardi dice che gli italiani sono cinici proprio perché più astuti, smagati, meno romantici dei nordici. Non sono cambiati. Ci si aggrappa a Machiavelli, che disgiunse politica e morale. Ci si serve di lui, per dire che il fine giustifica i mezzi. Ma è un abuso che autorizza i peggiori nostri vizi: i mezzi divengono il fine (il potere per il potere) e lo storcono. Il falso machiavellismo vive a destra, a sinistra, al Quirinale. La questione morale, poco pragmatica, soffre spregio. Berlinguer la pose nel ’77: nel Pd vien chiamata una sua devianza fuorviante.

Anche il mito della società civile è retaggio del ventennio: il popolo è meglio dei leader, i suoi responsi sovrastano legalmente i tribunali. Democraticamente sovrano, esso incarna la volontà generale, che non erra. Salvatore Settis critica l’ambiguità di questa formula passe-partout: è un’«etichetta legittimante, che designa portatori di interessi il cui peso è proporzionale alla potenza economica, e non alla cura del bene comune; tipicamente, imprenditori e banchieri che per difendere interessi propri e altrui si degnano di scendere in politica » , ritenendo inabili politici e partiti. Non solo: la società civile «viene spesso intesa non solo come diversa dallo Stato, ma come sua avversaria; quasi che lo Stato (identificato con i governi pro tempore) debba essere per sua natura il nemico del bene comune». (Azione popolare, Einaudi 2012, pp. 207, 212). Così deturpata, la formula ha fatto proseliti: grazie all’uso oligarchico della società civile (o dei tecnici), la politica è vieppiù screditata, la cultura dell’amoralità o illegalità vieppiù accreditata. Il caso Cancellieri è emblematico: la mala educazione diventa attributo di un’élite invogliata per istinto a maneggiare la politica come forza, contro le regole. A creare artificiosi stati di eccezione permanente, coincidenze perfette fra necessità, assenza di alternative, stabilità.

Simile destino tocca alla laicità, non più tenuta a bada ma aborrita nel ventennio. Il pontificato di Francesco non aiuta, perché la Chiesa gode di un pregiudizio favorevole mai tanto diffuso, perfino su temi estranei alla promessa «conversione del papato». Difficilmente si faranno battaglie laiche, in un’Italia politica che mena vanto della dipendenza dal Vaticano. La nuova destra di Alfano è dominata da Comunione e Liberazione. Dai tempi di Prodi, i democratici evitano di smarcarsi sulla laicità. Tutti i leader del momento (Letta, Alfano, Renzi) vengono dalla Dc o dal Partito popolare. Diretto com’è da Napolitano, il Pd non ha modo di liberarsi del ventennio (a che pro le primarie quando è stato il Colle a dettare la linea sul caso Cancellieri?). Permane la vergogna d’esser stati anticapitalisti, antiamericani, anticlericali (l’ultima accusa è falsa da sessantasei anni: fu Togliatti ad accettare l’innesto nella Costituzione dei Patti Lateranensi di Mussolini). Infine l’Europa. Nel discorso ai giovani di Forza Italia, Berlusconi ha cominciato la sua campagna antieuropea, deciso a svuotare Cinque Stelle. La ricostruzione della sua caduta nel 2011 è un concentrato di scaltrezza: sotto accusa l’Unione, la Germania, la Francia. Ancora una volta, con maestria demagogica, ha puntato il dito sul principale difetto italiano: la Serva Italia smascherata da Dante.

No, Berlusconi non l’abbiamo cancellato. Perché la società è guasta: «Siamo tutti immersi nella corruzione». Da un ventennio amorale, immorale, illegale, usciremo solo se guardando nello specchio vedremo noi stessi dietro il mostro. Altrimenti dovremo dire, parafrasando Remarque: niente di nuovo sul fronte italiano. La guerra civile ed emergenziale narrata da Berlusconi ha bloccato la nostra crescita civile oltre che economica, e perpetuato la «putrefazione morale» svelata da Piero Calamandrei. Un’intera generazione è stata immolata a finte stabilità. La decadenza di Berlusconi, se verrà, è un primo atto. Sarà vana, se non decadrà anche l’atroce giudizio di Calamandrei.

Tra meno di due settimane il Partito Democratico affiderà se stesso, quel che resta della Sinistra e soprattutto del Paese a Matteo Renzi. Lo farà senza convinzione: per mancanza di meglio. Ed è forse per questo motivo che nessuno si chiede veramente chi sia e che cosa rappresenti Matteo Renzi. Come uno struzzo, l’Italia mette la testa sotto la sabbia: preferisce non sapere.
Si parla del clan di Renzi, dei poteri fortissimi che lo sostengono e ne tirano i fili, perfino dei suoi abiti firmati: ma non delle sue idee, del suo programma, dell’Italia che vuole. Ma noi fiorentini sappiamo chi è Matteo Renzi. E non possiamo, non dobbiamo tacere.

Con il suo quinquennale non-governo Firenze si è trovata in una posizione del tutto singolare: da una parte è stata abbandonata a se stessa da un’amministrazione rinunciataria, latitante e ben decisa a non sostituire, ma semmai ad affiancare, i preesistenti centri di potere; dall’altra si è vista trasformare in un laboratorio politico in cui è stato possibile conoscere in anteprima i connotati dell’Italia del prossimo futuro.

Se i frutti della inettitudine amministrativa di Renzi sono sotto gli occhi di tutti i fiorentini, i rischi insiti nella sua visione politica ultraliberista e programmaticamente anticostituzionale non appaiono chiari né alla base del Partito Democratico né all’opinione pubblica nazional. Ma a noi sì: a noi fiorentini quei rischi appaiono ben chiari.

Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001, ha descritto nel suo ultimo libro (Il prezzo della disuguaglianza, 2013), un mondo in cui «i ricchi vivono in comunità recintate, assediate da masse di lavoratori a basso reddito». Matteo Renzi questo mondo spaccato lo ha voluto rappresentare, legittimare, celebrare la sera che ha noleggiato Ponte Vecchio alla Ferrari, facendo letteralmente carte false e lasciando i cittadini comuni ad assediare il banchetto dei ricchi. Usando il patrimonio artistico di Firenze non per includere, integrare, rimuovere gli ostacoli all’eguaglianza (come vuole la Costituzione), ma per escludere, separare, incrementare la disuguaglianza, Renzi non ha inventato nulla di nuovo.

In questa città, la Biblioteca Nazionale trasforma le sale di lettura in campi da golf, la Curia affitta le chiese sconsacrate per sfilate di biancheria intima, la Soprintendenza noleggia gli Uffizi per kermesse di moda con evidenti implicazioni razziste (ricordate i Masai esibiti in galleria?), l’Università progetta di affittare le aule a chi offre di più. Sono ormai secoli che il peggio di Firenze vive di sciacallaggio alle spalle di un passato glorioso, che ormai davvero non ci meritiamo più.
Matteo Renzi, conservatore per vocazione e per istinto, non fa dunque nulla di nuovo: si limita a seguire la corrente. Si adegua ad un sistema di potere che non vuole rovesciare, ma occupare. Accentua e approfondisce il solco tra la città dei poveri e la città dei ricchi. Dice, non sapendo quello che dice, che gli Uffizi devono diventare una macchina da soldi. E intanto costruisce il clima politico perché questo accada davvero. Usando il patrimonio storico e artistico della sua città come arma di distrazione di massa ad alto impatto mediatico, il sindaco di Firenze è assai rapidamente diventato il politico professionista più a proprio agio nel violare il significato civile dell’arte del passato, clamorosamente ridotta ad alienante fabbrica di clienti (e, in particolare, di acquirenti di un format politico).

Ma se tutto questo riguardasse solo il patrimonio artistico, ebbene potrebbe impensierire me, Salvatore Settis e purtroppo non molti altri. Ma questo riguarda qualcosa di ancora più profondo, e vitale.
Riguarda il futuro della democrazia in Italia.

Matteo Renzi è l’ultimo epigono del provinciale ma aggressivo neoliberismo italiano. Egli confessa apertamente che il suo modello è Tony Blair: l’ultimo erede della stagione di Ronald Reagan e Margaret Thatcher. È un modello culturale che, per dirlo con le parole dello storico anglo-americano Tony Judt «ha cresciuto una generazione ossessionata dalla ricerca della ricchezza materiale e indifferente a quasi tutto il resto».

Dal suo vago programma per le primarie, si capisce che anche Matteo Renzi vuole cambiare la Costituzione. La nomina solo quattro volte: e sempre negativamente. Cito un passaggio: «Ma spesso la Costituzione si cita in piazza e si dimentica nella quotidianità. Si difende la Costituzione, solo se si attacca la rendita. Pensiamo che l’uguaglianza sostanziale di cui all’articolo 3 sia attuabile solo se rimuoviamo gli ostacoli. Ma l’uguaglianza non significa ugualitarismo».

La strada prospettata è chiarissima: è quella invocata dalle grandi banche d’affari. Pochi mesi fa JP Morgan ha scritto che la ripresa è frenata dall’ugualitarismo delle costituzioni dell’Europa meridionale, nate dalla Resistenza: e che è l’ora di cambiarle. È quello che farà Matteo Renzi: l’erede naturale delle Larghe Intese, che ora finge di criticare. Erede naturale, naturalissimo: perché la ideologia-non-ideologia di Renzi trova nella cosiddetta modernizzazione alla Blair la sintesi perfetta tra Pdl e Pd, tra Berlusconi e D’Alema. Un segnale concreto? L’indecente alleanza con Vincenzo De Luca, il sindaco di Salerno supercementificatore, superindagato, cumulatore di cariche e violento. Un’alleanza col peggio di questo paese, per la distruzione dell’ambiente e la violazione della legge.
Al tradizionalissimo, usurato marketing della rendita, alla retorica del patrimonio artistico come petrolio di Firenze che ora si è reincarnata in Matteo Renzi è tempo di opporre un’idea di comunità, un progetto di città intesa come luogo e strumento della vita di una collettività.

Io non so se ci sono le condizioni politiche per una proposta alternativa: per una lista che sfidi Renzi alle prossime amministrative. So, è vero, che la maggior parte dei fiorentini non sono felici di come Renzi li ha governati, e so che non si riconoscono in questa grottesca parabola personale.
Il mio dovere di studioso, di storico dell’arte è quello di dare l’allarme. George Orwell ha scritto che «per vedere ciò che abbiamo di fronte al naso serve uno sforzo costante»: ecco, io credo che chi ha il privilegio di fare il mio mestiere debba cercare di rendersi utile proprio in questo modo, favorendo e promuovendo in ogni momento questo sforzo. Lo sforzo per vedere ciò che abbiamo di fronte al naso.
E di fronte al naso abbiamo un piccolo, mediocre replicante di ciò che ha devastato l’Europa e l’Italia negli ultimi 30 anni. Non c’è niente di nuovo: ma nuova sarà la rovina del Paese, imboccando questa strada.

In questo momento appare vitale riunire tutti coloro che pensano che Firenze possa tornare ad essere la forma e l’alimento di una vita civile la cui missione principale dev’essere, oggi, quella di fornire un modello culturale alternativo al mercato, di favorire l’integrazione tra italiani e immigrati, di permettere la frequentazione reciproca di classi diverse ormai chiuse in luoghi e vite nettamente separati.
L’arte e la storia della nostra città non servono a trasformarci in turisti, in clienti a pagamento, in spettatori lobotomizzati del Leonardo che non c’è: ma servono a farci cittadini sovrani, e a farci tutti eguali. È da qua che è urgente ripartire.

Michael Sandel, filosofo della politica e professore di Teoria del Governo ad Harvard, ha scritto che la grande domanda a cui oggi la politica deve rispondere è se abbiamo un’economia di mercato o siamo una società di mercato. Una società in cui tutto è in vendita, in cui tutto è merce: dalla salute al lavoro, dall’arte all’ambiente, dai diritti della persona alle virtù civili.Il governo di Matteo Renzi ha proclamato forte e chiaro che Firenze è una merce, che la nostra città è una società di mercato in cui tutto è in vendita.

Ma la risposta della sinistra italiana, la risposta della Costituzione italiana è una risposta diversa. E spero che anche la risposta della mia città sarà diversa. Una risposta opposta: la sovranità non appartiene ai mercati internazionali, appartiene al popolo. Ad ognuno di noi. È per questo che stasera siamo qua. Ed è da qua che bisogna ripartire.

Riferimenti
Su Matteo Renzi, probabile futuro leader di un partito che rappresenterà in un diverso format l'Italia unipolare rappresentata oggi dal moscuglio dei due poli delle Larghe intese" abbiamo pubblicarto molti articoli e una saporita immagine denominata Renzusconi. Su Renzi sindaco di Firenze si legga l'opinione di Paolo Baldeschi, Chi è Matteo Renzi e perchè ci perseguita.

La sinistra perde per due ragioni: perchè non c'è e perchè la destra è furba. Ne basterebbe una, ma il diavolo pensa: "melium est abundare quam deficere".

Il manifesto, 24 novembre 2013

Mentre il centrodestra si organizza per vincere le prossime elezioni, il centrosinistra si guarda l'ombelico. La separazione consensuale e la creazione di due distinte formazioni politiche (Forza Italia e Nuovo Centro Destra) in sostituzione dell'ormai ingovernabile Popolo delle Libertà ha fatto aumentare i consensi complessivi dell'elettorato. Da buon stratega il Cavaliere deve aver compreso quel che gli avversari non riescono neppure a immaginare. Alle prossime elezioni nessun partito può aspirare a vincere da solo, si tratta allora di precostituire le condizioni affinché sia la coalizione a prevalere. Non solo. Puntare sulla coalizione e non unicamente sul proprio partito appare una strategia vincente quale che sia la sorte della legge elettorale. È questa una prospettiva certamente assai utile se dovesse rimanere l'attuale sistema, ma che si dovrebbe perseguire anche nel caso in cui la prossima decisione della Corte costituzionale dovesse dichiarare - finalmente - l'incostituzionalità di alcune sue parti.
Non è stato, infatti, notato che le questioni di legittimità costituzionale sottoposte al vaglio del giudice costituzionale riguardano solo tre profili tra i tanti controversi della legge elettorale attualmente vigente (premio di maggioranza, distribuzione dei seggi al senato, composizione delle liste bloccate). Il giudizio della Consulta non coinvolge, invece, un altro aspetto altrettanto importante: quello delle soglie di accesso. Un sistema contorto e irragionevole, che avrebbe meritato un sindacato di costituzionalità, ma che nessuno ha voluto (o potuto) sollevare. Pertanto, secondo quanto è stabilito dalla vigente legge - e non è stato contestato - per ottenere seggi è necessario superare una percentuale variabile: assai alta per le forze politiche non coalizzate, estremamente ridotta per chi invece si presenta in uno dei raggruppamenti maggiori.

Ciò spiega perché assistiamo, per la prima volta nella storia, ad una scissione soft. Con l'invito del sanguigno Berlusconi a non attaccare più di tanto la nuova formazione politica nata in apparente contrasto con i suoi propositi; con le reiterate espressioni di solidarietà e rispetto del capo appena abbandonato da parte del sempre mansueto Alfano.

Ma ciò spiega anche la riorganizzazione della galassia di centro destra. Anche forze in sé apparentemente insignificanti sono coccolate dal Capo. Fratelli d'Italia è in libera uscita, ma considerati pur sempre «fratelli», buoni per le prossime elezioni all'interno di una comune prospettiva di governo futuro. E poi la riorganizzazione della Destra. In questo caso se si riesce a contrastare un poco (ma neppure troppo) la fibrillazione tra le mille sigle nostalgiche, anch'esse possono essere utili per raggiungere il comune traguardo di una vittoria alle prossime elezioni. La Lega è lo storico alleato che ci si guarda bene dal delegittimare, ed anzi si corteggia, nella convinzione che ci si possa sostenere a vicenda.

Non è una strategia sbagliata neppure dal punto di vista del consenso. È infatti ormai evidente che la forza attrattiva di Silvio Berlusconi stia subendo una flessione. Le sue vicende processuali, l'interdizione, la decadenza, l'età, il logoramento progressivo avranno un peso, sicchè Forza Italia sconterà una riduzione di voti rispetto al Popolo delle Libertà. Ed è proprio in una situazione del genere che è necessario ampliare l'offerta politica della coalizione. Il Nuovo Centro Destra sarà assai utile per conservare il consenso degli elettori che non hanno più interesse a votare il partito di Berlusconi, ma che vogliono rimanere entro il proprio sistema di valori. Angelino Alfano, in fondo, rimane un «buon» surrogato del Cavaliere. Non siamo al dividi e impera, bensì al dividi e moltiplica il consenso.

E il centrosinistra? Disdegna ogni politica delle alleanze. Si divide senza separarsi. Si crogiola da mesi su chi debba essere il segretario di un partito sempre meno unito, rimuovendo la questione della coalizione che dovrebbe seguire alle larghe intese. Sembra anzi quest'ultimo l'unico orizzonte entro cui si sviluppa la dialettica e la polemica politica, tutta incentrata sul governo attuale e le sue prospettive di piccolo cabotaggio. Non ci si preoccupa degli altri soggetti politici che dovrebbero andare a comporre un'ipotetica nuova coalizione. Nessuno pensa a costruire una prospettiva programmatica di alleanze tra soggetti diversi: né il Pd né alla sua sinistra. Si pensa si possa vincere da soli, si blatera di vocazioni maggioritarie. Ognuno appare geloso delle proprie microidentità ed è attento a collocarsi entro la propria parte politica lacerata dal correntismo e dal localismo più esasperato. Ma non si vince mettendo in campo un sistema di caciccato locale e nazionale. Si vince in base ad un programma politico che sia in grado di coalizzare il più ampio spettro di forze e soggetti. In questa situazione la sinistra rischia ancora una volta di perdersi.

la Repubblica, 19 novembre 2013

La legge di stabilità non è solo la "polveriera" economica di cui ha parlato Tito Boeri. Ha fatto affiorare vizi culturali profondi, che toccano il ruolo sociale dei beni, i limiti della discrezionalità politica, e il modo stesso d'intendere la vita delle persone. Provo a sintetizzare alcune indicazioni su questi tre punti.

1) In molti paesi è da tempo in corso una discussione sul grande e ineludibile tema dei beni comuni, che in Italia viene troppo spesso falsato da una diffusa e spesso compiaciuta ignoranza, e talora distorto da qualche intemperanza ideologica. Nell'ultimo periodo non sono mancate ironie sui "benecomunisti", e qualche aggressione pochissimo informata su alcune esperienze in corso. Si ignora che questo tema ha dietro di sé una lunga serie di studi e che, nel 2009, il Premio Nobel per l'economia venne assegnato a Elinor Ostrom proprio per i suoi contributi alla teoria dei beni comuni (i più importanti sono disponibili in italiano). In Italia è stato pubblicato un fiume di libri. Segnalo soltanto la ricca raccolta di saggi nata da un seminario della Fondazione Basso (Tempo di beni comuni, Studi multisciplinari... Ediesse, Roma, 2013); il nitido itinerario di Guido Viale (Virtù che cambiano il mondo. Partecipazione e conflitto per i beni comuni, Feltrinelli, Milano, 2013); e il lavoro di uno storico, Andrea Di Porto, che tra l'altro ricorda il lontano punto di partenza della sentenza della Corte di Cassazione del 1887, che diede ragione al Comune di Roma contro il principe Borghese che voleva chiudere i cancelli della Villa, riconoscendo ai cittadini il diritto di passeggiare liberamente in quel luogo (Res in usu publico e "beni comuni", Giappichelli, Torino, 2013).

Un bagno culturale eccessivo? Ma i parlamentari non hanno bisogno di andare così lontano. Basta che aprano la porta accanto. Troveranno i testi mandati a tutti loro all'inizio della legislatura, già strutturati in forma di disegno di legge, sulla disciplina dell'acqua e sulla riforma del sistema dei beni pubblici, che riproduce i risultati di una Commissione ministeriale e che qualcuno ha già trasformato in proposta di legge. Perché, allora, ripetere le trite e pericolose banalità della vendita dei beni pubblici per far cassa, fino alla grottesca vicenda delle spiagge?

In realtà, la questione dei beni comuni non fa storia a sé. Impone un ripensamento dell'intero ordinamento dei beni pubblici (ai quali ha dedicato un importante volume l'Accademia dei Lincei nel 2010). Non tutti possono essere attratti nell'area del "comune", ma non per questo la gran massa dei beni pubblici diventa disponibile per qualsiasi disinvolta operazione. Dovrebbe essere chiaro che questi beni hanno funzioni diverse, e si presentano come beni "ad appartenenza pubblica necessaria" (opere per la difesa, le reti viarie e ferroviarie, i porti), "sociali" (che devono soddisfare bisogni essenziali delle persone), "fruttiferi" (da gestire con adeguate modalità economiche). Per quanto riguarda le spiagge, per esempio, le operazioni da fare dovrebbero essere due. Eliminare la loro sostanziale privatizzazione, che per lunghissimi tratti esclude l'accesso ai cittadini, in forme sconosciute ad altri paesi. E rendere economiche le concessioni ai privati, che oggi danno allo Stato un reddito inadeguato (discorso che può essere esteso ad altri casi, come quello delle frequenze).

Tornando ai beni comuni, la loro definizione rinvia al fatto che essi sono indispensabili per la soddisfazione di bisogni fondamentali delle persone. Si istituisce così un nuovo rapporto tra mondo delle persone e mondo dei beni. E infatti molti documenti nazionali e internazionali parlano, in primo luogo, di accesso all'acqua, al cibo, alla conoscenza in rete, ai farmaci essenziali, alla tutela del territorio come di diritti fondamentali, la cui realizzazione esige appunto regole particolari per quei beni. Tra queste emergono quelle sulla partecipazione dei cittadini alla gestione, prevista dall'articolo 43 della Costituzione, che parla di "servizi pubblici essenziali" da affidare a "comunità di lavoratori o di utenti". Qui nascono tre problemi. Rispetto dei risultati di referendum come quello sull'acqua, a proposito del quale si ha una timida e parziale apertura del ministro per l'Ambiente.

Non per tutti i beni comuni può essere individuata una comunità che li gestisce: come si può inventare questa comunità tra i tre miliardi di persone che accedono alla conoscenza in Rete? Questo bene, allora, deve essere qualificato in via generale come comune. E le istituzioni devono confrontarsi con le esperienze che formulano progetti, realizzano innovazioni dell'ordine esistente, distinguendo certo, ma senza trincerarsi dietro rifiuti pregiudiziali.

2) Punto sul vivo, il Presidente Letta ha reagito ai rilievi dell'Unione europea sulla legge di stabilità, cominciando a riecheggiare critiche sempre più diffuse sugli effetti negativi delle politiche di austerità. La reazione d'un momento, tutto sommato strumentale, o l'avvio di un'altra strategia? Si avvicinano le elezioni europee, e non ci si può limitare a esprimere preoccupazione per i populismi antieuropeisti, che rischia di trasformarsi in un inutile lamento. La strategia europea deve cominciare a prendere coraggiosamente atto che la politica dell'Unione è stata chiusa nella dimensione economico-finanziaria, amputando del tutto quella dei diritti, affidata alla sua Carta dei diritti fondamentali, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Questo "valore aggiunto" è stato in questi anni negato ai cittadini europei e ha determinato la progressiva delegittimazione delle istituzioni. Da qui bisogna ripartire, se il Governo vuole davvero dare un qualche senso al suo parlare di Europa. Altrimenti si allontanerà ancora di più da una società nella quale sta maturando un serio movimento che vuole parlare di politica "costituzionale" per l'Europa, così come sta facendo per l'Italia. La voce dei cittadini senza demagogia antieuropea deve esser ascoltata perché, si condivida in tutto o in parte la tesi di Luciano Gallino, è indubbio che sia avvenuto qualcosa che assomiglia a un colpo di Stato (Il colpo di stato di banche e governi, Einaudi, Torino, 2013). E i cittadini stanno studiando i modi per rimettere in discussione quel mutamento dell'articolo 81 che si è voluto sottrarre ad un loro possibile voto. E per sfuggire alla subalternità all'economia, bisogna riconoscere che la discrezionalità politica deve obbedire ai criteri che, per la ripartizione delle risorse scarse, sono indicati proprio dalla trama dei diritti fondamentali.

3) La verità è che si è messo in discussione quello che definisco "il diritto all'esistenza". Divenuti residuali i diritti sociali, rafforzate le diseguaglianze, si è minata la stessa condizione dell'efficienza economica (continua a ricordarcelo Jean-Paul Fitoussi, Il teorema del lampione, Einaudi, Torino, 2013). Per questo non può essere allontanata, con una mossa infastidita, la questione del reddito minimo (esiste una proposta d'iniziativa popolare anteriore a quella del Movimento 5Stelle). È tema difficile, per il rapporto con le politiche del lavoro e per il reperimento delle risorse necessarie, ma ineludibile. E mi pare utile che, dopo una intemperanza iniziale, Stefano Fassina abbia parlato di un confronto politico su questo tema.

4) Ho citato molti libri. Ma, se dobbiamo uscire dalla profonda regressione culturale che ha reso misera la politica, possiamo farlo senza buone letture?

«Il governo Letta non è in questo momento il nemico principale; il nemico principale è l'ulteriore degenerazione della sinistra, quella che ci resta e quella che rischia di avanzare sotto i nostri occhi».

Il manifesto, 19 novembre 2013

Beh, qualcosa abbiamo rimediato: la spaccatura della tradizionalmente infrangibile e inattaccabile falange berlusconiana; e la sempre più probabile espulsione dalle aule parlamentari di Silvio Berlusconi, il quale aveva contribuito potentemente a degradarle nel corso di ben due decenni. L'uno e l'altro risultato rappresentano un effetto positivo del governo delle «larghe intese»: il primo in maniera inequivocabile e diretta; il secondo, reso più sicuro e inevitabile dallo spappolamento del fronte berlusconiano, nel senso che il cosiddetto «Nuovo CentroDestra» continuerà certo a votare contro la decadenza di Berlusconi, ma convinzione ed esiti negativi ne risulteranno incomparabilmente indeboliti (anche per loro, adesso, la decadenza rappresenta un grosso favore).

Il 2013 è un anno machiavelliano: vi ricorre infatti il cinquecentenario (più o meno) della stesura del Principe. Nel chiuso un po' soffocante delle aule universitarie se ne è celebrata la ricorrenza (nemmeno tanto, a pensarci bene). Il paese, invece, - e cioè l'Italia, cui il Segretario fiorentino cercò invano di parlare, e che avrebbe ancora tanto da imparare da lui - è restato sostanzialmente indifferente: come, del resto, sempre più nei confronti di qualsiasi altra memoria del proprio non ignobile passato, che potrebbe aiutarlo a risalire dal proprio miserabile presente.

Machiavelli osserva nel Principe (cap. XVIII) che il buon principe deve avere insieme le qualità della «volpe» e quelle del «leone»: «Perché il leone non si difende dai lacci (inganni), la volpe non si difende dai lupi». E conclude: «Bisogna adunque essere volpe a conoscere i lacci e leone a sbigottire (spaventare) i lupi». Cioè: il buon principe deve esser capace, a seconda delle circostanze, d'esser leone e d'esser volpe, forte e astuto a seconda dei casi, oppure, se è necessario, astuto e forte insieme, se la situazione lo richiede e le sue qualità lo consentono. E' un'impresa difficilissima, che non è riuscita a molti nella storia.

Il nostro tempo - tempo italiano, ma forse europeo, forse mondiale - è un tempo di volpi. Il nostro Presidente, Giorgio Napolitano, è, machiavellianamente, volpe di classe, (come del resto lo è anche Papa Bergoglio, - volpe buona, s'intende!, con il quale infatti così bene si capiscono). E una volpe, minore ma niente male, si è rivelato anche il nostro presidente del consiglio, Enrico Letta, bravo a muoversi su di un sentiero accidentato in mezzo alla foresta. Le volpi - non c'è niente di negativo in questa definizione, a tener conto dei suoi aspetti generali - tengono la scena saldamente, la storia attuale ne è improntata.

E il leone, o i leoni? Il leone si è ritirato nelle sue tane misteriose, da dove sarà difficile persuaderlo a tornar fuori, a meno che il richiamo non sia particolarmente convincente e imperioso. Ma tornerò su questo punto in conclusione. Meditiamo un istante su quello che appaiono essere oggi il presente e il destino futuro della sinistra italiana (sinistra? insomma, questa cosa informe e ingovernabile che sta un poco più in là del neocentrodestra recentemente costituito). Essa è il frutto di una serie prodigiosamente lunga, ormai quasi trentennale, di «astuzie» politiche (e non di rado anche personali: faccio questo fondamentalmente perché serve a me), che si sono succedute nel tempo a opera di un gruppo dirigente che si è creduto tanto scaltro da cadere sovente nella stupidità.

Se Matteo Renzi, a quanto pare, è il nostro futuro, questo vuol dire che la Bolognina, la prima grande ganzata della nostra storia di sinistra è arrivata finalmente al suo traguardo finale e, doppiata la boa della storia, è libera di andare su rotte e verso approdi per noi da qui in poi perfettamente sconosciuti. Renzi, infatti, è anche lui, ahimè, una volpe, ma di quella specie inferiore che riesce a penetrare nei pollai solo perché i loro (presunti) custodi hanno perso la capacità di preservarli. Se poi fosse vero che il suo successo elettorale dipende soprattutto dalle regioni considerate tradizionalmente di sinistra, il quadro risulterebbe ancor più sconvolgente e drammatico: vorrebbe dire infatti che lì, dove meglio si poteva, invece di allevare leoni e buone volpi, si sono allevati in grande maggioranza polli da offrire alla prima, modesta, volpicina di passaggio.

In proposito non ho dubbi di sorta. Poiché visibilmente non siamo in grado come Federico il Grande di condurre una battaglia contemporaneamente su tutti i fronti, in questo momento il primo, forse esclusivo obiettivo è tentare d'impallinare Renzi prima che s'impadronisca del pollaio. Ma come si fa se il suo elettorato alle primarie è incalcolabile e dunque ingovernabile alla buona luce della ragione? Mi capita spesso di essere presidente di un condominio, quello in cui abito, ovviamente: se, al momento del voto, o dei voti, invitassi i passanti che circolano sotto casa a parteciparvi alla stessa stregua degli altri, gli altri utenti del palazzo dove abito mi prenderebbero per matto. E' invece esattamente quello che capita ora in seno al Pd: frutto anche questa volta dell'astuzia stupida dei maggiorenti, il Segretario può essere scelto, magari a maggioranza, non dai condomini, ma dai dirimpettai, interessati a smontarne, ad esempio, tutta la facciata (così, certo, sembrerà tutto più nuovo).

In ogni caso, sia che la volpicina di turno, in cui l'astuzia diventa furbizia di bassa lega, venga frenata, sia che riesca a conquistare il posto cui aspira, il problema resta. Il leone, l'ho già ricordato, non è necessariamente un soggetto diverso dalla volpe: per Machiavelli l'ideale è invece che stiano congiunti nella medesima persona, meglio, nel medesimo soggetto storico. Allora la volpe diventa quel che dev'essere, e cioè l'astuzia messa al servizio di una buona causa. E cioè: il leone è l'altra faccia della politica. E cioè: il leone è la forza che incarna l'astuzia e la rende efficacemente operante, sia contro i lupi sia contro gli inganni, che, dice Machiavelli, da ogni parte ci avvolgono e cimentano.

Da quando non abbiamo più i Principi (chissà se è stato un vantaggio), il binomio volpe-leone, il moderno Principe, si è incarnato il più delle volte in un'identità collettiva: l'organizzazione (anche questa non è una grande novità, o no?). I grandi uomini della sinistra europea otto-novecentesca lo avevano perfettamente capito. In parole povere: stiamo messi malissimo perché il problema di un'organizzazione politico-sociale orientata chiaramente a restituire potere (in tutti i sensi) a tutti quelli che, dal punto di vista sociale, economico e politico, ne hanno sempre più incredibilmente sempre meno, da alcuni decenni non è stato più posto con chiarezza, anzi non è stato posto per niente.

Allora: che vinca Renzi o auspicabilmente che perda, il problema resta questo. E cioè: possibile che il XXI secolo, ossia la gloriosa postmodernità, si accontenti d'essere soltanto il tempo delle volpi, e non più dei leoni? Ammettiamo pure che «partito» sia metafora vecchia di una cosa nuova che dobbiamo reinventare; ma la sostanza è questa, e alla sostanza «partito» bisogna tornare a pensare.

Come in tutti i ragionamenti in cui ambiziosamente contingenza e storia si mescolano insieme, anche in questo dev'esserci un apprezzamento anche molto rischioso, ma ineliminabile, del presente. Lo spazio temporal-politico che ci lascia la sopravvivenza del governo Letta, ora forse meno precaria di quanto non sembrasse fino a qualche giorno fa, va occupato, per quanto ci riguarda, da questo compito strategico ineliminabile. Dunque: il governo Letta non è in questo momento il nemico principale; il nemico principale è l'ulteriore degenerazione della sinistra, quella che ci resta e quella che rischia di avanzare sotto i nostri occhi. Affermazione veramente scandalosa, me ne rendo conto: per ora, questo governo più dura e meglio è.

E' così che si fa: muoversi, calcolando esattamente il rapporto che passa fra le condizioni pre-ordinate e costrittive del lavoro che facciamo e l'obbiettivo che ci si propone di raggiungere. Tanto meglio se, combattendo Renzi, questa ipotesi si riaffaccia e s'impone come centrale anche all'interno del dibattito congressuale del Pd. Se non si opera così, il leone resterà segregato nella sua tana, le volpi, anzi le vulpecule affamate di spazio e di potere, dilagheranno sempre più a fare strage dei polli che noi siamo.

«La "americanizzazione" del Pd è sbagliata Non ci serve un partito elettorale senza identità. La sinistra conta poco perché non mette in campo una chiara distanza tra "noi" e "loro"».

L'Unità 15 novembre 2013

Il modo come si sta svolgendo il congresso del Partito democratico suscita in me seri interrogativi. Si conferma - a mio parere - l`errore di un vecchio disegno di «americanizzazione» del partito. Cioè un modello di partito «pigliatutto», elettorale, senza identità culturale e senza storia.

Tutto ci dice che questo modello non funziona e quanto sia profonda la svolta anche etica che è necessaria. È la ragione per cui Gianni Cuperlo mi sembra il segretario più adatto. Gli episodi (pochi?) di «truppe cammellate» portate a votare per falsare i risultati ci dicono quanto questa svolta sia urgente. Non mi piace la falsa indignazione di certi «indignati». Quale ipocrisia. Certo, pesano gli errori che abbiamo fatto noi, ma mi viene voglia di dire: non era questo che volevate ? A cosa tende la martellante campagna contro questo «vecchiume» che sarebbe il partito organizzato, basato su una comunità sia pure aperta ma che sta insieme per ragioni politiche e ideali ?

È grave questo disprezzo verso i famosi «apparati», i quali semplicemente non esistono. Esistono invece, ancora (ma per quanto?) migliaia di militanti che tengono in vita i circoli e anche lo scheletro minimo del partito insieme a pochi funzionari e segretarie pagati poco e con mesi di ritardo. Esiste (anche nel mio circolo) un gruppo di volontari i quali cercano spesso i soldi per pagare la luce.
Così stanno le cose. Stanno nel senso che si è creato uno squilibrio enorme tra la povertà del partito come comunità politica volontaria, e la potenza del potere economico. Penso a quei «quasi partiti» che sono diventati in Italia i 3-4 grandi complessi editoriali (giornali e tv). Sono questi oggi i veri partiti personali, proprietà di pochi notissimi miliardari. In questi partiti non si fanno «primarie», ma si pretende di scegliere il segretario del Pd. Conosco la risposta: è la libertà di stampa, bellezza. Lo so. C`è però un problema di democrazia. La democrazia. Dopotutto è questa la partita che si gioca al congresso del Pd. Rispettiamo tutti i sondaggi ma penso che prima o poi verrà fuori il bisogno di una democrazia più avanzata, più aperta e più partecipata.

Più capace di portare a compimento la rivoluzione democratica italiana avviata tanti anni fa dall`antifascismo e definita negli articoli della Carta costituzionale e poi messa in causa dai fatti e dalle persone che sappiamo. Mi sembra questo, caro Fioroni, il patto fondativo del partito che non a caso chiamammo democratico. Un partito, non un comitato elettorale nel quale gli epigoni del socialismo e quelli del riformismo cattolico si univano non per diventare più moderati ma per realizzare i propri ideali andando oltre i vecchi confini delle vecchie ideologie. Questo voleva essere il Pd, un partito nuovo che rappresentava anche la sinistra democratica e occupava il suo spazio.

Le parole valgono quello che valgono ma se la parola «sinistra» fa paura, io allora la rilancio perché mi sembra che diventi sempre più attuale. State attenti amici a non sbagliare. La storia non finirà l`otto dicembre. La sinistra italiana non è un reperto del Novecento, non è un prodotto scaduto perché fuori del tempo. Qui è il vostro sbaglio.

Quale tempo? Certo, lo vediamo, questo è anche il tempo del populismo e della democrazia ridotta a sondaggio. Ma è pure il tempo di quelle sfide nuove ed enormi che stanno cambiando il destino degli europei. Quale idea di sé e del suo ruolo ha una sinistra moderna? Questo mi sembra il problema che le cose stanno riproponendo sia in Italia che in Europa. È chiarissimo: la destra non riesce più a difendere il progetto europeo, e sta mettendo in pericolo perfino l`euro. Occorre una svolta. Non solo una immagine. Del resto l`attacco così violento che è in atto (li guardate i talk show televisivi ?) volto a delegittimare il Pd e a giustificare Grillo come si spiega se non col fatto che l`Italia è giunta a un punto che rende inevitabile prima o poi una svolta ?

Berlusconi è giunto al termine della sua corsa e ciò apre nuove prospettive. D'altra parte il governo delle «larghe intese» non è eterno. In che direzione andrà il cambiamento ? La presenza di una forza pur così malconcia come la nostra, e tuttavia diversa e relativamente autonoma rispetto ai poteri dominanti, presenta un rischio. Per loro. Per noi invece è una grande occasione. Però bisognerebbe coglierla. Ecco perchè io dico che l`8 dicembre non è la fine della storia. Il gioco è più lungo.

L`importante è che la sinistra acquisti una più forte coscienza di sé nel mondo di oggi. Sarebbe positivo per tutti i democratici che si crei un insieme di forze politiche e culturali decise ad uscire dalla confusione e dall`incertezza di questi anni. Una forza convinta della necessità che all`interno delle regole di un partito plurale come il Pd una nuova sinistra moderna abbia una sua voce forte. È interesse di tutti riempire il vuoto lasciato dal fallimento disastroso del pensiero conservatore e neo-liberista. In caso contrario penserà a riempire questo vuoto una torbida ondata di protesta e di populismo. Vogliamo tornare a vincere ? Certo, ma per vincere bisogna fare i conti con la realtà. E allora siamo semplici. Allora non bastano le chiacchiere, bisogna partire dalla catastrofe del capitalismo finanziario e dalle sofferenze inaudite che ciò sta imponendo agli uomini e alle donne in carne ed ossa.

Voi pensate che sia vetero comunismo partire dalla tragedia che sta vivendo la nuova generazione, messa ai margini, esclusa dal mondo del lavoro ? Di che parliamo ? Certo, anche di Renzi, come di Cuperlo e con molto rispetto. Ma sapendo che la sinistra è in crisi non perché è vecchia rispetto a Twitter ma perché non osa partire da qui, dal popolo, dalle sofferenze umane, dalle ingiustizie sociali. La sinistra conta poco non solo perché non è alla moda ma perché non si riorganizza per mettere in campo una nuova soggettività, una chiara distanza

tra «noi» e «loro». Parlo della potenza soverchiante di una oligarchia finanziaria che si arricchisce stampando anche moneta fasulla. Il mondo inondato di debiti e una gigantesca rendita finanziaria che si mangia la ricchezza reale e costringe la povera gente a stringere la cinta per finanziare i lussi inauditi di una oligarchia. Non può più durare.

Rileggo queste mie parole e mi spavento. Sono diventato un estremista ? Eppure io non voglio tutto o niente. Capisco tutte le tattiche e i compromessi necessari. Sento però acutamente il bisogno di risvegliare la mia e le nostre coscienze. Penso che senza una più alta coscienza delle cose e delle sfide nuove non si va da nessuna parte. Il tema di fondo è ormai chiaro. Se non si afferma un partito europeo che affronti la questione di come cambiare la politica che sta portando al declino il vecchio Continente, l`Italia non avrà futuro. È da ciechi non vedere che questo dovrebbe essere il centro del congresso del Pd. L`«americanizzazione» del Pd è sbagliata Non ci serve un partito elettorale senza identità. La sinistra conta poco perché non mette in campo una chiara distanza tra «noi» e «loro».

Difficile pensare che con un governo di destra qualche governante avrebbe osato avviare una simile impresa. Forse neppure il fascista Almirante ci avrebbe provato. Ci volevano le larghe intese e un PD come questo. Il manifesto, 14 novembre 2013

Alla fine il Carosello galleggiante d'armi e prodotti alimentari del made-in-Italy va: è salpato ieri da Civitavecchia il gruppo della marina militare costituito dalla portaerei Cavour, dalla fregata Bergamini, dalla nave di supporto logistico Etna e dal pattugliatore Borsini.

Scopo ufficiale della «campagna navale» - organizzata dal ministero della Difesa in collaborazione con i ministeri degli Esteri, dello Sviluppo Economico e il ministero dei Beni Culturali - è presentare «il Sistema Paese in movimento e rafforzare la presenza dell'Italia nelle aree geografiche considerate strategiche per gli interessi nazionali, oltre che fornire assistenza umanitaria alle popolazioni bisognose». Questo l'annuncio ufficiale esatto del Ministero della difesa del 5 novembre con tanto di presentazione del ministro Mario Mauro.

È questo il motivo della missione, annunciato anche dalla Marina Militare il 9 novembre che la definisce «missione di promozione» ed elenca le industrie belliche che vi partecipano.

E invece ieri il ministro Mario Mauro, pizzicato nel segno a quanto pare, ha voluto reintervenire alla Camera per «fugare ogni dubbio», ha detto e per spiegare che il gruppo navale «non ha alcuno scopo di vendere sistemi d'arma all'estero» e che comunque tutto è «nel rispetto delle convenzioni internazionali e del trattato Onu». Magari non va a venderle come tappeti direttamente e negli stessi giorni della crociera di morte, ma secondo il suo stesso annuncio e quello del suo ministero, va a promuoverle, a pubblicizzarle, a piazzarle, a far commercio. Comunque per venderle, sospettiamo.

E in aree dove impazzano guerra, conflitti armati e repressioni (p. s. il Congo, la Nigeria, il Kenya), dove governi potenti finanziano guerre per procura altrove (come l'Arabia saudita in Siria, o il Barhein con la sua primavera cancellata dai militari), o dove politiche di spese sociali vengono ridimensionate se non cancellate per sostenere la sicurezza interna e le frontiere (come in Angola e Mozambico). La domanda è Quale parte in commedia sta recitando il ministro-macchietta Mario Mauro?

Ora il gruppo navale italiano alla fine è salpato ieri. Farà scalo in 7 porti mediorientali del Mar Rosso e del Golfo Persico - Gidda (Arabia Saudita), Mascat (Oman), Dubai (E.A.U.), Abu Dhabi (E.A.U.), Doha (Qatar), Mina Sulman (Bahrein), Kuwait City (Kuwait) - e in 13 porti africani: Gibuti (Gibuti), Mombasa (Kenya), Antseranana (Madagascar), Maputo (Mozambico), Durban (Sudafrica), Città del Capo (Sudafrica), Luanda (Angola), Pointe-Noire (Congo), Lagos (Nigeria), Tema (Ghana), Dakar (Senegal), Casablanca (Marocco) e Algeri (Algeria). Il gruppo, dopo un viaggio di cinque mesi, rientrerà in Italia il 7 aprile 2014.

Il costo della campagna navale è previsto in 20 milioni di euro, di cui 7 a carico dello stato e 13 dei «partner dell'industria privata». Soldi ben spesi: essi potranno usare la portaerei, lunga 244 metri e larga 39, come una grande fiera espositiva itinerante. A bordo sono stati installati gli stand in cui espongono i loro prodotti e contattano i clienti. La missione della portaerei Cavour, ha assicurato il ministro Mauro intervenendo ieri alla Camera durante l'esame del dl missioni, non è di «vendere sistemi d'arma italiani all'estero». Non si capisce allora perché al centro dell'Expo galleggiante ci siano le maggiori industrie belliche italiane con il loro campionario, che sarà mostrato ai potenziali acquirenti di porto in porto. In primo piano quelle di Finmeccanica: l'AgustaWestland che presenta elicotteri da guerra, di cui due sono esposti sulla Cavour; la Oto Melara, che espone il sistema d'arma 127/64 LW Vulcano caratterizzato da un elevato ritmo di fuoco (fino a 35 colpi al minuto) e dalla possibilità di utilizzare munizioni guidate; la Selex ES, specializzata in sistemi radar e di combattimento.; la Wass, che presenta nello stand Finmeccanica il siluro pesante Black Shark; Telespazio, che offre i suoi sistemi di telecomunicazioni militari, anche satellitari; la Mbda, che espone i missili Aspide, Aster, Teseo/Otomat e altri. La Elt offre apparecchiature elettroniche per la guerra aerea, terrestre e navale; la Intermarine, vascelli militari. I clienti che non possono permettersi i cannoni Otomelara a fuoco rapido potranno sempre trovare, nello stand Beretta sulla Cavour, una vasta gamma di pistole automatiche. I prodotti civili degli altri stand sono in genere di lusso, come gli aerei executive della Piaggio e della Blackshape.

Accanto alle armi esposte negli stand, ci sono sulla Cavour cinque caccia Sea Harrier a decollo verticale, quattro elicotteri, una settantina di fucilieri della Brigata San Marco e specialisti subacquei del Comsubin. La campagna navale infatti, oltre a promuovere le «eccellenze italiane», serve a «operazioni di contrasto alla pirateria» e all'«addestramento di personale militare» soprattutto in Africa. Per «l'assistenza umanitaria» ci sono a bordo della Cavour la Croce Rossa e le onlus Fondazione Francesca Rava e Operation Smile.

Una organizzazione perfetta. Si vanno a vendere altri armi ai paesi mediorientali e africani, dominati da oligarchie e caste militari, provocando un ulteriore aumento delle loro spese militari che comporterà un ulteriore aumento della povertà soprattutto in Africa.

Ogni cannone, ogni missile, ogni mitraglia venduta dai commessi viaggiatori della Cavour ai governi clienti significherà meno investimenti locali nel sociale e quindi altri migliaia di bisognosi, affamati e morti, soprattutto tra i bambini, per sottoalimentazione cronica e malattie che potrebbero essere curate. Tranquilli. Perché sulla Cavour ci sono anche gli «operatori umanitari» pronti a soccorrere i disperati che abbiamo contribuito a creare con il traffico di armi, per dimostrare quanto l'Italia sia sensibile e pronta ad aiutare «le popolazioni bisognose».

Nel Rapporto 2013 della marina militare si sottolinea che che le navi da guerra sono «ambasciatrici dell'Italia». Una nave come la Cavour deve essere considerata «proiezione del Paese, non solo come strumento militare ma anche come veicolo per promuovere i nostri interessi economici: la nave, dunque, quale simbolo vincente del Made in Italy» come dimostra «il successo commerciale della nostra industria per la Difesa». In tal modo la marina militare sponsorizza anche se stessa, dimostrando che spendere 3,5 miliardi di euro per una nave come la Cavour (che costa per un giorno di navigazione 200 mila euro) e altri miliardi per dotarla dei caccia F-35, significa fare un investimento per il «Sistema Paese».

Un paese che deve essere militarmente pronto alla «proiezione di capacità per intervenire là dove necessario», ossia a proiettare le proprie forze armate là dove sono in gioco gli interessi economici e politici delle potenze occidentali, in primo luogo degli Stati uniti. Non a caso la campagna navale italiana si svolge in Medio Oriente e Africa, due delle aree strategicamente più importanti per gli Usa e la Nato.

Una volta per accusare la vocazione naturale (per la sua collocazione geografica nel Mediterraneo), dell'Italia alla guerra, nonostante l'articolo 11 della nostra Costituzione, dicevamo «portaerei-Italia». E adesso l'Italia si è fatta portaerei.

«La Francia ha commesso l’errore imperdonabile di essere fiscalmente responsabile, senza infliggere sofferenze ai poveri e ai più sventurati. E quindi deve essere punita». L'obiettivo del potere globale non è insomma uscire dalla crisi, ma rendere più forti i forti e più deboli i deboli.

La Repubblica, 12 novembre 2013

VENERDÌ scorso l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha declassato la Francia. La notizia è arrivata in prima pagina sui giornali e molti articoli indicano che la Francia è in crisi. Ma i mercati non hanno fatto una piega: gli interessi passivi francesi, molto vicini al loro minimo storico, non si sono quasi mossi. Ma allora, che cosa sta succedendo?

La risposta è che la decisione di S&P deve essere contestualizzata nell’ambito della più vasta politica di austerità fiscale. E mi riferisco a quella politica, non a quella economica. Perché il complotto contro la Francia — può sembrare che io sia un po’ faceto, ma in verità c’è molta gente che cerca di screditare quel Paese – è un’evidente dimostrazione del fatto che in Europa, come in America, i predicozzi fiscali non si preoccupano affatto dei deficit. Anzi, sfruttano i timori di indebitamento per portare avanti un’agenda ideologica. E la Francia, che si rifiuta di stare al gioco, è diventata il bersaglio di un’incessante propaganda negativa.

Lasciate che vi dia un’idea di ciò di cui sto parlando. Un anno fa la rivista The Economist dichiarò che la Francia era «la bomba a orologeria nel cuore dell’Europa», con problemi che al confronto avrebbero reso trascurabili quelli di Grecia, Spagna, Portogallo e Italia. Nel gennaio 2013, il direttore generale senior di Cnn Money ha dichiarato «in caduta libera» la Francia, «nazione che si avvia verso una Bastiglia economica». Sentimenti assai simili a questi sono reperibili in tutte le newsletter di economia.

Tenuto conto di questo livello del discorso, uno si accosta ai dati riguardanti la Francia aspettandosi il peggio, per scoprire invece che si tratta sì di un Paese in difficoltà economica – e quale Paese non si trova in tale condizione? – , ma che in linea generale se la passa bene o forse addirittura meglio della maggior parte dei suoi vicini, con l’unica notoria grande eccezione della Germania. Di recente la crescita francese è stata apatica, ma molto superiore, per esempio, a quella dei Paesi Bassi che hanno tuttora un rating da tripla A. Secondo le stime standard, una decina di anni fa i lavoratori francesi erano in effetti un po’ più produttivi delle loro controparti tedesche. E indovinate un po’? Lo sono ancora. Nel frattempo, le prospettive fiscali della Francia appaiono chiaramente non preoccupanti. Il deficit di bilancio è sceso bruscamente e di molto dal 2010, e il Fondo monetario internazionale si aspetta un rapporto debito/Pil più o meno stabile per il prossimo quinquennio.

Che dire della zavorra sul lungo periodo rappresentata da una popolazione sempre più anziana? In Francia il problema c’è, come del resto c’è in tutte le nazioni benestanti. Ma la Francia ha un tasso di natalità superiore a quello della maggioranza dei Paesi europei, in parte grazie ai programmi statali che incoraggiano le nascite e semplificano la vita alle madri lavoratrici, al punto che le proiezioni demografiche sono di gran lunga migliori rispetto a quelle dei Paesi vicini, Germania inclusa. Intanto il sistema sanitario francese, meritevole di attenzione perché assicura prestazioni di alta qualità a spesa contenute, costituirà nell’immediato futuro un notevole vantaggio fiscale.

Attenendoci alle sole cifre, pertanto, è difficile capire perché la Francia si meriti cotanto biasimo. Ma allora, ancora una volta, che cosa sta succedendo? Ecco un primo indizio: due mesi fa Olli Rehn, commissario europeo per le questioni economiche e monetarie – nonché uno dei principali promotori delle rigide politiche di austerità – ha disapprovato la politica fiscale francese, apparentemente esemplare. Perché? Perché essa si basava su aumenti fiscali più che su tagli alle spese – e gli aumenti fiscali improvvisi, ha dichiarato, «annienterebbero la crescita e frenerebbero la creazione di posti di lavoro». In altre parole, non conta ciò che ho detto in tema di disciplina fiscale: si suppone che voi dobbiate smantellare le reti di sicurezza.

La spiegazione che S&P ha dato del declassamento del rating della Francia, anche se formulato meno chiaramente, in pratica afferma esattamente la stessa cosa: la Francia è stata declassata perché «è improbabile che l’attuale approccio del governo francese alle riforme di bilancio e alle riforme strutturali del regime tributario, così come ai prodotti, ai servizi e al mercato del lavoro, migliori sostanzialmente le prospettive a medio termine della Francia». E quindi, ancora una volta: lasciamo perdere le cifre di bilancio, dove sono i tagli alle tasse e la deregulation? Si potrebbe pensare che Rehn e S&P abbiano basato le loro domande su prove circostanziate che i tagli alla spesa sono di fatto meglio per l’economia degli aumenti delle tasse. Ma così non è. Anzi, la ricerca del Fmi indica che quando in una recessione si cerca di ridurre il deficit, vale esattamente il contrario: le fluttuazioni temporanee e repentine delle tasse arrecano molti meno danni dei tagli alla spesa. A proposito: quando qualcuno inizia a decantare le meraviglie della “riforma strutturale”, prendete le sue parole cum grano salis.

Per lo più questa definizione è un’espressione in codice per indicare la deregulation, e le prove relative alle virtù della deregulation sono decisamente contraddittorie. Come ricorderete, l’Irlanda fu elogiata per le sue riforme strutturali varate negli anni Novanta e Duemila, e nel 2006 l’attuale cancelliere dello scacchiere britannico, George Osborne, definì quello irlandese un «fulgido esempio». Ma come è andata a finire?

Forse tutto ciò suonerà familiare alle orecchie dei lettori americani e così è giusto che sia. I predicozzi fiscali degli Stati Uniti si rivelano, quasi sempre e invariabilmente, maggiormente interessati a tagliare Medicare e la Social Security che a tagliare realmente i deficit. E adesso i sostenitori europei dell’austerity si rivelano per lo più in linea con loro. La Francia ha commesso l’errore imperdonabile di essere fiscalmente responsabile, senza infliggere sofferenze ai poveri e ai più sventurati. E quindi deve essere punita.

(Traduzione di Anna Bissanti) © 2013 New York Times News Service

Dicono: dobbiamo tagliare perchè ce lo chiede l'Europa: «ma chi ci impedisce di avere una seria patrimoniale, un taglio alle spese militari, una progressività fiscale? Chi è responsabile di spendere solo il 55% dei 6,7 miliardi di Fondi europei?».

Il manifesto, 8 novembre 2013

Il crescente malessere sociale che colpisce le popolazioni europee ha trovato nell'euro un capro espiatorio unitamente al ruolo giocato da Bruxelles nel tenere in ostaggio le economie nazionali. In questi cinque anni di crisi sono cresciuti vistosamente in tutta la Ue i movimenti politici anti-euro, spesso cavalcati da forze di destra, anche estrema, ma pure da intellettuali che si collocano nell'area della sinistra radicale. A questo risentimento si è associato, negli ultimi tre anni, quello contro Angela Merkel.

L'accusa al governo tedesco è di dettare la linea dell'austerity, a vantaggio della Germania e con il conseguente impoverimento dei paesi del Sud Europa. Ed è proprio in quest'area europea affacciata sul Mediterraneo che cresce vistosamente un vero e proprio rancore contro la Merkel e l'euro, come una coppia malefica, sadica, mai sazia del sangue alle popolazioni europee più povere, a cominciare dalla Grecia.

Nel biennio dolente, 2012/2013, ci sono state grandi manifestazioni popolari contro le politiche di austerity: dagli indignados in Spagna, occupanti Plaza del Sol per più di un mese, a quelle più cruente in Grecia (con morti e centinaia di feriti), a quelle meno eclatanti in Portogallo, Italia e, sia pure in tono minore, in Francia. Risultati? Zero. I governi delle "larghe intese" ormai prevalenti in quasi tutta l'Ue hanno continuato con ostinazione ad adottare ricette velenose capaci di produrre solo una prolungata recessione e di aumentare il rapporto debito/Pil.

Alle critiche e alle manifestazioni di protesta hanno risposto in coro: ce lo chiede l'Europa! Con questo ritornello non hanno fatto altro che accrescere la rabbia contro Bruxelles e fatto riemergere oscure forze nazionalistiche che potrebbero causare in breve tempo la fine della stessa Unione europea. Ma, è proprio vero che l'euro e le politiche di austerity decise dalla Merkel sono la causa esclusiva dei nostri mali? Andiamo per ordine. Da quando i titoli di stato dei paesi del sud - Europa, e dell'Irlanda, sono entrati nell'occhio del ciclone della speculazione finanziaria, Bruxelles è intervenuta con forza, richiedendo - in cambio del sostegno finanziario - misure drastiche che vanno dal taglio alla spesa pubblica, ai dipendenti pubblici, accelerazione dei processi di privatizzazione, ecc. La Grecia è il paese che ha subito i tagli più feroci alla spesa pubblica e le politiche di austerity/privatizzazioni più draconiane, ma anche il paese a cui è stato accordato un "dono" di 137 miliardi di debito che è stato cancellato! Poco meno dolorose sono state le ricette europee per gli altri paesi - Spagna, Portogallo... - "aiutati", con risultati ugualmente catastrofici.

Viceversa, l'Italia, che non ha chiesto aiuto a Bruxelles - unico merito di Monti - è stata sottoposta ad una sola clausola fondamentale: un tetto al deficit/Pil non superiore del 3% per quest'anno, da azzerare nei prossimi anni, fino ad arrivare ad una riduzione del rapporto debito/Pil del 60%. Attualmente è del 173% per la Grecia, del 134% per l'Italia, e decisamente più basso negli altri paesi del sud- Europa. Gli inviti a tagliare la spesa pubblica o a privatizzare fanno parte della moral suasion degli ideologici neoliberisti di Bruxelles, ma non costituiscono nessun diktat, come invece ci hanno raccontato finora i governi "tecnici".

Ora, di fronte a questi vincoli la domanda è : possiamo restare sotto il tetto del 3% del rapporto deficit/Pil creando posti di lavoro e rendendo meno sperequata la nostra società ? In altre parole: chi ci impedisce di avere una seria patrimoniale, una progressività fiscale che colpisca il redditi medio-alti, un taglio netto alla spesa militare ed alle megaopere inutili e dannose che ci costano svariati miliardi ? La risposta è: nessuno ce lo impedisce. Come dimostrano diversi studi e proposte nel merito, come quella di Sbilanciamoci o il "Piano per il lavoro" del Prc, si possono creare centinaia di migliaia di posti di lavoro tagliando spese inutili e dannose, distribuendo diversamente il carico fiscale, restando dentro questa compatibilità del deficit al 3%. Cosa c'entra Bruxelles , l'arcigna Merkel , con tutto questo? Niente. Se i governi tecnici di Monti e Letta non hanno sostanzialmente modificato il carico fiscale, spostandone il peso sui ceti medio-alti, se non hanno voluto varare una patrimoniale, se hanno continuato a sprecare miliardi in opere inutili e dannose (a partire dal Tav), se hanno incrementato i finanziamenti alla spesa militare, è solo perché sono ideologicamente e materialmente legati alla borghesia finanziaria, parassitaria (e criminale), che gestisce il potere in questo paese. Se quest'anno, ancora una volta, non riusciamo a spendere i 6,7 miliardi di Fondi europei ( Fesr e Fse) utilizzandone, male, solo il 55%, se abbiamo un sistema di corruzione capillare che ci costa, secondo alcune stime, circa 60 miliardi di euro l'anno, se abbiamo una giustizia civile che è tra le più lente del mondo e rende incerto il diritto, non è certo perché l'ha deciso Frau Merkel. Per non parlare delle gravi infrazioni in cui siamo incorsi in merito alla tutela ambientale, sovraffollamento carceri, accoglienza immigrati, ecc., con ben 103 procedure aperte con tanto di multe che pesano sul bilancio statale, come hanno ben documentato su questo giornale Canetta e Milanesi.

In breve, possiamo ben dire che in Italia l'alibi europeo - ce lo chiede l'Europa! - ha funzionato per far passare politiche neoliberiste che hanno impoverito il paese, sotterrato il movimento sindacale, smantellato il welfare. In effetti, i nostri "tecnici" per fare della buona macelleria sociale sono stati molto bravi sul piano della comunicazione, riprendendo una tradizione radicata tra i politici meridionali : la colpa è sempre di Roma che non finanzia, che si mangia i soldi, mai loro! C'è sempre un nemico esterno che giustifica le nefandezze del potere che governa un paese o una regione. Non è un caso che i movimenti nazionalisti anti-euro siano spesso cavalcati dalle forze economiche più oscure dei singoli paesi. Forse è arrivato il momento di finirla, di dare al Cesare quel che di Cesare. L'Unione europea va rifondata, le politiche economiche radicalmente cambiate, ma non dimentichiamoci le responsabilità gravissime di chi sta governando questo paese da molto, troppo, tempo.

«Si abbandonano i luoghi dei diritti di cittadinanza: lavoro e istruzione, salute, sacrificati dalla prepotenza di chi, con toni ricattatori, ha chiuso l’orizzonte politico intorno all’Imu, mentre gli altri chinano la testa e si sbracciano nelle rassicurazioni».

La Repubblica, 8 novembre 2013

ABBANDONATA alle distorte rappresentazioni della realtà fornite dai talk show televisivi, vittima di una sorta di ipnosi da “stabilità obbligata”, l’opinione pubblica stenta a cogliere quello che si presenta come il tratto più appariscente dell’attività del governo. Fin dai giorni delle trattative per la sua formazione, il governo è stato ossessivamente prigioniero della questione dell’Imu.

Della questione Imu sono ormai evidenti le conseguenze negative sulla politica economica e, più in generale, sul senso complessivo degli attuali equilibri politici. Sappiamo che la richiesta perentoria dell’abolizione per tutti dell’imposta sulla prima casa corrisponde alla pretesa berlusconiana di vedere integralmente rispettata una sua promessa elettorale come condizione per il sostegno al governo. È sempre buona cosa che gli impegni presi con i cittadini non vengano dimenticati all’indomani delle elezioni. Ma è sempre necessario valutare poi la portata che assumono quando devono divenire parte di un programma comune di una maggioranza ed essere così collocati nel quadro complessivo dell’azione governativa. Questo elementare passaggio è stato omesso, l’Imu è stata trasformata nell’unica luce capace di illuminare l’intero modo d’essere del governo, innescando una quotidiana “verifica” della possibilità stessa della sopravvivenza del governo. Da mesi assistiamo ad una caccia quotidiana alle risorse necessarie per l’abolizione dell’Imu, con coperture talvolta acrobatiche e, comunque, con il sacrificio di finalità e bisogni assai più importanti, stabilendo una impropria graduatoria tra gli obiettivi da realizzare. Dal punto di vista strettamente politico, questa vicenda ha fatto sì che l’equilibrio sia stato nettamente spostato a favore del Popolo della libertà, poiché sono subito scomparse dall’orizzonte governativo promesse elettorali altrettanto impegnative fatte dal Pd. Una asimmetria che pesa, che alimenta sfiducia nella capacità del Pd di esprimere una azione politica coerente, rafforzando pure la convinzione, sempre più diffusa, che la politica sia ormai affare di interessi di parte, lontana da un’idea di interesse comune dei cittadini.

Ma questa vicenda fa emergere una questione più generale, che può essere definita come “l’ingannevole universalismo” dell’abolizione dell’Imu. La scomparsa generalizzata di questa imposta sulla prima casa, infatti, pesa sulla fiscalità generale, come accade, o dovrebbe accadere, per tutti i servizi resi dallo Stato ai cittadini in condizione di piena parità, mentre in questo caso si deve fare riferimento alla specifica situazione in cui si trova ogni persona. La scelta di abolire l’Imu sulla prima casa indipendentemente dalla condizione economica dei proprietari diviene così parte di una dinamica che si è venuta consolidando in questi anni, e che consiste nello smantellamento del principio della progressività dell’imposizione tributaria, specificamente prevista dall’articolo 53 della Costituzione. Vale la pena di rileggere integralmente questa norma: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.

Dio mio, dirà subito qualcuno, ecco l’inevitabile riferimento alla Costituzione da parte di chi, testardamente, si ostina a volerla sovrapporre alle esigenze ferrigne della politica. E invece non dobbiamo mai accettare che la politica possa non essere “politica costituzionale”, non perché si debba manifestare una cieca fedeltà ad un totem, ma perché solo seguendo la via maestra nitidamente tracciata da quel testo è possibile garantire in primo luogo l’eguaglianza tra i cittadini. È stato detto mille volte che era legittimo prendere in considerazione la condizione economica delle persone che, soprattutto in tempi di crisi, possono trovarsi in una situazione che rende per loro eccessivo, o addirittura pregiudizievole per una loro vita dignitosa, il pagamento dell’imposta sull’unica casa di loro proprietà. Ma questa sacrosanta considerazione non porta inevitabilmente con sé l’estensione di quel beneficio a chiunque, ad ogni proprietario, anche a quelli che hanno una situazione economica, e dunque una capacità contributiva, che li pone nella condizione di non subire un sacrificio dall’integrale pagamento dell’Imu. Qualcuno, all’interno stesso del governo, aveva osato dare qualche indicazione in questo senso, subito bollato come traditore, come reprobo, mentre si trattava semplicemente di persone consapevoli del fatto che quella esenzione generalizzata si traduceva in un regalo, in un indebito privilegio, a vantaggio di chi già è economicamente avvantaggiato e che, quindi, è il destinatario della regola della progressività dell’imposta, che significa appunto che chi più ha deve maggiormente contribuire alle spese pubbliche.

Davvero parole pronunciate vanamente in quel deserto di ascolto che è divenuta la politica ufficiale. E che sono una conferma ulteriore dell’assenza di sensibilità costituzionale nell’azione di governo, poiché si ignora non soltanto il principio della progressività dell’imposta, ma lo stesso principio di eguaglianza. Questo, infatti, non è violato esclusivamente quando vengono trattate in modo difforme situazioni identiche. Lo è anche quando si trattano in modo eguale situazioni tra loro diverse. E questo è proprio il caso dei proprietari delle abitazioni, che non costituiscono una categoria unificata dal titolo formale di proprietario di una prima casa, ma che devono essere considerati nelle loro molteplici e differenziate situazioni di contribuenti. Si sta così realizzando una indebita dissipazione di risorse pubbliche a vantaggio di contribuenti abbienti o ricchissimi, della rendita fondiaria, del sostegno a un mercato immobiliare in difficoltà. Risorse ben più cospicue di quelle che, con grande scandalo, si scoprono essere state destinate ai piaceri voluttuari di consiglieri regionali o comunali.

Mentre ci si incammina lungo i sentieri accidentati dell’ingannevole universalismo, si abbandonano i luoghi dove l’universalismo dovrebbe essere sempre praticato, quelli dove si insediano i diritti di cittadinanza: lavoro e istruzione, salute e abitazione. Appunto quelli sacrificati dalla prepotenza di chi, con toni ricattatori, ha chiuso l’orizzonte politico intorno all’Imu, mentre gli altri chinano la testa e si sbracciano nelle rassicurazioni.

«Una storia normale»: espressione tragica dei miti, delle immagini diffuse e venerate, delle divinità. Provate a dare un nome alle cause, a individuare gli attori che hanno foggiato maschere e spinto giovani donne a indossarle.

La Repubblica, 4 novembre 2013

Questa è una storia normale. Una storia di ragazzine spavalde, cresciute in famiglie normalmente complicate in un quartiere né bello né brutto, né alto né basso. «Due belle ragazze, sembrano molto più grandi della loro età. Imbronciate, aggressive. La più grande, durante l’interrogatorio, ha pianto solo quando le hanno detto che le avrebbero tolto il cellulare ». Ragazze andate a scuola nelle scuole pubbliche, buone scuole anni fa all’avanguardia didattica, quando l’educazione primaria era un valore protetto e condiviso, e ancora oggi comunque scuole consigliabili e consigliate, di quelle in cui si fanno i mercatini e gli scambi internazionali, la preside è brava, gli psicologi a disposizione, in certe sezioni gli insegnanti bravissimi. Una storia di bambine diventate donne presto, come sempre più spesso succede: il seno esploso dentro le magliette in prima media, il trucco in classe, il telefonino sotto il banco, i compagni maschi, bambini di undici anni, spaventati e attratti da quelle ragazze di mezzo metro più alte di loro che hanno subito smesso di

andare alle loro feste di compleanno perché hanno altro di meglio da fare il pomeriggio che stare coi bimbetti, hanno i ragazzi con la moto che le aspettano fuori. Se avete figli alle medie sapete di cosa stiamo parlando. Se avete figlie femmine lo sapete anche meglio. «Alla madre, quando le hanno comunicato che non sarebbe tornata a casa, sarebbe andata direttamente in comunità, la ragazza si è rivolta col tono di dare ordini: vai a prendermi i pantaloni e il giubbotto, almeno. La madre ha eseguito».

Dunque la storia delle “baby prostitute dei Parioli”, come è stata etichettata con la segreta ansia di renderla estrema e dunque estranea, bisogna raccontarla da capo cominciando da qui: dal dire quello che non è. Non è una storia dei Parioli, quartieri alti di Roma che è facile immaginare popolati da ragazzi annoiati, viziati, figli di genitori ricchi e distratti per quanto neanche questo sia sempre del tutto vero. No, ai Parioli c’era solo l’appartamento dove le due ragazzine incontravano i clienti: un posto preso in affitto da uno degli uomini, ora in galera, che organizzava per loro gli incontri.

Le due ragazze, oggi 15 la piccola e 16 compiuti da poco la grande, sono state bambine e sono cresciute nel quartiere Trieste, fra villa Torlonia via Salaria e via Nomentana, un triangolo soffocato dal traffico di auto e bus in corsia preferenziale, bar botteghe e studi medici di media fama e medio prezzo, vecchie scuole ospitate in edifici di mattoni rossi e bandiere italiche, media e piccola borghesia del commercio e degli uffici. Nelle scuole medie di quartiere dove le due bambine sono state in classe insieme, molti ragazzi della zona di piazza Bologna, un passo dalla Tangenziale est, molti arrivati in treno a Termini dai paesi della cintura. Qualcuno dai Parioli, sì, certo, anche. Ambiente «molto misto», lo definisce uno dei prof. Molto misto.

È Il triangolo fra l’istituto Alfieri, il liceo Giulio Cesare, il Maria Ausiliatrice che è gestito dalle suore, sì, ma i professori sono laici e non costa tanto la retta, è abbordabile, una famiglia di impiegati se la può permettere. Ci mandano i figli che hanno ripetuto un anno, magari, per provare a farli recuperare. O anche solo perché siano seguiti con più rigore, i genitori pensano questo. Le due ragazzine, compagne di classe alle medie, sono state separate alle superiori: entrambe al liceo classico ma due scuole diverse. Una pubblica e una privata. I genitori della più grande, che aveva ripetuto un anno, hanno deciso di separarla dall’amica e di riservarle un ambiente “protetto”: «È stata una tragedia. Essere separata dalla sua amica è stato vissuto da lei come una violenza terribile. Ci sono state liti tremende a casa. Era già molto aggressiva, feroce col nuovo compagno della madre, è diventata totalmente ostile», racconta una persona che le vuole bene e l’ha seguita. Famiglia in ansia, in grande difficoltà con questa figlia sofferente chiusa e ribelle, vedremo tra poco quanto.

Quindi non sono i Parioli e loro due, hanno detto a chi le interrogava e le assisteva nell’interrogatorio, non vogliono essere chiamate né bambine né prostitute: non si sentono né l’una né l’altra. Gli psicologi forensi hanno scritto nelle loro relazioni, dopo i colloqui, più o meno così: «L’idea di sé di queste ragazze corrisponde ad un’età molto maggiore di quella anagrafica. Anche l’aspetto – l’abbigliamento, gli accessori, i tatuaggi, il trucco - tradisce l’ansia di apparire adulte. In ogni caso non si percepiscono come vittime di violenza sessuale, hanno al contrario l’impressione di dominare la situazione. Sono loro che tengono in pugno le persone che incontrano e a cui chiedono denaro, pensano. Sono loro che decidono che cosa fare e con chi percepiscono gli uomini come deboli, ne parlano con disprezzo e sarcasmo, non attribuiscono al fatto di cedere il corpo in cambio di denaro nessun disvalore. Considerano anzi il fatto di suscitare desiderio una forma di potere». È un potere, suscitare

desiderio.

Una delle due, la piccola, dice al magnaccia che la rimprovera di non essere andata a un appuntamento: «Ma che ti credi che mi puoi dire tu cosa devo fare? Mettiamo che io ho altro da fare, che cazzo vuoi?». Poi, subito, posta su Facebook un messaggio all’amica: noi due insieme per sempre. Sorrisi, cuoricini, labbra che baciano l’autoscatto, appuntamento la sera al solito posto. Waiting dawn, aspettando l’alba. Collezionista di attimi. Società che “organizzano eventi”, si chiamano così.

I fatti, allora. Le due bambine sono compagne di classe, a periodi di banco. Fioriscono splendide. Entrambe non hanno il padre. La madre della più grande, quella che anni dopo farà seguire la figlia da un investigatore privato dopo averla denunciata ai servizi sociali per aggressione, dopo le denunce per furto, dopo aver cercato aiuto come poteva – la madre “buona” dicono i giornali - è impiegata in un ufficio. Ha un nuovo compagno, che non è il padre di sua figlia: medico di bel nome, grandi ospedali. Chissà come vanno le cose a casa. La madre della più piccola, una bambina di spettacolare bellezza, ha un bar nella zona bassa del quartiere che naviga in pessime acque, molti problemi di soldi, un figlio minore ammalato.

Le due bambine si coalizzano. Vivono in grande conflitto con le loro famiglie, l’adolescenza è alle porte. Le femmine fanno banda contro i maschi, alle elementari. Sono gli anni, quelli, in cui in una scuola di zona un gruppo di bambine di otto-nove anni forma una banda per accedere alla quale bisogna superare alcune prove di iniziazione: una di queste consiste nell’inserirsi una matita, una penna, un oggetto nei genitali. Alcuni genitori capiscono, denunciano, diventa un caso, intervengono gli psicologi, la bambina considerata capo banda fa da capro espiatorio, viene portata via dalla scuola. Fine della questione. Si passa alle medie, attigue al liceo. Scoppia un altro scandalo, tenuto legittimamente riservatissimo. Alcune quattordici-quindicenni organizzano a ricreazione un torneo che si svolge nei bagni della scuola. Le ragazzine stanno nel bagno, offrono una prestazione di sesso orale ai maschi che per iscriversi al torneo devono pagare cinque euro. La gara è a chi conclude più rapporti, a chi fa scemare la fila più presto. La fila è lunga, ogni aspirante paga cinque euro. Si paga comunque, il rischio da correre è che arrivi il tuo turno o non arrivi. Il certamen è pubblico, la vincitrice accolta da applausi. Comunque le gareggianti portano a casa cinquanta euro, anche di più, ad ogni prova. Si fanno soldi, così. Soldi che a casa non ci sono o non ti danno, soldi per pagare la ricarica del cellullare e per pagarsi la birra e presto qualcos’altro, la sera. Di nuovo qualche genitore denuncia, di nuovo intervengono gli psicologi. Da una relazione del tempo: «Sgomenta l’assenza di pudicizia, di senso della riservatezza e dell’intimità. Il commercio del corpo considerato la norma, nessuna censura corre tra i coetanei, solo la presa d’atto di un’abilità».

Gli adulti non trovano il varco, non capiscono cosa stia succedendo ai loro figli. Le più abili tra le figlie diventano celebri nella scuola, e fuori. Spesso le performances sono filmate coi telefonini, e condivise. Chi è più fragile soccombe, a volte tragicamente. Chi è più forte avanza. Tutti sono su Facebook. La vita di relazione virtuale è reale. Le due ragazzine decidono insieme di farsi dei tatuaggi senza dirlo ai genitori, vita reale, li esibiscono nei profili, la cosa più importante, virtuale e reale insieme, per loro. Si mettono in vetrina. Una si fa scrivere sul fianco una scritta in latino, del resto ormai lo studiano. L ’altra si fa disegnare un drago che parla di amore disperato. I maschi della classe, tredici-quattordicenni, chiedono amicizia, tollerati come bambini. Entrano a visitare il profilo giovani universitari conosciuti il sabato sera alle feste di zona, una importante università privata è dietro l’angolo, gli studenti vengono da fuori Roma, hanno amici più grandi, più soldi, diversi orizzonti. La violenza, a casa, è la norma. La grande detesta sua madre, sopporta malissimo il nuovo compagno di lei. La piccola soffre la mancanza di soldi, non c’è mai un euro per uscire la sera. Dalla relazione psicologica: «L’aggressività, la violenza, il sesso diventano esperienze più virtuali che reali. L’adolescenza chiama al compito della sessualità. Attraverso la sessualità, si può esercitare un potere, persino un dominio. Il corpo diventa uno strumento neutro, un utensile da utilizzare per accedere a ciò che si desidera». Le ricariche. Il corpo un utensile. Le ragazzine imparano che puoi dare baci e qualcosa di più, puoi dare quello che ti chiedono e che non ti costa concedere, in apparenza, in cambio di ricariche al cellulare, indispensabili per postare i tuoi filmati su Fb. «Mangi all’Hitlon sei ricco, pagami la ricarica almeno, stronzo», si legge nelle intercettazioni. Si filmano di continuo, si fotografano ogni minuto. Vivono sul profilo, dalla vita reale traggono linfa per alimentarlo. Si tatuano insieme, odiano lefamiglie insieme, si fotografano atteggiate a donne, insieme. Trovano su Internet, il posto dove passano i giorni chiuse in camera a casa, un luogo: si chiama Bake ca incontri. Dice che devi essere maggiorenne per mettere la tua offerta di sesso online ma non c’è nessun filtro nessun controllo reale. Entrano. Si offrono. Ottengono, certo, immediato successo. Uomini di età le cercano. Loro si scambiano messaggi che dicono «fico, è facile». Qualcuno furbo, criminale, le intercetta. Vede dietro i seni prorompenti, le labbra color rubino, vede nelle calze di pizzo nero dentro le scarpe da tennis due ragazzine. I tatuaggi, le promesse di dannazione e reciproco amore per sempre.

Arrivano i maschi adulti. Mirko Ieni, autista che lavora per quell’università privata del quartiere, uno che nel suo profilo Facebook ha un catalogo di “amiche” studentesse, aspiranti pr, animatrici di eventi. Le aggancia, ma loro sono convinte di agganciare lui. «Va bene vengo, ma l’albergo non mi piace», scrive la piccola. Lui mette a disposizione una stanza in una casa ai Parioli. «A quel panzone chiediamogli duecento piotte», scrive una delle ragazze. I clienti sono uomini adulti, cinquantenni che si fanno chiamare papi, commercialisti, professionisti. «Mi ha detto che sono troppo piccola», dice lei una volta. «Mi ha fatto un film quello stronzo», racconta un’altra volta all’amica, comincia la spirale dei ricatti. «Vai tu che io oggi non posso non mi fanno uscire». «Queste due mi fanno guadagnare 600 euro al giorno», esulta Mirko l’autista. I suoi amici su Fb, gli amici di Mirko, gli dicono bravo. «Chi cazzo ti credi di essere, io faccio come mi pare»,lo mette a posto, crede, la ragazzina che intanto porta a casa ogni giorno tre, quattrocento euro. E li dà alla madre che non ha soldi, il bar non va più e il fratello malato ha bisogno di cure. Dicono le cronache che la madre “cattiva” sfruttava la figlia, la faceva prostituire. Dice la madre, ora a Regina Coeli, che lei non sapeva come la figlia guadagnasse quei soldi che erano comunque benedetti. Non voleva saperlo. Forse spacciava, aveva pensato. Che sarà mai. Non certo che si facesse pagare dagli uomini, questo no: comunque non ha domandato.

Le indagini sono in corso, le responsabilità degli adulti tutte da accertare. Tutte già scritte, ma nulla di questo si può per ora con certezza ancora dire. Di certo c’è un elenco lungo così, nei tabulati delle due adolescenti, di “cliente 1 Adriano” “cliente2 Federico”. Di certo ci sono uomini spregiudicati e criminali, consapevoli, che hanno approfittato della fragilità mascherata da onnipotenza di due quindicenni, e chissà se solo di loro due. Diciamo i nomi. Riccardo Sbarra, commercialista, cliente. Nunzio Pizzacalla, militare, sfruttatore. Mario detto Michael di Quattro, commerciante, ricattatore. Mirko Ieni, autista e organizzatore di eventi, quello di «guadagno 600 euro al giorno», nel giro della prostituzione si direbbe un pappone, quello che mette i locali e organizza il traffico. Salvo che le ragazzine, quelle che la cronaca chiama baby prostitute, lo sbertucciavano: ma chi ti credi di essere,

pensi di essere tu il padrone? Le padrone siamo noi, sei un poveraccio.

L’inchiesta è in corso. Nei tabulati dei cellulari delle ragazze c’è un elenco lungo così di clienti. Tremano, i pedofili che hanno pagato le quindicenni. Commercianti, professionisti, consulenti d’immagine. Avranno di certo famiglia, i clienti delle due quindicenni: avranno mogli e figli. Sulla pagina Fb di Mirko Ieni c’è un rosario di solidarietà, «non so cosa sia successo e non ci credo, sei er mejo». I profili delle due ragazze, invece, si sono congelati una settimana fa. Quando la grande ha pianto, in tribunale, per il fatto che le toglievano il telefono: la sua identità. La piccola ora è coi nonni, le grande in una comunità. Hanno tolto loro i cellulari, sì. Di questo e solo per questo si sono disperate.

Una delle due madri è in galera accusata di aver sfruttato la figlia, o nel migliore dei casi di non aver indagato da dove venivano i pacchi di soldi che vedeva arrivare e la incitava a continuare a procacciare. L’altra delle due madri tace, assistita da avvocati avveduti e comunque asserragliata nel dolore di non aver saputo, nonostante le denunce, varcare la soglia della porta chiusa di una ragazzina ostile, violenta, incazzata nera, una bambina mascherata da donna nemica di sua madre. Una dark lady dominatrice, quindicenne tatuata in scarpe da ginnastica. Innamorata dei “Diluvio”, il gruppo musicale da cui rubava le citazioni nei suoi post, “lasciali fare, lasciali dire”. Baci scarlatti. Amori disperati. Spade tatuate, serpenti. Non si possono “tenere due piedi in una Jordan” e chissà cosa avrà voluto dire tua figlia, cosa avrà voluto dirti quando si è fotografata le scarpe e ti ha lasciata nella tua casa del quartiere Trieste, senza una parola, ti ha lasciata così.

Un partito funambolo, in bilico tra due abissi: o diventare il partito unico del neoliberalismo moderato, o dissolversi nel nulla. Non c'è una soluzione alternativa? Forse, se esce dal recinto. La Repubblica, 1 novembre 2013

NON può esser sottovalutato il pessimo messaggio che viene dalle pratiche segnalate in alcuni congressi locali del Pd: tessere triplicate, risse, denunce, elezioni fantasma e così via. Un danno vero per l’immagine stessa di una democrazia, non solo di un partito: di qui l’urgenza di prese di posizione concrete, drastiche ed esemplari da parte di tutti i candidati alla segreteria nazionale. L’urgenza di dissolvere ogni nebbia: senza se e senza ma, e senza accuse reciproche che malamente maschererebbero un problema collettivo. Non è lecita nessuna minimizzazione.

Quegli episodi mostrano che siamo ben lontani dal rispondere alla crisi della politica con una vera inversione di tendenza, con un colpo d’ala in zona estrema: questa però doveva provare a fare un Pd giunto dopo il voto di febbraio al punto più basso della sua pur breve e tormentata storia. In realtà col passar del tempo la speranza è diventata via via sempre più flebile, e dalla sua vita interna sono venuti segnali sempre più sconfortanti. Lo conferma l’andamento stesso delle iscrizioni, dimezzate in un anno, ed era difficile immaginare un rovesciamento così drastico rispetto alle primarie di appena un anno fa: rispetto alla vitalità che avevano messo in luce, alle passioni e alle speranze che avevano riacceso. Mancò certo dopo di esse la capacità di aprirsi realmente alla società, di muovere alla conquista di incerti e delusi: delusi anche dal funzionamento sempre più appannato della nostra democrazia. Mancò la capacità, se non la volontà, di prender atto del frastuono d’allarme che era venuto dal voto in Sicilia, con l’astensione oltre il 50% e il Movimento 5 Stelle primo partito dell’isola. Allarme presto rimosso: è sembrata prender corpo semmai l’idea nefasta che possa esservi una “democrazia al 50%”: che si possa cioè governare un paese non conquistando nuovi consensi ma perdendone meno del proprio antagonista, e considerando irrilevante il tasso e la qualità della partecipazione.

Già tempo fa Ilvo Diamanti segnalava che per una metà degli italiani era possibile anche una democrazia senza i partiti, e da allora questa convinzione si è ulteriormente diffusa. E si è diffusa ancor di più l’idea che non vi possa essere una vera democrazia con questi partiti: un giudizio terribile. Eppure non erano mancati in tempi relativamente recenti segnali di vitalità e di speranza, e si pensi solo alle elezioni amministrative o ai referendum di due anni fa.

Sembra purtroppo un’immagine lontana la lunga fila di cittadini in coda a Milano per stringer la mano al neosindaco Pisapia: quei segnali non hanno trovato a livello nazionale una sinistra capace di accoglierli, capace di lasciarsene ispirare. Capace di frenare le derive che investono ormai in modo aperto il rapporto fra cittadini e istituzioni: ma non può esservi oggi nessuna sinistra se non pone al centro la riforma radicale della politica e l’inversione di quella sfiducia che sembra aver superato ogni argine.

Si legga in questa chiave quel che è avvenuto in questi mesi nel Pd, dal non dissolto mistero dei “101” che hanno affondato la candidatura di Romano Prodi al non eccelso livello dei suoi dibattiti, o dei suo scontri, interni: si capirà meglio allora quanto la situazione si sia aggravata. Essa è stata poi ulteriormente, e inevitabilmente, appesantita dallo scenario delle larghe intese e dalla scarsa chiarezza con cui ci si è mossi all’interno di esse: con cedimenti sui contenuti che hanno peggiorato la situazione concreta e offuscato gravemente la direzione di marcia, come è avvenuto sull’Imu; e con l’assenza di priorità capaci di identificare il centrosinistra e il suo progetto di futuro. Un panorama sconsolante, e anche per questo gli episodi di questi giorni, per limitati che possano essere (e non lo sembrano più di tanto), non fanno che ingrossare una valanga di sfiducia già avviata: una valanga che rischia di travolgere qualcosa di molto più importante di un “partito di micronotabili” (sembra difficile oggi dissentire da questa impietosa analisi).

Ove le derive non fossero drasticamente e immediatamente frenate rimarrebbero davvero pochi argomenti a chi si oppone all’ipotesi di un “partito personale”: cioè a chi crede ancora ad un’organizzazione politica basata su modalità collettive e continue di progettazione e di azione. E gli stessi contorni di un “partito personale” verrebbero minati alla radice dal molteplice agire di tarli e termiti. Per molti versi dunque quel che è avvenuto in questi giorni sta mettendo preventivamente alla prova la reale idea di partito di ognuno dei candidati alla segreteria del Pd. Di qui l’urgenza di atti concreti, esemplari e drastici: in primo luogo nei confronti dei propri sostenitori che si fossero resi responsabili di quelle inaccettabili pratiche.

«Apparentemente sono tutti molto offesi, i governanti europei, per come Barack Obama li ha fatti spiare da anni. ci si chiede: ha senso affastellare dati su tutti e su tutto, su fidati e non fidati, su amici e nemici da abbattere e gabellare questa maniacale compilazione di liste per lotta al terrorismo?». La Repubblica, 30 ottobre 2013

Apparentemente sono tutti molto offesi, i governanti europei, per come Barack Obama – imperturbato, senza farsi scrupoli – li ha fatti spiare da anni. Soprattutto il controllo di un telefonino privato, quello del cancelliere Merkel, crea sconcerto: possibile che la Nsa americana (Agenzia nazionale di sicurezza) giudichi necessario origliare per oltre un decennio quello che dal dopoguerra è l’alleato cruciale nel vecchio continente? Forse perché non è più cruciale come si pensava, né così fidato?

Queste e altre domande hanno agitato il summit europeo dei giorni scorsi, ma oltre l’apparenza non si è andati. In parte per ignavia, in parte per quieto vivere, in parte per ossequiosa furberia, il comunicato dei capi di Stato o di governo riuniti a Bruxelles s’attarda sullo stile della poco cavalleresca intrusione, sulla rozza insensatezza delle liste di indiziati o sospetti. Il modo ancor li offende.
Non il perché: quasi non li riguardasse, né in fondo li incuriosisse. Il perché è anzi tra le righe giustificato («la raccolta di intelligence è un elemento essenziale nella lotta contro il terrorismo»). In nessun passaggio del comunicato ci si chiede: ha senso affastellare dati su tutti e su tutto, su fidati e non fidati, su amici e nemici da abbattere — alla rinfusa, sotto la stessa regia — e gabellare questa maniacale compilazione di liste per lotta al terrorismo? Se così non fosse, se i capi europei esaminassero alle radici le offese che d’un colpo scoprono di subire e il loro rapporto con gli Stati Uniti (ma anche con Londra, non meno implicata nello spionaggio), ben altra sarebbe stata da principio la loro reazione. Da tempo conoscevano gli intrichi dell’Agenzia di sicurezza, sin dal 6 giugno Edward Snowden li aveva rivelati al giornalista Glenn Greenwald; la notizia già era apparsa sul Guardian, sul Washington Post, su Spiegel.
Ma lo sdegno aveva colpito il denunciatore, non l’impazzita macchina di spionaggio. Snowden fu catalogato come talpa, spia: anche da giornali che si dicono indipendenti, ma son usi a prender per buone le versioni ufficiali (da allora Greenwald parla di prestitutes, prostitute della stampa). Washington accusò Snowden di tradimento, e i governi europei abbozzarono. Non li sfiorò l’idea di offrire rifugio in Europa a chi viene chiamato, da secoli, non già spia ma whistleblower (le leggi Usa proteggono i «suonatori di fischietto» dal XVIII e XIX secolo). Whistleblower è chi obbedendo alla propria coscienza denuncia misfatti dell’organo o del sistema che l’impiega. È un disobbediente civile: come Snowden, o Bradley Manning che rivelò a Wikileaks le malefatte americane in Iraq. Se giornalista alla maniera di Greenwald, è cane da guardia; vigila sui soprusi dei potenti.
Secondo Kant aiuta a emancipare i cittadini, li rende adulti: cosa possibile solo se nasce uno spazio pubblico non asservito al comando politico, forte dei Lumi, non tenuto all’oscuro. «Hanno ristretto l’influenza della sfera pubblica»: è una delle accuse di Snowden ai governi Usa. Snowden ha trovato asilo nella Russia di Putin, non in Europa dove è tuttora considerato un paria.
Il giudizio non muta neanche dopo lo scandalo dei telefonini intercettati. Rispondendo ai giornalisti, venerdì a Bruxelles, Enrico Letta è stato perentorio. Il whistleblower resta un reietto: «Non penso che (la sua) sia un’attività utile e positiva: crea problemi e non produce gli effetti di “disclosure” che pretende». In realtà Snowden ha scoperchiato le verità della Nsa (perché parlare di «disclosure», quando c’è l’antica parola Lumi?), ma quel far luce e divenire adulti non è utile né positivo. Logicamente questo significa che altro è utile, tra Europa e Usa: il nascosto, la negazione della parresia ovvero della libera informazione e del libero parlarsi.
Quanto all’Unione, significa nutrire l’abitudine alla subalternità del minorenne. Il quieto vivere, talmente meno costoso, ti libera da responsabilità ed è a questo prezzo. Per citare ancora Kant: sapere aude— osa sapere — è sin dai tempi di Orazio impresa troppo incandescente. Meglio definirla non positiva «ai fini della disclosure ». Questo spiega i toni del comunicato di Bruxelles: toni melodrammatici — le «profonde preoccupazioni» dei cittadini europei; l’appello a «più rispetto, più fiducia» — ma privi di proposte pratiche che vadano al di là di poco specificate iniziative e di colloqui bilaterali che Parigi e Berlino avranno con Obama (perché non l’Unione in quanto tale? perché l’Italia non colloquierà?). Rispetto e fiducia sono sentimenti pieni di rumore che non significano nulla, se non producono patti vincolanti e ordini internazionali non più egemonizzati dalla superpotenza.
Tanto più essenziale è soffermarsi sul perché del Datagate, e metterlo in relazione con le guerre al terrorismo: con i suoi fallimenti, le sue degenerazioni sotto la presidenza Obama, l’intreccio perverso creatosi fra le informazioni raccolte sugli alleati e quelle che danno vita alle kill list, le uccisioni mirate dei terroristi indiziati. I servizi segreti compilano probabilmente le une e le altre, con l’assenso del potere politico. Questo allarma. Ecco perché la solidarietà dovrebbe andare, se l’Europa è patria del libero confronto di idee, alle persone che smascherano piani antiterrorismo sfuggiti a ogni controllo. Definirle inutili vuol dire approvare una guerra che prosegue in altro modo, non dichiarata ma surrettizia, e considerare proficuo (anche se i modi offendono) quel che maggiormente la caratterizza: le raccolte dati interamente fondate sul sospetto, e l’affidarsi a mezzi tecnologici che «determinano con la forza dell’inerzia il fine prefissato», storcendo il fine stesso e confondendo tattica e strategia (è la tesi del giurista Stephen Holmes, London Review of Boooks, 18 luglio 2013).
Il Datagate riguarda solo marginalmente i governanti origliati urbi et orbi. Militarmente è al servizio di un dispositivo d’aggressione, collaudato da Bush jr e dilatato da Obama. Lo scopo è ridurre a zero le guerre di terra — costose finanziariamente, invise in patria — e colpire da lontano, senza più sporcarsi le mani (i droni ai tempi di Bush erano 167, oggi 7000). L’offensiva dei droni (Pakistan, Yemen, Somalia, Libia, ecc) è senza epiloghi e volutamente «non fa più prigionieri », sciogliendo nell’infamia la questione Guantanamo: i «combattenti illegali» sono liquidati nella notte e nella nebbia. Altro sostanziale vantaggio: la stampa non è mai presente.
Anche se non si chiamano più guerre (ma «operazioni d’emergenza esterna»), la dottrina è sempre quella di Bush jr: l’America è fortezza assediata, militarmente ed economicamente, che non si fida di nessuno e sospetta tutti — avversari reali e potenziali, amici fidati o competitori infidi. È stata denominata dottrina dell’Uno per cento, e fu il vicepresidente Dick Cheney a formularla per primo, nel 2006: «Se esiste un 1 per cento di possibilità che gli scienziati pakistani stiano assistendo Al Qaeda nello sviluppare un’atomica, dobbiamo trattare questa possibilità come una certezza, dal punto di vista della risposta. Qui non è in gioco la nostra analisi, ma la nostra risposta». Risultato: a dodici anni dall’11 settembre 2001, si affronta il mondo con la stessa ignoranza militante di ieri, lo stesso sprezzo d’ogni analisi. Solo la risposta conta: quale che sia, giusta o sbagliata, purché si presenti come certezza non confutabile. Purché confermi l’America come superpotenza che non conosce limiti, né autorità superiori o pari alla propria. Che declina magari finanziariamente, ma non politicamente e strategicamente. Che l’Europa creda ancora a questa favola raccontata da un idiota, senza mai discutere con l’alleato il senso e la natura delle guerre, senza mai osare sapere, fa di lei nul-l’altro che «un’ombra che cammina».

Se qualcuno non avesse ancora capito che navighiamo tra Scilla e Scilla, (o tra Cariddi e Cariddi), e magari pensasse che scegliere il PD di Renzi significa combattere Berlusconi, non possiamo che consigliargli una visita oculistica.

Il manifesto, 29 ottobre 2013

Per capire il fenomeno-Renzi, è utile seguire la comunicazione per slogan della sua campagna elettorale, l'uso accorto di alcune parole-chiave, la retorica della Leopolda. E la verità viene a galla.

Con Renzi finisce il berlusconismo?

Renzi l'ha sostenuto esplicitamente. Ma, più che di fronte ad una fine, sembra di essere di fronte ad una rottamazione, e cioè, nel linguaggio di Renzi, la sostituzione della vecchia classe politica con una nuova. C'è discontinuità nei testimonial, più che nei programmi e nei contenuti. Per questo Berlusconi teme Renzi. Come lui è un comunicatore senza contenuti. E proprio questa mancanza di definizione, allarga il potenziale bacino elettorale. Come per l'audience l'insieme più ampio è quello meno definito. Renzi è un comunicatore che, col linguaggio televisivo, potremmo definire generalista, per questo motivo è inclusivo, non esclusivo. Ha una buona parola per tutti.

Che tipo di comunicazione è quella di Renzi?

L'ha detto lui stesso: una comunicazione semplice, basata sul contatto diretto e sull'ovvietà condivisa. Ma c'è un problema, la situazione in cui si trova oggi l'Italia, è la più complessa di sempre. C'è una crisi mondiale che coinvolge soprattutto il nostro paese. E le soluzioni sono tutt'altro che semplici. Tanto che non le ha ancora trovate nessuno. Una comunicazione semplice ed un programma "di consenso", non hanno la funzione di risolvere i problemi, ma piuttosto di allargare il potenziale elettorato, coagulare maggioranze di destra e di sinistra, vincere le elezioni. Con Renzi si fa evidente il ruolo limitato giocato oggi dalla politica, nei confronti dell'economia che è il livello in cui si prendono le decisioni vere, decisioni che spesso esautorano i singoli stati. Compito della politica non è più guidare l'economia, sulla base di scelte, di principi, di valori. Scopo della politica è creare maggioranze e vincere i vari tipi di elezioni; primarie, amministrative, politiche. Pensiamo al Pd. Rispetto alla sua storia Renzi è un corpo estraneo. Ma anche gli avversari interni al partito stanno lentamente convergendo su di lui, perché Renzi è capace di fare le cose che il Pd non è riuscito fino ad ora a fare: comunicare e coagulare maggioranze.

Renzi è ancora di sinistra?

A questo proposito alla Leopolda è stato fatto un bellissimo ragionamento. Se la sinistra (che rappresenta il cambiamento) non cambia, diventa destra. Quindi la sinistra deve cambiare. Ma, aggiungo io, per cambiare, la sinistra non può che spostarsi a destra. Quindi il destino della sinistra è segnato. O rimane di destra, o cambia per diventare destra. Niente più di questo bellissimo paradosso illustra la natura di quello che Ignacio Ramonet ha battezzato al suo tempo "pensiero unico", "panseu unique". Nell'epoca del pensiero unico non ci sono alternative: o così, o così. Renzi non fa mistero di essere un ammiratore di Blair, di quella "terza via" a suo tempo impersonata dai Blair e dai Clinton, che sono, in definitiva, quelli che hanno portato a termine l'architettura dell'attuale sistema economico perfino finanziario.

Perché i suoi seguaci sono imprenditori di successo?

Vale per Renzi l'effetto Berlusconi delle origini. Come i vari Guerra, Farinetti, Baricco, Berlusconi era un imprenditore che si era fatto da sé come tale capace di Fare. Ed il Fare, al di fuori delle ideologie e delle riflessioni che non possono che frenare l'operatività, è il grande mito della politica di oggi, ed è, in particolare, lo slogan di Renzi. C'è crisi. Bisogna rimboccarsi le maniche. I suoi testimonial l'hanno fatto, nel concreto ed ognuno ha avuto successo nel suo campo. Ed arriviamo al nocciolo del problema. Per Renzi la politica non è tanto riflettere sui bisogni della collettività. Ma conferire agli imprenditori più capaci, la possibilità di esprimersi individualmente, senza limitazioni ed in piena libertà. Un vero programma liberista. Non a caso alla Leopolda si è parlato di ripristinare la giustizia sociale attraverso la meritocrazia. Il concetto di meritocrazia non è di sinistra. Dirò di più. Il successo di pochi non si riverserà sul benessere di tutti. Faccio un esempio concreto: Berlusconi. Poiché era ricco, molti credevano che potesse arricchire il paese. In effetti ha moltiplicato il patrimonio personale, ma non mi sembra che abbia arricchito il paese.

Ma Renzi è la nuova Democrazia cristiana?

Direi che è la normale evoluzione di quella "fusione fredda" che ha costituito il Pd. Ognuno voleva vederci quello in cui credeva. La sinistra una forma moderna di sinistra, l'ex Dc il lato operativo dei valori cristiani come carità e solidarietà. Renzi ha un padre democristiano. E ha ideato per Firenze (non so se è già operativo) un cimitero di feti. Oggi, dopo il vituperio del crollo della prima Repubblica, molti vorrebbero vedere rinascere una classe democristiana. Alla democrazia cristiana si riconosce di avere guidato per 50 anni il paese rendendolo economicamente prospero. Anche se il rovescio della medaglia erano i grandi misteri del paese. Apparentemente Renzi è per un'alternanza decisa tra partiti e chiede una legge elettorale uguale a quella per l'elezione a sindaco. Chi sbaglia va casa. Ma, ancora una volta, l'alternanza è tra persone e non tra programmi. Il sindaco è sempre più un'amministratore di condominio. Ed anche la politica si avvicina sempre di più ad una grande assemblea condominiale. Uno scenario in cui si invoca il cambiamento perché, come nel Gattopardo, niente deve cambiare.

Perché si è posta così la Leopolda?

La Leopolda è un meeting all'americana che serve a ricompattare un partito o una corrente politica. Ne ha fatto uso Berlusconi per Forza Italia. E ne hanno fatto uso uomini di sinistra. Ma la Leopolda è più efficace perché è ormai un'istituzione che si ripete nel tempo, E nella psicologia sociale la ripetizione è fondamentale, per fissarsi nella memoria e conferire autorevolezza e credibilità. Renzi, con la Leopolda, riprende uno stile da "presidenziali americane". E questo si riverbera, positivamente sulla sua immagine.

L'ipocrisia di chi s'indigna oggi fingendo di non aver capito quale lesione dei diritti sia nata dalle decisioni degli USA di Bush all'indomani dell'11 settembre 2001, accettate da tutti i potenti ed elevato a mantra della "sicurtà".

La Repubblica, 26 ottobre 2013
Chi aveva decretato la fine dell’età dei diritti, oggi dovrebbe riflettere sul fatto che la prima, vera crisi tra Stati Uniti e Unione europea si è aperta proprio intorno alle violazioni di un diritto fondamentale — quello alla privacy. Ed è una crisi che mostra con chiarezza che cosa significhi in concreto la globalizzazione, quali siano i limiti della sovranità nazionale, di quale portata siano ormai le sfide rivolte alla democrazia attraverso diverse negazioni di diritti.

L’Europa reagisce, ma non è innocente. Non si può dire che questa sia una sorpresa, una vicenda imprevedibile, se non per la dimensione del fenomeno. Fin dai giorni successivi all’11 settembre, era chiaro che la strada imboccata dall’amministrazione americana andava verso l’estensione delle raccolte di informazioni personali, la cancellazione delle garanzie per i cittadini di paesi diversi dagli Stati Uniti, l’accesso alle banche dati private. Vi è stata una colpevole sottovalutazione di queste dinamiche e sono rimaste inascoltate le sollecitazioni di chi riteneva indispensabile un cambio di passo nelle relazioni tra Unione europea e Stati Uniti, per impedire che sul mondo si abbattesse il “digital tsunami” poi organizzato dalla National Security Agency e provvidenzialmente rivelato da Edward Snowden.

Angela Merkel ha reagito alla notizia di un controllo sulle sue telefonate. Ma negli anni Novanta si seppe di un sistema mondiale di intercettazione delle comunicazioni chiamato Echelon (gestito da Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Australia, Nuova Zelanda), che riguardò anche Romano Prodi, allora Presidente del consiglio. Le reazioni furono deboli e il Parlamento europeo svolse una indagine assolutamente inadeguata. L’atteggiamento dell’Unione europea, quando ha negoziato con l’amministrazione americana in queste materie, è sempre stato debole, addirittura subalterno, e le pressioni delle lobbies americane continuano a farsi sentire in relazione al nuovo regolamento europeo proprio sulla protezione dei dati personali. Ora Barroso fa dichiarazioni molto dure, che tuttavia hanno senso solo se accompagnate da un profondo cambiamento di linea.

Tutto questo non diminuisce le responsabilità degli Stati Uniti, gravissime, perché è ormai chiaro che la gigantesca caccia alle informazioni non aveva come fine la sola lotta al terrorismo. Altrimenti non si sarebbero intercettate le comunicazioni di capi di Stato o di governo. Fin dai tempi di Echelon era chiaro che i dati raccolti servivano per conoscere strategie politiche ed economiche, per dare alle imprese americane un di più di informazioni per renderle più competitive rispetto a quelle europee.

Vale la pena di ricordare le parole dette all’ultima assemblea dell’Onu dalla Presidente del Brasile, Dilma Rousseff, anch’essa intercettata: «Senza tutela del diritto alla privacy non v’è libertà di opinione e di espressione, e quindi non v’è una vera democrazia». E questa dichiarazione è stata seguita dalla cancellazione del suo viaggio ufficiale negli Stati Uniti. Siamo dunque di fronte ad una vera questione di democrazia planetaria, che nessuno Stato può pensare di affrontare da solo, sulla spinta di risentimenti nazionali o personali. Angela Merkel usa parole dure, Enrico Letta invoca verità, François Hollande protesta. Ma loro sono governanti della regione del mondo dove la tutela dei dati personali ha trovato la tutela più intensa, considerata come diritto fondamentale dall’articolo 8 della Carta dei diritti dell’Unione europea. Essi hanno l’obbligo e l’occasione per aprire una fase in cui la tutela dei diritti fondamentali sia adeguata alle nuove sfide tecnologhe, che si traducono in una offerta crescente di strumenti utilizzabili proprio per violare quei diritti.

Di fronte al Datagate non bastano fiere dichiarazioni di buone intenzioni, e quindi non ci si può appagare delle parole di chi, dagli Stati Uniti, promette misure in grado di “bilanciare le esigenze di sicurezza con quelle della privacy”. Non si tratta di scegliere la via delle ritorsioni, ma bisogna dire chiaramente che, proprio per le dimensioni della vicenda, questa non può essere gestita come un affare interno statunitense. Alcuni punti fermi, comunque, vanno stabiliti subito. Accelerare le nuove normative europee sulla privacy con un rifiuto netto delle pressioni americane. Rendere effettiva la linea indicata dalla risoluzione del Parlamento europeo che ha chiesto di sospendere l’accordo che prevede la trasmissione agli Stati Uniti di dati bancari di cittadini europei per la lotta al terrorismo, già per sé inadeguato per la debolezza con la quale l’Unione concluse quell’accordo. Mettere in evidenza l’impossibilità di proseguire la negoziazione del trattato commerciale in un contesto in cui la fiducia reciproca si è incrinata, sì che non è pretesa eccessiva chiedere agli americani azioni effettivamente risarcitorie e non cedere al ricatto di chi sottolinea i vantaggi di quel trattato, ponendo così le premesse per un perverso scambio tra benefici economici e sacrificio di diritti. E poiché l’intero continente latinoamericano ha adottato il modello europeo in questa materia, è davvero impossibile pensare all’avvio di iniziative coordinate, come esige una situazione in cui la tecnologia non conosce frontiere e, quindi, conferisce agli Stati più forti l’opportunità di divenire potenze globali? A questa globalizzazione delle pure politiche di potenza, incarnate anche dai grandi padroni privati della Rete, bisogna cominciare ad opporre una politica dei diritti altrettanto

globale. Questa strategia più larga può incontrare l’opinione pubblica americana, dove già le associazioni per i diritti civili avevano avviato azioni giudiziarie e ora vi sono esplicite e diffuse manifestazioni di dissenso. Lì è vivo il “paradosso Snowden”, con l’evidente contraddizione legata alla volontà di perseguire proprio la persona che ha svelato le pratiche oggi ufficialmente ritenute illegittime. E non cediamo al riduzionismo, dicendo che si è sempre spiato e che, tanto, le tecnologie hanno già sancito la morte della privacy. Si è ormai aperta una partita che riguarda proprio i caratteri della democrazia al tempo della Rete, e questo terreno non può essere abbandonato.

Bisogna, allora, contestare la perentorietà dell’argomento che, in nome della lotta al terrorismo, vuole legittimare raccolte d’informazioni senza confini: da parte di molti, e in Italia lo ha fatto un esperto come Armando Spataro, si è dimostrata la pericolosità e l’inefficienza di raccolte d’informazione che non abbiano un fine ben determinato. Bisogna ricordare che la morte della privacy, troppe volte certificata, è una costruzione sociale che serve alle agenzie per la sicurezza di affermare il loro diritto di violare la sfera privata, visto che ad essa non corrisponde più alcun diritto. E serve ai signori della Rete, come Google o Facebook, per considerare le informazioni sugli utenti come loro proprietà assoluta, utilizzandole per qualsiasi finalità economica, come stanno già cercando di fare. Bisogna seguire la tecnologia e mettere a punto regole nuove per la tutela della privacy, com’è accaduto in passato, e con una nuova determinazione, dettata proprio dalla gravità degli ultimi fatti. Ma bisogna pure chiedersi se gli Stati, che oggi virtuosamente protestano contro gli Stati Uniti, hanno le carte in regola per quanto riguarda la tutela dei dati dei loro cittadini. Se la posta in gioco è la democrazia, né cedimenti, né convenienze sono ammissibili.

La Repubblica, 25 ottobre 2013
Non vale il movente della sicurezza, che certamente dopo l’11 settembre spinge la Casa Bianca e le sue agenzie ad uno sforzo eccezionale di prevenzione e di deterrenza a tutela del Paese attaccato per la prima volta nelle Torri e nel Pentagono, uno sforzo che vista la globalità della minaccia non può che essere universale e senza confini. E tuttavia, come abbiamo sempre detto, vivere in democrazia obbliga terribilmente. Perché se le democrazie hanno il dovere – esercitando come Stati il monopolio della forza – di garantire la sicurezza nazionale, hanno anche la necessità concorrente di fare questo rimanendo se stesse, senza sfigurarsi nei principi fondamentali fino ad assomigliare alla caricatura deformante che ne fa il terrorismo.

La coppia diritti-sicurezza, oppure libertà e forza, scricchiola sempre nei tempi di crisi, sotto attacco. Dentro la legittima paura, di cui sia lo Stato democratico che la politica devono tener conto, e dentro l’ossessione securitaria (che è un’ideologizzazione della paura) il cittadino isolato nella solitudine repubblicana del contemporaneo chiede protezione prima di tutto, il che non è molto diverso dal chiederla ad ogni costo, anche con sistemi da “Dirty Hands”, come dice Michael Walzer, perché sporcano le mani dei governi. Ma la democrazia deve credere che è possibile rispondere all’aspettativa di sicurezza conservando anche nei tempi di queste guerre bianche della globalizzazione i principi che si professano nei tempi di pace e di tranquillità.

Il modo per farlo è ancorare la funzione di governo alla regola, così da evitare abusi di sovranità: regola costituzionale all’interno, regola di diritto internazionale all’esterno. Dunque regola democratica. Che si basa su un principio: la democrazia non può essere indifferente al percorso, alle procedure e agli strumenti che utilizza per raggiungere i suoi fini, perché non contano solo questi ultimi, e l’efficacia per raggiungerli. No. La democrazia al contrario deve continuamente vigilare sulla compatibilità dei mezzi rispetto ai fini, sulla coerenza dei mezzi con i principi che professa.

Solo così, peraltro, il processo democratico di decisione può venire “controllato” dai cittadini, e non viene confiscato e oscurato nei suoi passaggi- chiave, per mostrare alla pubblica opinione soltanto il risultato finale, ottenuto chissà come, e con mezzi che vengono sottratti al giudizio, come se non ne facessero parte. La democrazia pretende che anche le sue fragilità, le sue debolezze, vengano denunciate, evidenziate e “curate” alla luce del sole perché soltanto in quella luce vive e sopravvive il concetto di cittadinanza. E perché l’opinione pubblica è intrinseca all’identità dell’Occidente, e quell’opinione chiede conoscenza e trasparenza, mentre non accetta che la decisione si sposti in luoghi segreti, oscuri e separati. In buona sostanza, in democrazia il sovrano è legittimo finché è democratico, cioè consapevole di essere soggetto alla regola. Altrimenti, deve rendere conto dell’abuso di sovranità e di potere. Proprio questo sta accadendo tra l’Europa e Obama.

La stessa cosa non sta accadendo in Italia. Qui l’inchiesta giudiziaria di Napoli e la decisione del Gup di rinviare a giudizio per corruzione Berlusconi e il suo “uomo di Stato in incognito”, cioè il faccendiere Lavitola, per aver “comperato” con tre milioni un senatore nel 2008, convincendolo ad abbandonare la maggioranza guidata da Romano Prodi mettendola in crisi, svela qualcosa di più di un abuso di potere. Rivela una violenza alla democrazia, che ha modificato la rappresentanza popolare decisa dal voto dei cittadini, deformando il rapporto tra maggioranza e opposizione e deviando il corso della legislatura. Tutto è avvenuto nell’ombra, in quanto l’“Operazione Libertà”, come la chiamava la fantasia di Arcore, era inconfessabile in pubblico. E si capisce perché. Questa operazione infatti si fonda su uno dei cardini dell’anomalia berlusconiana, quello strapotere economico (costituito anche sui 270 milioni di fondi neri portati alla luce dalla sentenza definitiva di condanna nel processo Mediaset) che consente ad un leader politico di alterare un mercato delicatissimo come quello del consenso, già adulterato dallo strapotere mediatico, che squilibra a destra ogni campagna elettorale, nell’indifferenza di tutti.

Ora, qui con ogni evidenza non c’è nessuna scusa che chiami in causa la sicurezza nazionale: se mai, quella personale del leader che visto ciò che sa di se stesso, cerca riparo nell’accumulo improprio di potere politico per costruirsi uno scudo istituzionale illegittimo. Né si può dire che la maggioranza di sinistra in quegli anni era così gracile e incerta che sarebbe morta da sola: è possibile, ma in democrazia c’è una differenza capitale tra un normale processo fisiologico di deperimento – che fa comunque parte dell’autonomia politica e parlamentare – e un assassinio di governo per avvelenamento, che fa parte invece dell’eccezionalità criminale.

Naturalmente il processo avrà il suo corso. Ma intanto c’è non solo il rinvio a giudizio di un ex Premier per un reato infamante, c’è la condanna per patteggiamento del parlamentare corrotto, che è diventato il principale e pubblico accusatore, e c’è la lettera dello “statista incognito”, cioè Lavitola, che presenta il conto ricattatorio delle sue prestazioni, enumerandole e magnificandole.
Quest’ultima vergogna nazionale è talmente clamorosa che sta facendo traboccare il vaso fragile della maggioranza e induce in queste ore un Berlusconi traballante a pensare allo strappo di governo e alla crisi, se avrà ancora i numeri. Ma il punto non è nemmeno più questo. Perché non si può aspettare che sia Berlusconi a valutare la gravità di quanto emerge a Napoli, senza che la politica, le istituzioni, i suoi antagonisti culturali e storici (cioè la sinistra) diano un nome a quanto sta emergendo e diano un giudizio. Senza che si domandino – incredibilmente – in quale Paese abbiamo vissuto in questi anni. Senza che incalzino il protagonista di questa vicenda chiedendogli di spiegare al Paese come può restare in scena – politicamente, non giudiziariamente – con un’accusa così vergognosa e circostanziata. Senza trarre le conseguenze davanti ai cittadini di una cultura politica che comporta questa pratica, la quale sconta un abuso permanente, nel segno della dismisura come fonte di potere illegittimo e dell’onnipotenza che si crede impunita.

Se le larghe intese devono silenziare la libera coscienza delle istituzioni e dei partiti, allora la stabilità diventa una ragnatela, non una risorsa. Non si tratta di anticipare sentenze. Basta molto meno per pretendere un rendiconto politico. Basterebbe una nota d’agenzia con poche parole: «Oggi il presidente del Consiglio ha avuto una conversazione telefonica con il professor Romano Prodi». Persino questo Paese capirebbe.

Accogliamoli tuttiLa Repubblica, 24 ottobre 2013, con postilla

Accogliamoli tutti, gli immigrati. Ma siamo matti? Il titolo del pamphlet di Luigi Manconi e Valentina Brinis a prima vista sembrerebbe un’astuzia dell’editore, escogitato per turbare i benpensanti: Accogliamoli tutti. Una ragionevole proposta per salvare l’Italia, gli italiani e gli immigrati (il Saggiatore, pagg. 115, euro 13). Gli autori stessi, però, ci invitano a non cadere nella trappola. Accogliamoli tutti, con le dovute precauzioni, va preso alla lettera.

La loro è tutt’altro che una provocazione estremista: si tratta di governare un flusso epocale, altrimenti lacerante. Tanto meno è un richiamo ai buoni sentimenti. Anzi. Se una precauzione innerva il saggio di Manconi e Brinis, non è certo quella di solleticare l’ostilità dei prevenuti, ma semmai di non figurare predicatori di bontà o, peggio, “buonisti”: l’orrendo neologismo abusato da anni nel dibattito pubblico sull’immigrazione, funestato dalla diffidenza e dal rancore. Manconi e Brinis enumerano le cifre avvilenti di una demografia che sembra destinare inevitabilmente l’Italia a trasformarsi in «una comunità sfilacciata e depressa, bolsa e senescente, incapace di innovazione e di invenzione».

Fanno impressione, queste cifre: il censimento del 2011 registra circa 15.000 persone che si trovano nella fascia d’età 100-105 anni. Sono più di mezzo milione gli ultranovantenni. Complessivamente, gli italiani con più di 65 anni rasentano i 13 milioni. Invece i nostri vicini di casa, le popolazioni che abitano la sponda Sud del Mediterraneo, sono composte per quasi la metà di giovani al di sotto dei 25 anni. Prescindere da tale contrasto oggettivo sarebbe solo un’ingenua rimozione: qualsiasi modello di società futura implica un governo razionale dei flussi migratori, finalizzato, per quanto ciò sia possibile, a una loro ordinata integrazione. Nessuna “mielosa retorica” dell’accoglienza, dunque. Anche perché gli immigrati «non mostrano alcuna voglia di correre in nostro soccorso». Gli ostacoli frapposti in Italia all’instaugli razione di contratti di lavoro regolari, ai ricongiungimenti familiari e alla continuità dei permessi di soggiorno, perpetuano una condizione servile e ne scoraggiano la stabilizzazione. Li abbiamo incoraggiati a sentirsi estranei. Più realisticamente, si tratta quindi di disinnescare il cortocircuito tra lo stato di marginalità in cui sono ridotti troppi immigrati; e la reazione deviante, irregolare, talora criminale che questa loro marginalità provoca.

La ministra dell’integrazione Cécile Kyenge, che firma l’introduzione del pamphlet, trae la conseguenza politica di questo ragionamento: «Ai fini della sicurezza, fanno più i diritti della repressione». In altre parole, come scrivono Manconi e Brinis, «un’accoglienza dignitosa riduce significativamente insidie e minacce». Dunque è a fini utilitaristici - per il “nostro” bene - e non sulla base di un impulso di generica solidarietà, che va radicalmente capovolta la politica fin qui seguita in materia di immigrazione. Assumere come prima finalità dell’esecutivo il presidio delle frontiere, il respingimento o l’espulsione degli irregolari, è risultato miope oltre che velleitario. Ormai lo sappiamo. L’Italia, d’intesa con l’Unione Europea, deve pianificare con lungimiranza quegli ingressi che finora si è limitata a subire. Da sei mesi Manconi è presidente della Commissione diritti umani del Senato, ma gli argomenti proposti sotto la voce Accogliamoli tutti sono di natura empirica, piuttosto che giuridica. Comunque mai ideologici. Qui si esprime il sociologo da vent’anni impegnato nella rilevazione dei comportamenti delle comunità locali costrette a fare i conti con l’immigrazione. Siamo un paese che già oggi non potrebbe fare a meno dei suoi quasi 5 milioni di stranieri residenti, l’8% della popolazione. Basti pensare che vengono dall’estero il 77,3% dei (delle) badanti. Più della metà degli addetti alle pulizie. Più di un quarto dei lavoratori edili. Quasi un terzo dei braccianti agricoli.

Se dunque possiamo considerare paradossali, retoriche, le domande poste da Manconi e Brinis - ci conviene espellerli? E se andassero via tutti? E se non venissero più? - ben più concreta appare l’incognita che pende sul nostro futuro: è proprio inevitabile che ha pagare il prezzo della faticosa integrazione degli stranieri debbano essere sempre e comunque i più poveri fra gli italiani? Benché il libro sia disseminato di numerosi esempi di integrazione riuscita nelle comunità locali, avvenuta spontaneamente o più di rado guidata da amministratori capaci, non c’è dubbio che il non governo del flusso migratorio ha alimentato un contrasto fra svantaggiati. Risultato peraltro conveniente ai soliti ben noti attori politici. Né la legge Turco-Napolitano del 1998, né tanto meno la Bossi-Fini del 2002 hanno consentito la pianificazione armonica dei flussi d’ingresso, orientandoli nella ricerca di lavoro regolare e di soluzioni abitative razionali. Per questo Accogliamoli tutti si conclude proponendo non solo l’abrogazione del reato di clandestinità, ma anche l’introduzione del visto d’ingresso per ricerca di occupazione; in luogo dell’irrealistica pretesa della normativa vigente, secondo cui l’incontro fra domanda e offerta di lavoro dovrebbe realizzarsi (chissà come) nei paesi d’origine.

Nessuna faciloneria. Nessuna celebrazione delle virtù del multiculturalismo. Il libro prende in esame anche i nodi più difficili da sciogliere in materia giuridica, come la poligamia e la mutilazione genitale femminile. Fenomeni certo ultraminoritari che necessitano di una gestione coerente con il nostro diritto, ma al tempo stesso finalizzata alla riduzione del danno. Per esempio la Coop ha risolto il problema della macellazione rituale della carne halal dopo un confronto con la Lega italiana antivivisezione: d’intesa con le comunità islamiche, si procede allo stordimento elettrico preventivo dell’animale da macellare, garantendo così la “convivenza dei valori”. Con la buona volontà, le mediazioni si trovano. Purché si riconosca che stiamo costruendo un nuovo modello sociale di cui l’immigrazione sarà componente vitale, non marginale. Lo Stato moderno europeo costruì quattro secoli fa il suo apparato repressivo nella lotta al vagabondaggio e nel contenimento dei pericoli sociali della miseria. Ma la distinzione fondata allora fra i “nostri” poveri da segregare e/o proteggere, mentre i poveri “forestieri” erano semplicemente da cacciare, non regge più le dinamiche della geopolitica e della demografia. Ne consegue, come scrive la Kyenge, che l’immigrazione deve farsi «progetto»; perché senza di essa non c’è ripresa né «risorgimento ».

Accogliamoli tutti è proposta che sgomenterà una classe politica sprovvista di visione storica, sballottata negli anni scorsi nell’oscillazione fra la pietà e lo spavento delle emozioni popolari. Temo che non sia pronta a discutere queste ragionevoli proposte per salvare gli italiani e gli immigrati. Perfino dopo la tragedia di Lampedusa abbiamo sentito ministri riproporsi portavoce di una funzione di mero contenimento; fingendo di ignorare che, mentre loro facevano la faccia feroce, in Italia si estendevano aree di irregolarità e marginalità. Inutili sentinelle di guardia a un bidone.

Due considerazioni. (1) Davvero nell'Italia di oggi solo ragionamenti utilitaristici possono bilanciare il prevalente fastidio del "diverso"? (2) "Integrazione" significa abbandono, per quelli che "accogliamo" delle loro culture perchè diverse dalla nostra, oppure accoglienza da parte nostra di culture diverse perchè ciò è necessario per lo sviluppo della civiltà della razza umana?

«La Repubblica, 24 ottobre 2013

PUOI governare con il tuo carnefice? Puoi considerare «alleato» un leader politico, pregiudicato e spregiudicato, che solo cinque anni fa ha comprato un parlamentare a suon di milioni per far cadere la tua maggioranza? Di fronte al rinvio a giudizio di Silvio Berlusconi, deciso dal Gup di Napoli nell’inchiesta sulla corruzione del senatore De Gregorio, conviene ribaltare la questione, famosa e ormai annosa, della cosiddetta «agibilità politica» del Cavaliere. Conviene guardarla dal punto di vista non delle reazioni del centrodestra, ma delle decisioni del centrosinistra. Un rinvio a giudizio non equivale ovviamente a una sentenza di condanna.Ma significa che un giudice terzo, diverso dai pubblici ministeri inquirenti, ritiene che siano state raccolte prove sufficienti a giustificare l’avvio di un processo. Nell’inchiesta Berlusconi-Lavitola-De Gregorio le prove, più che sufficienti, paiono schiaccianti. Nella primavera del 2006 l’Unione di Prodi vince per un soffio le elezioni. A Palazzo Madama ha solo 4 voti di maggioranza. Basta una modesta transumanza, e il governo va a casa. Nel luglio successivo il Cavaliere lancia la campagna acquisti. Il senatore De Gregorio già eletto nelle file dell’Idv di Di Pietro viene agganciato da uno dei faccendieri più indecenti ma più efficienti ad Arcore, Valter Lavitola. È lui che comincia a foraggiare De Gregorio: 3 milioni di euro in tutto (ne riceverà solo una parte). Con quel «tesoretto» sul conto corrente, il senatore lancia a sua volta l’«operazione Libertà». La racconta lui stesso nelle carte dell’inchiesta, spiegando che ogni passo è stato concordato con il leader del Pdl. «Era deciso a individuare il malessere di alcuni senatori che potessero determinare l’evento finale». Cioè la caduta del governo Prodi. De Gregorio dichiara agli atti: «Allora discussi a Palazzo Grazioli con Berlusconi una strategia di sabotaggio... ». La missione è: «Procurarsi voti in Parlamento».

Come procurarseli è fin troppo facile. Con il denaro, che per il Cavaliere, dalle toghe sporche alle olgettine ripulite, non è mai stato un problema. De Gregorio tenta prima con un senatore suo amico. «Dissi a Berlusconi che forse Giuseppe Caforio poteva ascriversi al ruolo degli indecisi». «Puoi offrirgli fino a cinque milioni», risponde il Cavaliere. L’abbocco fallisce: Caforio fa finta di stare al gioco, registra il colloquio e presenta una denuncia penale. Ma l’Operazione Libertà è ormai partita, e nulla può fermarla. Le prove generali iniziano il 28 febbraio 2007, quando Prodi si salva al Senato per appena tre voti. «L’evento finale » si produce il 24 gennaio 2008, dopo le dimissioni del Guardasigilli Mastella che ha saputo di una richiesta d’arresto ai danni di sua moglie da parte della procura di Santa Maria Capua Vetere. Prodi viene sfiduciato al Senato, dove va sotto per 5 voti. A impallinarlo, oltre a Mastella e a Lavitola, ci sono Lamberto Dini, Vito Scalera e Luigi Pallaro, eletto in Argentina e misteriosamente scomparso il giorno del voto.

Sono prove, queste? O solo calunnie? Sono prove, nient’altro che prove. La conferma arriva dallo stesso Lavitola, in una lettera spedita il 13 dicembre 2011 all’ancora premier Berlusconi. Valterino batte cassa per l’Avanti, e ricorda al «socio » tutto quello che ha fatto per lui. «Lei — scrive — subito dopo la formazione del governo, in questa legislatura, con Ghedini e Verdini presenti, mi disse che era in debito con me e che Lei era uso essere almeno alla pari. Era in debito per aver io “comprato” De Gregorio, tenuto fuori dalla votazione cruciale Pallaro, fatto pervenire a Mastella le notizie dalla procura di Santa Maria Capua Vetere, da dove erano arrivate le pressioni per il vergognoso arresto della moglie, e assieme a Ferruccio Saro e al povero Comincioli “lavorato” Dini. Ciò dopo essere stato io a convincerla a comprare i senatori necessari a far cadere Prodi».

Questo è dunque lo scandalo che emerge dalle carte dell’inchiesta di Napoli. Questo è il «golpe bianco» che si sospetta Berlusconi abbia ordito contro il governo Prodi. Dietro al quale, ancora una volta, si intravede non un blitz episodico. Ma piuttosto il solito e collaudatissimo «sistema corruttivo», che ricorre in tutte le vicende giudiziarie in cui il Cavaliere è stato a vario titolo condannato, coinvolto o prosciolto (grazie alle prescrizioni e alle leggi ad personam). Un «metodo» che ha funzionato per le tangenti alla Gdf e per Mills, per il Lodo Mondadori e per i diritti tv. E se ha dato frutti nell’affare De Gregorio, è lecito pensare che ne abbia generati sia per il primo ribaltone dei due senatori che salvarono il Berlusconi I nel 1994, sia nella campagna acquisti dei «Responsabili» che salvarono il Berlusconi IV nel 2010.

Il processo di Napoli si aggiunge alla lunga sequenza di conti in sospeso che il Cavaliere intrattiene tuttora con la giustizia. Dopo la condanna definitiva per i diritti tv Mediaset, l’interdizione di due anni dai pubblici uffici sui quali dovrà pronunciarsi la Cassazione, il voto dell’aula di Palazzo Madama sulla decadenza, l’appello del processo Ruby per prostituzione minorile e concussione e l’uscita delle motivazioni della condanna di primo grado nello stesso processo (prevista per metà novembre). Basterebbe un’occhiata all’agenda giudiziaria dell’ex premier, per liquidare con un sorriso amaro le pretese di «pacificazione », le parole al vento sui doverosi «atti di clemenza», le pressioni inaccettabili su un fantomatico «motu proprio» del Capo dello Stato, le allusioni insopportabili su un ipotetico indulto ad personam del Parlamento. Non c’è scudo possibile, per un imputato-condannato di questo calibro. Non si tratta di consumare una vendetta ideologica, né di realizzare un’eliminazione politica per via giudiziaria. Più semplicemente: anche volendo (e nessuno che abbia a cuore lo stato di diritto dovrebbe volerlo) non esistono nei codici dell’Occidente «condoni tombali» che cancellino le pendenze penali passate, presenti e soprattutto future.

Il Pdl è squassato da una strana lotta intestina. Eredi rissosi si contendono inutilmente il lascito di un «de cuius» che nonostante tutto resta più vivo che mai. Di fronte alle pessime notizie che arrivano dai tribunali, i «parenti della vittima» celebrano il rito stanco di sempre. «Persecuzione», «caccia all’uomo», «attentato alla democrazia». Parole violentate, abusate, svuotate di senso. Ma lanciate come pietre contro la sinistra «togata» e contro il governo Letta. Immaginare un futuro radioso per le Larghe Intese, a questo punto, è illusorio. I segnali di rottura erano già numerosi, dalla legge di stabilità all’antimafia. Ma ora, com’era facile prevedere, è l’ossessione giudiziaria che domina la scena a Villa San Martino e a Palazzo Grazioli. Il rinvio a giudizio di Napoli segna un possibile punto di svolta. Non tanto giudiziario, quanto politico. Di fronte all’enormità dell’ultima imputazione, si torna alla domanda iniziale. C’è da chiedersi se non tocchi alla sinistra riformista il «dovere» di rompere l’alleanza innaturale con l’uomo che ha ucciso il governo Prodi, comprando quattro traditori per trenta denari. Piuttosto che concedere ancora una volta a una destra irresponsabile il «diritto» di far saltare il tavolo, legando indissolubilmente e colpevolmente i destini della nazione a quelli del suo «Cavaliere dell’Apocalisse».

«a Repubblica, 23 ottobre 2013

So bene quanto sia difficile, oggi in Italia, una discussione ispirata a criteri di ragione e rispetto. È quel che sta accadendo per il tema della riforma della Costituzione. Ma questo non deve indurre a ritrarsi da una discussione che trova talora toni sgradevoli. Impone, invece, di fare ogni sforzo perché una questione davvero fondamentale possa essere affrontata in modo rispettoso dei dati di realtà e delle diverse posizioni in campo.
Quel che si sta discutendo è l’assetto futuro della Repubblica, l’equilibrio tra i poteri, lo spazio stesso della politica, dunque il rapporto tra istituzioni e società delineato dalla Costituzione, il patto al quale sono consegnate le ragioni del nostro stare insieme. Tuttavia, prima di affrontare questioni così impegnative, è necessario ristabilire alcune minime verità. Nell’affannosa ricerca di argomenti a difesa della strada verso la revisione costituzionale scelta da governo e maggioranza, infatti, si sta operando un vero e proprio stravolgimento della posizione di alcuni critici di questa scelta. Premono le ragioni della propaganda e così si alzano i toni, con una mossa rivelatrice dell’intima debolezza delle proprie ragioni. Spiace che in questa operazione si sia fatto coinvolgere lo stesso presidente del Consiglio, che non perde occasione per additare i critici come quelli che vogliono rendere impossibile la riduzione del numero dei parlamentari, l’uscita dal bicameralismo paritario, la riscrittura dello sciagurato titolo V della Costituzione sui rapporti tra Stato e Regioni.
Ripeto: questa è una assoluta distorsione della realtà. Fin dall’inizio di questa vicenda, di fronte al “cronoprogramma” del governo era stato indicato un cammino diverso, che sottolineava proprio la possibilità di una rapida approvazione di riforme per le quali esisteva già un vasto consenso sociale, appunto quelle ricordate prima. Se governo e Parlamento avessero subito seguito questa indicazione, è ragionevole ritenere che saremmo già a buon punto, vicini ad una dignitosa riscrittura di norme della Costituzione concordemente ritenute bisognose di modifiche. Come si sa, è stata scelta una strada diversa, tortuosa e pericolosa, con variegate investiture di gruppi di “saggi” e con l’abbandono della procedura di revisione indicata dall’articolo 138 della Costituzione. I tempi si sono allungati e i contrasti si sono fatti più acuti.
Questo non è un dettaglio, come vorrebbero farlo apparire quelli che, con sufficienza, invitano a guardare al merito delle proposte e a non impigliarsi in questioni meramente procedurali. Quando si tratta di garanzie, la regola sulla procedura è tutto, dà la certezza che un obiettivo così impegnativo, come la revisione costituzionale, non venga piegato a esigenze strumentali, a logiche congiunturali. È proprio quello che sta avvenendo, sì che non è arbitrario ritenere che la strada scelta nasconda un altro proposito – quello di agganciare a riforme condivise anche una forzatura, riguardante il cambiamento della forma di governo.
È caricaturale, e improprio, descrivere la discussione attuale come un conflitto tra conservatori e innovatori. Si stanno confrontando, e non da oggi, due linee di riforma. Di fronte a quella scelta da governo e maggioranza non v’è un arroccamento cieco, un pregiudiziale no a qualsiasi cambiamento. Vi è una proposta diversa, che può essere così riassunta:rispetto della procedura dell’articolo 138, avvio immediato delle tre specifiche riforme già citate, mantenimento della forma di governo parlamentare rivista negli aspetti che appaiono più deboli.
Torniamo, allora, alle questioni più generali. Da alcuni anni si è istituita una relazione perversa tra
emergenza economica, impotenza politica e cambiamenti della Costituzione. Con una accelerazione violenta, e senza una vera discussione pubblica, nel 2012 è stata approvata una modifica dell’articolo 81 della Costituzione, prevedendo il pareggio di bilancio. Allora si chiese, invano, ai parlamentari di non approvare quella riforma con la maggioranza dei due terzi, per consentire di promuovere eventualmente un referendum su un cambiamento tanto profondo. La ragione era chiara. Si parla molto di coinvolgimento dei cittadini e si dimentica che quella maggioranza era stata prevista quando la legge elettorale era proporzionale, dando così garanzie in Parlamento che sono state fortemente ridotte dal passaggio al maggioritario.
Oggi la stessa richiesta viene rivolta ai senatori che si accingono a votare in seconda lettura la modifica dell’articolo 138. Vi sarà tra loro un gruppo dotato di sensibilità istituzionale che accoglierà questo invito, affidando anche ai cittadini il giudizio sulla sospensione di una procedura di garanzia che altri, in futuro, potrebbero utilizzare invocando qualche diversa urgenza o emergenza? Non basta, infatti, aver previsto un referendum alla fine dell’iter della riforma finale, se rimane un dubbio sulla correttezza del modo in cui quel cammino è cominciato. La discussione sul merito delle proposte assume significato diverso se queste non alterano l’impianto costituzionale e sono già sorrette da consenso sociale, come quelle più volte citate, o se invece implicano un mutamento della forma di governo. Per quest’ultima, nella relazione del Comitato dei “saggi” sono state fatte due operazioni.
In via generale, sono state legittimate tre ipotesi tra loro ben diverse. E poi si è indicata tra queste una sorta di mediazione, definita come “forma di governo parlamentare del Primo Ministro”, che in realtà introduce un presidenzialismo mascherato, costituzionalizzando l’indicazione sulla scheda del candidato premier e ridimensionando così il potere di nomina da parte del presidente della Repubblica e quello del Parlamento di dare la fiducia. Ha detto bene Gaetano Azzariti sottolineando che così si realizza «l’indebolimento della forma di governo parlamentare e il definitivo approdo in Costituzione delle pulsioni presidenziali». Una politica debole cerca così una scorciatoia efficientista attraverso un accentramento/ personalizzazione dei poteri e sembra rassegnarsi ad una crisi dei partiti che, incapaci di presentarsi come effettivi rappresentanti dei cittadini, non sono più in grado di cogliere la pienezza del ruolo dell’istituzione in cui sono presenti, il Parlamento, alterando così gli equilibri costituzionali.
Ma l’assunzione della logica dell’emergenza e della pura efficienza svuota lo spazio costituzionale di tutto ciò che si presenta come “incompatibile” con essa. I diritti fondamentali sono respinti sullo sfondo e si perde il loro più profondo significato, in cui si esprime non solo il riconoscimento della persona nella sua integralità, ma un limite alla discrezionalità politica che, soprattutto in tempi di risorse scarse, deve costruire le sue priorità partendo proprio dalla garanzia di quei diritti. Sbagliano quelli che, con una mossa infastidita, dichiarano l’irrilevanza della discussione sulle riforme di fronte ai bisogni reali delle persone. Questi vengono sacrificati proprio perché la politica ha perduto la sua dimensione costituzionale, e fa venir meno garanzie in nome di un’efficienza tutta da dimostrare, come accade per il lavoro. Se non si coglie questo nesso, rischiano d’essere vane anche le iniziative su questioni specifiche, e i lineamenti della Repubblica verranno stravolti assai più di quanto possa accadere con un mutamento della forma di governo.

«I selvaggi che dovevano devastare il centro di Roma hanno dunque compiuto il capolavoro di svelare l'esistenza di un mondo sempre più numeroso prodotto dalle politiche antipopolari dell'Europa e del mondo della finanza».

Il manifesto, 23 ottobre 2013

Il sistema della comunicazione ha dovuto mostrare a tutto il mondo che in uno dei luoghi simbolici della capitale era stata costruita una grande tendopoli abitata da emigrati, da giovani e da famiglie che non possono permettersi di pagare l'affitto di un modesto alloggio. I selvaggi che dovevano devastare il centro di Roma hanno dunque compiuto il capolavoro di svelare l'esistenza di un mondo sempre più numeroso prodotto dalle politiche antipopolari dell'Europa e del mondo della finanza.

E proprio dalla tragica involuzione del mondo finanziario che è utile ripartire. Luigi Luzzatti che scrisse e fece approvare nel 1903 la prima legge istitutiva per le case popolari era infatti un economista e un banchiere: qualche decennio prima aveva fondato la Banca popolare di Milano. Pur essendo esponente della destra storica italiana aveva chiara una verità che sfugge ai ciechi liberisti di oggi: una parte delle classi popolari non ha la ricchezza sufficiente per accedere al libero mercato abitativo ed era dunque dovere dello Stato risolvere il loro problema. Una convinzione maturata all'interno del grande conflitto sociale della fine dell'800 in cui il movimento operaio seppe porsi come protagonista assoluto.
Nel ventennio che ha cancellato d'ufficio il conflitto sono aumentate in modo intollerabile le disuguaglianze sociali.

Il grande corteo di sabato era formato in larga parte di giovani che hanno compreso perfettamente che questa economia li sta facendo scivolare verso condizioni inaccettabili. E mentre un numero sempre più grande di cittadini e di famiglie paga duramente il fallimento del sistema economico di rapina dominante, il circolo ristretto dei cacciatori dei grandi appalti pubblici continua a far festa. Per il Mose di Venezia spenderemo 5, 6 miliardi di euro mentre il gruppo dirigente dell'opera è in galera per malversazioni e - addirittura - per infiltrazioni mafiose. Per la follia del ponte di Messina abbiamo gettato in pasto alle solite principali imprese centinaia di milioni per progetti inutili. Per realizzare il collegamento tra Torino e Lione spenderemo più di dieci miliardi di euro. La lucidità con cui il corteo di sabato ha posto il problema della fine della rapina alle casse dello Stato per le grandi opere inutili e la diversa utilizzazione di quella ricchezza per risolvere i problemi reali dei cittadini è un grande capolavoro politico di cui occorre dare il merito ai dirigenti del movimento: si è infatti delineata in modo radicale la riforma del bilancio dello Stato.

Il secondo grande merito è la richiesta di un reale piano per l'emergenza abitativa nelle grandi città. Lo stesso gruppo dirigente dei costruttori nazionali ha dovuto ammettere che mancano almeno 500 mila alloggi popolari: la fascia del disagio abitativo riguarda dunque 4 o 5 milioni di italiani. Da venti anni la cultura dominante ha imposto che si parlasse di questo dramma sociale soltanto come un problema di ingegneria manageriale: housing sociale, project financing e tante altre fumisterie sono servite per dividersi la torta dei finanziamenti pubblici e far scomparire i bisogni sociali reali. E' ora di chiudere questa fase.

Terzo grande merito: di fronte ai milioni di cittadini che non hanno casa e all'esercito di giovani che non trova lavoro, la soluzione offerta dall'attuale governo è la vendita del patrimonio pubblico. Il movimento chiede che questo immenso patrimonio, che appartiene alla collettività intera, venga utilizzato per risolvere il problema della casa e, per gli immobili non abitativi si aprano le possibilità di avviare esperienze di imprese giovanili che oggi non possono accedere al mercato immobiliare. Un modo per costruire nuova occupazione.

Tre pilastri di una nuova visione della società hanno finalmente fatto irruzione nell'agenda politica e istituzionale del paese. Non deve sfuggire questa novità e il fatto che l'iniziativa di sabato ha importanti sinergie con il vasto mondo dei movimenti che hanno contrastato le politiche dominanti, elaborando in questi anni i germi di una cultura alternativa. Il sapere che si è costruito sui beni comuni a partire dalla commissione presieduta da Stefano Rodotà. Il pensiero sull'applicazione rigorosa della Costituzione italiana nel campo della tutela del paesaggio sostenuto da Salvatore Settis e Paolo Maddalena. Le elaborazioni sull'uso pubblico della Cassa depositi e prestiti preda oggi delle peggiori attenzioni speculative proposto da Attac. I movimenti per la difesa della dignità del lavoro e l'uguaglianza guidati dai sindacati.
Le tende di Porta Pia possono dunque rappresentare il precipitato per la ricomposizione di idee e mobilitazioni costruite in questi anni di resistenza al pensiero unico. Si tratta di non sprecare questa preziosa occasione.

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