UN PASSO AVANTI
di Valentino Parlato
Questo governo si può battere. Ieri il grande movimento di giovani e studenti (sembra ai più vecchi di rivivere il '68, ma i ragazzi, i ricercatori, la condizione precaria di oggi sono un'altra cosa) ha ottenuto una straordinaria vittoria. Il voto al senato sulla legge Gelmini, che il ministro chiedeva di svolgere subito, è invece stato rinviato a dopo il voto di fiducia fissato per il 14 dicembre. Questo governo, arrogante e prepotente, non se l'è sentita di andare al voto di fiducia, in scontro frontale con il movimento.
E che lo scontro non fosse da poco, e pericoloso per il governo, lo aveva capito anche il Corsera, quando il giorno del voto alla camera aveva titolato in prima pagina «Sì alla riforma tra proteste e scontri». Le proteste e gli scontri hanno pesato sul clima generale e consigliato il governo a cambiare l'agenda facendo un passo indietro.
Naturalmente se avrà la fiducia tornerà all'attacco e il senato approverà la controriforma Gelmini, questo è sicuro, ma dovrà pensare ai guai suoi. Intanto già una mozione di sfiducia è stata presentata da parte di Fini, Casini, Rutelli e anche dal partito siciliano di Raffaele Lombardo. Un atto politico di rottura, seguito dalla richiesta al presidente del consiglio si farsi da parte senza attendere il voto dell'aula.
Certo la situazione generale non è buona, mi viene da ripetere una frase scritta sulla copertina del più recente libro di Marco Revelli: «La nostra presunta modernizzazione è un piano inclinato verso la fragilità e l'arretratezza».
I giovani hanno preso coscienza di questo piano inclinato, nel quale anche lo spazio per i favori e le raccomandazioni è sempre più ristretto e sempre più costoso in termini di dignità e rispetto di sé.
C'è la ribellione, sui tetti e nelle piazze, ma soprattutto c'è la coscienza che così non si può andare avanti, che bisogna cambiare e si può cambiare. In questo scontro decisivo il nostro-vostro manifesto è da tempo in prima linea. Questo dicono i nostri editoriali dei giorni scorsi. Questa possibile svolta, lo ripetiamo, ha la data del 16 ottobre, la grande, e piena di contenuti culturali e politici, manifestazione della Fiom, degli operai che muovono l'industria italiana.
Insomma «ci sono - come ha scritto ieri Campetti - braccia e teste per scrivere un'altra storia». E a testimonianza di questa emergente realtà per il 14 dicembre, quando al parlamento, si voterà per tentare di mandare a casa (in quali delle sue tante residenze?) Silvio Berlusconi, piazza del Parlamento sarà invasa da una massa di giovani, studenti, lavoratori, precari e disoccupati che peseranno assai più dei Fini e dei Casini.
Il 14 dicembre, se ci impegnamo nelle scuole, tra i giovani, nei luoghi di lavoro può essere una giornata di vera svolta e una svolta di popolo. Impegnamoci. I prossimi dieci giorni sono di straordinaria importanza.
WALTER TOCCI - Il ddl? Un monstre burocratico
«Il Pd si è mosso tardi, ma segna una vittoria»
intervista di Daniela Preziosi
«Intanto lasciatemi dire che quella del senato è una bella vittoria. Abbiamo, per ora, fermato la legge Gelmini. Merito di un grande movimento di studenti, ricercatori e professori che, e questo è finalmente un bel fatto nuovo, si è dato la mano con l'opposizione parlamentare. E stavolta il Pd ha dispiegato tutta la sua forza di opposizione, dai gruppi parlamentari ai leader, Franceschini e Bersani alla Camera, Finocchiaro al Senato». Walter Tocci, deputato democratico, già vicesindaco di Roma e oggi direttore del Centro riforma dello stato, è stato fra quelli che, alla Camera, hanno condotto la battaglia contro la Gelmini. Che ieri è stata fermata, per ora, al Senato.
La battaglia in parlamento è stata serrata. Eppure il Pd non si è mobilitato dall'inizio. Vi siete accorti in ritardo dei guasti della riforma?
Forse qualcuno, sia nel mondo dell'accademia che in quello della politica, all'inizio ha sottovalutato l'intenzione distruttiva della manovra governativa. Se invece debbo fare una riflessione più generale, posso dire che questa legge proviene da una mentalità dominante, e sbagliata, che negli scorsi anni ha coinvolto anche la sinistra. Si è legiferato ogni anno sull'università, raggiungendo un apparato che sfiora le 1500 leggi in vigore. Ora quest'ultima porta all'esasperazione il modello burocratico dell'università. Altre 170 norme, che diventeranno più di 500 con le deleghe e richiederanno mille regolamenti attuativi.
È la meritocrazia, dice la ministra. E chi va in piazza difende i baroni.
Bugie e propaganda. È ampio il consenso fra le burocrazie accademiche. A protestare sono invece ricercatori che non hanno gestito concorsi, né creato nuove sedi, né amministrato i bilanci. Questa legge non suscita competizione né promuove sperimentazioni. Il ministro ha bloccato le attività di valutazione: non basteranno tre anni per mettere in funzione l'agenzia nazionale (Anvur, ndr), e non si capisce perché nelle more non viene mantenuto il vecchio comitato (Civr, ndr). Anzi, si capisce: perché la meritocrazia delle chiacchiere non scontenta nessuno. Infatti i principali sostenitori del ddl sono le burocrazie accademiche che fin qui hanno gestito l'università e adesso vedono la possibilità di continuare a farlo.
Uno dei punti cardine della propaganda di Gelmini è l'ingresso dei privati nei cda degli atenei.
E questa o è una una banalità o è un pericolo. Dipende da chi li nomina, ma guarda caso, nella legge non si dice. Se la nomina è interna, serve solo a rafforzare il potere del rettore. Se è esterna, il rischio è forte. Anche negli anni 70 per ridimensionare l'autoreferenzialità della classe medica si inventarono le Asl. La peggiore università e la peggiore politica sono due energie che vanno subito in risonanza e tendono a esaltarsi a vicenda.
A proposito, arrivano i regali di Natale per i diplomifici amici del premier.
C'è una bozza di decreto inviata dal ministro alla Crui. Una disposizione grave, che consentirebbe al Cepu di entrare nel sistema pubblico, tramite la trasformazione della sua telematica E-Campus in università non statale autorizzata a svolgere didattica anche frontale. Insomma il Cepu assume lo stesso rango della Bocconi, della Cattolica o della Luiss. Abbiamo chiesto in ogni modo un impegno a ritirare la bozza. Non è arrivato. Sono i saldi di fine stagione di un governo che sa di essere agli sgoccioli. Fra l'altro, per puro intento speculativo, la Lum ha sede in un supermercato di Bari. C'è un altro aspetto molto grave, su cui alcuni rettori che ora chiedono l'immediato voto al senato, dovrebbero riflettere meglio. C'è un comma finale che in sostanza introduce il commissariamento del ministro dell'Università che deve 'monitorare' e 'riferire' a quello dell'economia, che sposta i fondi a suo piacimento. Un testo così non si può chiamare neanche legge, è una doppia ordinanza di commissariamento: gli atenei sotto il controllo del ministero dell'Università e questo sotto il controllo dell'Economia. Nel secolo appena iniziato le università più innovative giocano le proprie carte nella dimensione internazionale e in quella territoriale, guardano sempre meno alla dimensione statale. Solo da noi si torna al centralismo burocratico.
Il ministro Tremonti ha giustificato la mancanza di investimenti sostenendo «che non si mangia il panino con la Divina Commedia».
Dieci anni fa profetizzava che la Cina ci avrebbe superato nella produzione di magliette e invece oggi la Cina investe in ricerca molto più dell'Europa. Il capo del governo poi si è chiesto 'perché dovremmo pagare gli scienziati se facciamo le più belle scarpe del mondo'. Se questo pensa chi ci governa, si capisce meglio perché si è fermata la crescita italiana. Anche nel settore delle belle scarpe, fra l'altro. Da venti anni sono in corso formidabili rivoluzioni conoscitive e tecnologiche nella scienza della vita. L'Italia non ha strategia. Il paese rischia di mancare la transizione dalla società industriale a quella della conoscenza e di uscirne più povero di saperi. Non è stato sempre così. Nel miracolo economico i nostri padri seppero giocare da protagonisti nel passaggio alla società industriale e colsero formidabili successi: la plastica di Natta, il primo grande computer prima degli americani, il primo satellite spaziale europeo, la scuola di fisica di livello mondiale, e poi cinema e letteratura. Tutto ciò in un paese quasi analfabeta e distrutto da una guerra. Oggi non riusciamo a fare un balzo in avanti della stessa portata? Nei nostri atenei ci sono scienziati che nonostante le difficoltà tengono il passo. Nei laboratori europei e americani ci sono colonie di italiani che primeggiano. E anche nei nostri dipartimenti ci sono giovani che ottengono il riconoscimento dalle comunità scientifiche internazionali, ma non dal nostro sistema amministrativo. Sono i ricercatori saliti sui tetti delle loro università. Il governo li ha dipinti come dei mangiapane a tradimento. E poi ha tentato di blandirli con qualche concessione corporativa.
Il Pdl vuole il sì finale entro l'anno. Alcuni rettori, insieme alla ministra, sostengono che in caso contrario ci sarebbe la paralisi degli atenei. Bloccati i posti da ricercatore, gli scatti di stipendio, i nuovi concorsi.
È tutto il contrario. Una volta approvata, la legge richiede moltissimi regolamenti governativi, e se il governo non c'è, allora sì che ci sarebbe la paralisi. Finché invece non sarà approvata, vige la vecchia legge. I provvedimenti urgenti, nel caso, potranno essere inseriti in un milleproroghe di fine anno, e lo può fare anche un esecutivo dimissionario. Se ci sarà un nuovo governo proporremmo di ritirare il testo, per discutere un provvedimento sobrio con pochi punti davvero prioritari: valutazione, finanziamento, accesso dei giovani e diritto allo studio.
La prima pagina del New York Times del 1° dicembre portava la stessa fotografia della prima pagina di Repubblica: quella che riprende lo scontro tra gli studenti di Bologna e la polizia. la foto a colori lascia intravedere del sangue sullo scudo di un poliziotto. Segno di una tensione non epidermica. In diversi Paesi europei questi mesi autunnali sono stati segnati da proteste e manifestazioni che hanno visto come protagonisti gli studenti. In Francia come in Grecia o in Spagna e in Inghilterra. L´Italia segue a ruota. In tutti i casi l´elemento centrale dei movimenti è stata la denuncia di riforme che minano alla radice il futuro vicino e remoto dei giovani. Lo minano in due sensi: perché mettono in discussione l´eguale opportunità di avere una formazione qualificata, riducendo con ciò le possibilità dei giovani di competere per un´occupazione che non sia un lavoro quale che sia per un misero salario; e perché mettono a repentaglio la solidarietà intergenerazionale (cosa che è già iniziata nel nostro Paese) con proposte di riforma della previdenza che penalizzeranno coloro che ne dovranno usufruire in futuro.
Queste politiche sono evidentemente indirizzate a colpire i giovani; ma, ed è importante osservarlo, non tutti allo stesso modo. Penalizzano la generalità dei giovani perché intaccano il sistema delle eguali opportunità e quello della solidarietà; una penalizzazione selettiva, dunque, e che crea le condizioni per una trasformazione in senso meno democratico della società di domani. Coloro che oggi riusciranno ad acquisire una migliore formazione saranno più avvantaggiati domani e quindi anche in minor bisogno di una previdenza pubblica. Sono allora due i piani dei tagli: da un lato smantellano lo stato sociale, dall´altro intaccano radicalmente le eguali opportunità. Circa il primo dei due piani, pare evidente che esso comincia in quei settori della società nei quali è più necessario l´impegno pubblico: per coloro che devono prepararsi alla vita e per coloro che non sono più nel ciclo produttivo. La difesa del legame giovani/anziani (che un´astuta regia cerca di recidere con l´argomento del "largo ai giovani") è quindi cruciale. In Francia più che altrove gli studenti hanno dimostrato di comprendere la portata di questo legame aderendo in massa alle proteste contro la riforma delle pensioni.
L´altro piano dei tagli ha preso di mira un esito più direttamente antidemocratico: la riduzione delle eguali opportunità. E veniamo così alle disastrose politiche scolastiche che i governi, soprattutto quelli conservatori, stanno intraprendendo con più o meno accanimento e radicalità un po´ dovunque - ma l´Italia e la Gran Bretagna sono all´avanguardia. Nella migliore tradizione inglese, gli studenti della più prestigiosa università europea, Cambridge, stanno facendo circolare una petizione fra docenti e studenti di tutto il mondo per chiedere sostegno alla loro denuncia del provvedimento con il quale il governo inglese ha deciso aumenti ragguardevoli delle tasse di iscrizione e un taglio altrettanto ragguardevole dei finanziamenti alla formazione. Il gioco è ironico nella sua feroce ingiustizia: più soldi per iscriversi all´università con la prospettiva di ricevere meno servizi per la ricerca. Un´incongruenza che merita una petizione e che ha provocato anche molte manifestazioni in quasi tutte le università britanniche. Sono due le accuse mosse dagli studenti cantabrigensi. La prima (simile a quella che rivolgono gli studenti italiani al loro governo) è di voler privatizzare il sistema universitario e di servirsi proprio dei soldi degli studenti e delle loro famiglie per farlo! La seconda accusa è di avviare una trasformazione aziendalista dell´alta educazione (lo stesso sta succedendo da noi, come ha ben spiegato su questo giornale Carlo Galli), con la conseguenza di creare amministrazioni d´ateneo meno attente alle ragioni educative che a quelle di badget.
Un segno dei tempi in un´Europa sempre meno sicura di voler essere sociale. Un fatto che indica un mutamento molto esplicito di indirizzo generale poiché, come scrivono gli studenti di Cambridge, il governo persegue con sistematica determinazione una politica di diseguaglianza: rendendo l´accesso a questa grande università di élite regolato meno dal merito e più dalle possibilità economiche. La strada verso il privilegio è segnata. Sarebbe dunque miope pensare che le manifestazioni degli studenti siano un segno irrazionale di resistenza a riforme giuste perché fatte all´insegna della qualità e del rigore: a Cambridge non si può certo imputare di avere un sistema di reclutamento che incentiva baronie e genera sprechi senza produrre merito. Eppure a Cambridge come nelle università italiane la politica dei governi è la stessa: parla la lingua dei tagli alle eguali opportunità. Dietro alle argomentazioni altisonanti della ministra Gelmini, come dietro a quelle del suo collega britannico, si annida un´unica logica che il contesto locale non fa vedere bene (da noi le riforme cercano credibilità presentandosi come restauratrici del merito): legare i giovani al destino della classe sociale alla quale appartengono le loro famiglie, togliendo loro la possibilità di provare se stessi. Queste riforme non sono solo ingiuste; esse sono anche improvvide perché penalizzando all´origine chi ha meno possibilità economiche, questi paesi si privano della possibilità di avere una futura generazione di migliori. Non c´è scampo: ogni logica antiegualitaria nel campo dell´educazione è alla fine dei conti una logica che favorisce il privilegio. Essere per sorte venuti al mondo in una famiglia invece che in un´altra non dice nulla sulle proprie potenzialità. Il taglio sulle eguali opportunità educative è un taglio sul merito.
Di fronte ad una crisi reale del settore edile, 250 mila posti di lavoro persi in due anni, è naturale che i sindacati manifestino contro il governo. Devono difendere il proprio insediamento sociale e quindi hanno chiesto che le amministrazioni pubbliche paghino finalmente le imprese che da anni hanno maturato crediti.
Che di fronte a questa insostenibile situazione protesti anche l'Ance, associazione nazionale dei costruttori edili, è altrettanto sacrosanto: difendere le imprese rientra nel suo compito istituzionale. Non è dunque sulla manifestazione davanti alla Camera dei Deputati che si possono avere perplessità. È sul merito della proposta, o meglio sull'ambiguità e sulla genericità delle proposte che è doveroso interrogarsi.
Afferma il presidente dei costruttori nazionali che il governo «deve rimettere al centro l'edilizia». E quando mai, viene da chiedersi, l'edilizia non è stata al centro dei pensieri dei governi degli ultimi venti anni? Dai primi anni '90 è stata abolita qualsiasi regola urbanistica proprio perchè l'Ance affermava che era il mercato che doveva regolare lo sviluppo delle città. Ai piani urbanistici pubblici è stato sostituito l'accordo di programma privato: da allora proprietari fondiari e costruttori hanno potuto fare tutto ciò che volevano.
La «centralità dell'edilizia» di questi anni è stata misurata da Nomisma, Cresme e Istat: si è costruito a ritmi pressochè uguali a quelli degli anni del boom edilizio. Non è un problema soltanto italiano. Nell'inserto economico di lunedì scorso de la Repubblica, Marcello De Cecco individuava nel laissez faire in materia urbanistica uno dei più importanti elementi che hanno permesso la tumultuosa crescita economica dell'Irlanda e l'altrettanto rapida crisi di questi giorni.
La genericità delle parole d'ordine della manifestazione di ieri è dunque comprensibile. Il «mercato» senza regole non ha risolto ma aggravato la crisi delle città: le periferie si espandono senza fine e i cittadini hanno sempre meno servizi.
Per ridare spinta al comparto edile bisogna soltanto voltare pagina. Tornare a programmare e utilizzare al meglio i soldi pubblici. Non è vero infatti che «non ci sono». È che vengono spesi soltanto in grandi opere privilegiando pochi cartelli di impresa. Occorre invece finanziare gli interventi di riqualificazione urbana senza consumare altro suolo agricolo, tagliando così, siamo l'unico paese europeo a non controllarla, la rendita parassitaria che toglie risorse economiche preziose all'economia italiana: nello sviluppo distorto di questi venti anni ha guadagnato la rendita fondiaria e non le imprese produttive.
Per uscire dalla crisi occorre dare segnale nuovi, non si può continuare con il gioco devastante di una crescita urbana senza fine e con la cultura delle grandi opere. Che questa richiesta non sia venuta dall'Ance non stupisce più di tanto: questo sviluppo distorto ha fatto comodo a molti degli associati. Che sia stata taciuta dal sindacato è invece un brutto segnale di incapacità a farsi carico degli interessi di tutti contrapponendoli a quelli di pochi.
Il governo chiude la Camera per paura di dovere affrontare la crisi politica. In un solo colpo evitate le mozioni di sfiducia per il ministro Bondi e quella per il pluralismo della Rai presentata da Fli.
«Chiuso in attesa di (s)fiducia». Questo l’immaginario cartello che da oggi pomeriggio potrebbe essere appeso all’ingresso di Montecitorio. Ieri la capigruppo della Camera, infatti, ha deciso di chiudere i battenti fino a lunedì 13 dicembre, quando inizierà la discussione della mozione dei sfiducia a Berlusconi presentata da Pd e Idv. Una decisione fortemente sponsorizzata dal Pdl e dalla Lega, cui si sono uniti i finiani. Mentre le opposizioni si sono dette decisamente contrarie. La Grande Paura di Berlusconi dunque congela la Camera per altri dieci giorni, dopo che in questi due anni il governo ha praticamente svuotato il Parlamento, a colpi di decreti e voti di fiducia. Ma questo stop, che viene fatto passare come qualcosa di normale, complice anche il ponte dell’Immacolata, non arriva per caso. La settimana prossima la maggioranza avrebbe traballato almeno due volte, con due voti assai pericolosi: la mozione di sfiducia contro Bondi, presentata da Pd e Idv, e quella dei finiani sul pluralismo in Rai. Due sconfitte quasi certe, per Berlusconi. E allora Cicchitto ha chiesto e ottenuto di chiudere i battenti. Sperando forse che una settimana di pausa possa servire a raggranellare qualche deputato utile alla causa del Cavaliere.
Anche Calderoli rischiava. Si sarebbe dovuta votare anche la mozione Idv che chiede il ritiro delle deleghe al ministro “taglialeggi”, reo di aver tagliato anche la norma che faceva rischiare la galera a 36 camicie verdi rinviate a giudizio per associazione di carattere militare. «Sarebbe stato opportuno mantenere il calendario già fissato», ha protestato il capogruppo Pd Franceschini. E Bondi? «Ritengo che per la sera del 14 non sarà più ministro», ha ironizzato. E Di Pietro: «È scandaloso che la Camera non lavori la settimana prossima ». «In un momento di crisi economica di questa portata, i deputati si concedono il lusso di una settimana di ferie a spese dei contribuenti », ha proseguito il leader Idv. «Un vero schiaffo a chi lavora e a chi un lavoro non ce l’ha a causa dell’incapacità di questo esecutivo ». Ma è stato il moderato Gian Luca Galletti, numero due del gruppo Udc, l’unico a citare la vera ragione della chiusura: «Nel Pdl c’è troppa preoccupazione ad affrontare la Camera, è un errore, non bisogna avere paura del Parlamento ». Quanto a Fli, tutto fa pensare che abbiano voluto sgombrare il campo da ulteriori incidenti fino al 14. «È positivo che il terreno rimanga sgombro fino a un atto squisitamente politico come la mozione di sfiducia, che chiarirà in modo definitivo il quadro politico », spiega Carmelo Briguglio.
Niente tregua, dunque. Solo un rinvio delle ostilità. Ma il Pd non è soddisfatto. In calendario c’era anche una mozione sul fisco di Bersani e ieri Franceschini alla capigruppo una seduta straordinaria della Camera il 9 dicembre per discutere sulla riunione dell’Ecofin prevista per il 14: niente da fare. «Una decisione che stupisce, un altro atto di scadimento di questo Parlamento », dice il vicecapogruppo del Pd al Senato Luigi Zanda. «Stento a credere che Montecitorio blocchi i lavori fino al 14 dicembre. Dà il senso di una politica ferma, impigrita, chiusa su se stessa », protesta il sindaco di Firenze Matteo Renzi. «Che fanno i parlamentari da qui al 14? Vanno in ferie? Fanno il mercato delle vacche sul voto di fiducia? Peccato. Complimenti ai piccoli genietti che hanno preso questa decisione, un gigantesco spot per chi detesta la politica. E i politici...». «Ma in che paese siamo?», protesta Orazio Licandro della Federazione della Sinistra. «La crisi sta subendo una drammatica accelerazione, e il Parlamento chiude? Spero che il Capo dello Stato faccia sentire la sua voce». Calderoli, e soprattutto Bondi, tirano un sospiro di sollievo. DopoScajola, Brancher e il sottosegretario Cosentino, non subiranno l’onta di cadere come altri “birilli”. Se cadranno, lo faranno insieme a Berlusconi.
La Corte dei Conti 'boccia', nella sua relazione appena trasmessa alle Camere, gli appalti secretati i cui atti sono stati consegnati alla magistratura contabile per i dovuti controlli tra il 2005-2007. Le dichiarazioni di secretazione, scrivono i magistrati, ''nella quasi totalita' dei casi sono espresse in termini generici e spesso manca ogni riferimento ai requisiti di indifferibilita' ed urgenza''. In piu' negli interventi, spesso realizzati ''con enormi ritardi'', si riscontrano non poche ''anomaliè. Le opere esaminate dalla Corte riguardano per lo piu' i ministeri dell'Interno e della Difesa con riferimento al Corpo dei Vigili del fuoco e all'arma dei Carabinieri. Secondo le norme vigenti, si legge nella relazione della Corte dei Conti, gli appalti potrebbero essere coperti da segreto (e quindi derogare alle disposizioni sugli appalti pubblici) solo nei casi in cui siano richieste ''misure speciali di sicurezza e segretezza'' o quando lo esiga ''la protezione degli interessi essenziali della sicurezza dello Stato''. In piu', si ricorda, si dovrebbe trattare sempre di opere ''dichiarate indifferibili ed urgenti'': circostanza questa che dovrebbe venire ''adeguatamente motivata''. La richiesta, infine, dovrebbe arrivare dalle autorita' apicali, ad esempio i ministri, e non da ''personale dirigentè' vario.
La denuncia. Ora, denunciano le toghe contabili, quasi tutte le opere passate sotto il loro vaglio non rispondono a tali requisiti. ''Nella quasi totalita' dei casi - si legge - la dichiarazione di secretazione è espressa in termini generici e, spesso, manca ogni riferimento ai requisiti di indifferibilita' ed urgenza senza contare, con riferimento a questi ultimi, che non sono rari i casi di opere considerate (anche se in modo generico) urgenti e indifferibili affidate con notevole ritardo o la cui realizzazione si è protratta nel tempo''. ''Fatti questi - aggiungono i magistrati - che si pongono in palese contrasto con l'asserita presenza dei requisiti medesimi''. La Scuola per marescialli dei Carabinieri di Firenze, ad esempio (al centro della vicenda giudiziaria che ha visto coinvolto anche il coordinatore Pdl Denis Verdini ndr), non è ancora ultimata ''a 13 anni dall'iniziale protocollo d'intesa''. Ulteriori ''riscontri negativi'', osservano i giudici contabili, si ravvisano nei ritardi di realizzazione delle opere e nel pagamento delle penali.
Forte divario. Per queste, si legge nella Relazione, si riscontra ''un forte divario'' tra gli importi stabiliti in sede contrattuale e quelli pagati davvero. La cifra in alcuni casi è oscillata tra l'1 e lo 0,7 per mille. In tutti i casi, infine, gli appalti sono stati dati o con assegnazione diretta o con gara informale, piu' trattativa privata. Ma la Corte dei Conti lamenta anche ritardi ed errori nella consegna della documentazione necessaria per il controllo contabile e indicazioni errate degli importi di spesa. Sempre per quanto riguarda la Scuola dei marescialli dei Carabinieri di Firenze, ad esempio, è stata indicata, nella conversione in euro di circa 10 miliardi di lire (10.561.647.502), la cifra di circa 545 mila euro (545.635,71), invece che di oltre cinque milioni (5.454.635,70). Tali errori, che potrebbero sembrare semplici sviste, sottolineano i magistrati, ''potrebbero indurre in ulteriori errori nelle fasi successive dei procedimenti''.
Appello alle amministrazioni. Nella relazione della Corte dei Conti si rivolge dunque un appello alle varie amministrazioni affinchè (perchè ci siano ''positive ricadute sulla trasparenza dell'azione amministrativa'') i provvedimenti di secretazione siano sempre ''adeguatamente motivati'' e nel rispetto delle legge; che in fase di programmazione ''siano dettagliatamente indicate e descritte le opere da eseguir”; che per ''le varianti in corso d'opera si adotti un nuovo provvedimento di secretazione quando le stesse non rientrino nelle ipotesi previste dalla leggè'. Molte variazioni d'opera, infatti, lamentano sempre i giudici, sono state fatte rientrare nella richiesta di secretazione del progetto iniziale pur richiedendone una autonoma.
Barbara Spinelli Chi ha paura della glasnost
Solo chi ha un´idea cupa dell´informazione indipendente, e paventa persecuzioni non appena se la trova davanti, e per di più nulla sa della rivoluzione in corso nell´universo dei blog, può parlare, come il ministro Frattini, di un 11 settembre della diplomazia scatenato da WikiLeaks contro il mondo bello, composto e civile nel quale siamo supposti vivere. Solo chi fantastica planetarie offensive contro le notizie che da tempo circolano senza confini può credere che al caos comunicativo si debba rispondere, come negli attentati del 2001, con una bellicosa e «compatta alleanza: senza commentare, senza retrocedere sul metodo della diplomazia, senza lasciarsi andare a crisi di sfiducia». WikiLeaks non è una cellula terrorista e il suo fondatore, Julian Assange, è magari indagato per violenza privata ma comunque non è un uomo che – la fine osservazione è del ministro – «vuol distruggere il mondo». Alla mutazione mediatica nata prima di lui non si replica con un globale schieramento, per «continuare a far vivere un metodo della diplomazia» che ha fatto disastri.
Mettere insieme in una battaglia contro Internet Roma e Mosca, Berlino e Kabul prefigura il Brave New World di Huxley, fatto di gente china e sedata dalla droga, il «soma» che rilassandoti uccide ogni critica. Più che un´utopia: una distopia. Il mostro tanto temuto è la glasnost che d´un tratto irrompe in una zona politica non solo opaca ma sommamente inefficace: la diplomazia, il più chiuso dei recinti, dove il segreto, non sempre immotivatamente, è re. La glasnost è una corrente sotterranea potente, non un breve tumulto come fu Al Qaeda, e l´unica cosa da dire è: la politica ancora non sa fronteggiarla, organizzandosi in modo da disgiungere il segreto indispensabile dal superfluo. Se quello necessario viene alla luce è sua colpa, non di WikiLeaks. In realtà i 250.000 cabli non sono affatto top secret. Sono consultabili da ben 3 milioni di funzionari americani, e disponibili in siti interni al ministero della difesa Usa (Siprnet). Nella globale ragnatela Internet le fughe di notizie (i leaks) sono inevitabili. Scrive Simon Jenkins, sul Guardian: «Un segreto elettronico è una contraddizione in termini».
Nei paesi democratici, dove l´informazione indipendente esiste, il diplomatico è alle prese con una trasparenza non di rado ostacolata come in Italia, ma tangibile. Non è cancellata dalle ghignanti foto di gruppo dei vertici internazionali, che s´accampano monotoni su giornali e tv. Gli ambasciatori a Roma o Parigi raccontano quel che leggono nei giornali più liberi, che apprendono dai blog, che ascoltano da chi non nasconde il vero.
Si dice: «Ce n´è per tutti», nei dispacci. Per il Cancelliere tedesco, il regno britannico, l´Eliseo, oltre che per Roma. Nulla di più falso. Se la Merkel appare «refrattaria al rischio e poco creativa», Berlusconi «suscita a Washington sfiducia profonda»: è «vanitoso, stanco da troppi festini, incapace come moderno leader europeo». Inoltre «sembra il portavoce di Putin in Europa». Un abisso separa i due leader. Resta che nelle democrazie le rivelazioni non sono fulmini che squarciano cieli tersi, neanche da noi. I diplomatici Usa comunicano quello che da 16 anni gli italiani hanno sotto gli occhi, sempre che non se li bendino per vivere in bolle illusorie e ingurgitare «soma televisivo». Sanno dei festini in dimore private spacciate per pubbliche. Sanno che Berlusconi coltiva con Putin rapporti personali torbidi, lucrosi, di cui non rende conto né all´Europa né al popolo che pure tanto s´affanna a definire sovrano. Non c´è bisogno di WikiLeaks per conoscere la pasta di cui son fatti i governanti, per capire lo scredito internazionale che non da oggi li colpisce, per allontanarli dal potere che democraticamente hanno occupato, e poco democraticamente esercitato.
Non così lì dove non c´è democrazia e nelle aree di crisi, nonostante le verità siano in larga parte note anche qui, a chi voglia davvero sapere. Non c´è praticamente notizia che i blog non dicano da anni ( Tom Dispatch, Antiwar. com, Commondreams, Counterpunch, e in Italia, nel 2005-2010, Contropagina di Franco Continolo).
L´altra cosa che va detta è che gli ambasciatori che divulgano informative non sono sempre di qualità eccellente, e forse anche questo, in America, crea imbarazzo. Nelle aree critiche – Italia compresa, dove gli equilibri democratici vacillano – non hanno idee meticolosamente maturate, né si azzardano in analitici suggerimenti e prognosi. Fotografano l´esistente, sono figli essi stessi di Internet, tagliano e incollano schegge di verità senza osare approfondimenti. Nulla hanno in comune, ad esempio, con l´immensa ricerca in cui si sobbarcò George Kennan nel ´44-46, lavorando per la missione Usa a Mosca. Il «lungo telegramma», che inviò nel febbraio ´46 al Segretario di Stato James Bynes, descrive la natura oscura del sistema sovietico: le sue forze, le fragilità, il suo nevrotico bisogno di un mondo ostile. Ne scaturì l´articolo scritto nel luglio ´47 su Foreign Affairs, firmato X: fondamento di una politica (il containment) che per decenni pervase la guerra fredda senza infiammarla.
Nulla di analogo nei dispacci odierni, ma messaggi raccogliticci, frammentari, pericolosi infine per le fonti, nei paesi a rischio. Non la forza americana è esposta alla luce, ma la sua inconsistenza. Non un impero nudo, ma una finzione d´impero che addirittura usa i propri diplomatici – colmo di insipienza e mala educazione da parte di Hillary Clinton – come spie all´Onu. L´occhio Usa non scruta il lontano ma l´oggi, sposando non pochi luoghi comuni locali. La glasnost online sbugiarda questo modo di scrutare, e non è male che avvenga. Fa vedere l´impotenza, l´approssimazione, l´inefficacia americana. Inefficacia pur sempre limitata, perché i dispacci non paiono contaminati dai conformismi di tanti commentatori italiani: difficile trovare accenni, nei cabli, alla «rivoluzione liberale» o all´epifanico ruolo di Berlusconi nelle crisi mondiali.
Il vero scandalo è lo spavento che tutto questo suscita, lo sbigottimento davanti a notizie spesso banali, solo a tratti rivelatrici (è il caso, forse, del nesso stretto Nord Corea-Iran), l´imperizia Usa nel tutelare confidenze e confidenti. Ora si vorrebbe fare come se nulla fosse, «tener viva la diplomazia» così com´è: ottusamente arcana, lontana dallo sguardo dei cittadini. Ma quale diplomazia? Nel caso italiano una diplomazia chiamata commerciale dal governo perché essenzialmente fa affari, e all´estero riscuote in realtà «sfiducia profonda».
Dicono che Berlusconi si sia fatto una gran risata, non appena letti i dispacci. Forse ha capito più cose di Frattini, perché lui la diplomazia classica l´ha già distrutta. E non solo la diplomazia ma l´informazione indipendente, e in Europa la solidarietà energetica. Forse ride delle banalità diffuse da WikiLeaks. Forse intuisce che se si parlerà molto di festini, poco si parlerà di conflitto d´interessi, controllo dei media, mafia. È il limite di Assange, enorme: avrà minato la fiducia nella diplomazia Usa, senza dare informazioni autenticamente nuove (la più calzante parodia del cosiddetto 11 settembre di Assange l´ho trovata su un sito di cinefili: http://ealcinemavaccitu. blogspot. com).
Resta la sfida alla stampa: sfida al tempo stesso ominosa e straordinariamente promettente. È vero: nel medio-lungo periodo crescerà il numero di chi si informerà su Internet, più che sui giornali cartacei. Ma da quest´avventura la stampa esce come attore principe, insostituibile: messa di fronte ai 250 milioni di parole sparse come polvere sugli schermi WikiLeaks, è lei a fare la selezione, a stabilire gerarchie, a rendere intelligibile quello che altrimenti resta inintelligibile caos, ad assumersi responsabilità civili contattando le autorità politiche e nascondendo il nome di fonti esposte dai leaks a massimi rischi. Alla rivoluzione mediatica ci si prepara combinando quel che è flusso (Internet) e quel che argina il flusso dandogli ordine (i giornali scritti). L´unica cosa che non si può fare è ignorare la sfida, negare la rivoluzione, opporle sante alleanze conservatrici del vecchio. Immagino che non fu diversa l´alleanza anti-Gutenberg quando nel XV secolo apparve la stampa, e anche allora vi fu chi, con le parole di quei tempi, parlò di un 11 settembre contro gli establishment: politici e culturali, delle chiese e degli imperi.
Alessandro Ferretti, ricercatore
Enzo Scandurra, professore
Claudio Riccio, studente
Noi ricercatori siamo l'università
di Alessandro Ferretti
Nel paese delle iperboli ridicole si dice che i ricercatori sui tetti sono manipolati dai baroni, ma su quei tetti non abbiamo visto alcun barone. Dicono che dal lancio delle uova si passerebbe alle mitragliatrici, come dalle sigarette si passa agli spinelli e dagli spinelli all'eroina. Queste sciocchezze sono un luogo comune quasi impossibile da sradicare.
Da fisico sono però abituato a verificare i fatti per quello che sono e non per quello che potrebbero essere. Perché gli studenti italiani occupano i monumenti? Perché gli studenti inglesi occupano la sede del partito conservatore in segno di protesta contro i tagli all'istruzione e la triplicazione delle tasse universitarie? Entrambi insorgono contro il modello dell'aristocrazia e della baronia culturale fondato sul numero chiuso, sull'estrema selettività, sulle tasse elevatissime. Oggi iniziamo a raccogliere i frutti di un malcontento sociale diffuso. Di tutto questo pochissimi hanno messo a fuoco l'essenziale. Difficile del resto farlo in un paese in cui chi controlla i media, e chi vi ha accesso, non ha la minima idea di quali siano le prospettive di vita e di futuro di uno studente. Giovani brillantissimi e dalle capacità eccezionali hanno come unica opzione quella di lavorare come iperprecari. La riforma Gelmini punta ad abolire ogni speranza mettendo formazione e ricerca nelle mani di coloro che stanno attivamente contribuendo a mantenere, o addirittura ad aggravare, questo stato di cose, inserendo le logiche del profitto al posto dei valori umani di consapevolezza, solidarietà e responsabilità.
Molto si è detto sul taglio del 90% dei fondi per il diritto allo studio. Questo significa che il prossimo anno oltre 100mila studenti non potranno terminare gli studi, magari dopo aver fatto già anni di esami e sacrifici. Senza considerare che gli studenti più sensibili e consapevoli vedono anche altro: gli yacht da 40 metri per cui un pieno di gasolio costa qualche decina di migliaia di euro, le discoteche in cui una bottiglia di champagne costa 500 euro, l'ostentazione del lusso e dello spreco, la corruzione ed evasione fiscale impunite e anzi condonate, l'aumento dei fondi pubblici per le scuole private mentre si tagliano 8,5 miliardi alla scuola e 1,3 miliardi all'università, la privatizzazione di servizi essenziali come trasporti, elettricità, addirittura l'acqua. Il disegno di legge Gelmini che oggi sarà votato alla Camera è solo la miccia che ha fatto esplodere una situazione intollerabile, fondata sulla conservazione di un sistema che giova solo a chi ha già tutto.
Noi ricercatori ci domandiamo quanto sia violento un sistema che non permette ai cittadini di conoscere la realtà in cui vivono, spingendo i più sensibili e consapevoli a disobbedire alle leggi pur di poter sperare di invertire il corso delle cose.
Invece di allontanarci da queste persone abbiamo un altro dovere: non farle sentire sole. Con loro vogliamo interrogarci, capire, dialogare. Se invece cadremo nel facile gioco della stigmatizzazione, allora sì che quelli che oggi scalano i monumenti e i tetti rimarranno soli. E di questo crimine saremo tutti responsabili.
Noi ricercatori e studenti che si oppongono alla riforma le nostre energie le vogliamo impiegare spiegando perché rinunciamo ad una didattica che quasi tutti amiamo fare; perché ci dobbiamo arrampicare sui tetti d'inverno; perché dobbiamo bloccare strade, stazioni ed aeroporti per avere una minima chance di mostrare che esiste un problema alto come un grattacielo che riguarda la possibilità di sopravvivenza della stessa idea di società. Forse perché tutto ciò serve ad evidenziare quanto sia marcio un sistema che si interroga su se stesso solo quando qualcuno arriva ad interrompere l'orchestrina che suona mentre il Titanic affonda.
Io, barone, difeso dai ricercatori
di Enzo Scandurra
Dell'università italiana si può (ed è questo il vero dramma) dire tutto il bene possibile e tutto il male possibile, senza, purtroppo, che nessuna delle due visioni contrapposte sia necessariamente faziosa.
Esistono centri di potere corrotti, così come c'è una valanga di precari, ricercatori, docenti e "baroni" che si prodigano per tentare di farla funzionare. Come ha fatto rilevare anche Walter Tocci si fronteggiano due visioni. Chi vede in questa prestigiosa istituzione nazionale solo gli aspetti malati, di corruzione, di nepotismo e, dall'altra, chi guarda ad essa come un luogo dove ancora è possibile costruire saperi, idee, pensieri non subordinati alle ideologie dominanti. E' ovvio, allora, che le opinioni in merito alla cosiddetta "riforma Gelmini", divergano. I primi optano per una legge "di riforma" di tipo punitivo: distruggiamola, rendiamola impraticabile, così avremo distrutto un centro di potere; insomma usiamo contro l'università gli stessi metodi che usiamo contro la mafia. Si potrebbe addirittura pensare, secondo questa logica, di confiscargli i beni patrimoniali (cosa che in parte sta avvenendo) per darli a organizzazioni non-profit (ammesso che queste ultime riescano a sopravvivere dopo i tagli di Tremonti).
C'è un furore distruttivo nei suoi riguardi che va dai Panebianco ai Rutelli. Peccato, però, che in questo modo si buttano nel fiume i bambini oltre all'acqua sporca. In questo modo, sì, facciamo un vero favore ai baroni, che poi altro non sarebbero che una minoranza di professori ordinari di ruolo (ben protetti dal Ministero) che esercitano il potere di veto nei riguardi di tutte le altre categorie di docenti. C'è, al contrario, una visione opposta (ed è quella di tutti coloro che oggi sono scesi in piazza) che guarda all'università come a un luogo ancora libero, un luogo dove si fa ricerca, dove si preparano le future classi dirigenti per affrontare le sfide sempre più complesse del mondo contemporaneo. Se guardiamo da questa parte gli episodi di abnegazione, di attaccamento al lavoro, di impegno, sono addirittura eccezionali.
La cosiddetta "riforma Gelmini" è un parto malato e velenoso della prima visione, tanto che i danni, indipendentemente dalla sua approvazione - che costituirebbe il colpo di grazia finale - sono stati già fatti. Un miliardo e mezzo in meno di finanziamenti per i prossimi anni, favoreggiamento di università private, telematiche, e quant'altro di oscuro nella formazione superiore, incanalamento su un binario morto degli attuali ricercatori, blocco del turn-over, menomazione del diritto allo studio, riduzione drastica degli assegni di ricerca e così via (un elenco sterminato di provvedimenti punitivi).
Ecco il vero regalo ai baroni che possono insegnare nell'università pubblica e poi correre in quella privata che, badate bene, si mantiene con gli stipendi pubblici dei professori pagati dallo Stato. La Gelmini dice che bisogna ridurre il potere dei baroni e in questa affermazione c'è già tutta la visione punitiva, negativa dell'università (oltre a una insana propaganda di informazione). Ma sapete cosa ha fatto nel frattempo? Le commissioni di concorso per ricercatori e associati, fino a poco tempo costituite da: ricercatori, associati e ordinari, la Gelmini le ha modificate nella loro composizione. Oggi quelle commissioni di concorso sono composte solo da professori ordinari, cioè dai Baroni (per continuare ad usare questo termine ingiustamente dispregiativo nei riguardi di tutti i professori ordinari).
Oggi in piazza non scendono come dice la infame propaganda gelminiana e governativa, studenti e ricercatori che si fanno strumentalizzare dai Baroni (e dai partiti della sinistra). In piazza ci scendo anch'io, professore ordinario da oltre 25 anni; ci scendono coloro che continuano a pensare all'università come a uno dei luoghi dove si produce il futuro della nazione contro i becchini dell'università che a partire dalla loro visione cinica e mortifera la vorrebbero morta e sepolta magari a vantaggio di qualche Cepu, di qualche invenzione di fantasmi di università telematiche e a vantaggio di quei Baroni (questi sì, veri Baroni) che oggi, approfittando della "sospensione didattica", si sono prontamente spostati nei loro eleganti studi delle università private in attesa che la Gelmini restituisca loro tutto il potere.
Ebbene si, gli studenti e i ricercatori che sono scesi in piazza difendono anche me; difendono gli interesse sani del paese, difendono gli interessi di tutti i cittadini che vorrebbero vivere in un paese libero, senza mafie, senza ingiustizie, senza discriminazioni e lottano contro quelli che vogliono invece restaurare privilegi, poteri occulti, favoritismi, clientele. L'università italiana, secondo la cosiddetta riforma Gelmini si trasformerebbe da comunità scientifica transnazionale di studiosi liberi a organismo burocratico amministrativo dove si affermerebbero solo i mediocri e gli affaristi, tutti quelli che sono bravi nel compilare moduli e inutili schede amministrative. Si potrebbe dire ..la chiamavano riforma ed era invece solo una stupida restaurazione di potere. Il che non significa che l'università non avrebbe bisogno di una vera riforma.
Comunque vada abbiamo vinto
Noi non cadremo
di Claudio Riccio
Talvolta gli studenti sanno come disturbare la monotonia del potere. È successo con l'Onda quando l'Italia era ridotta al silenzio dalla schiacciante vittoria del Popolo della Libertà. E' accaduto di nuovo nelle ultime ore quando gli studenti hanno interrotto il vociare della politica del corridoio, l'asfittico posizionamento tra le forze politiche. Abbiamo ripreso parola, strade, piazze, palazzi, facoltà, binari, monumenti. La mobilitazione sul disegno di legge Gelmini ha vissuto giornate ben più difficili e meno entusiasmanti di queste. Quando abbiamo iniziato era il 28 ottobre 2009. Allora abbiamo circondato le prefetture con le tendopoli, mentre il governo avviava l'iter del ddl a suon di spot e celebrazioni. Anche dalla stampa di centro-sinistra giungevano apprezzamenti. Nasceva così un convinto spirito bipartisan. Molti esponenti dell'opposizione pensavano che la riforma Gelmini fosse buona e migliorabile in alcuni punti e, probabilmente, lo pensano ancora. Condivisibile nella sostanza.
Poi è calato un silenzio generale, interrotto dai ricercatori che si sono dichiarati indisponibili, hanno bloccato la didattica, riaprendo uno spazio pubblico di discussione. Non smetteremo mai di ringraziarli della loro indisponibilità. Anche grazie a loro questa riforma non è più bipartisan. Quella che porteremo in piazza oggi è una mobilitazione consapevole, capace di coniugare la radicalità e l'intelligenza strategica, di aprire una grande battaglia sul futuro e al tempo stesso affrontare con competenza il dibattito sulla riforma e sulla sua alternativa. L'abbiamo chiamata «l'Altra riforma». In questi mesi l'abbiamo discussa in tantissime assemblee con studenti e ricercatori.
Da questa base ripartiremo per ampliare gli spazi di democrazia e trasparenza che il ddl Gelmini restringe. Ridefiniremo gli organi collegiali. Proporremo l'introduzione di strumenti di democrazia diretta come il referendum studentesco, mutuandolo dal mondo del lavoro.
Il ministro Gelmini ha smantellato il diritto allo studio, ha tagliato l'89% delle borse di studio nel 2011. L'AltraRiforma, invece, prevede investimenti tali da raggiungere la copertura totale delle borse, estende i parametri di reddito, costruisce un nuovo welfare per i soggetti in formazione. Quella che vogliamo garantire a tutti gli studenti è l'autonomia di scelta, liberandoli dalla logica familista che governa lo stato sociale, e non solo l'università.
Se la Gelmini è stata l'utile idiota complice di Tremonti e dei suoi tagli, noi proponiamo di aumentare gli investimenti nell'università e nella ricerca a livello della media Ocse. Ma questo non basta. Noi chiediamo molte più risorse di quel che tutti dicono servire. Serve cambiare lo stato sociale, disegnare un nuovo modello di produzione. Per tutto questo servirà una gestione trasparente e controllata delle risorse pubbliche, non il gioco delle tre carte che il governo e Futuro e Libertà stanno facendo per dimostrare che questa riforma è meglio di niente.
Abbiamo bisogno di tempo e dobbiamo dare tempo ai ricercatori per sbagliare, provare e riprovare. Solo questo tempo di attesa può garantirci un futuro. Non l'ossessione dei tagli. Quella serve solo ad avere paura. Scendiamo in piazza sapendo di aver riaperto uno spazio pubblico, di aver resistito all'esproprio della politica da parte di una classe dirigente incapace ed avida, abbiamo iniziato a costruire un'alternativa alla fuga. Comunque vada è già un successo. Perché il governo può cadere, noi no.
*portavoce nazionale Link - coordinamento universitario
Le transizioni sono momenti particolari e strani. Assomigliano alla luce dell´imbrunire che tende a ingannare le nostre percezioni visive sull´identità dei colori e degli oggetti. Così è per l´attuale fase politica del nostro paese, che è critica ma non ancora di crisi, diretta verso una transizione al dopo-Berlusconi senza essere ancora di transizione. Un´ambiguità che offusca non soltanto gli scenari politici ma suprattutto la realtà della società e del Paese, la quale è invece molto poco ambigua se mostrata e raccontata, come si vede in questi giorni. Inchiodati da settimane a questa altalena sui possibili scenari del dopo-Berlusconi, sarebbe salutare invece spostare i riflettori sui problemi degli italiani costretti ad assistere a questa commedia seduti in ultima fila, mentre avrebbero il diritto di portare a conoscenza del pubblico gli effetti reali che questa maggioranza ha avuto sulla loro vita. Il successo travolgente della trasmissione di Fabio Fazio e Roberto Saviano è il segno di un bisogno di informazione. Bisogno di conoscenza di ció che pertiene alla vita quotidiana di tutti noi: cose che da due anni e mezzo sono scomparse dalle prime pagine e dalla politica.
Se è precipitoso ragionare in termini di dopo o post, è molto più interessante e utile parlare del governo che c´è: di quello che ha fatto e che fa, di quello che ha taciuto e tace, di quello che ha stravolto e stravolge. Di come è l´Italia a due anni e mezzo del terzo governo Berlusconi. Il premier, per il suo carattere e gli interessi che esprime e deve difendere, sembra poco agevolmente disposto a lasciare che la crisi segua i percorsi che le norme e le consuetudini hanno regolato in questi decenni di vita repubblicana. Ma l´eccezionalità di questo governo non sta solo nell´anomalia della sua annunciata infinita agonia. Essa gli appartiene fin dal suo insediamento, nella primavera del 2008. Da quando è sorta, è apparso chiaro che questa non sarebbe stata una maggioranza come le altre. L´eccezionalità ha fatto parte dell´identità di questo governo fin dalle sue prime battute. Eccezionalità sfruttata a proprio vantaggio, come la campagna sui rifiuti di Napoli sulla quale il governo Berlusconi volle seppellire il governo Prodi promettendo di avere la soluzione pronta. Eccezionalità creata ad arte, come la prima battaglia che il governo lanciò, quella sulla sicurezza, sui respingimenti dei migranti, sulle ronde, disposto anche a esaltare e ingigantire i problemi per presentarsi poi come governo dell´ordine. Eccezionalità naturale: la terza battaglia fu l´emergenza terremoto; l´Aquila diventò il palcoscenico del Primo ministro e il dramma di chi aveva perduto tutto, una straordinaria occasione per creare l´immagine di un governo efficiente e veloce.
In tutti questi casi, l´emergenza è stata senza soluzione ed emergenza è rimasta. I rifiuti sono al punto in cui erano due anni e mezzo fa. La sicurezza è stata nel mirino del governo per accattivare l´opinione pubblica, mentre nei fatti ha contribuito a fagocitare una cultura del razzismo che non ha aiutato per nulla a creare un clima di sicurezza. E infine l´Aquila. Una situazione eccezionale perché sembra che un terremoto sia avvenuto ieri: le macerie sono ancora dove erano, la città è ancora abbandonata. Consegnate le case prefabbricate provvisorie come fossero per sempre e per tutti, il premier ha spento e fatto spegnere i riflettori su quella gente e quelle macerie. Sembra difficile trovare un senso a questo governo che non sia quello dell´eccezionalità, fabbricata ad arte, alimentata, mantenuta. Ma la logica dell´emergenza è che, se tale deve essere, non può passare mai. L´emergenza è come fermare l´orologio: impedire che dall´emergenza si snodi l´evoluzione del caso e diventi un problema da risolvere. Emergenza permanente significa anche notizia spettacolare dell´evento, solo dell´evento. Il ritmo dell´attuale crisi ha lo stesso carattere: per ragioni di comportamento personale legato alla sua ben nota fama di ‘amante´ delle donne o per ragioni di legalità (quelle che compromettono spezzoni importanti del suo partito) o per l´emergenza processi (i processi del premier, che tengono in sospeso l´intero Paese e condizionano la vita del governo), l´Italia è tenuta in permanente stato di fibrillazione. Ma questo piano può funzionare fino a quando il Paese è tenuto fuori dalla porta, non messo in prima pagina; fino a quando è condannato ad assistere passivo, senza essere oggetto diretto di analisi e di attenzione. Come gli studenti universitari che sfidano la Ministra Gelmini stanno dimostrando: è necessario fare cose eccezionali perché i cittadini abbiano ascolto, perché le loro ragioni non siano derubricate come insensate e oscurate dai media. Perché sulle prime pagine ci siano solo i problemi di una maggioranza in crisi permanentemente annunciata. Per uscire dalla quale (o renderla effettiva), una strada da percorrere è proprio quella di sabotare questo piano di regia puntando i riflettori su quello che è l´Italia, sul reale dissenso e dissesto, su come sia diventata la società dopo due anni e mezzo di un governo che genera emergenza.
Buccinasco, 28mila abitanti alle porte di Milano, tre panetterie e 30 agenzie immobiliari, visto che il mattone tira più del pane, è detta la Platì del nord, perché è considerata una delle roccaforti della 'ndrangheta in Lombardia. Non è la sola, né la più importante, ma è l'archetipo della mafia che dilaga in Padania con una struttura territoriale che la Direzione Investigativa Antimafia descrive di tipo "federativo". Da Buccinasco a Paderno e Corsico, da Sondrio al pavese fino all'alto mantovano, e giù oltre i confini lombardi, la 'ndrangheta è strutturata sul territorio con mastrogenerali, reggenti, affiliati, picciotti, colletti bianchi, imprenditori e politici conniventi. Nessuno meglio di Roberto Maroni, che ha alcuni meriti nella lotta alle mafie, conosce questa situazione.
Non solo perché è lombardo, non solo perché è ministro dell'Interno e riceve i mattinali delle questure e dei carabinieri con i rapporti sulle gesta delle 'ndrine nel suo territorio. Ma anche perché nell'ultimo decennio, da dirigente della Lega Nord, ha potuto osservare da vicino la crescita del sistema mafioso attraverso il progressivo inquinamento degli appalti, dei lavori pubblici, della sanità, che da sola rappresenta ogni anno in Lombardia una spesa di 16 miliardi, il 72% del bilancio regionale. E' suonata perciò alquanto stonata la protesta del ministro, poi prudentemente rientrata, contro Roberto Saviano, il quale non ha fatto altro che rendere esplicite televisivamente notizie a lui ben note.
Pur senza tirare in ballo il consigliere regionale leghista Angelo Ciocca, eletto con 19mila voti, più di quelli ottenuti da Renzo Bossi, fotografato dai carabinieri del Ros con il presunto boss della 'ndrangheta lombarda Pino Neri, Maroni sa meglio di chiunque altro ciò che, dopo anni di scontri di potere, ha portato in Lombardia il sodalizio con Roberto Formigoni, Comunione e Liberazione, la Compagnia delle Opere e tutto il mondo degli affari che vi ruota intorno. Se la testimonianza dell'ex assessore regionale alla Sanità del suo partito Alessandro Cé, cacciato da lui e da Bossi, non gli basta, gli consigliamo la lettura di un titanico saggio di Ferruccio Pinotti in uscita per i tipi di Chiarelettere, La lobby di Dio.
A Gudo Gambaredo, frazione della Platì mafiosa del nord, viveva il leader carismatico di Cl don Luigi Giussani. Del suo movimento Formigoni è oggi il politico di riferimento e la Compagnia delle Opere il braccio armato in affari non sempre cristallini. In una rete di potere e di interessi quantomeno opaca spesso spuntano le cosche federaliste milanesi. Difficilmente Maroni può negare che il patto con il formigonismo sembra saldare la fusione della forza popolare della Lega con la destra cattolica propensa agli affari, in una specie di partito cristiano di massa. Forse, come sospetta il politologo Giorgio Galli, la forza del conservatorismo di radice giussaniana è arrivata al punto di modificare il Dna della Lega Nord, che dopo le ampolle e i riti celtici si è impregnata di tradizionalismo cattolico. E forse in qualche sua parte anche di affarismo sul modello CdO.
Una mazzata al mondo del volontariato, della solidarietà. A infliggerla è il centrodestra che alla Camera riduce di un quarto il tetto massimo del 5x1.000 che passa da 400 a 100 milioni. Mentre le spese militari...
La partita è di fatto chiusa. Il «furto» è stato perpetrato. Un «mondo» intero, quello delle organizzazioni no-profit è stato falcidiato. L’ultimo appello è caduto nel vuoto. Lo strumento del «killeraggio» sociale è il ddl di stabilità (la ex Finanziaria) passato ieri alla Camera con 303 voti a favore, 250 contrari e 2 astensioni. L’ultimo appello, le organizzazioni no-profit lo avevano rivolto l’altro ieri al Parlamento affinché non fosse posto un tetto di 100 milioni ai fondi da destinare al 5X1.000 per l'anno 2011.
In una lettera ai presidenti di Camera e Senato, Gianfranco Fini e Renato Schifani, si legge tra l'altro: «Nei giorni scorsi gli organi di stampa hanno riportato la notizia che la commissione Bilancio della Camera ha esaminato il testo della nuova legge per la stabilità che limiterebbe a 100 milioni di euro i fondi da destinare al 5x1.000 per l'anno 2011. Questo significherebbe non rispettare la volontà dei cittadini che liberamente decideranno di versare alle associazioni destinatarie la loro quota del 5x1.000 con la prossima dichiarazione dei redditi: solo 100 milioni, rispetto all'intero ammontare del 5x1.000 sarebbero distribuiti alle associazioni, mentre il resto sarà trattenuto dallo Stato. Si tratterebbe, se la notizia fosse confermata e tale tetto fosse effettivamente approvato, di una riduzione del 75% rispetto all'importo destinato nell'anno precedente (peralro già oggetto di una limitazione rispetto al totale dei fondi raccolti). Tale ulteriore taglio prosegue la lettera, si aggiunge a quelli fatti al bilancio della cooperazione internazionale italiana, ai contributi alle istituzioni internazionali che si occupano di aiuti ai Paesi in via di sviluppo e a quelli per la ricerca scientifica, universitaria e sanitaria».
APPELLO INASCOLTATO
La «notizia» è stata confermata. E si è tradotta in voto. L’unico, fragile, appiglio rimasto è un ordine del giorno presentato dall’Udc. Troppo poco per alimentare una speranza. Il centrodestra ha bocciato anche il subemendamento presentato dai parlamentari del Pd che innalzava da 100 a 400 milioni (ripristinando così la cifra della precedente Finanziaria) il tetto. Cento milioni. A fronte dei 260 milioni di euro in più rispetto alla Finanziaria 2010 destinati all’acquisto di sistemi d’arma. Cento milioni. A fronte dei 200 assegnati all’acquisto di una decina di elicotteri Aw-139. Cento milioni. Niente rispetto ai 13 miliardi di euro che lo Stato spenderà nei prossimi anni per l’acquisto di 131 cacciabombardieri F35 dell'americana Lockhe ed Martin, aerei dotati di tecnologia «stealth» e che sono classificati come cacciabombardieri da assalto; a quei 13 miliardi vanno aggiunti 4 miliardi per 41 nuovi Eurofighter (dei 121pre visti, 80 sono già stati comprati). Forza Nec, per dotare le forze armate d'assalto di sistemi più sofisticati, sta già costando alla collettività 650 milioni di euro di sola progettazione, ne costerà 12.000 attuarlo.
C’è chi parla esplicitamente di truffa ai danni dei cittadini. A ragione. E la ragione sta nel meccanismo innestato. Al momento della dichiarazione dei reddi ti, ognuno di noi risponde alla domanda: a chi vorrebbe destinare il 5x1.000? Ora: ogni euro in più rispetto ai 100 milioni indicati dalla Finanziaria 2011 che un cittadino ha assegnato ad un’ong no-profit viene incamerato dallo Stato. E destinato ad altro. Magari all’acquisto di un caccia bombardiere. Di certo, quei soldi sottratti non saranno destinati alla cultura, all’acquisto di libri scolastici o di borse di studio, altri finanziamenti falcidiati dal ddl di stabilità.
Si può chiamare democratico un Paese nel quale una delle parti in causa dispone del sostanziale monopolio dell´informazione televisiva e partecipa all´oligopolio di quella stampata? In tutti i Paesi europei la risposta è no. In qualche Paese sudamericano - neppure in tutti - la risposta è sì. Oggi l'Italia si colloca lì, fra il Brasile e la Colombia. (da "Tutta la verità" di Umberto Bossi, Sperling & Kupfer, 1995 - pag. 150)
Può anche darsi che Silvio Berlusconi riesca, con le buone o con le cattive, con argomenti più o meno concreti e persuasivi, a recuperare un numero sufficiente di parlamentari "fluttuanti" per ottenere la fiducia a Montecitorio il prossimo 14 dicembre. E a governare così per un altro paio d'anni, tirando a campare fino al termine della legislatura.
Ma, a parte il degrado e gli interessi del Paese, appare chiaro ormai che è iniziata la fine del berlusconismo. Cioè di quel complesso di valori o disvalori, fondato sull'egemonia - per così dire - culturale della televisione commerciale, di cui il centrodestra s'è fatto politicamente interprete in Italia negli ultimi quindici anni: l´individualismo, l´edonismo, il narcisismo, il machismo, il darwinismo sociale e un certo consumismo esasperato che informa il senso comune, ispirando tali tendenze e comportamenti.
Nessuno può dire quanto durerà questo epilogo. Né tantomeno escludere colpi di coda. Ma verosimilmente sarà l´onda lunga della crisi economica globale a sommergere prima o poi gli ultimi relitti del berlusconismo.
Dall'alluvione in Veneto al crollo di Pompei, dalla spazzatura di Napoli alla mancata ricostruzione dell'Aquila, i segnali del resto non mancano. L'emergenza ambientale del Malpaese è un'allegoria fin troppo esplicita ed eloquente.
Colpisce, perciò, che nell'elenco dei valori declamato in tv dal segretario del Pd, Pierluigi Bersani, un tema così fondamentale sia rimasto a dir poco in ombra: e pensare che, al Lingotto di Torino, il Partito democratico nacque proprio intorno all'idea che l'ambiente dovesse diventare "politica generale". Non è forse questo oggi il perno di un nuovo modello di sviluppo economico-sociale e quindi l'elemento di maggior distinzione rispetto alla destra? Eppure, nel suo elenco di valori, Fini almeno è riuscito ad auspicare (genericamente) che un giorno l'Italia sarà «più pulita e più bella».
Al di là dell'allegoria ambientale, non mancano nemmeno i segnali di disagio sociale. Questi, però, sono sistematicamente occultati o rimossi dall'apparato mediatico berlusconiano. E così, l'insoddisfazione degli imprenditori, la preoccupazione dei sindacati, la rivolta dei precari o degli studenti, la protesta degli abitanti dell'Aquila, di Napoli o di Pompei, tutto viene emulsionato nel frullatore televisivo, derubricato a show e infine sterilizzato.
Qualche sera fa, nel corso di Ballarò, il direttore del giornale di famiglia - spalleggiato dall'ex ministro che ha fornito l'impunità legislativa alla tv di Berlusconi - è arrivato a sostenere che il presidente del Consiglio non controlla affatto la televisione, perché le principali trasmissioni della Rai sarebbero tutte contro di lui. E oltre a quella di Giovanni Floris, ha citato quelle di Santoro, di Milena Gabanelli e perfino quella satirica di Serena Dandini.
Senza compilare qui un contro-elenco delle trasmissioni filogovernative che vanno regolarmente in onda sulle reti pubbliche e sulle reti Mediaset, basterebbe nominare i due maggiori telegiornali - l'indecente Tg1 di Augusto Minzolini e l'ossequioso Tg5 di Clemente Mimun - per smentire una falsa rappresentazione della realtà televisiva. La verità è che, per la maggior parte, l'informazione in tv è sotto il controllo diretto di palazzo Chigi, come ai tempi nefasti del Minculpop. E fortunatamente, negli ultimi mesi, ha fatto irruzione sulla scena il nuovo Tg di Enrico Mentana su La7, raddoppiando non a caso rapidamente la sua audience e togliendo ascolti soprattutto al telegiornale di Minzolini: è anche contro la sua gestione che si sono pronunciati perciò a grande maggioranza i giornalisti del servizio pubblico, nel referendum interno con cui hanno "sfiduciato" il direttore generale.
Non aveva torto dunque il leader della Lega, Umberto Bossi, a dire nel ‘95 - come si legge testualmente nella citazione all'inizio di questa rubrica - che proprio a causa dell'informazione l'Italia non è un Paese democratico. Allora, a suo giudizio, si collocava fra il Brasile e la Colombia. Ma nel frattempo non s'è spostata di un millimetro.
Una Casa Bianca ostaggio dei supporter del neoliberismo. Anticipiamo brani da «America, no we can't», il saggio che il noto linguista ha dedicato alla politica statunitense, all'interno del quale analizza i primi due anni della presidenza democratica
L'azione più importante di Barack Obama prima di assumere la carica è la scelta dello staff dirigente e dei consiglieri. La prima scelta è stata per la vice-presidenza: Joe Biden, uno dei sostenitori più tenaci dell'invasione in Iraq tra i senatori democratici, da lungo tempo addentro al mondo di Washington, che vota coerentemente come i compagni democratici - sebbene non sempre, come quando ha portato allegria negli istituti finanziari appoggiando un provvedimento per rendere più difficile agli individui cancellare i debiti dichiarando la propria condizione di insolvenza.
Il primo incarico post-elettorale è stata la nomina cruciale del capo di gabinetto: Rahm Emanuel, anch'egli uno dei più strenui sostenitori dell'invasione in Iraq tra i deputati democratici e, come Biden, buon conoscitore di Washington. Emanuel è anche uno dei maggiori beneficiari dei contributi di Wall Street alla campagna elettorale. Il Center for responsive politics riferisce che «è stato il massimo beneficiario, tra i rappresentanti, dei contributi per la campagna del 2008 provenienti da fondi a rischio, società private con capitale di rischio e le maggiori società finanziarie e di assicurazione». Da quando è stato eletto al Congresso nel 2002, «ha ricevuto più soldi da singoli e da comitati di sostegno elettorale nel mondo degli investimenti e delle assicurazioni che da altri settori dell'industria»; che sono anche quelli che hanno dato i contributi più consistenti ad Obama. Il suo compito era quello di controllare il modo in cui Obama affrontava la peggiore crisi finanziaria mai verificatasi dagli anni '30, per la quale i suoi finanziatori e quelli di Obama condividono ampie responsabilità.
La sinistra ai margini
In un'intervista di un editorialista del Wall Street Journal ad Emanuel fu chiesto che cosa avrebbe fatto la nuova amministrazione Obama riguardo alla «leadership democratica al Congresso, piena di baroni di sinistra con il loro proprio programma»; che contempla il taglio delle spese per la difesa e le «manovre per applicare esorbitanti tasse sull'energia per combattere il riscaldamento globale»; per non parlare dei pazzi totali che in Congresso si trastullano con i risarcimenti per la schiavitù e simpatizzano anche con gli europei che vogliono mettere sotto processo l'amministrazione Bush per crimini di guerra. «Barack Obama si opporrà», ha assicurato Emanuel al giornalista. L'amministrazione sarà «pragmatica», schiverà i colpi degli estremisti di sinistra.
L'esperto di diritto del lavoro e giornalista Steve Early ha scritto che «durante la campagna elettorale, Obama ha detto che appoggiava fermamente l' Employee free choice act, una riforma legislativa sul lavoro, a lungo attesa, che dovrebbe essere parte integrante del piano che ha promesso per stimolare l'economia». Tuttavia, quando Obama presentò i suoi massimi consiglieri economici al momento dell'insediamento «e parlò dei passi da fare per dare una "scossa" all'economia (...) la legge di riforma non faceva parte del pacchetto».
Continuando a passare in rassegna le nomine di Obama, il suo Transition board, l'équipe che si occupa di introdurre i nuovi incaricati nel governo, fu guidato da John Podesta, capo di gabinetto di Clinton. Le figure di punta della sua équipe erano Robert Rubin e Lawrence Summers, entrambi entusiasti della deregolamentazione, il principale fattore scatenante della crisi finanziaria attuale. Come segretario del tesoro Rubin ha lavorato duramente per abolire la legge Glass-Steagall, che aveva separato le banche commerciali dagli istituti finanziari esposti ad alto rischio.
Conflitto di interessi nello staff
La stampa economica esaminò i documenti del Transition economic advisory board di Obama, che si riunì il 7 novembre 2008 per definire le linee di intervento sulla crisi finanziaria. L'editorialista di Bloomberg News, Jonathan Weil concluse che «molti di loro dovrebbero ricevere immediatamente una convocazione in tribunale come persone informate sui fatti, non un posto nel circolo ristretto di Obama». Circa metà «ha avuto incarichi fiduciari in società che, in qualche misura, o hanno bruciato i loro bilanci o hanno contribuito a portare il mondo al collasso economico, o entrambe le cose». È plausibile pensare che «non scambieranno i bisogni della nazione per gli interessi dei loro consoci?» Weil ha anche precisato che il Capo di gabinetto Emanuel «era amministratore alla Freddie mac nel 2000 e 2001, mentre la finanziaria commetteva frodi in bilancio».
La preoccupazione primaria dell'amministrazione è stato il tentativo di arrestare la crisi finanziaria e la parallela recessione nell'economia reale. Ma c'è anche un mostro nell'armadio: un sistema sanitario privatizzato notoriamente inefficiente e scarsamente regolato, che minaccia di mettere in difficoltà il bilancio federale se la crisi persiste. La maggioranza della gente è da lungo tempo a favore di un servizio sanitario nazionale, che dovrebbe essere molto meno costoso e più efficace, come prove comparative (e molti studi) dimostrano.
Appena nel 2004, qualunque intervento del governo nel sistema sanitario era descritto sulla stampa come «politicamente impossibile» e «privo di sostegno politico» - che vuol dire: contrastato dalle compagnie di assicurazione, dalle grandi aziende farmaceutiche e da altri che contano, qualunque cosa ne pensi la popolazione, del tutto irrilevante. Nel 2008, tuttavia, prima John Edwards, poi Obama e Hillary Clinton, hanno avanzato proposte che si avvicinavano a quello che la gente ha a lungo desiderato. Queste idee ora hanno un «sostegno politico». Che cosa è cambiato? Non l'opinione pubblica, che resta come era prima. Ma nel 2008 i settori di potere più potenti, in prima fila l'industria, era arrivata a riconoscere che subivano gravi danni dal sistema sanitario privatizzato. Di conseguenza, la volontà popolare comincia ad avere «sostegno politico». Lo spostamento ci dice qualcosa sulle disfunzioni della democrazia e sulle lotte che si prospettano.
Quello che è accaduto dopo dice ancora di più.
Obama ha abbandonato subito l'opzione popolare e sensata dell'assistenza medica da parte di un unico ente, che aveva detto di voler appoggiare. Ha anche raggiunto un accordo segreto con le aziende farmaceutiche secondo il quale il governo non avrebbe «negoziato il prezzo dei medicinali e non avrebbe richiesto rimborsi addizionali» a seguito delle pressioni delle lobby e contro l'opinione di un netto 85 per cento della popolazione. Una «opzione pubblica» - nella sostanza l'opzione di «medicare per tutti» - rimase, ma fu sottoposta ad un intenso attacco in base alla motivazione, interessante, che gli assicuratori privati non sarebbero stati in grado di competere con un piano governativo efficiente (pretesti più sofisticati non erano meno bizzarri). Nel giugno 2009 il 70 per cento della popolazione era a favore del piano, nonostante l'instancabile e spesso isterica opposizione di gran parte del settore assicurativo.
Due mesi dopo, l'articolo di fondo di Business Week era titolato: «Le assicurazioni sulla salute hanno già vinto: come United health e Rival carriers, manovrando dietro le quinte a Washington, hanno modellato la riforma sanitaria a loro beneficio». Il settore assicurativo «è riuscito a ridefinire i termini della discussione sulla riforma in misura tale che non contano i dettagli del voluminoso progetto di legge che il Congresso manderà al presidente Obama l'autunno prossimo, il settore riemergerà ancora più redditizio (...) i manager delle assicurazioni dovrebbero sorridere di piacere».
A metà settembre, quando i progetti di legge stavano arrivando sul tavolo del Congresso, il mondo degli affari manifestò il suo appoggio alla versione della Commissione finanze del senatore Max Baucus, che aveva lavorato «in stretto contatto con i gruppi imprenditoriali», più che con altri, si dice con approvazione. Le proposte della Camera furono respinte perché non sufficientemente a favore dei gruppi affaristici. Il presidente della Business Roundtable definì la proposta della Commissione finanze del Senato «molto in linea» con i suoi principi, specialmente per il fatto che «non richiede la creazione di un piano pubblico».
Una riforma dimezzata
Naturalmente nessuna vittoria basta di per sé. Perciò, mentre la lotta per la riforma del sistema sanitario paralizzò virtualmente il Congresso alla fine del 2009, le lobby affaristiche iniziarono una grande campagna per ottenere ancora di più, e ci riuscirono. L'opzione pubblica fu alla fine «fatta naufragare» insieme con un connesso «medicare buy-in» che avrebbe permesso alle persone di 55 o più anni di avere il servizio sanitario nazionale. A quel punto la gente era a favore dell'opzione pubblica dal 56 al 38 per cento e il Medicare buy-in in percentuale anche maggiore, tra il 64 e 30 per cento. Il sondaggio che mostrava questi risultati fu reso pubblico, ma i fatti furono omessi: il titolo diceva «Sondaggi: la maggioranza non approva le leggi per il servizio sanitario». L'articolo lascia l'impressione che la popolazione si unisca all'attacco della destra contro il coinvolgimento del governo nell'assistenza sanitaria, assalto condotto dagli interessi affaristici, contrari a quello che proprio il sondaggio rivela e che altri sondaggi mostrano da decenni.
E che hanno continuato a mostrare nel 2010. Un sondaggio della Cbs reso pubblico l'11 gennaio ha rilevato che il 60 per cento degli americani non approvava il modo in cui il Congresso stava affrontando il problema del sistema sanitario. Le cifre dettagliate mostrano che, tra quelli che sono contro il modo in cui la proposta regola il rapporto con le compagnie di assicurazione, la grande maggioranza pensa che non si spinga abbastanza avanti (il 43 per cento di «non abbastanza», contro il 27 per cento di «troppo»). L'assistenza sanitaria è stata una questione cruciale nelle elezioni al senato nel Massachusetts nel gennaio 2010, in cui ha vinto il repubblicano Scott Brown. Tra i Democratici che si sono astenuti o hanno votato per Brown, il 60 per cento pensava che il programma sanitario non si spingeva abbastanza avanti (l'85 per cento di quelli che si astennero). Tra gli astenuti e i democratici che hanno votato per Brown, circa l'85 per cento era a favore dell'opzione pubblica.
In breve, l'evidenza mostra che in realtà cresceva la rabbia popolare contro il progetto di legge sulla sanità di Obama, prima di tutto perché era troppo limitato.
Mentre il settore finanziario aveva tutte le ragioni per sentirsi soddisfatto dei risultati ottenuti dopo gli sforzi per far eleggere il suo uomo, Obama, la storia d'amore ha cominciato a volgere alla fine nel gennaio 2010, quando Obama ha deciso di reagire al montare della rabbia popolare contro gli «stipendi d'oro» per i finanzieri, mentre altri erano impantanati in una «triste strada tutta in salita per i lavoratori». Ha dunque adottato una «retorica populista», criticando le enormi gratifiche per chi era stato salvato dall'intervento pubblico, e proponendo anche delle misure per limitare gli eccessi delle grandi banche (inclusa la «regola Volcker», che avrebbe in parte ristabilito la legge Glass-Steagall, impedendo alle banche commerciali con garanzia governativa di usare i depositi per investimenti a rischio). La punizione per la sua deviazione è stata rapida.
In nome del libero mercato
Le grandi banche hanno annunciato con rilievo che avrebbero spostato i finanziamenti verso i repubblicani, se Obama avesse insistito con i discorsi sulla regolazione e la retorica contro i finanzieri.
Obama ha capito il messaggio. In pochi giorni ha informato la stampa economica che i banchieri sono bei «tipi», scegliendo Dimon e il presidente Lloyd Blankfein della Goldman Sachs come persone degne di lode e, per rassicurare il mondo degli affari, ha spiegato: «Io, come la maggior parte del popolo americano, non provo invidia per chi ha successo e ricchezza», nella forma delle enormi gratifiche e profitti che fanno infuriare la gente. «Fanno parte del sistema di libero mercato», ha continuato Obama; e non sbagliava, considerato il modo in cui il «libero mercato» è interpretato nella dottrina del capitalismo di stato.
Osservazioni come queste suggeriscono un interessante esperimento mentale. Che cosa sarebbe il contenuto del «marchio Obama» se la popolazione dovesse diventare «partecipe» piuttosto che semplice «spettatrice dell'azione»? È un esperimento degno di essere tentato, non solo in questo caso, e c'è qualche ragione per supporre che il risultati potrebbero indicare la via per un mondo più sensato e decente.
Nel nord Italia e soprattutto in Lombardia c’è una “costante e progressiva evoluzione” della ‘ Ndranghetache, ormai radicata da tempo su quei territori, “interagisce con gli ambienti imprenditoriali lombardi”. Lo sottolinea l’ultima relazione della Direzione investigativa antimafia consegnata al Parlamento e relativa al primo semestre del 2010. Secondo il documento, la ”consolidata presenza” in alcune aree lombarde di “sodali di storiche famiglie di ‘ndrangheta” ha “influenzato la vita economica, sociale e politica di quei luoghi”.
La relazione sottolinea anche il “coinvolgimento di alcuni personaggi, rappresentati da pubblici amministratori locali e tecnici del settore che, mantenendo fede ad impegni assunti con talune significative componenti, organicamente inserite nelle cosche, hanno agevolato l’assegnazione di appalti e assestato oblique vicende amministrative”.
Per penetrare nel tessuto sociale, le cosche – che in Lombardia godono di una certa autonomia ma dipendono sempre dalla “casa madre” calabrese come ha dimostrato l’inchiesta “Crimine” che ha ricostruito l’organigramma della ‘Ndrangheta – si muovono seguendo due filoni: “quello del consenso e quello dell’assoggettamento”. Tattiche che, sottolineano gli esperti della Dia, “da un lato trascinano con modalità diverse i sodalizi nelle attività produttive e dall’altro li collegano con ignari settori della pubblica amministrazione, che possano favorirne i disegni economici”. Con questa strategia, e favorita da “una serie di fattori ambientali”, si consolida la “mafia imprenditrice calabrese” che con “propri e sfuggenti cartelli d’imprese” si infiltra nel “sistema degli appalti pubblici, nel combinato settore del movimento terra e, in alcuni segmenti dell’edilizia privata” come il “multiforme compartimento che provvede alle cosiddette ‘opere di urbanizzazione’”.
Secondo la Dia dunque, si assiste a un vero e proprio “condizionamento ambientale” da parte della ‘Ndrangheta che è riuscita “a modificare sensibilmente le normali dinamiche degli appalti, proiettando nel sistema legale illeciti proventi e ponendo le basi per ulteriori imprese criminali”. E la penetrazione nel sistema legale dell’area lombarda, è favorita da “nuove e sfuggenti tecniche di infiltrazione, che hanno sostituito le capacità di intimidazione con due nuovi fattori condizionanti: il ricorso al “massimo ribasso” nelle gare d’appalto e la “decisiva importanza contrattuale attribuita ai fattori temporali molto ristretti per la conclusione delle opere”.
La Dia ripercorre le fasi delle operazioni ‘ Parco Sud’ e ‘ Cerberus‘ della Guardia di finanza di Milano ed evidenzia il “forte interesse delle cosche verso l’edilizia”. Le indagini hanno consentito di individuare “nuove filiazioni delle ‘ndrine Barbaro-Papaliadi Platì, presenti nella zona Sud-Ovest del capoluogo lombardo, evidenziando ulteriormente la capacità militare e di assoggettamento ambientale”.
Sono così affiorati, prosegue la relazione, “i legami con imprenditori ed amministratori, realizzati dai nuovi vertici criminali, che hanno portato all’arresto del vicepresidente di una società per azioni, di un ex sindaco di Trezzano sul Naviglio, vertice pro-tempore del consiglio di amministrazione di aziende pubbliche operanti nel settore della tutela e gestione delle risorse idriche dell’area milanese, nonché di un componente del Consiglio comunale e di un geometra dello steso Comune”.
In sintesi, è la conclusione, “si è avuto modo di apprezzare la presenza sul territorio lombardo di esponenti della ‘ndrangheta residenti nella regione che, con modalità diverse dalla consolidata prassi mafiosa del controllo ambientale, hanno conseguito più preganti interessi economici”.
Nelle conclusioni si sottolinea la necessità di un ”razionale programma di prevenzione” che consenta di bloccare le possibili infiltrazioni della ‘Ndrangheta “in previsione delle opere previste per l’Expo 2015”, mentre si augura che lo Stato “coinvolga non solo le autorità istituzionalmente deputate alla vigilanza, ma anche tutti i soggetti a vario titolo coinvolti” e “consenta di individuare per tempo eventuali criticità”.
Il cosiddetto “ciclo degli inerti”, la cantieristica e la logistica collegata, la manodopera e le bonifiche ambientali “costituiscono i settori – scrive la Dia – maggiormente esposti al rischio di infiltrazione dell’intero indotto che si muove attorno alle grandi opere, agli appalti pubblici e privati”.
Ma c’è di più: secondo la Dia, infatti, il “condizionamento ambientale” delle cosche su parte dell’economia lombarda, va inteso come “partecipazione ormai pacificamente accettata di società riconducibili ai cartelli calabresi a determinati segmenti, in espansione, del settore edile, sia pubblico che privato”.
PostillaLa citata inchiesta Parco Sud è stata il “caso studio” proposto nel 2010 alla Scuola Estiva di Eddyburg nella relazione di Serena Righini per sostenere una tesi al tempo stesso ovvia quanto a suo modo rivoluzionaria. Ovvero che la criminalità organizzata trova nei meccanismi attuali di decisione delle politiche territoriali un contesto perfetto per operare, grazie alla notevole discrezionalità e scarsa trasparenza dei processi. Prevenire è sempre meglio che curare, ma per ora le forze politiche sembrano orientate ad altro: dall’ovvio, chiamiamo la polizia, la magistratura, a vari meccanismi di controllo ulteriori che spesso finiscono per rendere solo più intricato tutto. Mentre forse basterebbe solo più trasparenza (f.b.)
Sono un vecchio giornalista che ha dedicato alcuni anni di lavoro al tema dell'ambiente in tutte le sue espressioni: difesa del suolo, lotta all'inquinamento, tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici, ordinato sviluppo urbanistico e territoriale. I catastrofici eventi delle ultime settimane dalle alluvioni in Veneto e Campania al crollo di Pompei, che hanno dato occasione a Repubblica di promuovere l'ennesima, meritoria campagna mi hanno costretto a riaprire gli scaffali della memoria, dove ho riscoperto giacere cumuli di documenti: decenni di denunce, inchieste e proposte di intervento risanatore, dovute all'iniziativa delle associazioni ambientaliste (prima fra tutte Italia Nostra), all'impegno professionale di alcuni valorosi colleghi (primo fra tutti l'indimenticabile Antonio Cederna), alla partecipazione di ambienti accademici, studiosi, intellettuali, politici e parlamentari. Una lunga, appassionata, anche se a volte incompresa battaglia; che pure qualche risultato aveva prodotto: il rafforzamento di una coscienza ambientalista, alcune proposte di legge e provvedimenti di governo, l'istituzione dei ministeri dell'Ambiente e dei Beni culturali. Di tutto ciò non sembra restare traccia, né nel corpo martoriato del Malpaese né nella memoria della comunità. È amaro motivo di sconforto
Vito Raponi
L e ricordo anch'io le cento battaglie, quasi sempre perdute, in difesa del territorio: ultimo caso l'assurda sentenza su Punta Perotti a Bari. Spesso dimentichiamo, ha scritto Carlo Petrini su questo giornale, che l'unica ricchezza di cui il paese non potrà mai fare a meno è il nostro territorio e tutto ciò di cui, nei secoli, è stato cosparso. Ricordo Antonio Cederna e Giovanni Urbani. L'accanimento quasi doloroso con cui hanno cercato di risvegliare, di educare, i politici. Per anni Urbani ha cercato di imporre il concetto che il territorio e i suoi beni si curano con la prevenzione, non mandando la Protezione civile quando tutto è già perduto. C'è un esempio vicino, in pratica sotto gli occhi di molti responsabili: il parco dell'Appia Antica. Non c'è settimana in cui non si debba registrare un nuovo sfregio, un abuso, una costruzione, un ampliamento, una piscina che non dovrebbero esserci. Un giorno in cui dovevamo fare certe riprese per la tv, l'operatore non riusciva a girare la sequenza voluta per il troppo traffico di automobili. Eravamo nella zona detta pedonale. Chi sarà colpevole, o responsabile? Il sindaco? La Provincia? La Regione? Il ministero? Viene, dico la verità, un sospetto peggiore: che della cosa non importi niente a nessuno. Salvo pochi moralisti pedanti che è facile ignorare e che la finiscano di rompere le scatole.
Corrado Augias
Sono settimane ormai che l’annuncio è nell’aria: il governo Berlusconi sta finendo, anzi è già finito. Il suo regno, la sua epoca, sono morti. È sempre lì sul palcoscenico, come nelle opere liriche dove le regine ci mettono un sacco di tempo a fare quel che cantano, ma il sipario dovrà pur cadere. Anche i giornali stranieri assistono al funerale, nei modi con cui da sempre osservano l’Italia: il feeling, scrive l’Economist, la sensazione, è che la commedia sia finita. Burlesquoni è un brutto scherzo di ieri.
In realtà c’è poco da ridere, e il ventennio che abbiamo alle spalle è infinitamente più serio. Non siamo all’epilogo dei Pagliacci, e non basta un feeling per spodestare chi è sul trono non grazie a sentimenti ma a una macchina di guerra ben oleata. Per uscire dalla storia lunga che abbiamo vissuto – non 16 anni, ma un quarto di secolo che ha visto poteri nati antipolitici assumere poi il comando – bisogna, di questo potere, averne capito la forza, la stoffa, gli ingredienti. Non è un clown che si congeda, né l’antropologia dell’uomo solitario aiuta a capire. I misteri di un’opera sono nell’opera, non nell’autore, Proust lo sapeva: «Un libro è il prodotto di un io diverso da quello che manifestiamo nelle nostre abitudini, nella società, nei nostri vizi». Sicché è l’opera che va guardata in faccia, per liberarsene senza rompersi ancora una volta le ossa.
Chi vagheggia governi tecnici o elezioni subito, a sinistra, parla di regime ma ne sottovaluta le risorse, la penetrazione dei cervelli.
Un regime fondato sull’antipolitica - o meglio sulla sostituzione della politica con poteri estranei o ostili alla politica, anche malavitosi - può esser superato solo da chi è stato detronizzato. Nessun tecnico potrà resuscitare le istituzioni offese. Può farlo solo la politica, e solo se essa si dà del tempo prima del voto.
Capire il regime vuol dire liberare quello che esso ha calpestato, e quindi non solo mutare la legge elettorale. Non è quest’ultima a rendere anomala l’Italia: se così fosse, basterebbe un gesto breve, secco. Quel che l’ha resa anomala è l’ascesa irresistibile di un uomo che fa politica come magnate mediatico. Berlusconi ha conquistato e retto il potere non malgrado il conflitto d´interessi, ma grazie ad esso. Il conflitto non è sabbia ma olio del suo ingranaggio, droga del suo carisma. La porcata più vera, anche se tabuizzata, è qui. La privatizzazione della politica e dei suoi simboli (non si governa più a Palazzo Chigi ma nel privato di Palazzo Grazioli) è divenuta la caratteristica dell’Italia.
Proviamo allora a esaminare i passati decenni, oltre l’avventura iniziata nel ´94. L’avventura è il risultato di un’opera vasta, finanziata torbidamente e cominciata con l’idea di una nuova pòlis, un’altra civiltà. Un progetto - è Confalonieri a dirlo - che «ha contribuito a cambiare il clima grigio e penitenziale degli anni ´70, ed è stato un elemento di liberazione. Ha portato più America e più consumi, più allegria e meno bigottismo». Più America, consumi, allegria: la civiltà-modello per l’Italia divenne Milano2, una gated community abitata da consumatori ansiosi di proteggersi dal brutto mondo esterno, di sentirsi più liberi che cittadini. E al suo centro una televisione a circuito chiuso, che intrattenendo distrae, occulta, manipola: nel ‘74 si chiama Milano-2, diverrà l’impero Mediaset. Quando andrà al potere, il Cavaliere controllerà tutte le reti: le personali e le pubbliche.
Tutto questo non è senza conseguenze: cadendo, il Premier non lascia dietro di sé una società sbriciolata. Il paese in briciole è stato da principio sua forza, sua linfa. Non si tratta di profittare di subitanei sbriciolamenti, ma di far capire agli italiani che su questo sfaldamento Berlusconi ha edificato la sua politica. Che su questo ha costruito: sul maciullamento delle menti, non sull’individualismo. Su un’Italia che somiglia all’Uomo del sottosuolo di Dostojevski: un’Italia che rifiuta di vedere la realtà; che «segue i propri capricci prendendoli per interessi»; che giudica intollerabile che 2+2 faccia 4. Un’Italia che «vive un freddo e disperato stato di mezza disperazione e mezza fede, contenta di rintanarsi nel sottosuolo». Un’Italia arrabbiata contro chiunque vorrebbe illuminarla (la stampa, o Marchionne, o i magistrati) così come l’America arrabbiata del Tea Party il cui ossessivo bersaglio è la stampa indipendente.
Correggendo solo la legge elettorale si banalizza la patologia. Altre misure s’impongono, che permettano agli italiani di comprendere quanto sono stati intossicati. Esse riguardano il controllo di Berlusconi sull’informazione e il conflitto d’interessi. La profonda diffidenza verso una società bene informata (per Kant è l’essenza dei Lumi) caratterizza il suo regime. «Non leggete i giornali!» - «Non guardate certi programmi Tv!»: ripete. Gli italiani devono restare nel sottosuolo, eternamente incattiviti. Altro che allegria. È sulla loro parte oscura, triste, che scommette. Qualsiasi governo che non si proponga di portar luce, di riequilibrare il mercato dell’informazione, fallirà.
Per questo è importante un governo di alleanza costituzionale che raggiusti le istituzioni prima del voto, e un ruolo prioritario è riservato non solo a Fini ma alle opposizioni. Fini farà cadere il Premier ma l’intransigenza sul conflitto d´interessi spetta alla sinistra, nonostante gli ostacoli esistenti nel suo stesso seno. Del regime, infatti, il Pd non è incolpevole. Fu lui a consolidarlo con un patto preciso: la conquista di suoi spazi nella Rai, in cambio del potere mediatico del Cavaliere. Tutti hanno rovinato la tv, pur sapendo che il 69,3 per cento degli italiani decide come votare guardandola (dati Censis).
A partire dal momento in cui fu data a Berlusconi l’assicurazione che l’impero non sarebbe stato toccato, si è rinunciato a considerare anomali la sua ascesa, il conflitto d’interessi. E i responsabili sono tanti, a sinistra, cominciando da D’Alema quando assicurò, visitando Mediaset nel ‘96: «Non ci sarà nessun Day After, avremo la serenità per trovare intese. Mediaset è un patrimonio di tutta l’Italia». La verità l’ha detta Luciano Violante, il giorno che si discusse la legge Frattini sul conflitto d’interessi alla Camera, il 28-2-02: «L’on. Berlusconi sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – non adesso, nel ‘94 quando ci fu il cambio di governo – che non sarebbero state toccate le televisioni. Lo sa lui e lo sa l’on. Letta... Voi ci avete accusato nonostante non avessimo fatto la legge sul conflitto d´interessi e dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni... Durante i governi di centrosinistra il fatturato Mediaset è aumentato di 25 volte!». Il programma dell’Ulivo promise di eliminare conflitto e duopolio tv, nel ‘96. Non successe nulla. Nel luglio ‘96, la legge Maccanico ignorò la sentenza della Consulta (Fininvest deve scendere da tre a due tv). Lo stesso dicasi per l’indipendenza Rai. È il centrosinistra che blocca, nell’ultimo governo Prodi, i piani che la sganciano dal potere partitico. A luglio Bersani ha presentato un disegno di legge che chiede alla politica di «fare un passo indietro». Non è detto che nel Pd tutti lo sostengano. Una BBC italiana è invisa a tanti.
Se davvero si vuol uscire dall’anomalia, è all’idea di Sylos Labini che urge tornare: all’ineleggibilità di chi è titolare di una concessione pubblica, secondo la legge del 30 marzo ‘57. D’altronde non fu Sylos a dire che l’ineleggibilità è la sola soluzione. Il primo fu Confalonieri, il 25-6-2000 in un’intervista a Curzio Maltese sulla Repubblica. Sostiene Confalonieri che l’Italia, non essendo l’Inghilterra della Magna Charta, non può permettersi di applicare le proprie leggi. Forse perché il paese è sprezzato molto. Forse perché c’è chi lo ritiene incapace di uscire dal sottosuolo, dopo una generazione.
Nel cuore lombardo del berlusconismo ha vinto un politico lontano dai cliché del populismo mediatico, un giurista garantista, un candidato che piace alla società milanese (dall'alta borghesia ai ragazzi dei centri sociali), un uomo di sinistra, un vecchio amico del nostro giornale. L'affermazione di Giuliano Pisapia è di buon augurio per una sinistra finalmente capace di vincere.
Un indizio (la vittoria alle primarie pugliesi di Nichi Vendola) non faceva una prova, ma due (l'affermazione di Pisapia) sono più di una coincidenza. Sembra che le primarie sia destinato a perderle il candidato sponsorizzato dai vertici del Pd (in questo caso l'architetto Boeri) e a vincerle quello che che più ne critica l'arroccamento (per esempio il rottamatore Renzi a Firenze) o che decisamente sterza a sinistra (con l'aiuto di Sel e Rifondazione) riempiendo il vuoto di prospettiva del maggior partito di opposizione. Se dovessimo proiettare il risultato milanese sulla ribalta nazionale, saremmo facili profeti nel prevedere una sconfitta di Bersani e una vittoria di Vendola. Sempre che le deludenti performance dei candidati fin qui scelti dal Pd non inducano il gruppo dirigente a cancellarle, come le reazioni di alcuni esponenti, dopo la sberla di Milano, fanno intendere (Follini le vorrebbe seppellire contro Rosy Bindi che le ritiene necessarie).
Anche perché l'effetto-Vendola sul voto di domenica è difficilmente discutibile. Il presidente della Puglia è volato nel capoluogo lombardo per chiudere la campagna elettorale di Pisapia davanti a migliaia di persone. Mentre dall'altra parte si è fatto il vuoto (la scarsa affluenza alle urne è stata spiegata anche così) di fronte a un partito che prima sceglie il suo cavallo e poi nemmeno lo sostiene come dovrebbe. Tanto che i vertici locali si sono dimessi e la confusione è totale. Non solo sulle primarie, ma sulle soluzioni da dare alla crisi di governo e, più alla radice, all'egemonia berlusconiana.
C'è infatti una ragione profonda che lega e spiega il consenso a Pisapia e Vendola. Ieri Fini ha ritirato i suoi ministri, i presidenti di camera e senato sono chiamati al Quirinale. C'è bisogno, oggi non domani, di una risposta di sinistra a questo passaggio di sistema. Sugli scenari parlamentari: si vuole cambiare la legge elettorale e regolare il potere mediatico prima di andare al voto? Si vuole invece aderire a un comitato di salvezza nazionale, con Fini e Casini, per durare fino alla fine della legislatura?
Perché mentre si riesce a intravedere il tentativo delle forze dominanti (da Confindustria alla Chiesa, ai partiti del nuovo centro) di ricostruire un assetto post-berlusconiano, non si capisce dove va il Pd, con chi vuole allearsi il segretario eletto sulla proposta di un accordo con Casini, dove sta la differenza con la linea di Marcegaglia e Montezemolo. Vendola e Pisapia parlano di questo, indicano leadership e contenuti capaci (dal lavoro al nucleare, dall'immigrazione ai diritti civili) di riaccendere, anche con le primarie, il senso di una nuova politica. Di un 25 aprile che spezzi la disillusione, che ci riporti, con la partecipazione, anche la speranza di tornare a vincere.
Il risultato delle primarie di Milano e le successive dimissioni del gruppo dirigente del Partito democratico possono essere lette come la certificazione della fine di un´epoca. Finisce l´epoca nella quale erano i partiti a decidere la selezione e la promozione delle rispettive classi dirigenti. Si trattava, generalmente, di partiti fortemente radicati nella realtà del paese, nelle sezioni nei circoli o nelle parrocchie, e quindi in grado di individuare e promuovere gli uomini e le donne più legati ai rispettivi territori, più fidati e più capaci. Con la crisi e la fine della Prima Repubblica questo sistema, che si era andato progressivamente esaurendo o corrompendo, è saltato. Se Berlusconi ha scelto, con la legge elettorale definitiva dai suoi stessi autori il "porcellum", la scorciatoia autoritaria della nomina dall´alto del personale politico di Forza Italia, il Pd ha scelto la strada del tutto innovativa delle primarie. Forse chi ha fatto, a suo tempo, questa scelta inserendola nello Statuto del partito, non ne aveva valutato a pieno le conseguenze e i rischi. O, forse, troppo sicuro della propria autorità aveva immaginato di poterne controllare gli esiti. Ora il risultato delle primarie di Milano obbliga il Pd ad una più attenta riflessione. Non parlo del gruppo dirigente locale, ricco di forze nuove e capaci, che ha già convocato per domenica prossima una assemblea dalla quale è possibile, forse augurabile, ottenga un rinnovo del mandato.
Mi sembrerebbe invece opportuno che una riflessione sulle primarie e il loro svolgimento venisse avviata anche a livello nazionale, prevedendo e fissando nelle sedi opportune alcune regole che finora o non sono state fissate o non sono state rispettate. In particolare vanno fissate regole precise per quanto si riferisce alle cosiddette primarie di coalizione, alle quali partecipano candidati indipendenti o appartenenti ad altri partiti. Quando, ad esempio, in Puglia Nichi Vendola ha vinto le primarie regionali che lo contrapponevano al candidato indicato dal Pd, qualcuno aveva pensato che quel risultato fosse soltanto l´esito di una polemica o controversia locale. Da accantonare o dimenticare. Il risultato di domenica di Milano ci dice che non è così: che il candidato sostenuto dal Pd può venire sconfitto da un candidato diverso, che abbia un suo autonomo radicamento nella società.
C´è da chiedersi anche, a questo punto, se sia stato corretto per il Pd, dal punto di vista politico (e anche, visto l´esito finale, dal punto di vista elettorale) mettere la propria "bandierina" su uno dei candidati, tutti degni di concorrere alle prossime elezioni amministrative. È persino possibile che questa ed altre scelte di carattere organizzativo non abbiano favorito ed anzi abbiano danneggiato Stefano Boeri indicato come il candidato del Pd e Valerio Onida che aveva invano chiesto a suo tempo l´elenco dei partecipanti alle precedenti primarie per poter inviare loro il suo materiale elettorale.
Spetta ora al Pd, anche e soprattutto forse a livello nazionale, esaminare se nella gestione di queste primarie ci siano state insufficienze o errori (che spiegherebbero anche una minore partecipazione degli elettori) e alla fine proporre norme capaci di fare delle primarie una occasione di maggiore libertà degli elettori e non una conferma di appartenenza.
Da ieri sera, comunque, accantonate tutte le polemiche, Giuliano Pisapia è il candidato di tutta la sinistra al Comune di Milano. Il candidato di tutti coloro che sperano di chiudere l´epoca confusa e oscura della gestione Moratti.
«Chiudere l’epoca confusa e oscura della gestione Moratti»: non solo, anche di tutte le gestioni che hanno prodotto – innestandosi sugli antichi “riti ambrosiani” – ideologie, dispositivi e pratiche che hanno scardinato il principio della priorità dell’interesse comune nella gestione della città e affidato poteri sempre più vasti agli interessi immobiliari.
La vittoria di Giuliano Pisapia apre finalmente la speranza che le ragioni di una sinistra seria, libera dai compromessi con l’establishment immobiliarista, possano essere fatti valere nei luoghi nei quali si decide. Non è solo nell’interesse dei cittadini milanesi, ma di tutti gli italiani. Le politiche urbanistiche di Milano hanno costituito un precedente negativo per l’insieme della politica italiana; se molti lo vorranno, potranno costituire domani l’avvio di una svolta.
Anche per questo, condividiamo l’augurio che una forte unità si formi attorno a Giuliano Pisapia.
L´uomo che aveva sempre accusato gli avversari di indietreggiare di fronte alla prova democratica delle elezioni, l´uomo che aveva sempre dileggiato il Parlamento per la tortuosità dei suoi percorsi, improvvisamente cerca di costruirsi una strada.
Una via che lo ponga al riparo dalle incognite di un voto, mettendo così a nudo il suo vero modo d´intendere democrazia e sovranità popolare. Ma ogni sorpresa è fuori luogo. Berlusconi dovrebbe averci abituati ad ogni genere di forzatura. Messo ormai alle corde dalla scomparsa della sua maggioranza politica, dall´incapacità di governare, dal discredito personale, intravvede uno spiraglio nella possibilità di andare alle elezioni rinnovando solo la Camera dei deputati. Una strategia per la sopravvivenza personale, che rischia di aggravare ancora di più la crisi che stiamo attraversando. Una conferma dell´irresistibile sua propensione ad un uso congiunturale delle istituzioni, piegate al soddisfacimento dei suoi immediati interessi.
Analizziamo fatti e regole. Nell´articolo 88 della Costituzione è scritto che «il presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camera o anche una sola di esse». Non vi sono precedenti significativi in materia. Anzi, gli scioglimenti anticipati del solo Senato ebbero la semplice funzione «tecnica» di far coincidere la durata delle due Camere, tanto che alcuni conclusero che, parificata la durata nel 1963, veniva meno la ragione che aveva indotto i costituenti a prevedere lo scioglimento di uno soltanto dei rami del Parlamento. Ma, essendo comunque evidente che nel nostro sistema la decisione sullo scioglimento non può in nessun caso essere ricondotta alla volontà del presidente del Consiglio, bisogna chiedersi quali finalità ed effetti avrebbe oggi lo scioglimento della sola Camera.
Berlusconi vuole far sopravvivere il governo anche dopo la fine della sua maggioranza politica e non vuol correre il rischio di trovarsi, all´indomani di eventuali elezioni anticipate, vincitore alla Camera e minoritario in Senato. Questa è una possibilità concreta, come hanno ripetutamente messo in evidenza gli studiosi della materia elettorale, ed è una conseguenza diretta della legge elettorale da lui voluta nel 2006 proprio per azzoppare al Senato Prodi, del quale si dava per certa la vittoria. Si confezionò così il «porcellum» calderoniano, una vera trappola, nella quale ora può cadere lo stesso Berlusconi. Se, infatti, dopo le elezioni anticipate, la sua coalizione non avesse la maggioranza al Senato, il presidente della Repubblica, non potendo certo procedere ad un altro immediato scioglimento, dovrebbe affidare l´incarico di trovare una maggioranza e di formare il governo ad una personalità diversa da Berlusconi. Esattamente ciò che il presidente del Consiglio non vuole. Pretende, allora, di blindare il Senato, congelarlo nella composizione attuale e votare solo per la Camera, sperando di avere anche qui una maggioranza sicura. E se avvenisse il contrario? Questa inedita modalità di voto renderebbe più acuta la crisi. L´inammissibilità della scioglimento della sola Camera discende proprio dal fatto che esso non garantisce il superamento delle difficoltà attuali, anzi può accrescerle, e comunque si configura come uno strumento per sfuggire alle conseguenze della legge elettorale in vigore e per sanzionare i comportamenti politici dei finiani. Finalità costituzionalmente inammissibile.
Inoltre, per arrivare al risultato desiderato, Berlusconi ha bisogno di un´altra forzatura: la discussione sulla fiducia prima al Senato e solo dopo alla Camera. Se, infatti, si votasse prima alla Camera, con un prevedibile voto di sfiducia, Berlusconi dovrebbe subito dimettersi senza avere la possibilità di giocare la carta, sia pure impropria, di una maggioranza al Senato a lui favorevole, derubricando il successivo voto della Camera come semplice «incidente di percorso»: conclusione politicamente e istituzionalmente inammissibile.
Lo scioglimento della sola Camera, dunque, accrescerebbe pericolosamente la deriva personalistica del sistema istituzionale, ne aumenterebbe l´instabilità, e soprattutto confermerebbe nell´opinione pubblica la distruttiva versione di istituzioni che hanno la sola funzione di cucire un vestito sulla misura dei potenti. In tutto questo vi è un elemento di violenza che va denunciato e impedito. Con le sue ripetute dichiarazioni, Berlusconi usurpa le funzioni del presidente della Repubblica. Lo minaccia, anzi, qualora si discosti dalla linea da lui enunciata, parlando di "guerra civile" (dichiarazione ai limiti del codice penale) e pretendendo di dettare tempi e modi di gestione della crisi.
È una grande fortuna per questo sfortunato paese che la difesa della Costituzione sia oggi affidata ad una persona come Giorgio Napolitano. Ma questa fiduciosa consapevolezza deve essere accompagnata da altrettanta consapevolezza di tutte le forze politiche di opposizione della forza distruttiva dell´attuale legge elettorale, ben al di là dell´espropriazione dei cittadini della possibilità di scegliere i loro rappresentanti. Qui deve soccorrere la politica. O eliminando prima del voto il «porcellum». O realizzando un sistema di alleanze che risponda all´emergenza democratica che stiamo vivendo, con una intesa comune che ci liberi non da un uomo, ma da un modo d´intendere e esercitare il potere che sembra non esitare di fronte al rischio di trascinare tutti nella sua caduta.
Uno spettacolo a metà
di Alessandro Robecchi
È il momento, gente. Tirate fuori dal cassetto quel biglietto di prima fila che avete comprato due anni fa in attesa del grande spettacolo, fatelo strappare all'ingresso e prendete posto. Il più grande fuggi fuggi di topi mai visto sarà superbo. Siamo gente attenta, da queste parti, sappiamo distinguere tra roditori. Ci sono topini che fuggono dopo anni e anni di tentennamenti convenienti. Ratti astutissimi che fuggono dalle azioni Mediaset come scommettitori che capiscono al volo quando un cavallo è bolso. Ci sono topi generici che passano ad altre navi correndo sulle funi. Altri che negano di esser mai stati imbarcati e addirittura alcuni che negano di esser mai stati topi. Ci sono toponi terzisti che frugano nel loro archivio di elogi al capitano della nave ora in panne alla ricerca di qualche riga mellifluamente critica, da esibire come salvacondotto in caso di controllo. Ci sono topi pensosi che all'improvviso si levano le fette di salame dagli occhi. E addirittura topi che dicono «io l'avevo detto», e non avevano detto niente. È il bello della biodiversità: tanti topi gambe in spalla, con il ratto più grosso, ormai ammaccato, che scappa anche lui, da Seul, un uomo in fuga per non parlare con la stampa, per non esporsi ai frizzi e lazzi di giornali stranieri che non gli farebbero sconti. E questo per non dire delle tope (sorry...), che cominciano a chiacchierare sui divertimenti segreti nelle varie tane, anche loro in fuga, anche loro capaci di annusare la fine del baccanale. Riempiono verbali e pagine di indiscrezioni con la stessa velocità con cui riempivano coppe di champagne e siparietti cochon. Spettacolo glorioso: solo noi che comprammo il biglietto per tempo possiamo godercelo appieno. Stupiti e divertiti. Solo, un po' irritati dal sonnecchiare eterno dei gatti, che davanti a questo immenso fuggi fuggi di topi sembrano storditi, inani, incapaci. Un 25 luglio senza 25 aprile, ecco. Insomma, uno spettacolo a metà.
Perché cade l'anomalo
di Michele Prospero
Quali sono le forze sociali che hanno innescato la crisi sistemica del berlusconismo? Le stesse che tra il 1992 e il 1994 tentarono una soluzione modernizzatrice alla crisi della repubblica dei partiti. E cioè la grande impresa e la finanza, alcune porzioni di classe politica, taluni settori delle alte gerarchie del mondo cattolico, i delicati comparti tecnici dell'amministrazione e della banca centrale, la grande stampa. Si tratta di una èlite ampia che, quando percepisce l'usura definitiva dei meccanismi di potere, reagisce con appelli molto ascoltati ed efficaci al senso perduto della responsabilità nazionale. Questo composito arco di forze ha la potenza sociale, culturale e politica necessaria per spezzare gli ingranaggi del sistema di governo usurato e ritenuto la causa del declino, ma poi non riesce a guidare la transizione verso altri sbocchi. Ciò perché è forte abbastanza ma non egemonico.
Nel 1992 questo ceppo più combattivo dell'èlite modernizzatrice covò la rivolta interna al sistema politico che assunse le forme del movimento referendario. Per le debolezze di un'alleanza politica e sociale condotta con le categorie fragili della vecchia borghesia illuminata, l'assalto al cuore della partitocrazia si concluse con il trionfo della inaspettata soluzione populista. La crisi degli Anni 90 vide infatti non solo una profonda regressione politica e istituzionale ma anche un passaggio di consegne all'interno del blocco economico dominante: dalla capacità declinante di influenza della grande impresa all'attivismo corsaro della piccola imprenditoria disseminata negli spazi locali. La grande metamorfosi di quegli anni vide il successo di un nuovo tipo di borghesia, che è economicamente centrale ma politicamente periferica e preferisce pensare in termini di territorio e non di stato. Al disegno iperdemocratico del ceto medio cognitivo che gestiva i rumorosi movimenti antipartito subentrò ben presto il prosaico calcolo economico di un pezzo benestante di società che sperimentava l'ebbrezza della secessione fiscale e si rinchiudeva nella geocomunità coesa come zona di resistenza e di recuperata competitività.
Ciò si verificò perché con la crisi-crollo della Dc, annunciata prima ancora degli eventi dell'89, nel territorio dinamico del neocapitalismo molecolare del nord era comparso un nuovo ceto sociale ramificato che respingeva la mediazione e la sintesi politica tradizionale e perseguiva una sua immediata auto-rappresentazione con una classe politica ruspante e periferica. Sulle tendenze antipolitiche di questo rude e sconfinato microcapitalismo a conduzione familiare, ostile a ogni civiltà giuridica a tutela del lavoro, l'èlite modernizzatrice non riesce a incidere perché in esso è inesauribile una mentalità antielitaria e cova uno spirito di vendetta contro il ceto politico, il pubblico impiego, la ricerca.
Al di là del biopotere berlusconiano, anche dopo l'usura del corpo fisico del capo, esistono estese fasce sociali che persistono in una manifestazione di profonda alienazione politica. Quando è al potere questo blocco sociale conduce (non solo per le evidenti carenze tecnico-politiche della leadership berlusconiana) alla catastrofe: evasione fiscale, lavoro nero, abbattimento delle politiche pubbliche. Nella crisi del berlusconismo non si rintraccia perciò una mera questione di rivalità e di ambizioni personali che spinge al duello finale per il comando. C'è qualcosa di più durevole: una sorta di regolarità della politica che dopo 16 anni riemerge e manda tutto in aria. È la regolarità per cui si rivela impossibile governare una società complessa e differenziata con la privatizzazione del potere. Una seconda regolarità che riaffiora è che risulta arduo reggere le sfide globali dell'innovazione con una coalizione sociale retta dal micro capitalismo territoriale che ha costruito la propria soggettività politica nelle forme dell'antipolitica più virulenta.
Questo mondo, con l'uscita di scena del cavaliere, ha perso la testa politica che la proiettava al potere ma non scompare nel vasto radicamento nei territori. Che le istanze antipolitiche del micro capitalismo territoriale possano essere intercettate per intero da Fini e da Casini pare assai dubbio. Entrambi hanno scelto la via del recupero della rappresentanza, della ragionevolezza, e il sud appare al centro del loro disegno. Un rigonfiamento della Lega è inevitabile dopo il crepuscolo del cavaliere. Essa è destinata a crescere nel territorio ma a giocare un ruolo più marginale nel sistema politico. Una sua evoluzione nelle forme pragmatiche di forza dell'efficienza amministrativa sembrerebbe urtare contro la predilezione del carroccio per le più aggressive politiche dell'immaginario (criminalità, clandestini, immigrazione) con le quali cattura un rilevante consenso operaio e il sostegno dei ceti popolari più marginali.
Il populismo è la forma politica espressa dal micro capitalismo territoriale che rifiuta la rappresentanza. Pensare di sconfiggere il populismo degli interessi economico-fiscali con il populismo partecipazionista dei gazebo, delle primarie, dei partiti liquidi è del tutto illusorio. I ceti medi cognitivi di norma soccombono al cospetto dei ceti medi mobilitati in vista del rude interesse economico. La questione politica del lavoro si ripropone proprio per questo come centrale anche per rendere efficace la transizione politico del dopo Berlusconi. Nell'estate del 1992 il lavoro fu coinvolto nei giochi della politica ma in una sorta di rivoluzione passiva. L'arma alla fine spuntata della concertazione fu concessa in dono in cambio dell'accettazione della purulenta politica del sacrificio imposto dal vincolo europeo. Vista dal punto di vista del lavoro, la seconda repubblica è stata una sventura. Declassamento economico, perifericità sociale, precarietà normativa, evanescenza politica e rimozione culturale.
Il lavoro senza più rappresentanza è finito, qualche volta addirittura in larga maggioranza, nelle braccia minacciose del micro capitalismo territoriale che lo ha attratto con le efficaci politiche identitarie che contrapponevano la bella comunità locale all'intruso straniero che pretendeva beni pubblici ormai residuali (asili nido, case popolari, assistenza sanitaria). Se l'èlite responsabile e modernizzatrice che progetta oggi il necessario defenestramento di Berlusconi pensa di procedere nell'azione chirurgica sbrigativa solo con la perizia della manovra e senza ripensare il significato politico del lavoro si sbaglia di grosso. Solo una ricostruzione di uno spazio politico del mondo del lavoro può arginare il populismo della micro borghesia dei territori che quando è al governo in posizione egemonica conduce alla catastrofe.
Quanto ha risparmiato il proprietario di tre case in Italia e una all’estero - Ecco la cronaca di due anni e mezzo di manovre e del loro impatto sui ricchi contribuenti
Il signor X è un benestante, diciamo pure un superbenestante. È anche piuttosto pignolo ed è solito annotare su un diario le notizie economiche più rilevanti per se stesso e per la sua famiglia. Questa è la storia di un caso emblematico, il caso di quegli italiani - non molti ma neppure pochissimi - che hanno un ottimo reddito e un cospicuo patrimonio, magari in parte nascosto al fisco. È la storia delle sorprese, tutte piacevoli, riservate loro, nonostante la peggiore crisi del dopoguerra, dagli ultimi due anni e mezzo di manovre. E puntualmente ricostruite in un immaginario ma realistico diario di famiglia.
Superbenestante, dicevamo. Il signor X possiede, oltre a un buon numero di obbligazioni e di azioni, tre appartamenti in Italia e uno all’estero. Su quest’ultimo non ha mai versato un euro al fisco. Sugli immobili italiani, invece, ha sempre pagato le tasse. Un carico pesante come pesante è il timore che un giorno o l’altro possa essere scoperta la sua evasione sulle attività oltreconfine: si troverebbe a pagare l’intera imposta, più gli interessi, più le sanzioni.
Poco importa dove lavora X, se sia un libero professionista, un manager o un commerciante. Basterà sapere che guadagna più di 75 mila euro, soglia oltre la quale si applica l’aliquota massima. Residenza: Roma. Abitazione signorile in pieno centro: salone, cucina, 3 camere, 2 bagni, ingresso e ripostiglio per lui sua moglie e i suoi due figli. Sempre a Roma, X è proprietario di altri due appartamenti: un bilocale in periferia affittato a 750 euro al mese e un’abitazione di 80 metri quadri in zona semicentrale affittato a 1.300 euro. Cinque anni fa, consigliato da due amici stranieri, X ha anche comprato un delizioso immobile nel centro di Parigi al prezzo di 500 mila euro per darlo in affitto. Gli amici, - uno inglese e uno statunitense - hanno fatto altrettanto comprando altri due immobili di identico valore nello stesso stabile della capitale francese.
È il 29 maggio 2008. Appena tre settimane fa si è insediato il quarto governo Berlusconi. Il signor X scrive sul diario: «Oggi è entrato in vigore il decreto che abolisce del tutto l’Ici». Breve antefatto per capire la questione: il governo Prodi aveva cancellato l’Ici al 40% dei proprietari di case, in gran parte con redditi medio-bassi. Il nuovo esecutivo Berlusconi ha esteso l’esenzione a tutti gli altri. Continua il signor X: «Facciamo un po’ di conti. Sulla mia abitazione finora io pagavo il 4,6 per mille e quindi versavo 790 euro l’anno. Ora non li pagherò più. Un bel risparmio».
Arriva l’autunno. Sul diario del signor X è evidenziata una nuova data: 2 ottobre 2009. Seguita da un commento: «Sono passate appena le 13,30, il Tg1 ha dato una notizia tranquillizzante: "Sì della Camera al decreto sullo scudo fiscale". Si pagherà solo il 5% delle attività detenute all’estero e tutto sarà regolarizzato. Niente imposte pregresse, niente sanzioni, niente interessi, e soprattutto pieno anonimato». «Facciamo due conti - continua X - il mio appartamento a Parigi vale 500 mila euro. Applicando il 5% mi trovo a dover pagare solo 25 mila euro e stop. Molto peggio andrà ai miei amici stranieri: anche loro possono usufruire dello scudo ma con costi di gran lunga maggiori. L’inglese si troverà a pagare il 10% (il doppio) ma dovrà aggiungervi tutte le imposte dovute per cinque anni, più gli interessi maturati. Conti ancora più salati per il mio amico americano: costo iniziale del 20% (100 mila euro) più imposte e interessi. E poi c’è un’altra differenza di non poco conto: io conservo l’anonimato, loro no».
Passano i mesi: la primavera 2010 porta con sé una bufera economica di proporzioni giganti. È la crisi dell’euro. Tutto sembra precipitare: i paesi europei preparano feroci finanziarie taglia-deficit. Il signor X scrive: «Il governo di Londra ha già alzato dal 40 al 50% l’aliquota massima, quella che si applica ai superbenestanti. Portogallo e Spagna prendono analoghe misure. Persino Sarkozy, accusato di favorire i ricchi, annuncia l’aumento della loro aliquota dal 40 al 41%. Qui in Italia, invece, nessuno pensa di chiedere qualcosa a chi guadagna di più. Neppure le proposte di opposizione, sindacati e Confindustria di aumentare le tasse sulle rendite finanziarie, oggi ferme al 12,50%, vengono prese in considerazione. Eppure altrove si paga molto di più sugli interessi: il 20% in Gran Bretagna, il 25% in Germania, il 27% in Francia. La manovra di Tremonti è passata e io mi trovo a non aver pagato neppure un euro».
C’è ancora una pagina fondamentale scritta sul diario del signor X, forse la più importante. E una data: 4 agosto 2010. «Oggi il governo ha approvato uno dei decreti sul federalismo fiscale e ha introdotto, a partire dall’anno prossimo, la cedolare secca sugli affitti. In sostanza, chi dà in affitto un’abitazione, invece di pagare l’aliquota Irpef, che per noi benestanti arriva al 43%, pagherà solo il 20%. Quasi nullo, invece, il risparmio per chi ha redditi bassi: dal 23 al 20%. Ecco allora cosa cambia per me e per la mia famiglia: dai due appartamenti che affitto ricavo 24.600 euro l’anno. Con il vecchio regime Irpef pagavo circa 9 mila euro di tasse. Con la cedolare ne pagherò 5 mila. Risparmio: 4 mila euro l’anno».
Riassunto finale: il signor X risparmia quasi 5 mila euro l’anno sulle attività immobiliari in Italia, regolarizza quelle all’estero pagando solo il 5%, non versa un euro in occasione della manovra taglia-deficit, e continua a poter contare su una tassazione di favore sul proprio tesoretto finanziario. Una manna dal cielo. Anzi da Palazzo Chigi.
L´intimazione da Bastia Umbra è la penultima mossa d´una partita abilmente giocata: dimettersi, visto il punto morto nel quale sta, affinché siano ridefiniti programmi e confini dell´area governativa; è sottintesa l´incompatibilità del nuovo corso con l´attuale mezza signoria (deve fare i conti con la Lega); altrimenti l´uscita dei ministri Fli e l´avaro sostegno esterno, concesso o negato nei singoli casi, aprono la fase agonica.
Lo junior non poteva impedire la fusione (chiamiamola fagocitosi): ha salvato un nucleo, mentre i colonnelli convolavano al banchetto; meglio perderli che trovarli; da allora raccoglie consensi contestando l´impronta abnorme della politica governativa; una destra degna del nome prende sul serio Stato, interesse collettivo, legalità, dialettica parlamentare. Il conflitto era nelle cose: Dominus Berlusco, analfabeta in politica, va allestendosi un regno amorfo, fondato sul potere economico e mediatico, mentre i modelli rinascimentali italiani, superando l´anarchia comunale, sviluppavano strutture statali. Siccome i controcanti lo disturbano, risponde a modo suo: s´era acquisito larga parte dello stato maggiore An; accerchia l´antagonista; minaccia d´espellerlo (gesti da Sant´Uffizio o Politburo); infine, gli scatena addosso i giornali della casa. Sinora risulta perdente: contro Tortuga è nato un nuovo partito, della destra pulita; non sappiamo quanti voti conti ma in stile, idee, lessico, sbaraglia l´invasore pifferaio.
Dopo diciassette anni suonano male, moneta falsa, gli slogans con cui s'era impadronito della piazza: resta spaventosamente ricco, gonfiandosi ogni giorno (Dio sa quanto abbia accumulato dal 1994); è l´unica sua abilità, strepitosa, unica al mondo, con i rischi contro cui voleva premunirsi mediante scudi immunitari. Tolti i famigli, cortigiani, sgherri, odalische, strimpellatori, ruffiani, postulanti vari, prima o poi svaniscono i fumi della sbornia: trent´anni d´ipnosi televisiva lasciano guasti permanenti e i sopravvissuti li pagheranno cari nelle decadi future, ma qualcosa rimane dell´atavico discernimento; gl´Italiani sono gente cinica, notava Leopardi («Discorso sopra lo stato presente» dei loro «costumi»), filosofi d´istinto, anche i più ignoranti, quindi vedono le cose quali sono sotto belletto, parrucche, maschere. Sarà una partita interessante: pifferi, tamburi, tromboni, contro sguardi svegli, equazioni d´interesse, sentimenti; ed esito dubbio, molto temibile essendo l'Olonese. Guai a chi lo considera innocuo (vedi le nefaste furberie bicamerali), ma non ha più materia d´incantesimo: qualunque cosa dica o mimi, suona vecchia; l´hanno visto irresistibile solo pro domo sua; cederà voti alla Lega, né stupirebbe un cospicuo travaso nell´autentica destra.
Dove siamo e cosa sia augurabile, lettori curiosi possono indurlo dalla stampa equidistante (tale afferma d´essere, usando metri variabili). Ecco tre reperti. Il primo (E. Galli della Loggia, Corriere della Sera, 1 novembre 2010) parla chiaro: abbiamo un governo inerte; non capisce gli avvenimenti, remoto dal paese, stupidamente arroccato; chi lo guida commette imperdonabili défaillances, mentre reggi coda ipocriti, fautori della linea dura, alle sue spalle ne dicono d´ogni colore; in patologie simili i partiti vivi s´interrogano su quel che non va, cominciando dal capo «ingombrante»; non ha idee; s´è reclutato un personale da corte dei miracoli; bassi livelli intellettuali, maniera «plebea». Da quanti anni lo sapevamo. Il secondo diagnosta (S. Romano, ivi, 3 novembre) interviene a difesa enumerando i mirabilia governativi: nel libro dei sogni figurano invisibili opere pubbliche e persino «il recupero dell´evasione fiscale»; passando al premier, spende l´eufemismo «goliardico», salvo ammettere che i fatti de quibus stiano «divertendo il mondo» e lui parli troppo, malaccorto. Infine, auspica pace tra i due: se no, andiamo alle urne; abominevole l´ipotetico governo tecnico. Il terzo medico (P. Battista, ivi, 8 novembre) deplorava i dissidi interni, ammonendo lo junior, quasi non fosse in ballo il modo d´intendere politica, Stato, governo. Stavolta definisce «irrealistico», quindi «velleitario», il disegno d´un centrodestra che non abbia più B. «suo indiscusso e carismatico leader». Seguono rilievi deprecatori sull´anomalia d´un presidente della Camera che intima al premier d´andarsene: se crisi dev´essere, avvenga nelle aule; e la sfiducia non tocchi le questioni della spesa. Poi l´ammette, il nuovo partito è cosa seria, «forza politica vera», «anima autentica». Mosso da «consiglieri rancorosi», voleva liquidare il dissenso in sede disciplinare, pessima idea. Vero, ma era impossibile comporlo politicamente: B. vuol essere padrone nel partito, governo, parlamento, Stato, corti giudiziarie, oltre alle aziende e mille società, on shore, off shore, insomma dappertutto; G.F. difende una visione liberale. Severo l´ammonimento finale: non s´immischi in maggioranze spurie, irrispettose della «volontà popolare»; se la rottura è irreversibile, accetti l´ordalia elettorale, anche con l´attuale «orribile» legge (perfidamente combinata in extremis dal secondo governo B., verrebbe ancora comoda).
«It´s very clear», cantava Nat King Cole: gli «equidistanti», o almeno due dei tre, piangono sulla scissione (evento positivo, salutiamolo, il primo da quando è caduto il Caf, quasi vent´anni); volevano il Pdl ubbidiente al «capo carismatico», signore d´una Italia regredita nei secoli; auspicano che dal bagno elettorale esca vittorioso, forte, giovane (succede nell´alchimia, quando il re vecchio, malato, esausto trasmuta); in tale chiave va inteso l´aborrimento della maggioranza nuova emersa dalle Camere e governo-ponte; la qualificano proditoria, postulando una Repubblica plebiscitaria germinata nella cosiddetta «costituzione materiale». In mano ignorante formule tecniche diventano grimaldelli. Le conclusioni discendono a contrario. Piove dalle stelle l´ultima occasione della svolta che scongiuri un futuro caraibico: se hanno la testa sul collo, gl´interessati concertino due punti, regole elettorali e conflitto d´interessi; quando finalmente il quadro sia fisiologico, rimosso il pirata, destra e sinistra giocheranno le rispettive carte.
Mentre a Roma i gloriosi padani appoggiano il governo Bunga Bunga, nelle loro terre, in Veneto, i fiumi straripano alla grande, le città si allagano tipo Venezia, capannoni, laboratori e fabbrichette sono inagibili. Niente male come controllo del territorio, la tanto sbandierata specialità dei leghisti, che questa volta, perdonerete la metafora, ha fatto acqua da tutte le parti. Il governatore Zaia con il cappello in mano chiede un miliardo all'odiato stato centrale: il Veneto ai veneti, per carità, ma gli schei che vengano da Roma. Certo, un'alluvione è un'alluvione ovunque, e siccome l'Italia c'è ancora e la Padania non esiste, è giusto che all'emergenza si corra ai ripari con soldi di tutti. E questo anche se sulla Padania, un leghista di Varese ha vantato opere lombarde che in Veneto non si sono fatte: magra goduria vedere i barbari che si insultano tra loro. Quella che manca all'appello, però, è proprio quella parolina magica che i giannizzeri della Lega sventolano in ogni istante: territorio. Già, cos'hanno fatto per il territorio, la sua bonifica, la sua messa in sicurezza, la sua salvaguardia tutti quei sindaci e amministratori così impegnati a scrivere cartelli in dialetto? Crescere, urbanizzare. La casa, il laboratorio, il capannone, il magazzino, il laboratorio più grosso, la strada più larga, la casa che diventa villetta e via così. Per anni, prima sull'onda del «miracolo del nord-est», e poi cavalcando il «padroni a casa nostra», il tutto mentre il famoso territorio si comprimeva e diventava una bomba d'acqua pronta a esplodere. La sacra ampolla, il dio Po, la secesiùn, il dito medio alzato, le scuole griffate lega, il tricolore piegato in modo che si veda solo il verde (lo hanno fatto in aula i consiglieri regionali veneti della Lega il 4 novembre), tutto molto folkloristico. Ma poi chissà, svegliarsi una mattina con l'acqua alle ginocchia potrebbe essere il preludio di un risveglio vero, il primo passo per capire che il territorio è una cosa seria, che va usato per vivere, e non per i comizi.
Da quando vidi il film Il maschio e la femmina (1966) la prima volta avevo l’età dei suoi protagonisti e me ne colpì l’intelligenza nella descrizione dei disagi e speranze di una generazione. Ma quel che più ne ricordo è la scritta che, a bruciapelo e senza necessità evidente, interrompeva una scena per affermare che «la pubblicità è il fascismo del nostro tempo». Si è governato e si governa, in gran parte del mondo occidentale, con gli strumenti del consenso e del consumo, riuscendo quasi sempre a evitare il manganello e la censura diretta. Col companatico al posto del pane, la televisione al posto dei giochi del circo (ultima variante i festival di letteratura e altra cultura) e con la pubblicità. Pubblicità in senso lato – di uno stile di vita, di un modello di società propagandato come il migliore o l’unico possibile – ma che anche nel senso specifico e ristretto di un tipo di comunicazione che mira a far acquistare delle cose. Il potere della pubblicità è cresciuto enormemente, la stampa, per esempio, ne vive e ne è ricattata, le leggi che la limitavano sono state progressivamente abbattute e ci sono riviste dove le pagine di testo sono un terzo di quelle riservate alla pubblicità, senza considerare la pubblicità indiretta.
Fu Vance Packard per primo a denunciare questo attentato alla democrazia e alla libertà dell’informazione in un libro celebre, I persuasori occulti, a metà degli anni cinquanta. A noi poteva sembrare fantascienza, ma poi, come in molti altri campi, la fantascienza è diventata realtà, e come “genere” letterario è quasi scomparso (riprende oggi, mascherato, nella più accorta letteratura per ragazzi). Anche la battuta di Godard, che al suo tempo indicava una preoccupazione o una messa in guardia, è oggi una constatazione.
Un’idea moderna di pubblicità è esplosa in Italia negli anni sessanta, prima la pubblicità era secondaria, rozza, poco o niente mediata. Su un giornale degli anni trenta o quaranta la pubblicità di un lassativo si serviva dell’immagine celebre dell’incontro tra Dante e Beatrice lungo l’Arno accompagnata dal verso della Commedia «Io son Beatrice che ti faccio andare». Poi, col boom, vennero le grandi agenzie e la leva dei professorini che avevano sulla scrivania dei loro uffici milanesi e torinesi (l’ho visto coi miei occhi, ho avuto molti amici che si sono dati a quel mestiere) le opere di Jung e altri studiosi di simboli e miti, di immagini archetipiche, di studi sull’inconscio. La pubblicità si faceva furba e intellettuale, un settore in enorme espansione. Non sembrava disdicevole farne una professione.
La fase successiva è il ’68: quando si trattò di trovare lavoro molti passarono dal movimento alla pubblicità, soprattutto a Milano (più assai di quelli che finirono nel giornalismo o nella politica istituzionale, ma ovviamente meno di quelli finiti nella scuola). Ne vennero una perdita di sottigliezza, messaggi sempre meno velati, una aggressività via via più volgare e diretta. I giornali sono brutti anche per i ricatti della pubblicità. E se sfogliamo un quotidiano di quelli importanti (che sono due, forse tre, in stretto legame con lotte e intrighi del potere, dominatori dell’informazione bacata e nemici giurati della riflessione e delle connessioni) vediamo che vi si fronteggiano pagine di cronaca raccapricciante e di pubblicità da mondo dei sogni. E colpisce il leit-motiv, il tormentone sessuale: chi compra un’automobile X o Y scopa meglio e di più, e questo vale per una scatola di piselli o una birra, un computer o un best-seller, e volti e corpi di giovani robot da film americano imbecille vi si offrono spudoratamente, come in un Eden ritrovato dove ogni albero, animale o nuvola serve solo a veicolare un unico messaggio: comprate, solo così sarete felici. La sua logica è berlusconiana, ma chi protesta per altre forme di manipolazione trova questa normale, o meglio, la trovano normale i giornali e i giornalisti che se ne nutrono. L’elargizione della pubblicità Fiat, per esempio, è stato un modo di influire sui giornali della sinistra, anche quelli apparentemente più liberi.
La manipolazione pubblicitaria incide in profondità sulla salute mentale e sulla morale dei destinatari dei loro messaggi, e su quelli della Repubblica. È espressione del fascismo del nostro tempo. Dopo la guerra, molti figli chiesero ai padri come si erano comportati sotto fascismo o nazismo. Accadrà anche in Italia, dopo il trentennio che muore? Sarebbe sano, ma non succederà.
A metà del Ventesimo secolo il capitalismo occidentale sembrò vicino alla definitiva soluzione della questione sociale. Lo sviluppo economico non seguiva più il modello "marxiano" dello sfruttamento del lavoro; i salari potevano salire nella stessa misura dell´aumento della produttività senza intaccare i profitti, integrandosi nel meccanismo dello sviluppo e integrando i lavoratori nella struttura sociale. Questa combinazione virtuosa dipendeva da una condizione fondamentale: che i lavoratori disponessero di una loro organizzazione, il sindacato, tanto forte da sostenere i loro rapporti di forza con le imprese capitalistiche.
Questa condizione è venuta meno con la liberalizzazione mondiale dei movimenti di capitale intervenuta verso la fine del secolo, e con la conseguente globalizzazione dell´economia. Le grandi imprese, libere di spostare i loro investimenti in tutto il mondo, sono in grado di "ricattare" i lavoratori dei vari paesi. Questo è il senso del brutale ma ineccepibile vangelo di Marchionne.
La scomparsa della invisibile frontiera tra il capitalismo avanzato dell´Occidente e le economie sottosviluppate del resto del mondo ha risospinto il primo indietro nel tempo, riproponendo condizioni di divisione e di concorrenza tra i proletari di tutti i paesi.
Sembra, oggi, che restino due vie: sottrarsi a questa concorrenza ricorrendo al protezionismo; o accettare per un tempo indefinito la pressione di quella concorrenza con una svalutazione del lavoro, che si manifesta nella flessibilità dei salari e nella precarizzazione dei contratti.
Un’alternativa, veramente, c´è: convertire il lavoro da attività più tradizionali, esposte alla concorrenza, ad attività più specializzate e "competenti": un processo che è spontaneamente in corso: ma che è pur sempre condizionato nel tempo (la concorrenza "insegue", spostandosi verso le attività più specializzate) e nello spazio (quel processo non può investire che settori limitati).
C´è però un´altra alternativa, più vasta e radicale, che riguarda non il modo di produzione ma il modo di impiego delle risorse: il rapporto tra consumi privati e spesa sociale. È solo nell´ambito dei primi che agisce la concorrenza tra i produttori. In una società che destinasse ai telefonini la metà della spesa attuale e all´istruzione generale permanente il doppio (assumendo questi due tipi di beni come rappresentativi delle due categorie) il ricatto evangelico di Marchionne sarebbe molto meno efficace. Ciò comporterebbe ovviamente uno spostamento massiccio della tassazione dall´istruzione ai telefonini. Vaste programme, avrebbe detto De Gaulle. Ma è proprio un programma così vasto, di riorientamento delle preferenze, delle scelte, dei valori, che dovrebbe costituire l´impegno politico, anzi, propriamente, la ragion d´essere di una sinistra che insegue oggi vanamente la "concretezza" della sua agenda irrisoria.