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il manifesto, 10 aprile 2010

Lontano da Parma

di Guglielmo Ragozzino

In un articolo di Eric Dupin sulla Francia, Le Monde diplomatique - uscirà con il manifesto giovedì 15 aprile - parla di un paese diviso in due. A fianco di una Francia ben conosciuta che galleggia sulla crisi, c'è un'altra metà «invisibile». È quella di lavoratori, pensionati, disoccupati, di uomini e donne che non contano niente e che nessuno rappresenta. In Italia la situazione è simile, forse peggiore.

Il bello dell'Italia è che ormai, dopo le recenti elezioni, non c'è più neppure un velo di ipocrisia. I cinquemila industriali riuniti a Parma per il forum «Libertà e benessere: l'Italia al futuro», contornati dai loro cortigiani, di giornali, televisioni, università; da assistenti e segretarie, da politici e sindacalisti, finanzieri e banchieri, hanno svolto la loro proposta di riforma istituzionale.

Dopo tanto tergiversare, dopo lunghe discussioni e perdite di tempo su come incrinare il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, mettendo in gioco partite Iva, lavori a Cococo, referendum contro l'articolo 18 dello statuto dei lavoratori, ora c'è l'occasione di restaurare la selezione naturale, quella che nel capitalismo italiano mancava dai primi anni quaranta del secolo scorso. Oggi, con l'arrivo di Berlusconi, sarà un'apoteosi.

La selezione naturale nella visione vincente dovrebbe assicurare la tenuta del sistema industriale lasciando ai margini artigiani e piccolissimi imprenditori, negozi a gestione familiare, liberi professionisti. Tutti costoro rallentano la ripresa del tasso di profitto: sono scorie inutili. A Parma si è lasciato che qualcuno di loro prendesse la parola, dentro il forum o fuori, in segno di solidarietà imprenditoriale; come se tra Colaninno, Tronchetti Provera, Marchionne e un imprenditore varesino non più in grado di pagare gli stipendi a dieci o venti dipendenti ci fosse qualche legame, al di là di una sterile ideologia di classe. Ma il governo nazionale, presente in forze per onorare il nuovo patto confindustriale non ha niente da offrire all'impresa minore e a centinaia di migliaia di lavoratori che ne sono espulsi. Una buona parola e una promessa di ricorrere al capitalismo compassionevole: un ruolo che ormai il ministro Tremonti interpreta da par suo.

Tra gli operai dell'Eni di Porto Torres, intervistati l'altra sera ad Anno zero all'Asinara, c'era un tipo che raccontava dei suoi 15 anni di lavoro in fabbrica; da straniero era rimasto senza lavoro e senza permesso di soggiorno. Era insieme emigrato, operaio, disoccupato. Parlava un italiano perfetto, era uno di noi, dovremmo dirgli grazie e chiedergli scusa. E soprattutto trovargli un altro lavoro. L'Eni potrebbe rispondere di essere tenuto a una logica da multinazionale. Tutti sanno però che finché era «pubblico», contava ben di più nel mondo multinazionale e non metteva gli operai in condizione di «occupare» un'isola per difendere il posto di lavoro.

Della metà del nostro paese rimasta senza rappresentanza, una buona parte ha scelto di non votare a fine marzo per segnare il proprio distacco - il distacco di ciascuno - dalle istituzioni politiche. Rimane forte la solidarietà tra gli esclusi e rimangono forme di resistenza esemplare.

Le manifestazioni della libertà di stampa, del No B day, dell'acqua bene comune, quella di Libera a Milano, le carriole entrate a L'Aquila per toglier le macerie del terremoto, sono occasioni per stare insieme, per guardare il futuro. Per dire, insieme, che occorre organizzarsi: la sconfitta non dura mai in eterno.

la Stampa, 11 aprile 2010

Sarkozy l’autoipnosi è fallita

di Barbara Spinelli

C’è un metodo in Francia - lo chiamano metodo Coué - che s’adatta molto bene ai tempi che traversiamo: tempi di glorie politiche forti ma illusorie, di autosuggestioni, di esorbitante fiducia in sé, di bolle. È successo nella finanza con la crisi del 2007-2009, succede nella vita degli individui, succede spesso in politica. Nicolas Sarkozy, che da astro glorioso che era (in Francia ed Europa) è divenuto un presidente che inciampa e cade di continuo, è figlio del pensare positivo propagandato nella seconda metà dell’800 da Emile Coué, il farmacista che fondò in Lorena una scuola di psicologia applicata. La dottrina è semplice: all’essere umano basta convincersi di essere un grande, di acciuffare lesto il successo, di riuscire in quel che più brama (il potere, di solito) e tutto procederà alla meraviglia. Avrà successo, sarà un astro. L’immaginazione della grandezza, più ancora della volontà, esaudirà il desiderio.

Il magico motto che i pazienti del farmacista-psicologo dovevano ripetere venti volte a voce alta, la mattina e la sera, era: «Ogni giorno, da tutti i punti di vista, sto sempre meglio». È la formula che spiega l’ascesa di Sarkozy, ma anche la sua odierna caduta, in particolare dopo le regionali di marzo. D’un tratto c’è dramma all’Eliseo, ogni parola è fatta per ferire il presidente, per deprimerlo.

È significativo che ad abbatterlo, nei sondaggi e nell’umore, sia in questi giorni il veleno dei rumori sulla sua vita privata: proprio lui, che ha costruito la propria figura sulla fusione tra pubblico e intimo, ne paga adesso il prezzo. Il rumore sulla crisi del matrimonio pare lo terrorizzi: «Lo ha gettato in stato di trance», dicono i collaboratori. Comunque lo indispone più del necessario, del normale. È dovuta scendere personalmente in campo Carla Bruni, mercoledì in un’intervista alla radio, per calmare la bufera e in primo luogo lui, lo sposo abituato a vivere nella bolla dell’ottimismo che d’un colpo vede la bolla scoppiargli davanti al naso. Inattesa portavoce dell’Eliseo, è spettato a lei correggere l’aria mefitica del Palazzo: fitta di rabbia, vendetta, paranoie. Il consigliere di Sarkozy, Pierre Charon, è giunto fino a denunciare complotti, orditi non si sa da chi. Forse da un’altra donna, Rachida Dati, l’ex ministro della Giustizia non più gradita al presidente. Forse dalla finanza mondiale. Il rumore è un «atto di destabilizzazione», come il terrorismo o la speculazione monetaria. Più gentilmente fredda, meno agitata, Carla constata che «la rumeur è sempre esistita ed è inerente all’essere umano».

La vasta paura del rumore è un sintomo. Ne nasconde altre, che vanno dilatandosi e che un adepto del pensare positivo fatica ad ammettere. C’è la discesa nei sondaggi, ominosa per Sarkozy che si nutre copiosamente di sondaggi. C’è la paura di non riuscire la rottura annunciata: specie quella, ardua, delle pensioni. C’è la paura che chissà, visto l’esito delle regionali, Martine Aubry o altri candidati socialisti potrebbero vincere le presidenziali del 2012. C’è la paura che la dissidenza nel proprio partito s’estenda: ieri è stata la volta di Alain Juppé, ex premier, candidato potenziale alla successione del capo. Paura, smarrimento, nervosismo che si riacutizza: il pensare positivo che esaltò Sarkozy secerne oggi queste passioni tristi. Il metodo Coué, auto-ipnotico, sta fallendo. Sta dimostrandosi, come già nell’800, un placebo.

Lo spettacolo e i sondaggi, due ingredienti essenziali dell’autosuggestione, si ritorcono contro l’ipnotizzato. Un giornale scrive, a proposito del presidente e della sua smodata scommessa sulla telecomunicazione: «Chi zappa col telecomando viene zappato», scacciato via dallo schermo per noia o sazietà. L’iper-potenza che dominava all’Eliseo, agile, svelta, vittoriosa (ci fu chi parlò di un Kennedy, di un felice intruso apparso nei compunti saloni presidenziali) è divenuta iper-impotenza, scrive il settimanale Marianne. Con più di quarant’anni di ritardo, la storia sembra dar ragione a Guy Debord e alle sue tesi sulla Società dello Spettacolo: «La vita intera delle società (...) si annuncia come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto quello che era direttamente vissuto s’è ritirato nella rappresentazione. Lo spettacolo non è un supplemento del mondo reale, una sua decorazione. È il cuore dell’irrealismo della società reale». Sarkozy aveva fabbricato la propria scalata sullo spettacolo, sull’ubiquità della propria immagine. Figlio del ’68 e della televisione, aveva trasformato in piano d’azione l’amaro verdetto di Debord: «Gli spettatori non trovano quello che desiderano. Desiderano quello che trovano».

In questo pseudomondo vive il capo dello Stato, dove vince chi recita 40 volte al giorno l’identico mantra, fino a crederci. Erano altrettante promesse-mantra la rottura, l’apertura alle idee di sinistra, soprattutto le riforme, questa parola martellata come si fa coi verbi difficili nei nidi d’infanzia (così Berlusconi che proclama «grandi, grandi, grandi, grandi riforme»). In parte la rottura è avvenuta: non regna più, all’Eliseo, l’atmosfera arcana dei tempi di De Gaulle e Mitterrand, il linguaggio ampolloso che piacque tanto ai francesi e dopo la guerra li persuase d’esser vincitori. Già Giscard ruppe con una verbosità fattasi indigesta.

Invece delle riforme resta poco, e quel che resta ha cominciato a irritare non poco i francesi: il famoso scudo fiscale, che fissava un limite del 50 per cento alle tasse sui redditi, ha privilegiato i più ricchi e non ha fermato la fuga di capitali all’estero. La televisione pubblica, cui è stata vietata la pubblicità, è asservita all’esecutivo. Un mestiere chiave, quello degli insegnanti, è stato umiliato con discorsi sprezzanti e tagli, cavalcando un malumore che sembrava diffuso ed era invece una foto istantanea del Paese, scambiata per storia lunga. La vista corta ha reso Sarkozy cieco alle sofferenze che s’affastellavano e anche muto, perché per dire qualcosa avrebbe dovuto pensare negativo. Sofferenze come quelle manifestatesi nei suicidi alla Telecom (46 fra il 2008 e oggi), oltre che alla Renault. Collere come quelle esplose in questi giorni nelle regioni occidentali colpite da Xynthia, la tempesta. Senza alcuna consultazione locale, lo Stato ha deciso di demolire 1510 case. Una decisione forse inevitabile sul piano tecnico, ma attuata da uno Stato che resta prevaricatore e lontano, contrariamente ai giuramenti di Sarkozy.

Ma è soprattutto il respiro affannato e nervoso che lo ha logorato, l’origine vera della destabilizzazione è qui. Lo hanno consumato i tempi che s’accorciano, l’attitudine a essere non l’uomo della provvidenza ma l’Uomo del Presente: di tutti i presenti, man mano che vengono e passano. Era liberista in economia, poi è sopraggiunta la crisi e ora è per il modello sociale francese. La verità di lungo periodo non l’ha tuttavia detta mai, sulla grandeur nazionale sfatata ogni giorno dai fatti del mondo. Il «gran dibattito sull’identità nazionale», da lui avventatamente inaugurato nel 2009, conferma il respiro breve, la corsa frettolosa ai consensi ambigui: l’iniziativa ha dato le ali non al suo partito, non all’Eliseo, ma all’estrema destra. L’Uomo del Presente era inoltre ricco di parole, non di azioni: i francesi non l’hanno stavolta tollerato. Hanno avuto la reazione di Camus: «Ho orrore di coloro le cui parole vanno più lontano delle azioni». Lo scrittore lo scrisse in una lettera del 1946, su violenza e marxismo. Vale anche per la dolce violenza del moderno coaching e del pensare positivo.

Il politico che vive nella bolla o che segretamente si sente un «illegittimo» (Sarkozy lo confessò al filosofo Michel Onfray, in un’intervista del marzo 2007) ha bisogno di autostima, subito. Istericamente anela all’immediatezza: il coaching che lo allena presto, senza lunghe analisi psicologiche o politiche, è il fatale metodo Coué cui si aggrappa e si condanna.

«La Lega cerca l´accordo con la sinistra perché non vuole il referendum. Ma è un errore. Sto facendo una gran fatica per convincere Umberto, ma ci riuscirò». Il referendum dobbiamo farlo e dovrà esserci un solo quesito. Perché la "Grande Riforma" va fatta salire su un vagone unico, un solo disegno di legge». Presidenzialismo, federalismo, giustizia. Sono questi i tre corni del progetto (non la legge elettorale) che Silvio Berlusconi si è piazzato da qualche giorno in bella vista sulla scrivania di Palazzo Chigi. Un disegno che tecnicamente sta ancora prendendo forma, ma che negli obiettivi del Cavaliere ha già assunto una precisa fisionomia. E una scadenza: il 2013. Quando si chiuderà la legislatura e anche il mandato presidenziale di Giorgio Napolitano. Due appuntamenti che nella sua "road map" segreta vanno via via sempre più sovrapponendosi.

Dopo la conferenza stampa di ieri a Parigi e nei colloqui avuti l´altro ieri sera ad Arcore, il premier ha tracciato con i fedelissimi il percorso che intende seguire nei prossimi tre anni. Una strategia puntellata di precauzioni e preoccupazioni. È infatti convinto che con il Senatur «dovrò spezzarmi in due» per persuaderlo. Ed è poi cosciente che con Gianfranco Fini sarà tutto più complicato. A Via del Pebiscito, guardano infatti con diffidenza alle mosse del presidente della Camera: il feeling con Pier Ferdinando Casini, il dialogo con l´opposizione, la sponda con Giorgio Napolitano. Eppure, ragiona il presidente del consiglio, «non si è accorto che il capo dello Stato si sta comportando bene. Anche oggi è stato corretto». L´inquilino di Montecitorio, invece, «sta sbagliando, il referendum spazzerà via tutte le ambiguità».

Nella traiettoria che il premier ha tracciato, del resto, ci sono già dei punti fermi: non intende, ad esempio, segnare le riforme con la sola bandiera del federalismo. «Non ripeteremo l´errore del 2006. Il referendum solo sulle tesi leghiste era destinato alla sconfitta. Ma se puntiamo sul presidenzialismo e su un pacchetto unico e complessivo, gli italiani capiranno». Il referendum confermativo non prevede quorum e per questo la sfida del Cavaliere consiste nel persuadere elettori sul merito della «svolta». «L´Italia - ragionava ieri tornando in Italia da Parigi - è ormai pronta per il presidenzialismo. La gente vuole scegliere direttamente e io continuo a fare politica solo perché credo di poter lasciare il segno». Per di più, con un solo disegno di legge la campagna elettorale non potrà concentrarsi solo sul capitolo giustizia. Che Palazzo Chigi considera il più delicato. Sta di fatto che l´orizzonte del riforme, per Berlusconi, sta diventando sempre più lo strumento per accreditarsi con una veste nuova a fine legislatura. Un nuovo profilo per presentarsi di nuovo alle urne per candidarsi alla guida - da Palazzo Chigi o dal Quirinale - della «Terza Repubblica».

«Lasciare il segno», un refrain che ormai il Cavaliere ripete a tutti. Un risultato da conseguire nei prossimi tre anni per non rischiare «un ritorno alla Prima Repubblica». Un traguardo, però, che impone il superamento dei dubbi "lumbard" e «l´abbattimento» delle resistenze del presidente della Camera. Basti pensare a quel che dice della legge elettorale. Il modello semipresidenzialista francese va costruito senza il doppio turno perché l´attuale sistema «ha funzionato bene, ha tutelato il bipolarismo e la stabilità, ha portato in Parlamento solo cinque gruppi. Non accetterò mai che venga cambiato. Lo sappia anche Gianfranco». Il suo timore "ufficiale" è che si ritorni ad un meccanismo che favorisca «i boss locali e il malaffare». Quello "ufficioso" è fondato sulle paure che il doppio turno coalizzi tutti gli «anti-Berlusconi» mentre la Lega può correre da sola al primo turno.

Persino le richieste pervenute da Bersani rafforzano l´opzione referendaria. «Io vorrei l´accordo con la sinistra, lo vorrei tanto, ma temo che saremo costretti a fare da soli. Lavorare solo sul Senato federale e sulla riduzione dei parlamentari, come chiede il segretario Pd, equivale a non fare niente. Vedo che pure Violante sostiene questa tesi. Ma a che serve? La verità è che non hanno un leader, non hanno uno in grado di "tenere", di difendere le mediazioni come fece Togliatti nel ´48. Non sapranno resistere a Di Pietro e a quel Grillo. Dovranno dirci di no e noi procederemo con il referendum».

Il percorso triennale studiato da Berlusconi terminerà dunque con la legislatura. E negli ultimi giorni, il presidente del consiglio ha ricominciato a parlare del suo «futuro» in politica con uno sguardo di lungo periodo. «Io - si è sfogato con i suoi - vorrei tanto poter fare un passo indietro. Comportarmi come con le mie aziende: ho trovato una persona di cui fidarmi come Fedele che le gestisce benissimo. Ma un Confalonieri in politica non l´ho trovato». Eppoi ha azzardato un paragone che ha lasciato tutti di stucco e ha insinuato il sospetto anche tra lo staff: «Mi dicono che nel 2013 sarei troppo vecchio, eppure io vedo quanto è attivo Napolitano. E allora perché non posso andare avanti io che sono pure più giovane?».

La Lega si sente vincente, il centro sinistra perdente. Non contano i numeri, i confronti, conta il clima. Baldanza da una parte, mestizia e timidi distinguo dall’altra. Ma quando si entra nel merito delle ragioni e si affronta il caso più bruciante, quello emiliano, c’è un’analogia che nella sua condivisone da destra e da sinistra stupisce un po’. La Lega vince, si legge in questi giorni, perché si comporta come i vecchi comunisti (temo profondamente offesi dal paragone) va nelle case, nelle piazze, sta nel territorio. C’è della verità, è indubbio, ma a patto di fermarsi alle strutture organizzative, alle forme di consenso. Importanti si sa, ma oggi questione di apparati, di marketing. Così si corre il rischio di confondere gli espedienti comunicativi con i contenuti della comunicazione.

I comportamenti elettorali hanno indicato cosa chiede la società, anche i grillini e gli astenuti oltre ai leghisti. Non trascuriamo trascinati dalla tracotanza della Lega le altre componenti. Perché se è vero che nell’attimo contingente è la Lega lo spauracchio con richieste che arrivano fino a Bologna, per uscire dalla torbidità bisogna capire quali messaggi queste elezioni hanno inviato. Che pur con linguaggi diversi e progetti contrapposti, scaturiscono dalla matrice territorialista.

Figli del malessere a cui la politica non ha dato risposta, cercano soluzioni a partire dal vissuto: lavoro, casa, famiglia, sobrietà, sicurezza, socialità. Chiedono luoghi meno inquinati e congestionati, amano il verde, l’ecologia, i prodotti naturali, l’agricoltura di prossimità, le energie alternative. Chiedono autodeterminazione, potestà di controllo e decisione, autogestione delle risorse collettive. Credono nell’idea di comunità, chi in chiave premoderna, tribale, chi nella sfera delle reti cibernetiche. Concordi nella critica alla globalizzazione puntano alla valorizzazione del locale. Rifiutano il modello della crescita quantitativa.

Questo il ‘comune sentire’ dei movimenti che hanno votato Lega e Cinque Stelle. Divaricato nelle proposte, ma affondato nelle emergenze che la società da tempo soffre e segnala. Che non hanno trovato attenzione se non in blande retoriche cui non sono seguite prassi coerenti. E che, se non vuole confondere popolo e populismo, la politica deve soppesare. Chi si è astenuto ha urlato di essere stanco di cambiamenti solo di lobby, di alternanze di bandiere che non modificano gli indirizzi di fondo. Non qualunquismo dunque ma rabbia, dichiarazione politica. Risposta al tradimento del mancato ascolto.

Tornando ai vecchi comunisti evocati a modello, erano vincenti quando forti della speranza in un mondo di uguaglianza e fratellanza. La diversità poggiata sui contenuti, sul programma. Da cui traevano la passione della militanza. Un proselitismo sulle idee non sulla mole di propaganda. Su quell’esempio per porsi come alternativa bisogna riempire la scatola vuota del programma, ritrovare l’orgoglio della diversità, farsi interpreti dei bisogni e desideri che la società manifesta.

Chiarire dunque innanzitutto cosa si intende per sviluppo e con quali strumenti e compagni di viaggio perseguirlo. L’Emilia-Romagna è stata esperimento di un progetto economico alternativo di successo. Non rivoluzionario ma ben radicato nel territorio, a coglierne aspettative e potenzialità. Schema non riproducibile, il mondo è cambiato non si può non tenerne conto. Ma bisogna capovolgere il cannocchiale e anziché dalla sudditanza al globale e dagli imperativi della crescita senza preoccupazioni sociali, partire dalla ricchezza che la territorialità può esprimere. Guardare oltre insomma, dove il sentir comune indica, sapendo cogliere le proposte con l’umiltà che la sconfitta suggerisce.

LA POLITICA FA ACQUA

di Stefano Rodotà

Sulla decisione del comune di Aprilia di tornare in possesso della «sua acqua» abbiamo raccolto questa dichiarazione di Stefano Rodotà, che ha presieduto la commissione sui beni pubblici e ha collaborato ai quesiti referendari. ( Qui il servizio di Andrea Palladino)

Nel vaniloquio su «come stare sul territorio» e «come stabilire rapporti con le persone» piomba questa iniziativa del comune di Aprilia e ci dice che la politica è ancora possibile. È persino troppo semplice dire che cosa significhi «politica» in un caso come questo. È qualcosa che riguarda grandi questioni di principio, riconoscibili però nella materialità degli interessi. È qualcosa che non frammenta la società (non abbiamo capito le partite Iva, non abbiamo capito il nordest...), ma la unifica, ci trascina al di là dei localismi e delle corporazioni. È qualcosa che non contrappone cittadini e istituzioni, ma trova il modo per tenerli insieme, dunque l'antidoto migliore contro l'antipolitica (categoria che, ad ogni modo, dovrebbe essere adoperata con cautela e rigore).

Troppo per una iniziativa locale? Non credo. Mi pare, anzi, che vi siano altri insegnamenti da trarre, e provo ad indicarli sinteticamente. La costruzione dell'agenda politica, in primo luogo, non affidata esclusivamente alla volontà delle maggioranze di governo, ma determinata anche dalle iniziative di una molteplicità di soggetti. Una controprova? Non voglio dire che l'iniziativa di Aprilia sia il frutto del nuovo clima creato dalla proposta di un referendum sull'acqua come bene comune, perché proprio in quel comune vi erano già state azioni giudiziarie in questa direzione e mobilitazioni dei cittadini. È vero, tuttavia, che la questione dell'acqua è oggi un tema ineludibile per la discussione pubblica.

Lo dimostrano anche alcune resistenze che già si manifestano, come quelle di due senatori del Pd che dicono di ritenere impropria la via referendaria, poiché sarebbe il Parlamento il luogo dove affrontare una questione così rilevante. Questa reazione, però, segue la proposta di referendum, sì che si potrebbe facilmente obiettare che proprio questa proposta ha svegliato il loro interesse e la loro voglia di fare, mentre totale era stata la disattenzione di fronte al fatto che in questa materia esistevano già una proposta di legge d'iniziativa popolare firmata da quattrocentomila cittadini. Una proposta di legge presentata proprio al Senato per iniziativa della Regione Piemonte che indicava l'acqua tra i beni comuni e un analogo disegno di legge d'iniziativa del gruppo Pd.

Si vuole cominciare ad agire subito, senza rinviare tutto al voto referendario? Ma il successo di una azione parlamentare, in questa come in tutte le altre materie che dovrebbero entrare a far parte di una grande agenda politica, è ormai legato a metodi che innovano rispetto al passato. Muoversi in Parlamento? Certamente. Ma usando convintamente gli strumenti offerti dai regolamenti parlamentari alle minoranze per far sì che le loro proposte vengano davvero discusse. Questo, però, non espone le iniziative della minoranza alla dura legge dei numeri parlamentari, condannandole alla bocciatura? E allora è indispensabile attivare altri circuiti politici.

Nel momento in cui si decide di far diventare il tema dell'acqua bene comune l'oggetto di una azione parlamentare è indispensabile che l'intero partito venga mobilitato intorno ad esso, stabilendo rapporti seri con tutti i gruppi e i movimenti già attivi. Ma questo non può essere chiuso nella logica tradizionale dei rapporti politici. Deve divenire l'oggetto di manifestazioni pubbliche in cui il Pd, ad esempio, «ci mette la faccia», senza tuttavia pretendere alcuna esclusività o monopolio. E, soprattutto, deve divenire l'oggetto di una discussione aperta al massimo, sfruttando tutte le potenzialità di Internet, che tante vicende recenti hanno rivelato, e che possono trovare forme diverse, comprese quelle di un forte lobbismo dal basso verso partiti, parlamentari, mezzi di informazione con sms, e-mail, reti sociali, siti specifici. E l'appoggio alla raccolta delle firme per il referendum diviene una forma ulteriore di mobilitazione. Cambiando così l'agenda politica, non sulla carta ma nella realtà, crescono le possibilità di successo delle stesse iniziative dei parlamentari e, soprattutto, si crea quell'ambiente politico e sociale finalmente propizio al successo di ogni altra iniziativa, da quella del comune di Aprilia e di altri comuni che vorranno seguire il suo esempio fino a quella referendaria.

FESTA D'APRILIA

Aprilia, l'acqua torna pubblica

di Andrea Palladino

Settemila famiglie che da anni non pagano le bollette al gestore privato, un «tesoretto» nelle casse del comune. Come i cittadini di un comune del basso Lazio riescono a invertire la rotta delle liberalizzazioni

Nelle sede del comitato acqua pubblica di Aprilia oggi ci sono almeno una trentina di persone in attesa. Una fila paziente, silenziosa, con le cartelline in mano, davanti al lungo tavolo bianco dove i militanti del comitato preparano le contestazioni della gestione di Acqualatina. Una scena che si ripete da quattro anni, da quando settemila famiglie decisero di non pagare l'acqua al gestore privato, ma di versare i soldi sul conto corrente del Comune. «Verificammo che il conto corrente della gestione comunale dell'acqua era ancora attivo - ricordano oggi - facendo un versamento di un euro». Poi fu una valanga: contestazione della bolletta inviata dai privati e, contestualmente, pagamento dell'acqua al Comune, con le tariffe che erano state decise dal consiglio comunale.

Oggi, però, è una giornata differente e in molti sorridono. Mostrano le decine di assegni firmati Acqualatina, simboli dei tanti ricorsi già vinti dal comitato, dalle settemila famiglie, avendo come controparte un colosso come Gerit Equitalia, il riscossore che sta cercando di recuperare i soldi per conto di Acqualatina.

Ma c'è di più. Il presidente del consiglio comunale ha convocato le principali tre commissioni, con all'ordine del giorno «la riconsegna dell'impianto idrico comunale da parte di Acqualatina S.p.a.». L'amministrazione comunale - fatta di liste civiche elette un anno fa dopo un lungo governo del centrodestra - ha dunque deciso: la prossima settimana chiederà indietro le chiavi dell'acquedotto al gestore partecipato dalla multinazionale francese Veolia. E loro, i settemila firmatari delle contestazioni, che per anni hanno denunciato le conseguenze della gestione privata dell'acqua, continuando a pagare a quel comune fatto di rappresentanti eletti e non nominati dai consigli di amministrazione francesi, hanno raggiunto un traguardo neanche immaginabile fino a poco tempo fa. Hanno dimostrato che la mobilitazione dei cittadini - al di fuori dei partiti, basata solo sul senso civico e su quel sentimento profondo che respinge le ingiustizie - può cambiare le cose, può rimandare a casa una multinazionale potente come la Veolia.

Tecnicamente la decisione che verrà discussa dal consiglio comunale di Aprilia la prossima settimana è l'attuazione di una sentenza del Consiglio di Stato depositata lo scorso anno. Parole scritte dai giudici amministrativi che riconoscono alcuni principi fondamentali sulla gestione dei beni comuni. Primo, i cittadini non sono semplici sudditi e hanno tutto il diritto - in gergo giuridico si chiama legittimazione - di chiamare in causa una multinazionale quando questa non rispetta i diritti fondamentali. Secondo, l'acqua non è un bene qualsiasi, gode di una tutela superiore. E, terzo, i comuni hanno il pieno titolo di decidere come gestire le risorse idriche, senza dover subire interventi dall'alto. Dunque, conclude il Consiglio di Stato, il comune di Aprilia può decidere a chi affidare la propria acqua senza doversi inchinare alle decisioni prese dalla Provincia di Latina - che di fatto ha voluto imporre la scelta di un gestore privato - guidata dal centrodestra.

La sentenza ha segnato positivamente la storia della gestione dei beni comuni in Italia, ma mancava il primo e fondamentale passo. Da mesi il comitato acqua pubblica chiedeva alla giunta e al consiglio quella decisione che attendeva pazientemente da anni e che ora sta per arrivare. E Aprilia apre la strada a tantissimi comuni, stretti tra acquedotti che non possono più governare e una popolazione sempre più inferocita, che in ogni caso continua a rivolgersi ai primi cittadini, ai loro eletti. È questo il vero paradosso della privatizzazione, che non potrà che peggiorare con il decreto Ronchi. Cosa farsene della mera proprietà delle reti se l'acqua che scorre è gestita da consigli di amministrazione non eletti dai cittadini e non sottoposti ai principi della democrazia rappresentativa?

Acqualatina non ha commentato la decisione del Comune di Aprilia. Fino ad oggi l'azienda ha risposto duramente alle contestazioni: prima mandando pattuglie con vigilantes per ridurre l'acqua a chi contestava, poi affidando ad Equitalia la riscossione delle bollette. In entrambi i casi a nulla è servita la mano pesante, mentre il comitato acqua pubblica si è rafforzato, arrivando a determinare - nelle ultime comunali - la sconfitta del Pdl. E la decisione di riprendersi gli impianti idrici rappresenta un precedente estremamente pesante per la società controllata per il 49% da Veolia. Dunque, la partita non sarà semplice.

Il Comune di Aprilia si prepara a riprendere la gestione degli acquedotti e delle fognature con un vantaggio venuto proprio dagli utenti. Oggi nei bilanci comunali ci sono più di un milione di euro versati dalle settemila famiglie in questi anni. Soldi che se fossero finiti ad Acqualatina oggi sarebbero assorbiti da un bilancio dove pesano i debiti con la banca Depfa, lo stesso istituto sotto inchiesta a Milano per i derivati venduti all'amministrazione comunale. Quei soldi potranno da domani essere immediatamente usati dalla giunta di Aprilia per riavviare la gestione del servizio idrico integrato. Un vero tesoretto messo da parte con determinazione da chi non ha mai accettato le multinazionali e la gestione privata del bene più prezioso. Ad Aprilia da domani la parola democrazia tornerà ad avere senso.

LA CRONOLOGIA

Cinque anni di lotte

Il due agosto del 2002 il servizio idrico integrato nella provincia di Latina - dopo una gara d'appalto che suscita non poche polemiche - viene affidato alla società mista pubblico-privata Acqualatina. Il 49 per cento delle azioni va a un gruppo di aziende, guidate dalla multinazionale francese Veolia.

le tariffe aumentano

La città d'Aprilia, il primo luglio 2004 consegna gli impianti.Il 27 febbraio del 2005 si costituisce il comitato acqua pubblica, dopo un aumento delle tariffe che raggiunge anche il 300%.

ad acqua armata

Nell'agosto del 2008 il manifesto racconta di come Acqualatina stava riducendo l'acqua a chi continuava a pagare la bolletta al comune, con l'ausilio di vigilantes armati. Molte famiglie ad Aprilia si ritrovano senza acqua.

REFERENDUM

Al voto da soli. Si spacca l'Idv - Di Pietro forza la mano e rompe con il Forum

Antonio Di Pietro nello stanzone del comitato acqua pubblica di Aprilia non ha mai messo piede. Non conosce le tante storie che sono cresciute dietro i tanti comitati spontanei nati negli ultimi cinque anni in Italia, per contrastare - spesso da soli - l'avvio della privatizzazione dell'acqua. Anzi, spesso l'Italia dei Valori - soprattutto in provincia di Latina - si è trovata dall'altra parte della barricata. Sarà forse per questo che sulla questione dei referendum per la ripubblicizzazione ieri ha sbattuto la porta in faccia al Forum italiano dei movimenti per l'acqua pubblica, presentando in Cassazione un proprio quesito referendario su due temi delicatissimi: acqua e nucleare.

«Un vero scippo», commenta Paolo Ferrero. «Una cannibalizzazione dei movimenti», spiega un furioso Angelo Bonelli. E una spaccatura tutta interna all'Italia dei Valori, visto che la decisione Antonio Di Pietro l'ha presa il giorno prima di un esecutivo che - oggi - dovrà discutere del tema. Con una posizione dichiaratamente contraria di Luigi De Magistris e di Sonia Alfano, che hanno chiesto pubblicamente di rispettare l'autonomia del movimento per l'acqua pubblica.

Ieri il Forum italiano dei movimenti per l'acqua ha ricevuto la risposta alla lettera che qualche giorno prima era stata recapitata al leader dell'Italia dei Valori, dopo l'annuncio della promozione di un secondo - e contrapposto - referendum sull'acqua. Una lettera dai toni glaciali, quasi formali, rifiutando l'incontro chiarificatore e confermando la presentazione di un proprio quesito. Il Forum aveva cercato nei giorni scorsi in tutti i modi di recuperare i rapporti con Di Pietro, inviando centinaia di email agli eletti nelle liste dell'Idv. Una prima risposta, positiva, era arrivata da De Magistris, contraddetto però da Di Pietro. La chiusura della lettera suona poi come una beffa: siamo disponibili ad ospitare anche i vostri moduli nei nostri banchetti.

Il tema dello scontro è in realtà molto profondo. I due quesiti referendari si differenziano sul modello di gestione delle risorse idriche che viene proposto. Per il Forum - e per il comitato di giuristi come Rodotà e Mattei - l'acqua dovrà ritornare pubblica, escludendo la gestione privata o quell'ibrido ancora più pericoloso che è la partnership pubblico-privata, elaborata nei think-tank delle multinazionali francesi alla fine degli anni '90. Con il quesito presentato ieri in Cassazione Antonio Di Pietro riconferma, invece, la sua posizione del 2006: nessuna preclusione alla gestione privata, va solo abolita l'obbligatorietà della scelta introdotta dal decreto Ronchi. «Ricordo bene la posizione di Di Pietro durante il governo Prodi - racconta Angelo Bonelli, presidente dei Verdi - quando in consiglio dei ministri, assenti i rappresentanti della sinistra - passò una prima bozza del decreto Lanzillotta, che prevedeva l'affidamento ai privati della gestione dell'acqua». Il progetto venne poi bloccato grazie all'opposizione di Verdi e di Rifondazione comunista, che imposero l'esclusione dei servizi idrici dalle liberalizzazioni.

È il senatore Paolo Brutti, responsabile ambiente dell'Italia dei Valori, a spiegare qual è il vero senso dell'iniziativa referendaria proposta da Di Pietro: «È vero, la nostra proposta è vicina a quella del Pd - racconta - perché per noi è prioritario respingere il decreto Ronchi». Ovvero l'obiettivo sembra essere più la politica anti Berlusconi che l'acqua pubblica. «Vogliamo riportare lo stato delle cose a prima del decreto Ronchi, lasciando scegliere i comuni tra le tre forme di gestione, quella pubblica, quella mista e quella privata, come aveva già stabilito il governo Prodi», spiega. Brutti va poi oltre nell'analisi dello strappo con i movimenti, spiegando quali saranno i prossimi passi: «La Corte costituzionale di fronte a due quesiti sullo stesso tema potrà convocare i due comitati per farli convergere su un unico referendum. E la nostra proposta è più vicina alla sensibilità del Pd, che sui referendum del Forum ha qualche perplessità». Dunque un assist a Bersani, con in mano lo scalpo del movimento per l'acqua pubblica, rafforzando così un'alleanza che Di Pietro oggi ritiene sempre più importante, soprattutto in vista delle elezioni del 2013. Una partita comunque aperta, dove i comitati e le associazioni del Forum potranno giocare un ruolo da protagonisti, soprattutto dopo la vittoria di Aprilia.

LA LETTERA DIPIETRISTA

«Divisi su punti essenziali», cioè sulle privatizzazioni

Siete stati voi a non volerci nel comitato promotore, il nostro referendum differisce dal vostro su «punti essenziali» (la libertà di scelta tra sistema pubblico, misto o privato), il quesito lo avevamo presentato noi per primi un anno fa. E infine, la Consulta potrebbe bocciare i vostri referendum perché creerebbero un «vuoto legislativo». Questa, in estrema sintesi, la risposta di Antonio Di Pietro ai movimenti per l'acqua, dopo la presentazione dei referendum su acqua e nucleare avvenuta ieri. Con una raccomandazione: «Noi abbiamo un grande rispetto per il vostro quesito ma nello stesso tempo ci permettiamo di chiedervi uguale rispetto per il nostro: saranno poi i cittadini a valutare la bontà dell'una o dell'altra proposta o, come ci auguriamo, di entrambi». In realtà, è molto difficile che la Corte di fronte a due referendum simili li faccia passare entrambi. E, dei due, quello dell'Idv mantiene aperta la porta ai privati. E all'adesione del Pd.

Non mi sento, sinceramente, di chiamare in causa la responsabilità del presidente della Repubblica per aver promulgato la legge sul legittimo impedimento. E ciò per un semplice fatto: non diversamente da quando fu sottoposto alla sua firma il c.d. Lodo Alfano, anche questa volta Giorgio Napolitano si è trovato, nei fatti, di fronte a quello che Leopoldo Elia nel luglio 2008 definì un ricatto. Allora, l’alternativa era tra il Lodo Alfano e il disastro della legge blocca-processi; ieri l’alternativa è stata tra il legittimo impedimento e lo sconquasso del processo breve.

A ciò si aggiunge, forse, una seconda giustificazione della promulgazione: il presidente Napolitano e i suoi consiglieri giuridici potrebbero aver auspicato, da parte dei magistrati, una possibile interpretazione in bonam partem di questa legge. E cioè che il magistrato, nell’applicarla, tenga comunque presente l’articolo 420 ter del Codice di Procedura Penale a cui la legge sul legittimo impedimento rinvia. E l’articolo 420 ter prevede, per l’appunto, che per far luogo ad un rinvio del processo penale per legittimo impedimento dell’imputato, debba sussistere l’«assoluta impossibilità a comparire».

Sinceramente, un’interpretazione del genere, per quanto «costituzionalmente orientata», a me sembra forzata. Infatti, qualora essa venisse seguita, verrebbe meno proprio quella «presunzione assoluta» di legittimo impedimento connessa ad una serie illimitata di ipotesi concernenti l’attività del Premier e dei Ministri, che era - ed è - l’effettivo, conclamato obiettivo della legge in questione. Ritengo perciò che se ci si astrae dalle considerazioni di opportunità politica che possono aver giustificato la promulgazione della legge, ne è indiscutibile l’incostituzionalità per almeno cinque diverse ragioni:

1) È infatti irrazionale, e vìola l’articolo 3 della Costituzione., che una «presunzione assoluta di impedimento» possa sposarsi con la regola (articolo 420 ter) che prescrive l’«assoluta impossibilità» di comparire in udienza.

2) Oltre che irrazionale, vìola l’indipendenza della funzione giurisdizionale (articolo 101 comma 2 della Costituzione) l’attribuzione all’interessato, e cioè allo stesso Premier, del potere di dichiarare il «proprio» impedimento. Nella sentenza n. 225 del 2001 la Corte costituzionale (caso Previti) affermò che la funzione giurisdizionale non può prevalere aprioristicamente sulla politica, ma affermò altresì che la politica non può prevalere aprioristicamente sulla funzione giurisdizionale. Ciò che invece pretende di fare questa legge.

3) Il legittimo impedimento è automatico: opera cioè in forza della dichiarazione dello stesso Presidente del Consiglio. Questo automatismo è stato già dichiarato incostituzionale, per contrasto con l’articolo 3 della Costituzione, dalla Corte costituzionale in occasione della sentenza numero 24 del 2004, con riferimento al c.d. lodo Schifani.

4) Viene configurato il legittimo impedimento come se si trattasse di una prerogativa costituzionale. Ma la Corte costituzionale aveva già detto nella sentenza numero 24 del 2004 (lodo Schifani) - e lo ha ripetuto ancora più chiaramente nella sentenza n. 262 del 2009 (lodo Alfano) - che le prerogative costituzionali possono essere previste solo con legge costituzionale. Di qui la violazione dell’articolo 138 della Costituzione, che prevede una speciale procedura per le leggi costituzionali.

5) Del resto, che fosse necessaria, nella specie, una legge costituzionale lo ammette, candidamente, la stessa legge, allorché all’articolo 2, prescrive: «Le disposizioni di cui all’articolo precedente si applicano fino alla data di entrata in vigore della legge costituzionale recante la disciplina organica delle prerogative del Presidente del Consiglio dei Ministri e dei Ministri…». Ma se è la stessa legge a riconoscere che l’altra parte del ponte (quella ancora da costruire) sarà posta cento metri più in alto (con legge costituzionale), come può pretendere di collegarvisi, se essa, avendo la forma di una legge ordinaria, è stata costruita cento metri più in basso?

Le dilaganti inchieste sulle opere ed eventi della Protezione civile e sulla corruzione ripropongono il tema delle attuali regole che governano il settore degli appalti e l’applicazione poi concreta che ne deriva. Dal nord al sud, opere grandi e piccole, varianti urbanistiche e concessioni, piscine e forniture nella sanità, servizi di catering, consulenze, progetti, collaudi ed arbitrati: ogni intervento, secondo quanto è emerso, si presta a manipolazioni e pressioni indebite. Sono almeno quattro i fattori essenziali da affrontare per contrastare il fenomeno: un sistema di regole attualmente non capace di controllare a monte in modo efficace le procedure; la totale perdita di etica e senso dello Stato da parte di numerosi funzionari pubblici; la disattenzione dell’opinione pubblica e dell’informazione in nome del “fare presto”; il rapporto deformato e sovrapposto tra imprenditori e politica, con il reciproco sostegno economico ed elettorale.

Sarebbe un errore fare una critica indistinta, mentre serve ricostruire l’evoluzione del quadro di regole che ha sistematicamente ridimensionato procedure più rigorose, in nome della “politica del fare presto” che ha imposto il governo Berlusconi ma che ha influenzato anche il centrosinistra in molte occasioni.

Anche ai tempi dell’inchiesta Tangentopoli nel 1992 emerse chiaramente che gli eventi speciali e le ordinanze della protezione civile per giustificare interventi urgenti ed affidati a trattativa privata, erano stati uno dei volani formidabili di corruzione. Basti pensare agli interventi per il terremoto dell’Irpinia, agli interventi per il disastro in Valtellina, ai Mondiali del 1990, alle Colombiadi del 1992, i piani di ricostruzione eterni di Longarini - dove migliaia di miliardi di vecchie lire non si trasformarono in interventi bensì in tangenti, come ha accertato la magistratura.

Negli stessi giorni della grande inchiesta sulla Protezione civile, sui giornali è apparsa con minor rilievo la notizia che la Corte dei Conti ha condannato definitivamente Gianni Prandini, potente ministro democristiano ai Lavori pubblici tra il 1989 ed 1992, ad un risarcimento allo Stato di 5 milioni per danno erariale. Colpa di ben 449 appalti affidati dal ministro a trattativa privata e che hanno causato un maggior esborso per lo Stato di 320 milioni di lire. Come dire che siamo ritornati alla stessa storia di 20 anni fa ...

Dopo il ciclone che travolse nel 1992 la prima repubblica su appalti e tangenti, il parlamento approvò nel 1994 la nuova legge in materia di appalti pubblici, su proposta del ministro Merloni. Conteneva regole molto stringenti sui limiti della trattativa privata e sulle ordinanze del protezione civile, sulle varianti in corso d’opera e sui lavori complementari, separava progettazione ed esecuzione delle opere (altrimenti i progetti lievitano nell’interesse del costruttore), sostituiva il vecchio Albo dei Costruttori con la Soa - un sistema di certificazione controllato delle imprese di costruzione -, istituiva l’Autorità di Vigilanza sui lavori pubblici. Si fece la riforma dell’Anas, eliminando lo stretto cordone ombelicale con il ministro e si misero in campo le delibere per adottare la riforma delle concessioni autostradali. Non si riuscì invece a semplificare il numero delle stazioni appaltanti in un numero stringato e controllabile, lasciando l’attuale "babele".

Uno dei primi atti che assunse il governo Berlusconi al suo primo debutto nel 1994 fu di sospendere gli effetti della legge Merloni. Si dovettero aspettare diversi anni e il governo Prodi perché tornasse - se pur rivista in diverse parti - la nuova norma in materia di appalti e concessioni. E' in questo clima che si svolsero i lavori per le Olimpiadi invernali di Torino ed i lavori del Giubileo a Roma, eventi speciali ma che comunque sono stati realizzati con regole e vigilanza pubblica.

Lentamente cominciò l’attuazione della legge Merloni: anche se a più riprese, emendamenti mirati riuscirono a strapparle dei pezzi, invocando l’eliminazione dei “lacci e lacciuoli” che impedivano la realizzazione delle opere ed allungavano i tempi: un ritornello che ci ha inondato per anni e da cui certo non si è sottratto, tranne le solite lodevoli eccezioni, il sistema dell’informazione.

Nel 2001 la legge Merloni, con il secondo governo Berlusconi, subì un affondo frontale: con la "legge obiettivo" è tornato l’appalto integrato di progettazione ed esecuzione, si è semplificata la valutazione ambientale ed i progetti sono tornati ad essere di pessima qualità. Si è tentato anche di sopprimere l’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici: tentativo fallito, ma l'Autorità non ha mai avuto le migliori condizioni per svolgere il proprio lavoro in termini di risorse e di poteri efficaci. Nel settembre 2001 un decreto legge ha ricondotto la Protezione civile sotto la Presidenza del consiglio, e nella conversione parlamentare ha poi allargato, su prposta del governo, la sua competenza della Protezione civile ai “grandi eventi”. Inutile ricordare che il piccolo drappello di Verdi allora presente in parlamento ben si accorse dell’impatto della norma e, benché intervenne con ostinazione per segnalare la gravità della cosa, rimase naturalmente abbastanza inascoltato, anche a sinistra.

Il risultato di che cosa significhi definire qualsiasi cosa un “grande evento” ed evitare in questo modo di affidare appalti e servizi con gara di evidenza pubblica, lo abbiamo visto tutti.

Infine nel 2006, a pochi giorni dalla nuova tornata elettorale, il governo Berlusconi ha emanato il nuovo codice appalti elaborato da Pasquale De Lise, presidente del Tar del Lazio, che partendo dal necessario recepimento di due direttive europee, riassume in un codice unico degli appalti, in cui si allentano ulteriormente alcune misure, tutte le norme del settore. Se da un lato è vero che le norme europee dovendo tener conto di regimi giuridici e sistemi imprenditoriali diversi, hanno maglie molto larghe e contengono anche forti innovazioni, è pur vero che esse sono state sempre utilizzate per allentare ulteriormente il sistema di regole italiane.

Nei due anni di Governo Prodi vengono corrette le norme più devastanti, si adottano riforme stringenti delle concessioni autostradali, si rimettono a gara le tratte non iniziate dell’alta velocità ferroviaria ma, certo, non si è frenata la logica dei "grandi eventi" affidati alla Protezione civile, nè si è corretta la Legge obiettivo per le grandi opere, perché spesso anche nel centrosinistra la cultura del "fare presto" è sembrata inconciliabile conregole e procedure di controllo.

Con il ritorno del terzo governo Berlusconi, i grandi eventi e le ordinanze della Protezione civile diventano la regola, si cancella la riforma delle concessionarie autostradali, che tornano a realizzare il 60% dei lavori direttamente con le proprie imprese, si restituiscono ai vecchi consorzi 15 miliardi di lavori a trattativa privata per l’alta velocità ferroviaria ( Milano-Genova, Milano-Verona-Padova). Si ripropone il piano carceri da realizzare in fretta con grandi deroghe in materia di appalti ed affidamenti, si consente alle opere pubbliche dell’Expo 2015 di Milano con una apposita delibera del gennaio 2010 di derogare dal Codice Appalti sulle varianti, sui collaudi, sul subappalto, sulla direzione lavori e le procedure autorizzative.

Infine tornano i lotti costruttivi e non funzionali delle grandi opere che vengono introdotti con un emendamento in legge finanziaria 2010 per inaugurare pezzi di opere che si sa quando cominciano e non si sa quando finiscono! Ed è ancora di questi giorni il dibattito in consiglio dei ministri per mettere un freno alle parcelle degli arbitrati e ai collaudi affidati ai soli noti, che spesso fanno parte di istituzioni che dovrebbero vigilare in modo imparziale sul buon andamento dei lavori.

Sono stati ripristinati anche i commissari per le grandi opere, con l’unico scopo di attribuire poteri speciali ed alleggerire le procedure già straordinarie come quelle della legge obiettivo: basti pensare a Pietro Ciucci, uno e trino, che è Presidente di Anas, Amministratore Delegato della Società Stretto di Messina (di cui Anas è socia all’82%) e commissario straordinario per la realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina.

Con questo quadro di regole in cui la deroga è tornata la regola, inutile stupirsi dei risultati che le inchieste della magistratura hanno scoperchiato ed il sistema di informazione amplificato.

Anche la Corte dei Conti nella sua relazione annuale ha sottolineato come i casi di corruzione e concussione nel 2009 siano triplicati rispetto al 2008, mentre sono stati ridimensionati con norma i poteri della stessa Corte di Conti di intervento. Del resto la proposta di trasformare la Protezione Civile in SpA, poi bocciata per lo scoppio delle inchieste, aveva come scopo principale quella di ridurre i controlli della Corte dei Conti.

C’è un sistema politico ed imprenditoriale deformato, che cerca di evitare ad ogni passo l’affidamento mediante gara ma, anche quando si procede con gara di evidenza pubblica, il sistema di regole non è sufficientemente efficace. Semplificare il numero delle stazioni appaltanti (per consentire controlli efficaci), rafforzare l’Autorità di Vigilanza sui Lavori Pubblici anche sul piano delle risorse e dei poteri, eliminare gli eventi e l’estensione dei poteri legati alle ordinanze della Protezione civile, sono misure essenziali per superare questa debolezza strutturale del sistema di regole.

Ma per accorciare i tempi servirebbe anche selezionare pochi e finanziati cantieri utili (e non la solita e sterminata lista delle grandi opere) ed elaborare progetti di qualità, per ridurre varianti, contenziosi ed impatti ambientali. Questi sono gli strumenti necessari per "fare presto" le opere e non le scorciatoie che deformano il sistema, premiando i meno innovativi ed i più permeabili alla corruzione e che, inoltre, non riducono affatto i tempi come si vuol far credere.

Adesso il sistema dell’informazione sembra essersi svegliato ma non è ammissibile che l’attenzione sia a corrente alternata o legata al momento politico, perché se c’è una cosa che il sistema teme più delle regole (chi si possono sempre aggirare elegantemente….) è il fare luce sugli affari e le reti indecenti di protezione. Anche la reazione indignata dei cittadini è una buona premessa ed una speranza perché non vengano premiati “gli affaristi” e la “buona” politica del fare abbia la meglio. Oltre alle regole, al cambiamento servono anche informazione ed indignazione

Almeno tre sono stati gli esiti negativi delle recenti elezioni regionali: flessione di partecipazione, riconfermata debolezza del Pd, e deludente performance di chi ha voluto trasformare la campagna elettorale in un lotta ringhiosa e vuota di argomenti politici. Con l'enorme impiego di mezzi e uomini profuso dal presidente del Consiglio ci si sarebbe attesi una vittoria dilagante del suo partito, una valanga di voti. Ma così non è stato. Il centrodestra ha vinto grazie alla Lega non al Pdl. Questo è certamente il dato più importante di queste elezioni regionali, ed è speculare alla debolezza strutturale del Pd: la crescita della Lega al Nord, una crescita forte. Una crescita maturata a spese tanto dei suoi naturali avversari quanto dei suoi alleati di governo. Una crescita che, come ha suggerito Ezio Mauro su questo giornale, pare destinata a continuare e che deve fortemente preoccupare la sinistra, soprattutto in quelle aree immediatamente a sud del Po, quelle tradizionalmente rosse dell'Emilia-Romagna. Perché qui si gioca la partita del futuro non solo o tanto del Pd ma della natura stessa della democrazia italiana.

Proviamo quindi a leggere uno dei dati negativi - la debolezza del Pd - alla luce della vittoria della Lega, l'unico partito politico nel senso tradizionale del termine sulla scena nazionale. Nel Nord la Lega si è trovata a competere direttamente con il Pd, perché è in queste regioni che il Pd ha la sua più radicata storia, che è, se così si può dire, ben presente sul territorio. Ma nel Nord la Lega è stata protagonista a tutto campo, molto più attiva della sinistra, la cui presenza è nelle istituzioni locali e nelle organizzazioni sociali, ma non nel mondo ampio della politica attiva e popolare. Al contrario, la Lega ha dimostrato ancora più organicamente che in passato di essere un vero partito - capace di fare comizi volanti, di costruire una presenza capillare, un rapporto diretto con gli elettori, non solo e non tanto nelle città ma anche nei piccoli centri della pianura emiliana: una strategia e forme della politica che erano un tempo del Pci. Politica militante, fatta da e di volontari con molta fede e pochissimi dubbi, con il loro tempo libero dedicato alla causa, capaci di articolare un discorso politico.

La Lega non è un partito mediatico eppure va avanti. E' un partito identitario che aggrega e fa sentire i suoi affiliati parte di qualcosa, di un mondo, di un'idea. Che, in sostanza, fa sentire l'importanza mai tramontata del linguaggio politico-ideologico. Un'importanza che il Pd non pare voler comprendere (e che, anche per questo, continua tra l'altro a non attirare i voti di chi è alla sua sinistra, una vera e propria iattura perché l'emorragia di quei voti è la causa prima della sua sconfitta).

La Lega fa strategia e sa farla: per esempio, usa un linguaggio radicalmente xenofobico e aggressivo dove è partito d'opposizione e usa una strategia riformista dove è partito di governo (anche in questo caso non può non venire alla mente il doppio binario ben noto al vecchio Pci). E' un fatto indiscutibile che mentre grida contro l'immigrazione nelle regioni dove vuole mietere consensi, nelle regioni dove governa non solo c'è molta immigrazione ma c'è soprattutto una politica dell'integrazione.

Politica del doppio binario che denota un partito fortemente ideologico ma anche caparbio e ben conoscitore della terra dove opera e della prudenza strategica. A percorrere la via Emilia a nord di Bologna, tra Modena e Piacenza, in questa ricca terra costruita da un Pci che aveva un'idea di società ben chiara e un'altrettanto chiara idea di governo del territorio, a girare per queste città si sente la presenza in crescita della Lega. E' questa ricca parte d'Italia che è a rischio leghista, anche perché la più minacciata dalla crisi e dalla chiusura di tante piccole aziende che trasferiscono i capitali dove le braccia da lavoro sono senza diritti e costano molto meno di qui, lasciando dietro di sé disoccupati italiani ma anche disoccupati immigrati, gente con il permesso di soggiorno, tollerata nel tempo delle vacche grasse e adesso rivale degli emiliani che temono il loro impoverimento. La nostra terra a noi, si sente dire sempre più spesso, mentre la presenza degli immigrati, meno visibile quando il lavoro c'era per tutti, oggi è insopportabilmente visibile.

Impossibili da condividere e terribili perfino da pronunciare, le parole della Lega riempiono il vuoto ideologico generato negli anni dalla politica organica del pragmatico status quo socialdemocratico. E' facile trasformare i deboli in capri espiatori, in nemici; lo è ancora di più quando questi discorsi non trovano una sponda, quando chi dovrebbe arginarli è senza discorso. Come riuscire a dire che quella della Lega è un'ideologia sbagliata e aberrante? Chi può spiegare alla gente che i nemici sono non gli immigrati ma chi ha spolpato le risorse di questa terra e ora se ne va altrove?

Ma non è facile per la sinistra al governo nelle città emiliane rispondere all'offensiva della Lega. Anche perché la Lega non promette cambiamenti di programma economico-sociale; non dice che si devono togliere i servizi sociali, non fa un discorso liberista; promette invece di difendere questo modello e sostiene di poterlo fare meglio di chi lo ha creato. Perché mentre chi lo ha creato lo ha fatto in nome di valori universali di giustizia e eguaglianza, la Lega dice che per difenderlo occorre che solo la maggioranza goda di quei benefici; solo gli italiani, solo i locali; diritti che devono diventare privilegi; che è giusto che siano beni per e degli italiani. Del resto, quando la sinistra ha creato questo modello di buon governo gli uguali erano italiani, l'universalismo era facile da giustificare e comprensibile. Oggi lo è molto meno.

E in questa complessità la Lega propone un'ideologia semplice e ben strutturata. Essa ha ed è tutto quello che il Pd non ha voluto avere ed essere. Perché nelle intenzioni dei suoi fondatori, il Pd non doveva essere un partito, un attore collettivo con sezioni di partito e militanti; anzi, se ben ci si ricorda, il Pd è nato come un'alternativa a tutti i partiti identitari e contro l'ideologia. Qui sta la sua debolezza, ed è tragico e assurdo che i suoi leader di ieri e di oggi non vogliano capirlo.

Ma queste elezioni confermano quello che dicevamo all'indomani delle elezioni politiche del 2008: che l'ideologia è una componente indispensabile nel discorso politico democratico. Ma attenzione: ideologia politica non è lo stesso di polemica arrabbiata. Il Pdl per esempio ha un identità nel nome del capo e molta aggressività faziosa, ma ha una narrativa ideologica povera o molto approssimativa. La vittoria della Lega è anche contro questo modello di partito padronale e falsamente ideologico, oltre che contro un partito che non vuole essere un partito.

Una lezione che l'opposizione dovrebbe saper trarre da queste elezioni è dunque quella di coniugare politica della personalità e politica delle idee. Il suo modello non può essere quello di un partito non-partito; dovrebbe essere invece quello di un partito che sia capace di tenere insieme questi due fattori. Occorre una leadership politica nel senso vero della parola: che sappia proporre una narrativa politica, un progetto di governo migliore di quello esistente; e che sappia attirare e anche trascinare, preferibilmente con discorsi ragionati, comprensibili e politici. Leader capaci o carismatici insieme a ideali politici: poiché gli elettori devono sapere le ragioni del loro voto, che non possono essere solo di opposizione al presidente del Consiglio. Tenere queste due componenti, non puntare su una sola o una finzione di entrambe. Con una specificazione: che a sinistra non si può pensare di fermare la Lega imitandone i contenuti e il linguaggio, una tentazione che, lo si avverte nell'Emilia rossa, molti elettori di tradizione di sinistra hanno. Sul terreno del razzismo e della purezza etnica la Lega è inimitabile (per fortuna). Ma il modello del buon governo della società è altra cosa e ha dato e dà ancora ottima prova di sé in una parte molto importante e cruciale del nostro paese – ciò di cui questo modello ha bisogno è una narrazione, una capacità immaginativa che sappia proporre la soluzione ai problemi che la crisi economica crea e sta creando. Una politica di riconversione industriale che sappia dare un'alternativa a lavoratori che hanno grandi competenze; di rilancio del modello di democrazia sociale, uno dei migliori d'Europa. E' una sfida bella dopo tutto, un'occasione per tornare a studiare e ad essere creativi.

Da dove cominciamo, Nadia Urbinati, a parlare del risultato elettorale e dello stato della sinistra in Italia? Dal Partito democratico? Dal cantiere dei lavori fatti e da fare, dall'analisi degli errori e dalle fondamenta di una nuova proposta? Cominciamo dal successo di Vendola, da Grillo?

«Cominciamo dall'Emilia».

Risponde così Nadia Urbinati: c'è bisogno di una discussione larga, ampia, franca e senza paura. Un dibattito come quello che si è sviluppato in questi giorni anche sulle colonne del nostro giornale e soprattutto nel web, migliaia di lettori ci hanno scritto per raccontarci quel che vedono, quel che sperano, quello in cui credono e in cui non credono più. Apriamo davvero il cantiere delle idee, dice la docente della Columbia, appassionata studiosa di politica. Però facciamolo a partire dalla realtà: lasciamo che l'insegnamento ci venga dai fatti.

Dunque l'Emilia, dove da poco è tornata a vivere. «Perchè in queste settimane, da quando sono rientrata in Italia, ho visto nei miei paesi qualcosa che non avevo visto mai. L'Emilia sarà la prossima regione a diventare leghista se non ci sarà un cambio radicale e profondo. In larga parte lo è già. Vedo i militanti della Lega girare per le piazze dei paesi con le roulotte e i camioncini, fermarsi a fare comizi di fronte a sei persone. Senza telecamere, senza microfoni. Senza media al seguito. Li sento scandire parole d'ordine semplici che fanno presa. Vedo le persone a me vicine cambiare. L'Emilia oggi è la frontiera più avanzata, o più arretrata. È Little Big Horne. La Lega ha capito molto bene che è questa la sfida più grande. La rivincita. Il vecchio desiderio democristiano. Quel che non si è tinto di bianco oggi si sta tingendo di verde. I leghisti hanno la capacità di farlo. Hanno militanti che credono, non che dubitano e discutono. Fanno turni, lavorano in modo sistematico, casa per casa. Il modello americano è questo: casa per casa. Non bastano le cene elettorali, quelle sono ad un altro livello. Nelle piazze dell'Emilia profonda il Pd non c'è. A Ferrara ho visto le navette che portano al centro commerciale. Nei paesi sono tutti chiusi dentro le case, con le loro parabole per vedere la tv. E' il Midwest: è qui che si vince o si perde».

«A partire dal linguaggio, sì. Ma dietro il linguaggio ci deve essere un ordine del discorso. Devi prima sapere cosa vuoi poi dire cosa pensi. Farlo in modo chiaro. Parole semplici e narrativa ricca. A Carpi, a Sassuolo. C'è la crisi della ceramica. Ha la sinistra una politica di riconversione industriale da proporre? Le donne della Omsa, senza lavoro perchè la manodopera all'estero costa meno. La risposta non può essere la cassa integrazione per mesi, per anni. Ci vuole un progetto. Quegli impianti devono restare qui, qualcuno sa dire come? La Lega dice che i neri - gli stranieri - portano via il lavoro. In queste zone è un'affermazione che somiglia alla realtà. Quando il lavoro non c'è la competizione è fra chi resta escluso e chi entra in assenza di regole. Sappiamo dare una risposta?»

«A Modena - continua Nadia Urbinati - ho visto favolose piste ciclabili. Non basta. Ho visto nascere come funghi grandi centri commerciali fatti per dare ossigeno alle coop edili. Hai dato lavoro per qualche tempo agli edili, ma hai finito per portare la gente nei luoghi del berlusconismo. Dentro casa davanti alla tv durante la settimana, al centro commerciale nel week end. L'integrazione con le comunità immigrate non è avvenuta. Ciascuno vive nel proprio ghetto. I bambini vanno insieme a scuola, e cosa fanno dopo? Niente che li porti in un futuro diverso dal passato: rientrano nelle loro comunità di origine, gli adulti si chiudono e si difendono gli uni dagli altri. Sta nascendo un'altra società e la sinistra non ne è consapevole, non sembra esserlo, se lo è è impotente».

«Proviamo in Emilia a ricostruire le sezioni di partito. Non i circoli che si riuniscono una volta al mese, per il resto deserti, nel migliore dei casi i militanti si parlano sul web. È la presenza sul territorio che manca, i giovani hanno bisogno di fare qualcosa, lo chiedono: domandano cosa possiamo fare, dove possiamo andare? Non c'è un luogo. Alle feste dell'Unità la maggioranza è fatta di anziani. È a questo livello che bisogna ricostruire a partire dai nostri principi, i nostri valori: il buon governo, la legge uguale per tutti, la Costituzione, la crescita di una comunità solidale».

«Il Pd è nato distruggendo i partiti alla sua sinistra. Una parte della sinistra non si riconosce in quel partito, né può farlo. Ma il modello arcipelago è fondamentale. Se non ti federi con i partiti a te vicini quelli se ne vanno. Gli elettori con loro. La scelta strutturale di guardare al centro ha conseguenze visibili. Gli elettori che non si riconoscono in questo Pd guardano a Di Pietro, poi a Grillo. Oppure si astengono. È una catena di delusioni progressive. Poi, certo, se guardo ai risultati dei partiti alla sinistra del Pd osservo che l'utopia è parte della politica, e la protesta è necessaria. Serve se è finalizzata a un risultato, se no può diventare dannosa per tutti. Si può stare vicini senza essere identici. Bisogna ascoltare chi protesta, provare a comprendere e non snobbare. Lo stimolo critico deve essere espresso, ce n'è bisogno. Nader ha determinato la sconfitta di Gore, ma è stato perché la politica di Gore non era abbastanza convincente».

«Il grande problema è avere una classe dirigente solo istituzionale, parlamentare. Sarebbe una buona cosa che il leader dello schieramento non fosse un uomo delle istituzioni. Chi è nella condizione di difendere la sua posizione non è fino in fondo libero. Vivere di politica significa che non si può vivere per la politica. È Weber. Ci vogliono personalità libere di progettare un disegno comune fuori dagli schemi delle convenienze e delle appartenenze. Sarà chi saprà trovare un minimo comune denominatore alle forze della sinistra colui che saprà renderla forte abbastanza da consentirle di governare il Paese».

«Sì, c'è anche una questione di leadership. Dobbiamo consentire di far crescere un'altra generazione, non usarla solo come simbolo senza dargli potere. Se no è il rapporto che c'è tra genitori e figli: i genitori hanno la borsa, tengono i cordoni. I figli hanno bisogno del loro conto in banca. Non hanno lavoro, non hanno autonomia, non hanno peso».

«Berlusconi occuperà anche il web. Ha grande istinto, è capace di arrivare alla gente. Per il Pd il web è burocrazia, un lavoro come il resto. Non rispondono. Io lo uso a volte. Non mi rispondono. Non vedono, non capiscono. Obama ha vinto le elezioni grazie alla rete. Un dollaro a testa, in milioni e milioni lo hanno finanziato. Qui vai a cene elettorali dove paghi cento euro e il leader non viene. Certo bisogna fare le due cose: ma farle bene, entrambe».

«Infine direi solo: bisogna andare a riprendere le persone e tirarle fuori da casa, dar loro qualcosa di più interessante della tv. Berlusconi ha costruito il suo potere isolando gli italiani davanti alle sue tv. Ma la Lega non ha tv, usa il modello del Pci di antica memoria. Uno stile premoderno, il camioncino e il megafono, bussano e ti compilano i moduli, ti aiutano a risolvere i problemi minimi che per le persone sono fondamentali. Noi non facciamo né l'uno né l'altro. Vogliamo cominciare a parlarne?».

Nota: sulla corrispondenza fra città dispersa e formazione/sviluppo della destra politica più radicale, si veda anche da Carta " Un'arida metropoli bianca" (f.b.)

Dunque il Piemonte è stato annesso al lombardo-veneto. Alla vigilia del 150° anniversario dell'Unità d'Italia ha rovesciato il segno simbolico del proprio ruolo storico, come se la Seconda Guerra d'indipendenza fosse stata perduta. Come se a Solferino e San Martino avessero vinto gli altri. E infatti, appena finito di contare i voti, Zaia e Cota, all'unisono, si affrettano a proclamare la propria alleanza col Papa Re dall'accento asburgico, passando sul corpo delle donne e sul testo di una legge della Repubblica.

Non c'è dubbio che è questo il dato centrale delle elezioni. Il fatto che, con buona pace di Pier Luigi Bersani, dà per intero la misura della sconfitta del centro-sinistra: la "caduta" del Piemonte. Perché con essa la Lega, occupando con uomini propri tanto il Nord est che il Nord-ovest e aumentando il proprio già forte peso in Lombardia, unifica sotto le proprie bandiere pressoché tutto il Nord. "Governa", di fatto, la Padania. Può dire - e di fatto così è - di non aver guadagnato solo due amministrazioni regionali della Repubblica, ma di aver conquistato "un regno": il più "pesante" della penisola. D'ora in poi la geografia politica italiana non sarà più la stessa.

Il secondo fatto cruciale per leggere quanto è accaduto, è che Berlusconi non ha perso. E quindi, date le circostanze, ha stravinto. Più nulla, ma proprio nulla, di ciò che è e di ciò che fa, era sconosciuto. Tutti i suoi vizi, quelli privati come quelli pubblici, erano noti. Scritti nelle carte dei giudici e sulle prime pagine dei giornali. E tuttavia non solo non è crollato, come sarebbe stato naturale aspettarsi, ma ha finito per prevalere. Il suo "racconto" - sempre più narrazione di se stesso - ha continuato a rimanere il racconto prevalente. L'autentica "autobiografia della nazione". Ognuno di quei vizi e di quei fatti, sarebbe bastato da solo, in qualsiasi altro paese normale, a segnare la fine di qualsiasi uomo politico. Sicuramente di qualsiasi Capo di stato. Qui no. E ora, nel lavacro elettorale, quei vizi e quei fatti, diventano "norma" perché come si sa - come gli anni Venti e Trenta dell'altro secolo ci hanno insegnato - l'illegalità impunita e la perversione accettata a furor di popolo si trasformano in legittimazione. Non solo l'inaccettabile viene accettato, ma diviene forma del senso comune prevalente. E attributo della sovranità.

Certo - si dirà - Berlusconi ha portato a casa la pelle, ma ha perso il partito. Ed è così. Nella sua lotta per la sopravvivenza ha messo in campo solo ed esclusivamente la propria persona. Anzi: la propria faccia. Il suo Sé abnorme. Quello che ha chiesto - e purtroppo ha ottenuto - è un plebiscito su se stesso. Ma ha rivelato anche il vuoto politico che ha intorno a sé, tra le proprie mura. Molti - davvero tantissimi - servi; pochi, quasi nessun politico. Il Pdl, più che un partito, si è rivelato una corte, da una parte; e un coacervo di interessi e di spezzoni d'identità dall'altra. Alla prova del voto quello che nelle intenzioni avrebbe dovuto diventare il partito egemonico della destra, è imploso miseramente.

Il Pdl ha rivelato la propria inconsistenza organizzativa (fino al limite dell'incapacità di realizzare le operazioni più banali per un partito come la presentazione della lista). E la propria inoperosità identitaria e politica, tanto viscosa da aver neutralizzato persino l'identità forte di quello che era rimasto finora un vero partito, cioè An.

Esattamente come il Pd, inerte nel gioco incrociato dei notabilati interni e delle trascorse storie personali e collettive, incapace di mobilitare passioni e di nobilitare interessi. Soprattutto esangue, privo di una propria corporeità sociale, di un proprio popolo, di una propria gente in nome della quale parlare e dalla quale essere riconosciuto. Prigioniero dell'era del vuoto che con la propria genesi ha inaugurato.

Ed è questo il terzo dato qualificante: il fallimento dell'operazione avviata nell'estate-autunno del 2007, con il proclama del predellino, da una parte, e con la kermesse mediatico-plebiscitaria veltroniana in preparazione delle primarie del non ancor nato Pd, dall'altra. Essa aveva, esplicitamente, l'obiettivo di ridisegnare l'architettura del sistema politico e istituzionale italiano intorno alla centralità di un bipolarismo ad alta vocazione egemonica. Di superare l'impasse in cui si era arenata la cosiddetta seconda Repubblica con una radicale semplificazione del sistema dei partiti intorno al doppio polo Pdl-Pd. Due entità - è bene ricordarlo -, che si auto-dichiaravano nuove, in corso di stampa si potrebbe dire. E che - nell'enfasi della retorica nuovista - si presentavano come un inedito. A quelle due incognite era affidato - in modo del tutto irresponsabile - il compito improbo di ritracciare in forma costituente il profilo del nostro assetto istituzionale, secondo la logica di una partita di poker in cui la posta era giocata "al buio".

Oggi sappiamo che quelle due entità che avrebbero dovuto diventare partiti, in realtà non sono mai arrivate. Che la produzione liofilizzata del Pdl e la fusione fredda del Pd si sono in qualche modo fermate a metà, lasciando in campo due ectoplasmi incerti sulla propria forma. Involucri dal contenuto eterogeneo, che non si è mai trasformato in amalgama: agglomerati di gruppi in esplicita competizione interna. E' significativo che siano molte, in un campo e nell'altro, le vittime del "fuoco amico", dal ministro Brunetta (disertato dai leghisti) alla governatrice Bresso (affondata più dai dissidi interni che dai grillini valsusini)... Ma è ancor più rilevante il fatto che è proprio da Pdl e Pd, in forma bipartisan e simmetrica, che si sono riversati al di fuori del sistema politico i quasi tre milioni di voti che mancano all'appello: cosa ancora in qualche misura comprensibile per il Pdl, rispetto al quale almeno una parte di elettorato moderato può esser stato disgustato dagli eccessi del leader. Ma assai meno scontata per il Pd, che avrebbe dovuto capitalizzare l'impresentabilità del suo avversario, facendo il pieno al di là dei suoi meriti.

Se persino in questa circostanza il suo stesso elettorato l'ha, almeno in parte, abbandonato, deve essere stato davvero elevato il suo potenziale "repellente". L'effetto-delusione che esso ha alimentato: il senso di distacco, di auto-referenzialità, in qualche misura di arroganza e insieme di separatezza del suo ceto politico. La sua distanza dai territori e dalla gente che li abita. La sua incapacità di parlare un linguaggio condiviso, e di disegnare un orizzonte di valori credibili e comuni. Bersani che in diretta TV rivendica il merito di aver «invertito la tendenza», alludendo a una sorta di vittoria, mentre tutto il suo popolo, quello che l'ha votato, è piegato in due dalla sofferenza e dalla consapevolezza della sconfitta storica, è l'emblema dell'abisso scavato tra il ceto politico e il suo popolo. Dell'incapacità di parlare la stessa lingua e di condividere lo stesso universo di senso. Ci dice di una dirigenza di partito capace solo di guardare all'interno (e di guardarsi alle spalle), preoccupata più di parare i colpi degli avversari nel partito che di vedere ciò che avviene nel mondo esterno, simbolo vivente di un esodo, drammatico, della politica di sinistra dai luoghi della vita quotidiana.

Su questo terreno istituzionalmente liquefatto restano solo due corpi: il corpo solitario del Capo, sopravvissuto miracolosamente a se stesso e al "giudizio di dio" da lui stesso invocato; e il corpaccione collettivo della Lega, impastato di sangue e di suolo. Carisma da satrapo, e milizie territoriali da rude razza padana. Detteranno i modi e i tempi della transizione. E non sarà una passeggiata. Il triennio che ci aspetta non sarà segnato dalla lenta agonia del berlusconismo, nel quadro di una pacifica ri-normalizzazione. E men che meno - è quasi un'ovvietà - dal civile confronto sulle riforme. Tanto vale dirselo.

SE VOGLIAMO guardare al futuro dopo lo scossone elettorale le questioni sono due: il destino delle riforme e l´andamento dell´economia. Ma poiché entrambi questi temi sono condizionati dalla politica e dai rapporti di forza emersi dalle elezioni della scorsa settimana, i risultati del 29 marzo non possono essere archiviati come cosa nota.

Pesano sul futuro, sui comportamenti dei protagonisti e sugli umori della società. Perciò dobbiamo esaminarli con cura e al di fuori della propaganda di parte, rileggendo i numeri emersi dalle urne e cavandone un significato.

Comincerò dalla Lega, che politicamente è il partito vincitore. La sua vittoria politica è indubitabile: non governava nessuna Regione ed ora ne governa due; in Veneto ha largamente superato il Pdl; il Nord padano è saldamente guidato dal centrodestra e in particolare dalla Lega che può vantare anche una penetrazione inquietante in Emilia.

Alla vittoria politica non si è però accompagnata una vittoria elettorale in termini di cifre assolute. Gli elettori della Lega infatti sono stati due milioni e 750 mila; nelle europee erano stati due milioni e 900 mila; nelle politiche del 2008 ne aveva raccolti due milioni 847 mila. Il dato delle regionali del 2005 appartiene ad un´altra era geologica e non è dunque comparabile con quello attuale.

Roberto D´Alimonte sul 24 Ore del 31 marzo ha scorporato questi dati, regione per regione constatando che la Lega ha guadagnato voti in Veneto, in Emilia, in Toscana, nelle Marche, ma ne ha persi in Piemonte, in Lombardia e in Liguria.

Il risultato netto segna, rispetto alle europee, una perdita di 147 mila voti. Il risultato ci dice dunque che la Lega, in cifre assolute, non è affatto aumentata ma ha perso meno degli altri. Il suo peso politico è fortemente cresciuto ma il numero dei voti è più o meno quello che aveva negli scorsi due anni. Sfondamento dunque non c´è stato.

Lo stesso confronto esteso agli altri partiti dà i seguenti risultati in confronto con le europee: il Pdl ha perso due milioni e mezzo di voti, il Pd un milione, l´Idv 450 mila, l´Udc 360 mila.

Le percentuali registrano queste realtà, profondamente influenzate dalle astensioni nonché dalle dimensioni di ciascuno dei partiti sopra indicati, ma lo specchio più realistico ce lo fornisce il confronto globale con il corpo elettorale di tutti i cittadini che hanno diritto al voto.

Utilizzo le accurate elaborazioni di Luca Ricolfi che è un riconosciuto esperto in questa materia (La Stampa del primo aprile). Fatti 100 gli elettori con diritto di voto, il 30 per cento non ha votato, 12 hanno votato Lega e Idv, 29 hanno votato per i due partiti maggiori (Pdl e Pd) e i restanti 19 hanno votato per le decine di partiti e liste restanti. «Il principale partito di governo - conclude Ricolfi - è stato votato da un italiano su sette, mentre tre italiani su sette non ha partecipato al gioco».

Dal canto mio, sommando i voti del Pdl nelle tre Regioni del Nord, ottengo due milioni 384 mila voti e sommando quelli della Lega ne ottengo due milioni 292 mila. In Piemonte Lombardia e Veneto la Lega è complessivamente inferiore al Pdl di soli 152 mila voti. Di fatto nella Padania Bossi non ha superato Berlusconi ma l´ha raggiunto, conquistando due governatori su tre.

Questo è lo stato dei fatti: Non sono opinioni ma numeri. Lascio ai lettori di rifletterci su.

* * *

Si parla molto della presenza della Lega sul territorio. È cominciata la riscoperta del partito territoriale. Credo che sia una moda piuttosto che una realtà perché sul territorio ci sono tutti. Tutti gli elettori e tutti gli eletti di qualunque partito. C´è chi ci si muove bene e chi male, ma non è la presenza fisica che conta, bensì il modo e la qualità di quella presenza.

Distribuire volantini, attaccare manifesti e incollare francobolli sulle buste è una modalità necessaria ma se non c´è identità e chiarezza di scelte di indirizzo, la presenza sul territorio è perfettamente inutile.

La Lega governa nel Nord una moltitudine di Comuni, di fatto è ormai un partito di sindaci. Pare che siano bravi, giovani e capaci di amministrare.

Non hanno ideologia che comunque non gli servirebbe granché: non spetta a loro elaborare politiche generali. Pare anche che siano normalmente onesti.

Governano piccoli centri ma anche qualche grande città. Non grandissima. Ora hanno messo l´occhio su Milano e su Torino che saranno in palio l´anno prossimo.

La politica è affidata a Bossi e a Maroni che ha nel governo la carica di maggiore rilievo. La sintesi politica del programma leghista l´ha fatta Maroni pochi giorni fa in un´intervista a Sky 24: azzerare gli sbarchi degli immigrati clandestini, tolleranza zero per i medesimi ancora largamente presenti sul territorio, federalismo fiscale, Senato federale, sicurezza contro la micro-criminalità, lotta dura contro le mafie.

Di questi temi quello che può interessare il partito dei sindaci è la micro-criminalità e gli immigrati clandestini.

Ma anche la gestione dell´accoglienza per quanto riguarda gli immigrati regolari. Sembra però che quest´ultimo problema non sia molto popolare tra i sindaci leghisti, fatte salve alcune eccezioni sembra anzi che non li interessi affatto. Vedi Treviso.

Giulio Tremonti che ha partecipato a queste elezioni più come leghista che come esponente del governo e del Pdl, sintetizza questo programma con la triade Dio, Patria, Famiglia. La Famiglia (tradizionale) va a pennello con il tradizionalismo leghista. La Patria nazionale no, ma la piccola Patria locale e comunale senz´altro sì. Dio finora è stato un tema indifferente per i leghisti ma ora non lo è più. Il popolo leghista è formato da milioni di "indifferenti devoti" e i segnali non mancano. Il più recente e il più simbolico è stato quello dell´opposizione alla Ru486 lanciato da Cota e da Zaia e fortemente apprezzato dal Papa, dal cardinal Bertone segretario di Stato e da monsignor Fisichella, autorevole presule in ascesa a Roma.

Senza rientrare in una polemica che si è già fatta infinite volte su queste pagine, dico soltanto che la Chiesa in queste elezioni ha svolto la parte di una massa di spettatori che invade il campo da gioco mentre la partita è già in corso. Nelle gare sportive, quando fatti del genere si verificano, l´arbitro sospende la partita e squalifica il campo di gioco. Nel nostro caso il campo di gioco è lo spazio pubblico riservato alla Chiesa per propagandare liberamente le sue idee ma non per tirare sassi e petardi contro i giocatori. Questo ha invece fatto la Chiesa e questo comportamento avrebbe dovuto essere squalificato dalle autorità che rappresentano la laicità dello Stato. Ottenerlo da un governo come quello che ci sgoverna è impossibile, ma denunciarlo è necessario. Si somma alle infinite altre inadempienze e fa parte della sua necessità di legittimarsi di fronte alla Chiesa.

Anche la Lega desidera legittimarsi di fronte alla Chiesa; la pillola Ru486 è stata un segnale. Altri ne seguiranno, per farsi perdonare la mancata accoglienza e anzi la caccia all´immigrato. La Chiesa riprova quella condotta ma la perdona se vede segnali anti-abortisti.

Segnali che hanno il solo effetto di rimettere in voga l´aborto clandestino o, per chi ha soldi da spendere, l´aborto all´estero.

Questa politica sessuofobica è quanto di più lontano dalla predicazione evangelica. Quanto alla Lega, il motto tremontiano di Dio, piccola Patria e Famiglia rischia di trasformare le Regioni bagnate dal Po in una Vandea del ventunesimo secolo. Milano, Torino, Varese, Brescia, Bergamo, Padova, Ferrara, Mantova, insomma il Nord che conta, vorranno esser le capitali d´una Padania vandeana? Di un federalismo secessionista?

* * *

Le riforme. Berlusconi. L´opposizione. La crescita economica. I cittadini di questo paese.

A Berlusconi importa poco del suo partito. È il partito che ha bisogno di lui, non lui che abbia bisogno del partito. Quanto alla Lega, il vincolo tra lui e Bossi è fortissimo. Berlusconi è intimamente leghista, Bossi tiene in vita lui e il governo e per questo servizio di inestimabile valore può chiedere ciò che vuole e lo avrà. Le bizze fanno parte del rito.

Quanto alle riforme, la decisione tra loro è stata già presa: procederanno di pari passo federalismo e giustizia, legale impedimento giudiziario e rimpasto ministeriale: fidarsi è bene, non fidarsi è meglio. Bossi vuole che le opposizioni partecipino, anche Berlusconi lo vuole e infatti dopo la vittoria elettorale porge la mano con mitezza quasi cristiana. «Sinite parvulos» dove i pargoli sono il Pd, Casini e perfino Di Pietro.

L´invito è accompagnato da un avvertimento che non è nuovo: se non rispondete con amore faremo da soli. Chi conosce il personaggio sa che se non faranno da tappetino la maggioranza "farà quadrato". Intanto l´invito al tavolo c´è ed è insistito. Bondi sta già versificando poesie. Cicchitto fa boccuccia. Gasparri è pronto perfino a cantare, sebbene per questo ci sia Apicella e per le crostate il cuoco Michele.

Ma il primo problema è proprio il tavolo. Fin qui Bersani ha detto con apprezzabile coerenza: il tavolo no, il confronto si fa in Parlamento. La differenza è netta: al tavolo si dialoga su un pacchetto, nel confronto parlamentare si discute proposta per proposta e le proposte vengono da tutte e due le parti. Naturalmente esiste un nesso tra le varie proposte ma non un voto di scambio. Questa è la differenza non da poco.

Poi ci sono le priorità. Berlusconi e Bossi sono d´accordo sull´appaiare le loro priorità; federalismo e giustizia. Ma l´opposizione ha una sua priorità diversa: la crescita economica e il sostegno dei redditi più deboli.

Maroni, interrogato in proposito, ha risposto: questo tema riguarda Tremonti, io non ci metto bocca. La domanda allora è questa: la priorità dell´opposizione sarà accolta? Il tema dell´economia e del lavoro affiancherà federalismo e giustizia? Sarà concordato un calendario parlamentare che intrecci i tre temi mettendoli sullo stesso piano e con lo stesso passo? Berlusconi ha anche lui sollevato un tema economico: la riforma fiscale. Ma Tremonti ha già spiegato che si potrà fare nel 2013.

Temo che sia ottimista, Tremonti; nel 2013, cioè alla fine della legislatura, non saremo affatto fuori dalla crisi che toccherà il culmine non prima del 2012 e poi comincerà a diminuire molto lentamente. Da qui ad allora la disoccupazione aumenterà ancora, i consumi resteranno stagnanti, altrettanto le esportazioni, ci sarà una stretta nel credito e nella liquidità, i tassi di interesse aumenteranno. Queste sono le previsioni generali, senza ancora entrare nel merito né della riforma fiscale né del federalismo.

Allora la seconda domanda è questa: se i temi del lavoro e del sostegno dei redditi non saranno affiancati alle priorità della maggioranza che cosa farà l´opposizione?

L´opposizione dovrà presentare i suoi progetti sulla crescita economica, forniti di copertura finanziaria credibile. E dovrà confidare che il presidente della Camera li inserisca tra la priorità di calendario, ma questo dipende dalla conferenza dei capigruppo. La posizione di Fini sarà comunque importante ed anche quella di Bossi.

Ricordiamoci che nella associazione delle Regioni la presidenza probabilmente spetterà ancora all´opposizione e da quella sede il federalismo deve necessariamente passare.

Comunque le riforme che interessano la maggioranza parlamentare arriveranno alle Camere e qui dobbiamo entrare nel merito.

* * *

Il presidenzialismo. Elezione diretta del premier o del presidente della Repubblica? Le due ipotesi differiscono in modo radicale, perciò il Pdl e la Lega dovranno scegliere. L´elezione diretta del premier è incongrua. Dove è stata realizzata (Israele) ha dato pessima prova ed è stata rapidamente cancellata. Del resto il premier è il capo dell´esecutivo, cioè della pubblica amministrazione. A qualcuno deve rispondere del suo operato.

Il presidente della Repubblica è invece un organo di coordinamento. Per trasformare la carica in elettiva (non dal Parlamento ma direttamente da un voto popolare) dev´essere riformato l´intero sistema costituzionale e debbono essere rafforzati tutti gli organi di controllo. Non si può passare al presidenzialismo se prima o contemporaneamente non sono rafforzati gli organi di controllo e primo tra tutti il Parlamento e quindi cambiata la legge elettorale. Il potere degli apparati sull´elezione dei parlamentari va smantellato o fortemente indebolito. Il collegio uninominale potrebbe essere una soluzione, specie se scandito sul doppio turno. Non mancano altre soluzioni tecnicamente valide. Ma se il Parlamento non cessa di essere il pascolo degli apparati e soprattutto del governo, il presidenzialismo diventerebbe sistema autoritario, non contemplato e quindi escluso dalla Costituzione vigente. Tralascio gli altri temi che meritano un discorso a parte.

Il metro di giudizio, come abbiamo già detto più volte, è comunque lo Stato di diritto, i poteri costituzionali divisi e autonomi, nessuno di essi subordinato all´altro, indipendenti nella sfera delle proprie competenze. Se questo equilibrio venisse violato saremmo fuori dalla Costituzione.

Per concludere, una parola sul presidente Napolitano. Deve essere al di fuori delle parti perché questo è il suo ruolo. Deve applicare un filtro e un vaglio di costituzionalità ed anche di coerenza legislativa alle leggi e alla procedura di presentazione e di promulgazione.

Finché si atterrà a questi principi è perfettamente inutile e anzi dannoso tirarlo per la manica. Finora vi si è scrupolosamente attenuto e gliene va dato atto. Ove dovesse violarli, ciascun cittadino può avanzare critiche, rispettose anche se severe. Chi lo conosce sa che quelle violazioni non sono nel suo costume. Può fare errori.

Finora non ve ne è stata traccia. Il decreto cosiddetto "salva liste" non salvò un bel niente di fronte a irregolarità dimostrate da otto sentenze. Quindi non impedì nulla che non dovesse essere impedito.

Se ci fosse un attentato alla Costituzione per effetto di un colpo di forza del governo, il Presidente farà il dover suo e spetterà agli italiani di decidere la questione con il previsto referendum.

«Volete voi la dittatura d´un uomo o la libertà?». Può darsi che il dominio dei «media» ponga il tema in modo surrettiziamente diverso, ma sarà questa la sostanza della questione e gli italiani sceglieranno.

Le maschere del Carroccio

Gad Lerner

La Lega di Umberto Bossi detiene un peso elettorale quasi identico al Front National di Jean-Marie Le Pen, che alle regionali francesi del 14 marzo scorso ha conseguito l´11,42% dei voti (2.223.800 elettori).

Ma Le Pen non può aspirare a nessuna alleanza con i gollisti di Sarkozy perché la distanza culturale fra loro viene considerata incolmabile. La Lega, invece, partecipa da anni in posizioni chiave al governo nazionale e ciò l´ha favorita nel conquistare la guida di due regioni importanti come il Veneto e il Piemonte. Tanto che oggi il leghismo è in grado di proporsi credibilmente come approdo e baricentro culturale della destra italiana post-berlusconiana, scommettendo sul fatto che per difendere il suo insediamento sociale essa resterà altra cosa dal Partito Popolare europeo. Bossi non indica traguardi d´eccellenza alla sua comunità. Conosce gli handicap che la rendono sempre meno competitiva nelle sfide globali. Offre dunque la semplicità del suo linguaggio come garanzia per chi cerca protezione visto che la concorrenza gli è poco propizia.

Dal successo di questa offerta nasce il mito del radicamento territoriale della Lega, magnificata come nuovo partito ideologico di massa, sul modello delle formazioni organizzate di mezzo secolo fa. Nulla di più falso. La militanza leghista è altra cosa dall´interclassismo democristiano e dalla vertenzialità comunista. Si manifesta nella predicazione capillare di "valori" e nell´indicazione di "nemici" molto più che nel riformismo locale.

Chiunque abbia seguito gli ultimi comizi di Umberto Bossi (affiancato negli appuntamenti più importanti da Giulio Tremonti, quasi che il ministro dell´Economia fosse ormai un dirigente della Lega e non del Pdl) se n´è reso conto. Sui palchi elettorali il senatur si concentra sul profilo identitario, esalta l´appartenenza a un popolo "sano": vagheggia di pedofilia come insidia estera; denuncia i pericoli della "famiglia trasversale" con allusioni gestuali agli omosessuali; proclama il sempre efficace "padroni a casa nostra"; rivendica di aver sbarrato il passo allo straniero. Altro che concretezza programmatica, altro che piattaforme di territorio. Bossi incanta la folla descrivendo una missione quasi religiosa della Lega, esasperandone la natura tradizionalista: forza antica, interprete di uno spirito conservatore antiliberale radicato da secoli nel cattolicesimo popolare che già visse come eventi minacciosi l´esportazione della Rivoluzione francese, il Risorgimento "massonico", la Resistenza egemonizzata dai comunisti.

Come un rabdomante, Bossi sintonizza la sua politica con questa energia sotterranea reazionaria. Confida di storicizzare il leghismo mettendolo in relazione con le vandee anti-bonapartiste, con l´opposizione cattolica allo Stato unitario nei suoi primi decenni di vita, col rifiuto a un tempo degli ogm e dei minareti. Non a caso l´esordio dei nuovi presidenti di Veneto e Piemonte, Luca Zaia e Roberto Cota, è un annuncio simbolico di carattere spirituale, non economico: il boicottaggio della pillola Ru486, legalizzata dallo Stato italiano ma osteggiata dalla Chiesa cattolica. E quindi additata come diavoleria moderna.

È opinione diffusa, anche nella comunità finanziaria, che i dirigenti leghisti siano dotati di notevoli virtù pragmatiche. Soprattutto viene apprezzato che non chiedano niente per sé, semmai per il partito, e mantengano gli impegni. Ciò è tipico dei movimenti fortemente ideologizzati, dove si apprende la dimestichezza nell´esercizio del potere dentro i ruoli istituzionali man mano conquistati. Più problematico sarebbe descrivere realizzazioni sociali o economiche tipicamente leghiste nei territori amministrati.

Prima di tutto viene dunque il partito. La sua struttura centralistica valorizza la gerarchia interna, esclude il dissenso e coltiva la fedeltà al leader carismatico. Requisiti che avvantaggiano i quadri leghisti nel confronto con gli alleati del Pdl sempre in lite fra loro. Ma questa divisa comune obbligatoria – se non è più la camicia verde, sia almeno la cravatta o il fazzoletto – ha una finalità "totalitaria" raffinata che va ben al di là della disciplina. Il popolo cui si rivolge il messaggio della Lega identifica da sempre il principio d´autorità con la tradizione. Aspira a un "noi" contrapposto all´élite, disprezzabile perché nell´élite non si distingue la cultura dal privilegio. Questo è il popolo che per contrasto apprezza la saggezza del leader autodidatta, meglio se un po´ rozzo; l´intraprendente che non ha studiato ma si è fatto da sé.

L’antropologa francese Lynda Dematteo ricostruisce, sotto un titolo che si presta a equivoci di snobismo sprezzante "L´idiotie en politique" (Cnrs éditions), questo capolavoro semantico di Bossi. Descrive come i dirigenti leghisti hanno saputo trasferire in politica le maschere della commedia dell´arte e del teatro dei burattini. Così mascherati, si sono atteggiati lungamente a finti sciocchi, come tali autorizzati a profferire verità altrimenti indicibili. La Dematteo cita per esempio il gozzuto Gioppino, folkloristico valligiano bergamasco la cui idiozia era valorizzata come "un dono di natura"; e sostiene che, al pari di Gioppino, pure i dirigenti leghisti camuffano la loro astuzia avvolgendola nella grossolanità. Avete presente il ministro Calderoli con scure e lanciafiamme mentre dà fuoco agli scatoloni della burocrazia? Di nuovo è la commedia dell´arte a illuminarci: il finto sciocco gratifica il suo pubblico perché gli consente di riconoscere in lui la rivincita dell´umile sull´arrogante.

Non c’è comizio o dibattito televisivo in cui il leghista non ostenti ironico distacco nei confronti dell´avversario, descrivendolo come intellettuale lontano dai problemi del popolo, al quale viceversa lui appartiene. Il compiacimento mostrato nell´inciampo sintattico, nel dialettismo e nella battuta sessista servono a lanciare il messaggio decisivo: «Siamo come voi, difetti compresi, solo un po’ più coraggiosi».

Il tratto caricaturale e l’immediata riconoscibilità popolana del leghista godono oggi di un tale appeal, da richiamare imitatori perfino ai vertici dell’establishment. Venerdì 26 marzo al Teatro Nuovo di Torino, parlando dopo Bossi e Cota, l´erudito ministro professor Giulio Tremonti si è sentito in dovere di vantarsi: «Noi siamo gente semplice, poche volte ci capita di leggere un libro…». Solo un modo di dire, certo, ma esprime bene lo spirito dei tempi. L’"idiotismo politico" può essere adottato con maestria anche dai borghesi.

L’imponente travaso di voti dal Pdl alla Lega verificatosi alle regionali 2010 conferma che il fenomeno conservatore degli "atei devoti" – vogliosi di credere in Dio, patria e famiglia a prescindere dalla coerenza delle scelte di vita – ha dimensioni di massa ed è solo una presenza intellettuale. Nel profondo Nord il partito dei credenti nella Tradizione è destinato a durare più del partito personale di Berlusconi. Lo congloberà, probabilmente. Mentre già oggi la Lega gode della benevolenza dell´"Osservatore Romano" che gli attribuisce improbabili somiglianze organizzative con Democrazia cristiana e Partito comunista; e pazienza se su temi evangelicamente imbarazzanti come il rapporto con lo straniero Zaia e Cota entreranno magari in frizione con i vescovi locali.

Il problema semmai riguarda Gianfranco Fini, perché il leghismo che si offre come linguaggio esplicito e approdo organizzato alle incertezze del Pdl, confida di lasciare ben poco spazio alla nascita di una destra liberale in Italia. Qui da noi Le Pen rischia di mangiarsi Sarkozy, il viceversa pare impossibile.

All’origine dello tsunami

Giorgio Bocca

Perché la Lega ha vinto o, come dice il suo fondatore, ha travolto tutto come uno tsunami? La risposta potrebbe essere questa: ci sono milioni di italiani che ieri erano poveracci, ma che oggi devono difendere un benessere medio basso di massa.

La maggior parte vive nelle regioni ricche del Nord ed è in esse che si è aggregata in un partito organizzato e disciplinato come i vecchi partiti, con una direzione forte e un capo riconosciuto. Un partito molto differente da quello dei moderati berlusconiani e dei riformisti del partito democratico. Differente come? Nel 1993 scrissi su questo giornale un articolo intitolato «Forza barbari» che agli occhi della sinistra parve un tradimento, una resa ai vincitori delle elezioni in Lombardia. Per me era una presa d’atto che oggi dopo le regionali andrebbe ripetuta: la Lega rappresenta i desideri e le paure reali di milioni di italiani del Nord ma anche il numero crescente del resto d’Italia: interessi, egoismi e paure dichiarati apertamente. Né belli né eleganti agli occhi di altri italiani ma fortemente difesi e rivendicati, fuori da ogni ipocrisia. Un modo di fare politica che ha trovato vasti consensi in una stagione storica più ricca di incertezze e di dubbi che di punti sicuri di appoggio.

Quali sono gli interessi, gli egoismi, le paure che portano voti alla Lega? In primis la difesa di un benessere economico e civile ottenuto dai ceti emergenti negli anni in cui il Nord Italia è diventato una delle regione più ricche d’Europa, con la crescita di una piccola e media borghesia composta da operai polivalenti, coltivatori diretti, commercianti che non hanno più da perdere solo le loro catene come le precedenti generazioni ma case, automobili, conti in banca, mobili. I nuovi ceti che la borghesia delle professioni e del censo ha sempre disdegnato come incolta e grossolana. I leghisti non piacciono agli italiani dabbene, sono ignoranti, riesumano un localismo mediocre. Uno dei loro, l’onorevole Leoni, ha inaugurato l’amministrazione leghista a Varese con un discorso in dialetto: «Sciur president, culèga, el caciass ca’ ghem incoeu l’è quel detruva u accord». Come a uno spettacolo dei legnanesi filodrammatici dialettali.

Il loro leader invecchiando parla in modo incomprensibile. Non privo di un umorismo popolaresco ma zotico. «Mio figlio il delfino? Diciamo che è appena una trota», «De Mita? Brutto di giorno e di notte». E poi quali sproloqui sull’etnia lombarda e sulla civiltà dei celti che nessuno sa cosa sia stata e quegli appelli all’unione dei lombardi e il ciarpame folcloristico. Alberto Arbasino ha dedicato a questi critici della Lega un brano spassoso: «Questi che rifiutano l’abominevole culturame degli indigeni padani nelle loro deplorevoli fabbrichette dedite solo alla produzione bruta e non già a portar avanti il dibattito sul ruolo degli intellettuali e percepiscono un drammatico calo di valori culturali nel passaggio dal socialista Pillitteri al leghista Bossi». Una sottovalutazione snobistica in una città come Milano, dove la borghesia colta aveva perso negli ultimi venti anni le grandi occasioni per la modernizzazione.

Ma quali sono le ragioni e i meriti concreti per cui la Lega ha tenuto e ora celebra il suo tsunami, la sua clamorosa vittoria alle elezioni regionali? Una delle ragioni è di essere un partito compatto e disciplinato: Bossi dura da più di vent’anni, il suo primato è indiscutibile, quando Maroni tentò una sortita venne richiamato all’ordine e tornò fedelissimo. L’altra sono i segni di una identità, il colore verde esibito nelle cravatte e nei fazzoletti, la difesa degli interessi locali. Ecco perché i nuovi governatori del Piemonte e del Veneto sanno come esordire. Cota: «A me di Termini Imerese non importa niente, io penso al Lingotto e a Torino». Zaia: «Il ministero dell’Agricoltura? Lo lascio ai romani, io preferisco incontrare i contadini del Veneto».

Un altro valore della Lega è di essere un partito dove non si ruba e non si frequentano donnine facili. Insomma un partito moralista alla maniera piccolo borghese, magari ipocrita ma non sbracata o indecente. La Lega tiene e si allarga grazie al fallimento della politica o se si vuole della democrazia, grazie al cattivo spettacolo di una politica che è diventata un mercato di privilegi e di ricchezza dove il denaro sembra essere il valore se non unico prevalente. E quali sono infine i rischi e le debolezze della Lega? Essere il vero partito della destra italiana in un’Europa dove la destra riprende sempre di più i connotati del poujadismo e ancora prima del nazionalsocialismo. Una destra regionalista che ora riattacca con forza la canzone del federalismo fiscale variamente abbellito e edulcorato, ma che i leghisti e gli italiani colgono per quello che è: le province ricche sempre più ricche, quelle povere rassegnate al loro degrado.

Un giorno mi trovai su un aereo diretto a Berlino assieme al professor Gianfranco Miglio, lo scomparso teorico della Lega. Uscimmo dall’aeroporto e Miglio si fermò nel piazzale, respirò a lungo e profondamente l’aria un po’ elettrica della Prussia, poi mi guardò e disse: «La Germania, che grande Paese». Il partigiano rimasto in me ebbe un trasalimento.

Da ieri la pillola abortiva RU486, in commercio da più di vent'anni in trenta paesi del mondo, può essere distribuita in Italia su richiesta delle farmacie degli ospedali, e somministrata negli ospedali stessi o con un ricovero di tre giorni della paziente che ne richiede l'uso o in day hospital: spetta alle Regioni decidere fra queste due opzioni, e solo fra queste. Fra i neogovernatori eletti lunedì scorso ce ne sono però due, gli ineffabili Cota e Zaia, che come dice Pierluigi Bersani pensano di essere Carlo V, di avere poteri di vita e di morte sui sudditi e di poter decidere la qualsiasi, compresa la revoca degli ordini o il blocco delle scorte di RU486 "nei magazzini", con la complicità dei direttori delle Asl. Non stupisce, è l'idea delle regole e delle competenze della destra di governo: se Berlusconi usa come usa l'Agcom, figurarsi quanto rispetto possono avere Cota e Zaia dell'Aifa o del Consiglio superiore della sanità.

Dal 1978 la 194 è una legge dello Stato, confermata per referendum nel 1981: legalizza l'aborto a certe condizioni, e vale fino a decisione contraria del parlamento italiano. In Vaticano però c'è un Papa che credendosi anche lui un imperatore in diretta competizione con la sovranità repubblicana invita i cattolici a fare i buoni cittadini non rispettando le leggi, ma violandole laddove «le ingiustizie sono elevate a diritto», e indicando fra tali ingiustizie «l'uccisione di bambini innocenti non ancora nati». Questo già stupisce di più, perché il Papa parla durante una cerimonia della Settimana santa dedicata dedicata al sacerdozio, dunque potrebbe cogliere l'occasione per dire qualcosa di sensato sulla patata bollente della pedofilia che sta togliendo l'aura al suo pontificato, ma su questo invece glissa allegramente.

Da lunedì ci sono tredici novelli consigli regionali, eletti dopo un anno di scandali e polemiche sullo scambio fra sesso e potere, sulla cooptazione di veline e show girl in parlamento e nei ministeri, sulla misoginia di governo e d'opposizione: la percentuale media di donne elette è del 13%, ma gli uomini arrivano al 100% in Calabria, al 97% in Basilicata, al 95% in Puglia, sì che Il Sole 24 ore può dedurne facilmente e giustamente che «il potere regionale è maschio e cinquantenne come prima», a destra e a sinistra, per via che la misoginia impera a destra e a sinistra (e a destra e a sinistra impera il discredito della politica presso le donne, che infatti non fanno a pugni per candidarsi e magari neanche per votare). Però a destra c'è Libero che titola a tutta pagina "Al Pd non piace la gnocca": tanto per non perdere il primato della violenza verbale, nonché per ricordare a tutti e a tutte che alla destra la gnocca, che a rigor di termini non è una consigliera regionale, invece piace, alla faccia dei "moralisti" che hanno bombardato per un anno l'inquilino di palazzo Grazioli.

Naturalmente le donne continueranno ad abortire, chirurgicamente e farmacologicamente, malgrado i papi e gli imperatori, salvo che col federalismo è facile che il turismo abortivo interregionale si aggiunga al turismo procreativo internazionale innescato dalla legge 40. E naturalmente la misoginia dei partiti non sarà scossa dal grigiore e dalla noia delle assemblee regionali in giacca e cravatta. Dunque non c'è notizia, se non questa: le elezioni passano, l'uso e l'abuso del corpo femminile a fini di scontro politico e di gazzarra ideologica resta. Per una politica laica a corto di argomenti e di programmi, come per una morale cattolica assediata dagli altarini che si scoprono, c'è sempre verso di guadagnarsi un titolo in prima pagina parlando di gnocche in un modo o nell'altro. Se è questo il day after elettorale, prepariamoci al seguito.

Con un silenzioso 'colpo di mano' il Governo ha varato e già fatto pubblicare in Gazzetta ufficiale un decreto ad effetto immediato che da oggi cancella le tariffe postali agevolate. La decisione, non preceduta da alcuna consultazione in sede parlamentare è stata assunta dal ministro Tremonti facendosi beffa di tutti gli impegni assunti in sede parlamentare che andavano nella direzione di un progressivo reintegro dei fondi per l'editoria e della contestuale approvazione di una riforma organica del settore

Dal primo aprile, e non è uno scherzo, saranno abrogate tutte le tariffe agevolate a favore della editoria con particolare riferimento alla spedizione degli abbonamenti. Tutti gli editori italiani dai più grandi ai più piccoli riceveranno una vera e propria pugnalata alle spalle che in alcuni casi potrà portare all'immediata chiusura delle testate. La decisione, non preceduta da alcuna consultazione in sede parlamentare è stata assunta dal ministro Tremonti facendosi beffa di tutti gli impegni assunti in sede parlamentare che andavano nella direzione di un progressivo reintegro dei fondi per l'editoria e della contestuale approvazione di una riforma organica del settore.

Per l'ennesima volta, affermano Giulietti e Vita, "si è scelta la strada opposta dando così al provvedimento uno spiacevole sapore vendicativo nei confronti di un settore che questo governo non ha mai amato. Non ci è chiaro quale sia stato e quale sia, su questa vicenda il parere del sottosegretario Bonaiuti, che ha la delega per il settore e che a questo punto potrà serenamente procedere a buttare nel più vicino cestino la proposta di riforma dell'editoria dal momento che, con questo colpo di mano è stata già realizzata".

"Per quanto ci riguarda - affermano i due parlamentari - questa vicenda non è meno grave della chiusura dei programmi o dell'alterazione permanente della para condicio o delle rappresaglie nei confronti dei singoli giornalisti perché colpisce in modo ancora più subdolo il pluralismo nel settore editoriale e condanna a morte sicura decine di testate e centinaia di posti di lavoro con il rischio di ridurre anche nel settore della carta stampata un pluralismo che nel settore dei media è già ai minimi termini". Articolo21, concludono Giulietti e Vita, "chiederà nelle prossime ore una riunione a tutte associazioni di settore per valutare le opportune iniziative".

"Il decreto Scajola è un brutto pesce d'aprile per l'editoria italiana. Cancellare da oggi le tariffe postali agevolate per l'editoria èsbagliato nella sostanza e discutibile nella forma". Lo dice Paolo Gentiloni, responsabile Comunicazioni del Pd che rincara: "Il governo non può togliere dalla sera alla mattina un'agevolazione su cui contano circa 8000 testate. Le conseguenze sarebbero inaccettabili innanzitutto per migliaia di giornali e di periodici locali, no-profit e diocesani che su queste agevolazioni costruiscono da anni i loro bilanci".

L'esponente dei democratici, continua: "L'errore riguarda però anche i grandi gruppi editoriali: è' vero che questi potranno avvalersi della liberalizzazione del mercato postale, ma solo avendo a disposizione un congruo periodo di transizione dal sistema attuale a quello basato sulle tariffe libere.

Il decreto è sbagliato inoltre anche nella forma visto che sospende direttamente le tariffe agevolate mentre esse in questi anni erano sempre state confermate da Poste Italiane anche di fronte al ritardo dei corrispondenti contributi".

Insomma, conclude Gentiloni: "Chiederemo una rapida correzione di questa decisione che si aggiunge ai tagli recenti già intervenuti a danno dell'editoria e dell'emittenza locale radio-televisiva".

"Siamo profondamente indignati per un provvedimento improvviso, non annunciato e che per la sua applicazione immediata sconvolge tutte le pianificazioni commerciali del mondo dell'editoria libraria".

Questa la dichiarazione del presidente dell'Associazione italiana editori (Aie), Marco Polillo, dopo la lettura in Gazzetta Ufficiale del decreto, pubblicato ieri sera. "Al di là del merito e delle ragioni dell'iniziativa - ha proseguito Polillo - siamo allibiti dal fatto che in nessuna occasione né Poste né gli organi istituzionali competenti ci abbiano dato la minima indicazione di una decisione imminente e sconvolgente per il nostro settore. Le ricadute saranno pesanti non solo in termini economici per la vita delle case editrici, ma anche per la cultura e l'informazione del paese: il canale postale - ha precisato - è, infatti, uno strumento fondamentale di diffusione dei libri, soprattutto in quelle zone d'Italia non servite da librerie". Polillo conclude invitando a un "ripristino immediato delle tariffe agevolate e a un'apertura del dialogo per l'individuazione di soluzioni sostenibili per tutti i settori interessati".



Caro Bersani, per quel poco che ho imparato, affacciandomi appena, sul baratro della politica-politica, dovrei dire che è andata bene. Scusa ma non ci riesco. Sono, nonostante l’età, una principiante. Quindi mi applico una grande «P» sulla schiena e provo a dire la verità: abbiamo perso. Abbiamo perso perché non abbiamo vinto. E di questo avevano bisogno gli italiani: che vincesse il centrosinistra. Non era difficile: il Pdl marciava scomposto, eroso dai conflitti interni, a credibilità ridotta per i pasticci e gli scandali (ci sarà pure un tot di gente onesta che si scandalizza e si disamora dei ladri e dei puttanieri!). Il Lazio aveva una candidata forte, una che, nonostante 40 anni di politica-politica, non era né sputtanata né inerte. La Puglia pure aveva un candidato forte. Nicky e Emma: due forze della natura e della cultura. Una autocandidata e poi accettata. L’altro imposto.

Era un buon cavallo anche la Bresso: l’atteggiamento sprezzante verso Beppe Grillo, l’ha pagato lei. Povera Mercedes. Dove Grillo è stato considerato un alleato e non un rompicoglioni folcloristico si è vinto. Dove Grillo è stato escluso si è perso. Perché, caro Bersani, la presunzione rende stupidi. Grillo è il punto di riferimento di un’ ampia area di dissenso verso il Governo e sfiducia verso la partitocrazia (tutta, pd incluso). Non sono degli idioti qualunquisti. Hanno delle ottime condivisibli ragioni per prendere la via del «vaffa’...». Occorre ascoltarli. Come occorre ascoltare tutti quegli operai del nord che hanno votato Lega. Lo dico a te, Bersani, perché sei cresciuto in un partito che sapeva bene chi rappresentava e perché. Piantatela di corteggiare il centro. Non è lì la maggioranza degli italiani. La maggioranza degli italiani è sull’orlo di una crisi di nervi. Di identità. Di appartenenza. Dovete andare a prenderli uno per uno. Prima che sia troppo tardi.

Dobbiamo dare atto al presidente Napolitano del rigore con cui, rinviando alle Camere per una nuova deliberazione la recente legge sul lavoro, ha esercitato le sue funzioni di garanzia. Questa legge, dice il messaggio che accompagna il rinvio, oltre ad occuparsi, in un labirinto intricato di 50 articoli e 140 commi, di un'enorme quantità di materie eterogenee, presenta vistosi profili di incostituzionalità. In particolare, il comma 9 dell'articolo 31 travolge, ben al di là dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori sul diritto alla reintegrazione del lavoratore ingiustamente licenziato, le garanzie giurisdizionali di tutti i diritti dei lavoratori. Prevede infatti la possibilità che nei contratti di lavoro possa essere pattuita la cosiddetta «clausola compromissoria», cioè l'impegno, in via generale ed astratta, di rinunciare all'esercizio del diritto di «agire in giudizio per la tutela dei propri diritti» previsto dall'articolo 24 della Costituzione, e di rimettere tutte le future controversie, e non solo quelle relative all'articolo 18, alla decisione secondo equità, cioè in deroga alla legge, di un arbitro privato.

È questa possibilità in astratto che è stata giustamente censurata dal messaggio di Napolitano. Non si tratta, dice il messaggio, della previsione del ricorso all'arbitrato sulla base, volta a volta, di una scelta operata al momento dell'insorgenza della lite: in tal caso non ci sarebbe nessuna rinuncia preventiva alla tutela giurisdizionale, ma solo la concorde decisione delle parti litiganti, assunta liberamente e con cognizione di causa, di rimettere all'arbitro la soluzione di quella specifica lite.

La clausola compromissoria equivale invece all'impegno preventivo di affidare all'arbitrato tutte le future controversie, e perciò alla privazione, di fatto a un'alienazione costituzionalmente inammissibile, di un diritto fondamentale quale è appunto il diritto di agire in giudizio. Comporta, in altre parole, una rinuncia aprioristica che, dice il messaggio, compromette, in contrasto con quanto affermato più volte dalla Corte costituzionale, la «effettiva volontarietà dell'arbitrato» e rischia sempre di occultare il cedimento del «contraente più debole», il lavoratore, all'imposizione di quello più forte.

È quindi chiaro che la legge che consente una simile privatizzazione della giustizia del lavoro viola clamorosamente l'articolo 24 della Costituzione. Il diritto di azione è infatti un diritto fondamentale - un meta-diritto alla tutela giudiziaria dei propri diritti -, in quanto tale inalienabile e indisponibile per via contrattuale. E non può certo la legge avallare il ricatto della sua preventiva rinuncia al quale i lavoratori finirebbero per essere sottoposti al momento dell'assunzione. CONTINUA|PAGINA2 Aggiungo che questa vanificazione delle garanzie giurisdizionali è aggravata da due ulteriori esautoramenti del ruolo del giudice, previsti dai commi 1 e 2 dall'articolo 30 della legge. Il primo, anch'esso in contrasto con l'articolo 24, è la limitazione del «controllo giudiziale» sulle clausole generali contenenti «norme in tema di instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda e recesso» al solo «accertamento del presupposto di legittimità», con esclusione del «sindacato di merito» sulle «valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro».

Il secondo, ancor più grottesco, è la soggezione dei giudici, che l'articolo 101 della Costituzione vuole «soggetti soltanto alla legge», alle «certificazioni» extra-giudiziali, rimesse a speciali «commissioni di certificazione», delle valutazioni delle parti in materia di «qualificazione del contratto di lavoro» e di «intepretazione delle relative clausole».

Oggi questo rinvio della legge alle Camere riapre il dibattito parlamentare. Ma ben al di là del confronto in Parlamento, sull'esito del quale è difficile farsi illusioni, c'è da sperare che esso fornisca l'occasione, finalmente, per una mobilitazione di massa - politica, sociale e sindacale - contro questa ennesima vergogna: una mobilitazione che fino ad oggi è incredibilmente mancata per la disattenzione, l'inerzia e il disimpegno generale.

«Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha chiesto alle Camere, a norma dell'art. 74, primo comma, della Costituzione, una nuova deliberazione in ordine alla legge: "Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione degli enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l'impiego, di incentivi all'occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonchè misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro", si legge in un comunicato del Quirinale.

«Il Capo dello Stato è stato indotto a tale decisione dalla estrema eterogeneità della legge e in particolare dalla complessità e problematicità di alcune disposizioni - con specifico riguardo agli articoli 31 e 20 - che disciplinano temi, attinenti alla tutela del lavoro, di indubbia delicatezza sul piano sociale. Ha perciò ritenuto opportuno un ulteriore approfondimento da parte delle Camere, affinchè gli apprezzabili intenti riformatori che traspaiono dal provvedimento possano realizzarsi nel quadro di precise garanzie e di un più chiaro e definito equilibrio tra legislazione, contrattazione collettiva e contratto individuale», aggiunge il comunicato.

Sicurezza e identità, la Lega si afferma come partito normale

Oggi il Carroccio è forte al Nord perché governa a Roma

Ormai ha superato i confini padani

di Ilvo Diamanti

Fra i dati emersi dalle elezioni regionali, il risultato della Lega è certamente il più clamoroso, soprattutto se confrontato con quello del 2005 (rispetto a cui ha raddoppiato i voti). Ma è anche il meno sorprendente, rispetto alle attese. La vittoria di Zaia, in Veneto: annunciata da tempo. Quella di Cota, in Piemonte, era meno scontata. Ma veniva, comunque, considerata possibile. La stessa "misura" del voto, per quanto di proporzioni straordinarie, non costituisce una novità rispetto al passato più recente (e più lontano). Il risultato ottenuto nel Veneto (35%) è degno della vecchia Dc. Ma già alle ultime elezioni, in questa regione, la Lega si era avvicinata al 30%. E le province dove ha fatto il pieno – Treviso, Vicenza, Sondrio, Bergamo, Como – sono roccaforti tradizionali. Fin dagli anni Ottanta. Quando la Lega ha prima assediato e poi rimpiazzato la Dc. Quanto all´espansione nelle regioni rosse, appare davvero impetuosa. Soprattutto in Emilia Romagna, dove ha superato il 13%, ma anche in Toscana e nelle Marche (dove ha scavalcato il 6%). Tuttavia, si tratta di una tendenza già emersa alle elezioni politiche del 2008, divenuta appariscente alle europee dello scorso anno. Proprio perché largamente annunciato, però, il successo della Lega è rivelatore. Come la sorpresa degli osservatori e degli attori politici – non solo avversari, anche alleati. Segno che la Lega continua ad essere guardata – dagli "altri" – come un soggetto anomalo. E per questo instabile. Sempre in bilico. Fra discese ardite e risalite. O viceversa.

Non è più così. Il successo della Lega è "normale", perché la Lega è, da tempo, un partito "normale". L´unico rimasto, in Italia, fra tanti partiti leggeri e mediatici. Proprio questo, forse, contribuisce a farla apparire diversa. Anche oggi che agisce come "Lega di governo". A livello nazionale e territoriale. Basta guardare le cifre. Esprime il sindaco di 355 comuni e il presidente di 14 province. Da oggi: anche di due regioni. Alle elezioni europee del 2009 si è imposta come primo partito in oltre 1000 comuni (su quattromila) del Nord. Ha una leadership forte, personalizzata e centralizzata. Impiantata nelle "capitali" storiche: Varese e Bergamo, in Lombardia e Treviso, nel Veneto (dove, negli ultimi anni, è cresciuto il peso di Verona). Nel governo, i suoi uomini presidiano dicasteri importanti e strategici. Maroni all´Interno: i temi della sicurezza e dell´immigrazione. Calderoli alle riforme istituzionali, cioè al federalismo. Accanto a Bossi, sovrano e bandiera del partito. Infine Zaia all´agricoltura. Ha trionfato in Veneto, dopo aver trasformato un ministero considerato "minore" in un dicastero ad alta visibilità. E in un riferimento chiave per la Lega. Dal punto di vista dell´identità, in quanto evoca la terra, la tradizione. Ma anche del rapporto con le categorie amiche: contadini, allevatori, cacciatori (un tempo collaterali alla Dc e al Pci).

La Lega di lotta, che tutti evocano, oggi è soprattutto Lega di governo. Le pagelle degli amministratori, compilate ogni anno dal Sole 24 Ore, vedono i suoi sindaci e i suoi presidenti di provincia ai primi posti. I sondaggi sul gradimento dei ministri attribuiscono a Maroni e Zaia voti lusinghieri. E la fiducia nella Lega e nel suo leader assoluto è cresciuta costantemente negli ultimi 15 anni, fra gli elettori. Del Nord, del Centro e anche del Sud. Perché, nel frattempo, la Lega ha nazionalizzato il suo programma. I suoi obiettivi. Ha puntato sulla sicurezza, o meglio: sull´insicurezza. Ha drammatizzato le paure. I timori suscitati dalla globalizzazione. Dall´immigrazione, ma anche dalle minacce economiche e finanziarie. E dalle malattie – vere o presunte. Dai cibi che viaggiano senza controlli. Ha dissociato il linguaggio dalle pratiche. Ha promosso le ronde senza poi organizzarle. Ha agitato la xenofobia, permettendo l´integrazione nelle zone dove governa. (D´altronde, è difficile per una realtà di piccole imprese far marciare l´economia senza immigrati; per una società vecchia fare a meno delle badanti). Ha usato il doppio pedale dell´identità e del pragmatismo. Così si è rafforzata a spese del Pdl nel Nord e soprattutto nel Nordest.

Basta vedere quel che è successo in Veneto, dove la Lega ha raggiunto il 35%: il 10% più del Pdl. Mentre il ministro Brunetta, fra gli uomini più popolari del Pdl, in Italia, a Venezia ha perso al primo turno, nella competizione per il sindaco. Perché la Lega è un partito mentre il Pdl è un aggregato di notabili e di interessi. Un pulviscolo di gruppi e comitati senza identità. Allo stesso modo, la Lega è penetrata anche nel cuore rosso del Paese. Soprattutto in Emilia (in particolare dove un tempo era più forte la Dc, come ha osservato Fausto Anderlini). Zone investite dai cambiamenti sociali e demografici. Cui la Lega ha offerto risposte e identità. Populiste? Certo. Ma in grado, per questo, di toccare le corde di una società spaesata, dove la politica e la vita un tempo erano sovrapposte. Dove la scomparsa dei vecchi partiti ha lasciato senso di vuoto.

La Lega. Partito di governo e di rivendicazione - se non più di lotta. Chi pensa a una secessione (magari invisibile) della Padania non ha capito. Oggi la Lega è forte nel Nord perché governa a Roma. E viceversa. Inoltre, ormai ha superato i confini padani. Semmai, è probabile che la forza della Lega - nel Nord, nel Centro e al governo - generi disagio nel PdL. Oggi, dopo le regionali, ancor più meridionalizzato. Spostato lungo l´asse che da Roma corre fino alla Calabria, attraverso la Campania.

Il successo della Lega può aiutare anche il Pd e il centrosinistra a leggere correttamente l´affermazione di Vendola. Capace, in Puglia, di mobilitare la società. Di dare identità. Di marcare la differenza dagli altri. Mentre nel Pd ci si è preoccupati, all´opposto, di mimetizzarsi. Di accostare il centro come un "non luogo". Di andare in tivù senza avere parole da dire. Come se la costruzione dell´identità – e della classe dirigente – fosse un problema di marketing. Ma in politica nulla avviene per caso. E anche le sconfitte servono, quando si è in grado di interpretarle. A condizione di riconoscerle. Senza fingere. Anzitutto di fronte a se stessi.

Due milioni in fuga dal Pd, un milione dal Pdl

L´Istituto Cattaneo fotografa i flussi 2005-2010.

Raddoppiati i voti di Bossi

di Alberto D´Argenio

ROMA - La Lega che raddoppia i consensi, il Pdl che ne perde un milione. E il Pd lascia per strada 2 milioni di voti, mentre l´Italia dei valori moltiplica i suoi per quattro. Con un forte mutamento nei rapporti di forza all´interno delle coalizioni di centrodestra e centrosinistra. Sono questi i dati shock usciti dalle urne delle regionali di domenica e lunedì rielaborati dall´Istituto Cattaneo di Bologna.

Partendo dalla maggioranza di governo, rispetto alle regionali del 2005 la Lega è passata da 1 milione 380 mila voti a 2 milioni e 750 mila. Dati da brivido: in Veneto i consensi leghisti sono schizzati del 134%, in Piemonte dell´83% e in Lombardia del 61%. E se si considera che il Pdl di voti ne ha persi un milione e 69 mila, si capisce la portata delle regionali all´interno del centrodestra: nel 2005 i consensi di Forza Italia e An erano 5,1 volte superiori rispetto a quelli dei leghisti. Oggi il rapporto con il Pdl è sceso a 2,2, con il partito di Umberto Bossi che porta il 31% dei voti della maggioranza di governo. L´unica attenuante per il partito del predellino arriva dal Lazio, dove ha perso 600 mila preferenze. Nel 2005 An e Fi solo a Roma e provincia ne avevano incassate 610 mila, risultato in questa tornata impossibile vista l´esclusione della lista pidiellina.

Un simile cambiamento di pesi si è verificato nel centrosinistra, dove il Pd ha perso 2 milioni di voti rispetto a quanto raccolto nel 2005 da Ds e Margherita, mentre l´Idv ha quadruplicato i consensi (+1 milione e 227 mila voti). E così il rapporto Pd-Idv muta radicalmente. Se cinque anni fa i voti di Di Pietro erano 23 volte inferiori a quelli del Pd, oggi lo sono solo 3,7 volte.

Sale, anzi decolla, il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo: ha raccolto 390 mila consensi nelle 5 regioni in cui si è presentato e se in Emilia Romagna è arrivato al 6%, in Piemonte il suo 3,7% è stato determinante per la sconfitta di Mercedes Bresso, battuta dal leghista Cota di 0,42 punti. Altro grande vincitore è l´astensionismo: con un italiano su tre assente dalle urne, ha fatto segnare il record nella storia della Repubblica. Tuttavia l´effetto punizione per il governo dato dall´astensionismo di massa, in questi giorni ribattezzato "effetto Sarkozy", non ha colpito. Tre i fattori dello scampato pericolo individuati nello studio dell´Istituto Cattaneo: l´assenza talk show ha evitato il dibattito sulla crisi; le amministrative sono arrivate nella prima metà della legislatura; la Lega è riuscita a mobilitare il suo popolo.

Almeno un sussulto

di Valentino Parlato

Il Partito democratico dovrebbe prendere atto, con serietà e responsabilità, della sconfitta subita in queste elezioni regionali. Una sconfitta, aggiungerei, acutizzata dal positivo risultato ottenuto da Nichi Vendola in Puglia. Tutto il nord dell'Italia e buona parte del sud è in mano alla destra e consolarsi con possibili eventuali conflitti tra la Lega e il Pdl è del tutto illusorio: il territorio e la televisione marciano insieme.

Queste elezioni provano che non si batte Berlusconi con gli scandali e i processi. Il paese è cambiato, viviamo in una società largamente berlusconizzata, privatizzata, e senza più fiducia nella politica, come prova la forte crescita dell'astensionismo: a destra e anche a sinistra.

Ai tempi della mia giovinezza, quando c'era il Pci si facevano convegni e aspre discussioni sullo stato del capitalismo nel paese, sui suoi mutamenti. Oggi il Pd è un partito separato dal territorio (con i lavoratori ha più contatti la Lega di Bossi), con poche e incerte idee sulla società italiana e sulla crisi che la investe, molto dura, anche per chi ha la casa di proprietà o la pensione. La popolazione giovanile è diminuita in seguito alla denatalità, e la denatalità ha a che fare con questioni molto concrete, materialissime come l'impossibilità di progettare un futuro e dunque dei figli.

Il guaio è che il Pd oggi fa politica (o crede di far politica) senza sapere dove sta. Una volta la stampa del Pci faceva inchiesta sui territori di nuova industrializzazione (ricordo di averci lavorato con Luca Pavolini), oggi si fa più attenzione alle intercettazioni telefoniche. Qualcuno, giustamente, finisce in galera, ma nulla si mette in movimento nella società. E ancora, il Pd non è neppure un partito, ma una sommatoria eteroclita di pubblici incarichi. La Lega - va detto - è oggi l'unico vero partito che ci sia in Italia.

Ma allora che fare per non lasciare che il Belpaese si avviti in questa melma, mettendo in gioco anche l'unità nazionale, proprio alla vigilia dei festeggiamenti per il suo centocinquantenario? Dal Partito democratico ci si aspetta una mossa, un sussulto di presa di coscienza della gravità della situazione e dei pericoli che sono davanti a noi. O si pensa di cavarsela prendendosela con Grillo o accusando i NoTav della Val di Susa che l'hanno votato di aver consegnato il Piemonte alla Lega? Ma non si tratta solo del Pd (dal quale, devo dirlo, c'è poco da aspettarsi) ma anche di tutti i soggetti democratici che ancora ci sono e, aggiungerei, anche di questo nostro manifesto, che è nato da un preveggente scontro con il Partito comunista e che da quasi quarant'anni sostiene che questa società si deve e si può cambiare.

E poi, non per consolarci, in questi mesi abbiamo visto piazza piene e animate, di lavoratori in sciopero, o per denunciare il cappio sul collo dell'informazione, o per difendere l'acqua pubblica e i beni comuni. Anche la sfida di Michele Santoro ha avuto successo. Insomma, questo paese non sta tanto bene, ma è ancora vivo. Forse più di quella politica che dovrebbe rappresentarlo.

L'«anomalia» Puglia ora punta all'Italia

Vendola non entra nel Pd

e lavora all'unità a sinistra

di Iaia Vantaggiato

E adesso che farà Nichi Vendola? Si limiterà a governare bene la Puglia o andrà oltre? Davanti a lui si aprono adesso due strade non contrapposte: quella che lo porterebbe dritto sino alla leadership del centrosinistra e quella che, da lì, gli permetterebbe di conquistare la candidatura a premier contro Berlusconi nelle elezioni del 2013. Sussurrata ovunque da mesi, la domanda è esplosa dopo il voto. Ovvio che sia così. Lo impone lo stesso doppio ruolo di Vendola: presidente della Puglia e leader di una formazione nazionale che (nonostante il risultato elettorale) proclama l'ambizioso obiettivo di rifondare la sinistra.

A Bari i dubbi sono pochi: qui l'anomalia aspira a diventare «normalità», pronta com'è a essere esportata e a contagiare tutta l'Italia. Del resto il peso politico nazionale di Vendola è uscito accresciuto da questa prova elettorale. Non è il salvatore della patria ma poco ci manca. Inutile nasconderlo: senza la sua vittoria il ko del centrosinistra sarebbe stato totale e irreversibile.

Per quanto riguarda il suo partito, però, le cose stanno diversamente. E' vero che Sel ha confermato il risultato (3,1%) ottenuto alle europee 2009 ed è vero che mantiene quasi inalterato il numero dei propri consiglieri regionali. Ma su un totale di 20 eletti ben 11 sono pugliesi. E non solo. Sinistra e libertà ha anche mancato il sorpasso sulla Federazione della sinistra (Prc-Pdci) in 9 regioni. E' uno strumento, insomma, che al momento è tutt'altro che efficiente e che già a partire da oggi nella riunione del direttivo a Roma dovrà cominciare a fare i conti con i risultati elettorali. D'altra parte sia il presidente della Puglia che il più autorevole tra i suoi consiglieri, Fausto Bertinotti, hanno sempre detto di considerare Sel un mezzo « temporaneo» necessario a raggiungere l'obiettivo finale: la costruzione di un vero partito unitario della sinistra. Almeno a giudicare dai risultati di ieri, Sel non pare proprio attrezzata nonostante «l'anomalia» pugliese.

Vendola intanto vola a Roma, dove nei prossimi giorni lo attendono le telecamere di Vespa, Telese e Santoro. La domanda più attesa è: «Entrerà dentro il Pd?». Il governatore stoppa subito: «Credo che ciascun attore del centrosinistra sia inadeguato e parziale, inadatto alla necessità di ricostruire una egemonia culturale e politica a sinistra». Ciascuno «dovrebbe fare un passo indietro, per poter fare tutti insieme un passo avanti». Vendola non ha dubbi: «Mancano le forme dell'agire politico e le parole. Il vocabolario dell'alternativa non è stato ancora scritto».

Ergo un ingresso di Vendola nel Pd sembra oggi fuori discussione. Non di una vera e propria rifondazione della sinistra si tratterebbe ma di un'annessione che costringerebbe Vendola al ruolo angusto di capo corrente. Nessuno, qui in Puglia, glielo perdonerebbe, non certo i suoi ragazzi che con lui hanno trovato un modo diverso di fare politica. Nichita non sembra neanche pensarci. Tra le righe traspare piuttosto un'altra idea: lasciare a Sel una struttura leggera e chiedere a tutta la sinistra di sciogliere forze e partiti attuali per dar vita alla fase costituente di un partito unitario. Non che Vendola o Bertinotti, politici navigati, si aspettino una immediata risposta positiva. Ma qui entra in gioco di nuovo la Puglia, dove il Pd - ormai non più di stretta osservanza dalemiana dopo primarie e regionali - è vicino allo sbando e dove il presidente, oltre al suo stesso immenso peso specifico, può contare sulla rinnovata alleanza con Michele Emiliano. Quel che oggi è lontanamente possibile in Italia, qui in Puglia è già quasi realtà. E una volta fatto qui il primo passo il resto - l'esportazione del modello Puglia - verrebbe quasi da sé.

Certo, una simile ipotesi incontrerebbe quasi certamente l'opposizione di D'Alema e dello stesso Bersani, contro i quali però Vendola ha già una sponda interna al Pd: quella delle due mozioni sconfitte al congresso, Franceschini-Veltroni e Marini-Concia. E la stessa Idv che di un nuovo centrosinistra ha fatto la propria bandiera, non rimarrebbe insensibile. Non è un caso che oggi il consigliere più ascoltato da Di Pietro resti ancora Maurizio Zipponi, ex responsabile lavoro per il Prc ed ex vendoliano doc e ancora in ottimi rapporti con il presidente della Puglia.

Lombardia e Campania,

tramonta la stella solitaria del Prc

di Matteo Bartocci

Malconcia ma viva, la Federazione della sinistra (Prc, Pdci più associazioni varie) deve fare i conti con risultati elettorali non esaltanti. La conta con i vendoliani di Sinistra e libertà a parte la Puglia finisce quasi in parità. 475mila voti Fds, 478mila Sel più due biciclette Sel-Verdi e Fds-Verdi da circa 150mila voti cadauna. In totale dunque più di 1.200.000 voti a sinistra del Pd, con una percentuale nazionale che per entrambi è comunque inferiore al 3%. «Due debolezze che si sommano non fanno una forza», commenta il numero 2 del Prc Claudio Grassi. A via del Policlinico ieri lunga giornata di riunioni, prima la segreteria di Rifondazione, poi il coordinamento della Federazione. Sul tavolo risultati pesanti soprattutto in Lombardia e Campania, dove Fds correva da sola contro il centrosinistra schierando due candidati di livello nazionale come Vittorio Agnoletto e il segretario Paolo Ferrero. Risultato, zero eletti. In Lombardia Fds ottiene 87mila voti (2%), alle europee di giugno ne aveva più di 79mila (3,3%). Tracollo anche in Campania, dove Ferrero prende addirittura meno voti (39mila) del partito (43mila) e raccoglie appena l'1,35% dei consensi. Prima sintesi provvisoria: l'antagonismo col centrosinistra non ha pagato anche senza il ricatto del voto utile.

Debacle a cui si aggiungono il risultato non esaltante a L'Aquila (dove il Prc ha sperimentato sul campo il «partito sociale» caro al segretario con le brigate di solidarietà attiva) e soprattutto la rivolta della Val Susa. Il Prc si è speso tantissimo per mantenere viva una relazione con i No Tav ma nell'urna è stato asfaltato dalla lista Grillo. Esempi? Venaus: Grillo 29%, Fds 0,5%. Bussoleno: Grillo 28,5%, Fds 4%. Susa: Grillo 14,6%, Fds 1,8%. E via andare. Seconda sintesi provvisoria: anche dove si fanno battaglie sociali e politiche sacrosante poi ci si allea col centrosinistra e non si riesce a incamerarne risultati sensibili.

Nel carniere comunque la Federazione conta 17 consiglieri regionali eletti e 5 potenziali assessori nelle giunte di centrosinistra. Un risultato più equilibrato di quello di Sel, che praticamente ha fatto il pieno solo in Puglia. Che fare dunque? «Se andiamo da soli, come in Lombardia e Campania, andiamo male e se ci alleiamo col centrosinistra i risultati sono insufficienti», commenta Grassi. Segreteria e coordinamento hanno deciso: 1) di accelerare la costruzione della Federazione della Sinistra che è ancora in un limbo organizzativo; 2) di lanciare «un'offensiva unitaria verso Sinistra e libertà» (Grassi) in modo da arrivare almeno al risultato delle Marche, dove la sinistra unita fuori da Pd, Idv e Udc ha ottenuto almeno il 7%. Una «massa critica» da costruire negli anni che separano dalle politiche ma che non affronta, per ora, il vero nodo da sciogliere a sinistra (e nel Pd). E cioè non tanto il rapporto tra partiti quanto il rapporto tra partiti e «popolo». Uno spazio politico nuovo (anomalo?) che è esattamente il valore aggiunto dell'esperienza pugliese che ancora molti faticano a comprendere.

È come una palla che rotola sul crinale di un monte, questo voto regionale, e tutti lì a guardare dove cadrà - giocatori, spettatori - tutti col fiato sospeso, tutti fermi immobili ad aspettare che sia la gravità, un soffio di vento, un capriccio impercettibile a decidere chi ha vinto e chi ha perso così poi da poter dire domani come mai, col pensoso infallibile senno del dopo. E invece è sul prima che conviene restare: su questo fiato sospeso lungo un giorno, interminabile, questo apparente rallentare del tempo in moviola, un film muto in cui tutti stanno ad occhi spalancati in silenzio, tutti tranne Bossi che già dal pomeriggio esulta dello tsunami leghista e dell’elezione di suo figlio Renzo la trota. La giornata del tempo sospeso dice, da principio, due cose chiarissime: che l’Italia è stanca, stanchissima. Rabbiosa.

La stanchezza e la rabbia sono i sentimenti che hanno animato i vincitori: i primi, quelli che non sono andati a votare. Uno su tre: una percentuale da malato grave, la democrazia italiana deve essere curata, ha la febbre alta. Gli italiani stanchi dei pasticci, delle buchi e delle toppe, delle troppe parole indecifrabili sono rimasti a casa. Quelli che hanno votato erano, in maggioranza, animati dalla rabbia. Hanno vinto i partiti con la voce roca e la schiuma alla bocca, la Lega a destra, un trionfo assoluto, il neonato partito di Beppe Grillo che con percentuali dal 3 al 7 per cento - altissime, per un debuttante - conferma quel che sappiamo: urlare «tutti ladri tutti in galera» è un abito ampio e comodo, una taglia unica che si adatta a tutte le taglie e che è persino sostenuto da ragioni valide, documentate, condivisibili: tuttavia nel meccanismo della politica - di questa politica - finisce per fare il gioco dell’avversario, sempre. È funzionale al rafforzamento della destra, sempre. Dalla destra nasce, in verbale opposizione, e della forza della destra vive, in sostanziale alleanza. Mentre scriviamo in Piemonte la partita si gioca su una manciata di voti: il partito di Grillo è al 4 per cento e certamente non sarebbero stati tutti voti per il centrosinistra, ovvio che no. C’era di mezzo il no-Tav, importante discrimine. Però la manciata utile, quella sì, quella il grillismo l’ha portata via. Anche a Di Pietro, che regge e in qualche regione cresce ma non abbastanza da far gridare al trionfo. Ed è un voto di rabbia - la «rabbia giusta», diceva il poeta che vi abbiamo proposto un paio di giorni fa, quella che si chiama indignazione - la bella vittoria di Nichi Vendola in Puglia. Netta, pulita. Contro i pronostici dei professionisti della politica, contro i calcoli e le convenienze. Un voto di gente giovane, anche giovanissima, che chiede coraggio, visione, rinnovamento. Che ha voglia di vedere la luna.

Viceversa si arenano i candidati indicati secondo la logica, appunto, del calcolo e del male minore. La Campania e la Calabria sono perse così: per difetto di coraggio, a sinistra, e per la consueta spregiudicatezza della destra. Che la destra vinca nelle due regioni a più alto tasso di criminalità organizzata, le regioni dove neppure una riunione di condominio si decide senza l’appoggio del capoclan, è un fatto oggettivo. La vicenda Di Girolamo è dell’altro ieri.

Nessuno è così ingenuo da pensare che i padroni del territorio al momento delle elezioni si distraggano. Proprio per questo bisogna provare a batterli su un altro terreno: con la promessa di una rifondazione, in assoluta discontinuità col passato. Con un gesto rivoluzionario e pazienza se per vincere davvero ci vorrà tempo. L’importante è seminare. Intendiamoci: Vincenzo De Luca ha avuto un risultato personale eccellente considerato che correva contro tutti, inCampania, anche contro una buona parte del suo schieramento. Nonè bastato, tuttavia, a tacitare chi nella terra dei casalesi indicava De Luca come un malfattore né a convincere chi ha pensato fosse assai più conveniente restare sul terreno dei poteri reali, i veri potenti di quella terra i cui nomi e cognomi sono noti a chi legga Saviano: risulta eletto in Campania Caldoro, un volto che neppure da ministro abbiamo imparato a riconoscere nelle foto. Non si potrà certo dire che sia stata l’affermazione di un carisma, di una leadership, di una personalità trascinante. No, ecco: questo no. Così pure Loiero paga il prezzo, salato probabilmente oltre le sue stesse previsioni, della stanchezza di un elettorato arrabbiato, confuso e desideroso di un rinnovamento che non è venuto. Detto questo non si può non ricordare che solo due mesi fa il centrodestra puntava all’11 a 2 e gridava ai quattro venti che avrebbe fatto cappotto. Viceversa sono nette e belle le vittorie del centrosinistra in Toscana, Umbria, Emilia, Liguria, Marche e Basilicata, della Puglia si è detto. È perso il Sud, sarà un lavoro non da poco in assenza di rinnovamento profondo. È perso il Nord, dove vince la Lega dalla Francia all’Istria: uno stato nello Stato. Una mina, questa, che può cambiare nell’arco di pochissimi mesi i connotati del Pdl. Bossi azionista di riferimento, Fini fuori dai giochi. Dov’è An, in queste elezioni? Scomparsa. E l’elettorato di Fini, scomparso davvero anche quello? Sono tutti diventati leghisti e forzisti gli eredi della destra storica italiana? È questa l’incognita dei prossimi mesi: per il destino del Pdl - “il pareggio di Pirro” - e dell’Italia. Da una diaspora tra Fini e Berlusconi, davvero probabile ancorché non risolutiva, si ridisegnerà la geografia politica del Paese. E poi c’è il Lazio, dove il testa a testa tra Bonino e Polverini racconta un’altra storia davvero interessante: una regione che all’indomani delle dimissioni di Marrazzo il centrosinistra dava per perduta. Dove il Pdl ha giocato una battaglia che, diciamo, non ha badato a spese in ogni senso. Dove Emma Bonino si è autocandidata, poi sostenuta in forza della sua obiettiva forza, non smentita dai fatti. Anche qui: è arrivato sul filo di lana il coraggio. Il cambiamento. La capacità di rinnovare. Dicevamo, si sentiva nell’aria: il vento sta cambiando. Sta cambiando, sì. Il vento poi deve essere aiutato, a volte. Dopo le europee c’era bonaccia, le previsioni pessime. Di una sconfitta su tutta la linea. Nelle ultime settimane - come spesso capita - il centrosinistra si è ritrovato alla vigilia del voto: una certa brezza, un soffio di maestrale. C’è ed è reale. Bisognerebbe sostenerlo, adesso. Provare a mantenere la rotta, come chi va per mare, e correggerla sulla base dei risultati al primo giro di boa. Con lo stesso spirito degli ultimi giorni, che duri quanto serve e quanto basta. Perché se no, se da domani ricominceranno le accuse reciproche, il destino che ci aspetta, con certezza, è la dinastia dei Bossi al potere. Il padre al comando, il figlio la Trota - quello tre volte bocciato agli esami - ministro. Dell’Istruzione, come una laurea ad honorem.

Che cosa accadrebbe se alle prossime primarie del Pd fosse candidato il «Papa straniero», Nichi Vendola? È la domanda da un milione di dollari che circola da ieri notte nei quartier generali dell’opposizione. In poche settimane il ciclone Nichi ha travolto ogni pronostico sfavorevole. Fino a vincere sul margine della maggioranza assoluta, senza quasi bisogno dell’aiuto esterno del terzo incomodo, la candidata dell’Udc Adriana Poli Bortone. Nessuno, fino a poco tempo fa, avrebbe scommesso un centesimo sul trionfo di Vendola. Massimo D’Alema era calato per tempo, in una Bari sconvolta dagli scandali, con un foglietto fitto di cifre di sondaggi, per dire che «con Nichi non abbiamo una speranza di vincere». Non era un suggerimento, era un ordine. Ma in due mesi di battaglie contro tutti, prima gli alleati e poi gli avversari, Vendola ha rovesciato la profezia, inflitto agli strateghi eternamente perdenti del centrosinistra la più sonora batosta degli ultimi vent’anni, riconquistato al centrosinistra una regione che in teoria è fra le più destrorse d’Italia. Nelle politiche del 2008 la coalizione di centrodestra, già senza i voti dei centristi di Casini, aveva trionfato con 12 punti di vantaggio. «In Puglia, la prossima volta, possiamo candidare chiunque» aveva commentato Raffaele Fitto, vicerè berlusconiano, pregustando la rivincita per interposta persona. Non è stato così. Il candidato «chiunque», Rocco Palese, è uscito sonoramente battuto.

È difficile immaginare un outsider più outsider di Nichi, almeno per gli arretrati parametri della politica nazionale. Comunista cresciuto in federazione, omosessuale dichiarato, ma cattolico fervente e praticante. Una serie di anomalie, esaltate dalla più straordinaria di tutte: il coraggio. Il coraggio di mantenere la barra dritta quando tutti erano contro. Il coraggio di presentarsi sempre per quello che si è, senza giravolte opportunistiche. Il coraggio soprattutto di sfidare da solo il partito trasversale degli affari che in Puglia voleva privatizzare l’acquedotto. Contro l’opinione del novanta per cento dei pugliesi, ma con l’accordo del novantacinque per cento del quadro politico. Nell’affare dell’acquedotto ci stavano tutti, dai leghisti del Sud all’Italia dei Valori, passando per Pdl e Pd. Ma più di tutto, aggiungevano i dietrologi, passando per l’Udc di Casini e del suocero Caltagirone.

Quella di Vendola in Puglia è la vittoria di una sinistra sincera, popolare, anticonformista, davvero moderna. Dove la modernità non consiste nell’inseguire il vento di destra, mascherandosi da moderati nei talk show. Ma al contrario nel difendere con orgoglio i valori alternativi della sinistra e nella capacità di immergersi in un mondo post televisivo, nel mescolare l’antica arte del comizio in piazza con il nuovissimo talento di saper cogliere la natura politica di Internet. Almeno nell’uso della rete, se non nel resto, Vendola si è rivelato il tanto atteso «Obama italiano». Mezza campagna elettorale, per le primarie e poi per le regionali, le Fabbriche di Vendola l’hanno fatta sulle sigle della rete, da Facebook a Youtube, con trovate di enorme successo, come le videolettere. Qui probabilmente si è creata la distanza e la differenza finale di risultato fra Vendola e la Bonino, altra «straniera» ingaggiata dal Pd, ma ancora prigioniera di stilemi da radicali anni Settanta e Ottanta, compreso il rito stanco dello sciopero della fame. È in ogni caso evidente che dove il Pd ha voluto a tutti i costi cercare il «candidato giusto», quello «in grado di spostare il voto moderato», si trattasse di sceriffi di sinistra come Penati o De Luca, o di democristiani progressisti come Bortolussi e Loiero, sono arrivate catastrofiche sconfitte. Il Pd sconta la presuntuosa pochezza dei propri strateghi, l’incapacità di capire davvero il sentimento popolare, l’incredibile errore di scambiare la Binetti per il mondo cattolico. «Dove la sinistra imita la destra, alla fine perde e perde male» ha sempre sostenuto Vendola. Oggi ha avuto ragione, almeno in Puglia. Nel resto d’Italia, si vedrà presto.

Postilla

Il risultato della Puglia è certamente uno dei segnali che possono indurre, se raccolto, trasformazioni positive: aprire una speranza sul nostro futuro. C’è da dubitare però che questo possa avvenire, come sembra preconizzare Maltese, con un semplice rimpasto dei vertici – e del corpo ormai smilzo – del PD, o peggio ancora con la cooptazione del personaggio vincente.

Se ci si accontenta di una prospettiva simile continueremo ad assistere ad un aumento della “disaffezione” degli elettori di destra per Berlusconi, delle contraddizioni interne tra le foze associate nella compagine di centro destra, della perdita di ogni buona occasione per ribaltare il risultato, e insieme soffriremo la decadenza della democrazia, la devastazione del territorio, la rapace privatizzazione dei beni comuni, la decadenza della morale pubblica e via piangendo.

O si cambia il modo di fare politica, e allora si ricomincia dal proporre i principì di una sinistra nuova: una sinistra contemporanea ma orgogliosa delle proprie radici, capace di difendere insieme il lavoro e il territorio, capace di raccogliere l’ansia per una partecipazione consapevole al governo dei beni comuni che nasce da mille punti della società, e insieme impegnata nella ricerca, e nella paziente e graduale costruzione, di un sistema economico sociale radicalmente diverso da quello basato sullo sfruttamento e sull’alienazione.

Oppure, pioverà sempre sul bagnato, e a ogni sconfitta ne seguirà un’altra.

Quel che si temeva sta purtroppo accadendo, e in una misura che sembra assai grave. Le astensioni dal voto crescono – talvolta in modo impressionante – in ogni regione: sette punti in meno sono un´autentica voragine. Il Paese è stanco, infastidito, preoccupato, deluso e in molti – troppi – stanno decidendo di allontanarsi dalle urne. È inutile nascondersi dietro l´alibi dell´inevitabile adeguamento a un astensionismo presente in tutte le consultazioni elettorali dell´occidente più avanzato. Noi eravamo sempre stati in controtendenza – più o meno accentuata – rispetto a un simile dato: e la novità di queste ore non promette nulla di buono. È il segno di un disagio tutto italiano – una lucida disaffezione, una calcolata risposta a una deriva giudicata evidentemente insopportabile – che merita molta attenzione. I risultati che tra poco conosceremo non potranno cancellare, comunque, l´imponenza del fenomeno: qualcosa di più di un primo campanello d´allarme – un autentico segnale di pericolo per il nostro futuro democratico.

Due considerazioni mi sembra si impongano subito. La prima – che è anche la più ovvia – riguarda lo scollamento ormai quasi drammatico fra la politica, per come viene ormai quasi universalmente percepita, e i bisogni, le domande, le aspirazioni del nostro popolo. In questo senso, è impossibile non vedere nel rifiuto del voto una risposta di protesta, che si avvicina a un autentico grido di sdegno, un´esigenza di sottrarsi a un gioco cui non si vuole più prestare fiducia, né dare legittimazione - "non in mio nome". Come è impossibile non rendersi conto, da queste cifre, che l´opposizione fa molta fatica a intercettare questa ripulsa, e tradurla in un disegno positivo, in un´azione affermativa, in un progetto di speranza: e credo che la difficoltà riguardi soprattutto il rapporto con le giovani generazioni.

La seconda osservazione tocca invece quella che potremmo definire la qualità della democrazia. Se si svuota giorno dopo giorno il contenuto partecipativo dell´esperienza democratica, la pienezza delle sue articolazioni e dei suoi equilibri, la sua capacità di coinvolgimento quotidiano nelle scelte e nelle decisioni collettive, se la si riduce a puro assenso alle azioni di un leader, come la si sta cercando di impoverire nella sua versione berlusconiana – votatemi, e lasciatemi fare – è inevitabile che la stessa cerimonia del voto perda di senso nella percezione di molti, scada a rituale in fondo inutile, da cui ci può facilmente distogliere. Questa, in un certo senso, è l´altra faccia del populismo: il lato oscuro della passività che esso finisce con l´indurre, e che può diventare autentica espropriazione.

E infine. È difficile sottrarsi anche all´impressione che un astensionismo così alto suoni comunque come un rifiuto di quella mobilitazione plebiscitaria invocata dal Presidente del Consiglio come il rimedio di tutti i (suoi) mali. Esso appare piuttosto come il segno di una separazione, di una mancata condivisione rispetto a chi ama presentarsi come un candidato universale, circondato di irresistibile favore. È il segno di un Paese che si scopre, ancora una volta, drammaticamente incompiuto, eternamente sospeso tra dannazione e riscatto.

La campagna elettorale senza talk show politici è divenuta la più televisiva della nostra storia politica. In modo neppure troppo involontario. Per alcune ragioni piuttosto evidenti. E vantaggiose per il premier.

Il premier che ne è il primo artefice e responsabile.

1. Il silenzio dei talk show ha ridotto, anzitutto, gli spazi di critica al governo e al suo leader. Per non contraddire la sua auto-narrazione. Il «Cavaliere del fare», il «Grande Sacerdote» della Religione dell’Amore opposta a quella dell’Odio. Meglio non rischiare il remake di un anno fa, prima delle elezioni europee. Le polemiche coniugali, le vicende di donne e donnine. Con gli strascichi negativi sul voto – o meglio: il non voto – al Pdl. Meglio non amplificare le intercettazioni telefoniche – diffuse in queste settimane - dei suoi dialoghi con il Commissario dell´Agcom e il direttore generale della Rai.

2. Sospesi i talk show, il territorio televisivo è stato occupato da Berlusconi e dal Pdl. La cui presenza ha superato ogni limite, come dimostrano le rilevazioni dell’Osservatorio di Pavia. A scapito non solo del Pd e dei partiti di opposizione, ma anche degli alleati, in particolare la Lega. Finita, a sua volta, in un cono d´ombra.

3. Le manifestazioni di piazza hanno offerto a Berlusconi ulteriore spazio mediatico. Quella di Roma della scorsa settimana, sceneggiata appositamente come un evento televisivo. Quasi un rito religioso, con i candidati governatori chiamati a giurare e la folla dei supporter invitata a evangelizzare gli infedeli e gli agnostici, come un esercito di «missionari».

4. È stata la campagna elettorale più televisiva della storia politica italiana anche per il ruolo assunto dalla televisione nel dibattito politico. La chiusura dei talk show delle reti nazionali: occasione esemplare per discutere della libertà di espressione. Anzi: della libertà, tout-court. Ma soprattutto, i conduttori e i giornalisti dei talk show – sgraditi al premier – elevati a protagonisti politici. Basterebbe un’analisi del contenuto dei – tanti – discorsi tenuti dal premier durante la campagna elettorale. Oppure, riascoltare gli interventi – molteplici – del premier nelle più svariate trasmissioni tivù. In particolare, quelle «familiari», come «Uno Mattina». Emergerebbe, in modo evidente, una mappa dei «nemici» marcata – marchiata – dai personaggi televisivi. Primo fra tutti: Michele Santoro. Leader del PdAZ. Non il Partito di Azione, ma il Partito di Annozero. Poi, i Magistrati. Divenuti, negli anni di Tangentopoli, «custodi della pubblica virtù» (come li definì Alessandro Pizzorno), perché in grado di promuovere o delegittimare i leader politici. E, per questo, considerati antagonisti irriducibili dal premier, la cui biografia di imprenditore è punteggiata di indagini giudiziarie. Infine, fra i «nemici» evocati dal premier, nel corso della campagna elettorale, un posto d´onore spetta ad Antonio Di Pietro. Insieme a De Magistris, leader dell´Idv. Altrimenti detto: il PM. Partito dei Magistrati (e dei Pubblici Ministeri). Spesso, ospiti e protagonisti di Annozero. E, nell’ultimo mese, tra i più presenti nelle trasmissioni di informazione politica in tivù.

5. Così, questa campagna elettorale in vista delle regionali, senza talk show, non ha parlato delle questioni regionali, ma dei talk show. Non ha proposto i candidati presidenti e i loro programmi. Semmai, ha discusso di programmi televisivi. E ha opposto – fra loro – personaggi televisivi. Bloccando, accuratamente, i segnali di inquietudine che attraversano la società. Le preoccupazioni economiche e (dis)occupazionali. (Abbassano l’audience delle trasmissioni tivù e il gradimento del governo. Meglio il silenzio).

Con alcune conseguenze rilevanti.

a) L´oscuramento dell´opposizione politica. Del Pd e dei suoi leader, Bersani in primo luogo. Inoltre, come abbiamo detto, la sotto-esposizione della Lega, rispetto al premier. Il quale ha trasformato, ancora una volta, le elezioni in un referendum. Pro o contro se stesso. Anche se, in questa occasione, è possibile che ciò sia avvenuto per trainare non tanto la coalizione in difficoltà (come nel 2006). Ma anzitutto se stesso insieme al suo partito, il Pdl.

b) L’ulteriore «unificazione» di Rai e Mediaset. Ridotti a MediaRai.

c) Con l´esito di spostare all´esterno i luoghi del dibattito politico e pubblico. Sul satellite, sulle altre reti, su Internet. Soprattutto dopo la sentenza del Tar del Lazio, che ha dichiarato illegittima la sospensione dei talk show. Per questo, «RAI per una notte» – l’evento organizzato da Michele Santoro nei giorni scorsi – appare esemplare non solo di questa campagna elettorale, ma di questa fase mediapolitica. Trasmessa in diretta tv sulle piattaforme satellitari e su Internet, ha raggiunto intorno al 13% di share, a scapito delle reti MediaRai. E ha offerto una raffigurazione plastica dell’opposizione al tempo della «democrazia del pubblico e dell’audience» (per citare il filosofo Bernard Manin). Guidata da Santoro, Travaglio e Floris, insieme a Lerner. MediaRai al governo. Sky, le altre reti e Internet all´opposizione.

Di fronte allo spettacolo della politica come spettacolo (televisivo), coltiviamo due auspici.

1. Che finisca la finzione della tivù «pubblica». Dove lo spirito «pubblico» si è perduto. Dove nessuno – al di fuori della cerchia dei diretti interessati – ha reagito alla chiusura dei talk show, né all´evento promosso da Santoro. Che si privatizzi la Rai. Che il mercato prenda il posto di un duopolio divenuto mono-polio. Asfissiante e asfittico.

2. Che la realtà reale sfugga – e si ribelli – a quella mediale. Che emerga un´Italia diversa da quella – irreale – messa in onda sui nostri schermi. Delusa ma non rassegnata. Capace di reagire con il voto. E non con l´astensione. Se la tivù tradisce la vita, bisogna spegnere la tivù, non la vita.

Negli ultimi mesi la protesta contro il regime berlusconiano ha raggiunto toni quasi patetici. Si parla di crisi del berlusconismo come per esorcizzare la realtà di una perfetta corrispondenza tra la corruzione del ceto politico-imprenditoriale e il cinismo diffuso nella società. Ma la crisi dove sarebbe? L'escalation di arroganza non è segno di una crisi, direi, ma del suo contrario: è segno della stabilizzazione di un sistema che non ha più bisogno di legge perché basta la legge del più forte per regolare le relazioni di precarietà, sfruttamento e schiavismo nel campo del lavoro e della vita quotidiana.

Quanto più evidente è il disprezzo del ceto al potere per la legge e le regole, tanto più la protesta si concentra sulla difesa della legalità. Il problema è che la legge e le regole non valgono niente quando non esiste la forza per renderle operanti. E dove sta la forza, cos'è la forza in un sistema centrato sulla produzione mediatica della coscienza? Nel discorso corrente quel che accade in questo paese è visto come una bizzarra forma di corruzione dello spirito pubblico, come una singolare e isolata sospensione della democrazia. Allo stesso modo gli inglesi guardarono agli italiani dopo la prima guerra mondiale, e le democrazie occidentali interpretarono Mussolini: un fenomeno di marginale arretratezza culturale, o piuttosto un'anomalia culturale. Poi l'esempio di Mussolini produsse effetti su larga scala, fino a precipitare il mondo nella più grande carneficina della storia.

Tra riforma e controriforma

Forse occorrerebbe smetterla di considerare il caso italiano come un'anomalia: al contrario è l'esempio estremo degli effetti prodotti dalla deregulation, fenomeno mondiale che distrugge prima di tutto ogni regola nel rapporto tra lavoro e capitale. Vi è certamente una specificità culturale italiana che merita di essere studiata capita, approfondita. Ma grazie a Mussolini e a Berlusconi questa specificità ha finito per esprimersi come forma anticipatrice del destino del mondo.

Nel libro Vuelta de Siglo (Mexico city, Era editorial, 2006) il filosofo messicano Bolivar Echeverria parla di due modernità che configgono e si intrecciano fin dall'inizio del sedicesimo secolo. La prima è la modernità borghese fondata sulla morale protestante e sulla territorializzazione delle cose mondane e del dovere industriale. L'altra è modellata dalla Controriforma e dalla sensibilità del Barocco. Questa seconda modernità è stata rimossa e marginalizzata nello spirito pubblico dell'Occidente capitalista a partire dal momento in cui l'industrializzazione dell'ambiente umano ha richiesto una riduzione del sociale al processo di meccanizzazione. La vita della borghesia industriale è basata sulla severa dedizione al lavoro instancabile e sull'affezione proprietaria ai prodotti del lavoro. La borghesia è una classe territorializzata perché l'accumulazione di valore non può essere dissociata dall'espansione del mondo delle cose fisiche. Non esiste più la borghesia perché la produzione non si svolge più nel borgo, ma nella rete, e la ricchezza non si fonda più sulla proprietà di oggetti fisici, ma sulla deterritorializzazione finanziaria.

Echeverria osserva che fin dal sedicesimo secolo la Chiesa Cattolica ha creato un flusso alternativo di modernità, fondato sulle competenze immateriali dell'immaginazione e sulle potenze della deterritorializzazione linguistica e immaginativa. Il potere spirituale di Roma è sempre stato fondato sul controllo delle menti: questo è il suo capitale, fin quando la sua potenza venne marginalizzata dalla borghesia industriale.

La fonte dell'accumulazione

Ma quando le immagini, non più semplici rappresentazioni della realtà, divengono simulazione e stimolazione psico-fisica, i segni divengono la merce universale, oggetto principale della valorizzazione di capitale. Se l'economia borghese territorializzata era fondata sulla severità iconoclasta del ferro e dell'acciaio, la deterritorializzazione post-moderna è fondata invece sulla macchina caleidoscopica della produzione semiotica. Questa è la ragione per cui possiamo parlare di semiocapitalismo: perché le merci che circolano nel mondo economico - informazione, finanza, immaginario - sono segni, numeri, immagini, proiezioni, aspettative. Il linguaggio non è più uno strumento di rappresentazione del processo economico e vitale, ma diviene fonte principale di accumulazione, che continuamente deterritorializza il campo dello scambio.

La dinamica di progresso e crescita, nata dallo spazio fisico territoriale della fabbrica, ha obbligato le due classi fondamentali dell'epoca industriale, classe operaia e borghesia, al rispetto delle regole politiche e contrattuali. La morale protestante delle regole fonda la contrattazione collettiva e la funzione sociale dello stato.

A partire dagli anni '70 la relazione tra capitale e lavoro è stata trasformata, grazie alla tecnologia digitale e alla deregulation del mercato del lavoro. Un effetto enorme di deterritorializzazione ne è seguita, e il modello borghese è stato spazzato via, insieme alla vecchia coscienza di classe operaia. La finanziarizzazione dell'economia globale ha eroso l'identificazione borghese di ricchezza proprietà fisica e lavoro territoriale. Quando il lavoro perde la sua forma meccanica e diviene immateriale, linguistico, affettivo, la relazione deterministica tra tempo e valore si rompe. La genesi del valore entra in una fase di indeterminazione e di incertezza. La via è aperta verso un prevalere di una visione neo barocca, e all'istaurazione di una logica aleatoria nel cuore stesso dell'economia. Quando il linguaggio diviene il campo generale della produzione quando la relazione matematica tra tempo-lavoro e valore è rotta, quando la deregulation distrugge tutte le garanzie, solo un comportamento di sopraffazione criminale può prevalere.

La violenza della deregulation

Questo è accaduto, in tutto il mondo non solo in Italia dal momento in cui le politiche neoliberiste hanno occupato la scena. Il principio della scuola neoliberale, la deregulation che ha distrutto i limiti legali e politici all'espansione capitalista non può intendersi come un mutamento puramente politico. Occorre vederlo nel contesto dell'evoluzione tecnologica e culturale che ha spostato il processo di valorizzazione dalla sfera della meccanica industriale al campo della produzione semiotica.

Il lavoro cognitivo non si può ridurre alla misura del tempo dato che il rapporto tra lavoro tempo e valorizzazione diviene incerto, indeterminabile. Il mercato del lavoro globale diviene il luogo della pura legge della violenza, della sopraffazione. Non si tratta più di semplice sfruttamento, ma di schiavismo, di violenza pura contro la nuda vita, contro il corpo indifeso dei lavoratori di tutto il mondo. La violenza è diventata la forza economica prevalente nell'epoca neoliberista. In Messico come in Italia come in Russia come in molti altri paesi il mercato finanziario, il mediascape e il potere politico sono nelle mani di persone che hanno ottenuto il loro potere con l'illegalità e con la violenza. Per non parlare del ruolo che corporation come Halliburton e Blackwater hanno svolto e svolgono nel provocare guerre e nel distruggere vite e città perché questo è il loro lavoro, perché il loro business ha bisogno della guerra per prosperare. La violenza è la forza regolatrice dell'economia semiocapitalista, perchiò non é contrastabile con i richiami alla legalità e alla moralità.

Come cento anni fa littlie è l'avanguardia del capitalismo non protestante e la seconda modernità di Echeverria, che si presentò per alcuni secoli come pura reazione antimoderna emerge oggi come principio fondativo del capitalismo mondiale. L'esperienza italiana durante gli ultimi cento anni è stato il teatro principale di questo ritorno dello spirito barocco. Le performance di Mussolini e di Berlusconi sono fondate entrambe sulla esibizione teatrale dell'energia maschile, ma anche sulla capacità di penetrare nei recessi del linguaggio nel campo profondo dell'autopercezione collettiva.

Curzio Malaparte, in un libro intitolato L'Europa vivente, ragionava su questo punto: il fascismo raccoglie l'eredità della Controriforma e dello spirito barocco, e la trasforma in un'energia che è al tempo stesso anti-moderna e neo-moderna. «Noi saremo grandi anche senza passare con un ritardo di tre secoli attraverso la Riforma: saremo grandi anzi unicamente contro la Riforma. La nuova potenza dello spirito italiano che già si manifesta per chiari segni non potrà essere se non antieuropea».

Sul corpo delle donne

Malaparte è ben consapevole - come lo erano stati i futuristi - del fatto che la modernità che il fascismo afferma è fondata sulla rimozione della femminilità. Il fascismo è sessualità che aborrisce e teme la sensualità. «Soffrire è necessario per vivere. La gloria e la libertà costano sangue, e soffrire bisogna per vivere con superbia e dignità fra superbi. Chi non riconosce questa verità fondamentale della vita umana si condanna alla bestialità. Chi predica l'odio alla sofferenza, chi predica alegge del paradiso e non quella dell'inferno (i socialisti) nega tutto ciò che di grande ha in sé un uomo, cioè tutto quello che un uomo ha in sé di umano. Un'umanità epicurea, paradisiaca, è anticristiana e antiumana» (Malaparte, L'Europa vivente).

La femminilità dell'autopercezione italiana è in gioco, nel caso di Mussolini come nel caso di Berlusconi. Mussolini e i giovani futuristi del 1909 volevano sottomettere disprezzandolo il corpo della donna (e il corpo sociale in quanto sottomesso e femminile). Berlusconi e la classe di lunpen che lo circonda vuole sporcare il corpo della donna, sottometterlo all'autodisprezzo cinico, sentimento prevalente e vincente della classe dirigente del semiocapitalismo barocco.

Le regole che i legalisti rivendicano sono decaduti nella cultura e nel lavoro. Occorre liberare la società dal legalismo, perché la società cominci a non rispettare le regole del semiocapitale, a essere autonoma nella post-legalità che il Semiocapitale ha istituito. Ciò che occorre alla società è la forza per non rispettare le regole non scritte che il capitalismo ha imposto, e per affermare un altro modo di vita, una nuova solidarietà del lavoro. Allora, nel campo senza regole del semiocapitalismo, la società potrà affermare i suoi bisogni e soprattutto le sue potenzialità. Difendere la legge diviene un lavoro risibile, quando il potere dichiara ogni giorno nei fatti che quelle regole non contano più niente. Solo a partire dall'abbandono di ogni illusione legalista sarà possible creare autonomia sociale, essere all'altezza (o se si preferisce alla bassezza) della sfida che il semiocapitale ha lanciato.

Certi silenzi parlano più delle parole. E parlano, ai miei occhi almeno, gli inquietanti silenzi su due gravissimi fatti recenti: l’assassinio, a Palermo, dell’avvocato Enzo Fragalà; l’inquinamento doloso, in Lombardia, del fiume Lambro. In apparenza due fatti del tutto lontani e incomunicabili. Ma che potrebbero anche non esserlo. Sicuramente si tratta di due fatti anomali accaduti in contemporanea. Nel primo caso è stato ammazzato davanti al suo studio un avvocato che si è storicamente distinto per avere tutelato in sede legale i boss mafiosi. Che è stato tra i loro difensori più in vista nel maxiprocesso degli anni Ottanta. E che è poi stato eletto in Parlamento, dove è rimasto per numerose legislature. Nel suo caso l’anomalia balza subito agli occhi. Ucciso una sera davanti al portone del suo studio da un energumeno isolato e munito, così ci è stato raccontato, di casco e di bastone. Ma da quando a Palermo si uccide con un bastone? Forse la città non si è distinta nella sua storia per la facilità con cui i conti vi vengono regolati con le armi da fuoco, si tratti di fatti pubblici o (anche) di fatti privati?

O davvero si può credere che ci si presenti a uccidere un personaggio famoso da soli e armati solo di un randello, con il rischio, fra l’altro, che la vittima designata riesca a scappare, a premere un tasto o che passi qualcuno d’improvviso? E soprattutto: ma quale individuo isolato ucciderebbe a Palermo un legale dei clan? Si è fatta l’ipotesi di un pazzo omicida. Certo. Solo che l’avvocato Fragalà era stato indicato come uno dei possibili bersagli di Cosa Nostra ai tempi del celebre striscione esposto allo stadio della Favorita, quello in cui Berlusconi veniva invitato a ricordarsi della Sicilia riferendosi al 41-bis, ossia al carcere duro, vera ossessione dei clan. Solo che il tema del carcere duro continua a tornare come un martello anche nelle sedi processuali. Solo che le promesse non mantenute e il preteso scarso impegno degli avvocati in Parlamento sono stati oggetto di ripetute e pubbliche lamentele nonché di allusive minacce da parte dei boss, di cui si trova conferma anche in qualche narrazione dei collaboratori di giustizia. Se poi Fragalà davvero stava assistendo alcuni imprenditori in via di dissociazione da Cosa Nostra, questo non ha potuto che esporlo ancora di più. Un messaggio di sangue, dunque.

Il più volte temuto messaggio a una classe forense ritenuta contigua o più organica alla difesa dei boss in sede giudiziaria. Questo potrebbe essere l’assassinio di Fragalà. E questa consapevolezza intuitiva è sembrata affiorare nelle dichiarazioni e soprattutto nelle mezze frasi corse qualche giorno dopo, durante l’assemblea dei legali al Palazzo di Giustizia palermitano. Come se si fosse ricevuto il segno di un’impazienza giunta all’ultimo stadio, e che la decisione di mandare all’asta i beni confiscati alla mafia non è bastata a sedare. E che, evidentemente, non bastano a sedare le generosissime falle amministrative che vengono ovunque denunciate nella gestione del 41-bis (ultimi, i liberi convegni in carcere tra i boss Graviano e Schiavone). Soprattutto, forse, di fronte ai ripetuti successi di magistrati e forze dell’ordine nella cattura dei latitanti. D’accordo, potrà dire qualcuno: ma che c’entra il Lambro? In effetti. Può darsi nulla. Ma può darsi molto.

Il fatto è che a 1500 chilometri di distanza da Palermo, nella Lombardia dove batte il cuore del potere politico a cui i boss indirizzano da tempo le proprie richieste, è stata provocata una catastrofe ambientale. Non è stato incidente, questo è appurato. Bensì sabotaggio, vero e proprio atto di terrorismo ecologico. I cui danni sarebbero potuti essere immensi e coinvolgere in modo ancor più disastroso il Po e la sua pianura. Sabotaggio professionale, ci è stato detto. Un atto di terrorismo che ha tutta l’aria di essere stato dimostrativo o punitivo o le due cose insieme. Indirizzato contro qualche interesse locale o contro interessi più ampi? La logica (che non sempre si riflette nei comportamenti umani, questo è vero) suggerisce che l’atto sia stato indirizzato consapevolmente contro la collettività. Un po’ come gli atti di terrorismo compiuti contro il patrimonio artistico.

L’assassinio di Fragalà e l’attentato al Lambro-Po sono fatti assolutamente anomali. E quindi non facilmente leggibili dall’opinione pubblica. Dunque, in sé, perfettamente funzionali a un eventuale desiderio di irriconoscibilità da parte degli autori. Che è senz’altro in questo momento (vogliamo ipotizzarlo?) il desiderio di Cosa Nostra. La sua presenza sotto traccia sta scritta nel patto che l’ha traghettata nella Seconda Repubblica. E d’altronde essa sa perfettamente che per ottenere gli agognati benefici legislativi e amministrativi non può esibire tracotanza delittuosa. Ha imparato che dopo gli scoppi di aggressività criminale lo Stato è costretto a contrastarla di più, a non concederle più niente. Deve usare modalità mascherate e il meno sanguinarie possibili. Assassinio di Fragalà e attentato terroristico, per le forme in cui sono avvenuti, avrebbero dunque i requisiti ideali per minacciare selettivamente. Non il paese, ma chi può e deve capire. E purtroppo i silenzi clamorosi non aiutano a stare tranquilli. Perché, ad esempio, il ministro Alfano, che – oltre a governare la Giustizia – bene conosce la Sicilia, ha detto e mai più ridetto che stanno tornando i tempi più bui? Perché si levano allarmi e grida continue contro i clandestini e ogni più piccolo attacco alla nostra sicurezza ed è passato invece nel più gelido silenzio governativo un terribile atto di terrorismo? Siamo davanti alla coincidenza (possibile) di due fatti separati o a qualcosa che sa di strategia e di trattativa?

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