La Fiom non cambia linea. Chi ha letto nella conclusione unitaria dell'assemblea nazionale dei delegati e nella buona accoglienza riservata a Susanna Camusso un cambiamento di rotta dei metalmeccanici Cgil, un rientro «nei ranghi», ha preso un abbaglio. Parola di Maurizio Landini. Il segretario generale della Fiom ci rilascia questa intervista a conclusione dell'assemblea degli «indignati», in preparazione della giornata europea del 15 ottobre. Segno anche questo che la linea non cambia, e non cambiano le alleanze: con gli studenti, i precari, l'ambientalismo, i movimenti nati sul territorio contro le politiche liberiste e antipopolari. L'obiettivo è «la riunificazione delle lotte che hanno al centro diritti, dignità, un modello di sviluppo alternativo a quello che cancella ogni vincolo sociale e ambientale».
A pochi giorni dalla ratifica della firma di Susanna Camusso con Cisl, Uil e Confindustria, in calce all'accordo del 28 giugno che voi contestate, improvvisamente la Fiom ritrova l'unità e si riapre positivamente il confronto con la Cgil? Chi è andato a Canossa, tu o la Camusso?
Nessuno dei due. Io sono un sindacalista e sto al merito delle questioni: sulle politiche contrattuali, sia l'opposizione agli accordi separati che la rottura con la Fiat di Marchionne non hanno visto forti divisioni tra Fiom e Cgil. Comune è il giudizio negativo sull'articolo 8 della manovra. Noi abbiamo costruito una proposta convincente e condivisa sulla piattaforma contrattuale con un lavoro determinato nel territorio nell'ultimo anno e mezzo segnato da difficoltà e conflitti. Un'esperienza che ha unito l'organizzazione e rafforzato il rapporto con i lavoratori, ma anche posto le condizioni per una ripresa di un confronto più sereno con la nostra confederazione, che ha assunto la piattaforma votata quasi all'unanimità. Ciò non toglie che sull'accordo del 28 giugno e sulla decisione di ratificare la firma della Cgil senza consultare i lavoratori restano due giudizi diversi, esplicitati nella mia relazione, nell'intervento di Camusso e nel dibattito. La dialettica è molto forte, ma è possibile uscirne positivamente.
Veniamo alla piattaforma contrattuale. Quali sono gli aspetti caratterizzanti?
Al primo punto metterei la definizione di un accordo con tutte le controparti sulle regole democratiche, per evitare nuovi accordi separati. Come? Innanzitutto garantendo sempre il voto dei lavoratori. Questa condizione non è garantita dall'accordo del 28 giugno, e tantomento dall'articolo 8 della manovra. Chiediamo a tutti, sindacati e organizzazioni imprenditoriali, un atto di responsabilità per chiudere una stagione orribile, segnata da idee e contratti diversi: c'è chi come noi riconosce quello del 2008 oggi in scandenza e chi invece si rifà a quello separato del 2009. La Fiom vuole riconquistare il contratto unitario, sottoscritto da tutti, questo è l'asse portante della nostra piattaforma assunta dalla Cgil.
Fa discutere la disponibilità della Fiom a raffreddare il conflitto. Non sarà un modo sotterraneo per accettare la sospensione del diritto di sciopero?
Noi difendiamo il contratto nazionale, il suo primato all'interno del sistema contrattuale, la sua non derogabilità. In qualche caso, penso all'informatica o alle istallazioni telefoniche, è possibile che il contratto nazionale che resta uguale per tutti e ovunque, demandi al contratto aziendale la definizione di normative congrue con la specificità dei singoli settori, in materia di orari, trasferte e quant'altro. Vogliamo anche noi qualificare la contrattazione nelle aziende e il ruolo delle Rsu, e a questo scopo chiediamo alle controparti informazioni preventive sulle eventuali modifiche dell'organizzazione del lavoro, sulle ristrutturazioni, sui progetti, sui trasferimenti, per farla finita con l'unilateralità delle imprese. Se si accetta questo principio, se dentro la crisi si riconosce il ruolo del sindacato e si smette di attaccare i diritti dei lavoratori, allora anche noi siamo disponibili ad evitare azioni unilaterali. Oggi non abbiamo né informazioni né confronto sindacale ma solo aggressioni ai diritti sindacali e del lavoro. Senza un accordo chiaro, controfirmato e rispettato è impensabile qualsiasi raffreddamento del conflitto.
Che cosa ha prodotto in piattaforma il rapporto costruito con il mondo giovanile e il precariato?
Ci diciamo disponibili a un maggior utilizzo degli impianti previa contrattazione, ma se ci si chiede di andare oltre la situazione attuale, si pone il problema della riduzione degli orari e l'aumento dell'occupazione. E alle controparti chiediamo di sviluppare un'azione comune nei confronti del governo per favorire la stabilizzazione dei precari. Ribadiamo, a parità di prestazione parità di diritti e condizioni lavorative. Le forme di lavoro temporaneo devono costare di più, proprio per stabilizzare i lavoratori. Infine, accettiamo la trimestralizzazione del contratto e per questo chiediamo un aumento salariale di 208 euro tra il 3° e il 5° livello. Questo aumento dovrebbe essere detassato.
Come pensate di continuare la battaglia contro l'articolo 8 della manovra?
Andremo avanti fino al ripristino del diritto del lavoro, la nostra piattaforma è alternativa all'articolo 8. Qui c'è un punto di unità con la Cgil e con il paese, come testimonia lo straordinario successo dello sciopero del 6 settembre che ha convinto tante persone anche esterne alla Cgil, magari iscritte ad altre organizzazioni. Condividiamo la scelta della confederazione di ricorrere alla Corte costituzionale, ma se ciò non bastasse dovremmo continuare con le lotte, fino a organizzare un referendum popolare abrogativo dell'articolo 8. Non sarà soltanto questa battaglia a caratterizzare l'iniziativa della Fiom. Abbiamo deciso 8 ore di sciopero per proseguire nel territorio la mobilitazione avviata con lo sciopero generale. Poi terremo un'assemblea generale dei delegati Fiat per decidere insieme iniziative, così come avverrà in altri gruppi come la Finmeccanica. L'obiettivo resta la riunificazione delle lotte, a cui non è estraneo l'impegno sociale per la caduta del governo Berlusconi.
La battaglia contro Berlusconi legittima l'alleanza con la Confindustria che chiede più privatizzazioni e liberalizzazioni, mentre pratica l'attacco ai diritti?
Certo che no. Ho letto il manifesto di Confindustria, teso a peggiorare le politiche sociali ed economiche del governo. Noi ci battiamo contro la filosofia che ha prodotto la crisi e contro una risposta che si fonda sulla stessa filosofia e sulle stesse persone.
Hai faticato a spiegare agli indignati che la Fiom non cambia la sua linea in nome di esigenze superiori?
Nessuna fatica, e per altro nessun sospetto all'assemblea sul 15 ottobre. La Fiom è un sindacato, le sue posizioni e le sue battaglie sono note e se queste incontrano la condivisione della Cgil credo che ciò faccia bene alla Fiom, alla Cgil, ai lavoratori e ai movimenti.
Per il Partito democratico, stanco di tenere a bada le sue rissose anime sindacali, più numerose degli operai iscritti al partito, è una gran bella notizia: la Cgil, per mano della sua segretaria generale, ha ratificato l'accordo che sancisce la controriforma del sistema contrattuale, manda in pensione il contratto nazionale con il meccanismo perverso delle deroghe e toglie ai lavoratori il diritto di votare sugli accordi che riguardano la loro vita e il loro lavoro. Hanno vinto la Confindustria di Emma Marcegaglia che voleva cancellare gli ultimi vincoli sociali (e costituzionali) allo strapotere del capitale e il segretario della Cisl Raffaele Bonanni che incassa l'isolamento della Fiom.
La Fiom, l'ultima trincea che resiste all'attacco all'autonomia del lavoro e all'indipendenza del sindacato. Ha vinto anche Maurizio Sacconi, il peggior ministro del lavoro della storia d'Italia, che ha imposto nella manovra l'articolo 8 con cui si fa piazza pulita della contrattazione e si introduce addirittura la retroattività della norma che deroga ai contratti nazionali attraverso l'uso spregiudicato dei contratti aziendali siglati da sindacati di comodo. Un regalo alla Fiat di Marchionne, l'eroe dei due mondi che chiude uno stabilimento dopo l'altro, perde ovunque quote di mercato, viene declassato per i suoi debiti ma continua a volerla fare da padrona, con la conseguenza di vedere il conflitto operaio estendersi dagli stabilimenti del vecchio a quelli del nuovo mondo.
Un vero capolavoro: Cgil, Cisl, Uil e Confindustria di nuovo insieme. A pochi giorni dallo straordinario successo dello sciopero generale indetto dalla Cgil, il sindacato di Susanna Camusso rientra nei ranghi - e per tanti di quelli che il 6 settembre avevano scioperato e riempito le piazze di tutt'Italia sperando nell'inizio di una nuova storia, questa normalizzazione verrà vissuta come una debacle, e al vuoto di una sponda politica per i più colpiti dalla crisi e dalle manovre classiste si aggiunge la caduta di una sponda sociale. Perché la firma definitiva dell'accordo del 28 giugno non argina l'effetto mortifero per la democrazia dell'articolo 8 di Sacconi, ne è anzi la premessa e lo giustifica. La Cgil, con questa firma che non è legittimata da alcuna consultazione tra i lavoratori, rompe con la sua storia democratica e secondo la minoranza interna, ridotta al silenzio con una pratica che scavalca ogni centralismo democratico e rimanda alla stagione delle purghe staliniane degli anni Trenta, persino con il suo statuto. Non solo agli operai è negato il diritto di voto sui contratti e gli accordi, neanche possono più esprimersi sulle scelte del proprio sindacato.
Hai voglia a prendetela con l'antipolitica di chi dice sono tutti uguali, o a mettere l'insufficienza sui compiti di chi riduce tutto al conflitto contra la casta, se anche la parte "sana" del sindacato, quella non arruolata nelle fila dell'avversario di classe, fa prevalere una indecente interpretazione dell'autonomia del politico che cancella quella del sindacato. Forse Berlusconi sta per cadere, allora tutti insieme per la nuova Italia, insieme alla Confindustria che attacca il governo anche se lo fa da un versante iperliberista chiedendo privatizzazioni, attaccando salari diritti e pensioni di chi già oggi non ce la fa più a campare. È una logica suicida, quella del Pd e della maggioranza della Cgil: purché siano contro Berlusconi sono nostri alleati. Persino i burocrati di Standard&Poor's vengono promossi al rango di compagni. Non siamo certo alla fine della storia, ma sicuramente al suo arretramento. La Cgil e la sua segretaria dovranno però fare i conti con la realtà, e forse anche con la loro base sociale. Già a partire da oggi all'assemblea nazionale dei delegati Fiom, dove è attesa proprio Susanna Camusso.
«L'economia mondiale sta diventando sempre più ingiusta e insostenibile: uccide più delle bombe». «Quest'ingiustizia affonda le radici in un neoliberismo che non sa rispondere ai veri bisogni delle persone» e cresce in un'economia che privilegia «le rendite finanziarie e i guadagni speculativi anziché la produzione, la crescita quantitativa anzichè la qualità, lo sfruttamento della natura e dell'ambiente anziché la loro protezione». Dopo la crisi finanziaria di questi mesi non è difficile essere d'accordo con questa critica.
Ma queste parole erano scritte 14 anni fa nell'appello della Marcia Perugia-Assisi "Per un'economia di giustizia" del 12 ottobre 1997. La Tavola della Pace, nata in quell'occasione, portò centomila persone a chiedere - con indubbia capacità di anticipazione - un'economia meno ingiusta. La pace si costruisce con la giustizia, e l'ingiustizia dell'economia che si globalizza è la fonte principale dei conflitti, «uccide più delle bombe». La soluzione è in un ordine internazionale che faccia a meno delle armi e che riduca sottosviluppo e disuguaglianze. Per farlo, il potere dei mercati, della finanza e delle grandi imprese multinazionali deve cedere il passo agli strumenti della politica e ai diritti delle persone. Questo il filo del discorso di allora.
L'analisi era precisa: le disuguaglianze aumentano ovunque, i problemi di sopravvivenza della parte più povera dell'umanità sono irrisolti, il sottosviluppo genera disastri ambientali, lotta per le risorse, conflitti senza fine. L'ingiustizia viene dal neoliberismo e da una logica di profitto che impedisce il benessere di tutti; il mercato calpesta le persone e i benefici di tutto questo vanno ad «alcuni paesi più forti e alcune élite economiche e sociali, aumentando la marginalizzazione di milioni di persone».
Qualcosa è cambiato da allora, non molto nella sostanza. Allora non si immaginava che l'Italia sarebbe stata messa fuori così presto dal gruppo dei paesi forti, che da allora a oggi il Pil italiano in termini reali non sarebbe praticamente aumentato. Cina, India, altri paesi asiatici, alcuni paesi dell'America latina hanno avuto un rapido sviluppo, i redditi medi sono aumentati, ma così pure le disuguaglianze interne a quei paesi. L'ingiustizia non è diminuita. L'insostenibilità del modello neoliberista ha portato al grande crollo del 2008 e alla recessione attuale, ma il potere politico ed economico resta aggrappato all'intoccabilità della finanza e al mito dell'efficienza dei mercati. Così l'insostenibilità si aggrava. È cambiato - denunciato solo dai pacifisti - il ricorso alla forza militare, tornato all'ordine del giorno. Dalla guerra nei Balcani del 1999 ai bombardamenti in Libia di oggi - passando per le guerre del Golfo e in Afghanistan - l'Occidente e il nostro paese si sono rimessi a fare la guerra per imporre un ordine neocoloniale, occasionalmente travestito con la tutela dei diritti umani. Le vittime - e le conseguenze - si moltiplicano.
Che cosa si chiedeva, 14 anni fa, ai potenti dell'economia? Partire dalle persone, battersi contro povertà e disuguaglianze, dare lavoro a tutti e dare dignità al lavoro, mettere cooperazione, democrazia e sostenibilità dentro l'economia. Mentre la globalizzazione neoliberista costruiva i suoi pilastri - il "consenso di Washington" e l'Organizzazione mondiale per il commercio (Wto) - i pacifisti chiedevano ai governi un'autorità politica sovranazionale che bilanciasse il potere dell'economia globale e la perdita di sovranità degli stati. La scommessa era di democratizzare e riformare il sistema delle Nazioni Unite, dare spazio all'agenda illuminata delle grandi conferenze Onu degli anni '90 - sull'ambiente, le donne, lo sviluppo sociale, il razzismo, etc. - e alle convenzioni sul lavoro dell'Organizzazione internazionale del lavoro dell'Onu - creando una possibile difesa contro una globalizzazione pagata dai lavoratori.
Quest'offensiva "cosmopolitica" ha avuto pochi risultati, l'Onu si è ripiegata su se stessa, soprattutto negli anni bui delle presidenze Bush, le conferenze Onu a dieci anni di distanza hanno tutte registrato un arretramento degli obiettivi di cambiamento. Ma anche la globalizzazione è finita, prima ancora della crisi del 2008; la spinta propulsiva del libero commercio e del Wto si è esaurita, si è affermata una dinamica regionale - in Asia e America latina come in Europa - che diversifica le traiettorie di sviluppo. Agli organismi sovranazionali - Fmi e Banca mondiale - si chiedeva di cambiare politica e «la cancellazione del debito estero dei paesi impoveriti, che ha raggiunto la cifra record di circa 2000 miliardi di dollari». Ora il debito del terzo mondo non è più cosi pesante, e l'Italia da sola supera quella cifra, con un debito che in dollari vale 2700 miliardi. Perfino il Fondo monetario ha moderato la sua ortodossia liberista; in compenso, la sua vittima più recente è diventata la Grecia. Alle politiche dei governi si chiedeva di «redistribuire le ricchezze, di offrire nuova occupazione anche riducendo gli orari di lavoro», di tutelare i diritti dei lavoratori, di dare spazio alle donne e all'economia solidale. Su questo fronte nulla è stato fatto, continuiamo ad arretrare rispetto a 14 anni fa, le richieste di oggi sono le stesse. Il sistema politico degli stati sembra più immobile di quello mondiale.
Per i pacifisti, poi, c'era la «responsabilità di agire». Non solo marce e proteste. Si è lavorato a costruire reti transnazionali di società civile capaci di proporre alternative, che avessero ascolto nelle istituzioni globali. Per questo 14 anni fa a Perugia si tenne - prima della marcia - la prima Assemblea dell'Onu dei popoli con un centinaio di rappresentanti di movimenti, associazioni, comunità locali di altrettanti paesi diversi. E due anni dopo, nel 1999, la successiva Assemblea dell'Onu dei popoli si intitolava "Un altro mondo è possibile": tre mesi dopo ci fu la rivolta di Seattle contro l'Omc e un anno e mezzo dopo il primo Forum sociale mondiale di Porto Alegre scelse lo stesso titolo. Incontri di massa di questo tipo tra i movimenti di tutto il mondo sono diventati appuntamenti regolari, e la società civile - con le sue reti, campagne, eventi - è diventata un soggetto visibile e influente sulla scena globale.
Agire ha voluto dire fare dell'economia di giustizia un tema condiviso da centinaia di associazioni ed enti locali, capace di mettere in moto migliaia e migliaia di persone, aprendo la via alle proteste di massa degli anni successivi contro la globalizzazione liberista, fino al G8 di Genova del 2001. Agire ha voluto dire incalzare la politica ad affrontare le ingiustizie, proporre alternative. Nel 2005 all'Assemblea dell'Onu dei Popoli ci fu un confronto con Romano Prodi, candidato del centrosinistra alle elezioni (vittoriose) dell'anno successivo. Fece qualche apertura sul ritiro italiano dalla guerra in Iraq, ma la sua difesa della globalizzazione come forza positiva fu inflessibile, lo stesso per l'integrazione europea guidata da mercati e moneta. Inevitabile la delusione per i risultati della sua politica. Un'esperienza che meriterebbe un nuovo confronto, a Perugia quest'anno. Chissà se il centrosinistra sa imparare dagli errori che il crollo del 2008 e la crisi dell'euro hanno ora messo sotto gli occhi di tutti?
Oggi come 14 anni fa i nodi irrisolti restano il potere dei mercati, della finanza e delle imprese, e l'assenza di una politica capace di affrontare le ingiustizie, nazionali e globali. Qui si misura il fallimento di un'Europa che ha costruito la sua integrazione sul liberismo e la finanza, e ora si trova sotto l'attacco della speculazione, divisa e indebolita. Troppe cose non sono state fatte allora. L'agenda per cambiare non è cambiata. Per limitare il potere della finanza si chiedeva già allora la Tobin Tax sugli scambi di valute. Impensabile e irrealizzabile, ci rispondevano. Ora la fattibilità della tassa sulle transazioni finanziarie è sostenuta da Fmi e Ue (Merkel compresa), però manca ancora la volontà politica di introdurla. Più aiuti allo sviluppo si chiedevano allora; i governi dei paesi ricchi si sono reimpegnati all'Onu nel 2000 a destinare lo 0,7% del loro Pil agli aiuti allo sviluppo, ma hanno subito mancato le promesse; con la crisi attuale gli aiuti sono i primi tagli effettuati. Più occupazione e diritti per tutti i lavoratori, si chiedeva. Ora l'Unione europea ha 23 milioni di disoccupati e in più 15 milioni con lavori temporanei, a tempo pieno o parziale: una precarizzazione generale che 14 anni fa non avremmo sospettato.
Le alternative ci sono, oggi come allora. Le forze del cambiamento anche, unite da un filo che attraversa le mobilitazioni di decenni. Pacifisti e movimenti saranno ancora sulla strada da Perugia ad Assisi, l'appuntamento è per la mattina presto, domenica 25 settembre 2011.
Il sostegno che i vertici della Chiesa continuano a dare a Berlusconi è non solo uno scandalo, ma sta sfiorando l´incomprensibile. Che altro deve fare il capo di governo, perché i custodi del cattolicesimo dicano la nuda parola: «Ora basta»? Qualcosa succede nel loro animo quando leggono le telefonate di un Premier che traffica favori, nomine, affari, con canaglie e strozzini? Non sono sufficienti le accuse di aver prostituito minorenni, di svilire la carica dimenticando la disciplina e l´onore cui la Costituzione obbliga gli uomini di Stato? Non basta il plauso a Dell´Utri, quando questi chiamò eroe un mafioso, Vittorio Mangano? Cosa occorre ancora alla Chiesa, perché si erga e proclami che questa persona, proprio perché imperterrita si millanta cristiana, è pietra di scandalo e arreca danno immenso ai fedeli, e allo Stato democratico unitario che tanti laici cattolici hanno contribuito a costruire?
Un tempo si usava la scomunica: neanche molto tempo fa, nel ´49, fu scomunicato il comunismo (il fascismo no, eppure gli italiani soffrirono il secondo, non il primo). Se Berlusconi non è uomo di buona volontà, e tutto fa supporre che non lo sia, la Chiesa usi il verbo. Ha a suo fianco la lettera di Paolo ai Corinzi: «Vi ho scritto di non mescolarvi con chi si dice fratello, ed è immorale o avaro o idolatra o maldicente o ubriacone o ladro; con questi tali non dovete neanche mangiare insieme. Spetta forse a me giudicare quelli di fuori? Non sono quelli di dentro che voi giudicate? Quelli di fuori li giudicherà Dio. Togliete il malvagio di mezzo a voi!».
Anche l´omissione è complicità. Sta accadendo l´intollerabile dal punto di vista morale, in politica, e i vertici della Chiesa tacciono: dunque consentono. Si può scegliere l´afonia, certo, o il grido inarticolato di disgusto: sono moti umani, ma che bisogno c´è allora di essere papa o vescovo? (avete visto, in Vaticano, Habemus Papam?). Dicono che parole inequivocabili son state dette: «desertificazione valoriale», «società dei forti e dei furbi», «cultura della seduzione». Ma sono analisi: manca la sintesi, e le analisi stesse son fiacche. D´un sol fiato vengono condannati gli eccessi dei magistrati, pareggiando ignominiosamente le condanne. Da troppo tempo questo è, per tanti laici cattolici scandalizzati ma non uditi, incomprensibile. Quasi che il ritardo nella presa di coscienza fosse ormai connaturato nella Chiesa. Quasi che l´espiazione (penso ai mea culpa di Giovanni Paolo II, nobili ma pur sempre tardivi) fosse più pura e santa che semplicemente non fare il male: qui, nell´ora che ci si spalanca davanti.
Un gesto simile a quello di Cristo nel tempio, un no inconfondibile, allontanerebbe Berlusconi dal potere in un attimo. Alcuni veramente prezzolati resterebbero nel clan. Ma la maggior parte non potrebbero mangiare insieme a lui, senza doversi ogni minuto giustificare. Non è necessario che l´espulsione sia resa subito pubblica, anche se lo sapete, uomini di Chiesa: c´è un contagio, del male e del malaffare. Forse basterebbe che un alto prelato vada da Berlusconi, minacci l´arma ultima, la renda nota a tutti. Questa è l´ora della parresia, del parlar chiaro: la raccomanda il Vangelo, nelle ore cruciali.
Sarebbe un´interferenza non promettente per il futuro, lo so. Ma l´interferenza è una prassi non disdegnata in Vaticano, e poi non dimentichiamolo: già l´Italia è governata da podestà stranieri in questa crisi (Mario Monti l´ha scritto sul Corriere: «Le decisioni principali sono prese da un «governo tecnico sopranazionale»), e Berlusconi d´altronde vuole che sia così per non assumersi responsabilità.
Resta che gli alleati europei possono poco. E una maggioranza che destituisca Berlusconi ancora non c´è in Parlamento. Lo stesso Napolitano può poco, ma la sua calma è d´aiuto, nel mezzo del fragore di chi teme chissà quali marasmi quando il Premier cadrà. Il marasma postberlusconiano è fantasia cupa e furba, piace a chi Berlusconi ce l´ha ormai nelle vene. Il marasma, quello vero, è Berlusconi che non governa la crisi ma si occupa di come evitare i propri processi: tanti processi, sì, perché di tanti reati è sospettato. L´Italia è un battello ebbro, il capitano è un simulacro. Non ci sono congiure di magistrati, per indebolire la carica. Il trono è già vuoto. Il pubblico ministero, organo dello Stato che rappresenta l´interesse pubblico, deve per legge esercitare l´azione penale, ogni qualvolta abbia notizia di un reato, e in molte indagini Berlusconi è centrale: come corruttore o vittima-complice di ricatti. Gli italiani non possono permettersi un timoniere così. Se sono economicamente declassati, la colpa è essenzialmente sua.
Berlusconi non farà passi indietro, gli oppositori si ridicolizzano implorandolo senza mai cambiare copione. Oppure vuole qualcosa in cambio, e anche questo sarebbe vituperio dell´Italia. Il salvacondotto proposto da Buttiglione oltraggia la Costituzione. Casini lo ha smentito: «Sarebbe tecnicamente e giuridicamente impossibile perché siamo in uno Stato di diritto».
Perché la Chiesa non dice basta? Si dice «impressionata» dalle cifre dell´evasione fiscale, ma la vecchia domanda di Prodi resta intatta: «Perché, quando vado a messa, questo tema non è mai toccato nelle omelie? Eppure ha una forte carica etica» (Famiglia cristiana, 5-8-07). E come si spiega tanta indulgenza verso Berlusconi, mentre Prodi fu accusato di voler essere cristiano adulto? Pare che sia la paura, ad attanagliare i vertici ecclesiastici: paura di perdere esenzioni fiscali, sovvenzioni. Berlusconi garantisce tutto questo ma da mercante, e mercanti sono quelli che con lui mercanteggiano, di quelli che Cristo cacciò dal tempio rovesciandone i banchi. E siete proprio sicuri di perdere privilegi? Tra gli oppositori vi sono persone a sufficienza, purtroppo, che non ve li toglieranno. Paura di un cristianesimo che in Italia sarebbe saldamente ancorato a destra? Non è vero. Non posso credere che lo spauracchio agitato da Berlusconi (un regime ateo-comunista)abbia ancora presa. Oppure sì? Penso che la Chiesa sia alle prese con la terza e più grande tentazione. Alcuni la chiamano satanica, perché di essa narra il Vangelo, quando enumera le prove cui Cristo fu sottoposto: la prova della ricchezza, del regno sui mondi: «Tutte queste cose ti darò, se prostrandoti mi adorerai». La Chiesa sa la replica di Gesù.
Il Papa ha detto cose importanti sulla crisi. Che agli uomini vengon date pietre al posto del pane (Ancona, 11 settembre). La soluzione spetta a politici che arginino i mercati con la loro autorevolezza. Non saranno mai autorevoli, se ignorano la quintessenza della decenza umana che è il Decalogo. Ma neanche la Chiesa lo sarà. Diceva Ilario di Poitiers all´imperatore Costanzo, nel IV secolo dC: «Noi non abbiamo più un imperatore anticristiano che ci perseguita, ma dobbiamo lottare contro un persecutore ancora più insidioso, un nemico che lusinga; non ci flagella la schiena ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni (dandoci così la vita), ma ci arricchisce per darci la morte; non ci spinge verso la libertà mettendoci in carcere, ma verso la schiavitù invitandoci e onorandoci nel palazzo; non ci colpisce il corpo, ma prende possesso del cuore; non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l´anima con il denaro».
«Una vergogna, una cosa che a Venezia non è mai successa. Prove tecniche di fascismo padano». L'assessore all'Ambiente Gianfranco Bettin esprime tutta la sua indignazione per gli scontri di ieri pomeriggio agli Scalzi «Ho chiamato al telefono Beppe Caccia e mi ha risposto il medico del Suem. Sentivo la sirena, mi hanno detto che lo ricoveravano per stato confusionale e lo avrebbero sottoposto a Tac. Quello che è successo è gravissimo. Il ministro leghista ha cercato lo scontro per difendere la manifestazione del suo partito. Non ce n'era alcun bisogno». Bettin ricorda come nel 1996 una situazione molto più delicata — le manifestazione contemporanea della Lega, allora al culmine della popolarità, dei no global, degli autonomisti e la partita di serie A Venezia-Torino vennero gestite con calma, «senza divieti e provocazioni». Stavolta invece è arrivato l'ordine di non far passare i manifestanti nemmeno in Strada Nuova, da sempre teatro delle manifestazioni e dei cortei. Neanche l'intervento del sindaco Orsoni, nel pomeriggio, è riuscito a smuovere la Prefettura e la Questura.
Sull'accaduto il senatore del Pd Felice Casson ha annunciato una interrogazione urgente. «Venezia è una città di pace, aperta a tutti», dice, «estranea alla cultura della violenza. E' incomprensibile questo divieto imposto dal ministro Maroni. Non c'era alcun motivo di scontri, lo scontro l'ha cercato il ministro leghista». Corrado Callegari, deputato della Lega, non si sbilancia. «Io dico soltanto che se ci sono feriti tra le forze dell'ordine la mia solidarietà va alle forze dell'ordine. Pacifici? L'altra sera hanno preso a pugni un ragazzo. Del resto non so». Paolo Ferrero, segretario nazionale della Federazione della sinistra, parla di «uso privatistico del ministero da parte del ministro leghista». «Il suo comportamento è vergognoso e al di fuori della Co- Uno dei momenti caldi della manifestazione di ieri pomeriggio stituzione». Il consigliere comunale di Rifondazione Sebastiano Bonzio intanto chiede le dimissioni del questore Fulvio Della Rocca. «Sono stati creati disagi alla città non giustificati», dice, «per impedire una pacifica e democratica manifestazione. Condanna per gli scontri anche dal sindaco Giorgio Orsoni e dal vicesindaco Simionato. Che per tutto il pomeriggio hanno tentato invano di mediare con la Questura, cercando di convincere i responsabili dell'ordine pubblico a lasciar passare il corteo per il percorso tradizionale. «La nostra città dalla tradizione democratica non merita questo», dice Simionato, «non si doveva arrivare a questo punto».
«Venezia è un bene comune». E' lo slogan che oggi avrebbe dovuto attraversare i luoghi simbolo della città nel corteo organizzata dalla rete di Uniti per l'alternativa. Obiettivo: «Veneto libero, dalla Lega Nord». Mobilitazione più che annunciata, itinerario noto fin nei dettagli. Partenza alle 15 dal piazzale della stazione Santa Lucia; arrivo in Riva Sette Martiri, dove Bossi domani terrà il comizio finale della Festa dei popoli padani. Così fino alle 17 di ieri. Poi il clamoroso stop della questura con l'obbligo di limitare il corteo a metà percorso. Motivo ufficiale? Ordini superiori. Del ministero dell'Interno.
E' Beppe caccia, consigliere comunale e tra i promotori dell'iniziativa a spiegare i dettagli dell'altolà. «Il questore Fulvio Della Rocca ha risposto solo ieri pomeriggio alla notifica della manifestazione con un'ordinanza che impone disposizioni che - sulla base di motivazioni pretestuose e autoritarie - di fatto costituiscono un inaccettabile impedimento al corteo. A una manifestazione che non avrebbe creato problemi di ordine pubblico e che doveva svolgersi lungo strada Nuova viene imposto di concludersi a campo Santa Margherita. E pensare che abbiamo scelto il giorno prima del raduno leghista proprio per evitare problemi. Questa ordinanza - continua Caccia - è una vera e propria provocazione contro l'esercizio del diritto a manifestare liberamente». Dichiarazioni sottoscritte in un comunicato anche da Giorgio Molin (segretario generale Fiom Veneto), Sebastiano Bonzio (consigliere comunale), Sandro Sabiucciu (coordinatore Sel), Vittoria Scarpa (Razzismo Stop), Michele Valentini (Rivolta) e Tommaso Cacciari (laboratorio Morion). Fanno notare: «Ai militanti della Lega che due anni fa si sono resi responsabili della devastazione di un ristorante e dell'aggressione razzista a un cameriere albanese viene concesso di scorazzare a piacimento. Ai cittadini democratici si vuole vietare un corteo pacifico». Da qui la denuncia dell'«emergenza democratica nelle scelte compiute dal Ministero dell'Interno». E l'appello al prefetto: «Si faccia garante di un diritto costituzionale».
Ma prima, squadernare il conflitto d'interesse: «In pratica il ministro dell'Interno della Lega limita il corteo che avrebbe messo in difficoltà la Lega». La prova che il "cartello" di associazioni, centri sociali, sindacati (Fiom e Cobas) migranti, insieme a genitori, studenti e insegnanti (che comunque oggi alle 15 saranno a Santa Lucia) fanno davvero paura. «Sburgiardiamo la favola della diversità leghista e sveliamo l'inganno che ha prodotto l'attuale manovra finanziaria, il razzismo e il fallimento delle poltiche securitarie» spiega la ventina di realtà sociali che ha firmato l'appello «contro la speculazione». Da qui l'operazione-verità sulla devolution: «Al posto del federalismo sono arrivati i tagli alla sanità e al welfare. Al posto dell'autonomia impositiva ticket e nuove tasse».
Il tutto, naturalmente, non ferma il tradizionale tam-tam leghista. La pubblicità della giornata conclusiva della Festa dei popoli si affida alla cicloturistica Monviso-Venezia che prosegue idealmente il Giro della Padania. In Veneto, marketing più che necessario alle alte sfere del Carroccio preoccupate di placare gli effetti dell'alleanza con Berlusconi e delle "guerre" non più intestine. Sullo sfondo, il carbone della centrale Enel di Porto Tolle, «pulito» dai vincoli di legge con una norma ad aziendam sponsorizzata (anche) dalla Lega che non convince il popolo padano. In ogni caso domani, agli Schiavoni, tutti concentrati sul palco del comizio di Bossi. Sovieticamente, disegnerà il nuovo diametro del «cerchio magico». Al punto che nella Lega c'è chi assicura conteranno più le foto delle parole.
Gli italiani, ricchissimi e disperati. Ebbene sì, siamo ricchissimi, più dei francesi e dei tedeschi, più degli inglesi, degli americani e dei giapponesi. Lo dicono i numeri: la ricchezza lorda delle famiglie italiane alla fine del 2010 ammonta a 9 mila 732 miliardi di euro, i debiti (sempre delle famiglie) a circa mille miliardi, la ricchezza netta è quindi pari a 8 mila 700 miliardi. È una cifra enorme, quasi sei volte il pil, quattro volte e mezzo il debito pubblico, 7,8 volte il reddito disponibile, contro il 7,7 del Regno Unito, il 7,5 della Francia, il 7 del Giappone, il 6,3 della Germania e il 4,8 degli Stati Uniti. Siamo più ricchi di loro ma stiamo peggio. Perché?
Per spiegarlo dobbiamo partire dall’inizio, ovvero da come abbiamo fatto ad accumulare tanto. I motivi principali sono che siamo un popolo di risparmiatori (virtù in erosione) e un popolo di evasori fiscali (difetto che non si erode affatto). Un elevato risparmio consente di accumulare e non pagando le tasse si risparmia e si accumula molto di più. Nel 2009 per esempio la ricchezza complessiva è cresciuta di 93 miliardi, 70 dei quali rappresentati dal risparmio e il resto dall’aumento del valore. Non è un’eccezione, tra il 1995 e il 2009 l’aumento della ricchezza è dovuto per il 60 per cento al risparmio e per il 40 all’aumento del valore.
Il passo successivo per avvicinarci a capire perché stiamo peggio è nella struttura economica dell’Italia, la cui sintetica fotografia è questa: debito pubblico enorme e debito privato relativamente contenuto, ricchezza privata immensa che però non produce crescita.
Il presidente del consiglio e il ministro dell’economia, oltre a dirci fino a giugno scorso che l’Italia stava benissimo, ci hanno venduto quel contenuto debito privato e la gigantesca ricchezza delle famiglie con elementi di forza, garanzie della tenuta del nostro debito pubblico. Alla prova dell’estate purtroppo non si sono rivelate tali, per la semplice ragione che più che elementi di forza sono segni di squilibrio. Per quello che comportano e per quello che rivelano.
Quello che comportano è sotto i nostri occhi: il debito pubblico elevato sbilancia l’intero paese e rende più costoso anche quello privato. Se la ripartizione fosse diversa, con un 2030 per cento in più di debito privato e altrettanto in meno di debito pubblico le agenzie di rating e i mercati ci guarderebbero con occhi assai diversi.
Quanto alla ricchezza privata, se è certo che è meglio averla che non averla, è però assai poco utile se non produce crescita. Vuol dire che è immobile e mal gestita. E’ come quelle famiglie aristocratiche che hanno immensi palazzi che non producono neanche il reddito necessario a mantenerli. Il loro destino è segnato, cominceranno a venderne dei pezzi fino a ritrovarsi nella casa del guardiano.
Se questo è quello che la struttura economica dell’Italia comporta, ancora più illuminante è quello che rivela. Debito pubblico e ricchezza privata sono due facce della stessa medaglia, uno stato senza credibilità e autorevolezza e un privato opportunista e spesso saccheggiatore.
A questo punto però, per capire perché questa immensa ricchezza privata non produce crescita, dobbiamo guardarci dentro. Quello che troviamo già dice quasi tutto. Di quei 9 mila 732 miliardi di patrimonio lordo il 57,8 per cento è rappresentato da immobili, il 4,9 per cento da beni di valore e da impianti, macchinari, scorte, attrezzature, brevetti, avviamenti (le cosiddette attività reali) e il 37,3 per cento da attività finanziarie.
Cominciamo da quei 5 mila e 600 miliardi di immobili. Solo il 6 per cento, 330 miliardi o giù di lì, sono negozi, uffici o capannoni; il 4,3 per cento (240 miliardi) sono terreni e il resto, ovvero 4 mila 900 miliardi, sono abitazioni. Di queste (in totale sono 29 milioni 642 mila) l’80 per cento sono abitazioni principali e il restante, 5,7 milioni, sono seconde case (poco utilizzate) o case sfitte. Quelle vuote, inutilizzate, sono ben 1 milione e 200 mila.
Passiamo ora alla seconda voce per importanza, le attività finanziarie. Non sono poca cosa, si tratta di oltre 3 mila e 600 miliardi, metà dei quali sono detenuti in contanti, depositi bancari e postali, titoli pubblici e obbligazioni, altri mille miliardi in azioni e fondi comuni e circa 630 sono riserve tecniche delle assicurazioni. Nel complesso la quota rappresentata dal capitale di rischio è più vicina a un quarto che a un terzo del totale.
Infine la cenerentola di questo elenco, le attività reali, 476 miliardi di euro investiti per un quarto circa in beni di valore (quadri, gioielli, mobili di antiquariato) e solo 380 miliardi in beni produttivi. Pochissimo, per un paese che si dice manifatturiero, per un popolo che si ritiene abbia l’imprenditoria nel sangue. Guardandosi intorno, osservando le decine di migliaia di imprese che affollano tutto il Nord, una parte del centro e qualche pezzetto fortunato del sud, e anche escludendo le società quotate, le cui azioni vanno nel capitolo della ricchezza finanziaria, sembrerebbe che il valore dei macchinari, degli avviamenti e delle scorte di tutte quelle imprese sia ben superiore a quei sparuti 380 miliardi. La spiegazione c’è. Se calcoliamo che secondo il Rapporto Corporate EFIGE 2011, la percentuale dell’attivo di bilancio delle imprese italiane finanziata con il capitale proprio è pari al 12 per cento (in Francia il 30 e in Germania il 34) e l’88 per cento è coperto dal debito, i conti tornano. Il valore complessivo di tutte quelle attività è vicino a 4 mila miliardi, il problema è che i proprietari di tasca loro ci mettono poco, pochissimo, e infatti uno dei vincoli alla crescita di quelle imprese è che sono poco capitalizzate e molto indebitate. I loro proprietari preferiscono mettere i soldi in appartamenti e nella finanza piuttosto che nelle aziende, e infatti loro sono ricchi e le aziende povere.
A questo punto possiamo tornare alla domanda iniziale: perché con un patrimonio così ricco la crescita del nostro paese è così bassa? La risposta, che è già nel modo in cui quel patrimonio è investito, la dà Giacomo Neri, partner di PricewaterhouseCoopers e curatore insieme a Gino Gandolfi dell’Università di Parma di un osservatorio sul risparmio degli italiani (Orfeo): «La struttura di questo patrimonio è difensiva e la sua gestione non è ottimale». Questo patrimonio non serve a costruire il futuro ma a difendersi, per una serie di ragioni di ieri e di oggi, che poi sono le stesse che stanno dietro i capitali all’estero. Alla base c’è la sfiducia nello stato, nel suo arbitrio, nelle sue incertezze e instabilità, in passato c’era anche l’inflazione, che aggiungeva sfiducia nella moneta (e quindi gli immobili). A questa si aggiunge la sfiducia nei mercati finanziari, quelli del parco buoi, quelli nei quali le azioni si pesano e non si contano, nei quali gli azionisti di controllo anche se con un pugno di titoli in mano usano l’impresa come casa propria.
C’è anche, dice Roberto Nicastro, direttore Generale di Unicredit «una ragione culturale: l’immobile piace e rassicura, conserva il valore o lo accresce nel tempo. E l’imprenditore che rischia con la sua attività con il suo risparmio preferisce non rischiare».
Ma la ragione chiave è il fisco. Le tasse servono a pagare i servizi comuni, le strade, l’illuminazione, la giustizia, la difesa, per coprire investimenti comuni come l’istruzione e per difenderci da rischi che abbiamo deciso di mettere in comune, come la salute e la vecchiaia. Ma il modo come le si raccoglie non è indifferente, disegna il modo di essere di un paese e della sua economia. Il fisco italiano da decenni ha deciso di caricare tutto il suo peso sull’impresa e sul lavoro, ovvero su quello che crea la ricchezza, e di privilegiare gli immobili e le rendite finanziarie (il cui prelievo solo con l’ultima manovra è passato dal 12,5 al 20 per cento). C’è una tabella di Banca d’Italia chiara e terribile: nel 2010 le imposte dirette sono state pari al 14,6 per cento del pil, quelle indirette al 14 per cento e quelle in conto capitale, ovvero sul patrimonio, pari ad un misero 0,2 per cento. Il denaro fugge dove viene meno colpito, e in Italia è meno colpito se si ferma, si immobilizza, esce dalla famigerata denuncia dei redditi.
«Lo stock di ricchezza è un vantaggio competitivo nazionale dice Neri ma bisogna valorizzarlo, gestirlo bene, renderlo produttivo e dinamico. Ci vuole una politica orientata a questo, in un paese con tanto risparmio a valorizzare il risparmio gestito favorendo la nascita di grandi imprese del settore, in un paese con un ricco patrimonio immobiliare favorendo la crescita di gestori più grandi e più professionali. In un paese ricco ma fermo riorientando il prelievo fiscale tassando i patrimoni e i beni improduttivi e alleggerendo il carico su lavoro e impresa». Ci stiamo occupando molto, e giustamente, della produttività del lavoro, forse dovremmo cominciare a occuparci anche della produttività del capitale.
Roberto Nicastro aggiunge un segnale di allarme: «Negli ultimi mesi si sta inaridendo il flusso di fondi esteri disponibili a investire in Italia, e se non si recupera rapidamente credibilità e fiducia potrebbe diventare un problema. Questo pone una sfida al risparmio italiano: se continuiamo a mettere i soldi negli immobili come faremo a finanziare la crescita?» Nicastro dà anche la risposta, che riguarda anch’essa le tasse: «Bisogna pensare a un nuovo equilibrio nel trattamento fiscale relativo tra le varie forme di risparmio».
La conclusione è che dobbiamo decidere che paese vogliamo, se puntiamo sull’impresa e sul lavoro oppure sulla rendita. Ma dobbiamo sapere che la rendita non sarà eterna: se le cose non cambiano quel patrimonio cominceremo presto a mangiarcelo.
Eccellentissimo Presidente Napolitano, le scriviamo come giuristi che, dopo anni di impegno civile a favore di buone regole giuridiche a protezione dei beni comuni e per il buon governo del patrimonio pubblico, abbiamo redatto i quesiti referendari n. 1 (servizi pubblici locali) e 2 (tariffa per il servizio idrico integrato) cui, nella scorsa tornata referendaria di giugno, ha risposto sì la maggioranza assoluta degli elettori italiani.
Il nostro intendimento era quello di arrestare, attraverso un pronunciamento diretto del popolo, nelle forme e nei limiti di cui all'art. 75 della Costituzione, il protrarsi di una logica di privatizzazione ideologica e dannosa per l' interesse comune anche all' indomani della drammatica crisi finanziaria iniziata nel 2008. Tramite il nostro pacchetto referendario volevamo aprire un grande dibattito politico nel nostro paese, teso a ricordare che la crisi non è stata causata dal pubblico ma dagli eccessi di libertà privata. Volevamo denunciare l'irrazionalità di una posizione politica che, lungi dal riequilibrare i rapporti fra pubblico e privato dopo vent'anni di pensiero unico, ulteriormente indeboliva il settore pubblico spingendolo a dismettere risorse che, se ben gestite, avrebbero potuto restituirgli la forza, l'autorevolezza ed il prestigio necessario per governare una crisi drammatica.
Negli scorsi mesi abbiamo lottato, con i mezzi del diritto e della politica democratica, insieme a moltissime persone, per scongiurare i diversi tentativi di impedire al popolo di pronunciarsi. All'indomani del 13 giugno siamo stati soddisfatti per aver contribuito a compiere una buona azione civile per il nostro paese. Quasi due mesi dopo, a fronte di dati sul debito pubblico italiano che non sono sostanzialmente variati nell'ultimo decennio (nonostante l'avvenuta dismissione di quote ingentissime del patrimonio pubblico) nel paese è stato creato un clima da emergenza finale. L'andamento della borsa e della finanza (ancora una volta settore privato) e manovre speculative volte ad attaccare un settore pubblico ulteriormente indebolito dallo sforzo ingentissimo di salvare il settore finanziario dalla crisi, hanno provocato un clima di panico che ancor oggi si protrae.
Al di là delle diverse valutazioni sulla fondatezza di tali allarmi, è certo che ingenti porzioni del Decreto, redatto in fretta e furia a Ferragosto, in particolare l'art. 4 denominato «adeguamento dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell'Unione Europea», presentano prima facie tratti di incostituzionalità, confessati in modo privo di precedenti nel nostro sistema delle fonti, dall'annunciata modifica dell'art. 41 della Costituzione contenuta nello stesso decreto.
Tale incostituzionalità risulta in particolare dall'espressa e diretta contrarietà del decreto di Ferragosto (ora convertito con la fiducia) rispetto alla volontà popolare espressa appena due mesi fa con il voto referendario che, come dichiarato dalla Corte Costituzionale nella sentenza 23 del 2011, non era affatto limitato all'acqua ma coinvolgeva l'intero settore dei servizi pubblici di interesse generale.
Nei giorni immediatamente successivi all'emanazione del Decreto abbiamo dato vita, con i nostri limitatissimi mezzi, ad una raccolta di firme su un appello on line dei giuristi estensori dei quesiti referendari intitolato «La manovra di ferragosto è incostituzionale», cui hanno aderito esponenti illustri della società civile e politica e migliaia di cittadini indignati per l'ennesimo tentativo di scippo del voto referendario.
Con questa lettera ci permettiamo di farle pervenire l'elenco di tali firmatari. Le rivolgiamo inoltre un appello, come Supremo Garante della Costituzione, a considerare il fatto che da anni i conti pubblici italiani non sono in buone condizioni (le alleghiamo due pubblicazioni del lavoro da noi svolto in passato) e che la fretta di privatizzare e liberalizzare ulteriormente l'economia al di fuori da una struttura di principii giuridici solidi e condivisi, lungi da fare l'interesse del popolo italiano soccorre quello degli speculatori internazionali che hanno generato la crisi.
Illustrissimo Presidente, anche in considerazione del fatto che il voto di fiducia ha impedito la necessaria discussione parlamentare, la invitiamo a non promulgare l'art 4 del decreto di Ferragosto. La Sua autorevolezza contribuirebbe così, stralciando provvedimenti che certo non possono esser presi in emergenza e senza largo accordo politico, ad aprire finalmente un dibattito sulla vera priorità istituzionale e riforma strutturale necessaria in questo paese: la ricostruzione di un settore pubblico forte, autorevole, decentrato e democratico.
Giovedì, in una discussione su La7 che ha fatto seguito al film di Roberto Faenza e Filippo Macelloni, "Silvio Forever", il direttore del Foglio ha detto una cosa importante.
Ha detto che, grazie agli anni che portano l’impronta di Berlusconi, l’Italia avrebbe vissuto una «liberazione psicologica». Si è sbarazzata di vecchie incrostazioni moraliste, di una democrazia con troppe regole, di tendenze micragnose, formalistiche. L’ora dei consuntivi sta arrivando, e nella valutazione dei diciassette anni passati c’è anche questo giudizio sull’avventura berlusconiana, imperturbabilmente positivo: quali che siano i loro esiti, vi sono fenomeni grandiosamente anomali che fanno magnifica la storia, in Italia e altrove.
È significativo che negli stessi giorni si celebri il decimo anniversario dell’11 settembre, perché anche qui fu un fenomeno prodigiosamente anomalo a trasfigurare la storia. I rivoluzionari amano questi prodigi, sia quando li incensano sia quando li demonizzano, perché il Grande Fenomeno fa tabula rasa, crea nuove classi dirigenti, interrompe quel che nella democrazia è lento e monotono, formalistico e incastonato in regole. Il tempo d’un tratto s’arresta, il rivoluzionario prova l’estasi dell’istante liberatorio. Il musicista Karlheinz Stockhausen s’estasiò, il 16 settembre 2001, davanti alla «più grandiosa opera d’arte nella storia cosmica».
Nella discussione diretta da Enrico Mentana, spiccava la figura di Eugenio Scalfari. L’anomalia berlusconiana non gli appariva affatto grandiosa. Il giudizio era gelido, non magato neppure nelle pieghe, allergico all’inconcreto. Faceva impressione la sua presenza perché lo sguardo sul presente era ben più lungo dello sguardo dei colleghi. Il fenomeno Berlusconi (ma avrebbe potuto parlare anche dell’11 settembre, o della crisi economica) non era descritto come un botto improvviso, che fa piazza pulita e crea nuovi mondi. S’iscriveva in una storia lunga, che ancora ci tocca esplorare e che lui scruta dai tempi della prima repubblica con penna precisa. Mi sono chiesta come mai un giornalista con tanti anni di vita e d’esperienza sembrasse non solo il più acuto osservatore del presente, ma il più giovane.
La chiave penso sia la sua curiosità. Il curioso, lo dice l’etimologia, ha cura di quel che a prima vista pare enigmatico. Non gli basta vedere la pelle delle cose, ha brama di investigare, di tuffarsi molto a fondo, immergendosi con la testa come la balena narrata da Melville. Non si accontenta, e in genere usa poco questo tiepido aggettivo: contento. Il suo modo d’essere gli consente di intuire, nelle parole e negli eventi, quel che è altro dalla parola o dall’evento subito percepibili. Heidegger scrive cose simili, sulla tecnica: «L’essenza della tecnica non è affatto qualcosa di tecnico. Non apprenderemo mai la nostra relazione con la sua essenza, fino a quando rappresenteremo e praticheremo solo la tecnica. Sempre rimarremo, non liberi, incatenati alla tecnica: sia che l’approviamo con entusiasmo, sia che la neghiamo».
Nel raccontare l’epoca che abbiamo alle spalle, Scalfari ragionava allo stesso modo: «La questione davvero importante non è Berlusconi. È come l’Italia abbia potuto sopportare un personaggio così per 17 anni. Chi siamo noi è la questione». L’essenza di Berlusconi non è Berlusconi, così come l’essenza dell’11 settembre non è l’11 settembre ma la risposta che all’attentato venne data e la torpida genealogia dell’accadimento. In Italia l’essenza è la misteriosa, sempre ambigua metamorfosi dell’uomo e del suo mondo: il mondo che egli crea e quello che da fuori lo pigia e lo mette alla prova. Che lo spaventa anche, inducendolo a bendarsi gli occhi e seguire chimere per non vedere i precipizi verso cui sta correndo.
Se cito Scalfari a proposito dei bilanci che si stanno facendo (del berlusconismo, dell’11 settembre) è perché la metamorfosi è parte centrale del suo ultimo libro (Scuote l’anima mia Eros, Einaudi 2011) e perché i concetti di cui il testo è disseminato aiutano a capire la crisi che viviamo: la metamorfosi in primis ma anche la guerra fra gli istinti, l’amore di sé e dell’altro, la morte che impronta la vita e dunque viene prima della vita. E l’avarizia infine, una parola che mi ha colpito perché stranamente si è diradata nel dialogo fra le persone. Nel libro è evocata almeno tre volte. Una prima volta quando l’autore s’interroga sul segno («più lieve della traccia che una lepre fuggitiva lascia sulla neve») che resta delle singole vicende umane. Proprio perché la nostra è una «piccola vita circondata dal sonno», scrive citando Shakespeare: «Non dilapidatela, non difendetela con avarizia (...) Vivetela con intensa passione, con speranza ed allegria». Queste cose si imparano nell’adolescenza, quando sei in trasformazione e provi a cambiare in meglio il tuo Io. S’imparano anche in vecchiaia: se vissuta bene, è anch’essa metamorfosi. Ricordo il bellissimo disegno di Goya, al Prado. Un vecchio cammina appoggiato a due faticosi bastoni e sotto è scritto: Aùn aprendo, Ancora sto imparando.
Il secondo accenno all’avarizia è quando i mortali sono descritti come centauri, metà bestie metà uomini, sempre esposti al sopravvento del cavallo. L’avarizia di sé è figlia di questo rachitismo spirituale: dimentichi quel che fa dell’uomo un uomo, sei sopraffatto, rattrappisci. C’è infine un terzo passaggio, in cui ingeneroso è chi crede in una sola verità, e diviene avaro di sé.
L’avaro somiglia molto all’incurioso, che si fascia gli occhi per paura di disperdere quel che ammonticchia per sé. Anch’egli non ha cura dell’altro. Quando gli va incontro, è uno specchio che cerca: dunque vede solo se stesso. Giustamente è stato evocato, nella discussione, il narcisismo che affligge Berlusconi e l’Italia che l’ha scelto come modello. L’avaro incurioso vede l’Uno (la propria verità); al Due non arriva. Quando erano più sferzanti, i critici americani di G.W.Bush lo chiamavano incurious.
Non che sia mancata, subito dopo l’11 settembre, la sete di sapere. «Perché ci odiano?», ripetevano sgomenti i politici Usa. Ma la domanda non era mai rivolta a se stessi, il male assurdo era sempre fuori. Anche Berlusconi chiede, di continuo: «Perché mi odiano?», come se la sua persona fosse satanicamente osteggiata per motivi estranei a quel che lui è e fa. Anche qui è elusa la vera domanda: come avviene la seduzione? Cosa ha prodotto? E in America: come è potuto accadere che la guerra totale al terrore, lanciata caoticamente nel 2001, stia accelerando il crollo della potenza americana?
Dice Scalfari che gli italiani hanno un terzo istinto, oltre a quello buono e cattivo: un istinto anarcoide, antipolitico. Credo non sia un vizio solo italiano: penso alle civiltà suicide descritte da Jared Diamond nel libro Collasso, agli abitanti dell’isola di Pasqua, allo spirito anarcoide con cui distrussero tutti gli alberi fino a non poter costruire una sola barca per andare a pescare e nutrirsi.
In Italia come in America, l’evento cui abbiamo assistito è la morte della politica, il trionfo di poteri paralleli e sommersi che nemmeno Obama riesce a frenare. E la storia di questo trionfo è molto più lunga dei dieci anni che ci separano dall’11 settembre, o dei diciassette che ci separano dal Berlusconi politico. Negli Stati Uniti la dismisura, la hybris, culminò nel Progetto per il nuovo secolo americano, che i neoconservatori scrissero nel ‘97, in collaborazione con l’industria militare: finita la guerra fredda l’America doveva trasformarsi in unica superpotenza, senza più rivali. L’orrore omicida dell’11 settembre permise al progetto di affermarsi. In Italia la hybris è radicata nella storia della P2, che ebbe il Premier tra i suoi affiliati. I fenomeni grandiosamente anomali hanno tutto un pedigree, e non solo: hanno effetti - sulla vita dei cittadini e sul futuro - che il giudizio finale deve incorporare. L’effetto in America è stato il collasso del potere mondiale. Quanto all’Italia, cosa ha prodotto la talentuosa conquista berlusconiana dei consensi? È ancora Scalfari che parla: «Il risultato lo si vede: siamo ridotti in mutande».
Ascoltiamo quel che disse della P2 Tina Anselmi, il 9 gennaio ‘86 in una Camera semivuota: «Ciò che dobbiamo chiederci è se accanto alla politica ufficiale, gestita nei modi e nelle forme che l’ordinamento consente, possa esistere una politica sommersa. Se (...) possa esistere un versante occulto, nel quale programmi e azioni destinate a incidere nella vita della collettività vengono elaborati al di fuori, non dico di ogni controllo ma della stessa conoscenza dell’opinione pubblica (...) Se sia possibile coltivare l’illusione di una correzione del sistema democratico attraverso meccanismi compensativi che, operando in maniera occulta o riservata, sarebbero in grado di assicurargli la necessaria stabilità» (Anna Vinci, La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi, Chiarelettere 2011). Sotto forme diverse (P2, P3, P4) la politica sommersa continua.
Chi siamo noi è la questione. È la sola che conti. Non si tratta di dividersi tra benpensanti e malpensanti. Qui c’è bisogno di pensanti, tout court. Di trasformatori, consapevoli con Nietzsche che «Noi, cercatori della conoscenza, siamo a noi stessi degli sconosciuti, per il semplice motivo che non ci siamo mai cercati».
Quel martedí mattina come ogni martedí stavo preparando la mia lezione dopo la consueta corsa in Riverside Park quando ricevetti la telefonata di un´amica che gridava come impazzita «ci stanno bombardando». Non capivo e istintivamente ho acceso la televisione. Tutti i canali mostravano le stesse immagini, quelle del primo aereo che sfonda una delle torri. Difficile non pensare a un film. Ma é realtà quando il secondo aereo finisce il lavoro. Ci hanno davvero bombardato. Questa é una guerra: ho avuto vivida questa sensazione di fatalitá di fronte al disastro, una sensazione che non conoscevo. Chiamo tutti gli amici che conosco. Nessuna risposta dagli amici di Downtown. Ne trovo due, che vivono a Tribecca, a due passi dal City Hall, in quella che sará subito dichiarata "zona rossa", di massimo rischio; rischio di crolli ma anche di contaminazioni tossiche a causa delle esalazioni provocate dagli incendi.
L´amico di Tribecca era uscito di casa alle otto per andare a giocare a tennis, mentre la moglie accompagnava il figlio a scuola. Usciti per ritornare dopo poche ore sarebbero rientrati a casa loro solo quaranta giorni dopo. L´emergenza é proprio questo: l´interruzione imprevedibile e imprevista della quotidianità. Chiedere il permesso alla Guardia Nazionale, essere scortati fino all´uscio di casa da un militare in tenuta da guerra batteriologica, accettare di essere muniti di maschera anti-gas per raccogliere le proprie cose. Invito questi amici a casa, darò loro un letto in attesa che trovino una soluzione. Quando arrivano, hanno negli occhi e sulla pelle il segno di quel che hanno visto e sentito piovere addosso. Un inferno di fuoco e polvere. E di quell´inferno per giorni ho sentito il fetore nell´aria. Dalle finestre aperte a 11 chilometri di distanza dal luogo dell´attentato si é sentito per settimane il fetore emanato dai corpi bruciati.
Mi é stato chiesto varie volte come ha reagito la gente di New York. Da bolognese adottiva, abituata nella gioventù a notizie di attentati terroristici, sono istintivamente portata a uscire in strada. E così ho fatto quella mattina. Ma nessuno era in strada. Tutto sembrava scorrere come prima, come sempre in un giorno lavorativo. Sono andata dopo il crollo della seconda torre verso il campus di Columbia. Nessun allarmismo, nessun segno della tragedia che si stava consumando a Downtown. Dopo poche ore un segno: nei palazzi i portieri affiggevano indicazioni su come procedere per la raccolta di latte e succhi di frutta, poiché le polveri sono state uno degli effetti tremendi delle esplosioni e dei crolli, che oltre a uccidere migliaia di persone hanno provocato problemi seri alle vie respiratorie di migliaia di sopravvissuti.
Ma da quel martedì le cose sono cambiate radicalmente. L´emergenza non é più uscita dalla nostra vita. L´Amministrazione Bush, resa disgraziatamente attiva da quell´attentato, ha deciso di entrare in uno stato di guerra non solo in Afghanistan, e poi in Iraq, ma anche nel Paese. Fu aperto il campo di reclusione di Guantanamo, una terrificante violazione dei diritti umani, mentre la presidenza degli Stati Uniti avocava a sé poteri eccezionali di tipo dittatoriale. Le guerre invocate in nome della vendetta e per prevenire altri attentati sarebbero durate 10 anni, dissanguando le casse dello Stato e senza aver creato quello che irragionevolmente volevano creare, ovvero la democrazia; soprattutto senza riuscire a colpire il nascondiglio di Osama Bin Laden. Le ripercussioni della preemptive strategy sono state pesantissime e hanno scatenato la crisi economica più grave che l´America abbia sofferto dal 1929. Un impero che affonda nelle guerre che provoca: questo é il lascito dell´Amministrazione Bush, nata con un bluff elettorale e costata un danno incalcolabile i cui effetti durano ancora.
A Milano, a Napoli e a Cagliari si gioca la principale scommessa di riuscire a praticare un risanamento effettivamente democratico del governo locale. Quasi un ventennio di governo reazionario e affaristico a Milano e nelle altre città ha inquinato ogni aspetto dell'amministrazione locale; è quindi indispensabile analizzare nei dettagli questo massacro della res publica per poter imbastire la paziente e non certo breve opera di risanamento.
Uno dei settori in cui la destra, e anche buona parte del centro-sinistra, hanno provocato più danni è quello del cosiddetto governo della sicurezza. Com'è ormai ampiamente dimostrato, il gioco becero che è prevalso è stato quello di esasperare le insicurezze e le paure provocate dalla destrutturazione liberista dell'assetto sociale precedente per imporre la tolleranza zero contro i nemici di turno. Questa distrazione dell'opinione pubblica ha occultato a lungo i molteplici affari loschi del malgoverno delle città e dell'intero paese e ha anche legittimato un business sicuritario di cui ancora non abbiamo scoperto l'intera portata. Inoltre - e qui sta l'aspetto più grave - s'è innescata la continua riproduzione delle insicurezze e delle paure che lo sviluppo liberista ha accentuato. Quasi dappertutto le giunte locali hanno trasformato parte della polizia locale in una sorta di armata da aizzare contro nomadi, immigrati, tossicodipendenti e marginali in genere e hanno esasperato i costi del sicuritarismo. Basti pensare al boom della video-sorveglianza e dei diversi controlli "postmoderni", spesso del tutto inutili e non a caso ora in via di smantellamento nelle città inglesi, canadesi e americane a seguito del vero bilancio "costi e benefici".
La popolazione che vive alla mercé delle neo-schiavitù del lavoro nero, degli incidenti sul lavoro, delle malattie professionali, degli strozzini padroni di alloggi e dell'inquinamento s'è sempre più trovata abbandonata a se stessa, senza alcuna tutela. Le prime vittime di violenze, abusi e supersfruttamento, cioè i nomadi, gli immigrati e i circa cinque milioni di italiani senza tutela sono diventati nonpersone. I Sert sono stati chiusi o ridotti a quasi nulla e i tossicodipendenti poveri sono stati rigettati per strada. Gli operatori sociali, spesso, sono stati ridotti ad ausiliari della tolleranza zero o sostituiti dalla video-sorveglianza quando si sa che il costo di una sola videocamera e della sua manutenzione e gestione è superiore al salario annuale di un educatore socio-sanitario.
Tutti questi aspetti si sono aggravati anche e a volte soprattutto a causa della distrazione di competenze delle polizie locali. Se queste, con la collaborazione degli abitanti e dei lavoratori, si occupassero del controllo delle varie attività e della vita quotidiana nel territorio di loro competenza sarebbe assai difficile la proliferazione di cantieri, fabbrichette e laboratori abusivi che si nutrono di lavoro nero e che producono anche incidenti, malattie professionali, prodotti e rifiuti tossici e quindi inquinamento oltre che connessioni con la criminalità organizzata.
Sta qua il nodo principale della scommessa del risanamento effettivamente democratico del governo della sicurezza a livello locale: i costi della sicurezza devono servire a tutelare la salute pubblica, l'ambiente, la popolazione che rischia di subire ingiustizie e malversazioni. È quindi necessario un lavoro di ristrutturazione e di riqualificazione delle polizie locali a cominciare dai vertici che in questo passato ventennio (anche con le amministrazioni di centro-sinistra) sono stati forgiati all'insegna della tolleranza zero contro i deboli e della protezione delle libertà dei soggetti sociali forti. L'Italia è il paese in cui in proporzione si spende di più per la sicurezza pubblica e privata e si hanno meno tutele contro le reali insicurezze. I sindaci democratici devono chiedere una razionalizzazione democratica dell'impiego delle polizie di stato e locali, a cominciare dall'eliminazione delle sovrapposizioni di competenze e degli sprechi.
È a questa scommessa che sono pronte a lavorare tante persone con diverse competenze dentro e fuori le forze di polizia, con pazienza e senza alcuna pretesa, ma con il sostegno di una forte volontà politica delle giunte che sono state elette da una mobilitazione popolare che ha reclamato un cambiamento democratico e che può generare partecipazione.
Ecco, era tutta colpa delle Province. Il Consiglio dei ministri, non potendo abolire per decreto una istituzione storica, se non addirittura secolare, vara un disegno di legge costituzionale per passare le competenze delle Province alle Regioni (tutto il contrario di quello che si cercava di fare negli ultimi anni!). Quindi il potere di entrare nel merito di argomenti come la mobilità, i rifiuti, la cementificazione o la tutela del territorio ritornerebbe in alto alle Regioni, le quali non sarebbero più solo soggetto di finanziamento e di legiferazione, ma di vera e propria amministrazione.
Più che una riforma degli enti locali è un linciaggio del soggetto più debole, le Province. E lasciamo invece le Questure e le Prefetture in ogni capoluogo di provincia? Non avevo mai visto, forse non si è mai vista, una riforma istituzionale che parte solo dalla necessità di presunti risparmi. La Grecia - la Grecia! – ha recentemente accorpato alcune regioni e province, e soprattutto comuni. Ma non ha abolito un livello istituzionale intero. Per altro, che io sappia, in quasi tutti i paesi del mondo ci sono sia i comuni, sia le province, sia le regioni. In tutta l’Unione Europea (là dove di livelli locali ce ne sono solo due, come credo di aver capito adesso in Tunisia, le “Regioni-Province” sono più piccole che in Italia, simili a quelle che da noi sono le province più importanti.)
Certo, Roma non è un esempio logico, lì ci vorrebbe la città metropolitana e basta. E visto che i nostri opinionisti e i pochi politici che riescono ad avere un pensiero autonomo stanno a Roma o a Milano (dove appunto non hanno senso nè le Province nè gli attuali Comuni capoluogo, ma ci vorrebbe la città metropolitana) eccoci al linciaggio delle Province. Non è certo in questo modo che si razionalizzano le istituzioni necessarie per una più aggiornata democrazia.
Vi è una lunga tradizione di potere che ricatta, ovvero che esercita, oltre all´imperio pubblico della legge, anche quella subdola e vile violenza che è la minaccia alle persone. Un potere che usa come armi i dossier riservati, che fa un sotterraneo uso politico delle debolezze, dei vizi, delle colpe, o anche semplicemente degli affetti privati. Senza parlare dei totalitarismi veri e propri, che si sono serviti apertamente della violenza, oltre che del ricatto, in una logica di terrore di Stato, le violenze psicologiche sui testimoni a opera della commissione McCarthy, i fascicoli del Sid di De Lorenzo, si fondavano proprio su questo rapporto fra sapere (riservato) e potere (nascosto) di condizionamento: avevano l´obiettivo di coartare la libertà dell´agire politico. Se il ricatto è, giuridicamente, un´estorsione, ciò che era estorto, più che il denaro, era la libertà.
Più innovativa è la circostanza che il potere stesso sia ricattato – di cui facciamo esperienza oggi, in Italia (almeno a sentire la magistratura che in questa direzione indaga, e arresta gli indiziati) –. Perché ciò si realizzi è necessario un costume politico da basso impero, un meccanismo di corruzione generalizzato, in cui tutti ricattano tutti: il che dà luogo, certamente, a una solidarietà di fondo – a un comune istinto di far muro contro la magistratura e la libera stampa –, ma anche a una fitta rete di relazioni di potere fondate sul sapere – sulla comune e scambievole consapevolezza delle proprie e altrui marachelle (o reati) –. In questa parodia del mercato tanto caro ai liberisti, quello che ci si scambia gli uni con gli altri, come fossero merci o prestazioni, sono minacce, che hanno il loro fondamento nella comune corruzione, nella universale correità.
In un sistema politico fondato sul ricatto reciproco, è ricattabile anche il potere supremo, il Presidente del Consiglio come persona. Sia chiaro: per essere ricattabili non necessariamente si deve avere qualcosa da nascondere, un segreto inconfessabile da tutelare; è sufficiente essere minacciati in un prezioso bene privato quale può essere la vita, propria o dei propri familiari; Moro, sequestrato, fu ricattato in questo senso. Ma non di questi o di simili casi tragici si parla, oggi: Berlusconi, stando agli inquirenti, è stato ricattato (e ha pagato) per storie di escort; ha fronteggiato Tarantini, non le Br. I tempi cambiano; in meglio per molti versi (almeno, non scorre il sangue), ma in peggio per altri: il ricatto si fonda su vizi privati che non diventano per nulla pubbliche virtù, ma, al contrario, pubbliche debolezze.
C´è infatti una profondissima differenza fra un potere ricattato e un potere minacciato: la minaccia – non necessariamente violenta – fa parte strutturale del panorama della politica, intesa come insieme di rapporti di forza, tanto nella politica internazionale quanto nelle relazioni sociali. Ma si tratta di una sfida pubblica, a viso aperto: una concorrenza fra Grandi Potenze, una trattativa sindacale, si situano su questo terreno, fanno parte di questa sintassi. Questo tipo di minacce è fisiologico, e rafforza il potere, temprandolo nel conflitto.
Il ricatto, invece, è patologico, e lo indebolisce. Non solo perché viola l´aspetto giuridico del potere, cioè il principio di legalità che al potere moderno è coessenziale – e lo viola due volte: il ricattatore commette certamente un reato, ma qualcosa di poco chiaro c´è anche da parte del ricattato, il quale altrimenti non si lascerebbe ricattare –; ma anche perché il ricatto è un vulnus alla dimensione pubblica del potere, dato che si fonda su un fattore privato che deve rimanere segreto, e che come segreto è usato dal ricattatore per condizionare l´agire dell´uomo politico. E c´è quindi la forte probabilità che insieme al denaro (l´aspetto privato del ricatto) sia estorta anche la libertà d´azione: e ciò rende quel ricatto non un affare privato, ma una questione politica.
Il ricatto, insomma, rimette in gioco, aggiornandoli, quegli arcana imperii – i tenebrosi segreti del potere (che oggi consistono però nei segreti personali degli uomini di potere) –, contro i quali ha lottato la politica moderna, in nome della legalità e della trasparenza dell´esercizio della politica. Se il potere è sotto schiaffo, anche la legalità democratica, il controllo consapevole dell´opinione pubblica sugli affari politici, è a rischio; non solo è condizionabile il potere, ma siamo più ciechi, più ignoranti, più eterodiretti noi cittadini. Il ricatto subito dal potere, quindi, ci sottrae la politica: la privatizza. Anzi, si può dire che questo ricatto è una forma perversa e rovesciata di quella privatizzazione del potere che è il tratto più tipico dell´avventura berlusconiana: se il potere si personalizza, si espone a tutte le vicende della persona, anche le più private e arrischiate.
Il rimedio per sottrarre il potere al ricatto e per restituirgli la sua dimensione pubblica, affrancata dalle debolezze del privato, non sta necessariamente nel rigore giacobino che vuole il politico incorruttibile (come Robespierre), e gli vieta di avere altre passioni se non quella per la virtù e per la patria. Sarebbe sufficiente l´impegno collettivo di restituire alla politica la sua serietà di dimensione pubblica, ed esigere, da chi la pratica, una vita privata decente. Ma, appunto, il recupero della decenza, pubblica e privata, è, nel nostro Paese, qualcosa di simile a un'utopia rivoluzionaria.
Il pareggio di bilancio in Costituzione? «È una dichiarazione d'impotenza della politica. Uno slittamento di poteri e di responsabilità dagli organi politici a quelli giurisdizionali». Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale e docente alla Statale di Milano, attende con interesse di sapere le modalità con le quali questa mattina il Consiglio dei ministri avvierà l'iter di introduzione nella Carta della cosiddetta «regola d'oro» sul pareggio di bilancio. Di dubbi però ne ha più d'uno: «Sembra un po' come Ulisse che sa di non doversi buttare, ma non fidandosi della propria volontà si fa legare per resistere al canto delle sirene».
Bocciatura assoluta?
Di per sé introdurre un vincolo sul pareggio di bilancio che non sia in termini assoluti, rigidi, ma con tutte le eccezioni necessarie - non necessariamente tutti gli anni, per tenere conto dei cicli, e con deroghe in caso di emergenza - è ragionevole. Il dubbio è che sembra quasi un vincolo costituzionale alla buona amministrazione, quella che la politica dovrebbe essere in grado di assicurare sempre ma soprattutto in tempi come questi in cui tutti sembrano condividerne la necessità. È una dichiarazione d'impotenza della politica.
L'articolo 81 della Carta già impone che le leggi abbiano una copertura finanziaria, perché non basta?
Può succedere che una legge introduca meccanismi di spesa che poi nel tempo sfuggono al legislatore, oppure nel cambio di congiuntura economica non si riesce più a mantenere le coperture. Ecco allora che se non si è tenuto conto di possibili evenienze esterne, come la diminuzione di entrate o i meccanismi inflattivi, nel tempo gli equilibri si alterano e quindi occorrono manovre di rientro che sono politicamente dolorose.
Vuol dire, insomma, che un dettato costituzionale, come sappiamo, può diventare carta straccia?
Scrivere l'obbligo del pareggio in Costituzione è solo una dichiarazione solenne della volontà di provvedere a fare ciò che in passato non si è fatto.
Quale strumento in più, allora, si otterrebbe con la clausola?
La legge di stabilità potrebbe essere contestata costituzionalmente e fermata dallo stesso Capo dello Stato se non rispettosa di questi vincoli. Però è proprio questo il problema: alla fine sarebbe un giudice costituzionale e non il governo o il parlamento a pronunciarsi sulla correttezza di una manovra finanziaria. Ancora una volta su questo tipo di equilibri si rimetterebbe il giudizio finale all'esterno della politica.
Perché paesi come gli Stati uniti, la Spagna o la Germania hanno o stanno introducendo vincoli simili sul bilancio dello stato?
Negli Usa non c'è un vincolo di pareggio ma è il Congresso che autorizza l'aumento del debito. In Spagna invece il vincolo costituzionale è posto - secondo il progetto in via di approvazione - in termini molto generici e poi rimesso, per quanto riguarda le modalità concrete di attuazione, a leggi organiche approvate con procedure particolari e che sono più forti delle leggi ordinarie. Infatti mi sembra che anche da noi si vorrebbe richiedere una maggioranza qualificata per le leggi che introducano deroghe. Analogamente, in Germania il vincolo costituzionale prevede elasticità e eccezioni.
Eppure anche in Germania l'intervento finanziario «di salvataggio» della Grecia è finito davanti alla Corte costituzionale.
Questa è una cosa diversa, non c'entra col vincolo di bilancio. Ma, ecco, introducendolo avremmo proprio un effetto di questo genere: l'aumento dei poteri dei giudici. In più, siccome da noi adire la Corte costituzionale è molto più complicato che in Germania, si prevede che sia la Corte dei conti a poter impugnare la legge.
L'intenzione sarebbe quella di aggiungere controlli ex post oltre che ex ante, è così?
Beh, per forza. Perché da noi è oggi difficilmente praticabile la strada del giudizio di costituzionalità da parte dell'Alta corte su una manovra di bilancio. Quindi occorre un ulteriore meccanismo di controllo sulla legge. Così si accentua questo spostamento di attenzione e di poteri dagli organi politici all'organo giudiziario.
Ma allora, questa modifica dell'articolo 81 è solo un contentino per rassicurare la Bce e i partner europei?
Sì, in un certo senso è questo. Si tratta di dare un segnale positivo proprio perché la politica italiana ha perso credibilità. Un vincolo del genere sarebbe rassicurante all'esterno ma non è detto che saremmo in grado di tenervi fede. Non escludo un qualche significato positivo, ma l'utilità mi sembra dubbia.
Viceversa, non potrebbe essere controproducente, diventare un'arma per impedire interventi sul welfare, per esempio, o addirittura per paralizzare un governo?
Forse, ma il punto è un altro: siccome il vincolo non può essere assoluto e rigido, alla fine chi può giudicare se quella manovra è rispettosa o meno della Costituzione, tenendo conto di tutte le circostanze e delle possibili deroghe? Come si fa a valutare per esempio se si rispetta adeguatamente il ciclo strutturale? Sono valutazioni tecniche non facili, tipicamente di politica finanziaria, che vengono così spostate sugli organi giurisdizionali.
Espletata dalla Commissione di Garanzia del Pd la pratica disciplinare, dolorosa ma inevitabile, della sospensione di Penati, ora tocca a Bersani la parte più difficile. Che è una interpretazione non reticente - politica e non giudiziaria - della vicenda che vede protagonista il dirigente che egli aveva prescelto come capo della segreteria nazionale del partito. Tanto più che Penati era pervenuto a quell´incarico dopo lunghi anni in cui si era fatto riconoscere come il più fedele interprete nel Nord Italia del sodalizio politico - la "ditta", come scherza lui - di cui Bersani stesso rappresenta l´evoluzione.
A subire il colpo è un´antica e rispettabile tradizione, la cui memoria storica resta impersonata soprattutto da Massimo D´Alema, contraddistinta da una forte solidarietà interna. Nessuno ha osato dare del "traditore" a Penati. La costernazione con cui taluni membri di quella comunità politica vivono l´indagine di cui è oggetto, quasi si trattasse di un incidente sul lavoro, richiama il tempo in cui il partito si considerava "altro" rispetto al sistema circostante. Dunque il caduto sul lavoro meritava comprensione quand´anche non se ne potessero giustificare in pubblico i comportamenti, resi necessari dalla durezza dello scontro politico; ma non dichiarabili.
L´ambiente in cui i reati sarebbero stati perpetrati, la cosiddetta "rete" dei funzionari che fiancheggiavano Penati nell´esercizio della sua attività, ha origini troppo familiari, militanti, per sopportare l´idea che sui giornali venga descritta come criminosa.
Tale riflesso istintivo "di corrente" per fortuna ha oggi sempre meno cittadinanza nel Pd, anche perché i suoi epigoni sono incorsi in una sequenza inesorabile di sconfitte, a cominciare dallo stesso Penati. L´impetuoso movimento partecipativo con cui Milano, per prima, si è liberata dal berlusconismo, già aveva reso obsoleta la realpolitik con cui Penati, ma anche i suoi interlocutori romani, s´illudevano di trovare spazio nella società del Nord, assumendone peraltro una falsa immagine deformata dall´ideologia. Anche la presunzione di rafforzare il proprio potere contrattuale instaurando relazioni spregiudicate fra politica e affari, appartiene alla medesima visione perdente della politica: il riformismo sacrificato alla sopravvivenza.
La tattica che si mangia gli ideali. Se pure non vi fossero dei reati, c´è la degenerazione del rapporto fra ruolo pubblico e interessi privati. Il clan prende il sopravvento sull´organismo democratico. Perfino il richiamo ai sentimenti popolari assume piuttosto stereotipi conservatori che non una sensibilità di sinistra.
Bersani ricorda bene come l´opzione "moderata" che Penati impersonava a Milano - da lui sostenuta con convinzione - fu sovvertita dagli elettori di centrosinistra nelle primarie del novembre 2010. Si verificò allora un passaggio delicato, che necessita un chiarimento. Furono respinte le dimissioni dei dirigenti locali del partito; Penati si accollò la responsabilità della sconfitta e fece ritorno a Milano, dove la sua leadership si era nel frattempo ridimensionata. E´ l´inizio di una svolta. Il Pd accetta il responso delle primarie, sostiene la candidatura di Pisapia, e consegue un importante successo elettorale, diventando la forza politica maggioritaria a Palazzo Marino.
Oggi è grazie a quella scelta felice che Bersani è in grado, pur nell´avversità dello scandalo, di cogliere un´occasione preziosa: ricominciare da Milano, la capitale del possibile cambiamento italiano, facendone anche il laboratorio di un autentico rinnovamento del partito.
E´ questo il classico caso in cui oportet ut scandala eveniant. La crisi dei vecchi poteri ambrosiani precipita, ma un´alternativa è già emersa. La sinistra del Nord sprigionatasi come antidoto al berlusconismo, e pervenuta al governo di Milano, ha fornito un modello di democrazia partecipativa e ora sperimenta la trasparenza nella pubblica amministrazione. Certo, deve ancora dimostrare di essere all´altezza, ma non sarebbe immaginabile orizzonte più favorevole nel quale lo stesso Pd ferito ritrovi la sua ragione di essere. A condizione però di fare i conti con le verità scomode rivelate dalla vicenda politica di Penati. Quali che siano le sue responsabilità giudiziarie, Penati merita infatti di venire riconosciuto per quello che è: l´espressione coerente di una politica che ha fatto il suo tempo. Il Pd non poteva fare altro che sospenderlo. Ma Bersani sa meglio di chiunque altro che non è una mela marcia.
Quello di Raffaele Bonanni è un modo ben curioso per accogliere l'appello del presidente Napolitano alla «coesione»: lo sciopero della Cgil, dice il segretario della Cisl, «dà un ulteriore segnale negativo alle Borse». Neanche al ministro Sacconi è venuta in mente una trovata di questo livello, e forse neanche all'associazione degli operatori di Borsa. Se c'è una coesione che dovrebbe interessare un sindacato è quella sociale, tanto più dentro una crisi come questa e a fronte delle politiche liberiste prigioniere della finanza e dei mercati che ripropongono le stesse modalità della crisi che hanno generato. E che ora tentano di scatenare una guerra tra poveri trasformando il conflitto tra capitale e lavoro in una lotta tra gli ultimi della scala sociale. Chi vive di lavoro o di pensione, chi il lavoro non ce l'ha o l'ha perduto, dovrebbe pagare il conto per tutti. La coesione necessaria a questo paese come agli altri paesi europei è fuori da Piazzaffari e dai palazzi della politica, è tra la gente tartassata, che non potrebbe evadere il fisco anche se volesse. Quelli che ieri hanno risposto alle provocazioni con rabbia e dignità. Uno striscione sostenuto dalle militanti Fiom interpretava bene questi sentimenti: «Ci volete schiave, ci avrete ribelli».
Bonanni si preoccupa per le Borse: ma la Cisl, un'organizzazione che ha una storia nobile e un radicamento di massa, è ancora un sindacato? Chiedetelo agli operai metalmeccanici della Fim della Lombardia, del Veneto, delle Marche, della Toscana, dei cantieri di Palermo che ieri hanno scioperato insieme alla Cgil. O a quell'anziano militante con il volto tirato che a Roma alzava un cartello con la scritta: «Dopo 35 anni mi vergogno di essere un tesserato Cisl».
La Cgil non è sola. Per un giorno è stata capace di intercettare la rabbia e la protesta delle persone perbene, sindacalizzate e non, occupate e non, precarizzate, impoverite, commercializzate, buttate su un mercato chiuso senza prospettive come capita agli studenti. In piazza sono scesi in tantissimi in tutte le città italiane, con gli operai e gli impiegati, maestre d'asilo e operatori delle cooperative sociali, infermieri, artisti, registi, medici, sfrattati, handicappati privati del sussidio, pensionandi in speranzosa attesa, ministeriali, insegnanti, giovani dei centri sociali. Anche la decisione di alcuni sindacati di base di proclamare il loro sciopero nello stesso giorno scelto dalla Cgil rappresenta un segnale positivo.
I politici di centrosinistra si sono fatti vedere nei cortei, anticipando via mail l'ora e il luogo del loro ingresso per non lasciare delusa l'informazione politica. Meglio che fossero lì, ma avranno imparato qualcosa prima di andare in Senato a fare «coesione»?
C'è un popolo capace di indignarsi, qui come nel resto del Vecchio Continente, nelle forme più diverse. Un popolo privo di rappresentanza, capace di lanciare alla politica segnali forti: con le proteste sociali a partire da Pomigliano, con i referendum in difesa dei beni pubblici, persino con le elezioni amministrative. Può avere in futuro almeno una sponda sociale? Può la Cgil, dopo aver intercettato i sentimenti della maggioranza della popolazione, rappresentare questa sponda, impedendo il riflusso e il ripiegamento dei movimenti, offrendo un'alternativa alla guerra tra poveri? E' alla Cgil che va rivolta questa domanda, che noi formuliamo così: lo sciopero straordinario di ieri che ha svuotato i posti di lavoro e riempito le città è un una tantum, oppure rappresenta l'inizio di un conflitto capace di durare nel tempo, di imporre innanzitutto il ritiro dell'odioso articolo 8 della manovra che toglie il diritto di parola e di sciopero a chi lavora, dando ai padroni la libertà di licenziare, cancellare le leggi, lo Statuto, la Costituzione, i contratti nazionali e i sindacati non complici? Con questo governo (e con questa languida e prigioniera opposizione) non c'è alternativa possibile. Berlusconi dev'essere rimandato a casa. E ancora: indignarsi è il primo passo, ma poi bisogna costruire un'alternativa sociale, politica, culturale. Di sistema. E' una strada lunga e sconnessa, passa attraverso la rifondazione della politica che non può essere delegata a nessuno.
La Cgil potrebbe essere un buon compagno di viaggio, prendendo atto che non c'è futuro nell'inseguimento di un'unità di vertice impossibile con la Cisl che si preoccupa della Borsa, la Uil che si preoccupa della Uil e i padroni che si preoccupano solo dei loro affari. Ieri lo sciopero ha fermato le linee di montaggio di tutti i simboli nazionali: i Baci Perugina, la nazionale di basket bloccata a Riga, il Colosseo e i Fori imperiali. Piccoli segnali importanti, che dovrebbero dare coraggio al gruppo dirigente della Cgil e a tutti gli uomini e le donne che ieri non sono andati al lavoro ma in piazza, prenotandosi per il prossimo appuntamento.
Noi italiani, anche nei momenti di crisi nera, mentre la Borsa crolla e sale la sfiducia dei partner europei, non ci facciamo mancare nulla. L'ultima trovata è il Giro della Padania, la più immaginaria delle corse ciclistiche, visto che la Padania non si trova su nessun Baedeker, è solo un miraggio secessionistico di una geografia immaginaria.
Eppure la corsa ha ricevuto la benedizione dal Coni, dalla Federciclismo, dal ct della Nazionale Paolo Bettini e vede in gara i big della bicicletta, a cominciare dal varesino Ivan Basso e da Giovanni Visconti, campione tricolore e siciliano di nascita. Partita da Paesana (Cuneo), il paese simbolo della Lega Nord, dove ogni anno a metà settembre si tiene il comizio che apre la «Festa dei Popoli», dopo il rito del prelievo dell'acqua con l'ampolla alle sorgenti del Po, la corsa ha avuto il suo primo intoppo a Mondovì, dove un gruppo di manifestanti capeggiati da Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione Comunista, ha tentato di fermare il passaggio della carovana: una scena quasi comica.
Dicono che il Giro della Padania sia un'idea di Umberto Bossi, dunque sacra e inviolabile per il popolo del Carroccio. Noi italiani siamo fatti così: se il capo dello Stato parla di segnali allarmanti noi rispondiamo inventandoci una corsa. Altro che un punto in più d'Iva o la supertassa o la patrimoniale. La crisi si supera con la fantasia. Pier Luigi Bersani, segretario del Partito democratico, ha in mente un torneo di calcetto fra ricchi e poveri, reddito dichiarato alla mano. Se vincono i ricchi, i poveri non andranno più in pensione. Se vincono i poveri potranno fare un giro su Ikarus, la barca a vela di Massimo D'Alema prima della vendita. Antonio Di Pietro, presidente dell'Italia dei Valori, pensa invece a una gara di tiro alla fune da svolgersi nelle campagne di Montenero di Bisaccia: in palio ci sono prosciutti, quote sugli acquedotti comunali e un set di canottiere d'antan. Anche Lorenzo Cesa non è da meno: si è fatto prestare tutti gli oratori d'Italia per una mega torneo di palla prigioniera. I vincitori andranno con la Destra, i perdenti con la Sinistra, pur restando un gruppo unico.
Silvio Berlusconi ha in testa un solo sport, chiamiamolo così: è uno sport di resistenza, di contatto fisico, di volteggio. Avrebbe potuto coinvolgere anche dissidenti alla Italo Bocchino. Angelino Alfano, dopo aver consultato un sondaggio, ha preferito però suggerire un più tranquillo torneo di golf: «C'è buca e buca, gli italiani devono capirlo». Angelo Bonelli, della Federazione dei Verdi, ha indetto una gara di curling, giocato però con ghiaccio naturale, ad alta quota.
Tuttavia, per onestà, va detto che l'idea del Giro della Padania resta la più fantasiosa. Dietro a Bossi, devono esserci finissimi intellettuali, viaggiatori d'ingegno, eruditi ideatori di mappe. Com'è noto, la Padania (o Padanìa) non esiste, e mai esisterà, è un luogo invisibile come quelli creati da Italo Calvino, appartiene all'inventario delle contrade create da scrittori di tutti i tempi e di tutte le letterature.
La Società Ciclistica Alfredo Binda sta già preparando il Giro di Andorra, piccola repubblica dell'Europa meridionale, da non confondersi con lo staterello pirenaico omonimo. È un paese di strette vallate e campi pietrosi su scoscesi pendii. L'ha inventato Max Frisch e piace molto ai Comunisti Italiani di Oliviero Diliberto. Bruno e Roberto Reverberi, padre e figlio, residenti a Ghiardo di Bibbiano, team manager e direttore sportivo della Colnago Cfs Inox, pensano invece al Giro di Bengodi, contrada situata in Berlinzone, terra dei Baschi. Vi sorge una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale abita gente che non fa altro che impastare maccheroni e ravioli. L'idea è di Boccaccio ma piace molto al Movimento per l'Autonomia di Raffaele Lombardo. C'è già lo sponsor: il signor Rana.
Il Coni, per non essere da meno, suggerisce il Giro della Terra di Mezzo, quella del Signore degli Anelli. La Terra di Mezzo trova il consenso di tutti partiti politici, proprio perché è di mezzo ed è utile alla mediazione e alla mediocrità. Del resto, alzare la media, come suggeriva Luciano Bianciardi, è la nostra unica possibilità di superare la crisi: l'età media, la statura media, la terza media, l'intelligenza media, l'onda media, la birra media, la produttività media e la media oraria del Giro della Padania.
La Cgil riempie le sue 100 piazze per uno sciopero che è un successo politico e sindacale. Susanna Camusso dal palco al Colosseo attacca il governo, soprattutto Sacconi, e promette: cambieremo la manovra.
«Non ci rassegnamo, abbiamo già salvato le nostre feste, ora cambieremo questa manovra». Il secondo sciopero generale indetto da Susanna Camusso, il primo con manifestazione a Roma, vicino a quel Circo Massimo che ha fatto la storia recente della Cgil, è un successo. Un successo di partecipazione nelle 100 piazze disseminate per la penisola, un successo politico per la presenza di tanti partiti e tanti leader. Da Torino a Palermo le piazze stracolme hanno smentito chi descriveva una Cgil nell'angolo, mentre le presenze di primissimo livello politico hanno smentito chi parlava di «solitudine politica» di «chi sciopera da solo». Un successo anche personale: «Susanna, Susanna» è il coro che si sente da sotto il palco collocato vicino all'arco di Tito e sotto il Colosseo. Dal concentramento davanti alla Stazione Termini, passando per il percorso usuale dei cortei, il lunghissimo serpentone rosso avanza orgoglioso. Susanna Camusso con camicia bianca, gonna blu e sciarpa rossa, saluta tutti: politici e lavoratori. Poi sul palco, preceduta dall'intervento del segretario di Roma e Lazio Claudio Di Berardino, scalda i cuori delle migliaia di persone che la ascoltano sotto il sole. «Noi un paese così non ce lo meritiamo», esordisce. «Un paese senza credibilità per colpa di un governo che per 3 anni diceva che tutto andava bene, che a luglio ha detto che la prima manovra bastava fino al 2014. È durata 9 giorni, poi ha iniziato a scavare con manovre sempre più depressive». Non cita mai direttamente il ministro Sacconi, ma è lui il bersaglio più colpito. «Poi è arrivata la lettera della Bce, ma non ce la fanno vedere forse perché c'è un giudizio negativo su di loro, non sui lavoratori. Un ministro a caso dovrebbe decidersi: o ci fa vedere la lettera o mente e sa di mentire».
Il segretario generale della Cgil poi festeggia «la vittoria della nostra mobilitazione» sulle feste civili («A quale mente perversa era venuto in mente di cancellare la nostra memoria, le nostre radici?») e spiega quindi che la Cgil è contro «una manovra che sa di vendetta, iniqua, ingiusta, incivile sulla norma che riunisce tutti i lavoratori disabili in reparti ghetto, che si accanisce sui più deboli e sui dipendenti pubblici». Sul contributo di solidarietà la Cgil rivendica di averlo chiesto «per prima, ma di volerlo equo facendolo pagare anche agli autonomi e a chi ha rendite finanziarie». Lo slogan della manifestazione è infatti chiarissimo: «Paghi di più chi ha pagato poco e paghi chi non ha mai pagato», «senza proclami sull'evasione per poi arrivare ai condoni». Al presidente Napolitano che «giustamente chiede di fare in fretta», Camusso risponde che «in fretta e con equità si possono tassare rendite e immobili». A chi sostiene sia «irresponsabile scioperare in questo momento», Camusso rispedisce «al mittente l'accusa» e la gira «a chi in questa situazione ha voluto introdurre un articolo per rendere più facili i licenziamenti, facendo strame dei diritti dei lavoratori grazie al principio che ogni contratto è derogabile».
Il segretario generale chiede invece al governo di «ridare alle parti sociali la loro autonomia» e a Confindustria «di avere coerenza: o c'è l'accordo con i sindacati o c'è la legge». Camusso riparte quindi dallo slogan: «Se non ora quando», «quello di una importantissima piazza» per tornare a dialogare con le parti sociali e «l'occasione si chiama legge sulla rappresentanza». Appena nomina Cisl e Uil arrivano i fischi, ma Camusso li ferma subito: «Non fischiate, noi siamo rispettosi delle posizioni altrui, non ledimo la loro autonomia». La polemica con Bonanni e Angeletti è sul tema dello sciopero: «La domanda a loro è: quando si può scioperare? Perché se non c'è mai un momento giusto, viene il dubbio che non si sia capito la gravità della situazione. E quindi con nervi saldi diciamo che politica e sindacato devono avere a cuore l'autonomia e stare con i piedi per terra e la nostra terra è quella dei lavoratori».
Sull'articolo 8 quindi il messaggio al Parlamento è diretto: «Se non verrà stralciato useremo tutte le armi per cancellarlo, come per tutte le norme che contestiamo, dalla Corte Costituzionale, alle cause civili, alla Corte di giustizia europea, non ci fermeremo». Mentre per Sacconi il messaggio è più duro: «Se non lo stralcerà diventerà il peggior ministro della storia della Repubblica, quello che come professione ha la divisione del sindacato». Sul capitolo dei tagli alla politica la posizione è ferma: «Noi siamo contro i privilegi della politica, i vitalizi dei parlamentari, le nomine politiche nella sanità, ma quando si tagliano gli enti locali come le Province non si sta tagliando la politica, si stanno tagliano i servizi ai cittadini. E si fa demagogia».
In serata poi arriva la reazione agli ennesimi cambiamenti alla manovra: «Risultato detta Camusso di un governo in stato confusionale, sordo di fronte al paese e sempre più condizionato dagli umori dei mercati», con «novità che rafforzano l’iniquità di una manovra sbagliata».
Forse, se vogliamo capire un poco quel che accade in Italia, bisogna pensare alle guerre, ai tabù che esse infrangono. Clausewitz, ad esempio, diceva che le guerre napoleoniche avevano «abbattuto le barriere del possibile, prima giacenti solo nell´inconscio», e che risollevarle era «estremamente difficile». Non dissimile è quel che ci sta succedendo. Un capo di governo ci s´accampa davanti, e passa il tempo a distribuire soldi perché cali il silenzio su verità che lo riguardano. Non qualche soldo, ma tanti e sfacciati. Sfacciati perché la stessa persona dice che verseremo «lacrime e sangue», per riparare una crisi che per anni ha occultato, non sentendosene responsabile. Mentre noi faticosamente contiamo quello che pagheremo, lui sta lì, in un narcisistico altrove, e dice che i soldi li elargisce a persone bisognose, disperate, a lui care: i coniugi Tarantini, Lele Mora, Marcello dell´Utri, e parecchi altri.
Abbondano i diminutivi, i vezzeggiativi, nelle intercettazioni sempre più nauseabonde che leggiamo: si parla di regalini, noccioline, problemini. I diminutivi sono spesso sospetti, nella lingua italiana: nascondono infamie. Nel caso specifico nascondono la cosa più infame, che è il ricatto: sto zitto e ti sono amico, ma a condizione che paghi. Amico? Piuttosto «complice in crudeltà», come diceva La Boétie nella Servitù Volontaria. Dice la moglie di Tarantini, sul mensile di 20.000 euro che il premier elargì per anni ai coniugi che spedivano escort a Palazzo Grazioli: «Ci servivano tutti quei soldi perché abbiamo un tenore di vita alto». Dovevano andare a Cortina, precisa. Chissà perché: dovevano. Questa è la disperazione che Berlusconi incrocia passeggiando. Uno sciopero, immagino non gli dica nulla su chi dispera.
Ricattare un uomo è peggio di sfruttarlo. È conoscerne i misfatti e racimolando prove guadagnarci. Le conversazioni fra Tarantini e il faccendiere Lavitola sono istruttive: il premier va «tenuto sulla corda»; messo «con le spalle al muro»; «in ginocchio». È insultare il bisogno chiamarli bisognosi. La giustizia accerterà, ma già sappiamo parecchio: il premier è ricattabile, non padrone di sé. È una marionetta, manovrata da burattinai nell´ombra. Si è avuta quest´impressione, netta, quando Dell´Utri commentò, il 29-6-2010, la sentenza che lo condannò in appello per concorso esterno in associazione mafiosa. Ancora una volta glorificò Mangano, il tutore-stalliere distaccato a Arcore dalla mafia che mai nominò Berlusconi. Poi aggiunse, singolare postilla: «Io non l´avrei fatto. Forse non avrei resistito a quello cui ha resistito lui». La frase non era buttata lì; pareva un pizzino: «Stai in guardia, posso parlare, io non sono un eroe».
Uno che accetta d´esser ricattabile pensa di dominare ma è dominato; sproloquia di un Paese che ama ma lo considera «di merda». La guerra distorce gli animi a tal punto. Come può governare, se è ostaggio di uomini e donne che lo spremono? Come, se la sua vulnerabilità al ricatto diventa un male banale, un´ordinaria abitudine omertosa, e questo nell´ora in cui dagli italiani si esige una ripresa, morale oltre che economica, e una solidarietà con i poveri, i giovani derubati di pensione e futuro, i precari che la Banca d´Italia chiede di tutelare (comunicazione al Parlamento del vicedirettore Ignazio Visco, 30-8-11) e che la manovra ignora? Non è solo Berlusconi, il sequestrato. La cultura estorsiva secerne i suoi habitués, per contaminazione. Fra essi potrebbe esserci Tremonti, il così imprudente, così stupidamente spavaldo uomo-chiave della crisi.
Gli stava vicino un ometto tracotante e avido, Marco Milanese: ma proditoriamente. Accusato di associazione a delinquere, corruzione, rivelazione di segreto, si spera che il Parlamento ne autorizzi l´arresto. Milanese aveva anche dato al ministro un appartamento al centro di Roma che Tremonti pagava in parte e senza fattura. Il perché resta oscuro. Il ministro ha detto che la Guardia di finanza lo spiava: cosa strana per chi della Gdf è capo. Più la faccenda s´annebbia, più cresce il sospetto che anch´egli sia ricattato da un «complice in crudeltà».
Ma c´è di più: la debolezza di Berlusconi accresce negli italiani il disprezzo, l´odio della politica. Proprio lui, che entrò in scena vituperando i politici di professione ed esaltando meriti e competenze, incarna ora la politica quando si fa putrescente. La sua è una profezia che si autoavvera: aveva dipinto la separatezza teatrale del politico, e l´immagine s´è fatta iper-realtà. Al posto dei partiti le cerchie, le cosche: più che mai i cittadini sono tenuti all´oscuro. Per questo è così vitale raccogliere le firme per abolire tramite referendum la legge elettorale che ha potenziato le cosche. Disse ancora Dell´Utri, nel 2010, che mai avrebbe voluto fare il ministro: «Voglio scegliere i ministri». Ecco lo scopo delle cosche: scegliere, ma dietro le quinte. Berlusconi accusa tutti, di debilitare il premier: costituzione, Parlamento, oppositori, giornali. Non accusato è solo chi amichevolmente lo irretisce in permanenti ricatti.
Non si creda che basti toglierlo di scena perché tutto torni a posto. Che basti sostituirlo con altri spregiatori della politica, magari invischiati come lui in conflitti d´interesse. Se tante barriere sono cadute, abbassando la soglia del fattibile, è perché da 17 anni la sinistra ingoia i conflitti d´interessi, e si irrita quando qualche stravagante parla di questione morale. Perché anch´essa custodisce sue cerchie. Altrimenti avrebbe capito un po´ prima che a Milano e Napoli montava una rivolta della decenza che infine ha incensato, ma di cui non fu l´iniziatrice. Altrimenti si getterebbe ora nella raccolta di firme sulla legge elettorale. Altrimenti elogerebbe ogni giorno l´opera di Visco e Prodi contro l´evasione fiscale. Il male di Berlusconi contagia: è «dentro di noi», come scrisse Max Picard di Hitler nel ‘46. Come spiegare in altro modo l´incuria, l´impreparazione, davanti ai tanti scandali che assillano il Pd: da Tedesco a Pronzato e Penati?
Certo la sinistra non è Berlusconi: rispetta la giustizia, e non è poco. Ma una cosa rischia di accomunarli: il virus viene riconosciuto solo quando i magistrati lo scoperchiano, non è debellato in anticipo da anticorpi presenti nei partiti. Le condotte di Penati non erano ignote. Fin dal 2005 fu sospettato d´aver acquistato a caro prezzo azioni dell´autostrada Serravalle, quand´era Presidente della provincia a Milano, nonostante la società fosse già pubblica: per ottenere forse dall´imprenditore Gavio, cui comprò le azioni, contributi alla scalata di Bnl. Poi vennero le tangenti per l´ex Area Falck di Sesto San Giovanni. Nel 2007 il giornalista Gianni Barbacetto scrisse su questo un libro (I compagni che sbagliano). Prudenza avrebbe consigliato l´allontanamento da Penati. Invece niente. Passano soli due anni, e nel 2009 Bersani nomina proprio Penati capo della sua segreteria. Era «l´uomo del Nord», scrive Nando Dalla Chiesa sul Fatto, e il Nord s´espugna con i figli del berlusconismo.
Si racconta che un giorno i discepoli di Confucio gli chiesero: «Quale sarà la prima mossa, come imperatore della Cina?». Rispose: «Comincerei col fissare il senso delle parole». È quello di cui abbiamo bisogno anche noi, è la via aurea che s´imbocca quando - finite le guerre - urge rialzare le barriere del fattibile. Rimettere ordine nelle parole è anche smettere gli smorti totem che ci assillano: parole come riformismo, o centrismo. Ormai sappiamo che riformista è chi si accredita conservando lo status quo, facendo favori a gruppi d´interesse, Chiesa compresa. Liberare l´Italia da mafie e ricatti non è considerato riformista. Sbarazzarsi di Berlusconi servirà a poco, in queste condizioni. Gli elettori sono disgustati dalla politica come nel ´93-´94. Cercheranno un nuovo Berlusconi.
PIEVE DI CORIANO (Mantova) - Un euro al giorno toglie il ladro di notte? Il sindaco Andrea Bassoli, assicuratore e ciclista, due furti in due anni, si è fatto una domanda e si è dato una risposta. «Sissignori. Al costo di un caffè faccio vivere tranquilla la mia gente».
Avviso ai topi di appartamento: se avete in mente di (continuare a) fare shopping nelle case di Pieve di Coriano - dove finora avete agito in scioltezza - lasciate perdere. La festa è finita e Fort Knox adesso si è trasferito qui, terra di tartufi e biciclette sull’argine del Po, a metà strada tra il lago di Garda e il mare Adriatico, dove puoi non vedere una macchina per chilometri ma i ladri, loro, ci vedono benissimo. Soprattutto al buio. Assalti in villa, buchi per entrare negli uffici, razzie o anche colpi stupidissimi, da ladri di galline, tipo tre succhi di frutta prelevati dal frigorifero però, ed è ancora più odioso, sempre quando la gente è in casa e sta dormendo.
Va così dal 2006, l’ultima ondata predatoria a maggio. Il Comune adesso ha detto basta e, primo caso in Italia, ha varato un impianto d’allarme unico per l’intero paese. Al costo, appunto, di un euro al giorno per ogni famiglia. Come funziona? Non pensate a una sirena centralizzata, nessun grande cervellone. Molto più semplice: l’amministrazione comunale, grazie a una convenzione siglata con l’Istituto provinciale di vigilanza di Mantova, offre il sistema di sicurezza a tariffe agevolate. Le famiglie - 450 per un totale di 1069 abitanti - possono o acquistarlo o noleggiarlo al costo di 30 euro al mese. Il contratto dura cinque anni. Dopodiché l’impianto di allarme può essere riscattato con un centinaio di euro, oppure si può rinnovare l’abbonamento. Completa il ventaglio delle offerte un rinforzo della vigilanza notturna: in pratica, pagando 3,5 euro l’anno, ogni famiglia può incrementare le ronde dei vigilantes, già attive, fino a tre giri del paese. Dall’attracco fluviale alla zona artigianale.
«Non c’è nessuna psicosi - dice il sindaco Bassoli, al secondo mandato, giunta di centrosinistra - ma la richiesta di maggiore sicurezza viene proprio dai cittadini. È chiaro che più contratti riusciremo a sottoscrivere e più controlli avremo». Vista così sembra che Pieve sia una succursale di Caracas o un avamposto libico. In realtà il primo cittadino sostiene che «come furti siamo più o meno nella media degli altri paesi». Ma si capisce che danza sui cristalli: se da una parte vuole sensibilizzare la comunità ad abbonarsi alla sicurezza privata, dall’altra non può alimentare ulteriori paure.
Da notare: in paese ci sono già sette telecamere. Le hanno messe tre anni fa, 36 mila euro di spesa. Sono collegate via wireless a una centrale operativa del municipio e la stazione dei carabinieri di Revere, il paese vicino. «A proposito, funzionano queste telecamere?», chiede Bruno Pelin al bar Acli, in piazza Gramsci. È inutile negare che un po’ di scetticismo c’è. Anche sul costo. «È vero che un euro al giorno è un caffè, ma fanno 365 euro all’anno per 450 famiglie». Lino Mazzola fa due conti e, sotto la facciata romanica di Santa Maria Assunta, allarga le braccia. A giugno nella prima assemblea pubblica organizzata dal sindaco, la risposta è stata positiva. «Da lì ho capito che la cosa può funzionare», sostiene Bassoli. A fine settembre ci sarà un altro incontro. L’operazione allarme cooperativo sarà già avviata. «In paese ci sono già un centinaio di case dotate di allarmi privati. Se riusciamo a sottoscrivere almeno un altro centinaio di contratti è un ottimo risultato. A quel punto i ladri dovranno sceglierle con il lanternino le case da svaligiare». Luca Morandi fa l’imbianchino. Per ora ha solo dei sensori sulla porta di ingresso. Sta valutando se accettare la proposta del Comune. «Un euro non è tanto, ma l’importante è che questi allarmi siano davvero efficaci».
Chissà cosa ne pensano le bande di rapinatori che calano dal Veneto. Non professionisti. Piuttosto, spiegano in municipio, ladri improvvisati. «Quelli che hanno preso i carabinieri erano romeni, minorenni». A maggio si sono dati da fare. Oltre all’ufficio dell’agenzia di assicurazioni Unipol gestita dal sindaco, hanno preso di mira le abitazioni del carrozziere, di un paio di pensionati e di una famiglia appena arrivata in paese. Sembrava di essere tornati all’anno orribile 2006, quella dei colpi a ripetizione. C’è da dire che nonostante le visite dei ladri, Pieve - in controtendenza rispetto alla media dei paesini - continua a popolarsi. Sette anni fa gli abitanti erano 800. Oggi mille e sessanta. Molti lavorano all’ospedale, una sede distaccata del Carlo Poma di Mantova che impiega 400 persone. «Siamo un paese giovane e pieno di bambini. E senza disoccupazione. Qui c’è un certo benessere. Forse - conclude Bassoli - i ladri ci hanno preso di mira per questo»
postilla
Quando leggiamo i messianici rapporti degli organismi internazionali sull’urbanizzazione del pianeta, di sicuro non andiamo mai e poi mai a pensare a certi villaggi di Heidi nelle valli prealpine, o ai piccoli borghi aggrappati agli argini del grande fiume in mezzo alla pianura. E invece dovremmo proprio farlo, perché la notizia nel caso specifico è l’accettazione della normalità dei furti, e l’interessante offerta dell’amministrazione comunale di un nuovo servizio ai cittadini: cosa c’è di più urbano? La parola “paesini” usata dal giornalista forse ha senso se leggiamo le necessariamente distorte statistiche basate sulle circoscrizioni comunali, ma basta chiedersi per un istante: da dove viene tutto il benessere bramato dai topi d’appartamento? Dai mille abitanti che zappano chini nei campi manco fossimo in una pantomima dell’Angelus di Millet? Certo che no! E Allora si capisce che in un modo o nell’altro quel comune è l’ennesimo quartiere suburbano, con tutti i problemi connessi, e continuare a pensarlo in termini di autonomia classica, immaginario semirurale, forse conviene agli amministratori locali, vagamente convinti di operare al meglio, ma fa male a tutto il resto del mondo, almeno al famoso 50% urbano degli organismi internazionali … Ho anche provato ad allargare un po' il ragionamento (f.b.)
Il miglior atto di responsabilità verso il Paese che la Cgil potesse assumere lo ha fatto proclamando lo sciopero generale e chiamando tutti alla mobilitazione.
Questa manovra del governo dev'essere profondamente cambiata, a partire dal ritiro dell'articolo 8 che cancella il diritto del lavoro, il contratto nazionale e lo Statuto dei Lavoratori. Non è sufficiente: un governo che con le sue leggi classiste sta attentando alla nostra Costituzione formale e materiale dev'essere mandato a casa. Di conseguenza, lo sciopero generale non può restare un momento a sé, per quanto fondamentale, ma deve segnare l'inizio di una mobilitazione straordinaria capace di durare il tempo necessario ad ottenere tutti questi risultati che non si esaurirebbero neanche con un cambiamento radicale della manovra. La Confindustria sta sostenendo apertamente le scelte del governo. Scelte che, con l'art. 8, promuovono l'odioso metodo della Fiat a Pomigliano e Mirafiori a legge dello stato, in violazione di altre leggi fondamentali.
Siamo di fronte ad un atto di una gravità senza precedenti che viola le più elementari regole di una democrazia costituzionale e che fa carta straccia persino dell'accordo interconfederale del 28 giugno, firmato dalla Confindustria insieme a Cgil, Cisl e Uil. Inoltre, la manovra non interviene sulle ragioni che hanno determinato la crisi, anzi fa pagare ancora una volta i lavoratori dipendenti, i pensionati ed i giovani, riproponendo gli stessi identici meccanismi e le stesse ricette che hanno gettato il mondo intero in questo marasma. Le risorse per uscire attraverso un'altra strada dalla crisi ci sono: vanno ricercate non tagliando lo stato sociale, i diritti e la dignità dei lavoratori e dei cittadini, ma introducendo una vera patrimoniale, tassando le transazioni finanziarie, colpendo l'evasione e la corruzione, riformando profondamente il sistema politico.
Il fatto ancor più grave è che questo tsunami che ci viene scatenato contro si sviluppa in assenza di una politica industriale pubblica capace di avviare un nuovo modello di sviluppo, socialmente ed ambientalmente sostenibile e rispettoso del pronunciamento popolare realizzato attraverso i referendum dello scorso giugno.
È in gioco la democrazia di questo paese, nei posti di lavoro come nella società. Anziché l'art. 8 del governo, è necessaria una legge sulla rappresentanza che sancisca il diritto dei lavoratori a votare sempre in modo libero sui contratti che li riguardano. L'unità del lavoro è un valore irrinunciabile, ma si costruisce con la democrazia, permettendo dunque, sempre, ai lavoratori di votare. C'è bisogno di unire intorno alle battaglie per il lavoro i giovani, gli studenti, i precari e tutti coloro che hanno subito e pagato la crisi. Solo attraverso questa unità è possibile determinare un reale cambiamento sociale, morale e politico.
L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, tale deve restare.
L'autore è Segretario generale della Fiom
Il polverone sollevato dall´impressionante disastro finanziario islandese - che ha comportato il fallimento delle tre banche più grandi e quindi il crollo della sua economia nell´autunno del 2008 - si stava appena diradando e già il Paese si è messo alla ricerca di qualcuno sul quale addossare le responsabilità dell´accaduto. Di sicuro le banche, certo. Un procuratore speciale nominato dal governo ha fatto i nomi di oltre 200 funzionari sospetti in un caso che, come pare inevitabile, sfocerà in un´imputazione. E poi i politici, naturalmente: gli elettori hanno espresso il loro sdegno nei confronti dell´Independence Party al governo da tempo allontanandolo dal potere nelle elezioni del 2009. Ma il desiderio di fare giustizia - e forse anche quello di vendicarsi - è forte e complesso e l´Islanda ha preso provvedimenti insoliti negli strani annali della crisi finanziaria mondiale: ha deciso di perseguire penalmente un personaggio politico, l´ex primo ministro Geir Haarde, perché il suo governo non è riuscito a scongiurare la catastrofe.
L´accusa formale contro Haarde, decisa da un parlamento quanto mai lacerato al proprio interno, parla di «sue violazioni commesse dal febbraio all´ottobre 2008, di proposito o per omissione o per banale disinteresse, essenzialmente contro le leggi della responsabilità ministeriale». Secondo l´accusa Haarde avrebbe dato prova di «gravi mancanze nei suoi doveri di primo ministro di fronte a un pericolo enorme che incombeva sulle istituzioni finanziarie islandesi e sulle casse dello stato». Il suo grande peccato, sintetizza Atli Gislason, dei Verdi di sinistra al parlamento e leader della commissione che ha istituito la causa contro Haarde, è essenzialmente proprio l´omissione: «Il suo errore è stato non fare niente». Se sarà giudicato colpevole da un collegio speciale di giudici, Haarde - una personalità di riferimento per il conservatore Independence Party e che ha servito come primo ministro dal giugno 2006 al febbraio 2009 - potrebbe essere condannato a due anni massimo di reclusione.
Per certi aspetti, il caso in questione è servito all´Islanda da espediente per costringere le autorità a rispondere del loro operato e voltare pagina. Se non altro, però, anche se l´economia islandese sta iniziando a dare qualche segnale di ripresa, l´accusa a Haarde ha reso la già cinica popolazione ancora più sospettosa. Da recenti sondaggi è emerso che la fiducia nel Parlamento ha toccato i minimi storici. «È in corso un cambiamento», dice Kristrun Heimisdottir, consulente del ministero degli Affari economici. «Finora prevalevano rabbia e sete di vendetta, ma adesso la gente non sa se la colpa sia davvero tutta di Geir». Il problema, a detta di Robert R. Spano, professore e rettore della facoltà di giurisprudenza dell´Università di Islanda, è che legge e politica sono ormai aggrovigliate tra loro. In un´intervista ha infatti detto: «Quando si vive una situazione di forte rabbia, le decisioni che dovrebbero essere prese oggettivamente e con grande attenzione tendono a essere contaminate dalla politica e dalle emozioni».
Lunedì, nel corso di un´udienza, gli avvocati di Haarde hanno sostenuto che il caso dovrebbe essere cancellato per vari vizi procedurali, e che l´imputazione stessa è troppo vaga per rispondere ai parametri legali. Se la loro mozione non sarà accolta, e se Haarde darà fondo a tutti i ricorsi che ha a sua disposizione prima che inizi il processo, la sua causa sarà discussa all´inizio del prossimo anno da un tribunale, mai convocato prima, incaricato di occuparsi di casi che hanno a che fare con gli atti illeciti del governo.
Haarde, 60 anni, ha detto di non aver commesso reato alcuno, che gli eventi che hanno portato al crack finanziario erano troppo complessi per essere distillati in un´aggressiva azione politico-legale contro una sola persona, e ha concluso dicendosi sicuro che potrà dimostrare la propria buonafede. «A posteriori, è davvero difficile affermare che non avremmo potuto agire in modo diverso» ha detto nell´intervista. «Ma questo è un processo politico mascherato da causa penale. I miei avversari politici stanno cercando di prendersela con me, e di castigare me e il mio partito».
Perfino alcuni parlamentari che hanno espresso parere favorevole per accusare Haarde affermano di essere perplessi da come si stanno trasformando le cose. Nell´autunno scorso, una commissione parlamentare speciale che doveva svolgere indagini sul crack ha rispolverato una vecchia legge con la quale ha potuto individuare quattro persone - Haarde e tre dei suoi ministri - che potevano essere ritenuti penalmente perseguibili. Ma dopo una serie di manovre politiche che hanno scatenato una furiosa lite in Parlamento, con un voto di 33 a 30 il Parlamento ha deciso di accusare soltanto Haarde.
Jon Danielsson, esperto di Islanda presso la London School of Economics, ha detto: «È il Parlamento ad aver deciso che condanneremo una sola persona, e si dà il caso che questo unico imputato sia l´ex capo dei conservatori. Siamo davanti a un processo politico. O li accusiamo tutti o nessuno». Molti islandesi approvano questo ragionamento: «Haarder è stato uno degli artefici del crack dell´Islanda, su questo non c´è dubbio», dice Arnar Thorisson, un cineasta di 42 anni che l´altro giorno passeggiava in centro a Reykjavik. «Ma non mi basta veder accusato soltanto lui».
Se c´è un politico più colpevole di altri, secondo molti è David Oddsson, vecchio amico e mentore di Haarde, primo ministro dal 1991 al 2004. Durante il suo mandato l´Islanda privatizzò le banche, liberalizzò i regolamenti bancari, aprendo la strada a un breve periodo di prosperità, ma anche a un comportamento azzardato e in definitiva auto-distruttivo da parte delle banche. Quanto Oddsson lasciò la politica, divenne presidente della Banca centrale. Fu estromesso dalla sua carica nel 2009, ed è attualmente direttore di Morgunbladid, importante giornale islandese e sostenitore dell´Independence Party. «Lui è il re, e noi in un certo senso stiamo impiccando il principe» ha esemplificato Eirikur Bergmann, direttore del Centro per gli Studi europei all´Università Bifrost.
A prescindere da come andrà a finire, un processo non servirà granché a placare la collera degli islandesi. «Siamo lontani dal giudicare gli eventi in modo equilibrato», spiega Gunnar Helgi Kristinsson, docente di scienze politiche all´Università dell´Islanda. «Se Haarde sarà giudicato non colpevole, l´opinione pubblica lo considererà un verdetto di un sistema nel quale nessuno è tenuto a rispondere del proprio operato. Se sarà giudicato colpevole, si ritroverà a essere l´unico responsabile di una situazione che tutti sanno che non è giusto addossare soltanto a lui».
(Copyright New York Times - la Repubblica/ Traduzione di Anna Bissanti)
La grande stampa e la televisione si accorgono della risposta dell’Islanda alla crisi del finanzcapitasmo quando accade uno scandalo giudiziario. Non hanno informato quando in quel paese è successo lo “scandalo” di una risposta controcorrente al disastro provocato dai finanzieri: quando per uscire dalla crisi non hanno ammazzato il welfare e aumentato le tasse, ma colpito le banche. Vi rinviamo a un pezzo che a suo tempo abbiamo ripreso dal Fatto quotidiano, che a sua volta aveva preso l’informazione da facebook.
Se diventano legge, le modifiche all´art. 8 del decreto sulla manovra economica avranno effetti ancor più devastanti per le condizioni di lavoro e le relazioni industriali di quanto non promettesse la prima versione. I ritocchi al comma 1 rendono più evidente la possibilità che sindacati costituiti su base territoriale - si suppone regionale o provinciale, e perché no, comunale - possano realizzare con le aziende intese che, in forza del successivo comma 2, riguardano la totalità delle materie inerenti all´organizzazione del lavoro e della produzione. Da un lato si apre la strada a una tale frammentazione dei contratti di lavoro e delle associazioni sindacali da rendere in pratica insignificante la presenza a livello nazionale dei sindacati confederali; un esito che la maggioranza di governo punta da anni a realizzare.
Dall´altro lato la combinazione dei commi 1 e 2 darebbe origine a veri mostri giuridici. Il comma 2 stabilisce infatti che le intese sottoscritte da associazioni dei lavoratori più rappresentative anche sul piano territoriale valgono per la trasformazione dei contratti di lavoro e per le conseguenze del recesso del rapporto di lavoro. Come dire che se il sindacato locale accetta che uno possa venir licenziato con tre mesi di salario come indennità e basta, tutti i lavoratori di quel territorio dovranno sottostare a tale clausola. C´è dell´altro. Le eventuali intese tra sindacati e aziende riguardano anche le modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese - si noti bene - le collaborazioni coordinate o a progetto e le partite Iva. Il che significa che il sindacato potrebbe sottoscrivere dei contratti che prevedono l´impiego di lavoratori autonomi, quali sono formalmente i collaboratori e le partite Iva, come lavoratori dipendenti. Finora, se qualcuno cercava di realizzare simile aberrazione, finiva dritto in tribunale. L´art. 8 del decreto trasforma l´aberrazione in legge.
Quanto al nuovo comma 2-bis, esso abolisce di fatto non solo l´art. 18, bensì l´intero Statuto dei lavoratori. E con esso un numero imprecisato di disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2, visto che nell´insieme essi abbracciano ogni aspetto immaginabile dei rapporti di lavoro. Ciò è reso possibile dalla esplicita indicazione che le intese di cui al primo comma operano anche in deroga alle suddette disposizioni ed alle regole contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro. A ben vedere, il legislatore poteva condensare l´intero articolo 8 in una sola riga che dicesse "i contratti collettivi nazionali sono aboliti e con essi tutte le norme concernenti il diritto del lavoro".
Per quanto attiene alla tutela della parte più debole del contratto di lavoro, sarebbe quindi un eufemismo definire scandaloso il complesso del nuovo articolo 8 del decreto. Ma è giocoforza aggiungere che esso è anche penosamente miope per quanto riguarda il contributo che una riforma delle condizioni di lavoro potrebbe dare ad una ipotetica ripresa dell´economia. Il nostro Paese avrebbe bisogno, per menzionare un solo problema, di cospicui interventi nel settore della formazione continua delle sue forze di lavoro, di ogni fascia di età. È un settore in cui siamo indietro rispetto ai maggiori paesiUe. Questo decreto che punta in modo così smaccato a dividere le forze di lavoro per governarle meglio li rende impossibili. Naturalmente, c´è di peggio: esso rende anche impossibile un significativo recupero mediante la contrattazione collettiva della quota salari sul Pil, la cui caduta - almento 10 punti in vent´anni - è una delle maggiori cause della crisi.
Nei momenti difficili si mostra il carattere. Questa massima di saggezza popolare può valere per gli individui singoli e per le società. L´Italia naviga da mesi ormai in un mare di emergenza economica e finanziaria. Questo stato di difficoltà ha confermato lo stato di incredibile inadeguatezza della sua classe politica. Prima e soprattutto di quella di governo, la cui leadership è al fondo radicalmente antinazionale.
La coalizione di governo è dilaniata da mesi da conflitti intestini che vertono essenzialmente su questo: come riuscire a non far pagare il prezzo della manovra al proprio bacino elettorale, ai propri gruppi sociali o territoriali di riferimento. Che cosa questo comporti per il futuro del Paese non importa. Non importa alla Lega che per bocca del suo leader storico confessa al mondo che l´Italia comunque sarà spazzata via da questa crisi mondiale e che è quindi meglio pensare a salvare la parte sua, le regioni del nord padano nelle quali stanno gli elettori del Carroccio. Il destino del Paese non importa al presidente del Consiglio, il quale ha comparato senza giri di parole questo Paese, il Paese che governa, a un fetido escremento. L´inadeguatezza paurosa del premier è confermata dalla squallida vicenda Tarantini la quale, ha osservato Massimo Giannini nei giorni scorsi, mette in luce "l´enorme gravità politica" dei suoi comportamenti anche se non c´è agli atti nessun risvolto penale a suo carico. Dimostra quel che da anni si va ripetendo: che Berlusconi è un leader sotto ricatto, e pertanto inaffidabile; un leader che, in piena discussione sulla manovra economica, perde una quantità esorbitante del suo tempo per discutere dei suoi putridi "affari".
Ma i problemi della debolezza della leadership politica italiana si estendono oltre la maggioranza. La gravissima vicenda giudiziaria che vede coinvolto Filippo Penati è un macigno che pesa enormemente sull´autorità e l´efficacia politica del più grande partito di opposizione. Indipendentemente dai risvolti giudiziari, questa vicenda è di una gravità enorme e mette a nudo la debolezza politica del Pd. La vicenda dell´ex-presidente della Provincia di Milano mostra la persistenza di un modello di partito e di politica che apparteneva a un tempo nel quale i partiti erano i soli depositari del giudizio politico. Un tempo nel quale la fedeltà al partito era la prima e più fondamentale risorsa, il fine o il bene che giustificava l´uso di ogni mezzo e metodo. Su un campo di battaglia picchettato dalla logica della Guerra fredda le "mani sporche in politica" erano quasi una forma di eroismo: per parafrasare Machiavelli, i politici erano disposti a perdere l´anima pur di fare il bene del partito. Quando Penati chiede al suo partito di essere "garantista" con lui che è stato un leale sostenitore e non ha agito per arricchire se stesso, dimostra di ragionare secondo quella vecchia etica partitica. La "questione morale" è dunque una questione di "mores", di valori e principi politici dai quali derivano norme di comportamento. Nell´Italia di oggi non c´è più posto per questo modello di partito né quindi per una visione del bene del partito che giustifichi mezzi obliqui e irrispettosi della legge. In questo senso la vicenda di Penati mette in luce una debolezza non ancora risolta della leadership della sinistra.
La crisi della leadership politica nazionale è ovviamente complessa. Sarebbe a dir poco assurdo rubricare nello stesso capitolo maggioranza e opposizione. Il detto "tutti sono uguali" è una evasione della ragione, una scappatoia oziosa di chi non vuole ammettere la specificità del berlusconismo: un fenomeno di malgoverno, affarismo e negazione dell´interesse generale che è sistematico e sistemico. Non un caso di corruzione né il segno di una lealtà politica partitica, ma un modo di essere e fare politica che è scientemente fondato sulla violazione della legge o la sua riscrittura per renderla meglio disposta a permettere la distruzione del bene pubblico e la soddisfazione di beni privati, interessi di gruppi e di territori. Il berlusconismo è una forma di politica antinazionale, contro ciò che è nell´interesse della nazione. Questa politica dà il segno dell´inadeguatezza della leadership di governo in questo momento di emergenza nazionale.
La cosa preoccupante è che in questo momento di emergenza l´opposizione sembra aver smarrito la forza, il coraggio e la credibilità necessari per rovesciare questo corso rovinoso. Le elezioni di maggio e i referendum di giugno sono stati con troppa facilità messi in archivio, forse perché non si è compreso il loro significato, cioè la carica di disobbedienza al modello berlusconiano, un´indicazione preziosa di come ridare alla politica dignità e rigore, condizione essenziale per ricostruire una nuova leadership. La vicenda Penati rivela questa incomprensione; è il segno che la politica dell´opposizione è ancora intrappolata nella vecchia logica della politica partitica. Chiudere subito e con coraggio con quel modello di partito e di politica può agevolare l´emergere di una leadership che sappia cogliere appieno il messaggio che i cittadini hanno lanciato in maggio e giugno, che non dissipi un patrimonio etico e politico che a fatica, e con una ammirevole tenacia, gli italiani hanno saputo difendere in questi anni di egemonia berlusconiana.