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Non sono certo che l'era berlusconiana sia finita. Sono invece certo, certissimo, che ogni giorno che passa il proseguimento dell'era berlusconiana porta il paese sempre più verso la catastrofe.

Perché non proviamo a ragionare per punti, secondo le regole di una buona sequenza logica? Ora, il punto iniziale di ogni corretto ragionamento oggi, quale che ne sia poi lo sbocco finale, - quale che ne sia, ripeto, lo sbocco finale, - è che il proseguimento dell'era berlosconiana porta il paese sempre più verso la catastrofe: catastrofe politica, istituzionale, economica, sociale, civile, morale. (Intendo «catastrofe» nel suo senso più vasto: dissoluzione dei legami di unità nazionale; sfascio dei meccanismi decisionali; incapacità ormai definitiva di risollevarsi dal baratro).

Vorrei proprio vedere gli argomenti di chi si provi a dimostrare che le cose non stanno così (anzi, è proprio su questo fondamentale discrimine dell'analisi che si verifica la prima, grande e per ora decisiva separazione dei due elementari, generalissimi fronti: fra chi è tuttora a favore della prosecuzione dell'era berlusconiana; e chi le è ormai decisamete contrario). Ma se le cose stanno così, come non arrivare rapidamente (e quasi facilmente: naturalmente non ne ignoro le immense difficoltà, come dirò, ma per ora m'interessa fissare il punto logico) alla seguente riflessione: per tentare di evitare la catastrofe (se siamo ancora in tempo), non c'è che da mettere fine il più rapidamente possibile all'era berlusconiana.

Mettere fine seriamente all'era berlusconiana dipende, non c'è dubbio, da molti fattori e da molte forze, se guardiamo alle cose in profondità, e cioè agli innumerervoli germi portatori di catastrofe, che l'era berlusconiana ha generato, proliferato e scatenato in tutte le direzioni e con molteplici travestimenti. Ma nell'immediato dipende innanzi tutto dalle scelte parlamentari del partito finiamo. Ho manifestato all'inizio simpatia per il complesso di ripensamenti, non solo politici ma culturali, cui la nascita di questo tentativo di creare una destra autentica e pulita, si è richiamata (andando incontro, anche a molti mugugni di sinistra). Ora però provo lì'impressione di un avvitamento dell'esperimento intorno a ragioni fondamentalmente tattiche e di opportunità. Se ciò dovesse avvenire, l'esperimento rivelerebbe di avere fiato corto e prospettive poco ambiziose: male, molto male, per un movimento nascente (o rinascente su nuove basi). Il secondo punto della sequenza logica, dunque, è affidato essenzialmente alle decisioni prossime future del Fli. Mi rendo conto che a qualcuno possa dispiacere, ma è così.

Del resto, io credo che, non solo per Fini e i finiani ma un po' per tutti sia ormai arrivato l'hic Rhodus hic salta. Non è vero che incombe ancora, sulle aule del sempre più malmesso Parlamento italiano, il cosiddetto Lodo Alfano? Allora, il terzo punto della sequenza logica è: una legge che protegga dalla «persecuzione giudiziaria» (strano concetto, peraltro!) le alte cariche di uno Stato è pensabile e ammissibile, forse, in una situazione di totale normalità istituzionale ed etico-politica. Ma una legge che cala su di un paese disastrato nel momento stesso in cui un'ondata di sporcizia e di fango sommerge, ormai strutturalmente e direi geneticamente, alcune di quelle figure, - anzi una, quella per cui tutto l'osceno teatrino è stato immaginato e montato, - come può essere giustificata, accettata e tranquillamente votata? Il cosiddetto Lodo Alfano dunque non è più votabile in nessuna delle forme più o meno attenuate in cui è stato presentato e discusso. Più esattamente: chiunque voti oggi il Lodo Alfano è fuori da qualsiasi ipotesi di ricostruzione democratica. Anche qui, a qualcuno può dispiacere, ma è così.

Il punto successivo è una domanda: esistono le condizioni per cui questa scelta che si preannuncia dirompente (perché, bisogna saperlo, di una scelta dirompente si tratta) si realizzi e faccia fronte agli innumerevoli ostacoli che le saranno frapposti? (Il ricorso alla piazza ventilato più volte negli ultimi giorni disegna un ulteriore scenario della catastrofe nazionale: quello eversivo). Le condizioni parlamentari esistono. Anche in questo caso con un ulteriore requisito: a un governo, per quanto provvisorio, di «ricostruzione democratica» non possono in nessun modo essere chiamati a partecipare quanti hanno costituito in questi anni il tessuto solidale dell'era berlusconiana, e cioè (et pour cause) il medesimo Berlusconi, qualsiasi altro esponente del Pdl in quanto rappresentative del Pdl e in Lega: possono, anzi dovrebbero partecipare senza esclusione alcuna, tutti gli altri, o per meglio dire, tutti quelli che in un modo o nell'altro, prima o poi, hanno contribuito a mettere la parola fine, all'era berlusconiana.

Insisto: un governo siffatto dev'essere estremamente serio e robusto, altrimenti non reggerà all'urto. Se non sarà così, - lo dico molto sinceramente, - meglio imboccare dall'inizio un'altra sequenza logica. Un «governicchio» che nasce deliberatamente a tempo, quali che ne siano le finalità, non serve a niente, anzi è destinato a peggiorare le cose. Per essere un governo serio e robusto, non potrà limitarsi alla riscrittura della legge elettorale, misura per altro da prendere fra le prime: la gente non capirebbe, penserebbe che un gigantesco terremoto è stato provocato solo per far vincere i perdenti. E allora cosa?

Esiste innanzi tutto l'amplissimo e praticabilissimo campo delle regole, nel quale forze eterogenee dal punto di vista della tradizione e delle prospettive, possono trovare un'intesa, diciamo, «costituzional-repubblicana»: i problemi della comunicazione e della libertà (sostanziale) di espressione; la separazione dei poteri; la difesa della legalità e il rispetto della magistratura; la lotta alla corruzione e all'evasione fiscale; la rivendicazione e la difesa dell'unità nazionale (non sarebbe auspicabile che per il 150°, il quale attende finalmente da una qualche parte un soffio vitale di entusiasmo e di condivisione, ci sia un governo italiano autentico di patriottismo repubblicano?). Insomma, i prodromi della «ricostruzione democratica», che precedono e condizionano tutto il resto. Ma forse non è impossibile pensare, con il medesimo spirito, che anche la lotta per la difesa e il rilancio della scuola pubblica, dell'Università e della ricerca, possa essere inscritto in questo capitolo, dopo la vergognosa stagione gelminiana.

E l'economia? Sì, è vero, in quel campo eterogeneo di forze, di cui stiamo parlando, esistono, per dirla con estrema approssimazione, sia i sostenitori di Marchionne sia i sostenitori della linea Fiom. Ma forse nell'immediato anche questa contraddizione si può ragionevolmente affrontare, se il problema è, come dicevo, evitare la catastrofe, la catastrofe non giova agli operai, di sicuro molto meno che ai padroni; oggi più di sempre, direi. E forse, sempre nell'immediato, salvare l'economia nazionale, che sta andando anch'essa come tutto il resto verso la catastrofe, si può, al tempo stesso frenando, impedendo, invertendo di rotta la débâcle operaia.

L’articolista del New York Times dipingeva in questi giorni la situazione italiana con i colori cupi dell’emergenza rifiuti e la collegava alla politica personalistica del presidente del Consiglio: «Ancora una volta il Signor Berlusconi ha detto che risolverà il problema. Ma questa volta le cose sono diverse: pochi lo credono». La caduta della fiducia è il fatto contro il quale il presidente delle promesse deve fare i conti. E non può ben sperare dopo aver per anni insistito a tranquillizzare e imbonire promettendo di fare tutto lui, e di farlo senza perdite di tempo, anche a costo di azzerare i controlli. La promessa del fare celere partorisce il nulla, o meglio, partorisce una piramide di piccoli e grandi privilegiati che vivono all’ombra di quegli azzeramenti delle regole, e che però non riescono più a fare da cuscino tra il vertice e una massa sempre più grande di delusi e miseri.

Le promesse hanno poco peso e vengono presto dimenticate quando riguardano questioni che non incidono direttamente sul vivere quotidiano. Farle in campagna elettorale è il mestiere dei politici. Ma è un’arte, non può essere una burla; le promesse devono essere calibrate alle reali condizioni sociali ed economiche. Anche le promesse elettorali devono avere un carattere "possibile" e in questo senso realistico; solo così non sono scambiate per frottole e servono a cementare la fiducia. Promesse credibili, non promesse semplicemente: questa differenza si manifesta quando gli impegni non mantenuti riguardano questioni pressanti della vita quotidiana, come lo smaltimento dei rifiuti o la disoccupazione.

L’incapacità di questo governo a mantenere le promesse è strutturale e irreversibile. Non è un incidente di percorso dovuto alla malevolenza dei giornali, alle "persecuzioni" della magistratura, alla presenza di comunisti in Parlamento. È un’incapacità strutturale perché sono troppi e troppo pesanti i problemi personali che assorbono il tempo e le energie del presidente del Consiglio e lo tengono lontano dal governo del paese. Un uomo d’affari pensa, giustamente, ai suoi affari e usa tutte le competenze e i mezzi che ha (e che la legge gli consente) per farli al meglio. Ma fare bene gli affari degli altri per l’interesse degli altri è una cosa molto più complicata – e soprattutto non riesce spontanea. La politica è un servizio benché debba saper trattare, mediare e fare compromessi. La ragione strategica è finalizzata al perseguimento di un "interesse" che non direttamente di chi lo rappresenta, e soprattutto non è calcolabile in termini di cash return. Ecco perché il profeta delle belle promesse finisce fatalmente per essere un impostore che racconta fole agli occhi dei molti che hanno avuto fiducia in lui.

Berlusconi, spiega un intervistato al giornalista del New York Times, ci ha insegnato che si può comprare tutto, ma in effetti così non è; lui non può comprare la fiducia tradita e nemmeno un modo celere per risolvere l’emergenza rifiuti in Campania. A due anni e mezzo dalla sua ultima vittoria elettorale, le sole cose per le quali ha operato quotidianamente sono state le sue proprie: «È entrato in politica per risolvere le sue grane». Questo spiega perché una maggioranza numericamente così forte non è riuscita a produrre nulla di positivo. Le altre notizie, quelle che ancora in questi giorni ritornano a riempire le prime pagine dei giornali, quelle dei baccanali e dell’uso festaiolo delle ragazze (anche minorenni), sono una costante di questo governo dei fallimenti. Una costante sempre più insopportabile non solo per i naturali sentimenti di repulsione che provoca, ma soprattutto per le forme di abuso di potere alle quali fatalmente si accompagna.

Ma giunti a questi livelli di degrado delle istituzioni, è il buon senso che ci fa trarre le giuste conclusioni. La politica ha tutti i dati per formulare il suo giudizio politico e fare il suo mestiere con competenza e coraggio; per imporre un fermo e interrompere questo insopportabile degrado della vita pubblica. Ci sono allo stato attuale tutti gli elementi per formulare un giudizio ragionevole e obiettivo che distingua tra ciò che è scandalo da rotocalco e ciò che compromette l’ordine istituzionale: questo governo danneggia il nostro paese. Lo danneggia sotto molti aspetti, per parlare dei quali un articolo non è sufficiente. Uno a caso: la sua immagine all’estero è al di là del raccontabile e rischia di trascinare con se l’immagine dell’intero paese, di tutti noi. Le tentazioni liberticide del governo contro la stampa invitano a pensare che a minare la credibilità del nostro paese siano i giornalisti: come se la conoscenza sia colpevole! Ma rovesciare le carte e imbavagliare l’opinione pubblica è un’impresa disperata e volta all’insuccesso, soprattutto quando una società si trova a dover fare i conti con una crisi economica e istituzionale enorme.

Poiché non può non restare senza eco nella mente dei cittadini il fatto che la condizione di privilegio di pochi (e di chi governa prima di tutto) debba essere pagata con manovre aggiuntive alla finanziaria, licenziamenti, decurtazione drammatica dei servizi e demolizione studiata della scuola pubblica: per avere tutto questo vengono richiesti sacrifici. Quanto costa il governo Berlusconi agli italiani? Se non sono gli scandali sarà il vaso colmo di una politica fallimentare, ingiusta e senza visioni a scuotere l’opinione pubblica.

Avevamo detto che avremmo contato tutti insieme, lo abbiamo fatto. “Prevediamo che in 10 giorni la situazione potrà tornare nella norma”, ha detto in conferenza stampa a Palazzo Chigi il 22 ottobre il presidente del Consiglio. Siamo lieti di annunciarvi, dunque, che oggi l’emergenza rifiuti è finita. Terzigno, Giugliano. Non lasciatevi ingannare dalle foto. Neppure da quelle del sabato pomeriggio in via Toledo, il cuore di Napoli, con le montagne di immondizia davanti ai ristoranti del centro. Propaganda nemica. Quello che conta sono le parole, anzi: la parola. Parola di Silvio B. “Dottore, questa ragazza è la nipote di Mubarack. La conosco”. Vi fidate? Davvero vi fidate ancora? Perché questo è: una questione di fiducia.

Poiché l’opposizione «per il momento», ha detto ieri Bersani non ha i numeri in Parlamento la mozione di censura che possa aprire un voto sulla fiducia è questione sostanzialmente nelle mani del centrodestra. In primo luogo di Fini, che ieri ha definito l’Italia «dilaniata» ed ha ben descritto l’imbarazzo che suscita nel mondo intero il traffico di prostituzione e di minorenni a Palazzo, con annesse interferenze sulle Questure. Se per una volta Fini facesse seguire alle parole i fatti questo sarebbe il primo tassello. L’Udc sembra orientata a sostenere la mozione di sfiducia. Qualcosa scricchiola anche nella Lega. Di nuovo, anche per la Lega, è difficile conciliare la battaglia alla prostituzione e all’immigrazione clandestina con il sostegno a Silvio B. in questa circostanza, salvo che non si dica che la prostituzione è consentita solo a palazzo e che gli immigrati vanno bene solo se fanno la lap dance. Sono giorni cruciali, di contatti e colloqui. Si potrebbe davvero arrivare ad un’intesa fra le opposizioni e quelle forze del centrodestra che non si riconoscano più in questo stile di non-governo, in questo decadente e pericoloso fine impero. Se ci si arrivasse, se come ci auguriamo il Parlamento avesse un sussulto di dignità e prendesse le distanze da questo grottesco epilogo del sultanato italico, si aprirebbero le porte ad un governo di scopo, o di transizione, o di sicurezza nazionale. In alternativa, voto subito. Tutto sarà comunque meglio di questo, dei colpi di coda che può ancora riservare.

P.s. A proposito del disastro culturale causato dal berlusconiano way of life lasciatemi sottolineare due “non detto” della vicenda Ruby. Il sottotesto, quello che passa ad un livello diverso dalle parole. Passa, con estrema naturalezza, che se sei nipote di qualcuno hai diritto a non sottostare alle regole, se non sei nipote di nessuno no. Se Ruby fosse davvero stata la nipote di Mubarack avrebbe avuto diritto di essere rilasciata? Naturalmente no. È bene dirlo, perché può sfuggire. È questo, letteralmente, il nepotismo che dilaga. Secondo punto: amo le donne ho giornate molto faticose mi rilasso così. Si rilassa con quaranta ragazze reclutate per gli spettacolini. Non è forse normale? Non sono forse le donne state create per questo? Il riposo del guerriero, il piacere per gli occhi. Geishe, odalische, puttane. Se Angela Merkel si riposasse la sera con quaranta adolescenti gigolò lo trovereste normale? Anche in questo caso vi dareste fuoco perché vostro figlio maschio fosse ammesso alla festa? Se la risposta è no, ecco: qui sta il problema.

Ancora la città non si è ripresa dallo choc dell´avviso di garanzia all´ex ministro Claudio Scajola ed ecco che il porto di Imperia viene pesantemente colpito da "fuoco amico". E’ il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, attraverso la Commissione Via (Valutazione Impatto Ambientale) a scrivere che le modifiche strutturali marittime che nel 2005 hanno cambiato il progetto garantendo maggiori benefici alla società, avrebbero dovuto essere sottoposte alla verifica della Commissione che aveva approvato il progetto nel 2001. Invece: «nessun parere è stato richiesto» e «non sono chiare le variazioni intervenute». Quindi le varianti «alcune già realizzate» verranno sottoposte a nuova verifica e nel caso risultassero non conformi le opere dovranno essere smantellate. E’ il contenuto di un parere della Commissione di cui Repubblica è in grado di anticipare le conclusioni.

Il Ministero dell´Ambiente "bacchetta" il porto di Imperia inteso sia come società concessionaria che come amministrazione comunale. Poca trasparenza nelle molteplici modifiche progettuali alle opere marittime «già realizzate... senza il parere preventivo del ministero». Risultato: la Commissione tecnica per la Verifica dell´Impatto Ambientale esaminerà le varianti e se dovesse scoprire che i lavori non sono stati eseguiti in «conformità con quanto prescritto», potrà «intervenire con i poteri che sono conferiti a questo ministero, qualora le opere non rispettino le prescrizioni e le tipologie valutate nel decreto Via». In altre parole il ministro Stefania Prestigiacomo potrebbe ritrovarsi a firmare un ordine di ripristino dell´esistente, ossia riportare i luoghi come erano prima degli interventi a quel punto abusivi.

Sono decisioni clamorose quelle prese dalla Commissione Via del ministero dell´Ambiente e da pochi giorni comunicate ad enti e autorità interessate, che Repubblica è oggi in grado di rivelare.

Tecnicamente si tratta di un parere che riguardava due aspetti: la variante per la parte urbanistica (ne parliamo nell´altro articolo in questa stessa pagina) e quella concernente le opere marittime. Per la precisione: «le modifiche strutturali dei moli e delle banchine... che ampliano le darsene interne, soprattutto a San Lazzaro, introducono una nuova colmata nel porto Maurizio... modificano l´orientamento e le dimensioni... ampliando le capacità ricettive dell´intero porto, variando di conseguenza il piano degli ormeggi». La Commissione vuole capire se tali modifiche decise nel 2005 siano coerenti al progetto che ottenne la Via nel 2001 visto che, scrive il presidente della Commissione Claudio De Rose «non sono chiare le variazioni intervenute rispetto agli scenari valutati» all´epoca, considerato poi che «non risulta agli atti alcun parere del ministero in merito ai potenziali impatti di tali modifiche» e che «la documentazione consegnata non contiene elaborati progettuali che illustrano tale riassetto...». Tutto nasce da una richiesta di parere presentata nel 2009 dalla Regione Liguria che - dopo l´approvazione della maxi variante del 2005 in conferenza dei servizi - non si raccapezzava più in quello stillicidio di modifiche e varianti che venivano presentate come «adeguamenti tecnico funzionali» al Piano Regolatore Portuale e che ebbero come vaglio quello della Commissione del Consiglio dei Lavori Pubblici presieduto da quell´Angelo Balducci che si insediò anche per poche settimane ai vertici della Commissione collaudo regionale ed è oggi uno degli indagati dello scandalo della cricca. Quello che sembra di capire è che le varianti "marittime" del Porto di Imperia, seppur formalmente approvate dagli enti coinvolti, non vennero sottoposte da quelli cui competeva (Comune e Ministero dei Lavori Pubblici) ad una verifica della Commissione di Valutazione Impatto Ambientale visto che, scrive oggi il presidente De Rose: «Tali modifiche rientrano nella sfera di competenza del Ministero dell´Ambiente».

Cari lettori, Dall'inizio dell'anno siedo nel cda del manifesto, un'esperienza per me ricca di contenuti umani e politici. In tutti questi mesi abbiamo affrontato una situazione economica estremamente difficile ma con il sacrificio di tutti abbiamo mosso passi importanti per il risanamento aziendale. Stato di crisi, cassa integrazione, prepensionamenti, riduzione degli spazi di via Bargoni, messa in vendita della sede di Milano, numero promozionale a 40 centesimi, numero (mal promosso) a 50 euro, sono state alcune delle operazioni che il cda ha portato avanti, sempre all'unanimità, per muovere passi seri verso la salvezza.

Poi è arrivato Tremonti assestando al nostro giornale un colpo che potrebbe essere davvero mortale. Senza più il diritto soggettivo (ripristinato all'ultimo per il 2009) le banche non fanno credito; senza il credito delle banche la liquidità scende drammaticamente e non consente di far fronte a impegni che non si possono trascurare: pagare i fornitori (carta e lavoro), pagare gli stipendi (i compagni che ogni giorno vi consentono di leggere il manifesto non ricevono una lira da aprile), pagare le tasse (una vera mazzata contro cui stiamo seriamente considerando lo sciopero fiscale per lottare contro un sistema che soffoca la libera stampa per ammazzare in Afghanistan e reprimere a casa nostra). Pagare le Poste (che svolgono assai male il compito di distribuire il giornale)....

Il manifesto da parecchio tempo perde acquirenti in edicola (siamo ora fra i 15.000 e i 18.000 a seconda dei giorni) e il numero degli abbonamenti (il cui prezzo è davvero conveniente) deve crescere. In queste condizioni, è impossibile andare avanti a lungo e di qui a fine anno siamo in piena vera emergenza. Vi scrivo perché ve ne rendiate conto. Soltanto per coprire le perdite quotidiane dovremmo portare il giornale a 1,50 euro sperando che le vendite non calino ancora. Non lo vogliamo se prima non siamo sicuri di offrire un prodotto che li valga e quindi abbiamo mosso passi diversi.

Pur sapendo bene di poter provocare qualche fastidio ieri abbiamo deciso di limitare l'uscita del manifesto in chiaro su Internet. Un tempo, ogni volta che scrivevo un pezzo mandavo un sms destinato a tutti i numeri della mia rubrica del telefono sperando di far vendere qualche copia in più al giornale e di far conoscere il mio pensiero ai miei amici e conoscenti. Quasi tutti mi rispondevano il giorno dopo avendo letto il pezzo gratis su Internet sicché il mio primo e principale obiettivo andava sempre frustrato. Speriamo che, con la nuova politica di acceso libero posticipato e con la possibilità di accedere on line soltanto pagando un euro qualcuno in più prenda in considerazione l'idea di rinunciare a un caffè e comprare il manifesto per non dover aspettare una settimana al fine di scroccarlo!

Ancora sfidando il fastidio abbiamo lanciato la sottoscrizione in corso. Bisogna essere chiari e sinceri: sta andando molto male. Bisogna reagire! Le sottoscrizioni di qualche anno fa davano negli stessi tempi fino a cinque-otto volte di più, denaro fresco che già più volte ci ha evitato di dover rinunciare per sempre al giornale. Perché questa stanchezza? Su tutto questo vogliamo aprire subito un dibattito franco coi lettori.

È il momento di pensare davvero a come sarebbe l'edicola senza il manifesto. Io penso onestamente che nonostante problemi e difetti innegabili sarebbe un impoverimento politico e culturale terribile. È brutto non trovare, come succede negli Stati Uniti, in Francia o in Inghilterra, alcun quotidiano libero, critico controtendenza e fuori dalla logica della società dello spettacolo. Anzi è bruttissimo! Bisogna assolutamente evitarlo.

Non pensiamo naturalmente che questa terribile crisi del manifesto sia solo aziendale, anche se con una botta come quella che ci hanno dato nemmeno Marchionne riuscirebbe a sopravvivere di soli tagli e «razionalizzazioni»! Pensiamo che la crisi sia anche, forse già adesso soprattutto, politico-culturale e a differenza di Marchionne ci rendiamo conto che il problema è in definitiva il prodotto che vendiamo. Il manifesto deve tornare a vendere strumenti di battaglia politica e culturale. Dura almeno quanto il momento che stiamo vivendo. Per poterlo fare ci vuole una nuova spinta anzi ce ne vogliono due. Innanzitutto bisogna continuare sul piano politico la battaglia per il ripristino del diritto soggettivo per il 2010. Ci sono stati diversi segnali anche istituzionali incoraggianti. Ma lo sapremo solo con la finanziaria a fine anno. Non è il momento della tregua. Dobbiamo batterci, senza esclusione di colpi, per il pluralismo. Il mercato non può essere il solo criterio che definisce quale informazione sopravvive e quale no. Il contributo pubblico noi lo esigiamo perché vogliamo approfondire e far giornalismo di qualità e non strillato.

Occorre poi un nuovo patto coi lettori che si traduca in un governo del manifesto più coerente con la sua natura dei bene comune. Faremo partire a brevissimo una «Fondazione il manifesto» di cui saranno membri tutti quanti fra gli attuali sottoscrittori che promettano una sottoscrizione di durata almeno decennale. Ne daremo la guida provvisoria a qualcuno di molto autorevole fra i compagni del collettivo (scoprirete chi fra un paio di settimane). Organizzeremo una prima grande assemblea, concomitante con il nostro quarantesimo compleanno, in cui della Fondazione verranno eletti direttamente dai sottoscrittori direttivo e presidente (che siederà con noi nel cda). Vogliamo far nascere un nuovo grande soggetto politico-culturale che sia la voce partecipante dei lettori e dei «Circoli del manifesto» nei confronti di direzione, amministrazione e redazione.

Sarà una grande sfida ma per il 2011, anno di gran lotta per i beni comuni, vogliamo avere in prima linea il giornale e anche un nuovo slancio comunista. Sottoscriviamo o abboniamoci adesso!

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Qualunquismo? In un certo senso. Antipolitica? Sicuro. Populismo? Lampante. Leaderismo? In costruzione. In fondo, se si riflette su questi quattro elementi, solo uno, il primo (che rinvia al movimento fondato da Guglielmo Giannini nell’Italia che usciva dalla guerra, e inopinatamente giunto a esiti elettorali di rilevo, per poi inabissarsi di colpo), è relativamente estraneo ai caratteri essenziali della leadership politica del tempo presente.

Che cosa accomuna gli homines novi dell’opposizione oggi? Il fatto che Di Pietro, Vendola e lo stesso Grillo, sono capi, e capi assoluti di un movimento o partito; capi che non soltanto nella gestione dei loro partiti (loro anche in senso proprietario), ma anche nei simboli, nei messaggi, esprimono, da punti diversi della mappa dell’azione politica (compresa l’antipolitica, che è naturalmente una forma di politica, e tra le più insidiose ed efficaci, oggi), il nuovo leaderismo. Il quale è di tipo neopopulistico, e cerca un contatto diretto con la massa (che nel caso di Grillo sembra essere piuttosto la folla, in carne ed ossa, ai suoi comizi-spettacoli, o virtuale, attraverso il web o il video).

La massa (o folla), da Grillo in particolare, viene sempre contrapposta in quanto entità buona alle entità cattive: le istituzioni, i partiti, i sindacati e quant’altro. Elemento tipico del populismo: popolo buono versus istituzioni malvagie. Su questa folla Grillo si erge come un egoarca, che fa e disfa, che tiene in pugno i suoi, che determina le scelte politiche in modo univoco e indiscusso, che viene seguito e addirittura adorato come capita non alle divinità da parte dei fedeli, ma ai succedanei del divino, i divi dello spettacolo, da parte dei fans. Nella contrapposizione radicale, che nel corso del tempo Grillo ha esacerbato, immergendo sempre più il suo lessico nelle acque di una torbida volgarità, la stessa politica esaltata e praticata dai seguaci, e ovviamente indicata dal leader, è presentata deliberatamente come una politica contro, come una politica rovesciata, come una politica che se ne frega, che manda “aff”, i suoi avversari, ma, ahimé, anche tutti coloro che possano apparire, al grande capo, come ostacoli sul suo cammino.

Ma dove mena quel cammino? Ricordo – se non sbaglio – che non troppo tempo fa, sollecitato da più parti, Grillo aveva escluso un suo candidarsi, in nome di una democrazia più autentica, di un rifiuto di essere come “loro”. Nulla di male se ci ha ripensato, nulla di male se decide di partecipare in prima persona alla lotta politica, anche nelle istituzioni: ben venga. In fondo egli non è un comico che fa politica, bensì un politico che usa l’arma della satira, pesantissima, condita di volgarità, appunto.

Sta qui la vera differenza tra lui e i suoi competitors, che non sono in grado di far ricorso a quel genere di strumento. Di Pietro o Vendola sono lontanissimi, anche se ciascuno a suo modo sanno affabulare, sanno persuadere, sanno talora anche trascinare. Grillo sollecita il senso del comico nella sua forma più profonda e anche greve; che sa far arrivare il messaggio in modo diretto, senza mediazione alcuna: non occorre essere ”di sinistra”, non necessita neppure un grado di istruzione elevato, né una formazione o una qualsivoglia esperienza politica. Anzi, il “grillismo” sembra fatto per acchiappare i delusi della politica, e coloro che dalla politica si sono sempre tenuti alla larga. In tal senso, pur nell’antipolitica e nel populismo, pur nel leaderismo, pur nella spettacolarizzazione del messaggio, Grillo ha svolto una funzione positiva, che nondimeno appare tante volte ambiguamente gestita, sia dal cesarismo del capo carismatico, sia dal fideismo dei seguaci.

Non considero Grillo un avversario, né i grillini degli estranei agli obiettivi per i quali io sono disposto a battermi: anzi, li considero potenziali alleati. Ma li inviterei sommessamente a stare in guardia contro lo spettro del qualunquismo che nel comiziare clownesco, ora felice, ora greve, del “capo”, affiora pericolosamente. Nel messaggio comico, così come nel messaggio pubblicitario le sfumature, le analisi, le differenze sono ridotte al minimo: tutto viene azzerato in un Armageddon tra il popolo dei fedeli – qui mi sia consentito – e la massa degli infedeli. Da una parte i “giusti”, sicurissimi di essere nel vero, armati dell’arma stessa del capo, l’ingiuria, la blasfemia, l’urlo, lo sberleffo; dall’altra, coloro che non seguono quel messia, e che perciò stesso sono denunciati come servi dei padroni: vecchi o nuovi, questo poco importa.

La politica è arte di guardare lontano, ma è arte che si fonda sulla capacità di analizzare, momento per momento, le situazioni, di individuare di volta in volta le forze in campo, di distinguere contraddizioni principali e secondarie, di stabilire alleanze, sulla base di princìpi e/o di programmi; di non confondere tutto in una sola, comoda, ma fallace categoria: i cattivi, che magari, addirittura, possono essere visti nella Fiom e nella sua dirigenza.

Capisco l’esasperazione dello scontro, ma la necessità di distinguere amici e nemici ce lo ha insegnato Carl Schmitt; e pur senza giungere alla sua drammatica concezione della lotta politica, forse vale la pena tutti di riflettere meglio, con maggior attenzione, ai soggetti sociali che sono dietro certe parole d’ordine, certi movimenti, certe azioni concrete. Guardare verso di loro con il dovuto rispetto, pronti ad apprendere, ma disposti altresì a muovere critiche, con la franchezza dovuta all’interno di uno schieramento di cui, per ora, ancora, fanno pienamente parte pure Grillo e i suoi seguaci, anche se la strada che pare intrapresa non incoraggia il dialogo né il confronto.

Ma nella politica come nella vita, occorrono due virtù, che ci vengono suggerite da Giacomo Leopardi e, un secolo più tardi, da Antonio Gramsci: pazienza e ironia.

Non poteva esser peggiore il ritorno sulla scena del premier dopo una brevissima assenza. Aveva posto al centro una forte accelerazione sul terreno della giustizia, preannunciando una riforma già pronta e rispolverando sin la legge-bavaglio, ma nel giro di poche ore ha dovuto registrare una durissima battuta d´arresto. L´ineccepibile intervento del Presidente della Repubblica ha posto in nuova evidenza alcune implicazioni di fondo e al tempo stesso l´arrogante imperizia anticostituzionale del Lodo Alfano. Dal canto suo Gianfranco Fini ha poi ribadito quella posizione di fermezza che per un attimo era sembrata meno limpida e intransigente (e l´incertezza aveva provocato diffuse proteste nella sua stessa area).

Una nuova sconfitta per il premier, dunque, che lo frena su un terreno decisivo e che frustra sul nascere il tentativo di stringer le file della maggioranza con una nuova forzatura: tentativo non rimandabile, perché nei giorni precedenti essa era sembrata quasi dissolversi in mille rivoli e tensioni. Non più calamitati dal protagonista del dramma, i riflettori avevano illuminato meglio un confuso agitarsi di spezzoni e gruppi, facendo risaltare per contrasto - annotazione poco confortante - la prepotente solidità del polo leghista e l´accresciuto decisionismo di Giulio Tremonti (l´unico che può prefigurare un "dopo Berlusconi": di qui i primi cenni di insofferenza del premier nei suoi confronti). I sussulti più recenti - con il vacillare dei tre coordinatori e il disorientato vagare degli ex colonnelli di An - si sono solo aggiunti a deterioramenti e derive precedenti. Si pensi alla assoluta mancanza di pudore che ha segnato la vicenda dell´inquisito - e poi condannato - "ministro per un giorno" Aldo Brancher, o alla protezione parlamentare garantita ad un indagato per camorra come l´ex sottosegretario Nicola Cosentino. O anche - per altri versi - alla scelta di Paolo Romani, "vicino" a Mediaset, per la sostituzione di Claudio Scajola. Appaiono semmai corpi estranei alla maggioranza i pochi esponenti che non fanno organicamente parte del sistema, per dirla con Denis Verdini: lo ha confermato la denuncia dell´onorevole Pisanu sulle ultime liste elettorali - «gremite di persone che non sono degne di rappresentare nessuno» - e ancor di più il gelo che l´ha accolta.

In altre parole, l´appannarsi della leadership di Berlusconi ha fatto emergere sempre di più i contorni del ceto politico che in essa ha cercato legittimazione e potere. E quella leadership ha la sua residua forza nella fragilità delle alternative, interne o esterne al centrodestra, più che nel consenso reale del Paese: ce lo ricordano i dati stessi del suo ultimo successo, alle regionali di qualche mese fa. Con un "non voto" giunto al 40% del corpo elettorale - sommando astensioni, schede bianche e nulle - ha scelto il Popolo della Libertà il 16% degli italiani con diritto di voto: uno su sei. Grazie alla legge attuale, e all´alleanza con la Lega, questa percentuale può però garantire la maggioranza in Parlamento. Può permettere a Berlusconi di continuare un percorso che ha come scopo e approdo l´accentramento del potere e uno stravolgimento profondo degli equilibri e degli assetti istituzionali. Oggi quel percorso è molto più accidentato di prima e il tempo non gioca a favore del premier: di qui il carattere sempre più esasperato che le sue scelte sono destinate ad avere.

Conviene dunque interrogarsi meglio sul sostanziale incrinarsi dell´egemonia berlusconiana. Non sembra dovuto, per la verità, ad una più ampia e prorompente indignazione sul terreno dell´etica privata e pubblica: difficile attenderselo, del resto, in una società che in questi anni ha visto diffondersi semmai l´indifferenza, se non l´estraneità, alla legalità e alle regole del vivere collettivo. Il declinare della credibilità del premier sembra connesso piuttosto al crescere di insicurezze e di delusioni, e al progressivo franare del terreno che ne aveva costituito la base di partenza: la capacità di sostituire la "rappresentanza " con la "rappresentazione". Di proporre una narrazione rassicurante, anche se evanescente e fittizia. Nei primi anni novanta, inoltre, la personalizzazione stessa della sua proposta politica sembrava rispondere in qualche modo ad umori reali, provocati dal crollo della "prima repubblica". Trovava alimento nelle reazioni a una "partitocrazia" sempre meno tollerabile. Oggi quella personalizzazione mette a nudo più che in passato le sue ragioni private e la sua incompatibilità con un orizzonte di regole. Più ancora: la rottura stessa delle regole - che inizialmente parve una risorsa ad ampi settori sociali, attivati dalla promessa di un "nuovo miracolo" - amplifica oggi solo incertezze, inquietudini e paure.

Questa è l´ultimo, avvelenato frutto del quindicennio che abbiamo vissuto: un Paese che ha visto aumentare distorsioni sociali, culturali ed etiche per impulso dei modelli e dei miti alimentati dal premier è ora scosso non superficialmente dalla loro crisi. E, in assenza di alternative, il tramontare dei miti dà rinnovato impulso al ripiegamento individuale e agli egoismi di ceto.

In assenza di alternative: questo è il nodo sotteso all´intero scorrere dei problemi, e mai il centrosinistra è parso così inadeguato come negli ultimi mesi. Incapace di rivolgersi ai suoi stessi elettori, ha mostrato un personale politico lacerato da conflitti morti da tempo, appassito nelle sue sconfitte e restio perfino a riflettere su di esse. Sordo nei confronti della società. Incapace di misurarsi con le colossali trasformazioni del mondo del lavoro (una carenza che lo segna ormai da tempo) o di offrire proposte di lungo periodo sui terreni decisivi dell´istruzione e della formazione. Il suo sguardo sembra essersi sempre più ristretto a quel che si muove fra le macerie del sistema politico; sembra lasciar fuori dal suo spettro visivo quella parte degli italiani che - per buone o cattive ragioni - da quelle macerie si è ritratta. Una parte amplissima, che va anche oltre quel quaranta per cento che qualche mese fa non ha votato o ha annullato la scheda. La deriva non può essere arrestata o frenata se non si parla anche a questa parte del Paese. E se non si fa comprendere realmente e concretamente al Paese nel suo insieme che il bene pubblico può essere perseguito in un modo molto diverso da quello con cui si è governato in questi anni. Diverso, anche, da quello con cui si è fatta opposizione.

Dalle dichiarazioni che hanno accompagnato la prima approvazione del Lodo Alfano (che "lodo" non è perché non rappresenta un arbitrato super partes, ma l´espressione delle ragioni di una "parte") apprendiamo che la "serenità" delle alte cariche della Repubblica è un bene meritevole di tutela costituzionale. Mentre basta guardare fuori casa (ad esempio negli Usa, dove i presidenti vanno sotto impeachment per avere avuto –negandoli – rapporti fugaci con le stagiste) per accorgersi che di tale serenità una democrazia normale non ha bisogno.

Sbagliano però, tutti quelli che hanno votato l´emendamento in questione, se ritengono di poter sottrarre una siffatta disposizione alle censure di costituzionalità per il solo fatto che essa verrebbe approvata con la speciale procedura prevista dall´articolo 138 della Costituzione. Sbagliano perché le leggi costituzionali e di revisione costituzionale hanno il solo scopo – già chiaramente percepito dai filosofi politici del XVIII secolo – di integrare e di garantire la Costituzione "nel tempo" sia allo scopo di adeguarne pacificamente e gradualmente il contenuto alle nuove domande sociali sia per evitare modifiche effettuate violentemente o troppo frequenti.

Il disegno di legge costituzionale n. 2180 ha invece un contenuto "eversivo" della Costituzione. Infatti, qualora tale legge fosse definitivamente approvata, essa sarebbe una legge (in forma costituzionale) "in rottura della Costituzione", che, ancorché ammissibile in via di principio, come insegnava Carlo Esposito – un liberale autentico ed uno dei maggiori costituzionalisti italiani del secolo XX – , non sarebbe però mai ammissibile qualora provvedesse "nel caso singolo" per restringere la libertà di singoli individui o per incidere sullo status dei ministri o del Presidente della Repubblica.

E non sarebbe ammissibile anche perché tale legge, disponendo la temporanea immunità processuale per i reati comuni (extrafunzionali) del Presidente della Repubblica e del presidente del Consiglio, contrasterebbe col principio costituzionale di eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, che la Corte costituzionale ha fatto rientrare nel novero dei "principi supremi dell´ordinamento", come tali immodificabili anche in forza di una legge costituzionale.

Ebbene, che il disegno di legge n. 2180 contenga una "norma singolare" di favore per l´attuale Presidente del Consiglio – un privilegio in flagrante violazione del principio costituzionale d´eguaglianza – deriva dal fatto notorio che l´unico beneficiario della sospensione dei processi penali «anche relativi a fatti antecedenti l´assunzione della carica» è, dei due "beneficati", il solo Presidente del Consiglio, non esistendo alcun processo penale a carico dell´attuale Presidente della Repubblica.

Tuttavia ciò costituisce un elemento di chiarificazione nel dibattito pubblico e in un eventuale giudizio di legittimità costituzionale. Essendo stati via via eliminati ora l´una ora l´altra delle cinque alte cariche inizialmente beneficate dal Lodo Schifani (il presidente della Corte costituzionale "scartato" dal Lodo Alfano, i presidenti delle Camere "scartati" dalla legge sul legittimo impedimento, il Presidente della Repubblica "scartato" anch´esso dalla legge sul legittimo impedimento a beneficio dei ministri ma ora "riapparso", al posto dei ministri, nel disegno di legge n. 2180), non si potrà più sostenere, neanche con riferimento alla titolarità della presidenza del Consiglio dei ministri, che questa carica implichi di per sé un impedimento temporaneo tale da giustificare aprioristicamente l´assenza del premier nei processi penali a suo carico per reati comuni. E ciò, non solo perché questo unicum già di per sé appare strano, ma anche perché l´interim del ministero dello Sviluppo economico, durato ben cinque mesi, ha dimostrato inequivocabilmente – e a fortiori – che la presenza del premier in qualche udienza è agevolmente compatibile con le sue funzioni, dal momento che il loro disbrigo si è, nei fatti, rivelato compatibile con i ben più gravosi impegni connessi al lungo interim.

Un´ultima notazione. Nella quarta puntata di questo deplorevole gioco "a nascondino" del premier – che sarebbe addirittura risibile se non coinvolgesse, a livello internazionale, la serietà delle nostre istituzioni e non preoccupasse per i possibili ulteriori più gravi abusi – è stato nuovamente coinvolto anche il Presidente della Repubblica, dopo essere stato lasciato "fuori" dalla legge sul legittimo impedimento.

Ebbene, questa spregiudicatezza legislativa è assolutamente deprecabile non solo perché non si trattano le istituzioni costituzionali come se fossero carte da gioco, ma anche per quel rispetto che si deve alla persona del Presidente della Repubblica, che andrebbe preliminarmente sentito per esprimere ufficialmente il suo parere su una modifica costituzionale che lo coinvolge. Tanto più che l´Assemblea costituente, il 24 ottobre 1947, si espresse esplicitamente in senso contrario negando l´immunità processuale del Capo dello Stato per i reati comuni.

forte, in Italia, la tentazione di parlare della democrazia al passato. Facendo riferimento, cioè, a un sistema istituzionale che "c´era", ma oggi è, appunto, "passato". Ridotto agli aspetti formali e impoverito nella sostanza. Tanto che, per definirlo, si usano altre formule. Tra le più fortunate: Post-democrazia. Coniata (nel 2004) da Colin Crouch, per indicare il percorso assunto dai sistemi democratici, ormai lontani dai valori e dagli obiettivi della democrazia anche se non (ancora) anti-democratici. Alfio Mastropaolo, nello stesso periodo (2005), parla di "mucca pazza della democrazia". Per significare come la democrazia abbia contaminato se stessa, riducendosi a uno scheletro di procedure. Nella stessa direzione si pone un altro termine, di largo uso: populismo. Dove il popolo è un´entità indistinta, piuttosto che una comunità partecipe di cittadini. Questa lettura, in Italia, si è affermata negli anni del berlusconismo. Riassunto dai critici (e non solo) come l´esempio estremo – e irripetibile – di post-democrazia. Per le tendenze i tratti che lo caratterizzano.

Anzitutto: la personalizzazione e la mediatizzazione. I partiti ridotti a "una" persona, che comunica con i cittadini attraverso i media e, soprattutto, la televisione. Creando una democrazia im-mediata. Cioè: non mediata, se non attraverso i media,

In secondo luogo, l´imporsi dell´Opinione Pubblica come equivalente – e sostituto – degli elettori e dei cittadini. Considerata un´entità "reale", misurabile empiricamente. Sinonimo e riflesso del "popolo". Definito dalla "volontà popolare", sancita dal voto, Ma, ancor più e sempre più dai sondaggi.

Questo percorso è ricostruito, in modo originale, da Bernard Manin, autorevole filosofo politico francese, direttore all´Ehess di Parigi e professore all´Università di New York, in un libro dedicato ai Principi del governo rappresentativo. Tradotto e pubblicato in Italia, in questi giorni, dal Mulino. L´ultima parte, in particolare, si concentra sull´avvento della "democrazia del pubblico". La formula, entrata nel linguaggio comune, descrive un´epoca in cui i partiti cedono spazio alle persone, l´organizzazione alla comunicazione, mentre le identità collettive si indeboliscono, compensate dalla fiducia personale diretta. Il rapporto con la società e gli elettori avviene, sempre più, attraverso i media e il marketing politico. Manin parla di "democrazia del pubblico" perché lo spazio della rappresentanza coincide con lo scambio fra leader e "opinione pubblica". Che avviene, prevalentemente, attraverso i media. In modo asimmetrico, perché a senso unico.

È difficile non ricondurre la "democrazia del pubblico", tracciata da Manin, alla "post-democrazia". E, in particolare, al cosiddetto "berlusconismo". Tuttavia, le prime – parziali - versioni del saggio risalgono a circa trent´anni fa. Quando Silvio Berlusconi era "solo" un imprenditore mediatico – potente e influente. Ciò riconduce l´Italia di Berlusconi nell´ambito di una tendenza politica e istituzionale più ampia. Che prende avvio "prima" della discesa in campo del Cavaliere. La "democrazia del pubblico", peraltro, secondo Manin, non annuncia la crisi o, peggio, la fine del sistema democratico. Semmai, una "metamorfosi". La personalizzazione, in particolare, non va considerata una degenerazione, ma un elemento costitutivo della democrazia rappresentativa. Perché la rappresentanza è, per sua natura, "personale". Fin dall´origine, al tempo del parlamentarismo (nel XVIII e XIX secolo). Ma anche nell´epoca della democrazia – e dei partiti – di massa i rappresentanti erano – sono – persone, che esercitano un grado, più o meno ampio, di autonomia personale.

Nella "democrazia del pubblico", peraltro, i partiti non scompaiono, ma si riorganizzano – appunto. Intorno ai leader. Coerentemente con la presidenzializzazione dei governi occidentali. L´idea della postdemocrazia appare, per questa ragione, nostalgica. Evoca un´età dell´oro, quella dei partiti e della partecipazione di massa che, forse, non è mai esistita. E che, comunque, si è conclusa quando i partiti di massa si sono ridotti a oligarchie lontane dalla società. Investiti, anche per questo, da un´onda di sfiducia impetuosa e impietosa. Respingere l´idea della "democrazia del pubblico" tutta insieme, trattare come "populista" ogni forma di partecipazione e di comunicazione che non segua la strada tradizionale del partito di massa, pone, semmai, alcuni seri problemi. In particolare, delegittima e, quindi, ostacola la ricerca di leadership "personali" capaci e "rappresentative". Un problema serio, oggi, soprattutto per il centrosinistra, soffocato da partiti oligarchici. Inoltre, non permette di comprendere il significato vero dell´anomalia italiana. Che non coincide con la "democrazia del pubblico". Ma con una questione assai più antica, alle radici della democrazia liberale. L´equilibrio dei poteri e dei controlli (a cui fa riferimento, tra i primi, il barone di Montesquieu). Tra le istituzioni di governo, gli attori della rappresentanza e, soprattutto oggi, l´Opinione Pubblica – garanzia di controllo e dibattito sulle pubbliche decisioni. In Italia questo equilibrio appare violentemente "squilibrato". È questo l´aspetto che distingue il caso italiano dalle altre "democrazie del pubblico". Non tanto il crescente ruolo dei media e delle persone, nelle istituzioni e nei partiti, neppure il ricorso sempre più ampio al marketing in politica. È, invece, la concentrazione dei poteri essenziali – governo, partiti, media – in una sola persona. La democrazia del pubblico non è post-democratica.

Lo è, semmai, la "democrazia del pubblico all´italiana".

MILANO - Politica incapace di fare norme più stringenti per combattere il fenomeno delle mazzette. Ma anche troppe deleghe in bianco nell´assegnazione degli appalti pubblici che aumentano gli appetiti famelici degli affaristi. Gerardo D´Ambrosio, l´ex responsabile del pool di Mani pulite, risponde al telefono mentre al Senato è in corso una vibrante discussione. L´esponente del Pd, dopo i molti allarmi lanciati negli anni scorsi, appare quasi scoraggiato di fronte alle parole usate dal presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino nel suo discorso di insediamento. Che la corruzione sia un fenomeno diffuso, non c´è dubbio. Basta elencare i numerosi casi venuti alla luce ultimamente».

Senatore, quindi il passato non sembra non essere proprio servito a nulla?

«La corruzione è un reato difficile da scoprire di per sé. Per la mia esperienza non è mai stato denunciato, perché non è nell´interesse né di chi paga, né tantomeno del funzionario infedele. In più, le mazzette sono un fenomeno sommerso che ha una caratteristica: i funzionari corrotti di solito lo diffondono. Se un dipendente lavora in un ufficio in cui è presente la corruzione, difficilmente se ne va, ma è più facile che finisca per adeguarsi anche lui al sistema».

Sta dicendo che è un aspetto culturale?

«Che ci sia corruzione è evidente, lo dimostrano i fatti di cronaca recenti. Perché ultimamente continui a diffondersi penso sia solo la conseguenza alle deroghe sugli appalti, licenziati dalla politica come "opere urgenti" e "grandi opere". Queste deroghe facilitano episodi di abuso d´ufficio, ma perseguirli è diventato difficile a causa di norme che non contrastano più l´interesse dei privati in atti d´ufficio. Basta pensare che per questo reato non è più consentito disporre le intercettazioni telefoniche».

Ma qui, senatore, stiamo parlando di mazzette.

«Con l´inizio di Tangentopoli spesso si cominciava un´inchiesta perseguendo un abuso d´ufficio e si arrivava a scoprire le grandi corruzioni. Adesso tutto questo è scomparso perché la legge non lo consente più».

Quindi sono le norme vigenti che non aiutano la lotta alla corruzione?

«Il disegno di legge proposto in materia dal ministro Angelino Alfano non presenta alcuna novità in questa direzione. Si è limitato ad aumentare le pene per la corruzione, senza cambiare i tempi della prescrizione. D´altra parte, il governo non ha nemmeno creato nessun organo indipendente di controllo per prevenire i fatti di corruzioni. Il fenomeno è sempre lo stesso. Durante Mani pulite si giustificava l´abuso dicendo che si finanziavano i partiti, anche se a volte occorreva avere funzionari corrotti o funzionari nella stesso ordine di idee del potere».

Le ultime inchieste hanno dimostrato che non è più la procura di Milano a trainare il contrasto al fenomeno. Da cosa dipende?

«A Milano c´era un gruppo di magistrati eccezionale. Mi vengono in mente Piercamillo Davigo, Ilda Boccassini, Gherardo Colombo e anche Antonio Di Pietro, che si occupavano solo di questo fenomeno. Tra loro è rimasta solo la Boccassini, che però è diventata coordinatrice dell´antimafia. Anche Fabio Napoleone, che era un pilastro per le inchieste sulle tangenti negli appalti pubblici, ha lasciato Milano. Quella mole immensa di carte e inchieste prodotta durante Mani pulite era il frutto del lavoro di una ristretta cerchia di magistrati. Non so se, attualmente, sia stata ricreata un équipe di pm competenti come allora».

INVIATO A LAS VEGAS (NEVADA)La guardia armata mi controlla l'invito prima di lasciar passare la mia auto nel Red Rock Country Club, questa città privata (o gated comunity, comunità fortificata, come si dice qui) che, all'estrema periferia occidentale di Las Vegas, si adagia alle pendici delle lunari Spring Mountains che culminano a 3.600 metri.

E fortificata lo è davvero, con la sua cinta muraria, le garitte, le guardie armate, i pesanti cancelli d'acciaio che si aprono solo con il giusto codice. Fortificata e opulenta, come si vede dal verde dei campi da golf e dalle piscinette private il cui spreco d'acqua grida vendetta al cielo nel bruciante deserto di sabbia, pietre e sterpi che scavalla Nevada e California meridionali.

È qui, in una delle ville seriali di quest'enclave privata, che alle dieci del mattino si tiene un ricevimento «privato» in onore della candidata repubblicana al Senato degli Stati uniti, Sharron Angle. Ho visto l'annuncio della riunione nel quartier generale della campagna di Angle. Ho preso il numero di telefono e chiamato una delle organizzatrici, Myrna Adad, presentandomi come giornalista di un quotidiano nazionale italiano, desideroso di capire meglio il messaggio di Sharron Angle. Myrna Adad m'inserisce tra gli invitati («il contributo minimo è di 15 dollari», avverte).

«Negli Usa vige la Sharia»

Entro in un patio dall'architettura vagamente spagnolesca, mi faccio appiccicare alla giacca un adesivo con il mio nome (pronunciato con circa sei erre, alla messicana) ed entro nel giardinetto, con piscina ovoidale alimentata da un ruscelletto, dove vari anziani siedono all'ombra degli alberi o fanno la fila davanti a un buffet: una delle regole più ferree delle campagne elettorali Usa è che i meeting e i comizi seri si tengono sempre davanti a qualcosa da mangiare: può essere un breakfast alle sette del mattino (cui ho assistito nella mensa di qualche fabbrica) o un pranzo mattiniero (early lunch), oppure una cena per raccogliere fondi. Senza almeno uno snack non si fa politica da queste parti.

Sharon Angle è sì la candidata repubblicana al Senato, ma assai particolare, perché è esponente del Tea Party, il movimento spontaneo di ultraconservatori, antistatalisti feroci, che si è coagulato l'anno scorso contro la riforma sanitaria portata avanti dal presidente Barack Obama, e che quest'anno in parecchi stati ha preso il sopravvento nel partito repubblicano, sopraffacendo i repubblicani «moderati». Di questo movimento e del suo oltranzismo Angle è un'esponente rappresentativa: secondo lei vi sono almeno già due città negli Usa in cui «vige la Sharia»; la riforma sanitaria (health care) è da lei sempre nominata solo come Obamacare; durante le primarie ha dichiarato di voler abolire non solo la mutua (Social security), ma anche il ministero federale dell'istruzione e l'agenzia per i veterani (anche se poi ha dovuto diluire e di parecchio il suo messaggio).

La sua candidatura ha attirato l'attenzione nazionale e internazionale (incontro a Las Vegas giornalisti francesi, spagnoli, tedeschi - non italiani però) perché affronta uno dei più potenti politici democratici, il presidente del Senato Harry Reid che cerca il suo quinto mandato, e quindi si è già fatto 24 anni di senato a Washington: con la rete di relazioni e finanziatori accumulati in 25 anni di parlamento e di commissioni senatoriali, Reid dovrebbe vincere alla grande, ma così non è, e tutti i sondaggi danno i due praticamente alla pari.

Il Tea Party rappresenta perciò il nuovo corpo misterioso nella politica Usa: di ultraconservatori c'è una lunga e non rispettabile tradizione nella storia americana, ma ora è la prima volta che questa componente assume il controllo del Partito repubblicano dall'esterno, un «Terzo partito» che cresce all'interno di uno dei due.

Mentre aspettiamo che arrivi la candidata, pilucco uva: dai discorsi che ascolto intorno a me, mi sento un infiltrato, come dietro le linee nemiche, stando bene attento a non smascherarmi: sapessero cosa è il manifesto, gli prenderebbe un accidente. Parlo con l'anziana, segaligna, Myrna Abad: «Ci vuole una svolta», mi dice. «Il paese sta andando male, bisogna restaurare i veri valori conservatori. Io faccio parte delle Ladies repubblicane e alle primarie ho scelto Sharron perché lei era la candidata più conservatrice tra quelli in lizza. Dobbiamo ripristinare l'eccezionalismo americano», quell'idea per cui l'America è un paese eccezionale - imparagonabile con qualunque altro stato umano, cui dio ha affidato una missione speciale: come ripeterà fra un po' Sharron Angle citando la frase biblica del presidente Ronald Reagan (1980-1988), «L'America è la città splendente in cima alla collina».

È curioso che a invocare «l'eccezionalismo americano» sia una signora di origine libanese: suo marito è scappato in Siria, poi nelle Filippine e infine si sono stabiliti in America.

D'altronde guardo gli adesivi con i nomi attorno a me: questo ricevimento è organizzato a casa della signora Suzanna Luna, dal pesante accento ispanico. E poi abbondano nomi come Pilar, Maria Rosa, cognomi come Marquez, Torres, Ramires, o asiatici come Huang, o ancora parecchi nomi ispanici come Orlando Pinedo o Daniel Soriano su volti inconfondibilmente cinesi (i chinos emigrati in America latina a fine ottocento e completamente ispanizzati).

Ricchi, vecchi e cattivi

Naturalmente non c'è un nero manco a pagarlo oro. In tutti i vari meeting per Sharron Angle cui ho assistito, ho visto un solo nero: sulla cinquantina, grassoccio, faceva il «sharronetto» (cioè ballava con le sharronettes, le mature majorettes che ballano e agitano le bandierine ai comizi). E fa impressione l'età media che è sopra i 60, nel senso che i pochi tra i 45 e i 50 sono largamente compensati dai molti tra i 70 e i 75. Qui, in questa città privata l'origine sociale si coglie dalle scarpe delle signore che alle 10 del mattino sono per lo più da sera, scarpine dorate su zatteroni alla Prada, o scarpine rosse su tacchi a spillo. L'agiatezza è inversamente proporzionale alla lunghezza e alla vistosità delle unghie. Ma anche nei comizi pubblici, la platea è sempre molto terza età. Nessuno mi aveva detto che il Tea party è un movimento di anziani. Chiedo a Myrna come mai lei e suo marito sono finiti in Nevada e allora capisco in che consiste l'eccezionalismo americano: «Qui non si pagano tasse non solo sul reddito (sono 13 gli Stati usa in cui il reddito non è imponibile, ndr), ma neanche sull'eredità».

Sempre intorno alle tasse gira l'ultraconservatorismo, non a caso il movimento si chiama Tea Party. Si riferisce al Boston Tea Party del 1773, quando i buoni cittadini del Massachusetts distrussero i sacchi di tè pur di non pagare le tasse all'importazione; anche se nel suo Manuale da campo di controinsurrezione (2007) il generale David Petraeus (oggi comandante in capo della forza internazionale in Afghanistan) usa proprio quest'episodio per mostrare che una narrativa utile a veicolare un'ideologia può essere basata su dati di fatto falsi: infatti all'epoca i cittadini inglesi pagavano più tasse dei loro coloni americani.

Tagliare, tagliare, tagliare

Finalmente arriva Sharron, in un tailleur rosso. Con i suoi sostenitori è molto più rilassata e gentile di quanto apparirà due giorni dopo nel faccia a faccia tv con l'avversario Reid, dove ostenterà un'aggressività cattiva, pur impappinandosi nell'economia politica. La sua è la classica ricetta liberista al cui confronto Reagan avrebbe fatto la figura di pericoloso sinistrorso. Il suo programma è di una semplicità elementare: «Cut back, pay back, take back», inteso come «taglia (le spese statali), rimborsa (il debito pubblico), fai ripartire (l'economia). Insomma una ricetta di ordinaria ferocia. Solo qui - con tutti questi anziani in blazer, panama, signore con cappellini - la spietatezza di presenta mite, ma non per questo meno letale: il ricevimento si conclude con l'estrazione di una riffa (i premi vanno da una borsa firmata a un cestino di salumeria italiana) e con una interminabile serie di foto della varie signore con la candidata.

Il karma degli ultrà

Tre giorni dopo entro nel grande Casinò Orleans: al primo piano nella Sala B Mardi Gras si tiene un concerto finanziato dagli Amici di Sharron Angle (fuori c'è scritto «Party privato, la stampa non è ammessa», ma ormai per gli attivisti di Angle la mia è una faccia familiare). Anche qui, stessa età media e, soprattutto, stessa bonarietà vendicativa. Il cantante di musica country fa cantare al pubblico il ritornello: «Obama, Obama, un solo, un solo, un solo mandato». Un altro canta il Democratic Blues: «Ho perso il lavoro. Ho perso la casa, ho perso l'auto, posso solo cantare i democratic blues».

Una riprova di questa micidiale affabilità Angle la offre nel dibattito televisivo con Reid: richiesta se c'è almeno una cura o un esame che lei renderebbe obbligatori per le assicurazioni sanitarie, svicola e si affida all'efficienza del libero mercato: che muoiano se non possono pagarsi l'assicurazione. In questo senso hanno torto i fratelli Cohen nel film «Non è una terra per vecchi», quella di un mondo totalmente hobbesiano, sanguinolento. Angle dimostra invece che proprio l'inumana, vendicativa crudeltà sociale è «terra di vecchi».

Lo conferma un lungo articolo sul supplemento culturale del Wall Street Journal (organo semi ufficiale della destra Usa), in cui l'autore sostiene che quel che caratterizza il Tea Party non è tanto l'ispirazione libertaria (comune a molti movimenti attraverso tutto lo spettro politico Usa), quanto - tenetevi forte - «il karma». Per karma l'autore intende l'idea che una cattiva azione prima o poi sarà premiata e una buona azione sarà punita. Da questo punto di vista, l'obiettivo dello stato sociale e della sinistra è di proteggere dalle conseguenze del suo karma chi agisce male, è quindi d'impedire al karma di agire. L'obiettivo dei Tea Party è di permettere di nuovo al karma di funzionare. Ma una società che funziona in base al karma l'abbiamo già vista, ed è quella dei bramini e degli intoccabili, dei puri e dei paria, dove i primi sono moralmente giustificati nel restare indifferenti davanti ai secondi che muoiono sui marciapiedi davanti a loro.

postilla

L’argomento era già stato toccato su queste pagine, direttamente nella recensione al lungo reportage sociologico territoriale Alla ricerca dell’Utopia Bianca,indirettamente in tanti articoli, postille, occhielli, fino alla nausea insomma. Ovvero che ambienti come quello raccontato da Marco D’Eramo non sono affatto misteriosi contesti esotici, ma cose che abbiamo sulla porta di casa nostra, magari anche dentro al tinello. Slogan semplicissimi ma efficaci, perché colpiscono in punti molto sensibili, e attorno l’ambiente fortificato della villettopoli rancorosa che alimenta la chiusura nel familiare, nel particolare, nella regressione. Ma anche un pensiero “progressista” che se continua a ritrarsi dal confronto alla pari, se reagisce a questo tipo di chiusura solo con l’arretramento alla nostalgia del bel tempo che fu, non va da nessuna parte. La conservazione ha i suoi professionisti, che sono e sono sempre stati di destra: e il mercato preferisce sempre l’autentico all’imitazione (f.b.)

Un'altra politica è possibile. Fuori dai palazzi, dalle palazzine e dagli strapuntini del potere. Una politica fatta di contenuti che consenta di scegliere tra diverse idee del mondo e delle relazioni tra le persone. Una politica che cammini sulle gambe di donne e uomini, non imposta da caste politiche ed economiche a chi non ha firmato deleghe in bianco, è tutta da costruire. Non è facile, bisognerebbe ribaltare una pratica autoritaria ed estraniante cresciuta in anni di cattiva politica in cui si mescolano e si perdono le differenze tra destra e sinistra.

Si può uscire dalla berlusconizzazione della cultura e della vita di tutti i giorni? Si può tornare a parlare di politica, della crisi che sta devastando la maggioranza della popolazione? Si può pensare a una via d'uscita che ricostruisca i legami sociali e tra le persone individuando una prospettiva e un percorso comuni?

Sabato le strade di Roma hanno mostrato un'altra Italia e, soprattutto, un'altra politica. Una piazza determinata, multicolore e non solo per tutte le tonalità del rosso. Operai, che esistono anche se per tanti soloni è stata una scoperta, o una riscoperta; lavoratori, precari, studenti, disoccupati, migranti, frammenti di quel che è stata la sinistra italiana, movimenti, intellettuali, popolo.

È la prima volta da anni, forse dal luglio del 2001 a Genova e dal 23 marzo del 2002 (il Circo Massimo con Sergio Cofferati), che riparte una speranza insieme alle gambe per camminare. Può non finire come a Genova, quando Fini era l'orco mentre adesso tutti ne parlano con rispetto, pronti a pagargli l'affitto di casa.

Si può non consegnare le armi alla guerra trionfante, come capitò dopo i cento fiori di Firenze prematuramente appassiti sotto il fuoco nemico

Si può cambiare, ma solo riappropriandosi della politica finita da troppo tempo in cattive mani. La manifestazione della e con la Fiom parla di diritti per tutti, di eguaglianza da ricostruire, di democrazia senza aggettivi, di solidarietà, di contratti, di reddito di cittadinanza. Parla di come ridare dignità al lavoro e a chi lavora dopo anni di svalorizzazione.

È o non è a partire da queste cose che si deve tornare a distinguere tra strade, modelli di società, se si preferisce tra destra e sinistra? Se invece si crede ancora che solo dalle alleanze tra i partiti e i sub-partiti meno diversi, tra i meno «berlusconiani» possa nascere un'alternativa a Berlusconi, allora ha ragione Casini: la piazza della Fiom non è compatibile con «una certa idea di alternativa». Del resto, l'alternativa accennata da quella piazza difficilmente prevede un ruolo centrale e governante per l'onorevole Casini, così come per tanti altri, più o meno onorevoli di lui.

Gli uomini e le donne di piazza San Giovanni sono un punto di partenza per qualsiasi speranza di cambiamento. Attenzione a non fare errori, però: non sono disposti a farsi da parte perché sono stufi di fare le comparse in un film di quart'ordine. C'è più bisogno di cervello e di gambe che di un leader.

Se si sottoponesse il Paese a un check-up (e i media e i giornali che si occupano di informazione lo stanno facendo) emergerebbe uno stato grave di astenia quando non di declino: le istituzioni sono sottoposte a un logorio pressante che dura da anni mentre la società è lasciata a se stessa ad affrontare una delle crisi economiche più gravi e di lunga durata del dopo-guerra. Uno scenario che dovrebbe grandemente impensierire chi governa, se non per senso di responsabilità (una moneta rarissima) almeno per un ragionevole calcolo elettorale, pensando cioè a come restare in sella. Il capo del Pdl e della maggioranza si è in effetti reso conto di non vivere nel paese di Pangloss dove tutto va per il meglio. La verità, che piace sempre poco a chi ama il potere incontrastato, deve essere trapelata tra le file dei suoi collaboratori se è vero che il leader ha parlato di stato di "balcanizzazione" del suo partito e si è trovato di fronte a dati molto preoccupanti sulla caduta di consenso alla sua persona. Certo, non è lo stato del paese che lo preoccupa direttamente, tuttavia l´attenzione per la salute della maggioranza è una forma indiretta di interesse. Data questa attenzione ci si aspetterebbe che la strategia di riconquista del consenso prevedesse interventi sulle "cose", uno straccio di idea su come affrontare questa crisi in modo che i sacrifici siano distribuiti in proporzione ai redditi, e su quale sia il punto di riferimento da seguire per risollevare l´economia del paese. E invece, il tycoon risfodera la sua strategia originaria, quella che lo ha caratterizzato fin dai tempi della sua "discesa in campo": ideare nuove forme di aggressività ideologica, creare a latere del suo partito delle casematte che abbiano mano libera di dire e fare quello che un partito che sta a Palazzo Chigi non può dire e fare.

Berlusconi non crea nulla di nuovo, ma adatta al suo caso quello che è stato creato altrove. Nelle strategie politiche il copyright non esiste e nemmeno la pirateria come ovvio perché in questo campo le iniziative sono vincenti proprio perché possono essere estese dovunque, diventare una matrice di successo. I Tea Party sono la nuova fonte di ispirazione del populismo di targa meneghina. Un populismo nuovo quello ideato dai fondamentalisti repubblicani americani, perché si identifica non con un leader, ma con un nemico. Il nemico dei Tea Party è il Barack Obama ancor prima del Partito democratico; il loro scopo è di portare i loro candidati in Congresso in numero sufficiente per riuscire a radicalizzare la lotta politica contro la Casa Bianca e bloccare ogni proposta di riforma che viene dalla Casa Bianca. La strategia è quella del sabotaggio, la tattica è quella della guerriglia.

I Tea Party hanno una caratteristica che si presta bene a fare quello che il giornale della famiglia Berlusconi ha dimostrato di saper fare bene: disseminare dubbi senza mai tirare fuori le prove, lasciare che il dubbio si diffonda perché non c´è nulla di più difficile da scalfire di una diceria dilagante. La diceria ha il potere di diventare "un fatto" senza uno straccio di prova. È sufficiente farla circolare in forma di dubbio: l´esito verrà da sé. I blog dei Tea Party hanno disseminato vari assurdi dubbi sul Presidente Obama: per esempio, che non sia americano, che sia musulmano, e che sia (ultima invenzione) l´esponente di un movimento mondiale di anti-colonialismo venuto dal Kenya a rappresentare tutti i movimenti post-coloniali della terra (e pensare che gli Stati Uniti sono stati i primi anti-colonialisti della storia moderna!). Le incongruenze e le assurdità sono la moneta corrente di questa nuova forma di populismo delle casematte, un populismo che si dirama dalla periferia, che è localistico per radicamento e inafferrabile poiché è da nessuna parte e dovunque, proprio come i bloggers. L´elemento unitario è nel nemico, non in un leader: è questa la grande novità dei Tea Party. Una novità pericolosa per la democrazia perché è evidente che questa strategia della diceria disseminata è fatta per creare forme identitarie di consenso, forme quasi religiose di identificazione con una causa - quella contro. Per chi è parte di questo progetto la fede viene prima della ragione e non c´è possibilità di compromesso sulle opinioni: «Obama è musulmano», e su questo non c´è proprio nulla da discutere.

Immaginiamo che cosa potrebbe voler dire usare questa strategia per ridare ossigeno al consenso del premier. Potrebbe voler dire competere con il suo alleato più fedele, la Lega, su temi di grande presa diretta sul "popolo". Perché si tratterebbe di mettere in atto una politica di rastrellamento di consensi ritagliata su un bacino di persone che è simile a quello della Lega almeno per la disposizione alla credulità e al fideismo, due condizioni senza le quali non si ha politica identitaria. A latere del Pdl, sempre più un partito di incardinati nelle istituzioni e quindi "conservatori" per necessità di sopravvivenza, i Tea Party del premier sarebbero come casematte fondamentaliste, capaci di infiltrare dicerie, usare un linguaggio di attacco, praticare ripulsa per ogni forma anche blanda di ragionamento ragionato con lo scopo di mobilitare consensi.

Democrazia di mobilitazione potrebbe essere il termine rappresentativo di questa nuova strategia politica. In un pubblico abituato alle masticazioni delle informazioni ad usum Caesaris, i Tea Party modello Berlusconi potrebbero trovare un facile radicamento. Ci si deve dunque aspettare il peggio: più radicalismo, più polarizzazione ideologica (ma di un´ideologia senza la nobiltà delle idee). Un populismo che si diramerà da centri di diffusione locali e periferici e quindi più facilmente manipolabile da un centro nemmeno tanto occulto.

C'È FUTURO

di Valentino Parlato

La giornata di ieri a Roma promossa dalla Fiom è stata, a mio parere, una giornata decisiva. Un invito, o una sfida, al mondo dei partiti e anche degli intellettuali a uscire dalla palude e dalle dispute, di stile berlusconiano, contro Berlusconi. Gli operai metalmeccanici sono stati negli anni passati, e lo sono anche oggi, l'espressione più moderna e forte della classe operaia, quelli che ogni giorno hanno a che fare con le innovazioni e gli arbitrii del capitalismo nostrano. E, aggiungo, i progressi delle nostre società sono stati promossi dalle innovazioni industriali e dalla politica dei protagonisti di quelle innovazioni. Non è stato affatto casuale che all'apertura della enorme manifestazione di piazza San Giovanni abbiano parlato studenti, insegnanti, ricercatori. I metalmeccanici hanno coinvolto e portato a rappresentanza anche la cultura. Il nesso metalmeccanici e cultura è antico e, senza citare Marx, strutturale. Come a dire, ripetendo convinzioni di un passato migliore, la classe operaia promuove la cultura impegnata nell'antico intento di rivoluzionare la società.

Quella di ieri è stata una sfida a quel che resta in Italia delle culture e della politica di orientamento democratico. In Italia e anche in Europa (le vittorie elettorali delle varie destre incombono) si sta andando al peggio. La grande manifestazione di ieri, l'illuminato discorso di Maurizio Landini e anche il consenso di Guglielmo Epifani allo sciopero generale - seppur posticipato - hanno detto a tutti noi e ai vari partiti non berlusconiani (ma dal berlusconismo infettati) che si può dire no, che si può cambiare rotta. I partiti (piccoli) della sinistra radicale hanno aderito. Il Pd, che dovrebbe essere l'erede del dimenticato Pci, è rimasto incerto e diviso: ulteriore e grave segno della crisi italiana. Perché il Pd non ha aderito alla manifestazione dei metalmeccanici, lavoratori fondamentali dell'industria italiana e del progresso del nostro paese? Un interrogativo grave che pesa molto su di noi, ma che dovrebbe pesare anche su di loro.Non ci spero, ma sarei molto grato a Bersani se volesse dare una sua spiegazione al manifesto. Ma forse pensa che il manifesto (che una quarantina d'anni fa diede al Pci utili suggerimenti) sia peggio dei metalmeccanici, i quali, a suo avviso, sarebbero diventati o sono estremisti dannosi. Estremisti quelli che sono il maggiore sostegno del reddito nazionale?

Credo che, se non al manifesto, una spiegazione alla Fiom e alla Cgil Bersani dovrebbe pur darla. La grande manifestazione di ieri ha dimostrato che l'Italia è meno peggio di quanto gli attuali rassegnati dirigenti del Pd pensano. Dicano qualcosa e non solo qualche titolo scetticamente elogiativo dell'imponente manifestazione di ieri. Dicano se vogliono o no capire qualcosa e fare qualcosa per e con gli operai metalmeccanici. Una volta ci dicevamo che il Pci era il migliore rappresentante della classe operaia. Non aspettiamo una risposta, perché il Pd non sa che dire. In ogni modo martedì il manifesto pubblicherà il testo integrale del discorso di Landini in piazza San Giovanni.





UNA SPERANZA CAMMINA

INSIEME ALLA FIOM

di Loris Campetti

«Noi non diamo numeri, contateci voi». Bella trovata questa della Fiom, in polemica con i ministri che prevedevano tra le 20 e le 40 mila persone. Noi del manifesto ci siamo consultati e abbiamo concluso di non essere capaci di contare così tante persone, operai e studenti «uniti nella lotta», colf e migranti, anziani che hanno conquistato quei diritti che oggi si vorrebbero togliere ai figli e ai nipoti. C'è chi parla di un milione, ma vai a sapere. E, soprattutto, chissenefrega. Ieri nelle strade e nelle piazze di Roma ha camminato una speranza: cambiare si può. Speranza che non trova albergo nella «Politica» ma oggi ha un orgoglioso compagno di marcia: la Fiom.

«Meglio lottare danzando che vivere in ginocchio». Saranno quei burloni degli operai di Pomigliano che improvvisano una tammuriata in piazza della Repubblica? Invece no, sono le Chejan celen, «Zingare spericolate», ragazze e bambine inserite in un progetto di alfabetizzazione dei rom. Sono italiane da tre generazioni ma non hanno diritto a esserlo per la nostra legge. Ecco perché sfilano con i metalmeccanici e addirittura si esibiscono in bellissime danze al ritmo di musiche zigane, perché la Fiom ha messo al centro di una delle più straordinarie manifestazioni della storia d'Italia proprio i diritti. Quelli degli operai a lavorare con dignità, dei sindacati degni di questo nome a contrattare, degli studenti a studiare e degli insegnanti a insegnare, dei precari a riacciuffare per la coda un futuro oggi negato, dei migranti a essere considerati persone uguali alle altre persone. Tutti portatori di diritti sociali, civili, di cittadinanza. Diritti indivisibili, da difendere e spesso da riconquistare in un'Italia classista e ingiusta rifondata sui privilegi.

Trascina l'emozione della piazza Maurizio Landini, il nuovo segretario generale della Fiom, quando dice che di quel che sta succedendo a Roma e in Italia, di questa domanda collettiva di dignità, partecipazione, democrazia, bisogna ringraziare, prima e più che la Fiom, gli operai di Pomigliano e di Melfi che non hanno chinato la testa di fronte all'arrogante pretesa del padrone di scambiare lavoro ipotetico con diritti certi. I diritti, semmai, vanno estesi a tutti sennò si riducono a privilegi.

Chi è in piazza, come questi operai della Fiat, non vuole o non vuole più chinare la testa. Due cortei sterminati hanno raccontato tante cose a una Roma finalmente attenta e qua e là anche partecipe. La fatica di lavorare e vivere in una crisi spietata, gestita per di più da un governo spietato perché «servo», come sta scritto su tanti cartelli. Alcuni un po' scorretti. Servo «dei padroni», naturalmente, di «Marchionne cetnico, Bonanni maggiordomo» per dire che al servizio del modello sociale preteso dall'uomo miracoloso della Fiat di «servi» ce ne sono molti. Più che contro Berlusconi, la piazza rossa della Fiom è contro un modello sociale e politico in cui l'operaio è pura variabile dipendente, appendice della macchina a cui lavora e al tempo stesso combattente arruolato con la forza del ricatto in una guerra globale che non è di classe ma tra navi nemiche in cui stanno tutti insieme, padrone, manager e tute blu per combattere contro un'altra nave modellata allo stesso modo alla conquista, come l'altra, del dio mercato. Mors tua vita mea, siamo in guerra. Ne parliamo con gli operai dei «cantieri navali in lotta» che ci spiegano come la stratificazione della nave sia classista perché c'è chi rema e chi spartisce i dividendi, ma lo è già «al momento della sua costruzione»: alla stiva lavoratori immigrati senza diritti, ai primi piani dipendenti delle ditte appaltatrici e subappaltatrici e solo ai piani alti i «nostri» operai. Che però stanno massicciamente con la Fiom e non si fanno fottere perché sanno che il nemico è l'armatore e i suoi caporali. Questa piazza ragiona e grida contro un modello sociale che punta sulla guerra tra poveri, disoccupati e cassintegrati contro i migranti. Un modello sociale in cui la democrazia dev'essere «governante» ed è insieme un optional rinsecchito, fruibile solo per i ceti abbienti. Tutto il potere in mano a pochi, in politica come all'università, in fabbrica come nei quartieri. Non sopportano Berlusconi le centinaia di migliaia di lavoratori, studenti, pensionati che occupano la Capitale, e non glie lo mandano a dire. Ma temono, forse ancora più di Berlusconi, il partito del potere vero: quello di Marchionne, Marcegaglia e Montezemolo che «potranno anche essere alleati di qualcuno, ma non di questa piazza», dice un giovane di un centro sociale torinese.

È ovvio vedere sfilare Emergency che chiede il ritiro delle nostre truppe dall'Afghanistan, dato che la Fiom è per il ritiro. È ovvio che sfili Libera per chiede legalità perché la Fiom chiede legalità, anzi spiega che la frantumazione del ciclo produttivo con la moltiplicazione di appalti e subappalti è l'ascensore che favorisce l'appropriazione dell'economia da parte della criminalità. I migranti cercano casa, diritti e lavoro e sono ora sparsi ora concentrati negli spezzoni dei cortei. Nella Fiom vedono una casa. All'Ostiense lo spezzone Fiom di Reggio Emilia è tricolore non per bandiere rigidamente rosse ma grazie alla presenza di operai indigeni, africani e asiatici. Dal Veneto sono calati in massa sia gli operai di Landini che i giovani dei centri sociali, così come dalle Marche. L'orgoglio di essere Fiom, innanzitutto. Gridato da Melfi, da Pomigliano, da Mirafiori, dallo spezzone più incazzato che apre il corteo di piazza della Repubblica, quello Termini Imerese che in coro canta «sciuri, sciuri, sciuriti tutto l'anno, e Marchionne va a jettari u sangu». Precisa la segretaria della Fiom siciliana che «da noi gettare il sangue vuol dire faticare». E noi ci crediamo.

La pensionata di Macerata e la zingara spericolata, il pacifista trentino e il cassintegrato autorecluso all'Asinara, il No Tav della Valle di Susa e persino i venditori di fischietti chiedono una cosa: la riunificazione delle lotte che si incrocia con la riunificazione del lavoro chiesto dagli operai arrivati, ancora una volta e più numerosi e decisi di sempre, a Roma. «Basta con le escort e le case a Montecarlo», chiede un cartello. Inutile dire di cosa si debba occupare la politica, di lavoro, democrazia, diritti, legalità. «Di contratti, per dio», grida il pensionato abruzzese. Ma c'è anche chi chiede «10-100-1000 Same» portando in corteo uova finte.

Di miracoli ieri se ne sono visti molti, a Roma: i soggetti organizzati, chi si batte per l'acqua pubblica e i beni comuni, chi guida le battaglie contro il precariato, chi chiede un reddito di cittadinanza, chi vuole una scuola libera e pubblica chi chiede lavoro per sé e galera per i suoi padroni (le maschere dell'Eutelia), tutti questi pezzi di mondo hanno iniziato a camminare insieme. C'è addirittura chi parla dello «spirito di Genova». Inutile ricordare che anche la Fiom, nel G8 del 2001, c'era, insieme a chi gridava «un altro mondo è possibile».

Il secondo miracolo romano è che dal palco tutte queste domande e sensibilità sono state raccolte nell'intervento di Maurizio Landini, un operaio speciale che sa parlare alla sua gente e al popolo multicolore di piazza San Giovanni. «C'è una domanda di cambiamento a cui bisogna dare una risposta». Piace ai comunisti, i tantissimi di Rifondazione ma anche del Pdci, del Pcl, di Sinistra critica. Piace a Vendola e alla Sel, forse piace anche ai tre eroi che trascinano in corteo altrettante bandiere del Partito democratico. E il «nuovo modello di sviluppo» di Landini piace agli ambientalisti, con o senza bandiera verde.

Tutti chiedono la stessa cosa: le lotte devono andare avanti, fino allo sciopero generale. Meglio prima che dopo. Lo ricordano senza tregua al segretario generale Guglielmo Epifani al suo ultimo comizio da capo della Cgil.

Non sono eroi, sono però degli esempi. Coccolati da tutti, orgogliosi, rumorosi, determinati, allegri persino. Sono gli operai di Pomigliano, quelli dei No a Marchionne da cui è partito tutto questo casino che ha ridato una speranza al paese. Meglio, alle persone per bene. Coccolati sono anche i tre licenziati di Melfi che hanno vinto la causa ma che il padrone tiene fuori dalla fabbrica. C'è anche il manifesto in piazza, con i suoi circoli e i suoi giornalisti, i suoi stand e il suo grido di dolore. Siamo accolti molto bene in piazza, e persino dal palco c'è chi ricorda la resistenza di un giornale amico degli operai, un giornale senza padroni, senza partiti e senza soldi. Un giornale schierato, come e con questi chissà quanti italiani e migranti di buone speranze.

Titolo originale: Not so grim up north – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Stanno ovunque, addirittura sui cartelli “Non calpestate le aiuole”: più o meno 700 Soli delle Alpi, i simboli della Lega Nord di Umberto Bossi, appiccicati sulla scuola di Adro, piccolo centro nella valle del Po e ultimo episodio della infinita guerriglia tira e molla fra la Lega e il governo di Roma di cui fa parte.

Da quasi dieci anni, a partire dalla fine degli anni ‘90, il sogno leghista di liberare la “Padania” (Italia settentrionale) era liquidato come una bizzarria. Oggi non più. Dal 2008 il governo di Silvio si regge in parlamento sui voti della Lega. E per assicurarsene il sostegno il primo ministro nelle ultime settimane ha promesso di accelerare l’attuazione del “federalismo fiscale”, idea leghista non chiarissima di maggiore autonomia finanziaria.

Ma se il governo dovesse cadere l’anno prossimo a causa delle divisioni fra le sue componenti non leghiste, Bossi e i suoi fedeli sarebbero i primi ad avvantaggiarsene nelle elezioni. I sondaggi li mostrano in crescita nelle percentuali sin dalla consultazione del 2008.

Come accade a tanti altri partiti in tutta Europa, la posizione anti clandestini e anti-islam dei leghisti ottiene consenso. Appartiene al partito il ministro dell’interno Roberto Maroni, che ha attuato la discussa politica di respingimenti nel Mediterraneo prima che possano chiedere asilo politico. L’islamofobia abbonda nella Lega. Un altro ministro, Roberto Calderoli, tempo fa ha portato a passeggio un maiale sul terreno destinato alla costruzione di una moschea.

Ma tutta questa xenofobia in sostanza è solo un prodotto collaterale del tentativo di Bossi di costruire una identità condivisa fra quelli che cerca di unire. “Un metodo è quello di individuare nemici comuni” racconta Alessandro Trocino, coautore di un recente libro dedicato alla Lega. “Prima erano gli italiani del Sud, poi gli immigrati in genere, adesso in particolare i musulmani”.

Il messaggio di Bossi si dimostra sempre più efficace anche per l’elettorato tradizionale della sinistra. Un sostegno cruciale per la straordinaria affermazione alle elezioni del 2008. “Non siamo né di destra né di sinistra” commenta Ettore Albertoni, ex consigliere regionale della Lombardia, l’area attorno a Milano. Un’affermazione che ha qualche fondamento: molti elettori della Lega sono sia lavoratori che imprenditori: contadini proprietari, artigiani, esercenti.

Sarebbe davvero ironico se il prossimo anno, centocinquantei anniversario dell’unità d’Itaia, si rivelasse l’ annus mirabilis della Lega. Ma Giuseppe Berta, autore di uno studio sull’Italia settentrionale, spiega “Il partito ha raggiunto un culmine. E ciò significa che sta iniziando il calo”. Perché, continua, ha degli ineliminabili handicap. Dipende dal carisma di Bossi (rimasto intatto nonostante l’ictus del 2004 che gli ha lasciato qualche difficoltà di espressione). Gli elettori urbani sono disorientate dal suo populismo, dalle volgarità (recentemente ha definito i Romani “porci”) e dalle varie mitologie (la tradizione Celtico-padana). Il professor Berta sostiene che la Lega non è ancora riuscita a dotarsi di leaders in grado di gestire qualcosa di più grande di una cittadina. Ma no tutti sono della medesima opinione. Maroni è fra i ministri più popolari del governo. Luca Zaia, che ha abbandonato un a poltrona ministeriale in aprile, viene considerato un ottimo governatore del Veneto.

Molto dipende dall’ottenimento o meno del federalismo fiscale chiesto dalla Lega, e se ci si arriva a come si useranno i nuovi poteri. Trocino è convinto che a Bossi e ai suoi convenga, avere qualche promessa eternamente rinviata. “Ricordiamoci della battuta di Oscar Wilde: quando gli dei vogliono punirci, rispondono alle nostre preghiere”.

La contrapposizione fra centro e periferia non regge più. Dopo la polis monocentrica classica e la città industriale agglutinante, che si espande indefinitamente a pelle di leopardo, mossa dai sottostanti interessi economici e dai rapporti materiali di vita, sta emergendo un nuovo aggregato urbano, dinamico e policentrico. Nella presente fase di transizione, il centro ha sempre più bisogno della periferia. Se questa si fermasse, tutta la vita urbana si arresterebbe. Le due grandi categorie storiche della città monocentrica e della città industriale agglutinante non sono più sufficienti. Nasce una realtà urbana imprevista. Si può anche parlare di realtà post-urbana. (...) Lo sviluppo urbano è mosso dalle nuove esigenze di visibilità e di partecipazione di masse umane di recente inurbate (urbanizzazione senza industrializzazione), dal gioco degli interessi socio-economici, dai diritti di proprietà dei suoli, dalla corsa alla privatizzazione del pubblico allo scopo di garantire il parassitismo della rendita fondiaria e la massimizzazione dei profitti per la speculazione edilizia.

(...) Nessun dubbio che realtà urbane come quella dell'odierna Los Angeles, tipico esempio di realtà post-urbana, con le free ways che la cingono, la stringono e la «tagliano», funzionando anche come drive in e drive through, appiattiscono la città in un fitto crocevia e ne fanno un paradossale insieme di centoventi sobborghi in cerca di una città che non c'è o non c'è più. Il nuovo aggregato urbano ha da recuperare un senso al di là della pura congestione della città industriale, storicamente accentrata anche per la facile dissipabilità del vapore, all'epoca della prima Rivoluzione industriale primaria fonte di energia. Il nuovo aggregato urbano recupera il senso della convivenza urbana ponendosi come realtà policentrica, articolata e dinamica, non puramente dispersa, polverizzata. Per questa ragione, è dubbio che si possa avere una nuova città, policentrica e post-urbana, senza un'idea nuova di città o, più precisamente, senza ridefinire il rapporto fra spazio e convivenza. (...)

Le migrazioni di grandi masse umane su scala planetaria rendono il concetto tradizionale di cittadinanza chiaramente inadeguato. Non si tratta né di jus soli né di jus sanguinis. Il polítes ateniese, il civis romanus, lo stesso citoyen della Rivoluzione dell'89, che è considerato tale solo se proprietario di un lembo di terra francese, indicano figure più esclusive che inclusive. Non sono quindi in grado di accogliere, né giuridicamente né esistenzialmente, i nuovi arrivati, quegli immigrati extracomunitari di cui le economie dei paesi tecnicamente progrediti non possono fare a meno. (...) Purtroppo, è giocoforza constatare che la logica della città industriale sta prevalendo su scala planetaria. Occorre oggi un nuovo profilo del costruire. Urbanisti e architetti non progettano nel vuoto sociale. Bisogna imparare a costruire senza violentare la natura o snaturare il territorio, sfigurare il paesaggio. Una sfida ardua. Implica l'andare oltre il progetto singolo, nella sua peculiarità di invenzione artistica, scoprire e rispondere alle domande del luogo, acclimatare il progetto al territorio, alla sua conformazione fisica, far incontrare l'estetica e la geografia.

(...) Ma un'alternativa al grattacielo c'è. È il nuovo aggregato urbano policentrico. Centro e periferia sono ormai categorie concettuali obsolete. Città e campagna non si fronteggiano più come ancora al termine del Secondo conflitto mondiale. L'effetto di padronanza della città si è esteso, ha coinvolto l'hinterland, ha investito e trasformato la campagna. Urbano e rurale costituiscono ormai un continuum. Non è più lecito parlare di urbanizzazione. Bisogna far ricorso a un neologismo non troppo elegante ma perspicuo: «rurbanization», vale a dire la congiunzione di rus, «campagna», e urbs, «città». Ciò significa che la periferia non è più periferica e che il centro non ha da de-centrarsi, pena il soffocamento, il declino e la morte. (...) Occorre un patto di collaborazione, quanto meno di non belligeranza, con la Natura. L'iniziativa più rivoluzionaria è in realtà un ritorno: la riscoperta del modo di costruire mediterraneo. (...) L'impostazione predatoria oggi va rovesciata con un nuovo stile del costruire, uno stile fondato su un concetto di natura non nemica, bensì collaboratrice. La nuova architettura si inserisce nell'ambiente senza violentarlo.

* Di «Cultura della metropoli» si discuterà oggi [14 ottobre] e domani in un convegno alla Sapienza di Roma (dalle 9, facoltà di Scienze umanistiche)

«In caduta libera». Non poteva avere titolo più appropriato il X rapporto sulla povertà e sull’esclusione sociale in Italia, curato dalla Caritas italiana e dalla Fondazione Zancan e presentato ieri dal segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata, dal direttore generale della Caritas Italia, monsignor Nozza, dal presidente della Fondazione Zancan, monsignor Pasini.

Analisi lucida, numeri precisi, attenzione al dato qualitativo e alla condizione concreta della popolazione, quindi denuncie e proposte chiare: questo emerge dallo studio, con una secca smentita dei dati ottimistici sulla povertà presentati nel luglio scorso dal governo e dall’Istat. Nel nostro paese la povertà non è affatto diminuita, anzi è in aumento, come il disagio sociale e la percezione della precarietà, della fragilità sociale di chi con l’avanzare della crisi è a rischio. Tocca 8.370 mila persone che hanno visto cambiare pesantemente le loro condizioni di vita. Un dato diverso, e più pesante rispetto ai dati forniti dall’Istat che indicava in 7.810 mila i «poveri» in Italia. Secondo lo studio «In caduta libera» vanno conteggiati, invece, anche quelle 560 mila persone che, visto l’abbassamento della linea generale della povertà passato da 1007 euro per coppia a 983, sarebbero state classificate come «povere relative». Nessuna «contrapposizione» tra Caritas e Istat, affermano i ricercatori che hanno curato il «Rapporto», soltanto letture «qualitativamente» dei dati che darebbero per il 2009 un aumento dei poveri del 3,7% sul 2008. Solo il 45% delle famiglie italiane sarebbe al riparo dalla crisi economica.

NESSUNA POLEMICA CON L’ISTAT



Preoccupato e fortemente critico il giudizio espresso della Chiesa italiana. «Il dramma della povertà - commenta il segretario generale della Cei, monsignor Crociata - offusca la nostra comunità e le ricadute pesanti sono sotto gli occhi di tutti. E a tutti chiedono rinnovato impegno nell’azione di contrasto e nelle forme di solidarietà». Mette il dito sull’elusione ed evasione fiscali «particolarmente gravi». «Si tratta di sottrazione di risorse - denuncia - che pesano sugli onesti e diminuiscono le disponibilità di aiuto agli ingenti». La Cei invita a giocare la carta del «federalismo solidale», che può portare «a nuovi e più efficaci assetti diunsistema assistenziale caratterizzato da troppi squilibri». Per smuovere l’attuale «situazione di stallo», monsignor Crociata chiede un cambio di passo: interventi soprattutto a favore della famiglia e delle giovani generazioni. «Non si tratta di occuparsi semplicemente dell’assistenza - puntualizza -. È una questione di giustizia, di dignità e di libertà».

Che la crisi economica sia bel lontana dal superamento lo testimonia l’esperienza concreta dei centri di ascolto della Caritas. Emerge la difficoltà delle persone disoccupate, delle famiglie impoverite, di chi sa che prima o dopo finiranno gli ammortizzatori sociali. Dallo studio emergono i diversi livelli di «povertà»: quella «assoluta» di chi non può accedere ai beni essenziali, quella «relativa » e gli «impoveriti». Coloro che sono «a forte rischio di povertà, colpiti dall’aumento della disoccupazione e della cassa integrazione, dal calo del potere reale d’acquisto e dalla disuguaglianza dei redditi. Il dato preoccupante è «l’aumento delle disuguaglianze e la sensazione di un impoverimento generalizzato, non solo dal punto di vista del reddito, ma anche delle aspettative e delle risorse culturali».

La povertà colpisce particolarmente nel Mezzogiorno e le famiglie numerose, con bassi livelli di istruzione. Ha anche il volto degli 800mila italiani «ridotti all’indigenza a causa di separazioni e divorzi». Per i vescovi va cambiato registro. È fallita la «social card». Occorre gestire diversamente le risorse che pure «sarebbero sufficienti». Dei 49 miliardi di euro stanziati ogni anno per la spesa sociale, l’86% va in trasferimenti alle famiglie e solo il14% in servizi. Al governo chiedono meno trasferimenti e più servizi.

Come cambia la vita di chi è colpito dalla crisi



Si rinuncia a ciò che era ritenuto necessario: è l’effetto della crisi. Così nel 2009 il credito al consumo è sceso dell’11%, i prestiti personali del 13%e la «cessione del quinto» nel settembre 2009 è aumentato del 8%. È la condizione di forte fragilità economica che fa aumentare del 10% il numero dei «poveri». È la difficoltà a pagare la spesa, il mutuo, le cambiali da anchenei primi mesidel 2010,daparte delle persone disoccupate, «impoverite », che con preoccupazione sanno che finiranno gli ammortizzatori sociali e hanno finito per rivolgersi ai centri Caritas e alle parrocchie.

LA DIFFICILE DIFESA DEL LAVORATORE GLOBALE

di Luciano Gallino

Divise e oggetto di attacchi estremistici le organizzazioni devono fronteggiare mutamenti sociali che mettono in questione il loro ruolo tradizionale. Nuove tecnologie mestieri inediti contratti atipici. La realtà di oggi sembra porre infiniti ostacoli. Quando le loro rappresentanze sono deboli, le condizioni di vita e le retribuzioni di operai e impiegati peggiorano ovunque

Relitto anacronistico della rivoluzione industriale. Superfluo come soggetto contrattuale: i contratti collettivi di lavoro sono superati. Incapace di rappresentare gli interessi dei lavoratori globali. Questo dicono del sindacato manager e politici, e anche non pochi operai e impiegati. A tutto ciò si aggiungono le divisioni interne e gli attacchi contro alcune organizzazioni. Vediamo allora qualche dato.

Nei paesi dell’Europa occidentale, tra il 1981 e il 2007 i sindacati, Pubblica Amministrazione esclusa, hanno perso in media oltre la metà degli iscritti. Nello stesso periodo la quota dei salari sul Pil è scesa in media di dieci punti. In Italia, dove un punto di Pil vale 16 miliardi, è scesa di dodici.

In Usa, grazie alle politiche antisindacali cominciate con la presidenza Reagan, i salari dei lavoratori dipendenti sono oggi al medesimo livello, in termini reali, del 1973.

In Germania, dove almeno sui grandi temi i sindacati procedono in modo unitario, ed hanno per legge un peso effettivo nel governo delle imprese, il salario netto superava nel 2008 i 20.000 euro. In Italia, dove i sindacati marciano disuniti e nel governo delle imprese contano zero, il salario netto era sotto i 15.000 euro.

Grandi imprese della Ue che intrattengono buone relazioni con i sindacati di casa, quando aprono uno stabilimento in Usa mettono in atto pratiche pesantemente antisindacali. Per dire, assumono stabilmente gli esterni che si sono prestati a lavorare al posto dei dipendenti in sciopero. Motivo? La legislazione sulla libertà di associazione sindacale è arretrata in Usa rispetto alla Ue; per di più molti giudici non la applicano.

Questi dati dicono che nei paesi sviluppati quando i sindacati sono deboli le retribuzioni, insieme con altri aspetti delle condizioni di lavoro, virano al ribasso. Ovviamente nei paesi emergenti va peggio. Qui i sindacati non esistono, o hanno scarso potere contrattuale. Risultato: a parità di produttività e di potere d’acquisto, i salari sono da due a cinque volte più bassi, gli orari assai più lunghi, i giorni di riposo e di ferie ridotti al minimo. Sono anche paesi dove chi sostiene il ruolo del sindacato rischia la vita. In Colombia, solo nel 2006 sono stati assassinati 72 sindacalisti. Nelle Filippine le vittime sono state 70 in quattro anni. Ancora nel luglio scorso, due fratelli, dirigenti del sindacato dei tessili, sono stati uccisi in Pakistan. Le colpe di tutti loro? Chiedevano condizioni di lavoro più decenti per i compagni.

Le cose sono un po’ diverse in tema di capacità del sindacato di rappresentare gli interessi dei nuovi lavoratori: quelli che flottano tra una quarantina di contratti atipici, fanno mestieri inesistenti dieci anni fa, o lavorano soltanto con l’immateriale che scorre sullo schermo del Pc. È vero che tale capacità appare carente. Ma non si può imputarla solo al ritardo dei sindacalisti nel comprendere le nuove realtà produttive. Il fatto è che dette realtà sembrano costruite appositamente per ostacolare il sindacato nel rappresentare gli interessi dei nuovi lavoratori.

Si prenda il caso – che qui si semplifica, ma è reale – di un piccolo elettrodomestico venduto nei supermercati. Le 50-60 parti di cui è composto sono fabbricate in una dozzina di siti posti in dieci paesi diversi, e controllati da multinazionali che hanno sede altrove. In ciascun sito gli addetti appartengono a molte nazionalità diverse. L’assemblaggio finale dell’apparecchio può avvenire in uno stabilimento sito in Umbria o in Puglia, per mano di lavoratori italiani, nigeriani, moldavi, magrebini. Essi fanno capo, pur lavorando insieme, a cinque o sei aziende differenti; inoltre tra di essi si contano una dozzina di tipi di contratti di lavoro diversi. La loro produttività dipende da componenti fabbricati a Taiwan o nel Kerala, e dalla puntualità di viaggio di innumeri aerei, navi container, tir e furgoncini, sui quali quei componenti hanno viaggiato per 30.000 chilometri. In presenza di un simile modo di produrre, per il sindacato "rappresentare gli interessi" dei lavoratori non è diventata soltanto una fatica erculea: non si capisce nemmeno che cosa voglia dire. Che è precisamente il risultato che gli architetti della globalizzazione volevano ottenere.

Quanto ai lavoratori della conoscenza, intesi come coloro che producono valore aggiunto trasformando informazioni in conoscenze e queste in altre informazioni mediante apposite tecnologie, si possono suddividere in due gruppi: quelli che di un sindacato non sentono il bisogno, e quelli che ne avrebbero un bisogno estremo, ma di mezzo ci sono, a impedirglielo, le leggi sul lavoro. Di un sindacato non sanno che farsene i traders, i negoziatori di titoli al computer che guadagnano da centomila euro all’anno in su. Non sentono la necessità di un sindacato le decine di migliaia di informatici che han messo in piedi un’efficiente azienda propria, magari individuale; né i data miners che trovano ogni genere di dato su qualsiasi persona e impresa scavando nei meandri della rete. Restano fuori gli operai del Pc, tipo molti addetti ai call center che l’azienda retribuisce in funzione di quanti secondi riescono a trattenere qualcuno al telefono. Questi avrebbero sì bisogno di un potente sindacato da lavoratori dipendenti, quali in realtà sono; ma il legislatore permette cortesemente all’azienda di applicare loro l’etichetta di lavoratori autonomi "a progetto", e la tutela del sindacato si fa più complicata e lontana.

DAL TRIONFO AL DECLINO

Il passato glorioso, i problemi attuali

di Giorgio Ruffolo



Gli inizi sono segnati da lotte impetuose e da repressioni cruente. Poi, con le leggi sociali e lo stato del benessere, diventano una delle grandi istituzioni della democrazia moderna

Nella Roma imperiale i Collegia erano una specie di sindacato nato per proteggere categorie proletarie esposte al rischio di malattie invalidità povertà. Nel Medioevo queste funzioni furono assunte dalle Corporazioni di arti e mestieri. Ma è con la rivoluzione industriale e con i suoi tremendi traumi sociali che sorge, insieme con i partiti politici della sinistra proletaria, il sindacato, parte integrante del movimento operaio, per proteggere la vita la salute e la dignità dei lavoratori.

Ispirandosi al socialismo, ma anche al cristianesimo sociale, il sindacato percorre in poco più di due secoli una triplice grandiosa vicenda storica: l’epoca eroica, quella del potere, quella del declino.

La prima è segnata da lotte impetuose e cruente, nelle condizioni talora terrificanti delle fabbriche e delle miniere descritte in Inghilterra da una Commissione governativa: donne e fanciulli che lavorano da 12 a 15 ore al giorno in condizioni igienicamente spaventose; bacini carboniferi come inferni, la disciplina di una prigione, i bambini picchiati se si addormentano. Le prime leghe operaie sono represse col carcere. I primi scioperi sono stroncati col sangue. Il sindacato nasce nel martirio e cresce con l’ardimento, sfidando la violenza e l’ipocrisia (come quella della pia liberale Henriette Martineau che dichiara: ogni intervento di assistenza pubblica è una violazione dei diritti del popolo).

La seconda è l’epoca del suo trionfo. Attraverso i grandi scioperi, le leggi sociali, lo Stato del benessere il sindacato diventa tra la metà del XIX e la metà del XX secolo una delle grandi istituzioni della democrazia moderna. E anche delle più potenti. Potenza della quale talvolta abusa generando privilegi burocratici e suscitando tensioni inflazionistiche.

La terza è l’epoca del declino, aperta da una controffensiva capitalistica scatenata dalla liberazione dei movimenti internazionali di capitale che rovesciano i rapporti di forza tra le grandi imprese multinazionali e gli Stati nazionali e tra capitale e lavoro.

In Italia, dove l’unità sindacale, raggiunta nel giugno 1944 col Patto di Roma, era stata rotta nell’ottobre 1948 con la scissione della Lcgil (poi Cisl) il sindacato registra le ripercussioni del nuovo corso politico di centro-destra. Si ribadisce la separazione tra Cgil da una parte, Cisl e Uil dall’altra, la prima a intransigente difesa della contrattazione collettiva, le altre alla ricerca di un compromesso tra diritti sociali e pretese capitalistiche motivate dalla pressione della competizione economica. Svanisce la pratica della concertazione tra Governo e sindacati, sostituita da un dialogo che culmina con il Patto per l’Italia del luglio 2002, sottoscritto da Cisl e Uil ma non dalla Cgil, e che segna il massimo di conflittualità tra i sindacati. Una conflittualità poi parzialmente stemperata, sia per senso di responsabilità da parte dei sindacati, sia anche per l’incapacità di un governo più confuso che reazionario, di trarre profitto dal vantaggio acquisito sviluppando una politica delle relazioni industriali degna di questo nome. Conflittualità parzialmente stemperata, dunque, ma sempre latente e pericolosamente riemersa in questi giorni.

Il sindacato, col suo passato glorioso, vive oggi una condizione di ansiosa incertezza in un mondo del lavoro che minaccia di spaccarsi tra precari e protetti, in un mondo economico esposto ai venti della finanza speculativa, in un mondo politico insidiato dall’inconsistenza.

IL DIVORZIO DAI PARTITI

di Marc Lazar

Perché si è allentato il legame con la politica. La svolta storica è avvenuta tra gli anni ‘70 e ‘80 Le mutazioni del capitalismo, il cambiamento dell’organizzazione del lavoro, l’offensiva liberista hanno drasticamente ridotto il loro potere negoziale



I sindacati proclamano la loro indipendenza, ma hanno sempre intrattenuto rapporti con la politica. Legami forti, organizzativi, organici, umani, univano i sindacati ai grandi partiti socialdemocratici, ad esempio nella Repubblica federale tedesca, nella Svezia o nell’Inghilterra del dopoguerra. Questi stessi sindacati erano gli interlocutori privilegiati dei poteri pubblici per distribuire i frutti – abbondanti – della crescita secondo due modelli principali. In Nordeuropa, la negoziazione e il compromesso erano largamente praticati, senza escludere le azioni collettive. La zona "eurolatina", come nel caso della Francia e dell’Italia, era caratterizzata da una grande frammentazione sindacale e da una forte conflittualità sociale.

Gli anni ‘70 e ‘80 rappresentano una cesura storica. Le mutazioni del capitalismo, il cambiamento dell’organizzazione del lavoro, le mutazioni delle strutture di produzione, la spinta dell’individualismo, l’offensiva liberista, le nuove forme di gestione delle risorse umane, la rapida accelerazione della globalizzazione e l’unificazione dell’Europa hanno colpito i sindacati. Le iscrizioni sono diminuite, il loro potere si è ridotto, le loro capacità di negoziazione e di mobilitazione si sono assottigliate. Di conseguenza, sono cambiati anche i rapporti con la politica.

I legami tra i partiti socialdemocratici e i sindacati si sono allentati. I partiti, in Svezia, in Germania o in Inghilterra con il New Labour di Tony Blair, hanno voluto emanciparsi dai sindacati per potersi rivolgere agli elettori borghesi di centro. Le loro politiche di austerità e modernizzazione del welfare, la loro volontà di introdurre nuovi temi, ad esempio l’ecologia, il loro tentativo di adattarsi ai comportamenti dell’epoca, più individualistici e consumistici, hanno provocato delle tensioni con i sindacati. Da parte loro, questi ultimi hanno cercato di adattarsi offrendo dei servizi, formulando proposte costruttive, aprendo trattative sia dentro le imprese che con i governi, coordinando le loro azioni a livello europeo e interessandosi ad altri argomenti. Sindacati e partiti ormai sono molto più autonomi. Ma dopo la crisi del 2008 e le ripetute sconfitte della sinistra europea, i secondi, constatando la disaffezione dei ceti popolari, tornano ad avvicinarsi ai primi. Ed Milliband ha vinto la sua battaglia all’interno del Labour grazie ai sindacati.

Questa autonomizzazione e questa maggiore responsabilità dei sindacati sono stati oggetto di contestazione ed è iniziato un processo di radicalizzazione politica. In Germania, una parte della Dgb e il sindacato del settore dei servizi Ver.di sono molto legati alla Linke, mentre in Francia il sindacato Sud, comparso nel 1981, è vicino a tutti i partiti collocati alla sinistra del Partito socialista.

Indeboliti, invecchiati, ripiegati sul settore pubblico, i sindacati continuano ad assolvere a un ruolo di difesa e di protezione sociale e a esercitare un’influenza indiretta sulla politica. Dopo il 2008 hanno ritrovato il sostegno di una parte degli europei, che pure non aderiscono ai loro appelli allo sciopero. È quello che succede attualmente in Francia rispetto alle pensioni, dove Nicolas Sarkozy è deciso a imporre la sua riforma ma sembra aver perso la battaglia dell’opinione pubblica. Con il rischio di pagarne lo scotto alle presidenziali del 2012.

Traduzione di Fabio Galimberti

Non si possono tenere in edicola i giornali, di destra o di sinistra, dal manifesto ad Avvenire, dal Secolo all' Unità, non allineati alla casa madre berlusconiana. Né si può tenere accesa la televisione di Santoro con il rischio che il paese reale e le opposizioni abbiamo la possibilità di partecipare a un programma visto da cinque milioni di persone. Tanto più se il governo rischia una morte prematura e bisogna prepararsi per tempo alle elezioni anticipate. Del resto su come sistemare l'informazione il presidente del consiglio non conosce rivali e il ministro Tremonti è uno che impara subito. Una coppia perfetta. Imbracciando lo scudo della crisi, il ministro si appresta a rendere definitivi i tagli all'editoria, chiudendo una novantina di testate (compreso il nostro giornale), mentre il direttore generale della Rai si occupa del pubblico televisivo e sospende Annozero, la gallina con le uova d'oro.

Naturalmente stiamo parlando sempre dello stesso Masi citato nelle intercettazioni dell'inchiesta di Trani, quando indecenti e minacciose conversazioni, tra il premier e i suoi collaboratori, portarono alla luce la regia contro alcuni programmi del servizio pubblico. Masi prometteva al commissario dell'Agcom di «mettere su una strategia operativa», per risolvere il «problema Santoro che è un problema tutto particolare», sperando nel passo falso: «se lui fa la pipì fuori dal vaso...». Stiamo parlando del dirigente che nell'ultima campagna elettorale chiuse i talk-show della Rai.

Dunque guardate Annozero questa sera perché giovedì prossimo non ci sarà, quello successivo nemmeno, poi, forse, potrebbe tornare ma anche no, tutto dipenderà da come evolverà lo scontro tra l'azienda e il giornalista. Intanto si blocca un programma che produce il 20 per cento di share e tra i più alti fatturati pubblicitari. Un bella botta all'azienda pubblica, con tanti saluti alla concorrenza con Mediaset, ma è il conflitto di interessi bellezza e se siamo a questo punto non è solo colpa del Cavaliere.

Come ci ricorda Carlo Freccero (altro cavallo vincente azzoppato) nell'intervista al nostro giornale, togliere programmi di informazione significa, automaticamente, colmare il vuoto con l'intrattenimento. Fino a sostituire, una dopo l'altra, le voci critiche con lacrime, sangue e gossip. Con la chiusura di Annozero e il provvedimento disciplinare contro Santoro si colpisce il mezzo e il messaggio. Chi lavora nella più grande azienda culturale del paese si adegui alla nuova regola.

Il tipo di assenso necessario dipende essenzialmente dal tipo di fonte rinnovabile, dalla potenza dell'impianto e dal possibile impatto sul territorio (si veda la tabella in alto). A grandi linee, si può dire che l'iter più complesso (l'autorizzazione unica) è previsto solo per gli impianti oltre una certa taglia (60 kW per l'eolico, 20 kW per il fotovoltaico, 100kW per l'idraulico e via elencando). Invece, la preferenza per la più semplice comunicazione in comune rispetto alla Scia dipende essenzialmente dai criteri di realizzazione: pannelli fotovoltaici non sporgenti dal tetto e non siti nei centri storici, pale eoliche alte fino a un metro e mezzo e di dimensioni contenute, impianti geotermici e idraulici che non alterano la volumetria degli edifici, eccetera. Tuttavia se il proponente l'impianto non ha titolo sulle aree o sui beni interessati dalle opere e dalle infrastrutture connesse, l'autorizzazione diviene l'unica strada da seguire.

A proposito di Dia, va segnalato che il testo del decreto non ha tenuto conto degli aggiornamenti normativi introdotti con la manovra finanziaria (legge 122/2010, articolo 49) che introduce la Segnalazione certificata di inizio attività (Scia). La nota del 16 settembre del ministero della Semplificazione chiarisce che la Scia è integralmente sostitutiva della Denuncia di inizio attività (Dia), salvo quando questa è a sua volta sostitutiva del permesso di costruire e si configura quindi come «SuperDia». Nel campo dell'installazione delle rinnovabili c'è da supporre che tale ambiguità non dovrebbe presentarsi: in altre parole, dove si parla di Dia deve intendersi Scia (salvo ulteriori chiarimenti). Per i lavori non strettamente legati all'installazione delle fonti rinnovabili - ma eseguiti in contemporanea - resta possibile eseguire le opere interne, anche di manutenzione straordinaria, agli edifici, quelle di pavimentazione di aree esterne, le strutture temporanee con semplice comunicazione: insomma, il decreto recepisce la nuova versione del testo unico dell'edilizia, senza titoli abitativi ma con la stessa comunicazione prevista per gli impianti.

Vengono infine dettagliati i contenuti minimi dell'autorizzazione unica: progetto, relazione tecnica, attestazioni di disponibilità dell'area, concessioni e preventivi per gli allacciamenti, destinazione urbanistica, cauzioni, oneri istruttori eccetera. Si ripercorrono tempi e modi per ottenere l'autorizzazione: avvio del procedimento entro 15 giorni dalla presentazione; convocazione della conferenza di servizi entro 30 giorni; eventuale procedura di assoggettabilità odi valutazione di impatto ambientale, se prescritta; casi in cui interviene il ministero per i Beni e le attività culturali, connessione in rete da parte del gestore dei servizi, intervento delle Soprintendenze e via elencando. L'autorizzazione è di per sé titolo costruire ed esercire l'impianto e, ove occorra, variante allo strumento urbanistico.

Gli investigatori parlano di un vero e proprio “rompicapo”: dell’uomo che avrebbe tentato di uccidere il Direttore di Libero Maurizio Belpietro si sa poco e nulla. Un fantasma.. Nell’attesa si possono riepilogare i fatti. Ecco tutte le stranezze sull’”attentato” alla vita di Maurizio Belpietro.

1. Belpietro è appena stato accompagnato in casa. Il caposcorta, dopo anni di routine, decide di non prendere l’ascensore, ma di scendere per le scale. Per potersi fumare una sigaretta, dice. Sarà proprio questa provvidenziale casualità a farlo imbattere nel malintenzionato, prima che questi possa bussare alla porta del Direttore di Libero.

2.. L ’attentatore prova immediatamente ad uccidere l’agente, sparandogli “in faccia” da una distanza ravvicinata. La pistola però s’inceppa, fa “click”, poi il killer scappa. Un’altra provvidenziale casualità. La seconda.

3.. La pistola viene descritta dal miracolato come una “Beretta”, quindi una semiautomatica. Pistola affidabilissima, scelta come arma ufficiale da molti eserciti del mondo, compreso quello italiano. Un proiettile difettoso? Forse, ma le probabilità sono in ogni caso remote.

4. .Spunta anche l’ipotesi pistolagiocattolo, ma i media vicini al Premier sono gli unici a non prenderla nemmeno in considerazione: non ne fanno cenno.

5.. La reazione dell’attentatore alla vista del capo-scorta (sparo in faccia) appare eccessiva, immotivata. Il poliziotto era vestito in borghese, perché ucciderlo? E se fosse stato un normale condomino? Perché non provare a far finta di niente, e risalire tranquillamente le scale? E soprattutto, perché bruciare il vero obiettivo dell’attentato, perché bruciare l’intera operazione?

6.. E ancora: perché l’attentatore non aspetta l’uscita del caposcorta per agire - sarebbe bastato attendere qualche minuto - magari servendosi di un complice, come sempre avviene in questi casi?

7.. La reazione del capo-scorta: dopo aver visto la morte in faccia (una Beretta puntata “ad un millimetro” dal volto, che fa “click”) si getta a terra, o dietro un angolo, poi fa fuoco mirando al killer in fuga. Due colpi, quindi si alza, insegue giù per le scale l’attentatore - un paio di rampe - e spara una terza volta. Poi risale da Belpietro, per vedere che tutto sia apposto. Nessun colpo giunge a segno. La sezione balistica della Questura di Milano sta indagando sulla traiettoria dei proiettili esplosi. Inizialmente si era parlato di “3 colpi in aria”, sparati con il semplice obiettivo di dissuadere il malintenzionato.

8. Gli agenti di scorta sono figure molto preparate, che devono saper fronteggiare qualsiasi situazione di pericolo. In questo caso il poliziotto ha sì messo in fuga l’attentatore, ma non è riuscito a colpirlo da una distanza ravvicinata ed in uno spazio ristretto, dopo aver subito un tentato omicidio. Poi se l’è lasciato scappare, desistendo dall’inseguirlo dopo una manciata di rampe.

9. Sono attimi concitati, fuori è notte, la luce fioca delle scale, a rischio la vita, il criminale in fuga. Tutto avviene in un lampo, ma il capo scorta riesce a descrivere con precisione il tipo di pistola, il volto, l’età, il naso, la carnagione, le pupille, la corporatura, le scarpe, i capelli ingellati e l’abbigliamento del fuggitivo: prima si parla di un uomo vestito da finanziere, poi le ore passano e si scopre che quel tizio aveva i pantaloni di una tuta “tipo adidas”, bianca con righe nere, ed una camicia “grigio-verde con mostrine” che potrebbe ricordare una pettorina della Gdf. Siamo passati da killer professionista sapientemente travestito da finanziere per fregare Belpietro a semplice sgherro di periferia, conciato con qualcosa di verde.

10. In molti già parlano di terrorismo e anni di piombo - apocalittico il tono dei vari Pansa, Feltri, Zurlo, Vespa, Sechi, Farina, Maroni, Capezzone, Cicchitto e tanti altri - ma il fallito attentato non è stato ancora rivendicato. Un po’ insolito.

11. La scientifica ha analizzato scale e garage: nessuna traccia dell’attentatore. Pure le possibili vie di fuga, tra cespugli, mura e siepi alte 2 metri da scavalcare, appaiono immacolate.

12. Un solo testimone. Per ora la quasi totalità della ricostruzione si basa sulle parole dell’agente coinvolto, tale Alessandro M., promosso agente scelto dopo aver sventato un altro possibile attentato. Era il 1995, e la vittima designata il procuratore D’Ambrosio. La dinamica ricorda molto quella avvenuta nel palazzo di Belpietro: anche allora A.M. mise in fuga l’attentatore, ma non riuscì a catturarlo o a colpirlo. Nessun testimone, oltre ad A.M., vide quella scena. Ed i responsabili del tentato omicidio non furono mai individuati.

13. Lo stesso D’Ambrosio afferma: “Mi sembrò strano quell’attentato, in una terribile giornata di pioggia. A. mi disse di non scendere, mi affacciai e vidi soltanto un uomo che parlava con una donna all’interno dell’asilo. Una volta in strada A., bagnato fradicio e in stato di alterazione, mi spiegò che aveva inseguito una persona dentro l’asilo, un uomo armato di fucile che poi aveva saltato un muro ed era scappato su una moto guidata da un complice. L’indagine non approdò poi a nulla. Sinceramente non ci ho mai creduto molto”.

14. Gli investigatori hanno deciso di riascoltare il capo-scorta: nella sua ricostruzione ci sarebbero alcune “incongruenze” (Tg La7, 3.10).

15. L’attentatore è molto probabilmente fuggito dall’uscita secondaria, che dà su Corso Borgonovo (quella principale era presidiata da un agente). D’obbligo quindi imbattersi nella relativa telecamera, o nel custode, che abita proprio lì. Ma nessuno ha notato niente, né l’occhio umano, né quello bionico. Pensate, il custode all’ora X si trovava proprio nel cortile indicato da tutti come unica possibile via di fuga: e di lì non è passata anima viva. Stesso discorso per il portiere di casa-Belpietro: visto o sentito niente. Da dove sia fuggito l’attentatore, rimane un mistero. Da dove sia entrato, pure: nessun condomino ha visto o segnalato qualcosa di strano.

16. Il baccano a quell’ora di sera - erano circa le 23 - ha fatto sobbalzare tutti gli abitanti dell’edificio. In molti si sono precipitati a vedere cosa fosse successo, ma nessuno ha visto l’attentatore in fuga.

17. Casa Belpietro è situata in pieno centro a Milano - vicino allo show room di Armani - ed è circondata da telecamere di ogni genere. Se qualcuno fosse davvero entrato o uscito da quel palazzo, impossibile farla franca, soprattutto a quell’ora di sera, quando la zona è particolarmente calma. Ma gli investigatori hanno già controllato tutte le registrazioni, e vagliato telecamere fino a 4 isolati di distanza: per ora niente, i video sono molti, la risoluzione bassa, e ogni esito è risultato negativo.

18. Un colpevole c’è già. Maurizio Gasparri ha cominciato a seminare infamie sul Procuratore che si occupa del caso, quell’Armando Spataro che ha speso una vita intera a combattere ogni tipo di criminalità organizzata, da quella mafiosa a quella terroristica: “Bisogna togliere l’indagine a Spataro, ed affidarla ad un altro Pm, imparziale ed autorevole: Spataro non lo è”.

19. 4 ottobre: a soli 3 giorni dall’attentato, la notizia scompare dal Giornale. Nada, nemmeno un trafiletto. Stessa cosa per tutti i media vicini al Presidente del Consiglio: come se non fosse successo niente. Ma scusate, non erano tornati gli Anni di Piombo?

20. 5 ottobre: .. sentite che si dice sul Corriere della Sera di oggi: “Gli investigatori non pensano a un’azione studiata da qualche gruppo armato. «Potrebbe essere un Tartaglia armato», dice un detective. Anche se tra i poliziotti circola uno strano convincimento: che l’agente di tutela del direttore di “Libero” si sia inventato tutto»

da http://nonleggerlo.blogspot. com

Egregio Professore, sono un dirigente sindacale della Fiom-Cgil dello stabilimento Giovan Battista Vico di Pomigliano e come tale ho partecipato alla trattativa con Fiat. Mi occupo delle questioni sindacali inerenti lo stabilimento dal 2003 e proprio il 24 aprile 2003 fu siglato un accordo definito «storico», tra la Fiat e tutte i sindacati. Quell’accordo prevedeva 500 milioni di euro di investimenti annuali per quattro anni. Quindi complessivamente 2 miliardi di euro (altro che gli attuali 700 milioni di euro), nuova occupazione per 1500 addetti, la produzione di tutte le nuove vetture Alfa, oltre ad un fuoristrada chiamato Kamal. Dopo due anni la Fiat ci comunicò che quell’accordo non era più valido e delle produzioni previste si persero le tracce, tranne che per l’Alfa 159.

Ho voluto ricordarle quell’accordo perché, a Pomigliano, negli ultimi sette anni, spesso i piani presentati hanno subìto modifiche e ripensamenti. Capisco che siamo in un periodo di cultura critica debole, ma un po’ di dubbi sulle prospettive del piano Fiat Italia e sui risvolti occupazionali non guasterebbe. Holetto, professore, con interesse le molte sue interviste ed i suoi interventi su vari quotidiani nazionali e mi hanno molto colpito i termini che lei usa: sabotaggio, guerriglia giudiziaria, tregua, termini che noi sindacalisti della Fiom, massimalisti e conflittuali,non utilizziamo.

Se poi lei vuole equiparare il diritto di sciopero al sabotaggio, i ricorsi giudiziari alla guerriglia giudiziaria lo può fare, ma deve ammettere che lei utilizza argomenti propri della destra illiberale di questo Paese.

Ma veniamo al motivo principale di questa lettera. Innanzitutto due considerazioni. La prima: lei sostiene che nell’accordo di Pomigliano c’è una clausola di tregua. Una tregua come quella fatta alla Chrysler, negli Usa, da Marchionne con i sindacati. Infatti i sindacati americani non potranno scioperare fino al 2014 per le questioni salariali. Per Pomigliano penso che lei si riferisca alla clausola cosiddetta di responsabilità. Bene, ma la clausola successiva (... la violazione da parte del lavoratore di una delle clausole del presente accordo costituisce infrazione disciplinare...) cosa c’entra con la tregua? E un lavoratore che sciopera per esempio sul 18° turno del sabato incorre o no in un provvedimento disciplinare? Ese incorre in un provvedimento disciplinare c’è o non c’è una violazione dell’art. 40 della Costituzione?

Seconda considerazione: se Non sbaglio, oltre ad essere un famoso professore e giuslavorista lei è anche un parlamentare del Pd e di conseguenza non si può nascondere dietro la «cattedra». È legittimo che lei e alcuni parlamentari del centro-sinistra sosteniate le ragioni dell’impresa e le sue esigenze di flessibilità, ne teniamo conto anche noi nel rapporto con le aziende. Ma non le viene mai in mente che anche i lavoratori hanno delle esigenze. Lasciamo stare i diritti, ma si è chiesto cosa penserà nel 2012 un lavoratore del montaggio di Pomigliano a cui sono stati tolti 10 minuti di pausa e la mensa spostata a fine turno, inserita nello straordinario obbligatorio? Il consenso dei lavoratori per il centro-sinistra e per la sinistra è un problema. Le analisi sul dopo voto non serviranno più perché come diceva mio nonno: «la frittata è già fatta». Per carità niente a che fare con Pavese, Machiavelli e Marx, mio nonno era solo un contadino del sud.

Infine, egregio professore, spero che questa mia lettera non venga intesa come «una tecnica di demonizzazione di chi dissente ». A lei va la mia solidarietà per le continue minacce che ha dovuto subire in questi anni ma tra il capitale e il lavoro oggi ad essere demonizzato è quest’ultimo.

Quando il vicedirettore del Giornale, parlando con l'addetto stampa della presidente Emma Marcegaglia, dice «dobbiamo trovare un accordo perché sennò....», dà l'impressione di voler contrattare la pubblicazione di informazioni (c'è chi le chiama dossier) in cambio di accordi tra il suo giornale e la presidente di Confindustria. Che il giorno prima aveva attaccato il mero proprietario della testata e criticato la campagna del quotidiano di famiglia contro Fini e la casa di Montecarlo.

Quando il giornalista, proseguendo la conversazione, aggiunge «spostati i segugi da Montecarlo a Mantova, adesso ci divertiamo, per venti giorni romperemo il cazzo alla Marcegaglia come pochi al mondo», non abbiamo la sensazione di essere di fronte al Bob Woodward italiano. Quando poi la cronaca rivela che i magistrati di Napoli arrivano alle intercettazioni dei giornalisti del quotidiano milanese mentre indagano su una vicenda di rifiuti tossici di grandi gruppi industriali (tra i quali l'impresa della famiglia Marcegaglia) smaltiti in discariche comuni, sembra di entrare in una scena del film Gomorra.

Di questi «venti giorni» di fuoco del Giornale comunque non si è vista traccia. E' bastata qualche telefonata, su sollecitazione della "vittima", tra i direttori del quotidiano e Confalonieri per sistemare le cose e non disturbare più con certi scherzi la presidente di Confindustria. Tra gentiluomini e gentildonne si usa così.

Il mondo dell'informazione italiana, con le testate più importanti legate a gruppi industriali, non è mai stato un belvedere. L'autonomia dei giornali più che una favola è una vecchia barzelletta. Dietro le quinte del quarto potere si apparecchiano leccornie o piatti avvelenati a seconda della necessità del momento. E questo è uno di quelli in cui la lotta politica avviene a mezzo stampa, con la carta usata come manganello.

Noi non siamo «uomini di mondo» come reciprocamente si autodefiniscono i giornalisti intercettati quando parlano dei rispettivi padroni. Ma questo giornalismo fatto di "inchieste" con il timer incorporato, con la penna che lavora quando l'amico o l'alleato sterza e comincia ad attaccare Berlusconi e il suo governo, non profuma di buono. Ne ci convince la difesa («erano solo frasi scherzose»), il nostro senso dell'umorismo finisce molto prima.

Sarà che siamo di quelli che intendono il giornalismo, anche il foglio più di parte, come un gioco corretto, una piazza dove si discute, di fatti e opinioni, senza suggeritori. E', bisogna saperlo, un'informazione fuori mercato, con un prezzo alto da pagare (il taglio dei fondi dell'editoria lo dimostra). Non avendo pezzi da novanta a coprirci le spalle, né un partito (come del resto altre decine di testate no profit e in cooperativa), è facile metterci il bavaglio definitivo. Combattiamo da soli con i nostri lettori, e nessun Confalonieri a cui telefonare. Sono piaceri che si pagano.

Credo che siamo tutti d´accordo sul fatto che la pubblicità, dopo aver esagerato nel XX secolo, sta invadendo tutti gli spazi nel XXI; non solo con i mega-poster sui monumenti, ma anche per esempio nella Tv e nei giornali. Alla Tv qualsiasi trasmissione è interrotta più volte dalla stessa pubblicità ripetuta all´infinito; prendo un giornale a caso della scorsa settimana e conto 20 piene pagine di pubblicità su 50 totali.

Il Ministero dei Beni culturali, le Soprintendenze e i Provveditorati fanno parte di questo XXI secolo e si inalberano se qualcuno (magari non italiano, vedi l´appello di Norman Foster e alcuni direttori di musei internazionali su la Repubblica, 4 ottobre scorso) arrivando come turista o come studioso a Venezia, a Roma, a Firenze ecc. riesce a vedere dei monumenti più famosi al mondo solo quei frammenti lasciati liberi dai mega-poster. La cosa non piace e gridano e scrivono "Viva i monumenti": ciò dovrebbe fare molto piacere a tutti gli italiani (ministri e direttori di musei compresi e forse per primi).

Ma siamo nel XXI secolo e lo Stato e i Comuni e quant´altri non hanno soldi e hanno bisogno di sponsor e questi in cambio chiedono di nascondere il monumento di cui finanziano restauri o altre opere dietro alla loro mega-pubblicità (ma che bisogno ne ha a Venezia sul Palazzo Ducale, la bibita più venduta al mondo da quasi un secolo?).

Ci sono dei casi paradossali: a Roma la chiesa di S. Maria di Loreto (XVI secolo tra piazza Venezia e la colonna di Traiano) aveva il suo fianco coperto da una esedra arborea: tagliati i grandi pini per il cantiere di una metropolitana, si è visto finalmente il suo fianco (Jacopo Del Duca, 1573-1576). Ma è stato subito coperto completamente da un gigantesco mega-poster. Dato che anche Palazzo Venezia era nascosto dietro una impalcatura con disegnato il prospetto dell´edificio con sopra due mega-poster (pubblicità Campionati di calcio 2010!) per molti mesi i romani e i turisti furono completamente privati dell´ambiente consueto in uno dei centri più frequentati e più noti.

È ancora completamente coperta la facciata di S. Andrea della Valle (Maderno, Fontana, Rainaldi, metà Seicento) e il suo mega-poster si vede fin dal fondo di corso del Rinascimento: fa la pubblicità ad una grande società pubblica per cui paradossalmente e con qualche complicazione, il suo bilancio di sponsor viaggia accanto a quello dello Stato, cioè dello sponsorizzato.

Non è solo lo Stato italiano a nascondere i suoi monumenti e la sua storia: lo scandalo forse maggiore spetta al Vaticano. La testata e alcuni tratti del porticato di sinistra di piazza S. Pietro sono da tempo coperti totalmente: sui teli di plastica che coprono l´impalcatura è ridisegnata la sagoma dell´opera di Bernini, interrotta da vari mega-schermi su cui viene proiettata molta roba (non solo pubblicitaria). La cultura, la storia e tutte le loro presenze sono la ragione fondamentale per cui Venezia, Roma, Firenze ecc. sono città essenziali per i cittadini, per l´Italia, per l´Europa e non solo. Trovino lo Stato, i Comuni ecc. i mezzi per cessare di essere succubi della pubblicità. (Magari dando seguito alle iniziative promosse dalla Fondazione Veronesi in preparazione del convegno mondiale di Science for Peace, Milano 19-20 novembre, per ridurre le spese militari: la nostra Costituzione e la Carta dell´Onu dicono chiaramente no alla guerra e quindi sì alla Pace).

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