Il titolo della dodicesima Biennale Architettura, "People meet in architecture", è interpretabile in vario modo, dice la curatrice Kazuyo Sejima. E in effetti sono molte le maniere in cui leggere l´assunto che vorrebbe l´architettura assolvere al proprio compito se favorisce l´incontro fra le persone. Persino troppe se consentono, nei diversi spazi della Biennale (aperti al pubblico da domani fino a novembre) di tenere insieme l´installazione di Aranda/Lasch che accoglie i visitatori nel Palazzo delle Esposizioni (una costruzione fatta di bianchi cristalli in silicone) o lo spettacolare ed evanescente Cloudscapes di Transsolar & Tetsuo Kondo, una grande nuvola che compare e scompare sospesa nel cuore dell´Arsenale, con il gigantesco e limpido plastico di Teshima, un´isola nel mare di Seto, in Giappone, opera della stessa Sejima insieme a Fiona Tan e Ryue Nishizawa.
Con questa edizione la Biennale torna a credere nell´architettura come costruzione. Due anni fa il curatore Aaron Betsky propose invece un´architettura oltre il costruito, suggerendo di allestire gli scenari in cui si svolge la vita senza ricorrere necessariamente al mattone. Sejima rimette al centro della sua mostra le potenzialità dell´architettura. Ma lascia grande, grandissima libertà agli espositori, fino al punto di rendere davvero poco significativo il titolo da lei proposto. Lo spazio è il mezzo con cui formulare il pensiero, aggiunge la curatrice. Ed è in effetti questa la sintesi più riconoscibile della mostra veneziana, che sconta il paradosso di ogni mostra d´architettura, che è quello di limitarsi a modellare spazi esprimendo significati.
E così ognuno dei 46 partecipanti prende la propria strada, chi puntando sull´edificio o sull´installazione d´arte, mescolando foto, video ed effetti di luce, chi – ma non è la maggioranza – abbozzando idee di città o di parti di essa. Colpiscono i modelli di Work Place dello Studio Mumbai, realizzati con tecniche tradizionali e materiali locali e confidando sullo spiccato ingegno che nasce dalle poche risorse. Spirito comunitario e modestia restituiscono ossigeno a un´architettura in affanno a causa del troppo e del troppo grande o compressa dallo star system. Anche il cinese Wang Shu sceglie l´architettura come servizio: una struttura mobile a forma di cupola fatta con assi di bambù e assemblata in una giornata. E, rientrando in pieno Occidente, si segnalano i progetti di Raumlaborberlin in piazze e spazi abbandonati della città. Il fine, come per Mumbai e Wang Shu, è di riportare l´architettura alle sue matrici comunitarie, anche per allestire luoghi temporanei. Nasce così Kitchen Monument, una scultura di zinco con un telo gonfiabile che può essere montato ovunque, per esempio sotto un cavalcavia in un´area dismessa. E qui si può deviare dai Giardini della Biennale verso Palazzo Mangilli-Valmarana, dove Lo-Fi Architecture (Mario Lupano, Luca Emanueli e Marco Navarra) espongono idee per un´architettura "a bassa definizione". O, restando ai Giardini, verso la sezione "Emergenza paesaggio" del Padiglione Italia in cui lo studio Nowa propone Riparare fiumare, un progetto definito "per paesaggi e centri urbani stanchi", a partire da Giampilieri, la località siciliana distrutta dall´alluvione. E, ancora a proposito di architettura che ripara e non solo edifica, si veda a Palazzo Ducale Sismycity, una mostra fotografica sul disastro dell´Aquila e sulla ricostruzione che non c´è.
La presenza italiana nella rassegna diretta dalla Sejima si limita a quattro architetti. Aldo Cibic espone diversi progetti, fra i quali spicca un complesso residenziale intorno a una stazione metro di Milano, Renzo Piano mostra foto di suoi edifici. Di Lina Bo Bardi (scomparsa nel 1992) si ammirano disegni e immagini, mentre ai "modelli deboli di urbanizzazione" si ispira l´esposizione di Andrea Branzi.
La Biennale viaggia in molte direzioni, persino divergenti. Irrompe per un attimo la realtà delle città italiane e di un paesaggio sfigurato. E sorprende che il ministro Sandro Bondi, nel suo messaggio all´inaugurazione, lamentando "le periferie mostruose di Roma e Milano", ometta di ricordare che lo schieramento di cui fa parte ha varato due condoni edilizi, che sono sanatoria del passato e incentivo a proseguire, oltre a vagheggiare la deregolamentazione più spinta in materia urbanistica, al grido di "padroni in casa propria". Ma di Ecological urbanism si discute con competenza durante gli incontri organizzati dalla Graduate School of Design della Harvard University (partecipano, fra gli altri, Andrea Branzi, Rem Koolhaas, Hans Ulrich Obrist, Stefano Boeri e in prima fila è seduto Joseph Rykwert).
È inevitabile che nella vasta, eterogenea offerta si imponga Rem Koolhaas. L´architetto olandese fa storia a sé con Preservation, una rassegna di riflessioni e di immagini sul tema della conservazione del patrimonio, sia naturale che costruito. È un punto chiave della modernità, sottolinea l´autore di Junkspace (che nell´allestimento si è avvalso di un giovane collaboratore italiano, Ippolito Pestellini), e anzi prodotto dei grandi passaggi rivoluzionari. Il problema è cosa e come conservare.
Architettura che si mostra, architettura che si fa. Ieri la giuria presieduta da Francesco Dal Co ha scelto i tedeschi Matthias Sauerbruch e Louise Hutton per realizzare M9, il museo del Novecento che sorgerà nel cuore di Mestre.
Il Marchionne intervenuto a Rimini al meeting di Comunione e liberazione non ha detto grandi novità rispetto al Marchionne di Pomigliano. Del resto da allora non è accaduto nulla di rilevante che non fosse già stato previsto: il mercato automobilistico mondiale continua a perder colpi in Occidente (e a guadagnarne nei grandi mercati dei paesi emergenti); la Fiat è una delle imprese più penalizzate sia sul mercato italiano sia su quello europeo; la stessa Fiat tuttavia vende in Italia circa il 40 per cento del suo prodotto e quindi in Italia ci deve restare, che lo voglia oppure no, ed anche le più massicce de-localizzazioni non possono cancellare con un tratto di penna tutti gli stabilimenti italiani e la manodopera che ci lavora.
Questa situazione è nota da un pezzo, fin da quando due anni fa Marchionne lanciò l’operazione Chrysler con l’accordo dei suoi azionisti, del presidente americano Barack Obama e dei sindacati di Detroit. Non tutti i commentatori capirono che non era la Fiat a conquistare la Chrysler ma viceversa: la Fiat si aggrappava alla Chrysler, anch’essa in stato pre-agonico, per fare di due debolezze una forza. Questo era il programma di Marchionne che d’altra parte fu onesto nell’ammettere questa verità.
Previde anche - e lo disse - che la Fiat avrebbe scorporato la produzione automobilistica dal resto del gruppo costituendo una nuova società, cosa che è avvenuta secondo le previsioni.
Da allora non ci sono state svolte nuove: Marchionne aveva già dichiarato che lui operava in una nuova era di economia globalizzata; usò anche l’immagine «dopo Cristo» orami diventata famosa.
Di nuovo c’è stata la traduzione nei fatti di questo programma, a Pomigliano, a Termini Imerese, a Melfi e in parte a Mirafiori. Il referendum a Pomigliano, la nuova società diventata proprietaria di quello stabilimento, la resistenza della Fiom-Cgil, lo sciopero di Melfi, i tre licenziati, il ricorso al Tar e il loro reintegro, la decisione della Fiat di non riammetterli al lavoro in attesa del secondo grado di giudizio, l’intervento del presidente Napolitano e il suo auspicio di superare l’incidente con spirito di equità in attesa della sentenza definitiva. Infine il Marchionne di Rimini.
* * *
A Rimini l’amministratore delegato della Fiat ha esposto con la massima chiarezza alcuni suoi «mantra».
1. L’economia globalizzata impone che l’aumento di produttività nei paesi opulenti sia molto più elevato di quanto negli ultimi trent’anni non sia avvenuto, per tenere il passo con quanto avviene nei paesi emergenti e non perdere altro terreno nei loro confronti.
2. La lotta di classe è finita perché non ci sono più classi.
3. La domanda di automobili in Occidente è molto diminuita ed è tuttora in calo, perciò bisogna concentrare la produzione in un numero limitato di imprese, riducendo il numero delle unità prodotte e aumentando la competitività.
4. I lavoratori debbono accettare nuove regole sulla flessibilità negli orari, sul ricorso allo sciopero, sulla struttura del salario e dei contratti.
5. La giurisdizione del lavoro dovrà, di conseguenza, essere aggiornata.
6. Forme di partecipazione dei lavoratori ai profitti derivanti dall’aumento della produttività sono auspicabili e vanno incentivate.
7. Le parti sociali debbono premere sui governi per ottenere nuovi tipi di «welfare» appropriati alle nuove regole.
Alcuni di questi principi sono ragionevoli e meritano di essere discussi. Altri hanno un’ispirazione profondamente reazionaria. Inoltre in questo ragionamento colpiscono alcune omissioni, la più vistosa delle quali riguarda le diseguaglianze retributive che hanno raggiunto livelli inaccettabili. Marchionne può dire che questi problemi non riguardano il suo «campo di gioco» ma negherebbe con ciò l’evidenza: ogni persona e quindi ogni lavoratore vive in un contesto sociale che non può essere parcellizzato, è un contesto globale ed implica in prima fila il tema dei diritti e dei doveri.
* * *
Bisogna riconoscere – e per quanto mi riguarda l’ho scritto più volte – che l’economia globale comporta un trasferimento di benessere dall’area opulenta all’area emergente e povera. Si potrà gradualizzare entro certi limiti questo processo, ma è del tutto inutile cercare di arrestarlo.
Il trasferimento può avvenire in vari modi. Uno di essi è l’immigrazione dall’area povera all’area opulenta, un altro è la de-localizzazione della produzione e del capitale in senso contrario, un altro ancora consiste nella ricerca di analoghi trasferimenti di benessere sociale all’interno dell’area opulenta tra ceti ricchi e ceti poveri, accompagnati da ritmi di produttività più intensi nelle aree povere affinché la loro dinamica sociale accorci le distanze con le aree ricche.
Siamo cioè – e non certo per libera scelta – di fronte ad un gigantesco riassetto sociale di dimensioni planetarie, nel corso del quale bisognerà tenere ben ferma la barra sui due diritti fondamentali: la libertà e l’eguaglianza.
Il riassetto sociale è infatti di tali proporzioni da mettere a rischio quei due diritti. Può cioè dar luogo a forme di governo autoritarie nell’illusione che solo in quel modo sia possibile governare i processi sociali; e può anche dar luogo a discriminazioni inaccettabili sul piano dell’eguaglianza.
Purtroppo in Italia si rischia di caricare gli oneri del riassetto sociale sulle categorie più deboli e di ferire in tal modo sia l’eguaglianza sia la libertà.
* * *
Nel corso del meeting di Rimini, il giorno prima di Marchionne aveva parlato Giulio Tremonti. Un discorso ampio, di economia, di finanza e di politica.
L’intervento di Tremonti è stato ampiamente riferito dai giornali e non ci tornerò sopra, ma c’è un punto che qui m’interessa cogliere: quando il ministro dell’Economia ha parlato di austerità ricordando che in anni ormai lontani quel concetto fu patrocinato da Enrico Berlinguer che propose di farne il cardine d’una nuova politica economica.
È vero, Berlinguer vide con trent’anni di anticipo il grande riassetto sociale che stava arrivando, ne colse alcune implicazioni che riguardavano la politica e le istituzioni, decise di orientare in modo nuovo la politica del suo partito affinché si ponesse alla guida di quel riassetto.
Non fu soltanto Berlinguer a imboccare quella strada. Nel Pci a favore d’una politica di austerità si schierò Giorgio Amendola, nel sindacato Luciano Lama, negli altri partiti Ugo La Malfa, Riccardo Lombardi, Antonio Giolitti, Gino Giugni e Giorgio Ruffolo, Bruno Visentini. Nella Dc, Ezio Vanoni e Pasquale Saraceno. Insomma la sinistra di governo e la sinistra di opposizione.
Il richiamo di Tremonti è stato dunque molto opportuno: la sinistra, quella sinistra, aveva capito in anticipo i tempi e le crisi che si addensavano e ne vide le conseguenze sulla società italiana.
Tremonti però non ha reso esplicito il significato di quella posizione. Berlinguer voleva che fosse la sinistra a guidare il riassetto sociale incombente, per garantire che non fossero solo i ceti più deboli a pagarne il costo.
Questo aspetto del problema è stato oscurato dal nostro ministro dell’Economia ed è invece l’aspetto fondamentale.
Se si deve attuare una vasta modernizzazione istituzionale e un trasferimento di benessere sociale dalle economie opulente verso quelle emergenti; se un così gigantesco riassetto non può essere disgiunto da un riassetto analogo all’interno delle aree opulente; è evidente che i più deboli debbono partecipare in primissima fila a questa operazione. I ceti medi e medio-bassi non possono essere oggetto del riassetto sociale senza esserne al tempo stesso il principale soggetto.
Questo è il punto che manca all’analisi di Tremonti e che Marchionne ha vistosamente omesso come l’ha omesso la Marcegaglia. L’intero meeting di Rimini su questo punto ha taciuto: omissione tanto più vistosa in quanto avvenuta in una occasione promossa da una delle principali Comunità cattoliche, con tanto di benedizione papale e presenze cardinalizie.
Né è accettabile che una così plateale omissione sia giustificata con l’argomento che l’aspetto politico non riguarda gli operatori economici e gli imprenditori.
Grave errore: l’economia politica ha come tema centrale proprio quello dell’etica, cioè dei diritti e dei doveri, della felicità e dell’infelicità, della giustizia e del privilegio.
Una Comunità cattolica dovrebbe mettere al centro delle sue riflessioni questo tema e porlo ai suoi ospiti. Se non lo fa, diventa una lobby come in effetti Cl è da tempo diventata.
Invitiamo il lettore a leggere il discorso di Enrico Berlinguer sull’austerità. Comprenderà facilmente che i dirigente del PCI intendeva cose ben diverse di quelle cui Scalfari, correggendo Tremonti, si riferisce. Per Berlinguer la questione non era solo «garantire che non fossero solo i ceti più deboli a pagarne il costo». Si rilegga quella proposta, espressa in due discursi del 1977 e del 1979. Ne ricordiamo solo alcuni passaggi:
«Una trasformazione rivoluzionaria può essere avviata nelle condizioni attuali solo se sa affrontare i problemi nuovi posti all'Occidente dal moto di liberazione dei popoli del Terzo mondo. E ciò, secondo noi comunisti, comporta per l'Occidente, e soprattutto per il nostro paese, due conseguenze fondamentali: aprirsi ad una piena comprensione delle ragioni di sviluppo e di giustizia di questi paesi e instaurare con essi una politica di cooperazione su basi di uguaglianza; abbandonare l'illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario. […] Ecco perché una politica di austerità, di rigore, di guerra allo spreco è divenuta una necessità irrecusabile da parte di tutti ed è, al tempo stesso, la leva su cui premere per far avanzare la battaglia per trasformare la società nelle sue strutture e nelle sue idee di base».
E ancora: «La politica di austerità quale è da noi intesa può essere fatta propria dal movimento operaio proprio in quanto essa può recidere alla base la possibilità di continuare a fondare lo sviluppo economico italiano su quel dissennato gonfiamento del solo consumo privato, che è fonte di parassitismi e di privilegi, e può invece condurre verso un assetto economico e sociale ispirato e guidato dai principi della massima produttività generale, della razionalità, del rigore, della giustizia, del godimento di beni autentici, quali sono la cultura, l'istruzione, la salute, un libero e sano rapporto con la natura. "Lor signori", come direbbe il nostro Fortebraccio, vogliono invece l'assurdo perché in sostanza pretendono di mantenere il consumismo, che ha caratterizzato lo sviluppo economico italiano negli ultimi venti-venticinque anni, e, insieme, di abbassare i salari».
L’ad preferisce un «sindacato partecipativo» ad una controparte Disconosce così che i soggetti in causa non possiedono pari forza e che i lavoratori hanno bisogno di chi difende i loro diritti.
Mi ha colpito una recente dichiarazione di Marchionne: «un sistema corretto di relazioni industriali deve garantire che gli accordi stipulati vengano applicati». Se fosse così, però, non potrebbe minacciare la fuoriuscita dal contratto nazionale, che è appunto un accordo stipulato, come lo è il patto associativo della Confindustria, dalla quale vorrebbe andarsene. C’è odore di rottura anche nel caso si voglia un contratto per l’auto, separato dagli altri settori metalmeccanici: divide et impera, un concetto conflittuale piuttosto che contrattuale. Nel leggerne i discorsi e le dichiarazioni, sono molte le contraddizioni. Non ci si può fermare al conflitto tra capitale e lavoro, ci dice, come se questo conflitto, negli ultimi diciassette anni, avesse creato un insopportabile regime in mano al sindacato – quando in realtà la grande debolezza contrattuale dei lavoratori ha generato danni straordinari ai salari e grandi favori ai profitti e alle rendite, insieme ad un imponente e tragico travaso di persone da lavoro stabile a lavoro precario.
Marchionne vorrebbe in fabbrica e negli uffici una rigida disciplina da caserma, ma non sa che ciò rende burocratica e gerarchica l’organizzazione dell’azienda, aumentandone, allo stesso tempo, la fragilità: lo si vede dal fatto che non ha intenzione di pagare lo scotto della maggior disciplina, in termini di un reddito decente, di stabilità dell’occupazione (invece di ricorrere alla cassa integrazione quando non è capace di vendere), di maggiore qualità del lavoro, e perciò non ha in mente condizioni contrattuali, ma semplici diktat fondati sulla minaccia della chiusura degli impianti.
Pensa che la globalizzazione imponga che salari e condizioni di lavoro dei paesi avanzati si adeguino a quelli dei paesi in via di sviluppo, e non si rende conto che, al contrario, si tratta di far progredire le condizioni di questi lavoratori portandole al nostro livello, altrimenti non venderà mai le sue automobili in quei paesi – se lo aveva capito il pessimo Henry Ford, lo può capire chiunque abbia avuto una sufficiente educazione storica.
L’Amministratore Delegato preferisce un sindacato «partecipativo» ad un sindacato che sia la sua controparte: disconosce così che le parti nel contratto di lavoro non hanno pari forza, e che i lavoratori hanno bisogno di un sostegno, attraverso il sindacato, o, peggio, vuole proprio creare una situazione nella quale il lavoratore riconosca di essere debole e si comporti di conseguenza. Molti si sono chiesti perché Marchionne abbia improvvisamente intrapreso la strada dello scontro frontale, ed alcuni pensano che voglia mettere con le spalle al muro sindacato e governo, così da potersene andare dalle scomode localizzazioni italiane. Credo invece che, dopo l’avventura americana, e visto che la crisi non sembra aver cambiato i rapporti di forza internazionali, Marchionne guardi ora alla globalizzazione non come un’opportunità di nuovi mercati, di nuovi prodotti e processi, ma come una vera e propria guerra economica, rispetto alla quale è necessaria una «unione sacra» nazionale tra capitale e lavoro.
Non sarebbe la concorrenza, il motore della Fiat, ma una forma di protezionismo (una volta l’avremmo chiamato «dumping sociale») che è oggi richiesta dopo la fine della protezione offerta dagli incentivi statali: perciò il sindacato è chiamato a non sabotare un conflitto più grande di quello tra capitale e lavoro, e dunque non può mettere i bastoni tra le ruote rispetto alle decisioni aziendali – ci si fa intendere che chi offre il petto al nemico straniero è l’azienda, non il lavoratore. Ora, è indubbio che anche il sindacato debba essere parte attiva delle politiche economiche per aumentare la produttività: ma sarebbe senza senso che l’aumento della produttività passasse attraverso la subordinazione della personalità dei lavoratori.
Quell’«unione sacra», infatti, ricorda molto il corporativismo ed è un modo di pensare analogo a quello di Tremonti: risale a prima della rivoluzione francese o a certe elucubrazioni collaborazioniste di Pétain, e dunque non ha nulla di moderno. Del resto, non corrisponde affatto allo spirito della nostra Costituzione, come implicitamente ricordato dal nostro Presidente della Repubblica.❖
La morte di un bambino di tre anni bruciato vivo in una baracca a due passi dal centro di Roma è una notizia sconvolgente. È da tempo che accadono cose orrende. Ci furono i quattro bambini morti nell´agosto 2008 a Livorno, sotto un cavalcavia: Eva, 12 anni, Danchiu, 8 anni, Leonuca, 6 anni, e Mengi, di 4 anni. Eva morendo cercò di proteggere col suo corpo un fratellino. Questo fu il racconto dei loro corpi, simili ai calchi in gesso di Pompei. E il quattordicenne carbonizzato nel campo nomadi di Rivarolo nel marzo 2002. E l´altro quattordicenne, Marian Danilà, morto carbonizzato nell´area ex Falck di Milano nel settembre 2008. Allora don Massimo Capelli della Casa della Carità, disse: «Ci sono stati già quattro morti alla Falck, ma il Comune sa fare solo sgomberi».
Oggi i comuni continuano a fare e a minacciare sgomberi in Italia. Ma c´è un momento in cui dallo stillicidio delle cronache dell´orrore locale si passa alla corrente impetuosa di un grande problema collettivo che investe tutta la comunità internazionale, scuote le coscienze dei singoli, assume le dimensioni di un´urgenza assoluta davanti alla quale non ci si può più fingere disattenti né rimandare alle competenti autorità. Oggi forse quel momento è arrivato anche per la questione degli zingari: almeno lo speriamo. E´ un fatto che negli ultimi giorni la questione dei rom e dei sinti ha conosciuto un salto di qualità. Per merito non italiano ma francese. L´iniziativa di Sarkozy ha scosso e diviso l´opinione pubblica e ha portato a una ferma presa di posizione della Chiesa cattolica. L´appello del Papa ha richiamato la Francia al dovere di «saper accogliere le legittime diversità umane». E monsignor Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio per i migranti, dice: «Quando ci sono espulsioni, ci sono sofferenze... Si tratta di persone deboli e povere che sono perseguitate, che sono vittime anch´esse di un ‘olocausto´ e vivono sempre fuggendo da chi dà loro la caccia». Nella dichiarazione di Marchetto la parola olocausto è tra virgolette. Ma è la parola giusta: ci sono testimoni che hanno vissuto la tragedia di allora e si ritrovano oggi davanti alla stessa macchina di odio. Valga l´esempio di Goffredo Bezzecchi, sopravvissuto alla deportazione di allora per trovarsi il 6 giugno 2008 nel campo rom di Rogoredo svegliato all´alba, messo in fila e schedato per l´operazione del censimento dei rom attuato dai superprefetti nominati dal governo.
Per questo salutiamo l´appello del Papa come il segno che le cose possono cambiare, che forse non è troppo tardi perché ci sia un ritorno alla ragione. Ma quel segno non basterà, dovrà essere ripetuto, dovrà risuonare non solo in francese. Dovrà riguardare lo scenario italiano e rispondere a quel ministro che agli italiani ha promesso che sarà più duro di Sarkozy. Dovrà dire con chiarezza ai politici italiani che su questo punto si giocheranno l´appoggio della Chiesa. Lo dovrà far capire a quel presidente del Comitato Sicurezza del Comune di Roma che, dopo la morte del piccolo rom, ha rilasciato questa incredibile dichiarazione: «È necessario continuare sul fronte delle espulsioni e dei rimpatri assistiti sull´esempio di quanto avviene in Francia».
Lo leggiamo con sensi di vergogna. Ci sentiamo corresponsabili di una offesa che «spezza il corpo e l´anima dei sommersi» e «risale come infamia sugli oppressori», come scrisse Primo Levi. Se un giorno il nostro paese sarà capace di ritrovare la via giusta, allora ci dovrà un luogo e un rito della memoria: e nel monumento della nostra vergogna, che immaginiamo come la discesa nel buio del monumento ai caduti americani del Vietnam, si dovranno leggere i nomi di tanti zingari, tanti bambini. Ma intanto, bisognerà cominciare a ripulire il linguaggio di quei sindaci che promettono di «bonificare» le città allontanando i nomadi: esseri umani come rifiuti da trasportare altrove perché non offendano la vista. Circola da tempo l´immagine del «troppo pieno»; per dire che nel paese non c´è posto per tutti. Metafora insensata in un paese che ha obbedito agli stimoli dissennati del premier e all´allentamento dei vincoli da parte di comuni coi bilanci in rosso e ha costruito un´infinità di case; case vuote, che nessuno compra. Ma quando prende piede la metafora dell´intolleranza spaziale siamo già entrati nell´antica rotaia maledetta del rapporto tra un popolo e il suo territorio. Il motto leghista «padroni a casa nostra» è il figlio smemorato dell´idea nazista dello «spazio vitale».
Diretto, feroce, semplice l'applauditissimo proclama, in triplice copia, inviato ai cittadini italiani dalla tribuna di Comunione e Liberazione: prima Marcegaglia («Basta con la lotta di classe»), poi Tremonti («La legge sulla sicurezza sul lavoro è un lusso), e nel gran finale Marchionne («Abbandonare la lotta tra capitale e lavoro»).
La presidente degli industriali e l'amministratore delegato della Fiat invitano il mondo del lavoro a farla finita con la cultura degli anni '60, con quell'idea primitiva del conflitto tra padroni e operai in difesa di diritti e salari. Per affrontare senza indugi la competizione globale ci vuole una grande riforma, il mondo non aspetta e, ricorda il ministro Tremonti, «l'Italia e l'Europa devono adeguarsi». Al terzetto è doveroso aggiungere il nome del ministro Maroni, pronto a ripulire il belpaese dall'ingombro dei rom (troppe donne e bambini).
L'estate delle chiacchiere politiche («stronzo», «trafficante di banche», «Fini è una merda») finalmente può lasciare il campo alla nuova igiene della globalizzazione dettata dagli uomini del fare.
L'arroganza del pensiero e del linguaggio vestono gli screditati pulpiti da cui provengono i nuovi comandamenti. Come consigliava ieri sul Corriere della Sera, Massimo Mucchetti, l'uomo d'oro della Fiat potrebbe trovare giovamento da un corso di aggiornamento professionale alla Volkswagen, e , aggiungiamo, leggendo con attenzione le parole rivolte dal presidente Napolitano ai tre operai di Melfi, sulla dignità di chi lavora, potrebbe anche riflettere su cosa misurare la modernità. Capirebbe (il condizionale è d'obbligo) che «il lavoro non esiste solo per essere pagati ma per la dignità dell'uomo», come gli ha ricordato monsignor Bregantini, un ministro di dio e della Cei, che con questa idea cristiana non avrebbe guadagnato l'applausometro riservato all'uomo-Fiat dai devoti ciellini.
Quanto al pulpito di Confindustria, Marcegaglia che invoca la fine della lotta di classe, è la stessa che nella relazione di insediamento alla presidenza dell'associazione volle comunicare al paese come, con Berlusconi IV, in Italia si fosse creata «una situazione favorevole al cambiamento». Una donna con il dono della lungimiranza.
Ma il campione che li sopravanza, l'uomo illuminato da «dio, patria e famiglia», è il super ministro Tremonti. I suoi principi morali non gli consentono infingimenti, né doroteismi da prima repubblica. Eccolo annunciare che prima ci si libera dei vincoli di sicurezza sui posti di lavoro, meglio è. In realtà su questo fronte l'Italia non è un paese che si lascia superare facilmente nelle classifiche europee, avendo a lungo mantenuto i primi posti. Però nel 2009 la crisi, con la disoccupazione, ha abbassato la media e ora dobbiamo recuperare. Di fronte alla salute dell'economia, quella del singolo lavoratore è un prezzo da pagare alle sorti progressive dell'umanità. Pazienza se il panorama sarà appesantito da invalidi e cadaveri: i primi al massimo disturberanno l'estetica, i defunti nemmeno quella.
Nella società dell’audience, le dicerie si sono conquistate un loro pubblico, molto corteggiato e alimentato. Se nelle monarchie assolute era sufficiente far circolare fra i pochi cortigiani una diceria contro un nemico designato, nella società mediatica le dicerie devono estendere il loro raggio d’azione per poter colpire nel segno. Benché l’effetto "sasso nello stagno" sia lo stesso, il fenomeno è oggi molto più pervasivo a causa del processo di auto-alimentazione della tecnologia informatica. Sembra che una delle ragioni che muove gli Internet addicted sia proprio il desiderio di sapere qualcosa in più degli altri per poter aggiungere qualcosa in più alla chiacchiera con gli amici. In questa atmosfera di bulimia della novità, diventa più difficile distinguere con chiarezza la chiacchiera, il gossip, dalla calunnia; e su questa oggettiva difficoltà i quotidiani italiani di questi giorni fanno le loro prime pagine, soprattutto il giornale che fa capo al presidente del Consiglio (è un fatto sorprendente in un paese democratico che il capo della maggioranza possieda, come famiglia, un quotidiano nazionale).
Ha scritto Cass Sunstein in On Rumors, recentemente tradotto da Feltrinelli col titolo Voci, gossip e false dicerie, che uno dei processi attraverso i quali le dicerie si diffondono è per "cascata": se la maggior parte delle persone che conosciamo crede in una diceria, tendiamo a crederci anche noi perché «in mancanza di informazioni di prima mano accettiamo le opinioni degli altri»; se poi "gli altri" hanno le nostre stesse idee, allora questa diceria è naturalmente accreditata ai nostri occhi. Ci crediamo. Più siamo pregiudizialmente identificati con un’idea o un gruppo più siamo facili a credere a ciò che più conviene a quell’idea o a quel gruppo. Questo significa che in un paese politicamente polarizzato come l’Italia le dicerie hanno grande corso. È a questo presupposto che la fortuna politica di leader e candidati fa affidamento.
Anche per una ragione semplice: perché, benché la rete ci dia l’illusione di avere il mondo tra le dita, è un fatto che le notizie non le produciamo noi direttamente ma le riceviamo già digerite, se così si può dire, confezionate in modo da conquistare la nostra fiducia (ma meglio sarebbe dire credulità) o, più semplicemente, approfittare della nostra propensione a credere in ciò che non possiamo provare. «Una cascata ha luogo quando capiscuola, leader, promuovono certe affermazioni e comportamenti, e altre persone li seguono. In economia le dicerie possono alimentare una bolla speculativa»; in politica possono far nascere emozioni di repulsione o innamoramento per un leader, oppure la paura per un fenomeno (per esempio l’immigrazione). Quel che è peggio, possono alimentare discredito per la politica e lo Stato (il detto "sono tutti ladri"). L’effetto "cascata" è così forte – e chi lo alimenta sa che è forte e scommette su questo – da far sì che l’esito di una diceria che si afferma in questo modo finisce per rendere inefficace ogni informazione che possa correggerla o negarla.
Il problema è che la diceria vive della stessa aria di cui vive la democrazia: la libertà di parola. Una democrazia non può esistere se i suoi cittadini non godono della libertà di dire quello che pensano, anche quando quello che pensano non è corretto. Il codice non si occupa delle dicerie, ma consente la denuncia per colpire una diceria che si fa affermazione falsa fatta con malevolenza (questa è la calunnia), ovvero per danneggiare la reputazione di qualcuno o qualche cosa. Nel nostro codice il delitto di calunnia è stato collocato tra i delitti contro l’amministrazione della giustizia perché considerato reato in grado di offendere non solo la rispettabilità del soggetto calunniato ma anche il regolare svolgimento dell’amministrazione della giustizia da parte dello Stato.
Ma la diceria non è né può essere reato, non è né può essere trattato come la calunnia. Nel caso della diceria, quindi, occorre fare affidamento sul civismo e la responsabilità degli operatori dell’informazione. Non è un caso che per i cattolici l’affermazione diffamante sia un peccato anche quando non violi alcuna legge civile. I credenti sopperiscono con il timore della punizione divina al silenzio della legge civile. Chi si rifà a un’etica laica usa argomenti come il senso del rispetto per gli altri - scriveva Cicerone che il rispetto e la sincerità sono la condizione senza la quale non si dà amicizia, aggiungendo che in una repubblica la cittadinanza è una forma di amicizia. Comunque sia, dove non c’è dolo e proprio perché la libertà di parola è sacra in un governo libero, occorre saper trovare ragioni di autocontrollo negli individui. La questione morale implicata nella diceria è delicata anche perché, pur supponendo che la persona che ne è vittima riesca a provare che quella voce non corrisponde al vero, il suo nome può tuttavia restare associato a quella diceria per molto tempo nella memoria della gente. Aggiungiamo che quando la persona ricopre incarichi istituzionali, ad essere compromessa è anche, anzi soprattutto, l’istituzione. Il persistente richiamo del presidente della Repubblica a tenere fuori le istituzioni dal "gioco al massacro" che si sta consumando in questi giorni, è ispirato da questa consapevolezza.
Parlare di cultura morale significa spostare l’attenzione dal fatto all’intenzione. Ora, che ruolo ha l’intenzione del perpetrante in questo gioco al massacro che è la diceria? Molta, poiché, spiega ancora Sunstein, le dicerie si diffondono e si propagano perché chi le mette in circolo conosce molto bene i meccanismi di diffusione e gli effetti. Per questa ragione la responsabilità morale di chi opera nell’informazione - di chi confeziona le notizie dalle quali nascono le credenze - è grande anche, anzi soprattutto, quando non ci siano risvolti penali. Che i cittadini debbano essere esposti a notizie veritiere, ci ammonisce costantemente Gustavo Zagrebelsky, che le informazioni che riceviamo (naturalmente insieme a giudizi e quindi tinte di opinioni e preferenze) siano equilibrate, che si sappia e si voglia fare distinzione tra mezzi di informazione e mezzi di propaganda: tutto questo si appoggia su null’altro che il senso di una responsabile libertà democratica, che non è una libertà da stato di natura, né è fatta per danneggiare gli altri e le istituzioni.
Nel duro scontro fra interessi privati e bene comune dei cittadini, c’è un dato da cui partire: il più robusto schieramento italiano è il "partito della Costituzione". Lo mostra l’eloquenza dei numeri: nelle elezioni del 2008, il maggior partito italiano (il Pdl) ebbe 13.629.464 voti, pari al 37,3% dei voti espressi; nel referendum del 2006, la riforma costituzionale varata dal centro-destra fu bocciata da 15.791.293 italiani (il 61,3 % dei voti espressi). La percentuale dei votanti fu assai diversa nei due casi (52,3% nel 2006, 80,4% nel 2008), ma quel che conta (anzi, conta ancor di più) è il dato in cifra assoluta: a difesa della Costituzione, contro una riforma che somiglia anche troppo all’insussistente "Costituzione materiale" invocata dall’onorevole Bianconi contro il Capo dello Stato, votarono allora oltre due milioni di cittadini più degli elettori Pdl di due anni dopo. Come ha osservato il Presidente emerito Scalfaro, i vincitori del referendum del 2006 non seppero trarre le conseguenze di quel risultato, ma è oggi il momento di ricordarsene. Oggi, mentre il Paese è in preda a una schizofrenia di cui gli osservatori stranieri sembrano accorgersi molto più di noi.
Il tema dei beni pubblici, che Rodotà ha affrontato in queste pagine il 10 agosto, è un’ottima cartina di tornasole: nella stessa Italia nascono oggi da un lato avanzatissime proposte, dall’altro sgangherate devoluzioni. L’Accademia dei Lincei ha appena pubblicato un bel volume (a cura di Ugo Mattei, Edoardo Reviglio e Stefano Rodotà) sui Beni pubblici dal governo democratico dell’economia alla riforma del Codice Civile. Sono gli atti di un convegno (aprile 2008) sui lavori della Commissione Rodotà sui Beni Pubblici, che ha lavorato dal giugno 2007 al febbraio 2008. Dato che lo statuto dei beni pubblici è «disperso in mille rivoli, in classificazioni formalistiche del Codice Civile, nonché in una miriade di leggi e leggine speciali», quella Commissione provò a metter ordine, usando come guida i valori della Costituzione, poiché «il regime giuridico dei beni pubblici costituisce il fondamento economico e culturale più importante per la realizzazione del disegno di società contenuto nella Costituzione stessa» (le citazioni da U. Mattei).
Sono state così individuate alcune categorie fondamentali, a cominciare dai beni comuni, «che si sottraggono alla logica proprietaria tanto pubblica quanto privata, per mettere al centro una dimensione collettiva di fruizione diretta di lungo periodo» e dai beni ad appartenenza pubblica necessaria, «che appartengono alla stessa essenza di uno Stato sovrano». Vi sono poi i beni pubblici sociali, «fortemente finalizzati, attraverso un vincolo di scopo, agli aspetti misti e sociali del nostro disegno costituzionale», e i beni pubblici fruttiferi, sostanzialmente disponibili, ma con «un caveat generale, molto importante»: questi beni «fanno pur sempre parte del patrimonio per così dire "liquido" di tutti noi». Tutti i cittadini italiani «sono titolari pro quota di beni pubblici», onde eventuali alienazioni comportano garanzie e compensazioni per tutti i titolari di tale portafoglio collettivo di proprietà. In luogo di questa concezione dei beni pubblici, che rispetta la Costituzione e l’interesse dei cittadini come collettività e come singoli, si è avviato un processo diametralmente opposto, che sotto l’etichetta di "federalismo demaniale" borseggia il portafoglio proprietario della cittadinanza (e di ciascuno di noi), e lo ridistribuisce a Regioni ed enti locali, utilizzandolo come una sorta di salvadanaio di terracotta, da fare a pezzi per prelevarne ogni spicciolo e gettarlo al vento.
In base alla legge Calderoli, lo Stato cede 19.005 unità del proprio demanio, per un valore nominale di oltre tre miliardi. Passano a Comuni, Province e Regioni beni del demanio idrico e marittimo, caserme e aeroporti, catene montuose, e così via. Il trasferimento comporta che una parte di questi beni diventerà immediatamente disponibile alla vendita. Un’altra porzione passerà invece al demanio degli enti locali e delle Regioni, cioè resterà inalienabile sulla carta: ma la stessa legge prevede una forma strisciante di privatizzazione, e cioè il versamento gratuito di beni pubblici (anche demaniali) in fondi immobiliari di proprietà privata (purché i privati versino nello stesso fondo beni di proprietà equivalente). Si capisce così come mai il monte Cristallo sia stato valutato 259.459 euro, e le intere Dolomiti 866.294 euro [Il Gazzettino, 4 agosto 2010]: perché sono destinate a fondi immobiliari, in cui i privati verseranno proprietà di valore "equivalente" onde assumerne il pieno controllo. Fu dunque per questo che quasi 700.000 italiani d’ogni provincia (età media 25 anni) morirono sul fronte della I guerra mondiale.
Il "federalismo demaniale" è stato reclamizzato dal presidente della Regione Veneto Zaia come la «restituzione ai legittimi proprietari» di beni indebitamente sottratti da uno Stato-ladrone: un argomento che ha convinto l’"opposizione", tanto è vero che l’Idv ha votato a favore, il Pd si è astenuto. Tanta concordia non è dovuta a distrazione: evidentemente non solo a destra si condivide il disegno di utilizzare i beni pubblici, come dice la legge Calderoli, «anche alienandoli per produrre ricchezza a beneficio della collettività territoriale», cioè non di tutti gli Italiani, nel cui portafoglio proprietario quei beni erano fino a ieri.
"Produrre ricchezza" vuol dire svendere, visto lo stato disastrato delle finanze locali (la manovra Tremonti 2010 ha tagliato a Regioni ed enti locali altri 15 miliardi nel triennio), e visto che secondo leggi recenti i Comuni devono allegare al bilancio ogni anno un «piano di alienazioni immobiliari». Come ha scritto efficacemente Galli della Loggia (Corriere della Sera, 2 agosto), «fino ad oggi gli italiani potevano pensare di essere, in quanto tali, padroni del proprio Paese. Ora non più. Dobbiamo aspettarci la rovina definitiva del paesaggio e del patrimonio naturalistico del nostro Paese, la sua totale mercificazione-cementificazione».
Contro queste ed altre schizofrenie che viviamo, contro quello che si scrive "federalismo" e si legge "secessione", contro la strategia perdente di inseguire la Lega sul suo terreno, la Costituzione è il massimo baluardo. La Costituzione scritta, quella che quasi sedici milioni di italiani difesero nel 2006 col loro voto. La sola Costituzione esistente, quella di cui il Presidente della Repubblica è e deve essere garante supremo.
Forse i Maya non erano poi così scemi: i segnali della fine del mondo si moltiplicano. La Santanché che cita Marcuse, per esempio (forse crede che sia un grossista di champagne). Oppure il topless di Marina Berlusconi, editore che edita un giornale che di lei stessa scrive: «Marina Berlusconi, selvaggia bellezza a cavallo di una tecnologica moto d'acqua, ricorda Galatea, la più bella tra le Nereidi». Che non sembri piaggeria, l'ha scritto un archeologo, ma visto il topless andava bene anche un restauratore. Tra tutte queste premonizioni di immani disgrazie, rimangono per fortuna ben saldi alcuni valori, solidi, stabili. Per esempio la leggina (ddl 40, articolo 3, comma 2 bis, votato anche dagli intrepidi finiani) con cui il governo Berlusconi, presieduto dal padrone della Mondadori, presieduta dalla di lui figlia Marina Berlusconi, ha permesso all'azienda di risparmiare qualcosa come 340 milioni di euro di contenzioso fiscale. Stiamo parlando di tasse - contenzioso su tasse evase, per la precisione - che ammetterete, dopo Galatea e le Nereidi è una bella caduta di stile. Naturalmente continueremo a sentire nei telegiornali embedded della casa reale che la lotta all'evasione fiscale continua senza soste e cedimenti. Ma del super-sconto di famiglia direttamente dal produttore (di leggi) al consumatore (di condoni) non vi diranno nulla (sacrilegio!). Per fortuna, però, come nei migliori fascismi della storia, si sta con il "popolo". Così nell'editoriale del settimanale di teoria politica del regime, Chi?, possiamo leggere la commovente lettera di Marta: «Faccio l'operaia...Con gli straordinari guadagno 1050 euro al mese... Ho iscritto mia sorella all'università, ha il libretto pieno di 30...Faccio i debiti, ma queste sono le soddisfazioni della vita. Ti scrivo per dirti che sono felice». Bello, eh? E sotto a queste righe, foto di Marina Berlusconi in moto d'acqua, a cui il papà ha appena regalato una legge da 340 milioni di euro. Scommettiamo che è felice anche lei?
L'urgenza dei tempi e il rilievo delle tematiche mi inducono a riprendere e precisare il mio precedente articolo (governo di ricostruzione democratica», il manifesto, 8 agosto) , quello che una volta si definiva «esercitazione di scuola». Le «esercitazioni di scuola» venivano assegnate e discusse nelle classi medie superiori della scuola italiana tanti anni fa per mettere alla prova le capacità logiche dei ragazzi. I compagni di classe dell'individuo cui, sventuratamente per lui, era stato assegnato il compito di svolgerne una, erano invitati dai loro professori a segnalare i passaggi logici che, in quanto tali, non funzionavano nell'elaborato; venivano severamente rampognati quelli di loro che si limitavano a dire: non mi piace, non la penso come lui. Naturalmente la logica formale non è il reale: per passare dall'una all'altro (e anche viceversa) bisogna fare un'opera di trasposizione pratica decisiva, che nel caso nostro si definirebbe togliattianamente «iniziativa politica». Però, al tempo stesso, senza logica formale si va a tentoni, non si riconoscono le cose, si prendono fischi per fiaschi e in definitiva si finisce a catafascio.
In ogni «esercitazione di scuola» c'è una premessa. Se cade questa, cade tutto il resto. La «mia» premessa è: il bubbone maligno, che distrugge l'Italia, diffonde la corruzione, spazza via il gioco democratico, fa vacillare le istituzioni e le regole, distrugge l'informazione, sottomette tutti i rapporti di classe al gioco dei potenti, è Berlusconi, è il governo in mano a Berlusconi, è il berlusconismo. Se è vero questo - se cioè la premessa regge -, allora il compito politico e civile primario è trovare il modo di sbarazzarsene, altrimenti ogni altro discorso più corretto, più profondo, più giusto - persino quello riguardante un corretto conflitto politico -, non sarà più (mai più?) possibile.
Per sbarazzarcene, in Parlamento e nel paese, non ci vuole meno di un amplissimo schieramento di forze, che si riconoscano in un programma di «ricostruzione democratica» e si aggreghino per questo; e siano per ciò stesso in grado di mettere in moto un ancor più vasto schieramento di forze sociali e civili, che pure ci sono e aspettano solo che qualcuno dia loro la possibilità di mettersi direttamente alla prova. Siccome è sempre più evidente che il berlusconismo è in realtà un berlusconi-leghismo, bisognerà, per reggere il contrasto, che sarà formidabile, che ne facciano parte senza esclusioni tutte le altre forze che in questi anni non hanno avuto a che fare con l'orrida tabe o recentemente se ne siano liberate, dall'estrema sinistra all'Udc, a Rutelli, a Fini e ai finiani.
Questo bisogna non solo farlo, ma farlo presto, anzi prestissimo. Il contro-urto, infatti, è già cominciato. Berlusconi ha due strade per salvarsi nell'attuale situazione di provvisoria crisi e debolezza: o andare alle urne; o riassorbire la dissidenza. Se va alle urne con l'attuale legge elettorale, vince comunque, quale che sia la forma in cui l'opposizione si presenterà, compresa quella bipartita (centrosinistra + centro moderato), da taluni non si sa perché auspicata. E andrà alle urne legittimamente, nonostante le giuste proteste di Napolitano, se si dimostrerà che in Parlamento non c'è una maggioranza alternativa. Ma non ci sarà una maggioranza alternativa se Berlusconi riassorbirà, come sta tentando di fare, la dissidenza. Quest'ultima è la prospettiva peggiore, e attualmente non è del tutto esclusa se non si lavora tenacemente in direzione contraria. Dunque, nelle prossime settimane, si decide il nostro destino dei prossimi quindici-vent'anni: perché se Berlusconi finisce indenne la legislatura, rivince di sicuro le elezioni, va alla Presidenza della Repubblica e...
Ma perché l'«opposizione» dovrebbe presentarsi unita al voto in uno qualsiasi dei prossimi mesi, se non è in grado di creare una maggioranza alternativa in questo Parlamento? La mia proposta di un «governo di ricostruzione democratica» serve dunque a sanare contemporaneamente due punti deboli: quello dell'oggi e quello del domani, perché se non ci sarà un governo sufficientemente credibile oggi non ci sarà un voto sufficientemente forte domani.
Ecco perché il governo che ci salva non può essere un governicchio, un governo tecnico, un governo a termine, ecc. ecc. Sia perché il paese altrimenti non capirebbe il significato e l'entità della svolta; sia perché gli esitanti, numerosi e su tutti i versanti, non sarebbero abbastanza invogliati a parteciparvi. Invece debbono esserci sufficienti garanzie che si fa sul serio e che si andrà avanti abbastanza a lungo da poter esibire risultati inequivoci. Se è vero, come è possibile e anzi fortemente auspicabile per allargare le risicate alleanze in Parlamento, che esiste un'ulteriore componente del Pdl disposta a staccarsi dal bubbone, ciò potrà avvenire solo se stimolata e garantita da queste condizioni.
Entriamo un po' più nel merito. Ho già scritto di alcuni punti di programma, che potrebbero caratterizzarlo (niente d'indolore né di marginale, tutto sommato, a rileggerli oggi) e non ci torno sopra (forse qualche attenzione in più meriterebbe la figura del Presidente del Consiglio, che non dovrebbe essere partitica: ci sono candidati possibili molto autorevoli nel campo del giure e dell'economia). Ritengo invece utile precisare che un «governo di ricostruzione democratica» non è (oddio!) né di destra né di sinistra: è un governo che mira a ricostruire le condizioni minimali dell'agire democratico e dell'unità nazionale, quelle per cui tornerebbero possibili e «normali» una sinistra e una destra costituzionali ed europee; ed è perciò che sono legittimate a parteciparvi non contraddittoriamente tutte quelle forze di sinistra e di destra, che concordano sull'urgenza e l'imprescindibilità di raggiungere questo obiettivo, quello da cui dipende tutto (tutto, capito?).
Fin qui la logica formale. Proviamo a fare un passo in avanti nel mondo del reale e chiediamoci: un governo del genere è fattibile? La mia risposta, molto minimale ma anche molto concreta, è: sì, è fattibile perché nessuna delle forze che dovrebbero parteciparvi ha un futuro senza questo possibile sbocco. Vediamo.
a) L'estrema sinistra: è ridotta malissimo. Se non rientra nel gioco, e cioè, per dirla brutalmente, se non rientra in Parlamento e nel Governo, è destinata all'estinzione. Il terreno della legge elettorale è quello su cui se ne può trattare l'adesione, e se il sistema elettorale proporzionale è il grimaldello dell'alleanza, io, come ho già accennato, non avrei obiezioni di principio:
b) L'Idv: dove può andare Di Pietro da solo?
c) Il Pd: è l'ago della bilancia. Bene ha fatto Bersani a dichiarare utile e preliminare l'accordo fra tutte le forze dell'attuale centrosinistra. Ma - l'«iniziativa politica»! -, se non riesce presto, anzi subito, a promuovere lo schieramento allargato della «ricostruzione democratica», sarà sorpassato impetuosamente dalla controiniziativa altrui, rischiando la deflagrazione o il collasso;
d) L'Udc: Casini è probabilmente l'elemento tuttora più indietro. Non ha ancora scelto dove stare. Ma è troppo tempo che non sceglie, e questo potrebbe logorarlo. Tramontate però rapidamente le prospettive di un governo «che non vada contro una parte del paese» (come se ce ne fosse uno che non vada a pro' di qualcuno o contro qualcosa), dovrà in una situazione del genere scegliere. La Balena bianca non risorgerà più nel nostro paese. Il massimo che Casini può ragionevolmente sperare è un ulteriore rafforzamento del centro moderato all'interno di uno schieramento antiberlusconiano. E d'altra parte: fin quando la Chiesa di Roma riterrà componibile con i propri interessi mondani la fogna a cielo aperto in cui l'Italia berlusconiana si sta trasformando? Qualche segnale che il limite di sopportazione sia stato raggiungo c'è già stato;
e) L'Api: Rutelli è un vecchio frequentatore dei consessi di centro-sinistra; è impensabile che faccia mancare il suo apporto in una circostanza del genere;
f) Futuro e Libertà: è il discorso più complesso e forse quello decisivo. Preliminare al resto del ragionamento, che altrimenti potrebbe apparire davvero troppo procedurale: io credo che sia da prendere sul serio la cosiddetta «conversione democratica» di Gianfranco Fini. Aggiungo anche (per esaurire totalmente le mie già precarie riserve di credito) che ha giocato un ruolo positivo nelle ultime vicende il «fascismo di sinistra», cui attinge la formazione di diversi componenti del suo gruppo (non di Fini, naturalmente), e che io giudico migliore del berlusconismo (tanto è vero che non vi si è adattato). Ora Fini e il suo gruppo sono di fronte a un bivio drammatico: se accettano di farsi riassorbire - non importa in quale forma, se imperativa o contrattata, costruttiva o parzialmente consensuale -, sono destinati ad una penosa estinzione, a cominciare da quella già selvaggiamente iniziata nei confronti del loro capo, e i loro scalpi (ad eccezione di Briguglio, s'intende) verranno appesi ai banchi che occupavano, e che mai più occuperanno, in Parlamento. Imboccare l'altra strada sarà periglioso e difficile, ma non c'è scelta. E' evidente, tuttavia, che il passaggio non sarà perfezionato, se non verrà accompagnato, anzi preceduto, da parte delle altre forze politiche contraenti, da una totale garanzia di legittimità politica e costituzionale, ossia, come dire, non mi viene la parola, ah sì, dal definitivo sdoganamento democratico-costituzionale di tale forza.
Cominciano a capirlo anche i più distratti che il cattivo governo ha effetti indelebili sul territorio; che le compagnie che girano l’Italia per affari operano per rimuovere i vincoli a presidio della bellezza superstite, prendono senza restituire nulla. Una speculazione edilizia, un surplus di torri eoliche, un inquinamento prevedibile, un’opera pubblica inutile, hanno bisogno di processi decisionali corrotti, di carte truccate. Le complicità si trovano, luogo per luogo. Perché è facile fare soldi rovinando posti belli. Ed è il peggiore degli effetti di una cattiva amministrazione, i danni di questo tipo restano. Per altri guai rispettabili (dalla malaeconomia alla malasanità) c’è speranza.
Si può toccare il fondo e uscirne. Le discese ardite e le risalite non sono possibili quando una terra si devasta. È per sempre.
Eppure della malaurbanistica si parla poco. Si grida quando la terra scivola sotto i piedi di qualche comunità. Indignano gli abusi macroscopici, ma l’ecomostro sbattuto in prima pagina offusca le aggressioni diffuse al paesaggio. Non ci si interroga abbastanza su chi ha/non ha fatto contro questa involuzione. Si scoprirebbe che la sinistra e il più grande partito della sinistra (fino da quando era Pci) hanno fatto poco. Qualche tentativo di impedire gli sprechi (ricordate il richiamo all’austerità di Berlinguer contraddetto dalla politica politicante?). Poi decenni di indifferenza, al più qualche riga di generalità liofilizzate nei discorsi dei leader.
Ci sono eccezioni, ma prevale a sinistra l’idea che basti delegare un manipolo di ambientalisti che non contano nei congressi, ma fanno contorno. Nei casi peggiori c’è indulgenza verso scelte urbanistiche pessime in molte periferie.
Buone intenzioni contrariate. In Sardegna, in Toscana, analogie tra due regioni che hanno vissuto e vivono esperienze a riguardo. Renato Soru in Sardegna ha perso nel suo schieramento, in parte avverso alle sue tesi per la difesa del paesaggio, combattuto come un estremista. Una vicenda espunta presto dal dibattito, purtroppo. La Toscana, mito del buongoverno, è in una fase delicata: troppi progetti urbanistici controversi, alcuni sotto inchiesta, altri ancora saranno brutti esempi se realizzati (uno per tutti: Castelfalfi in Valdelsa). Anna Marson, assessore in controtendenza (come Soru), dice cose giuste ma già è accusata di eccessiva intransigenza(«Pd contro Marson», su l’Unità, cronaca di Firenze, del 15 agosto). Ogni ente locale è una fortezza dove si rivendica libertà d'iniziativa per lo sviluppo. È troppo aspettarsi una politica di sinistra che non demandi acriticamente, che non si contraddica nelle pratiche locali fino ad annullarsi?❖
Gli scalini si scendono agilmente. Man mano che si procede, la luce si fa sempre più fioca. In fondo c’è il buio. In pochi secondi cessano i rumori del caos quotidiano. Il silenzio è rotto solo dalle voci dei visitatori, mentre il clima si fa d’improvviso da umido ed estivo in fresco e quasi invernale. Centoventuno scale, ed eccoci inghiottiti dal ventre dell’acquedotto greco romano, risalente al quarto secolo a. C., che si dirama per tutta la Campania attraverso un reticolato infinito.
Eccolo qui, il volto nascosto di Napoli: sopra la città caotica, affascinante e indaffarata; sotto, a trenta metri di profondità, si espande una superficie di circa 2 milioni di metri quadrati. Una città sotto la città. è lo scrigno pieno di meraviglia, suggestioni e leggende che si mostra al visitatore della Neapolis sotterranea: un mondo di cunicoli e cisterne, modellati in migliaia di anni dall’ingegno umano per ricavarne materiale da costruzione prima e un immenso acquedotto dopo. Che ora, almeno in parte, potrebbe essere svenduto. nelle schede pubblicate sul sito dell’agenzia del Demanio sono elencati i beni dello Stato in vendita nell’ambito del federalismo demaniale: a Napoli, ad esempio, ci sono l’Università in Corso Umberto (base inventariale 42.537.994,00 euro) e l’Orto Botanico in via Foria (16.735.476,00). Ed anche 23 cave della Napoli sotterranea (Codice scheda Bp 200223), molte ricadenti nella municipalità di Chiaia-Posillipo. Ciascuna ad un prezzo affatto esoso: un euro. Ambienti sotterranei di diverse decine di metri quadrati, scavati nel tufo, che, se affidati a mani inesperte o poco controllate, potrebbero essere usati potenzialmente per qualsiasi fine. anche i più imponderabili.
Ma per capire la portata di questa enorme rete di passaggi sotterranei, e i pericoli sottesi ad una progressiva e incontrollata svendita del sottosuolo napoletano, occorre ripercorrere un po’ di storia. L’enorme quantità di tufo, roccia morbida e resistente, presente nel sottosuolo della zona, fin dall’epoca dei greci (iV secolo a. C.) fu utilizzata per costruire case, mura e templi. e così si ottennero delle grandi cave, che vennero poi utilizzate per farne un grande acquedotto esteso in tutta la Campania. L’intera rete fu poi ampliata dai romani. e così napoli, sotto la quale arrivarono a sorgere 14mila cisterne e 6mila pozzi, fu una delle prime città ad avere l’acqua potabile direttamente nelle case: bastava calare nei pozzi un secchio per i propri approvvigionamenti. L’enorme rete di cunicoli, però, andava salvaguardata e manutenuta. ed ecco dunque comparire la figura del pozzaro, accompagnata anche da racconti leggendari: una sorta di idraulico d’altri tempi che, attraverso dei fori visibili ancora oggi, si calava nelle cisterne e rimuoveva i residui più ingombranti dalla superficie dell’acqua. Con il progressivo aumento degli abitanti, la situazione igienico sanitaria si fece sempre più precaria. La caduta di un animale morto in un pozzo sarebbe bastata a contaminare l’intero acquedotto. ed infatti nel 1885, dopo una tremenda epidemia di colera che fece 7mila morti in città, venne abbandonato l’uso del vecchio sistema di distribuzione idrica perché continuamente infettato dalle infiltrazioni nel tufo, per adottare il nuovo acquedotto che tuttora alimenta la città. nel sottosuolo, peraltro, c’erano anche numerose catacombe.
L’immenso cuore d’acqua cessò dunque di battere. I pozzi furono sempre più spesso utilizzati come discariche di rifiuti e materiale di risulta; in seguito a dei crolli alcune parti dell’immenso reticolato furono ricoperte per sempre. Fu solo il dramma della seconda guerra mondiale che, in parte, spinse il genio civile a riadattare parte di queste enormi cisterne come rifugi antiaerei. Napoli, infatti, fu tra le città più bombardate dagli alleati angloamericani. I rifiuti, sversati nel corso di circa mezzo secolo nel sottosuolo, furono rapidamente compattati e ricoperti da una nuova pavimentazione di fortuna. Furono allestiti in tutta la città 369 ricoveri in grotta e 247 ricoveri anticrollo. Il tutto, illuminato da due impianti di luce, i cui tralicci sono ben visibili ancora oggi. in quegli anni i più giovani salivano e scendevano quei 121 scalini (il cui ingresso ora si trova in piazza San Gaetano, visite a cura dell’associazione Napoli sotterranea; un altro ingresso, nella zona di Chiaia, è a cura dell’associazione Laes) più e più volte. ad ogni allarme, un fiume di migliaia di persone si precipitava nel sottosuolo per sfuggire ai bombardamenti. nella parte della Napoli sotterranea che abbiamo visitato (gestita dalla onlus omonima, attiva dal 1990, www.napolisotterranea.org), in periodo bellico la vita brulicava: qui sono nati persino 4 bambini. Il presidente dell’associazione, lo speleologo Enzo Albertini, che qui lavora da anni, è l’artefice di una ennesima scoperta: un nuovo frammento del teatro romano sotterraneo riportato alla fruibilità.
Nel cuore di Napoli, in vicolo Cinquesanti, appena a ridosso dell’agorà (oggi piazza San Gaetano), dove fino a qualche mese fa c’era la bottega di un falegname, tra qualche giorno aprirà alle visite un sito archeologico di grande fascino. Qui c’è quel che resta della “summa cavea”, l’anello superiore della gradinata di quel teatro dove nel 64 d. C. si esibiva Nerone, e che ora è stato quasi completamente inglobato dagli edifici costruiti sopra le antiche gradinate. Tanto che per accedere ai resti ritrovati di recente i visitatori devono entrare in una casa privata. Un lungo e strabiliante strato di opus reticolatum, fino a pochi anni fa ricoperto di moderno intonaco e utilizzato come parcheggio per motocicli. a breve, negli spazi del teatro romano, dove è allestito anche un antico presepe, aprirà “una notte al teatro”. Un bed and breakfast nel teatro di Nerone. nel ventre di Napoli. Ma ora, tutto questo potrebbe rischiare una clamorosa svendita. a un euro a cavità.
«Sicurezza a rischio»
«Cavità in vendita, peraltro a un euro? Un’operazione molto pericolosa». il geolo-go Franco ortolani, direttore del Dipartimento di Pianificazione e Scienza del Territorio dell’Università di Napoli Federico II, commenta con inquietudine le schede rese pubblicate dall’agenzia del Demanio. «Qui in ballo», dice, «c’è la sicurezza del territorio che potrebbe essere messa a repentaglio da operazioni come queste». Della vendita delle cavità, assicurano dall’ufficio Sicurezza geologica e Sottosuolo del Comune, «noi non sapevamo nulla. anzi: è un’operazione inconcepibile. non conosciamo i criteri che hanno portato a tutto questo. La logica avrebbe richiesto una nostra preventiva consultazione. e invece l’abbiamo saputo dai giornali...».
Non sono segnalati vincoli particolari per la vendita. il valore inventariale, in questo che è solo un primo elenco,è di un euro per ognuna delle cavità. e non è chiaro di chi sia l’esatta competenza: una nebulosa normativa che non aiuta. «La vendita», avverte ortolani, «deve essere riservata solo ad associazioni serie che da anni valorizzano le cavità con visite guidate e che garantiscono la manutenzione e conservazione, come tutti possono riscontrare. Ma le forze dell’ordine e i servizi di sicurezza hanno visionato la mappa delle cavità in vendita e di quelle esistenti nel sottosuolo nelle zone circostanti e hanno visto quali edifici, banche, uffici vari si trovano in superficie?». In città non sono infrequenti i colpi delle cosiddette bande del buco: rapinatori che spuntano dal sottosuolo sfondando i pavimenti di una banca, che poi si volatilizzano nel dedalo di cunicoli sotterranei. insieme a materiale di risulta, rifiuti e residui del “mondo di sopra”, nelle cavità sono stati ritrovati spesso pezzi di auto rubate, refurtiva, materiali provenienti da attività illecite.
Un territorio enormemente vasto, che ora rischia di far nascere nuovi appetiti speculativi difficilmente controllabili. «è semplicemente assurdo pensare di poter regalare un patrimonio di questo tipo agli “amici”», sbotta Riccardo Caniparoli, un altro geologo profondo conoscitore del sottosuolo napoletano. «Se fosse previsto l’obbligo di risanare le cavità e di metterle a disposizione della collettività con visite guidate allora la vendita si potrebbe pure fare. Ma se così non fosse si tratterebbe di un atto davvero grave.
Il pericolo di speculazioni sarebbe davvero altissimo. Bisogna fare subito il Piano regolatore del sottosuolo e individuare quali sono le esigenze, e poi pianificare il futuro. Se, infatti, in una determinata zona è prevista la costruzione del tracciato della metropolitana o di una condotta, e ci si ritrova davanti una cavità che nel frattempo è diventata privata, come si fa? a guadagnarci sarà solo il proprietario».
Qualsiasi tipo di intervento nel sottosuolo, precisa Caniparoli, «deve essere preceduto da una caratterizzazione ambientale e da una bonifica». allarga le braccia Enzo Albertini, speleologo tra i pionieri della scoperta delle meraviglie sotterranee di Neapolis: «Di fronte alla notizia della svendita c’è da rimanere sgomenti. Sarebbe stata auspicabile una pianificazione condivisa di progettualità. e invece...». il drammatico sacco edilizio denunciato dal film “Mani sulla città” potrebbe aver insegnato poco o nulla».
E’ venuta l’ora di analizzare la morte di quella che è stata chiamata, in gran fretta e proditoriamente, Seconda Repubblica. Doveva essere qualcosa che somigliava alla quinta repubblica di De Gaulle, inaugurata alla fine degli Anni 50: un sistema che restituisse alla politica la nobiltà, lo sguardo lungo, l’efficacia che il predominio di fazioni e partiti le aveva tolto. Doveva, partendo dalla simultanea svolta avvenuta a Nord con Mani Pulite e a Sud con l’offensiva contro la mafia di Falcone e Borsellino, rigenerare un ceto politico corrotto da anni di democrazia senza alternanza, di poteri paralleli e illegali. Le forze che dopo il ’45 avevano ricostruito il Paese gli avevano dato una Costituzione vigile sulla democrazia, ma antichi mali, non curati, si erano incancreniti: il rapporto degli italiani e dei politici con lo Stato in primo luogo, e la maleducazione civile, lo sprezzo della legalità, del bene comune. Tutti questi mali sopravvissero alla Prima Repubblica, e per questo anche la seconda sta morendo.
Quel che mancò, nei primi Anni ’90, fu la rigenerazione delle classi dirigenti. La politica abdicò, accettò di farsi screditare, e forze estranee ad essa se ne appropriarono. Furono queste ultime ad annunciare l’avvento del Nuovo: nuovi uomini, non prigionieri dei vecchi partiti; nuova attitudine manageriale al comando; nuova fermezza nel decidere. La Seconda Repubblica è stata innanzitutto un sistema di dominio il cui scopo era di radicare quest’immagine del potere nelle menti di italiani stanchi di lungaggini, assetati di efficacia. Altri obiettivi non esistevano, se non la libertà del leader da ogni vincolo. Il conflitto d’interessi non era un ostacolo: sanciva tale libertà. Ovvio che la rigenerazione dello Stato e della legalità divenne non solo impossibile ma esecrata. Mani Pulite e Falcone-Borsellino erano escrescenze di una Prima Repubblica caduta per motivi che restando arcani non insegnavano nulla se non più furbizia e più menzogne.
I dati lo confermarono presto, dopo Tangentopoli: la corruzione non solo era ripresa, ma s’era inasprita fino ad assumere, oggi, proporzioni enormi. L’impunità dei dirigenti s’estese. L’informazione televisiva, ieri lottizzata, è ora monopolizzata da una persona. La Seconda Repubblica era nata, ma affatto diversa dal racconto che se ne faceva. Ha dato vita al bipolarismo, ma un bipolarismo tra due concezioni dello Stato e della legge, non fra due politiche. In sedici anni ha creato un sistema che salvaguarda i difetti del regime precedente, distruggendo le forze e gli anticorpi che nonostante tutto esso ancora possedeva. Non c’è dunque una sola Seconda Repubblica. Ce n’è una cui tendevano i veri riformatori. E ce n’è un’altra, effettiva, che usurpando il linguaggio dei riformatori ha installato un regime che confonde la crisi della politica con l’inutilità della politica, e mette il potere esecutivo al riparo da ogni controllo. Che non ha corretto nulla se non l’immagine del leader, e l’uso democratico di frenare il potere eccessivo con altri poteri.
Questa Seconda Repubblica non è falsa a causa del predominio di una persona (Berlusconi). È falsa perché ha dato agli italiani, contemporaneamente, un uomo forte e uno Stato disarticolato, con poteri di controllo indeboliti se non neutralizzati. Per poteri di controllo s’intende la magistratura, la stampa indipendente, il Capo dello Stato che incarna il legame con la Costituzione, la Costituzione stessa. Quando si parla di regime non si parla di un uomo, ma di questa ben organizzata disarticolazione.
Gli italiani hanno avuto quel che non chiedevano. Non la politica rinobilitata, ma il suo discredito. Non una giustizia più rapida, ma una giustizia celere con i deboli, impotente e interminabile con i forti: una giustizia giudicata usurpatrice se giudica i potenti, come usurpatrice è giudicata la stampa indipendente. La Prima Repubblica aveva anticorpi che l’affossarono; la Seconda forse ne ha ma di meno, sicché neppure ricorre all’ipocrisia: Berlusconi non esita a rompere con Fini che chiede il rispetto della legalità, non esita a definire golpista il potere del Quirinale di sciogliere il Parlamento. L’interiorizzazione dell’illegalità non potrebbe essere più esplicita e impudente.
Tuttavia anche la Seconda Repubblica sta morendo. Perché non c’è leader che alla lunga possa vivere d’immagine, senza esserlo. Perché non basta inoculare nelle menti lo sprezzo della politica, per aggiustarla. Quando Berlusconi incolpa il «teatrino della politica», sa di che parla perché tutto in lui è teatrale. Hannah Arendt spiega bene come simili teatranti si adoperino a «defattualizzare la realtà» (memorabile il saggio sulla guerra in Vietnam, New York Review of Books 18-11-’71). Un «enorme sforzo fu dispiegato», scrisse quando i Pentagon Papers rivelarono l’inutile disastro della guerra, per «dimostrare l’impotenza della grandezza». Egualmente impotente è la grandezza del Premier italiano: proprio come leader ha fallito, incapace di tener unite la ampie maggioranze di cui disponeva.
Se si vuole analizzare la fine della Seconda Repubblica, bisogna fare quel che non si è fatto: capire perché la Prima cadde, e come. Riconoscere i mali che sopravvissero nella Seconda, e anche certe virtù che nella distruzione vennero spazzate via. La Prima Repubblica infatti non fu solo storia criminale. Fu anche partecipazione all’Unione europea. Fu la tendenza ad aggirare magari la Costituzione, non a demolirla. Fu Mani Pulite e l’opera di Falcone e Borsellino. Fu l’incorruttibile lealtà istituzionale di Vincenzo Bianchi, il generale della Guardia di Finanza morto l’altro ieri a Civitavecchia: nell’81, su incarico dei magistrati Turone e Colombo, l’allora colonnello scoprì a Castiglion Fibocchi, una fabbrica di Gelli, la lista dei 972 affiliati alla P-2. Fu, infine, la capacità di resistere alla grave sfida delle Br. Basti pensare al ruolo decisivo che i pentiti svolsero nell’anti-terrorismo, al colpo mortale inferto dalle prime deposizioni di Patrizio Peci nell’80. Il giudice Giancarlo Caselli ricorda, nel libro scritto con il figlio Stefano (Le Due Guerre, 2009), gli esordi della Seconda Repubblica, quella raccontata come nuova: come prima cosa, nella lotta alla mafia e ai suoi legami con la politica, vengono mozzati l’uso e la protezione dei pentiti. Meritevole non è più chi parla ma chi omertosamente tace, come Mangano.
Rimeditare la fine della Prima Repubblica significa svelare la vera natura della Seconda. Non è detto che si riesca, tanto vasta è la manipolazione, lo spin di chi guida il regime. Tutti ne sono prigionieri: anche la stampa, quando accetta di mettere sullo stesso piano le vicende monegasche di Fini e quelle di Berlusconi e dei suoi. Quando denuncia la politica fatta a colpi di dossier sui mali altrui. Il risultato, lo spiega Michele Brambilla su La Stampa, è di «attribuire a ciascuna vicenda un valore equivalente a tutte le altre». È una trappola in cui Fini, che ha rotto sulla legalità, rischia di cadere. Da giorni, i suoi uomini invocano una tregua, e tanti reclamano la fine di «contrapposizioni dannose»: se Berlusconi con i suoi giornali smette gli attacchi al presidente della Camera, anche i finiani smetteranno l’offensiva su illegalità e corruzione. La rottura non servirebbe ad altro che a rendere gli scandali tutti eguali: la vendita di una casa di An e la corruzione di magistrati, l’uso privato del denaro pubblico, il monopolio televisivo. La tregua, presentata come progresso, sarebbe il fallimento del Presidente della Camera, non di Berlusconi. Non la casa a Montecarlo rischia di squalificare Fini, ma la rinuncia alla battaglia sulla legalità, e a una Repubblica che cessi di definirsi nuova solo perché viene «defattualizzata» e abusivamente chiamata Seconda.
Sono maledettamente stufo di dover seguire i miei obblighi professionali commentando la ripetitiva rissosità e inconcludenza dei politici, l’incontenibile pulsione anticostituzionale di Berlusconi, l’uso dei dossier nei confronti di Fini e le controaccuse dei finiani contro il Cavaliere, gli sbraiti di Di Pietro contro tutto e tutti, il bastone secessionista della Lega che spunta dai borbottii di Umberto Bossi, l’attesa del Partito democratico e Godot che non arriva perché ce ne sono troppi e si paralizzano reciprocamente.
Sono maledettamente stufo e non sono il solo. Sono stufi la maggioranza schiacciante degli italiani con il pessimo risultato che il distacco dalle istituzioni è diventato un abisso. Ed è stufo e molto preoccupato il Presidente della Repubblica, come lui stesso ha detto con parole sue nell’intervista rilasciata tre giorni fa all’Unità.
Napolitano ha segnalato il vuoto che si è aperto da quando la rissa politica si è trasformata in rissa istituzionale; ha chiesto ai responsabili di questo stato di cose di mettervi fine al più presto; ha osservato che una crisi di governo al buio e un’eventuale campagna elettorale «selvaggia» rischierebbero di avere esiti nefasti per la democrazia. Quanto a lui, ha confermato quanto già sapevamo del suo modo di pensare e di agire: farà tutto ciò che la Costituzione gli consente e gli impone di fare se si aprirà una crisi di governo. Niente di più e niente di meno.
Questo suo rispetto degli obblighi costituzionali ai quali ha giurato di attenersi (l’hanno giurato anche tutti gli altri "pubblici ufficiali" a cominciare dal presidente del Consiglio, dai membri del governo e dai presidenti delle Camere, ma sempre più spesso se ne scordano) gli ha infatti procurato un livello di fiducia popolare che sfiora l’unanimità e rappresenta uno dei pochi elementi positivi, forse il solo, della pessima situazione che stiamo vivendo.
La Costituzione stabilisce che spetta al capo dello Stato il potere di sciogliere le Camere se il Parlamento non è in grado di esprimere una maggioranza, così come è in suo potere nominare il presidente del Consiglio e su sua proposta i ministri rinviando il governo alle Camere per ottenerne la fiducia.
Da questo punto di vista ha ragione Napolitano di ricordare che non esiste un governo tecnico: i governi debbono ottenere la fiducia del Parlamento e quindi sono tutti e sempre governi politici, quali che siano il presidente del Consiglio e i ministri che ne fanno parte. Purtroppo gran parte dei politici ignorano o dimenticano questi principi costituzionali e le norme che li configurano. Di qui lo stucchevole teatrino che va in scena ogni giorno con poche varianti.
* * *
Una variante notevole era sembrata la separazione dei finiani dal Pdl. Le motivazioni erano chiare, il dissenso su punti decisivi – a cominciare col rispetto della legalità – e la mancanza di luoghi e strumenti per renderlo palese all’interno del partito giustificavano la secessione. Essa però non fu portata alle logiche conseguenze. Si volle mantenere una fittizia appartenenza dei finiani al Pdl «per non tradire la volontà degli elettori che li avevano votati».
Va detto – e Fini lo sa perfettamente – che uno dei cardini portanti della nostra Costituzione è l’articolo 67 che stabilisce che «i membri del Parlamento rappresentano la nazione e sono eletti senza vincolo di mandato». Quest’articolo è fondamentale perché è il solo strumento che impedisce alle oligarchie dei partiti di asservire gli eletti dal popolo. Il popolo trasferisce ai suoi delegati la propria sovranità fino a quando si tornerà a votare. Non c’era dunque alcun bisogno della finzione finiana che il cordone ombelicale con il Pdl non potesse essere tagliato. Quella finzione è stata adottata affinché fosse evidente chi era stato il responsabile della secessione: un’evidenza però talmente plateale da non richiedere percorsi così tortuosi e sterilizzanti.
Ma ora, dopo che è cominciato e continua ad andare avanti il massacro mediatico che i giornali berlusconiani infliggono a Fini con l’evidente supporto dei dossier dei Servizi segreti, si è delineata un’altra anomalia di segno opposto: i finiani, per difendere il loro leader dall’attacco di cui è vittima, sono partiti al contrattacco non solo ricordando fatti antichi e non sanate illegalità del Cavaliere, ma indicando temi recenti di gravissima portata e cioè: l’uso dei Servizi di sicurezza per distruggere gli avversari politici del premier, rapporti di comparaggio del presidente del Consiglio con il primo ministro russo Putin; analoghi rapporti di comparaggio di Berlusconi con il leader libico Gheddafi.
Se i finiani dispongono di prove o almeno di gravi indizi su queste presunte e gravissime illegalità, hanno a nostro avviso l’obbligo di esibirle informandone la competente Procura della Repubblica; non possono invece tenerle in serbo come potenziale deterrente. Chi ha sollevato una questione di legalità deve anzitutto difendere se stesso esibendo prove certe contro le accuse che gli sono state lanciate, ma non può a sua volta ritorcerle senza provarne la consistenza. Qui risiede il coraggio e la forza della propria coscienza morale.
La direttiva ha la firma di Silvio Berlusconi ed è datata 27 luglio, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 10 agosto. Per la prima volta mette nero su bianco i criteri attraverso i quali la Protezione civile può gestire i "grandi eventi". «Ma sono criteri troppo generici - denunciano Luigi Zanda e Gianclaudio Bressa, Pd - nei quali è possibile inserire di tutto. Fanno passare un atto del genere in pieno agosto, a Camere chiuse: l´ennesimo abuso della politica delle ordinanze in deroga a tutte le leggi». D´altronde Guido Bertolaso ama ripeterlo spesso: «In Italia è la Protezione civile a gestire i grandi eventi». Dal 2001, per la precisione. Da quando il medico romano è arrivato a guidare il dipartimento della Presidenza del Consiglio. Criticata dalla Corte dei conti, sotto la lente di inchieste giornalistiche e delle indagini di vari magistrati in giro per l´Italia, ora la nozione di "grande evento" si arricchisce per la prima volta di alcuni parametri. Ma quelli che nelle intenzioni della Protezione civile vorrebbero essere «criteri» ai quali fare riferimento, vanno a formare, in realtà, una rete dalle maglie estremamente larghe. Nelle quali ciò che passa viene assoggettato all´uso delle ordinanze in deroga alle leggi vigenti.
Giusto 20 giorni fa Bertolaso, commentando la tragedia della Love Parade di Duisburg, in Germania, aveva spiegato: «In Italia non sarebbe mai successo: quando ci sono manifestazioni così, devono intervenire quelli che sanno come si fa». Sottinteso: la Protezione civile. Che, nelle idee del suo capo (da mesi in procinto di lasciare), nelle intenzioni del presidente del Consiglio che ha firmato la direttiva e nelle disposizioni dell´atto che ha funzioni operative, potrebbe mettersi a organizzare anche eventi come la Love Parade.
Si legge nella direttiva: «Si tratta di situazioni nelle quali l´inadeguatezza degli enti ordinariamente competenti a superare il contesto problematico che si manifesta è suscettibile di provocarne un aggravamento per impedire il quale si rende perciò improcrastinabile l´intervento dello Stato in via sussidiaria». Il burocratese nulla toglie al senso della direttiva. Che, pur provando a scendere nei dettagli, resta abbastanza generica: «Un grande evento, quale situazione straordinaria avente potenzialità atte a generare stravolgimenti nell´ordinario sistema sociale, può costituire la causa dell´accentuazione dei rischi. Tali rischi, pur essendo prevedibili e prevenibili solo parzialmente, devono attenere alla compromissione dell´integrità della vita, dei beni, degli insediamenti e dell´ambiente». Tra i grandi eventi avviati per il quinquennio 2010-2015 ci sono le celebrazioni per il 150° anniversario dell´Unità d´Italia, il congresso Eucaristico nazionale di Ancona e Osimo e l´Expo Universale di Milano.
In passato, la Protezione civile ha anche organizzato la Louis Vitton Trophy a La Maddalena, i Mondiali di nuoto di Roma, il G8, prima a La Maddalena e poi a L´Aquila, i campionati del mondo di ciclismo su strada, ma anche la visita pastorale di Benedetto XVI a Cagliari. Per fare chiarezza sulla gestione di alcune di queste manifestazioni sono tuttora aperti diversi fascicoli d´inchiesta da parte di svariate procure. L´attenzione dei magistrati non ha però frenato l´intenzione del governo di ribadire come la categoria di grande evento spetti alla Protezione civile.
E mentre da una parte la direttiva del 27 luglio invita a una «progressiva riduzione degli stati di emergenza dichiarati sul territorio nazionale» e a «limitare al massimo lo strumento della proroga degli stati di emergenza», dall´altra specifica i parametri della nozione di grande evento: «1) Complessità organizzativa dell´evento tenuto conto della rilevanza e della sua dimensione nazionale o internazionale, delle autorità partecipanti, dell´impatto sull´economia e sullo sviluppo anche infrastrutturale dell´area interessata, della prevedibile affluenza di pubblico; 2) esigenza di provvedimenti e piani organizzativi straordinari per garantire la sicurezza; 3) necessità di adottare misure straordinarie per l´uso del territorio, la mobilità, la viabilità e i trasporti; 4) definizione ed esecuzione, anche con procedure semplificate, di piani sanitari di natura eccezionale; 5) adozione di misure, volte a evitare che dalla celebrazione dell´evento possano derivare conseguenze negative a carico del territorio». La rete a maglie larghe, insomma, è pronta ad accogliere nuovi grandi eventi.
L’articolo pubblicato da “Il Fatto” (11 agosto) [e ripreso da eddyburg] con il titolo “Cemento e polemiche, con Caltagirone svolta Montepaschi” descrive Banca Monte dei Paschi di Siena come un soggetto che, da un certo punto in poi, ha incrementato la sua attività nel mattone tanto da essere definita “l’immobiliare” Monte dei Paschi di Siena. Non è vero.
A sostegno di questa tesi l’articolo elenca 4 casi in cui la banca è coinvolta, peraltro sempre con quote di minoranza e mai sopra il 25 per cento. Il loro valore complessivo è il 2 per cento circa del totale delle nostre quote di partecipazione nelle 314 società di cui siamo soci in Italia nei più diversi settori: infrastrutture (parcheggi, strade, aeroporti, porti, interporti), società finanziarie, altri rami industriali (energia come Alerion Greenpower e Sorgenia, ricerca biomedica come Sorin e TBS Group), territoriali (patti territoriali e altre società per lo sviluppo) e, naturalmente, immobiliare. L’articolo, inoltre, individua nel 2003, con l’ingresso di un nuovo azionista, il momento di svolta verso il mattone.
Almeno 3 dei 4 progetti citati a supporto di questa tesi nascono molto prima. Nella tenuta di Marinella, in Liguria, dove la nostra presenza è passata dal 100 per cento al 25 per cento di recente. L’iter per il progetto è iniziato negli anni Novanta. L’Aeroporto di Ampugnano risale alla prima metà del ventesimo secolo e la pista di 1.480 metri, che secondo l’articolo dovrebbe comparire adesso, è quella che l’aeroporto utilizza da molto tempo per i voli consentiti nello scalo. Non è previsto alcun allungamento. Anche il progetto di Capo Malfatano, nel quale la Sansedoni (di cui Bmps ha solo il 20 per cento circa) è uno dei soggetti interessati, ha una genesi anteriore al 2003. L’unica partecipazione successiva al 2003 è il 20 per cento in Agricola Merse.
Firmato: Banca Monte dei Paschi di Siena
[Replica de Il Fatto quotidiano]
Ribadiamo quanto riportato nell'articolo e del resto non smentito dalla lettera del Monte dei Paschi. Ci sono altre banche – come abbiamo scritto in passato – che molto hanno investito nel mattone. Ciò non toglie che Mps partecipi a molte operazioni immobiliari al centro di polemiche: tra l'altro nella campagna senese, in Sardegna e in Liguria. Lo fa con società controllate e con partecipate, esattamente con le quote riportate nell'articolo (e verificate con visure camerali). Sulla ricostruzione di Mps ci sia permesso di esprimere perplessità: per l'aeroporto di Siena c'è un progetto di ampliamento con forte incremento del traffico. Alla Marinella, in Liguria, la società che ha lanciato il progetto (con un impatto pesante per la delicatezza del luogo) era detenuta al 100 per cento da Mps. Non ha rilievo (per quanto noi stessi lo avessimo riportato) che in un secondo tempo la partecipazione sia scesa al 25 per cento per far posto tra l'altro alle cooperative. Infine Sansedoni, società protagonista di operazioni immobiliari discusse perché realizzate in zone ad alto pregio: tra l'altro a Capo Malfatano in Sardegna. È vero che la Banca Monte dei Paschi detiene il 21 per cento delle azioni (come avevamo peraltro scritto), ma la Fondazione Monte dei Paschi detiene un altro 66 per cento (35 per cento privilegiate e 31 per cento ordinarie). Insomma, si gioca sempre in casa.
Il punto da chiarire è questo: il reintegro dei lavoratori licenziati a Melfi da parte di un giudice del lavoro era del tutto prevedibile. Forse non la rapidità della pronuncia, ma il suo esito certamente sì. Allora, posto che non si può credere che l’ad di Fiat Auto si sia circondato di sprovveduti, bisogna chiedersi per quali motivi i suoi esperti gli hanno suggerito d’imboccare una strada che portava dritto contro un muro. Il quesito è d’obbligo, perché rispetto alla questione dei licenziati di Melfi i rischi cui Fiat va incontro sul piano giuridico ed economico con il piano di Pomigliano e ciò che vi ruota attorno sono molto più grandi. Il piano presentato ai sindacati nel maggio scorso ha fatto sorgere seri dubbi circa la possibilità che limiti il diritto di sciopero, e perfino il diritto di ammalarsi, giacché nel caso che la percentuale di assenteismo «sia significativamente superiore alla media» l’azienda - la sola a decidere quanti punti o decimi di punto siano significativi - si considera libera dall’obbligo di pagare le quote di malattia. Nelle discussioni seguite alla presentazione del piano l’ad Fiat si è poi più volte riferito alla possibilità che l’azienda fuoriesca dal contratto nazionale dei metalmeccanici. Infine è spuntato il progetto di costituire una nuova società, la quale rileva gli impianti di Pomigliano e assume soltanto i lavoratori che accettano l’organizzazione del lavoro e i vincoli comportamentali del piano di maggio. Quanto basta per mobilitare folle di giudici del lavoro, avvocati, e lavoratori che per anni faranno causa all’azienda.
A fronte di tale scenario maxi, assai probabile, e certo costoso in termini legali, economici, industriali, perché la Fiat si è imbarcata in una minicausa persa prima di cominciare, come i licenziamenti di Melfi? È stato un ballon d’essai, si dirà. Vediamo come va a finire, han pensato al Lingotto, e se le acque non si agitano troppo faremo un altro passo per portare in Italia condizioni di lavoro polacche. Oppure si è trattato dell’inizio d’una politica del carciofo. Tre o quattro licenziati oggi, pochi per scuotere l’indifferenza generale; cento o più domani, magari con la scusa che non volevano accettare i dettami della Manifattura di Classe Mondiale, come si richiederà a tutti i dipendenti della nuova Pomigliano, filiazione Fiat ma tenuta a distanza di braccio dalla genitrice.
Ma la realtà potrebbe essere un’altra. Potrebbe darsi che la Fiat, a conti fatti, non abbia molta voglia di produrre la Panda in Italia. È una vettura piccola e semplice, che permette di guadagnare, quando tutto va bene, poche centinaia di euro per unità prodotta. È la vettura da produrre giusto in Polonia, in Turchia, o magari in Cina, cioè in paesi dove il costo complessivo del lavoro è da due a cinque volte più basso, e i sindacati di fatto non esistono. Ma per fare un passo indietro di notevole risonanza economica e politica la Fiat ha bisogno di buoni motivi. Pensava forse di trovarli nella resistenza dei sindacati, questi residui ottocenteschi di un mondo industriale che non c’è più, come tanti politici, oltre all’ad Fiat, li hanno definiti. Purtroppo per essa - ammesso che questo fosse il disegno - la resistenza dei sindacati quasi non c’è stata, visto che tre sindacati e mezzo hanno prontamente sottoscritto il lodo Pomigliano, né hanno battuto ciglio dinanzi alla prospettiva di una nuova società palesemente costituita allo scopo di poter scegliere i lavoratori che ci stanno.
Se alla fine il disegno Fiat fosse proprio quello di un ritiro motivato dalle difficoltà che si incontrano in Italia per produrre vetturette in modo competitivo a paragone di polacchi e serbi, e prima o poi di cinesi e indiani, quale miglior appiglio della sentenza di un giudice del lavoro che reintegra al loro posto tre operai accusati nientemeno che di sabotaggio? Il costo di questo singolo insuccesso legale è minimo. Ma può essere il punto di appoggio atto a sollevare la Fiat da un impegno che appare ogni giorno più scomodo. In un paese dove i giudici del lavoro si mobilitano in poche settimane per salvare dalla disoccupazione un gruppetto di operai, ci si deve dare atto - potrebbe aver ragionato l’azienda - che non si può andare avanti con la prospettiva di dover affrontare per un lungo futuro complicate vertenze con buon numero degli uni e degli altri. I licenziamenti di Melfi, apparentemente così incauti, cadrebbero allora al loro posto nella strategia della Fiat.
La campagna di Siena. Il promontorio di Capo Malfatano in Sardegna. Le foci del fiume Magra in Liguria. Tre luoghi straordinari, distanti centinaia di chilometri, ma con una cosa in comune: una banca, o meglio "l'immobiliare" Monte dei Paschi di Siena. Lo storico istituto toscano, ormai terzo per dimensioni in Italia, punta sul mattone. Decine di iniziative che attirano polemiche oltre che qualche inchiesta: aeroporti, alberghi e mega-porticcioli. Una corsa partita da lontano. Siamo nell'agosto 2003 quando i giornali annunciano: "Si stringe il rapporto tra Monte dei Paschi di Siena e Francesco Gaetano Caltagirone. È stata avanzata la proposta di chiedere a Bankitalia l’autorizzazione per costituire una società di gestione del risparmio al fine di promuovere iniziative nei fondi chiusi immobiliari... La banca entra così nel settore immobiliare". Negli anni successivi Caltagirone sbarca in Mps fino a raccogliere quasi il 5% delle azioni e a guidare i soci privati. Chissà se ad attaccare la passione alla banca è stato il re romano del cemento (oggi vicepresidente).
Una banca mattonara? Ambienti Mps respingono l'accusa: "Abbiamo almeno 300 partecipazioni in tutti i settori: infrastrutture, società finanziarie, energia. Certo, c'è anche l'immobiliare, ma investiamo nelle costruzioni meno di altri grandi istituti".Ma gli ambientalisti hanno storto il naso per la svolta della banca, per il fiorire di società controllate o partecipate che fanno affari con i giganti del mattone delle cooperative rosse. L'ultimo caso è il progetto dell'aeroporto di Siena. Una storia costata al presidente Giuseppe Mussari un avviso di garanzia per concorso morale in falso e turbativa d'asta. Lui, Mussari, si dichiara "estraneo ai fatti" e assicura di avere "piena fiducia nella magistratura". Ad attirare l'attenzione della Procura è stata la privatizzazione della società che gestisce lo scalo, in passato controllata dagli enti locali e partecipata da Mps. Ma nel 2008 ecco l'ingresso del fondo Galaxy con sede in Lussemburgo. Si tratta, però, di un fondo pubblico, partecipato indirettamente dai governi di Francia, Germania e Italia. Secondo i magistrati, il Monte avrebbe favorito Galaxy nella gara per la scelta del partner privato della società aeroportuale. Qui ecco che la storia si complica: tra i soci di Galaxy c'è la Cassa Depositi e Prestiti (controllata al 70% dallo Stato e al 30 dalle fondazioni bancarie). A presiederla Franco Bassanini, sostenuto per la presidenza proprio da Mps. Niente di illegale, ma il progetto dell'aeroporto è tutt'altro che ben visto dai senesi. Per la sua dubbia utilità e per le dimensioni. Siamo vicini agli scali di Firenze e Pisa, a due ore da Fiumicino. Non solo: Siena finora attirava solo voli da diporto. Invece ecco comparire una pista da 1.498 metri che con 15 milioni di investimenti permetterà entro il 2020 di far atterrare centinaia di migliaia di viaggiatori. Una struttura voluta dal colosso farmaceutico Novartis, che qui ha una delle sue sedi. Ma anche una scelta che punta sulla quantità più che sulla qualità. Certo agli operatori del settore farà piacere. Per esempio a Luisa Stasi, comproprietaria dell’Hotel Garden Spa e moglie di Mussari.
I progetti Mps punteggiano la campagna senese. Prendete la Bagnaia, tenuta della famiglia Riffeser, dove si è tenuto il ricevimento di nozze di Pierferdinando Casini e Azzurra Caltagirone. Dove ogni anno il gotha politico e giornalistico si incontra per una sorta di Porta a Porta campestre. Nessuno si è mai chiesto cosa facciano le ruspe che lì davanti tormentano la campagna per costruire 300 appartamenti e un campo da golf. Ma che cosa c'entra Mps? L’Agricola Merse Srl è unita in matrimonio alla Monte dei Paschi Capital Service, che della società di Bagnaia detiene il 20%.
Ancora: la Fondazione Mps è socia al 66% della Sansedoni spa, la Banca ha un altro 21%. Sansedoni sta realizzando almeno 12 progetti immobiliari dalla campagna di Siena a Firenze. Per finire con un complesso alberghiero tra i più contestati: quello di Capo Malfatano in Sardegna (un'operazione cui partecipano anche Benetton e Marcegaglia). Per rendersi conto di che cosa sia oggi Capo Malfatano bisogna vedere “Furriadroxus”, un documentario di Michele Mossa e Michele Trentini. I furriadroxus sono le antiche case contadine disseminate su Capo Malfatano. Qui vive una comunità agro-pastorale che sembra esser stata dimenticata dal tempo. Un promontorio selvaggio, dove domina il silenzio. Almeno finora.
Ma passiamo in Liguria, alla Marinella. Appena una settimana fa la Regione, presieduta da Claudio Burlando, ha dato un altro via libera a 900 posti barca, 750 residenze, 200 esercizi commerciali, 25 stabilimenti balneari, 1.000 posti letto. Siamo a due passi dal Parco di Montemarcello, sulle spiagge deserte e suggestive alle bocche del Magra dove venivano Mario Soldati e Marguerite Duras. Eppure – nonostante la guerra scatenata da cittadini e comitati – dagli amministratori e dai sindacati è arrivata una pioggia di "sì". E qui, oltre al paesaggio naturale, bisogna studiare quello finanziario: la Marinella spa che ha varato il progetto era detenuta al 100% da Mps. Oggi la quota è calata al 25%, nella società sono entrate anche le Cooperative. Nel cda della Marinella, al momento del lancio, c'era Giorgio Giorgi, avvocato genovese vicino a Burlando, membro della sua associazione politica, il Maestrale, ma soprattutto, come racconta lui stesso, "tesoriere della campagna elettorale di Burlando nel 2005".
Non ho nessuna difficoltà a retrodatare di trent'anni, come chiede Alberto Asor Rosa sul manifesto di domenica, la crisi di sistema che attanaglia l'Italia, se per «crisi di sistema» intendiamo la lunga transizione dalla (cosiddetta) Prima Repubblica a non si sa ancora che cosa, transizione che si è aperta a mio avviso non con Tangentopoli ma con la morte di Moro e tutto quello che di sociale, politico e statuale ne fu coinvolto e travolto. Non è però in questo senso largo che ho parlato, nell'articolo del 31/7 che Asor gentilmente cita, di crisi di sistema. Mi riferivo, in modo più circoscritto, alla crisi di sistema politico che si è aperta con la rottura del Pdl, e che a mio avviso chiude non il trentennio ma il quasi-ventennio che abbiamo alle spalle. Chiude, più precisamente, la risposta che alla crisi del trentennio ha dato l'assetto politico della (cosiddetta) Seconda Repubblica, un assetto caratterizzato dal bipolarismo forzoso di impronta berlusconiana: dal bipolarismo, cioè, nato dall'iniziativa politica con cui Silvio Berlusconi aggregò, nell'ormai lontano '94, la destra tricipite fatta da Fi, An e Lega, costringendo il fronte di centrosinistra a pensarsi e aggregarsi a sua volta come polo più o meno unitario (meno, a causa della sua differenziazione e/o rissosità interna). La successiva torsione bipartitica e bileaderistica Pdl-Pd è stata una variante esasperata di questo schema, tant'è vero che è il bipolarismo, e non solo il bipartitismo, a essere messo in causa oggi dalla rottura del Pdl e relativa nascita, per l'appunto, non di un terzo partito ma di un «terzo polo».
Ora è ben vero che la posta in gioco principale del bipolarismo messo al mondo da Berlusconi è stata la questione costituzionale: da una parte la destra tricipite (tutta, Fini compreso come alfiere del presidenzialismo) all'assalto della Carta del '48, dall'altra, a difenderla, gli eredi dell'arco costituzionale della Prima Repubblica. I quali, va detto e sottolineato, quell'eredità l'hanno gestita in modo a dir poco debole e altalenante: non per vocazione «inciucista», come gli rimprovera dalla Bicamerale in poi il qualunquismo di sinistra, ma per una imperdonabile sottovalutazione dell'attacco berlusconiano ai fondamentali della democrazia, per una scarsa cultura dello Stato di diritto (garantisti non ci si improvvisa), per le continue oscillazioni strumentali sul rapporto fra legalità e politica, per la totale rimozione del nesso che lega, nella nostra Costituzione, questione sociale e assetti istituzionali, per la mai acquisita concezione della laicità dello Stato, e non ultimo per la disinvolta accettazione del rovesciamento operato dalla Lega fra questione meridionale (intesa come questione di eguaglianza nazionale) e questione settentrionale (impugnata come questione di egoismo glocale). E' la storia di questo quasi-ventennio e, in larga parte, della debolezza politica del centrosinistra, della sua difficoltà a riconoscere e a contrastare il «regime» di Berlusconi, dei suoi annodamenti su questioni di lana caprina come quelle sul tasso di antiberlusconismo consentito.
Domanda, la prima delle quattro che vorrei, in amicizia, rivolgere ad Asor Rosa: è a questo stesso arco di forze, a questa stessa generazione politica, a questi stessi eredi alquanto scapestrati del patto del '48 che dovremmo affidarne il rilancio in un «governo di ricostruzione democratica»? Non militano a favore di una risposta positiva le varianti minori - per così chiamarle e senza offesa per nessuno - della sua proposta già in circolazione: novelli Cnl, governi «di liberazione da Berlusconi» e simili, che più che alle intenzioni alte e giuste di Asor Rosa sembrano ispirarsi al principio romanesco dello 'ndo' cojo cojo, da Bossi a Tremonti a Fini purché faccia maggioranza. E a proposito, seconda domanda: dal governo di ricostruzione democratica Asor Rosa esclude, per ragioni del tutto condivisibili, la Lega e Tremonti. Fini invece ne farebbe parte? Posta in altri termini: l'iscrizione di Fini all'arco costituzionale del '48 può considerarsi avvenuta con il suo strappo da Berlusconi? la sua attuale difesa della legalità in funzione anticorruzione cancella il suo silente assenso all'uso dell'illegalità in funzione d'ordine pubblico a Genova 2001? e fra le leggi nefaste da cancellare d'urgenza non ci sarebbe magari, per il governo di ricostruzione democratica, anche la Bossi-Fini e la Fini-Giovanardi? Può darsi che Fini sia davvero diventato, come larga parte della stampa di sinistra sostiene, il baluardo della Costituzione; personalmente sentirei il bisogno di sospendere il giudizo, non foss'altro che per gli evidenti risvolti simbolici che la questione assume per la storia e l'autocoscienza nazionale.
Le mie domande però non si fermano qui. Perché la questione costituzionale, o che è lo stesso la questione democratica, pur essendone gran parte non esaurisce la materia che la «crisi di sistema» di oggi ci mette davanti. In primo luogo: se è vero, come dicevo poco fa, che nella cosiddetta Seconda Repubblica l'attacco alla Costituzione si è avvalso del bipolarismo d'impronta berlusconiana, siamo sicuri che sia possibile, adesso, buttare la cesta e tenersi il bambino, ovvero fare oggi piazza pulita del regime berlusconiano salvaguardando per domani il bipolarismo e il maggioritario? Il ragionamento di Asor Rosa, lo dice lui stesso, sembra puntare a questo, infatti sarebbe il governo di ricostruzione democratica a dover esprimere per le elezioni di fine legislatura una coalizione e un candidato da contrapporre alla prevedibile pulsione revanchista di Berlusconi. Senonché fra questo disegno e la sua realizzabilità c'è di mezzo non solo l'eterno conflitto sulla legge elettorale (da cui, concordo con Asor, la non credibilità di governi di transizione in grado di riscriverla in quattro e quattr'otto); c'è di mezzo il terremoto, già in atto, del sistema politico e delle sigle che lo abitano. E non solo in quell'area perennemente mobile del centro attualmente occupata dal terzo polo. Realismo per realismo, su questo punto ha ragione Massimo Cacciari, quando sostiene che la frana sistemica innescata dalla rottura del Pdl allarga immediatamente le crepe del Pd, obbliga a prendere atto del fallimento della sua costruzione, delinea un ritorno alla distinzione fra due tradizioni, una cattolico-liberale una socialdemocratica. Che nessuno ci obbliga a pensare come un ritorno all'indietro, malgrado la forza d'inerzia della politica italiana spinga in questa direzione: potrebbe ben essere una costruzione in avanti, e perfino la ricostruzione di una sinistra, se solo la si nutrisse di idee e di immaginazione, la si dotasse di gambe, e soprattutto la si pensasse in rapporto al mutamento vorticoso, e da sinistra né visto né pensato, che è intervenuto nella società italiana all'ombra del berlusconismo. E mi stupisce assai che in questo quadro la candidatura di Vendola venga interpretata, da occhi pure molto avvertiti, solo come una cattiva replica tattica del berlusconismo e non anche come una mossa strategica di ridefinizione del campo della sinistra e del centrosinistra.
Per farla breve: la crisi di sistema apre una situazione di movimento, e in una situazione di movimento la prima cosa da non fare è stare fermi (come fin qui, tanto per intenderci, ha fatto il Pd). La seconda, su cui insiste giustamente Alfredo Reichlin sull'Unità di domenica, è ricostruire una ragion d'essere sociale e culturale delle sigle politiche, senza la quale qualunque gioco di riordino del campo è a somma zero. La terza - vengo all'ultimo dei punti posti da Asor Rosa - è, per usare la formula di Ilvo Diamanti su Repubblica di ieri, non avere paura delle elezioni. Non averne paura non significa chiederle, né tantomeno farne una parola d'ordine: significa non farsi paralizzare dall'ansia di evitarle, e attrezzarsi ad affrontarle. Non solo perché a mio avviso è sbagliato dare per scontata un'altra vittoria di Berlusconi: il quale lo sa, e perciò oscilla fra minacce di sfracelli e tentativi di ricucitura, appelli al popolo e manovra parlamentare. Ma soprattutto perché è nel vivo della battaglia politica che le forze in campo sono obbligate a ridefinirsi e a reinventarsi. Certo sarebbe meglio, molto meglio, se la battaglia politica fosse pratica quotidiana soggettiva e non scadenza quinquennale o biennale imposta dal Cavaliere; ma non è colpa di nessuno, o meglio è colpa di tutti, se la democrazia italiana è stata ridotta a democrazia elettorale. Non mettiamoci a invocare le elezioni come fossero il lavacro delle nostre inadeguatezze. Ma non mettiamoci nemmeno a scongiurarle come fossero il giudizio di Dio che ci condanna all'inferno.
Pochi giorni fa l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che riconosce l’accesso all’acqua come diritto fondamentale di ogni persona. L’anno scorso il Parlamento europeo ha parlato di un diritto fondamentale di accesso ad Internet. Apparentemente lontane, queste due importanti prese di posizione di grandi istituzioni internazionali si muovono sullo stesso terreno, quello dei beni comuni, attribuiscono il rango di diritti fondamentali all’accesso di tutti a beni essenziali per la sopravvivenza (l’acqua) e per garantire eguaglianza e libero sviluppo della personalità (la conoscenza).
Nell’ottobre del 1847, quattro mesi prima della pubblicazione del Manifesto dei comunisti, Alexis de Tocqueville gettava uno sguardo presago sul futuro, e scriveva: «Ben presto la lotta politica si svolgerà tra coloro che possiedono e coloro che non possiedono: il grande campo di battaglia sarà la proprietà». Quella lotta è continuata ininterrotta e il campo di battaglia, che per Tocqueville era sostanzialmente quello della proprietà terriera, si è progressivamente dilatato. Oggi sono appunto i beni comuni – dall’acqua all’aria, alla conoscenza, ai patrimoni culturali e ambientali – al centro di un conflitto davvero planetario, di cui ci parlano le cronache, confermandone la natura direttamente politica, e che non si lascia racchiudere nello schema tradizionale del rapporto tra proprietà pubblica e proprietà privata.
Tra India e Pakistan è in corso una guerra dell’acqua; in Italia la questione dell’acqua è divenuta ineludibile dopo che un milione e quattrocentomila persone hanno firmato la richiesta di un referendum; il parlamento islandese ha deciso che Internet debba essere il luogo di una libertà totale, uno sterminato spazio comune dove sia legittimo rendere pubblici anche documenti coperti dal segreto. Il tema dei beni comuni segna davvero il nostro tempo, e non può essere affrontato senza una riflessione culturale e politica.
Un misero esempio italiano di questi giorni ci mostra l’inadeguatezza degli schemi tradizionali e i rischi che si corrono. Da poco dichiarate dall’Unesco patrimonio dell’umanità, le Dolomiti sono oggetto di una mortificante contabilità, che sarebbe ridicola se dietro di essa non si scorgesse lo sciagurato "federalismo demaniale" che, trasferendo agli enti locali beni importantissimi, mette questi beni nella condizione di poter essere più agevolmente destinati a usi mercantili o privatizzati o comunque destinati "a far quadrare i conti". E proprio questa eventualità mostra la debolezza dell’argomento, usato per l’acqua, secondo il quale basta che un bene rimanga in mano a un soggetto pubblico perché venga salvaguardato. Non è questione di etichette. È la natura del bene a dover essere presa in considerazione, la sua attitudine a soddisfare bisogni collettivi e a rendere possibile l’attuazione di diritti fondamentali. I beni comuni sono "a titolarità diffusa", appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Incorporano la dimensione del futuro, e quindi devono essere governati anche nell’interesse delle generazioni che verranno. In questo senso sono davvero "patrimonio dell’umanità".
Nel pensare il mondo, e le sue dinamiche, non possiamo sottrarci alla "ragionevole follia" dei beni comuni. Questo ossimoro, che dà il titolo a un bel libro di Franco Cassano, rivela un compito propriamente politico, perché mette in evidenza il nesso che si è ormai stabilito tra beni comuni e diritti del cittadino. Un bene come l’acqua non può essere considerato una merce che deve produrre profitto. E la conoscenza non può essere oggetto di "chiusure" proprietarie, ripetendo nel tempo nostro la vicenda che, tra Seicento e Settecento, in Inghilterra portò a recintare le terre coltivabili, sottraendole al godimento comune e affidandole a singoli proprietari. Per giustificare quella vicenda lontana si è usato l’argomento della crescita della produttività della terra. Ma oggi il nuovo, sterminato territorio comune, rappresentato dalla conoscenza raggiungibile attraverso Internet, non può divenire l’oggetto di uno smisurato desiderio che vuole trasformarlo da risorsa illimitata in risorsa scarsa, con chiusure progressive, consentendo l’accesso solo a chi è disposto ed è in condizione di pagare. La conoscenza da bene comune a merce globale?
Così i beni comuni ci parlano dell’irriducibilità del mondo alla logica del mercato, indicano un limite, illuminano un aspetto nuovo della sostenibilità: che non è solo quella imposta dai rischi del consumo scriteriato dei beni naturali (aria, acqua, ambiente), ma pure quella legata alla necessità di contrastare la sottrazione alle persone delle opportunità offerte dall’innovazione scientifica e tecnologica. Si avvererebbe altrimenti la profezia secondo la quale "la tecnologia apre le porte, il capitale le chiude". E, se tutto deve rispondere esclusivamente alla razionalità economica, l’effetto ben può essere quello di "un’erosione delle basi morali della società", come ha scritto Carlo Donolo. In questo orizzonte più largo compaiono parole scomparse o neglette. Il bene comune, di cui s’erano perdute le tracce nella furia dei particolarismi e nell’estrema individualizzazione degli interessi, s’incarna nella pluralità dei beni comuni. Poiché questi beni si sottraggono alla logica dell’uso esclusivo e, al contrario, rendono evidente che la loro caratteristica è quella della condivisione, si manifesta con nuova forza il legame sociale, la possibilità di iniziative collettive di cui Internet fornisce continue testimonianze. Il futuro, cancellato dallo sguardo corto del breve periodo, ci è imposto dalla necessità di garantire ai beni comuni la permanenza nel tempo. Ritorna, in forme che lo rendono ineludibile, il tema dell’eguaglianza, perché i beni comuni non tollerano le discriminazioni nell’accesso se non a prezzo di una drammatica caduta in divisioni che disegnano davvero una società castale, dove ritorna la cittadinanza censitaria, visto che beni fondamentali per la vita, come la stessa salute, sono più o meno accessibili a seconda delle disponibilità finanziarie di ciascuno. Intorno ai beni comuni si propone così la questione della democrazia e della dotazione di diritti d’ogni persona.
Spostando lo sguardo sui beni comuni, dunque, non siamo soltanto obbligati a misurarci con problemi interamente nuovi. Dobbiamo sottoporre a revisione critica principi e categorie dei passato. Dobbiamo rileggere in un contesto così mutato la stessa Costituzione, quando stabilisce che la proprietà dev’essere resa "accessibile a tutti" e quando, nell’articolo 43, indica una sorta di terza via tra proprietà pubblica e privata. Qui è l’ineludibile agenda civile e politica non di un solo paese, ma di tutti coloro che vogliono affrontare con consapevolezza e cultura adeguate le questioni concrete che ci circondano.
«Più posti barca, ma meno cemento e costi più bassi per una clientela medio-bassa». Così l’assessore all’urbanistica Anna Marson sintetizza il nocciolo politico delle modifiche al master plan sui porti, allegato al Pit, che l’ex assessore regionale Riccardo Conti fece approvare nel 2007. Un nuovo strappo rispetto alle linee di politica urbanistica della precedente giunta guidata da Claudio Martini.
«Vogliamo rivedere la classificazione delle tipologie di porti e approdi e approvare normative che dettino le nuove linee guida sulla portualità turistica», anticipa la Marson al Tirreno. L’idea guida numero uno: «Siamo favorevoli alla massima liberalizzazione di porti e approdi purché non siano invasivi sul piano del paesaggio. Vogliamo strutture con poco cemento», sottolinea l’assessore.
Segue l’idea numero due: «Oggi i costi di un posto barca sono troppo elevati. Ciò è penalizzante per molte persone normali che hanno bisogno di posti a prezzi più accessibili», aggiunge la Marson.
L’esempio viene dalla Francia dove ci sono porti e approdi costruiti con poco cemento, senza il retroporto dei nostri. «In alcune situazioni noi abbiamo delle cittadelle isolate con porto, alberghi e altre strutture ricettive. Questo è un modello che vogliamo ridiscutere per puntare a infrastrutture semplici, non invasive», osserva la Marson.
Sugli approdi turistici la polemica è da anni rovente. C’è chi dice che sono pochi, che la domanda di posti barca è superiore all’offerta e che quindi è necessario costruire nuovi approdi. In questo momento in Toscana le pratiche urbanistiche per nuovi porti che sono in fase molto avanzata, spiegano in Regione, sono tre: Marina di Carrara, Portoferraio e Piombino. La fotografia dell’esistente registra 50 siti tra porti (una ventina) e ormeggi per complessivi 25mila posti barca.
Due anni fa, parlando all’Elba, l’ex assessore all’urbanistica Riccardo Conti spiegò che era «finita l’emergenza» era scattata «l’ora dello sviluppo». Uno sviluppo che puntava anche sulla nautica da diporto.
Il master plan di Conti prevedeva la qualificazione dei porti e dei posti barca: maggiore accessibilità, parcheggi, servizi di qualità. L’idea era quella di puntare a porti di eccellenza. C’è da chiedersi se la qualità e l’eccellenza dell’attuale master plan non collida con il taglio più popolare e spartano che la Marson vuole dare ai porti turistici toscani.
Di contro c’è il partito degli ambientalisti che sostiene che di porti e porticcioli è lastricata la costa toscana. Il rettore della Normale di Pisa Salvatre Settis ha parlato di «coste bombardate dal cemento dei porti turistici».
«Noi vorremmo disaccoppiare i due termini di cemento e porti turistici. La nostra linea è terza rispetto a queste due posizioni. Nel senso che condividiamo l’aumento degli approdi per le barche, ma li vorremmo meno cementificati possibile. Scarni, essenziali. Non le cittadelle che spesso vediamo oggi», spiega la Marson.
Se sul piano edilizio, il neo assessore all’urbanistica sembra aver fatto propria la posizione dei comitati anti-ecomostri e degli ambientalisti, per quanto riguarda i porti turistici la revisione annunciata dell’attuale master plan di contiana memoria si muove, guardando al modello francese, come una terza strada tra ambientalisti e sviluppisti. Ipotizzando uno sviluppo a basso uso di cemento. Senza cittadelle e cattedrali in riva al mare. Puntando ad una clientela medio-bassa.
Ma nello sfondo l’interrogativo è se un modello così sobrio possa attrarre capitali. Se senza cittadella un porto turistico possa essere fonte di business. E quindi in grado di attrarre l’interesse degli investitori. L’interrogativo richiama la cittadella viola di Firenze. La Regione e la Marson vorrebbero che in essa venisse costruito solo il nuovo stadio. Diego Della Valle controbatte che lo stadio da solo non porta soldi. Occorrono alberghi, centri commerciali, musei ed anche ristoranti. Così per i porti: basta il posto barca? O per creare business occorrono anche alberghi e ristoranti? Questo è il senso forse della sfida che la Marson dovrà affrontare per far approvare le sue revisioni del master plan: è possibile il business senza il cemento?
«A dare il segno di una democrazia malata, di una democrazia degli “urlatori”, c’è l’uscita della ministra della Pubblica Istruzione e dell’Università, Mariastella Gelmini, che propone di dare la laurea ad honoris causa ad un politico, Umberto Bossi che usa sistematicamente linguaggi e segni volgari e irriverenti. Una volgarità aggressiva, minacciosa, inquietante, che ben si coniuga con la strategia di occupazione dei grandi mezzi di comunicazione realizzata dal Cavaliere...». A sostenerlo è Nadia Urbinati, politologa e docente alla Columbia University.
Per aver sostenuto che occorreva «liberarsi di Berlusconi», il segretario del Partito Democratico è stato fatto bersaglio di una aggressione mediatica da parte di numerosi esponenti del Governo e della maggioranza. Ma che democrazia è questa? «È la democrazia di chi ha vinto e ora non vorrebbe più perdere. È chiaro che Bersani ha utilizzato una espressione colorita, gergale, di quelle che si usano nel parlare quotidiano. Del resto, le campagne elettorali hanno sostituito le campagne militari, e quindi si usa molto spesso lo stesso linguaggio per parlare di “battaglie”... È evidente che chi è al Governo ha voluto prendere alla lettera quelle parole gridando allo scandalo, pur sapendo che lo scandalo non c’era proprio, tanto più che a scandalizzarsi sono gli stessi ben usi al linguaggio violento. A dimostrazione di questo c’è l’uscita della ministra della Pubblica Istruzione e dell’Università che ha proposto di conferire la laurea honoris causa a un politico che usa sistematicamente linguaggi e segni volgari e irriverenti...». Il riferimento è al ministro e leader leghista, Umberto Bossi...
«Certo che sì. Al ministro che non trova di meglio che fare il segno del dito medio ai giornalisti che gli chiedevano se si andava verso le elezioni anticipate. Non è un gesto isolato. Da quando Bossi e i suoi attuali alleati di Governo sono entrati sulla scena politica, a partire dagli anni Novanta, hanno contribuito pesantemente a cambiare in peggio lo stile e il contenuto del linguaggio politico...».
È dunque la politica degli urlatori che è stata imposta? «Sì. E probabilmente sembra che paghi, visto che Berlusconi la ritira fuori ogni volta che annusa aria di crisi... La strategia dell’urlo, del parlarsi addosso, la politica di chi grida più forte fa bene, e va bene, a coloro che non hanno contenuti da proporre o che, con le urla e gli insulti, cercando di mascherare il vuoto di contenuti politici, mentre la strategia dell’urlo non fa il gioco di coloro che basano il proprio successi con il pubblico sulla deliberazione ragionata».
Nel frattempo, il presidente del Consiglio si prepara alla campagna di autunno condotta a colpi di talk show urlati e a senso unico... «È una mossa prevedibile, perché a leggere i giornali di questi giorni, si possono individuare i due scenari a cui il Cavaliere sta lavorando...».
Quali sarebbero questi scenari? «Berlusconi si prepara a tenere aperta la possibilità, usata come arma di ricatto nei confronti dei “finiani”, delle elezioni anticipate. E al tempo stessi, continua le trattative di palazzo. Quello che tra i due scenari risulterà essere più conveniente per lui, verrà perseguito. Come Berlusconi ha sempre fatto».
Esistono gli anticorpi contro questa democrazia degli urlatori? «Sì e no. Sì se guardiamo a livello istituzionale e costituzionale: su questo terreno gli anticorpi esistono e sono già attivi, come ha più volte rimarcato il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano. La risposta, purtroppo, è negativa per quanto riguarda i potere dell’opinione pubblica. Le ragioni le conosciamo...».
Ma è bene ricordarle a fronte di una dissolvenza della memoria collettiva che viene scientemente perseguita dai fautori della democrazia dell’urlo... «Alla base c’è la commistione tra informazione e potere politico della maggioranza berlusconiana-leghista e potere economico. Quello dell’informazione è sempre più terreno di conquista per un potere insaziabile piuttosto che essa stessa, l’informazione, un potere moderato. Questo è il problema più grave della democrazia italiana, e probabilmente sarà quello sul quale e per mezzo del quale il Cavaliere intenderà giocare la partita anche in questa occasione. Del resto, è sufficiente prestare attenzione ai direttori delle maggiori testate dei Tg nazionali per comprendere quanto deboli siano gli anticorpi in questo potere straordinariamente forte che è, o dovrebbe essere, l’opinione pubblica in una democrazia».
«Democrazia degli urlatori», abbiamo detto. Quale altra definizione può dare conto della situazione italiana oggi? «Non userei la parola democrazia così facilmente: perché democrazia implica discutere per comprendere e decidere, e non sopraffare l’avversario con aggressività e arroganza. Come chiamare un regime che usa amplificare la voce invece della ragione?».
La democrazia dell’urlo è un accidente temporaneo del sistema italiano in questo momento storico o è un’anticipazione di ciò che saranno le future democrazie mediatiche? «Una democrazia che si regge sul potere pervasivo e controllato dei mezzi d’informazione, rischia di essere una democrazia fatta di spettatori passivi, che assistono ad uno spettacolo condotto da altri, senza la possibilità di svolgere il loro ruolo di stimolo, di critica e di controllo in quanto cittadini e non semplicemente come spettatori. È la democrazia del cittadino che viene sopraffatta dalla “democrazia dell’audience”. Da attori a spettatori: una involuzione che non può non destare allarme...».
Riusciremo a riconquistare un tono di voce normale? «Bisognerebbe che chi mette in scena la democrazia dell’urlo non trovasse partner o chi faccia loro da spalla...».
È una critica all’opposizione? «È un invito più che una critica. Occorrerebbe riuscire a coprire un ruolo più dignitoso di quello di interlocutori in un gioco delle parti già stabilito nei toni, nei modi e negli esiti».
Ma negli altri Paesi democratici dell’Occidente, vince chi urla? «Penso che questo più che altro sia un problema italiano, a giudicare dalle trasmissioni politiche condotte in altri paesi europei o negli Stati Uniti, dove Fox News è stata immediatamente definita “Tv propaganda”, proprio per i suoi Tg calibrati sulle idee del Partito repubblicano. Saper distinguere tra informazione e propaganda è un indicatore del successo o meno della democrazia dell’urlo».
NADIA URBINATI, POLITOLOGA
DOCENTE ALLA COLUMBIA UNIVERSITY DI N.Y.
Titolare della cattedra di Scienze Politiche alla Columbia University, ha scritto importanti saggi sul pensiero democratico e liberale contemporaneo e sulle teorie della sovranità e della rappresentanza politica. Negli Usa è condirettrice della rivista «Constellations». Tra i suoi libri, ricordiamo «Ai confini della democrazia. Opportunità e rischi dell’universalismo democratico» (Donzelli, 2007).
L'anomalia italiana continua a produrre i suoi effetti, in genere catastrofici. Un regime indegno come quello berlusconiano non vacilla, come sarebbe logico, per i colpi infertigli da un'opposizione degna di questo nome (e in tale categoria non comprendo solo la «sinistra» moderata e soi disant riformista, ma anche quella soi disant estremista e radicale), ma per interno spappolamento: perché Berlusconi ha potuto tutto o quasi tutto in Italia, ma non crearsi un partito a propria immagine e somiglianza (e questo dovrebbe dirla lunga sui limiti politici dell'uomo).
Se questo è il quadro, sarebbe ragionevole, come ha già fatto Ida Dominijanni su queste colonne, parlare di una crisi di sistema piuttosto che di una, sia pure assai consistente, crisi politica. È pur vero, tuttavia, che in questa crisi di sistema, che in ogni caso, se intesa come tale, è indubbiamente di più lunga durata (almeno trent'anni, direi), ci sono forze che già si muovono per portare acqua al proprio mulino, che potrebbe non essere, anzi di sicuro non è il nostro.
In questa infelice situazione, che nelle sue condizioni date non è modificabile da nessuno che più o meno la pensi come noi, io ipotizzo che il calcolo che andrebbe fatto è: qual è il massimo vantaggio possibile che possiamo tentare di trarre dal presumibile svolgimento degli eventi, la maggior parte dei quali non dipende minimamente da noi? Con tutte le riserve e le prudenze del caso, articolerò il mio discorso in punti schematici, ognuno dei quali potrebbe essere valutato separatamente da tutti gli altri e accettato o rifiutato in base persino a considerazioni contrapposte. Può darsi (lo dico del tutto seriamente) che il metodo sia da considerare in via di principio del tutto inadeguato; ma il puzzle è così complicato da imporci comunque strumenti un po' diversi da quelli a noi tradizionalmente consueti.
1. Se le cose stanno così - e questo mi sembra davvero difficile contestarlo - è evidente per me che raccogliersi intorno alla parola d'ordine delle elezioni anticipate risulta ai nostri fini del tutto insensato. Innanzi tutto perché le elezioni anticipate verranno decise da altri, e cioè da chi può, nel momento in cui più gli converrà. In secondo luogo, per il motivo già detto: l'estrema debolezza attuale del centro-sinistra nel suo complesso, la sua incapacità (impossibilità) di formulare una proposta di governo quale che sia, senza la quale, non dimentichiamolo, nessuno può andare ragionevolmente a una consultazione elettorale. Prima di gridare al voto, bisognerebbe chiedersi quali passi fare, con chi e perché. Stupisce che anche Vendola sprechi il suo consenso, forse non del tutto meritato ma di sicuro non del tutto ingiustificato, su di una parola d'ordine del genere.
2. Cosa fare, con chi, come e perché: questi sono gli interrogativi. È perciò che, come la richiesta demagogica ed estremistica del voto anticipato, così la proposta del governo tecnico e/o di transizione fa ridere. Cerchiamo d'immaginare lo scenario: un certo numero di forze si mettono insieme al solo scopo di difendere il bilancio dello Stato e cambiare la legge elettorale (fra l'altro nessuno sa come: tornerò brevemente su questo punto). Poi il Governo, fatto il suo dovere, si scioglie, ognuno va di nuovo per conto proprio, quelli di centro-sinistra tornano presumibilmente in un centro-sinistra ricomposto non si sa come e quelli del centro-destra presumibilmente in un centro-destra ricomposto non si sa come. Quelle forze saranno inevitabilmente votate dalla loro inconcludenza e inconsistenza alla sconfitta di fronte all'offensiva revanchista del Cavaliere «tradito». E noi - noi «di sinistra» - cosa ne ricaveremo? Nulla, meno che nulla.
3. La mia tesi dunque è che dovremo essere noi a proporre un progetto e un programma di governo, inserendoci nell'attuale bailamme con una proposta concreta (non è detto che la proposta vada a buon fine, anzi è probabile il contrario, ma almeno si vedrà di che pasta son fatti i nostri interlocutori). Si tratta di un Governo né provvisorio né transitorio, ampiamente giustificato dalle attuali condizioni di eccezionale emergenza in cui è a rischio la sopravvivenza non solo del sistema politico italiano ma del sistema Italia: un Governo destinato a occupare lo spazio restante della legislatura; e, se funziona, a presentarsi con una propria proposta al paese (e non solo al Palazzo) e un proprio candidato alle prossime elezioni, che è l'unico modo per vincerle contro l'inevitabile, furibondo ritorno berlusconiano. Io lo chiamerei «Governo di ricostruzione democratica» e da questa definizione farei discendere tutto il resto.
4. Questo Governo dovrebbe essere contraddistinto da alcune caratteristiche elementari, e al tempo stesso sufficientemente peculiari, e cioè: a) dalla netta e conclamata cesura rispetto a tutta l'esperienza berlusconiana, ai suoi uomini, alle sue forze, al blocco sociale che finora l'ha sostenuto (per questo, anche se non solo per questo, credo che, almeno in questo momento, la Lega non sia recuperabile neanche parzialmente); b) dalla rapida cancellazione di tutti i decreti, leggi, misure governative intesi a garantire l'impunità dei politici e del Governo, a partire dall'ineffabile Cavaliere; c) dalla ricostituzione immediata delle condizioni minimali di uno Stato di diritto, la separazione dei poteri, l'indipendenza della magistratura, la sovranità del Parlamento; d) dall'immediata promulgazione di una legge sul conflitto d'interessi e sul sistema dell'informazione e comunicazione; e) dal rilancio vigoroso del sistema Italia, cioè dell'idea e unità irrinunciabili del paese; f) dall'inizio di una politica socio-economica che, in netta controtendenza rispetto a quella tremontiana, restituisca al paese almeno quello che potremmo definire un normale equilibrio nei rapporti di classe (lo dico per i possibili alleati moderati: se non c'è questo punto, tutto il resto sembrerà aria fritta, e tornerà a prevalere la possente demagogia berlusconiano-leghista); g) da una legge elettorale diversa (la logica del mio discorso propende ovviamente per una soluzione maggioritaria, ma non considero questo punto discriminante).
5. Chi può proporre e tradurre in pratica questo libro dei sogni? Continuiamo a non dimenticare: la situazione è eccezionale, ai limiti di una rottura traumatica. In questa situazione io non so chi sia disposto ad assumersi il carico non irrilevante di un «Governo di ricostruzione nazionale»: so chi avrebbe il dovere di farlo. Dovrebbero farlo tutte insieme le forze che compongono attualmente l'arco costituzionale e che abbiano deciso (se l'hanno deciso) una rottura verticale e di non ritorno rispetto all'esperienza di Berlusconi e del berlusconismo, dall'estrema sinistra al centro moderato, in rispettiva e reciproca funzione di garanzia programmatica e di comportamenti. Solo questa totale amplitudine delle forze, e la loro convergenza su di un programma serio e non strumentale, possono consentire di battere Berlusconi e il berlusconismo.
6. Sulla strada di questo processo s'interpone, oltre che la fiera resistenza del vecchio sistema, anche la forma parzialmente nuova che ha assunto attualmente la crisi interna al berlusconismo (in Italia anche le uscite dalla crisi assumono un segno critico). L'allineamento della nuova formazione finiana a quelle di Casini e di Rutelli prefigura chiaramente un ritorno all'andreottiana «teoria dei due forni», sulla quale l'Italia ha vegetato per decenni. Se ne vedono già i segni e i messaggi. Apro una parentesi.
7. Sono rimasto deluso dalla forma concreta che la «liberazione» di Fini e dei finiani dall'egemonia berlusconiana ha assunto. I think thank della Fondazione Fare Futuro ci avevano promesso ben altro: ma si sa, gli intellettuali servono per indorare le pillole, poi sopraggiunge la politica con le sue ferree leggi. Ma insomma: l'obiettivo finale dell'intera operazione non doveva essere la costruzione di una destra liberale moderna, aperta persino alle acquisizioni storiche ideali e al costume di una certa sinistra - la tolleranza, una legalità umanitaria, i diritti dell' uomo e dell'ambiente - e nella dichiarazione letta da Fini il 30 luglio si afferma che i valori irrinunciabili della nuova formazione sono «l'amore di patria, la coesione nazionale, la giustizia sociale, la legalità» - quasi un programma di centro-sinistra più che di centro-destra - e poi ci si finisce per affiancare in una logica non si sa se tattica o strategica a due formazioni tipiche del vecchio moderatismo clerico-cattolico come quelle di Casini e Rutelli? Mah: in Italia anche i processi nuovi prendono forme antiche.
8. Come che sia, vale la pena di provare: perché dalla dislocazione di queste forze dipende il nostro destino nazionale e l'inizio, auspicabile, di un nuovo processo dentro il quale ne possono succedere di tutti i colori. È dunque al senso di responsabilità degli uomini politici che dirigono la sinistra, il centro-sinistra e il centro moderato (con le sue specificazioni) che bisogna appellarsi. È una strada difficile, anzi quasi impossibile. Ma Hic Rhodus, hic salta: o si adotta questa linea o non ce n'è un'altra. Se non ci si muove, il neocentro moderato verrà inevitabilmente risucchiato verso il berlusconismo. Oppure alleanze a metà, senza pezzi della sinistra o pezzi del centro, saranno sconfitte. E non ci saranno primarie capace di salvarci. E la sinistra andrà in malora per sempre.
9. Se poi, come penso, questa ipotesi verrà guardata da tutti - o quasi tutti - come una trappola da cui prendere le distanze, non resta a noi che non condividiamo (ma che secondo me abbiamo più buonsenso di tutti gli altri), che unirci a quella tendenziale maggioranza d'italiani che non sta più al gioco: e promuovere per il prossimo voto (vicino o lontano che sia) una grande campagna a favore di un'astensione di massa, politicamente irrilevante, forse, ma di grande significato etico-politico.
Se non vogliono starci a sentire, che se la giochino fra di loro. E può darsi in definitiva, al di là persino dei nostri penosi sforzi di elaborazione intellettuale, che questo vuoto della rappresentanza possa essere coltivato come il luogo in cui qualcosa di veramente nuovo è destinato a rinascere.
Alla fine, la rottura fra il presidente del Consiglio e il presidente della Camera è avvenuta sull’elemento che più caratterizza il regime autoritario di Berlusconi: il rapporto del leader con la legalità, quindi con l’etica pubblica. È ormai più di un decennio che il tema era divenuto quasi tabù, affrontato da pochi custodi della democrazia e della separazione dei poteri.
Agli italiani la legalità non interessa, ci si ostinava a dire, né interessano la giustizia violata, la corruzione più perniciosa che è quella dei magistrati, l’obbligo di obbedienza alle leggi, il patto tra cittadini che fonda tale obbedienza. Anche per la sinistra, nostalgica spesso di una democrazia sostanziale più che legale, tutti questi temi sono stati per lungo tempo sovrastruttura, così come sovrastruttura era il senso dello Stato e della sua autonomia.
Fini ha ignorato vecchie culture e nuovo spirito dei tempi e ha guardato più lontano. Ha intuito che uscire dalla crisi economica significa, ovunque nel mondo, uscita dal malgoverno, dai costi enormi della corruzione, dall’imbarbarimento del senso dello Stato. Ha visto che il presente governo e il partito che aveva fondato con Berlusconi erano colmi di personaggi indagati e spesso compromessi con la malavita. Ha visto che per difendere la sua visione privatistica della politica, Berlusconi moltiplicava le offese alla magistratura, alla stampa indipendente, alla Costituzione, all’idea di un bene comune non appropriabile da privati. E ha costretto il premier a uscire allo scoperto: lasciando che fosse quest’ultimo a rompere sulla legalità, sul senso dello Stato, sull’informazione libera, ha provocato un’ammissione indiretta delle volontà autoritarie che animano il capo del governo e i suoi amici più fedeli.
In qualche modo, Berlusconi ha chiesto a Fini e ad alcuni finiani particolarmente intransigenti (Fabio Granata) di scegliere la cultura dell’illegalità contro la cultura della legalità che il presidente della Camera andava difendendo con forza. Non solo: più sottilmente ed essenzialmente, ha chiesto loro di scegliere tra democrazia oligarchica e autoritaria e democrazia rappresentativa. Il capo del governo infatti non si limita a anteporre la sovranità del popolo elettore alla separazione dei poteri e a quello che chiama il «teatrino della politica politicante». La stessa sovranità popolare è distorta in maniera micidiale, a partire dal momento in cui essa si forgia su mezzi di informazione (la tv) che il capo-popolo controlla in toto. La dichiarazione contro Fini dell’ufficio di presidenza del Pdl, il 29 luglio, erge i disvalori come proprio non segreto emblema quando afferma: «Le sue posizioni (sulla legalità) sono assolutamente incompatibili con i principi ispiratori del Popolo della Libertà».
La sinistra non ha avuto né il coraggio né l’anticonformismo del presidente della Camera. Fino all’ultimo ha congelato la presa di coscienza italiana sulle questioni delle legge e della giustizia, ripetendo con pudibonda monotonia che «l’antiberlusconismo non giova al centrosinistra». E per antiberlusconismo intendeva proprio questo: combattere il Cavaliere sul terreno dell’etica pubblica, della legalità, della formazione dell’opinione pubblica attraverso i media. I problemi erano sempre altri: quasi mai erano la tenuta dello Stato di diritto, l’informazione televisiva manipolata, la corruzione stessa. C’erano sempre «questioni più gravi» da affrontare, più urgenti e più alte, prima di scendere nei piani bassi della legalità. L’incapacità congenita della sinistra di vietare a chi fa politica un conflitto d’interessi, specie nell’informazione, nasce da qui ed è destinata a divenire il vecchio rimorso e il vizio assurdo della sua storia. In fondo, venendo anch’egli da una cultura totalitaria, Fini ha fatto in questo campo più passi avanti di quanti ne abbiano fatto tanti uomini dell’ex Pci (lo svantaggio di tempi così rapidi è che le sue truppe sono labili).
Questo parlar d'altro, di cose che si presumono più alte e nobili, è la stoffa di cui è fatto oggi lo spirito dei tempi, non solo in Italia. Uno spirito che contagia anche le gerarchie ecclesiastiche (non giornali come Famiglia Cristiana), oltre che molti moderati e uomini della sinistra operaista. È lo stesso Zeitgeist che in Francia, in pieno scandalo delle tangenti versate illegalmente da Liliane Bettencourt alla destra, spinge politici di rilievo a far propria l’indignazione dell’ex premier Raffarin contro la stampa troppo intemperante: «I francesi e i mezzi di comunicazione sono incapaci di appassionarsi per i grandi temi». Chi chiude gli occhi davanti al marcio che può manifestarsi nella politica sempre vorrebbe che i cittadini non vedessero la bestia, dietro l’angelo e i suoi grandi temi.
Invece l’imperio della legge fa proprio questo: rivela all’uomo la sua bestialità, gli toglie le prerogative dell’angelo. Nel descrivere il Decalogo mosaico, che della Legge è essenza e simbolo, Thomas Mann parla di «quintessenza della decenza umana» (La Legge, 1944). Alla stessa maniera, la quintessenza dell’esperienza berlusconiana è il rapporto distorto e irato con la legge e i poteri che la presidiano: un male italiano che non è nato con lui, ma che lui ha acutizzato. Un male che conviene finalmente guardare in faccia, perché è da qui che toccherà ricominciare se si vuol costruire meglio l’Italia. Se si vuol dar vita a un’opinione pubblica veramente informata, perché munita degli strumenti necessari alla formazione della propria sovranità democratica.
Per questo la dissociazione di Fini dai disvalori del Popolo della Libertà non è una frattura del bipolarismo, né tanto meno un ritorno a vecchi intrugli consociativi. È il primo atto di un’uscita dall’era di Berlusconi, da una seconda Repubblica che non ha riaggiustato la prima ma ne ha esasperato monumentalmente i vizi: ed è un atto che per forza di cose deve essere governato da un arco di partiti molto largo. Il termine giusto lo ha trovato Casini: si tratta di creare un’«area di responsabilità istituzionale», non diversamente dal modo di operare di chi predispose il congedo dal fascismo. Nell’inverno scorso, lo stesso Casini parlò di Cln, il Comitato di Liberazione Nazionale che nel 1943 associò tutti gli oppositori al regime mussoliniano. Spetta a quest’area preparare elezioni davvero libere, dunque creare le basi perché le principali infermità della repubblica berlusconiana siano sanate. In seguito, il bipolarismo potrà ricostituirsi su basi differenti.
In effetti, Berlusconi non è una persona che ha semplicemente abusato del potere. Le sue leggi, le nomine che ha fatto, il conflitto d’interessi di cui si è avvalso: tutto questo ha creato un’altra Italia, e quando si parla di regime è di essa che si parla. Un’Italia dove vigono speciali leggi che proteggono l’impunità. Un’Italia dove è colpito il braccio armato della malavita anziché il suo braccio politico, e dove i pentiti di mafia sono screditati e mal protetti come mai lo furono i pentiti di terrorismo. Un’Italia in cui la sovranità popolare non potendosi formare viene violata, perché un unico uomo controlla le informazioni televisive e perché il 70 per cento dei cittadini si fa un’opinione solo guardando la tv, non informandosi su giornali o Internet.
Un governo che non curasse in anticipo questi mali (informazione televisiva, legge elettorale che non premi sproporzionatamente un quarto dell’elettorato, soluzione del conflitto d'interessi) e che andasse alle urne sotto la guida di Berlusconi non ci darebbe elezioni libere, ma elezioni coerenti con questo regime e da esso contaminate.
la Repubblica
Chi vuole cancellare il Parlamento
di Andrea Manzella
Ci sono in giro grossi (e interessati) equivoci. Che ogni crisi parlamentare debba avere fatalmente una soluzione elettorale. Che ogni dissenso nella maggioranza parlamentare «uscita – come si dice – dalle urne» debba necessariamente portare allo scioglimento delle Camere. Che ogni "diverso" esercizio delle funzioni di rappresentanza parlamentare (quella che la Costituzione vuole «senza vincolo di mandato») rientri nella negativa retorica del "ribaltone"(o del tradimento).
Sono equivoci che hanno radice in un diffuso quanto perverso "credo" illiberale: la scomparsa del Parlamento. La cancellazione delle assemblee parlamentari come luogo di rappresentanza effettiva e concreta della società nazionale. Con la connessa illusione che questa società sia pietrificata e immutabile con il flash del momento elettorale. E che il governo allora eletto ne sia l’unico legittimo rappresentante.
La società cambia, invece, ogni giorno. Non a caso il mito di Proteo domina, da qualche millennio, la politica. Quali ne siano i difetti e gli eccessi (e ce ne sono tanti) il Parlamento, per la sua stessa struttura, non recide mai il cordone ombelicale che lo lega alla mobile società che rappresenta: anche per le sue spinte al mutamento. Perfino nei peggiori suoi momenti, il Parlamento non è mai del tutto auto-referenziale. È sempre il «porticato tra le istituzioni e la società civile», come lo definì, fulmineamente, Hegel.
Non è la stessa cosa per il governo, con le sue separatezze istituzionali. Se l’intermediazione parlamentare viene meno o entra in sofferenza, la diversa volontà governativa non può prevalere come decisione finale. La logica delle democrazie non è fatta di plebisciti, di acclamazioni e di elezioni a comando: fuori della loro periodizzazione costituzionale. Dove non è stato finora così, si sta cambiando. La coalizione liberal-conservatrice in Gran Bretagna ha proposto a Westminster la durata fissa delle legislature: a meno che non ci sia una decisione dei due terzi dei Comuni per lo scioglimento anticipato oppure si constati la impossibilità di formare un governo entro quattordici giorni da un voto di sfiducia.
Ma allora perché, invece, da noi viene così degradata questa funzione di bilanciere del Parlamento? Perché la bandiera dell’elettoralismo è continuamente agitata contro il parlamentarismo? Vi concorrono due false opinioni.
La prima è quella di chi ritiene che l’elettore vota solo per darsi un governo e non anche per darsi un Parlamento. È una tesi rinvigorita dagli artifici contenuti nell’attuale sistema elettorale per creare comunque una maggioranza parlamentare; dalla personalizzazione (per legge) delle coalizioni in campo; dal meccanismo di nomina dei singoli parlamentari (senza vera scelta degli elettori). E, tuttavia, la tesi non sta in piedi. Vi è certo l’esigenza, fondamentale per ogni vitale democrazia, di darsi un governo che governi. Vi è certo la giusta, perdurante necessità popolare di rendere chiara e semplice la politica con scelte bipolari ragionevoli. Ma questi due bisogni democratici non sono in contrasto con la necessità di un vero Parlamento.
Perché il diritto al Parlamento è anche - e forse innanzitutto - il diritto degli elettori che non hanno votato per il vincitore: il diritto all’opposizione. Ma c’è pure il diritto di tutti gli elettori ad avere un governo: anche quando il sistema elettorale, per quanto forzato esso sia, non dia la maggioranza ad una delle forze in campo. Allora è il meccanismo naturale della democrazia che spinge a cercare nel Parlamento le intese e i compromessi possibili tra le rappresentanze di parti fino a ieri contrapposte. Il Parlamento come garanzia di funzionamento della stessa democrazia. È accaduto, appena ieri, in Germania, in Gran Bretagna. L’idea del "voto unico", del Parlamento come ruota di scorta del governo "eletto" è una idea profondamente sbagliata. Non solo perché contro la nostra Costituzione scritta ma perché non corrisponde a come vanno realmente le cose del mondo. Perfino quando vi è un presidente direttamente eletto come in Francia, tutte le ultime riforme costituzionali sono state nel senso di un rafforzamento di istituti e prerogative parlamentari.
La seconda tesi è di chi ritiene che il patto di coalizione elettorale sia immodificabile in Parlamento, a meno che non si voglia ritornare alle urne. Anche qui è evidente l’errore. La realtà dei fatti dice invece che pietrificati nelle loro specifiche funzioni di collante di cartelli elettorali, sono semmai proprio gli accordi di coalizione. Molto spesso: "buoni per vincere, non per governare". Spetta, invece, precisamente a Parlamento e governo rendere politicamente e giuridicamente praticabili quegli accordi.
In tutto questo la retorica del "ribaltone" (il termine che Giovannino Guareschi genialmente inventò: ma per quel 25 luglio...) non c’entra proprio. Non c’entra per il Parlamento che fa il dovere suo. E non c’entra neppure per il governo che si rimpasta o aggiusta il suo programma originario. Siamo nella normale prassi delle democrazie: che vale (dovrebbe valere) per la "prima", per la "seconda" e per ogni Repubblica che sarà dato agli italiani di vivere (sempre, ovviamente, che sia una Repubblica).
il manifesto
Cacciamo Berlusconi ma non teniamoci il berlusconismo
di Alberto Burgio
A Berlusconi che minaccia la fine anticipata della legislatura il Pd risponde con un argomento formalmente ineccepibile: la nostra è una repubblica parlamentare, il presidente del Consiglio non decide dell'esito finale della crisi. Peccato che in questi vent'anni tutte le forze politiche oggi in parlamento abbiano fatto a gara nello svuotare la Costituzione alla quale adesso ci si richiama.
Perché nessuno insorge quando i ministri in carica ripetono che gli elettori hanno eletto questo governo? Perché il nostro paese - unico al mondo - regola da due decenni la propria vita politica (e non solo quella, come dimostra la sistematica violazione dell'art. 11) in base a una Costituzione che non c'è, considerando eversore chi cerca di applicare quella vigente (il presidente Scalfaro fu messo alla gogna per avere avallato la soluzione parlamentare della crisi del primo governo Berlusconi).
L'orgia di decreti-legge e voti di fiducia sui maxi-emendamenti non è un'esclusiva della destra, in questi vent'anni anche i governi di centrosinistra hanno contribuito a declassare le Camere a organi di ratifica. Lo stesso dicasi per le riforme elettorali in senso maggioritario che hanno causato la personalizzazione della politica, la deriva populistica e lo squilibrio di potere a vantaggio dell'esecutivo che Berlusconi sfrutta mettendo a rischio la tenuta del sistema democratico.
Veniamo così al nocciolo del conflitto che in questi giorni divide i partiti: se il governo cade, si deve votare subito o è meglio cambiare prima la legge elettorale? Anche in questo caso sulla posizione del Pd, formalmente impeccabile (la legge è pessima, quanto prima la si cambia, tanto meglio è) pesa un non-detto grande come una casa. A sostegno della proposta di votare al più presto non militano soltanto considerazioni di ordine politico (in materia elettorale nello stesso Pd c'è chi difende il bipolarismo, chi sogna il bipartitismo e chi tornerebbe volentieri al proporzionale) e urgenti ragioni di carattere sociale (la devastazione dei diritti e delle condizioni materiali di vita e di lavoro di milioni di persone, prodotta non già dalla crisi economica, ma dalla sua gestione reazionaria ad opera di un ministro dell'economia che qualcuno, anche nel Pd, vedrebbe con favore alla guida di un governo «di transizione»). A questi dati di fatto si aggiunge un tema su cui non per caso si preferisce sorvolare.
Non risulta che chi in questi giorni mette in cima all'agenda politica la modifica della legge elettorale si interroghi criticamente sulla principale finalità che ha presieduto alle riforme elettorali susseguitesi a partire dai primi anni Novanta. La retorica della governabilità è servita a privare di influenza i settori sociali (a cominciare dal lavoro dipendente) destinati a pagare il prezzo della modernizzazione neoliberista. In vista di questo risultato hanno operato tutte le forze politiche bipolariste, essendo il bipolarismo nient'altro che un sistema dell'alternanza tra opzioni moderate concordi sui fondamentali della politica sociale ed economica (oltre che sulla politica estera).
Oggi siamo alla bancarotta della seconda repubblica. Intanto, nel giro di vent'anni, siamo diventati il paese più ingiusto e diseguale d'Europa. Il paese che registra l'attacco più brutale ai diritti e alle condizioni del lavoro. Il paese meno libero nell'informazione e più privatizzato non soltanto sul piano economico, ma anche sul terreno del welfare e dei beni comuni. E stiamo per battere il record anche per ciò che riguarda la scuola, l'università e la ricerca. Anche per queste ragioni gran parte del paese non va più a votare. Ma di tutto ciò non vi è traccia nelle preoccupazioni di quanti reclamano a gran voce una nuova legge elettorale. Al contrario. Invece di prendere atto dell'implosione di un sistema oligarchico, lo si vorrebbe blindare, utilizzando nuovamente l'ingegneria istituzionale a suon di vincoli e di sbarramenti.
In una battuta, l'idea è allontanare Berlusconi per tenersi stretti i risultati del berlusconismo. Contro questo progetto la sinistra deve tornare alla lotta, ritrovando al più presto unità e chiarezza di intenti. Settembre è vicino e vi è un solo modo per impedire che la crisi politica si chiuda rafforzando le posizioni di chi opera per preservare lo status quo: ridare voce al conflitto, chiamare alla mobilitazione i settori sociali più colpiti dalle politiche neoliberiste a cominciare dai lavoratori ricattati dal padronato, dai giovani destinati a un futuro di precarietà e povertà, e dal popolo dei beni comuni. Se vi è chi continua a concepire la politica come un'arma puntata contro la società, la società può salvarsi soltanto tornando padrona della politica.