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La lotta dell'Innse è un'anomalia. Dice che esistono ancora degli operai che amerebbero continuare a fare gli operai, non sognano di aprire un bar o di farsi scritturare dal grande fratello. Rimette in discussione il nostro sguardo sugli operai. Il professor Ichino, invece, resta catafratto nelle sue certezze. Giuslavorista di vaglia, docente stimolante, uomo coraggioso, senatore non assenteista. Anche chi non condivide le sue idee e le sue ricette - e noi siamo tra questi - riconosce delle qualità a Pietro Ichino.

Ma della vicenda Innse, sia detto fuori dai denti, il professore non ha capito un tubo. Il suo commento, pubblicato ieri sul Corriere , brilla per ottusa insensibilità. Ichino riduce la lotta dei 49 operai dell'Innse a caso qualsiasi tra altri mille. L'interpreta come mera (e pigra, ai suoi occhi) lotta per non perdere il salario e un posto di lavoro qualsiasi. Gli sfugge che i 49 non resistono da 14 mesi perché vogliono assicurarsi un «posto» purchessia. Vogliono mantenere il loro di lavoro, quello che per anni hanno dimostrato di saper fare bene, in quella fabbrica lì, a Lambrate. Una fabbrica che, nonostante la ruggine sul cancello, potrebbe ancora avere commesse, se solo si trovasse un padrone un gradino sopra il livello di rottamaio. I tre mesi di autogestione gli operai di via Rubattino non li hanno fatti per tenersi in allenamento, ma per dimostrare la loro professionalità e il loro attaccamento a impianti da cui sono usciti pezzi che hanno portato il marchio Innse nel mondo. Per bloccare lo smontaggio di quegli impianti, e non per sport, in cinque sono saliti martedì sul carroponte.

Gronda di soggettività operaia e di storia industriale il caso Innse. Il senatore del Pd non vede né l'una, né l'altra. Lui vede solo «riti stanchi», lo «stesso logoro schema», un sindacato che spinge i lavoratori in «un vicolo cieco», costringendoli a «rimanere attaccati a tutti i costi a un padrone» incapace e inaffidabile. Perché tanto accanimento, argomenta Ichino, quando sarebbe facilissimo, persino in condizioni di crisi, «ricollocare altrove» quei 49 lavoratori? Basterebbe che il sindacato invece di mettersi di traverso, accettasse i licenziamenti, subordinandoli però a serie politiche di outplacement a carico dell'imprenditore che chiude un'azienda o la ristruttura. La parola inglese, che significa «ricollocazione», è un prezzemolo che non manca mai negli accordi di ristrutturazione. Anni dopo, quando si fanno i bilanci, si scopre che i «ricollocati» si contano sulle dita di una mano. E che nei rari casi in cui avviene, la ricollocazione si fa sempre al ribasso: chi era un operaio provetto finisce a mettere le scatole di biscotti sugli scaffali di un supermercato.

I 49 dell'Innse rifiutano questa prospettiva. Rifiutano un «altrove» dove la loro professionalità sarà inutile e «rottamata». Stupisce in questa epoca di operai senza identità il loro orgoglio e la loro cocciutaggine. Ma è tutta farina del loro sacco. Non è stato il sindacato, come a Ichino fa comodo credere trattandosi della Fiom, a fargli il lavaggio del cervello. Sfugge qualcosa anche ad alcuni lettori intervenuti sul nostro sito a proposito del caso Innse. Chi suggerisce ai 49 di Lambrate di «fare come in Francia», di ricorrere a metodi di lotta più «incisivi» e «violenti» dimentica una differenza sostanziale. L'obiettivo di quasi tutti i sequestri di manager in Francia è stato quello di spuntare più consistenti buone uscite, non di evitare la chiusura delle fabbriche. In via Rubattino non si lotta per ottenere qualche migliaia di euro per rimpolpare il magro assegno di mobilità. Si lotta per tenere in vita la fabbrica. Sempre sul nostro sito, qualcuno ha il dente avvelenato con gli operai diventati in massa berlusconiani o leghisti. «Vadano a farsi difendere da loro». Detto che anche gli operai leghisti meritano di essere difesi, se hanno ragione, la contumelia non si attaglia ai 49 dell'Innse. Di leghisti tra loro non ce ne sono, sono mosche bianche (o meglio rosse) anche in questo. Nel loro presidio gli zingari e i migranti sono sempre stati sempre benvenuti. Nell'Italia del rancore, della paura, dell'egoismo via Rubattino è uno dei rari luoghi in cui ultimi e penultimi si sono trovati dalla stessa parte della barricata.

La vicenda della Innse di Lambrate dimostra quali sviluppi drammatici possono presentarsi quando un numero crescente di persone vede violato a proprio danno un fondamentale diritto umano. E cioè il diritto ad una ragionevole sicurezza socio-economica. È l’esperienza di chi perde il lavoro senza averne alcuna responsabilità. Chi sia costretto a tale esperienza è colto anzitutto dall’angoscia per l’immediato futuro. Come farò, si chiede, a pagare le rate del mutuo e dell’auto, le cure odontoiatriche per i figli più piccoli, il costo della scuola superiore o dell’università per i più grandi. In secondo luogo la stessa persona si sente vittima di una grave ingiustizia, di un inganno che qualcuno ha ordito alle sue spalle e che improvvisamente si rivela come tale. Quando si colpisce il diritto a una giusta sicurezza socio-economica, sono queste le emozioni che si diffondono come un incendio boschivo sia tra i diretti interessati, sia tra coloro - molto più numerosi - che pensano domani potrebbe toccare a me.

Il punto critico non è quindi se i lavoratori della Innse abbiano esagerato o no nel salire su una gru per impedire lo smantellamento dei macchinari da parte del nuovo proprietario, ovvero se non avrebbero potuto trovare forme di protesta o di contrattazione meno trasgressive. Il punto è se il nostro paese possa ancora permettersi a lungo l’assenza di una politica della sicurezza socio-economica.

Dire che una simile politica non esiste da almeno vent’anni significa in verità dire troppo. Le politiche del lavoro di tale periodo non ignoravano certo la questione.

Semplicemente partivano dall’assunto, rivelatosi poi totalmente sbagliato, che in una economia dinamica, con elevati tassi di sviluppo, la sicurezza sarebbe stata assicurata agevolmente dal gran numero di veloci compensazioni che si svolgono sul mercato del lavoro: chi perda il lavoro il venerdì, si postulava, ne troverà sicuramente un altro il lunedì successivo. La moltiplicazione infinita delle occupazioni flessibili è stata fondata precisamente su tale assunto, che non ha alcuna base nemmeno negli Stati Uniti. Figuriamoci in Italia.

Al presente il problema, se possibile, si è ulteriormente complicato. Non soltanto l’economia crea nuovi posti di lavoro a un ritmo molto basso, ma è possibile che per un lungo periodo ne crei assai meno di quanti se ne stanno perdendo. E per accrescere la sicurezza dei milioni di individui che l’hanno già persa, o che temono di perderla tra breve, non basteranno né la ripresa - posto che questa arrivi nel 2010, o nel 2011, o ancora dopo - né un potenziamento dei cosiddetti ammortizzatori sociali. Sarebbero assolutamente necessarie politiche industriali realmente innovative rispetto ai modelli precedenti, che in altri paesi a partire dagli Stati Uniti, si cominciano a intravedere. Ci vorrebbero inoltre interventi radicali di sostegno al reddito, quale sarebbe ad esempio un reddito di base o reddito di cittadinanza che sia, nonché una redistribuzione del lavoro disponibile che non abbia paura di quello che fu in passato uno slogan - lavorare meno per lavorare tutti - ma che potrebbe rivelarsi come una ricetta indispensabile per il prossimo futuro. Bisognerebbe anche impedire che operazioni apparentemente razionali sotto il profilo industriale come il trasferimento di rami d’azienda, la vendita in blocco di imprese piccole e medie, o la cessione di impianti a terzi, non fossero usati semplicemente per licenziare d’un colpo centinaia di lavoratori senza giusta causa.

Per i lavoratori della Innse una soluzione dovrà essere comunque trovata in tempi rapidi. Senza ignorare che le imprese piccole e medie in difficoltà, da qui all’autunno, sono e saranno parecchie migliaia. Tuttavia a quei lavoratori va riconosciuto in ogni caso il merito di aver attirato l’attenzione, con il loro comportamento estremo, sulla necessità di riprendere a ragionare in merito all’economia e al lavoro come a strumenti che devono essere impiegati primariamente per assicurare al maggior numero di persone il diritto a un livello accettabile di sicurezza socio-economica. Non sarebbe nemmeno una novità.

Per almeno trent’anni, tra gli anni ‘50 e gli anni ‘80, quello che fu definito il compromesso capitale-lavoro funzionò efficacemente proprio nel produrre e diffondere in Europa tale forma essenziale di sicurezza e di diritto.

La solitudine del Prefetto

che volle «sciogliere» Fondi

di C. F.

Un prefetto «abbandonato» nel suo territorio dal suo governo. Altri prefetti che solidarizzano con il collega. Una bella fetta della città - dal Pd all’Idv passando per tutta la sinistra radicale (Sl,Comunisti), la Fondazione antimafia Caponnetto e Murales - che chiede l’intervento del Presidente della Repubblica in quanto «ultimo e unico garante delle istituzioni a cui è possibile rivolgersi». Succede a Fondi,agro pontino,il basso Lazio terra di mare e frutta e verdura. La conca d’oro, una volta,per via di quelle arance succose che prima della guerra prendevano il treno e finivano inGermania. Terra di mafia,oggi, dicono le inchieste della procura antimafia, del prefetto e del ministro dell’Interno. Brutta storia questa di Fondi. E urgente,a cui certo non giovano le ferie estive.

Iatituzioni lasciate sole. Il prefetto «abbandonato» è Bruno Frattasi,il rappresentante del governo nella provincia di Latina che a settembre2008ha chiesto lo scioglimento del comune perché «sono emersi elementi su collegamenti diretti degli amministratori con la criminalità organizzata talida compromettere la libera determinazione degli organi elettivi e il regolare funzionamento dei servizi». La sua richiesta di scioglimento,che significa decadenza di tutte le cariche dal sindaco in giù,è stata ribadita nel febbraio 2009 ministro dell’Interno. In genere,quando il ministro dell’Interno chiede lo scioglimento il Consiglio dei ministri accoglie e dispone nel giro di quindici giorni. Per Fondi la prassi è rivoluzionata. Non solo il comune non è stato ancora sciolto. Ma venerdì scorso il Consiglio dei ministri se n’è uscito con una giravolta tanto inattesa quando ambigua: «La decisione rinviata in attesa che il ministro dell’Interno presenti un’altra relazione alla luce della nuova legge». Nel multiforme pacchetto sicurezza,infatti,quello che introduce il reato di clandestinità e le ronde,c’è anche la revisione della norma antimafia che riguarda gli enti locali.

Uno choc. Il prefetto Frattasi è stato contattato solo dall’ufficio di gabinetto del ministro. Che fare? Boh, non si sa,«bisogna vedere come calare nella realtà il comunicato di palazzo Chigi».Da qui la rivolta. Silenziosa ma decisa quella dei prefetti. tra mille difficoltà si batte per il rispetto della legalità e la tutela dei valori costituzionali» dice il viceprefetto Maria Rosaria Ingenito segretario nazionale di Unadir. Punta al Quirinale quella fetta di città che non ne può più di negozi che «aprono e chiudono»,di speculazioni e abusi edilizi. Per non parlare del Mercato dell’ortofrutta. «Ci rivolgiamo al Presidente – spiega Bruno Fiore, coordinatore del Pd di Fondi – perché non ci resta che il Quirinale. Questo rinvio è una vergogna, un’operazione di smaccato salvataggio politico nonché una forzatura dell’applicazione di una legge dello Stato». Salvataggio del sindaco Luigi Parisella (Pdl) e del plenipotenziario locale il senatore Claudio Fazzone (Pdl). Durissima la Fondazione Caponnetto. «Ormai nell’agro pontino è radicato un sistema criminale mafioso” dicono Elvio Di Cesare e Vincenzo Trani . E questo è un governo che fa antimafia solo a parole ».

Dal MOF all’edilizia

gli affari delle cosche nel comune pontino

di Claudia Fusani

Felice attraversa in bicicletta il cortile del mercato ortofrutticolo di Fondi, anima e motore dell’economia del paese, 400 ettari di depositi di frutta e verdura, 800 milioni di fatturato l’anno che danno da vivere a migliaia di famiglie. Si chiama MOF,è il più grande d’Europa. Da qualche anno, dicono le inchieste della magistratura, «snodo di affari di ‘ndrangheta e camorra». La mafia? «Qui – ragiona Felice - i problemi sono gli scoperti delle ditte,crediti che andiamo a riscuotere anche dopo 120 giorni,se va bene...». E quando non va bene, si deve ricorrere a chi è esperto nel recupero dei crediti. La famiglia Tripodo, ad esempio, un pezzo importante di ‘ndrangheta,contanti subito che significano salvezza ma anche diventare schiavi. La direzione delMof,spa a maggioranza pubblica, presidente Giuseppe La Rocca (Pd),amministratore delegato Vincenzo Addessi,calcola che siano «intorno al 25 per cento del fatturato gli scoperti delle aziende».

Montagne di cocomerie meloni, cataste di pesche gialle e bianche, insalata, pomodori, peperoni giganti,susine e albicocche, bilici di limoni e uva. Le mafie sanno nascondersi anche in questo paradiso di odori e sapori. Soprattutto qua. Ma non solo qua. A leggere la lettera con cui il prefetto Frattasi nel settembre 2008 chiese,ma ancora non ha ottenuto,lo scioglimento del consiglio comunale di questa cittadina dell’agro pontino,vengono i brividi. All’inizio degli anni settanta qui furono mandati al confino una decina di famiglie di ‘ndrangheta e camorra, una mappa che parla da sola: i casalesi a Minturno,i Bardellino a Formia, Tripodo e Galluzzo a Fondi, Ciarelli,Di Silvio e Baldascini a Latina e poi Alvaro e Nitta- Strangio. La serie A della criminalità organizzata. «Appaiono altamente significative – scrive il prefetto - le connessioni,emerse chiaramente tra la famiglia Tripodo e soggetti legati,per via parentale, anche a figure di vertice del comune di Fondi,nonché a titolari di attività commerciali pienamente inserite nel mercato ortofrutticolo». Segnati in rosso sono poi «i rapporti tra Tripodo Antonio Venanzio,fratello di Carmelo,Peppe Franco, titolare di attività ortofrutticola nell’ambito del Mof,Luigi Parisella,sindaco del comune di Fondi e cugino di Peppe Franco».

Tutto questoera stato scritto nell’ottobre 2008. Il 6 luglio l’operazione della Dda Damasco conferma lo schema arrestando17persone: i fratelli Tripodo,l’imprenditore della frutta Peppe Franco,un vero boss al Mof ,e poi il direttore dei Lavori Pubblici Gianfranco Mariorenzi,il direttore delle Attività produttive e del Bilancio Tommasina Biondino, il comandante dei vigili urbani e il suo vice. Insomma,mezza città quella che,secondo l’accusa del gip Cecilia Demma,«si muove intorno al sodalizio costituito dai fratelli Tripodo,dai Peppe e dai Trani e dai loro prestanome». Sodalizio che da almeno due anni «ha in mano gli appalti pubblici,i servizi funebri, le pulizie, l’edilizia». Per Gemma Peppe,invece, la figlia di Franco che cerca di lavorare al box 5 dell’ultimo corridoio del Mof mentre gli uomini di casa sono in cella o latitanti,«sono tutte storie»: «A Fondi ci sono solo ladri di polli».

È più o meno, questa,la stessa posizione del sindaco Luigi Parisella e del suo sponsor politico,il senatore Claudio Fazzone,48 anni, ex poliziotto,autista di Mancino quando era ministro dell’Interno. Una carriera fulminante,la sua: nel Duemila,esordio nelle liste di Fi alle regionali,risulta il più votato d’Italia dopo Berlusconi. Diventa presidente del consiglio regionale, e da allora non l’ha fermato più nessuno.È lui che a novembre sale al Viminale e la pratica Fondi,in qualche modo,si ferma. Uomo potente, Fazzone. Mai un’inchiesta, eppure è ancora avviata presso la procura di Latina quella che riguarda alcuni suoi presunti beneficiati alla Asl di Latina,dai portantini agli infermieri. «Basta con questa storia della mafia a Fondi» ripete il senatore. «Ormai possiamo stare tranquilli» fa eco il sindaco. Certo lo scioglimento sarebbe una tragedia,per lui e per la sua giunta: appalti, urbanizzazioni, oltre cinque mila nuovi alloggi,la nuova Casa comunale e il centro commerciale. Appalti,spiega Bruno Fiore,coordinatore del Pd,«in mano a prestanome».

L’ex assessore ai Lavori Pubblici Riccardo Izzi che ha dato il via alle inchieste ha parlato di «un accordo perchè i clan Tripodo,Zizzo e Bouzan si spartiscano la provincia di Latina». Un sistema criminale, raccontato e svelato. Ma il governo prende tempo.

LE TAPPE DELLA VICENDA

FEBBRAIO 2008

Il prefetto di Latina Bruno Frattasi invia una commissione d’accesso al Comune di Fondi per verificarne probabili infiltrazioni mafiose.

SETTEMBRE 2008

La commissione termina il proprio lavoro. E consegna al ministro dell’Interno Roberto Maroni una relazione in cui chiede lo scioglimento.

OTTOBRE 2008

Il ministro dell’Interno Roberto Maroni insedia una nuova Commissione d’inchiesta che lavora fino al mese di dicembre.

FEBBRAIO 2009

Il ministro dell’Interno,dopo le dovute verifiche della Commissione,chiede lo scioglimento del Consiglio comunale di Fondi.

6 LUGLIO 2009

La Dda arresta diciassette persone tra boss,ex assessori, consiglieri e funzionari comunali del comune del basso Lazio.

24 LUGLIO 2009

In Consiglio dei Ministri delibera lo scioglimento dei comuni di Fabrizia e Vallelunga Pratameno ma non quello di Fondi.

Intervista ad Achille Serra

“Su Fondi il governo ha il dovere di assumere una decisione”

di Jolanda Bufalini

Ecco lo spot di Maroni, dice che i reati sono diminuiti dell’8%. Ma quello che è diminuito è lo spazio nelle Tv. Sulla povera signora Reggiani fu costruita un’intera campagna elettorale. Ora, una violenza carnale scompare subito dai primi titoli dei notiziari».

Senatore Serra, qual è lo stato della sicurezza?

«Facciamo un esame tecnico, non politico: perché dovrebbe essere migliorata la sicurezza? Il “pacchetto” appena pubblicato sulla Gazzetta ufficiale non può aver esplicato i suoi effetti. L’utilizzo sparso dei militari? Le ronde? Non cadiamo nella farsa. Gli sbarchi? Fino alla fine di maggio mai se ne erano verificati tanti. I nomadi? Quando con Veltroni dicevamo che italiani e rumeni non si possono mandare via, che il problema va gestito, ci si scagliarono contro. Non solo non sono riusciti a mandarne via nemmeno uno, ma non hanno governato il problema, con l’allestimento dei nuovi campi come stavamo facendo noi».

Ma i reati sono diminuiti?

«Da anni i reati diminuiscono grazie a un lavoro straordinario delle forze dell’ordine, che però hanno subito un ulteriore fortissimo taglio alle risorse, tanto da unificare sindacati di destra e di sinistra nella contestazione al governo».

Il Consiglio dei ministri ha rinviato la decisione sullo scioglimento del comune di Fondi. Cosa ne pensa?

«C’è una relazione eccellente del prefetto Frattasi, c’è la richiesta del ministro Maroni di scioglimento per infiltrazione mafiosa. Il comportamento del governo è da biasimare, deve pronunciarsi. Da prefetto io ho chiesto lo scioglimento di alcuni comuni, il ministro Amato si prese il tempo necessario ma poi la sua richiesta fu accolta dal consiglio dei ministri».

Il ministro Maroni ha, per due volte, confermato la richiesta.

«Do atto al ministro, che stimo, di aver fatto ciò che doveva. In commissione antimafia abbiamo chiesto gli atti e li abbiamo avuti. C’è stato un intervento della capogruppo Pd Laura Garavini. Il prefetto Frattasi ha fatto un’istruttoria eccellente. Ed se lui dice che c’è un pericolo di mafia non se lo sogna. Il suo lavoro è il terminale di una commissione di cui fanno parte finanzieri, carabinieri, poliziotti, ragionieri. Il ministro ha valutato come corretta la relazione del prefetto. Se il governo ha un parere diverso deve dirlo, ma non può non pronunciarsi. Poi discuteremo. Se c’èun pericolo di mafia quel consiglio comunale va sciolto».

Il prefetto Frattasi è un funzionario dello Stato,potrebbe trovarsi in una situazione esposta...

«Neanche mi sfiora l’idea. Guai se in Italia si arrivasse a questo. Io da prefetto di Roma o di Palermo ho fatto proposte di scioglimento dei comuni. Mai ho pensato a ritorsioni e nessuno Mi ha mai dato adito, ci fossero governi di destra e di sinistra, a pensieri di questo tipo. Veramente sarebbe di estrema di gravità se si verificasse anche solo un sospetto.

Ferrovecchio da rottamare. Sono ferrovecchio tanto i macchinari quanto gli operai. E' difficile trovare una metafora più calzante per la storia della Innse, una fabbrica milanese passata attraverso mille traversie, vendite e svendite dai tempi in cui si chiamava Innocenti, poi Iri, poi Demag, fino all'ultimo passaggio che l'ha portata nelle braccia di un rottamatore. Parliamo di impianti pregiati per la costruzione di macchinari per l'industria e le infrastrutture che potrebbero ancora dare lavoro a una classe operaia altamente specializzata - quella dei simboli del boom italiano: dai mitici tubi Innocenti, alla Lambretta, alla Mini - ma che oggi vogliono buttare in un altoforno con i suoi operai. E contro chi ci lavorava fino a 14 mesi fa e da 14 mesi presidia i cancelli per evitare lo svuotamento della fabbrica, è intervenuta, per la seconda volta, la polizia.

La storia della Innse è dunque la classica storia di distruzione di capitale, industriale e umano. Una distruzione che avviene nell'area più ricca d'Italia, tra le più ricche d'Europa, nell'occhio della più spregiudicata speculazione edilizia e commerciale. L'idelogia postindustrialista che la governa si fonda sulla cancellazione di saperi, di culture, di una memoria collettiva del territorio. Se non servono a far soldi, le professionalità operaie, meglio rottamarle. Eppure servirebbero anche a far soldi. Sì, ma anche se così fosse non risponderebbero al progetto di rottamatori e speculatori, dunque avanti con le cariche poliziesche per spazzar via ogni residuo ostacolo novecentesco. Come se il Duemila potesse vivere seguendo le stesse regole che hanno costruito la più grave crisi finanziaria, economica e sociale dal lontano '29.

Questo giornale ha raccontato e oggi ripropone racconti di questi operai che non si accontentano di un salario ma difendono la loro professionalità e anche la qualità della vita del ricco (e attraente per i capitali speculativi che vogliono l'area libera e vendibile) territorio di Lambrate, in cui la loro fabbrica ha la sfortuna di trovarsi. Pensate, è a loro che si rivolgono i rom della zona per avere un po' d'acqua, e magari anche un piatto di risotto cucinato nella mensa improvvisata dai lavoratori. Ma se in quel cuore europeo del futuro postindustriale sono di troppo gli operai, figuriamoci gli «zingari», e con loro quegli scapigliati dei centri sociali che danno manforte agli uni e agli altri. Bisogna fare pulizia, anche con la polizia se necessario. Non è tempo di solidarietà, è tempo di Lega. E si racconta che il rottamatore abbia avuto l'appalto grazie alle sue frequentazioni con il ministro Castelli.

Lo sciopero di due ore di tutti i metalmeccanici milanesi indetto per oggi, in pieno agosto, dalla Fiom, è qualcosa di più di un momento di solidarietà di classe: è una tappa nella lotta per la difesa di un'identità collettiva, che vive nel territorio e nelle relazioni sociali tra le persone. E per un futuro vivibile per tutti. Settembre e l'autunno, quando l'emergenza sociale sarà il primo punto nell'agenda di una politica, se va bene distratta sennò nociva, non sono alle porte: iniziano oggi, con lo sciopero dei metalmeccanici per difendere il capitale umano e industriale della Innse.

La speranza, si sa, è l'ultima a morire. Se si mischia alla rabbia, alla forza di volontà, alla cocciutaggine di chi non vuole arrendersi alla rassegnazione di vedere scomparire il proprio mondo solo per l'ingordigia di uno speculatore, può diventare una miscela esplosiva. Di quelle che, a forza di insistere, la può avere vinta, anche contro i pronostici negativi che danno la battaglia ormai persa.

Gli operai della Innse Presse sono così, testardi fino all'inverosimile. Sanno di essere nel giusto, di avere ragione. E non mollano, nemmeno davanti ai manganelli della polizia: «Noi non ce ne andremo mai da qui - dicono tutti uniti - Abbiamo passato qui davanti 14 mesi e non è certo questo il momento di andarsene». Non si sono arresi quando il loro padrone, il «signor» Silvano Genta, ha dato loro un benservito collettivo, a fine maggio dello scorso anno. Si sono rimboccati le maniche, hanno autogestito la fabbrica per alcuni mesi. Perché alla Innse, alla faccia della crisi, non è il lavoro che manca. Le commesse ci sono, gli ordini arrivano. Ci sarebbe pure un compratore disposto a rilevare l'azienda. A mettersi di traverso, c'è solo la cupidigia di un padrone che vuole speculare per fare una palata di quattrini sulla pelle dei lavoratori. Ha già venduto i preziosi macchinari della fabbrica, guadagnando un paio di milioni di euro. Se si pensa che nel 2006, grazie alla Prodi-bis, aveva rilevato l'intera azienda con soli 700mila euro...

Ma i lavoratori non vogliono saperne di vedersi portar via sotto il naso i loro strumenti di lavoro. Da mesi, da più di un anno ormai, presidiano la fabbrica, giorno e notte. Con la solidarietà di altri lavoratori, dei cittadini del quartiere, dei sindacati. Ultimamente, almeno a parole, anche delle istituzioni locali. Solo pochi giorni fa il consiglio regionale ha approvato, all'unanimità, un ordine del giorno che parla della Innse come di un «patrimonio consistente» per cui bisogna attuare «tutte le iniziative utili per rilanciare l'azienda e salvarla». Era stato anche assicurato che si sarebbe fatto passare il mese di agosto prima di tornare a fare qualcosa, e invece...

E invece domenica mattina è arrivata una squadra di operai di altre ditte, scortata dalla polizia, per iniziare a smantellare la fabbrica, a smontare pezzo a pezzo i macchinari. I lavoratori della Innse non ci sono stati a questa «presa per il culo», con un tam-tam veloce hanno radunato altra gente, tutti lì, sotto il sole, a protestare. Quando hanno provato ad occupare la vicina tangenziale milanese si sono beccati pure le manganellate delle forze dell'ordine. Una giornata di tensione, fino a sera, quando è arrivata la rassicurazione che il giorno successivo ci sarebbe stato un incontro con il presidente della Regione Roberto Formigoni. Che ieri però se n'è bellamente lavato le mani. I lavoratori della Innse, insieme ai rappresentanti sindacali della Fiom, Giorgio Cremaschi e Maria Sciancati, si sono trovati davanti a dei semplici funzionari. Il governatore, dopo una conferenza stampa su tutt'altro argomento, ha pensato bene di andarsene al mare, lasciando tutti ad aspettarlo. Del resto, già il giorno prima aveva fatto capire che aria tirasse: «La Regione Lombardia ha fatto tutto il possibile, ma non si è arrivati a una conclusione». E ieri ha scaricato le responsabilità di quanto successo sulla magistratura: «Dopo lo sforzo messo in atto dalla sola Regione in questi mesi notiamo che l'intervento delle forze dell'ordine e il sequestro dei macchinari è stato disposto dalla prefettura in ottemperanza a una decisione della magistratura», ha fatto sapere in una nota. Nulla di più, Ponzio Pilato ha immerso le mani nella bacinella dell'acqua ed è scappato al mare.

Intanto però la solidarietà ai lavoratori della Innse si è ampliata. Alcuni parlamentari del Partito democratico hanno presentato un'interpellanza al ministro Maroni per avere spiegazioni sull'uso della forza da parte della polizia domenica. Ieri davanti ai cancelli della Innse, insieme ai lavoratori, c'erano esponenti delle forze di opposizione regionali, provinciali e comunali. E la Fiom al gran completo: la segretaria milanese Maria Sciancati, Giorgio Cremaschi e Gianni Rinaldini. A denunciare la vergogna di uno stato che «con un dispendio altissimo di soldi per il dispiegamento delle forze dell'ordine sta difendendo gli interessi di uno speculatore contro i diritti dei lavoratori».

Oggi tutte le fabbriche metalmeccaniche del milanese scenderanno in sciopero per due ore a sostegno della lotta degli operai della Innse. Che ribadiscono le loro intenzioni: «Non ci fermiamo, noi continueremo a lottare fino alla fine, siamo pronti anche a compiere gesti estremi per difendere il nostro lavoro». Sperano ancora, con rabbia e determinazione, di riuscire a ottenere qualcosa. Il presidio continua, i lavoratori fanno turni davanti alla fabbrica per impedire che si portino via i loro macchinari, quelli su cui si sono costruiti una professionalità nel corso degli anni, riconosciuta a livello europeo. Davanti a una tenacia così, non sarà facile averla vinta, neanche se si utilizzerà ancora la forza bruta.

Non c'era delegazione sindacale all'estero che non venisse confortata nelle sue visite ad impianti industriali del marchio Innse, sovraimpresso sulle grandi presse della Zastava a Kragujevec, della Volkwagen a San Bernardo, alla Krupp nella Ruhr, alla Lunakod a San Pietroburgo. Un segno dell'«eccellenza lombarda» - quella vera - fatta di orgoglio professionale, audacia tecnica, rispetto dell'impresa per il sindacato, garanzia dei diritti conquistati con le lotte.

Altro che l'«eccellenza» propagandata a piene mani da Formigoni, fondata sull'invasione del privato sul pubblico, sull'irresponsabilità dei nuovi padani, sull'ossessivo confronto non con le regioni di Europa in evoluzione, ma con un Sud devastato e ingiuriato per alimentare la cultura arrogante della Gelmini e dei Maroni approdati a Roma. Un sud che poi penetra da noi con le sue mafie e con impressionanti saldature con l'illegalità locale, senza rivolta nemmeno dell'opinione pubblica.

Questo gioiello dell'industria milanese, che ha tuttora ordini e mercato, è rimasto presidiato da oltre un anno, giorno e notte, da tutte le maestranze, unite tra di loro, ma isolate dalla classe dirigente milanese, dalla stessa cultura una volta ben più attenta, dall'umore di una maggioranza rancorosa che invade i territori fino negli strati popolari. Gli operai della Innse sono assediati dagli interessi immobiliari coperti dalla Moratti che non ha speso una sola parola per loro e dai liquidatori del territorio che si preparano per l'Expo 2015. Perciò sono diventati uno scandalo per Milano. Difesi dalle sole forze politiche della sinistra, dai centri sociali e dalla Fiom, segnalavano caparbiamente una potenzialità alternativa del lavoro organizzato, per riportare giustizia e orientare lo sviluppo.

Uno scandalo da rimuovere, ma non a viso aperto, in un pomeriggio della domenica dell'esodo di agosto, a fabbriche chiuse, come ben sa la destra che ha collocato perfino le stragi in quel limbo temporale. Una lezione da dare a consiglio regionale sospeso, dopo la disattenta approvazione all'unanimità di un ordine del giorno a difesa di una classe operaia a cui è stata tolta la voce. In questa vicenda emerge uno dei nodi dell'attuale regime, con tratti fascisti ormai così marcati da indurci a rimuoverli inconsapevolmente, per non precipitare nello sconforto. C'è la complicità di Maroni dietro lo sgombero vile e un clima antioperaio che purtroppo invade la magistratura e consiglia al prefetto di Milano di chiudere la partita con un colpo di mano.

C'è la rivincita dei costruttori, ringalluzziti dall'approvazione del «piano casa» che la giunta lombarda ha esteso ai centri storici. C'è l'incapacità di Formigoni di occuparsi di riconversione e specializzazione produttiva nella regione che ha tuttora 26 milioni di metri quadrati di aree dismesse senza uno straccio di politica industriale. I suoi interessi elettorali e i suoi legami con il mondo economico vanno infatti in tutt'altra direzione: quella della sanità ospedaliera, dell'edilizia, della scuola privata e delle grandi opere, come si può dedurre dalla sua inconsistente finanziaria approvata la settimana scorsa. E c'è quasi da credergli quando sostiene di aver cercato soluzioni per la Innse: ma i Rocca o i Tronchetti Provera a cui potrebbe rivolgersi sono assai più interessati a costruire cliniche private o a procurarsi affari immobiliari, che a rischiare in imprese di qualità!

C'è infine la Lega di Bossi che monopolizza il sentire popolare e che non tollera operai organizzati e con una visione generale e solidale, mentre li vuole impauriti dall'«invasione» extracomunitaria e alleati ai padroncini in una dimensione di privilegio territoriale escludente. Credo che per la sinistra la partita non debba proprio considerarsi chiusa. Anzi, la situazione deve giocarla a fondo. A partire da qui tutta la sinistra potrebbe provare a ricucire un pezzo della propria identità e a mettere un tassello da collegare ai mille altri, non solo per resistere, ma per dare speranza di uscire dalla crisi con la sconfitta di una destra fallimentare che si è impadronita del nostro futuro.

Spaccio, furti, pitbull e un esercito di baby-senti nelle dell’illegalità, bambini in bicicletta pronti a da­re l’allarme. Sei palazzi prigionieri del crimine alla periferia nord di Milano, case popolari senza legge. Cocaina porta a porta. I boss bus sano e passano la droga. Bande di ragazzi vigilano.

In una cantina, sul muro, tra bestemmie e frasi di sesso, hanno tirato una scritta, enorme, che schiaccia e nasconde le al tre: the ghetto of Milan .I pitbull vengono lasciati appesi una notte e un giorno a un albero, per educarli alla rabbia, così diventano più che da guardia cani da assalto, assalto contro i poliziotti.

I bimbi girano su biciclettine nei grandi giardini interni spogliati di alberi, altalene, scivoli; hanno otto e nove anni, fanno le sentinelle per trenta euro a settimana. Quando arriva un estraneo, fischiano. Allora altri bambini vanno su e giù a bussare, due tocchi brevi e uno lungo, oppure tre lunghi e uno breve, è un linguaggio in codice. Bussano agli appartamenti di insospettabili e incensurati — ultimi arrestati un magazziniere e una mamma — ai quali i boss, per quattrocento euro la settimana, ordinano di conservare la cocaina. La coca è acquistata dai narcotrafficanti sudamericani: le analisi della polizia scientifica hanno rilevato una purezza dell’84%. In città, dove 150mila persone pippano in un anno sei tonnellate di roba, la media di purezza è del 40%, con un prezzo al grammo di 70 euro. Alle «case» è di 90, 100. È cocaina altrove tagliata con aspirina, gesso e la velenosa stricnina, e qui invece trattata quasi con delicatezza. È la più buona. Non si tirano mai pacchi. E infatti c’è la coda.

dal cantiere della metropolitana (foto f. bottini)

Le «case» e basta. Le chiamano così. Lo schema (il fantasma?) di Gomorra. I boss garantiscono assistenza legale e sostegno economicoa chi finisce in galera. Sei civici di palazzi popolari dell’Aler, l’Azienda lombarda di edilizia residenziale; palazzi uguali e vicini, al ti nove piani, in mezzo a due stradone della periferia nord, prima che inizino Sesto San Giovanni e l’hinterland.

I civici: 304, 306, 308 e 310 in viale Fulvio Testi; 361 e 365 in via le Sarca. L’Aler ha messo le «case» tra le priorità, manda ispettori, li rimanda; deve fare i conti con il 24% delle famiglie in arretrato da più di un anno con il pagamento dell’affitto. Dei 216 alloggi (36 in mano agli abusivi) la metà sono abitati da stranieri. Ma questa non è una storia di stranieri. Negli anni Settanta i sei condomini furono occupati ancor prima che chiudesse il cantiere. Negli anni Ottanta arrivò la solita soluzione all’italiana, una megasanatoria per tutti, fosse ro pregiudicati e operai (siamo in un’antica terra industriale, nobile e proletaria: la Pirelli, la Breda).

I boss, racconta la polizia, sono itre Porcino, fratelli originari di Melito di Porto Salvo, il Paese più a sud dell’Italia peninsulare, e due famiglie di nomadi italiani, i Braidic e gli Hudorovich. Gli investiga tori associano questi ultimi ai furti di motorini e auto (agguantati nei parcheggi dei vicini centri commerciali, trasportati nelle cantine delle «case», spezzettati e venduti), mentre sui primi la voce è una soltanto: cocaina. Per comprare la droga l’accesso è su viale Fulvio Testi, da un parcheggio che costeggiala cancellata e separa da un hotel quattro stelle.

C’è un’inchiesta della Direzione antimafia. Cocaina partita dalle «case» e consegnata agli emissari della ’ndrangheta in Calabria. Con tatti dei padrini anche durante le partite allo stadio Meazza di Inter e Milan contro la Reggina, la squadra di Reggio Calabria. La Reggina, nel campionato appena finito, è retrocessa.

La presenza del Comune è una telecamera che fa tenerezza e fa ridere. Sporge da un muro, ha funzionato per qualche minuto; tempo di installarla, e i giovani si arrampicarono e la girarono verso lo stesso muro. Poi, certo, diranno che ci sarà il nuovo metrò. A dieci metri, su viale Fulvio Testi, sta sor gendo una delle stazioni della linea 5.

Il questore Vincenzo Indolfi considera questo posto una ferita, anzi, dice, «un tumore». Ha dato mandato al commissariato di Greco-Turro, guidato da Manfredi Fa va, di martellare le «case». Fava ha una squadra di gente da strada, che salta amori e riposi. I risultati ci sono, anche se certe amministrazioni gradirebbero altre operazioni, magari più in centro. Ogni due settimane, comunque, c’è un arresto. Faticoso: i residenti non collaborano, non denunciano. Sotto­missione. Terrore. L’abitudine che non prevede scatti, di rabbia o indignazione. La routine di un’esistenza in ciabatte e canottiera.

Per Max Weber, una delle funzioni essenziali e imprescindibili dello Stato è il "monopolio della violenza legittima". Per Hobbes, senza questo monopolio, la vita umana è solitaria, povera, cattiva e brutale. Cosa si nasconde dietro l’ideologia anti unitaria

Nel corso degli ultimi decenni ha preso corpo un’ideologia anti-unitaria costruita su due identificazioni pregiudiziali: dell’unità dello Stato con lo statalismo e della Nazione con il nazionalismo. Unità dello Stato e unità della Nazione sono diventati il bersaglio polemico di movimenti e partiti che sono riusciti a siglare un’alleanza egemonica tra l’ideologia dell’anti-stato sociale e l’ideologia localistica. Il cemento di questa alleanza è stato trovato nell’idea di "libertà da": libertà dallo Stato e libertà dalle responsabilità verso l’unità larga in nome di unità strette. Con la prima libertà si é inteso restringere il ruolo dello Stato per dare più potere non semplicemente al mercato, ma ai privati, alle associazioni e alle comunità. Con la seconda libertà si é inteso deprimere il valore del soggetto macro-collettivo (la nazione) per esaltare soggetti micro-collettivi (dalle regioni ai borghi). Esempi recentissimi di questi due processi devolutivi di autorità da entità impersonali e anonime a entità personali e quasi domestiche sono l’istituzione delle ronde e la proposta sulla cultura locale. In entrambi i casi, la rivolta contro il principio unitario è stata presentata come estensione della libertà dell’individuo. Le cose sono però più complicate e ambigue.

La partecipazione della società civile alla gestione della sicurezza può andare nella direzione contraria a quella rivendicata dai difensori delle ronde, proprio perché mette a repentaglio le basi dello Stato togliendogli una delle sue funzioni essenziali e imprescindibili - per usare le parole di Weber, «il monopolio della violenza legittima». Nel Leviatano, Hobbes scrive che senza questo monopolio, la vita umana è solitaria, povera, cattiva, brutale e corta perché non c’è agio per occuparsi di arti, commerci e ricerca; lo stato di natura come guerra di tutti contro tutti è l’incubo per neutralizzare il quale è sorto lo Stato moderno. Le ronde incrinano questo principio classico con il rischio di alimentare discordia tra i cittadini perché devolgono alla società un potere che, per essere accettato da tutti indistintamente, deve essere esercitato con burocratica imparzialità da "persone" giuridiche non da "individui" privati: i poliziotti e i carabinieri sono la faccia dello Stato; ma i volontari che fanno le ronde sono l’espressione diretta della società civile, dei suoi giudizi parziali e partigiani. Il paradosso di questa politica è che rende lo Stato più debole.

Veniamo ora al secondo caso, quello relativo all’incrinatura dell’unità della Nazione. La proposta di radicare insegnanti e insegnamenti delle scuole dell’obbligo nella tradizione locale di storie e dialetti intende rivedere al ribasso il ruolo della storia e della lingua nazionale, contestando alla radice che la nazione sia il soggetto politico dello Stato. Della nazione sono state date diverse rappresentazioni. Molto schematicamente, la costruzione di quella che Benedict Anderson ha chiamato "comunità immaginata" é avvenuta con la Rivoluzione francese su due direttrici ideologiche: una giuridico-politica e una etnico-culturale. La prima è quella che la nostra Costituzione designa come la sorgente della sovranità. La seconda è stata l’oggetto di interpretazioni molto controverse. Ma due cose sembrano sfuggire a chi magnifica il locale: prima di tutto che la Nazione come sorgente di sovranità è costitutiva degli stati democratici, anche di quelli federali; infine, che il nazionalismo non è un difetto solo della nazione: l’esaltazione delle piccole patrie per la loro presunta purezza originaria non è al fondo che una versione di nazionalismo, spesso più esclusiva e illiberale proprio perché il suo raggio d’azione è più refrattario al pluralismo. Sembra dunque che anziché negare il principio di unità l’ideologia anti-unitaria lo ricollochi: dal generale al particolare.

ROMA - «Ricordo perfettamente», dice Carlo Azeglio Ciampi, presidente della Repubblica nel settennato precedente a quello di Giorgio Napolitano.

«Ricordo quei giorni del ‘93. Ero da poco stato eletto presidente del Consiglio in un momento non facile. C´era un clima molto teso dopo le bombe di Firenze, Milano, Roma. Quando presi la parola sul palco per ricordare la bomba alla stazione di Bologna di oltre un decennio prima cominciò la contestazione».

Fischi, grida, che cos´altro?

«Ostilità varie, diffuse. Che però si placarono quasi subito. E partì un applauso non a me ma all´istituzione che rappresentavo: la presidenza del Consiglio».

Ieri però a Bologna il clima era ben diverso. Spazientito dal rito delle celebrazioni, dalla passerella delle autorità che sfilano davanti alla tv. Un´insofferenza che ricordava i cupi funerali all´indomani della strage, poche bare sul sagrato di san Petronio, Pertini che appoggia il braccio su quello del sindaco Zangheri, i fischi in piazza per Craxi e Cossiga. Stesso clima?

«No, qualcosa è cambiato. La gente che protesta chiede la verità su una vicenda che tanto dolore ha provocato. Io capisco quel desiderio di conoscere la verità»

Per quella strage tra gli altri è stato condannato in tribunale a Bologna un alto funzionario dello Stato imputato di depistaggio delle indagini. Lo Stato depistava lo Stato? Ma allora hanno ragione quelli che hanno parlato, per la lunga tragedia italiana che ha insanguinato parte del dopoguerra, di "guerra civile a bassa intensità"?

«Non sono in grado di entrare nei particolari delle indagini. Quella cerimonia è capitata in un periodo davvero speciale. Ricordo l´entusiasmo del ‘93 per l´accordo sul costo del lavoro. Poi la lunga serie di attentati in nottata. Ero a Santa Severa, rientrai con urgenza a Roma, di notte. Accadevano strane cose. Io parlavo al telefono con un mio collaboratore a Roma e cadeva la linea. Poi trovarono a Palazzo Chigi il mio apparecchio manomesso, mancava una piastra. Al largo dalla mia casa di Santa Severa, a pochi chilometri da Roma incrociavano strane imbarcazioni. Mi fu detto che erano mafiosi allarmati dalla legge che istituiva per loro il carcere duro. Chissà, forse lo volevano morbido, il carcere».

C´era uno strano clima in quei giorni, strane voci, timori diffusi...

«E forse anche qualcosa di più. Alle otto di mattina del giorno dopo il ministro dell´Interno Nicola Mancino e io riferivamo in Parlamento. Poco dopo ci fu l´anniversario della strage di Bologna. Una celebrazione sotto la canicola. Quando cominciai a parlare la piazza iniziò a rumoreggiare. Poi ci fu l´applauso per gli scomparsi. Più tardi incontrai i familiari delle vittime».

Avvertiva anche lei l´ombra di qualcosa, di qualcuno nei palazzi del potere che remava contro l´Italia?

«Certo anch´io mi chiedo come mai la grande, lunga complessa inchiesta della commissione parlamentare sulla loggia P2 guidata da Tina Anselmi a Palazzo San Macuto abbia avuto così poco seguito. Ricordo quei giorni, ricordo che l´onorevole Anselmi era davvero sconvolta. Mi chiamò alla Banca d´Italia (ero ancora governatore) e mi disse "lei non sa quel che sta venendo a galla". Lei, la Anselmi, il suo dovere lo compì. Non credo però che molti uomini della comunicazione siano andati a fondo a leggere quelle carte. Il procuratore Vigna sapeva quel che faceva».

In quasi trent´anni ancora non si sa nulla dei mandanti. Né si sospetta nulla?

«La violenza purtroppo era ed è diffusa in Europa. Penso alla Spagna, alla Grecia. Anche adesso la violenza continua a manifestarsi, talvolta si prendono gli esecutori, quasi mai i mandanti nell´ombra. Penso all´indagine dei giudici Vigna e Chelazzi (purtroppo scomparso) nel ‘93-´94: avevano trovato gli esecutori, ma non i mandanti. Ricordo però che di mezzo c´era spesso la mafia che si batteva per modificare la legge sul carcere duro».

Che cosa le è rimasto di quei giorni, a distanza di tanto tempo?

«E´ una materia vissuta molto dolorosamente e con grande partecipazione, mentre resta forte il desiderio di conoscere tutta la verità. In quelle settimane davvero si temeva anche un colpo di Stato. I treni non funzionavano, i telefoni erano spesso scollegati. Lo ammetto: io temetti il peggio dopo tre o quattro ore a Palazzo Chigi col telefono isolato. Di quelle giornate, quel che ricordo ancora molto bene furono i sospetti diffusi di collegamento con la P2».

I più giovani non possono neanche immaginare quali e quanti rigurgiti del passato, in questi giorni, affollino la mente dei meno giovani. Il mio pacco di giornali, ieri, era un florilegio di amarcord. La copertina dell’Espresso sulla nuova cementificazione del Paese rimandava diritti alle antiche gloriose campagne di Antonio Cederna, e alla vecchia fetida speculazione edilizia contro la quale registi oramai vegliardi, giornalisti defunti, intellettuali in pensione spesero (inutilmente) le loro animose giovinezze. Come idea di sviluppo e perfino come scandalo, la cementificazione ha la stessa freschezza, la stessa fantasia, la stessa modernità di un faldone di Pretura di cinquant’anni fa.

Poi c’è la Cassa del Mezzogiorno, tornata per davvero, con il misero Tremonti baciato dai questuanti di oggi che hanno in tasca gli stessi pacchetti di voti, le stesse clientele, la stessa desolante furbizia politica di mezzo secolo fa. E consumano gli stessi ricatti, accontentati dagli stessi complici (settentrionali) di oggi. Come in un remake degli anni del dopoguerra e del boom, ma senza quell’euforia, quella spinta sociale. Solo un gran puzzo di muffa. E l’incredulità: ancora lì, siamo? Ancora quelli, siamo?

Non bisogna farsi ingannare, e soprattutto tranquillizzare, dalla sostanziale stabilità della diffusione della povertà nel nostro paese anche in un anno, il 2008, segnato nella sua seconda parte dalla crisi economica. É vero che a livello nazionale la diffusione della povertà relativa ormai da quattro anni si attesta attorno all’11,3% delle famiglie (2 milioni e 737 mila circa) e il 13,6% della popolazione (circa 8 milioni e 78 mila individui). Ed è rimasta stabile, al 4,9%, anche l’incidenza di quella assoluta. Ma vecchi divari si sono ampliati e specifici gruppi hanno aumentato la propria vulnerabilità.

In primo luogo, nonostante situazioni di peggioramento emergano anche nel Centro e soprattutto al Nord, il divario tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno è aumentato e complessivamente l’incidenza della povertà in queste regioni, già molto più elevata che nelle altre, è ulteriormente aumentata. Significativamente tale aumento si riscontra sia se si utilizza la linea della povertà relativa, uguale per tutto il paese, sia che si utilizzi quella della povertà assoluta, che viceversa, a parità di beni considerati necessari, tiene conto, oltre che della numerosità della famiglia, anche del diverso costo della vita nelle varie aree del paese. In particolare, la diffusione della povertà assoluta nel Mezzogiorno è passata dal 5,8% delle famiglie nel 2007 al 7,9% nel 2008, a fronte di una media nazionale del 4,9% (3,2% nel Nord, 2,9% nel Centro).

In secondo luogo è aumentata l’incidenza della povertà, sia relativa che assoluta, tra le famiglie numerose, in particolare quelle con due o più figli, specie se minori. Ciò, tra l’altro, significa che la povertà tra i minori è aumentata più che tra gli adulti. Un fenomeno per nulla contrastato, nel nostro paese, da misure quali assegni per i figli di tipo universalistico e non riservate solo alle famiglie di lavoratori dipendenti a basso reddito. Tanto meno da una social card di valore irrisorio e destinata solo ai bambini sotto i tre anni. Il fenomeno della povertà minorile nel nostro paese è grave ed ha caratteri di persistenza, quindi effetti di lunga durata sulle chances di vita, maggiori che per gli adulti. È stato da tempo segnalato dai vari rapporti della Commissione di indagine sulla esclusione sociale. Anche i Rapporti dell’Unicef sulla condizione dei minori nei paesi sviluppati indicano che l’Italia è collocata, insieme agli Stati Uniti e all’Inghilterra, tra i paesi in cui la percentuale di minori in condizioni di disagio economico è più serio. Ma i diversi governi che si sono succeduti, a differenza, ad esempio, di quello inglese, non lo hanno mai considerato una priorità da affrontare con misure non occasionali e puramente simboliche. Anche il Libro bianco sul futuro del modello sociale non fa pressoché menzione.

In terzo luogo, l’incidenza della povertà sia relativa che assoluta è aumentata nelle famiglie in cui gli adulti sono a bassa istruzione e in quelle in cui sono in cerca di lavoro. Sia avere una bassa qualifica che perdere il lavoro, in altri termini, ha presentato nel 2008 un rischio più elevato di caduta in povertà che in passato. La cosa non sorprende, perché i lavoratori a bassa qualifica hanno sia meno riserve che minori possibilità di ricollocarsi, specie in un periodo di diminuzione della domanda di lavoro. E sappiamo che molti di coloro che hanno perso il lavoro non hanno diritto a nessuna forma di protezione del reddito, stante il nostro sistema frammentato e pieno di trappole. Il fatto è che il numero di coloro che hanno perso il lavoro è nel frattempo aumentato ed è destinato ad aumentare ancora, senza che si sia messo mano ad un sistema di protezione più adeguato. Anzi, per certi versi si sono accentuati i difetti dell’esistente: discrezionalità, categorialità, criteri di esclusione sorprendenti e così via.

Al Mose due miliardi, al Comune nemmeno un centesimo. Un fiume di denaro arriva ogni anno in laguna, ma Ca’ Farsetti è all’emergenza. Costretta a chiudere i cantieri e a cercare soldi dai privati. Un paradosso che riapre una questione antica.

Chi comanda davvero a Venezia? «Non più il sindaco, ridotto a soprammobile», ha dichiarato ieri al Corriere l’economista Francesco Giavazzi, «comanda chi riceve i finanziamenti, cioè in primo luogo il Consorzio Venezia Nuova. E il Comune non controlla più niente». Il sindaco Cacciari lo ha detto più volte: «Sono un sindaco a sovranità limitata, ci sono aree del mio territorio dove io non ho alcuna giurisdizione». «Un problema reale», dice il senatore Felice Casson (Pd), «è il monopolio del Consorzio. C’è stato anche un recente intervento della Corte dei Conti sulla gestione dei fondi in contrasto con la normativa europea e nazionale. E l’ente pubblico non controlla più niente».

«Il vero nodo», conferma Roberto D’Agostino, ex assessore e presidente di Arsenale spa, «è che qui spesso comandano poteri autocratici e non revocabili che non sono soggetti al controllo democratico dei cittadini». E’ proprio così?

Venezia Nuova. Il pool di imprese che dal 1984 si occupa in concessione unica della salvaguardia della laguna è diventato ben più di un concessionario privato. Ha ricevuto negli ultimi anni oltre 3 miliardi di euro per il progetto Mose, più altri fondi per ricerche e interventi di disinquinamento. Il presidente è l’ingegnere Giovanni Mazzacurati, il socio di maggioranza - subentrato a Impregilo - la Mantovani di Padova.

Mantovani. Non c’è appalto o project financing nel Veneto in cui la Mantovani non sia presente. La grande azienda di proprietà della famiglia Chiarotto e presieduta da Piergiorgio Baita - già presidente del Consorzio Venezia Disinquinamento ai tempi di Carlo Bernini - lavora oltre che per il Mose per la costruzione di strade e autostrade, del Passante, del depuratore di Fusina, per le rive e gli scavi in laguna, interventi per il porto e l’aeroporto.

Save. Altro «punto franco» del territorio veneziano, che gode di entrate proprie e competenze autonome è la Save, società ormai privatizzata che gestisce l’aeroporto Marco Polo. Presidente è Enrico Marchi, finanziere di Conegliano vicinissimo a Giancarlo Galan. Il bilancio 2008 ha toccato i 327 milioni di euro (la metà dell’intero Comune) ma l’utile ha raggiunto i 50 milioni di euro nel 2007, 14 nel 2008. Adesso Save ha in programma investimenti da miliardi di euro per il nuovo Quadrante di Tessera.

Porto. Anche l’area portuale è in qualche modo sottrattata alla competenza del Comune. In zona portuale comanda l’Autorità, e ai vertici dello scalo Galan e Berlusconi hanno voluto un anno fa l’ex sindaco del Pd Paolo Costa. Anche sulle acque portuali (canale della Giudecca, bacino San Marco) il Comune non può intervenire, la competenza è della Capitaneria di porto e in laguna del Magistrato alle Acque.

Sanità. Altro settore di competenza regionale dove Ca’ Farsetti quasi sempre deve stare a guardare. Nuovi ospedali e strutture sanitarie sono stati costruiti con il sistema del project financing e i privati che investono e poi fanno pagare i servizi. Anche qui un ruolo di primo piano è stato svolto dalla Mantovani, insieme a Studio Altieri e Gemmo, la società vicentina del presidente di Veneto Sviluppo - la Finanziaria regionale - Irene Gemmo.

La Regione. In tutte le grandi operazioni e investimenti (Mose, ospedali, strade, depuratori, cultura) la Regione svolge un ruolo di primo piano. Condizionando l’attività del Comune anche dal punto di vista urbanistico, visto che controlla la commissione di Salvaguardia e che tutti i Piani devono essere approvati da palazzo Balbi.

Arsenale. L’Arsenale e altre aree strategiche sono ancora in mano ai militari. L’Arsenale Novissimo è stato affidato per 30 anni al Consorzio Venezia Nuova.

È il governo meno amico del paesaggio, dell’ambiente, dei beni culturali che vi sia mai stato, e quindi amicissimo della rimozione di vincoli e controlli. Berlusconi, vecchio immobiliarista, ha messo ai Beni Culturali e al paesaggio un suo adoratore, Sandro Bondi, quale “commissario liquidatore”: del Ministero e ancor più delle Soprintendenze. Queste, pretendendo il rispetto dei vincoli paesaggistici (poi vi sono quelli idrogeologici, ambientali e sismici) infastidiscono fortemente quanti - si veda a Roma Franco Caltagirone per i vincoli sull’Agro - riuniscono in sé proprietà fondiaria, attività di costruzione e vendita di immobili. Il Codice per il paesaggio Rutelli/Settis restituiva ai soprintendenti un parere vincolante “a monte” dei progetti edilizi ed imponeva la co-pianificazione paesaggistica Stato-Regioni? Messo in frigo e rinviato, mentre Tremonti massacrava i fondi alle Soprintendenze e i costruttori il paesaggio. Dopo la dura intervista di Giulia Maria Crespi (FAI) e una critica presa di posizione di Vasco Errani (Commissione Stato-Regioni), Bondi ha assicurato: «Agli inizi del 2010». Chi può credergli? Intanto nell’ultimo mezzo secolo – secondo la Società Geografica Italiana – il cemento ha totalmente occupato una superficie agraria, o libera, pari a Lazio e Umbria messe insieme. A cui aggiungere però le mille e mille devastanti occupazioni parziali. Inoltre il Piano casa berlusconiano spinge Regioni come la Lombardia a proporre l’edificazione pure nei parchi regionali (Milano Sud) e magari nei centri storici. In barba a vincoli e controlli tecnico-scientifici. E a Milano (così Stefano Boeri) ci sono già uffici vuoti per 900.000 mc, pari a 30 grattacieli.

Poi c’è l’ambiente. Per il nucleare il parere del Ministero dell’Ambiente poteva risultare di qualche impaccio. Pertanto il governo ha deciso di cancellarlo nel decreto anti-crisi di cui tanto si parla. Il ministro Prestigiacomo ha protestato. Per ora, invano. Del resto, assieme al premier, si era prodigato per ritardare e ridurre la severità degli impegni sui gas serra, rassegnandosi soltanto davanti alla risolutezza di Obama. Con le modifiche al decreto annunciate al Senato, l’Ambiente verrà riabilitato? Peraltro la Prestigiacomo sta obbedendo al comando di “velocizzare” al massimo le valutazioni d’impatto ambientale sulle infrastrutture avendo cambiato tutti i commissari della VIA.

Il che significa: controlli generici e quindi poco penetranti. Mentre nel Piano casa nazionale – altro decreto – non vengono seriamente considerati i vincoli antisismici. Fino alla prossima tragedia di un Paese, di uno Stato dissolto.

Questo autunno si presenta assai difficile, forse fatale, per Berlusconi.I segni non mancano. La storia delle escort è stata ripresa e rilanciata con forza dalla stampa internazionale, cioè da chi ha potere sulla stampa internazionale. Il Cavaliere (forse con la sola eccezione di Putin) è diventato persona con la quale è meglio non andare a prendere l'aperitivo insieme. Ma anche all'interno del suo regno le cose non vanno meglio: i feudatari minacciano. Bossi quando chiede il ritiro dall'Afghanistan, non pensa tanto all'Afghanistan, ma al mercato interno, e a cosa può ottenere di più per la Lega. E su questa rivendicazione (magari con la collaborazione di Tremonti) costringerà il Cavaliere a scendere più volte da cavallo.

Fatte queste brevi premesse la minaccia più grave gli viene dal Mezzogiorno: la storica «questione meridionale» è una valanga che potrà travolgerlo. E non è un caso che la stampa italiana di questi giorni, a cominciare dal Sole 24 Ore dia grande spazio all'argomento. E vale segnalare anche il ritorno in campo di Geronimo, al secolo Cirino Pomicino.Con la crisi, e il venir meno di denaro usato come tranquillante, la questione meridionale è riemersa con tutta la sua forza. La pubblicazione del Rapporto Svimez e l'intervento del suo presidente Nino Novacco, le iniziative per un partito del Sud e soprattutto i non voto da parte dei parlamentari siciliani del Mpa, cioè di Lombardo presidente dell'Ars, annunciano «scosse» molto più gravi di quelle con le quali si diletta D'Alema.

Non bisogna dimenticare che nella storia della nostra repubblica una scossa in Sicilia di solito ha provocato un terremoto in Italia. I precedenti storici non mancano, e non si tratta solo di Milazzo. La Sicilia, a modo suo, è una nazione, a suo tempo aveva addirittura rivendicato l'indipendenza dall'Italia. Sempre a proposito del peso della minaccia siciliana vale notare che mai il presidente del Consiglio era stato così tempestivo nel promettere un piano di intervento. Alla quale promessa non si è risposto con un conveniente «grazie», ma con l'affermazione di essere stanchi di promesse.

Insomma tra Nord e Sud il Cavaliere questo autunno avrà i suoi guai. Le due parti che contestano la condotta politica di Berlusconi con tutti i loro limiti e difetti rappresentano entrambi forze reali, nel bene e nel male, ma pesanti. La Lega è l'unico vero partito che esista oggi in Italia, con il suo insediamento territoriale, con la sua base popolare (il consenso elettorale è in crescita) anche con la sua ideologia razzista.

Il Sud con tutti i terribili difetti della maggioranza dei suoi politici, con tutte le mafie, camorre e 'ndranghete che arricchiscono le cronache criminali, ma che sono un prodotto di quelli che nella storia sono stati i vari conquistatori, compresa l'ultima «conquista regia», è una forza. Il Sud è una forza e un problema nazionale. La un po' dimenticata «Questione meridionale» di quel tal Gramsci non era uno studio antropologico regionale. Oggi la questione riesplode in una fase di crisi economica nuova e globale e non sarà facile addomesticarla con qualche riedizione della Cassa del Mezzogiorno.

E, torno a Berlusconi, con un partito come il Pdl che è tenuto unito solo dal prestigio e dalla forza del capo. Se il capo perde colpi ognuno diventa capo di se stesso: dal partito delle libertà a tutti in libertà.

Una simpatica testimonianza del meridionalismo dei berluscones del Sud è raccontata nell'articolo di Gervasi e nel commento di Palermo sul Campo di golf più a sud d'Italia

È curioso che nessuno dei meridionali che stanno al governo, da La Russa alla Prestigiacomo, reagisca agli insulti leghisti. In tanto straparlare di Partito del sud, fra tanti caldi strafalcioni «a favore dello sviluppo autogeno del Meridione», non c’è infatti ministro o parlamentare della maggioranza che osi rispondere alla tracotanza di questi loro colleghi padani.

i quali, dal canto loro, non perdono occasione per mostrare il dito medio ai professori del Sud. Eppure erano meridionali gli insegnanti che hanno formato la Prestigiacomo in un liceo di Siracusa e Fitto in un liceo di Bari, e La Russa a Paternò. Ed erano meridionali anche i (cattivi) professori che hanno formato i leghisti di Milano, di Torino, di Vicenza…. Si sa che, in base all’anagrafe, tutta la scuola italiana è meridionale. Ebbene, si può continuare a sopportare questo repertorio infinito contro il Sud, contro la scuola, contro la decenza? Il leghismo, lo abbiamo detto mille volte, è la tracimazione rancorosa di tutti i più vieti luoghi comuni del suburbio. Perciò davvero importa poco che la proposta della Lega di imporre ai professori italiani un esame di dialetto non abbia alcuna possibilità di essere accolta. Non è insomma significativo che si tratti di un altro - l’ennesimo - starnuto alla Totò: un tentativo di starnuto, una smorfia implosa, un altro botto razzista che «tanto, non ci sarà», «è solo folclore», «è linguaggio pittoresco» …La volgarità gratuita dei leghisti sta sapientemente avvelenando l’Italia.

Sappiamo infatti per esperienza che a nulla serve rispondere che le intelligenze non sono come gli agrumi e il granturco, e non hanno radici territoriali. Ed è inutile immaginare cosa diventerebbe l’Italia se un professore milanese non potesse insegnare a Venezia e soprattutto se davvero i professori meridionali dovessero lasciare le cattedre del Nord perché non conoscono il meneghino, il vicentino, il torinese.

Ai leghisti non interessa la discussione sulle loro corbellerie. Ci provano e basta. E ci riprovano ogni volta che possono, con l’idea fissa che il professore terrone va cacciato dal Nord, una volta perché è - disse la Gelmini - «dequalificato», un’altra perché «non conosce la matematica» e ora perché «non parla il dialetto della regione dove insegna». Come si sa, la difesa del dialetto veneto e lombardo è all’origine della Lega. Bossi rivelò che «l’idea di mandare a casa i terroni fu il fondamento del nostro movimento». Poi lo chiamarono «smantellamento dei privilegi verso i meridionali nei concorsi pubblici». Ora sono arrivati al test di dialetto per gli insegnanti. La Lega, che col tempo è diventata sempre meno strampalata e sempre più concretamente razzista (contro gli immigrati), ha comunque conservato l’antimeridionalismo come idea di fondo. Perciò è miserabile, ridicolo e penoso che non si ribellino i ministri sudisti. Perché mai - facciamo un esempio - non difende il Sud l’aggraziata ministra Prestigiacomo, imprenditrice meridionale che mai ha trafficato con gli appalti? Ecco, vorremmo dire a questi «ostaggi incaprettati» nel centrodestra brianzolo che rischiano di fornire alimento alla Lega quando immaginano una riedizione del partito della spesa, della Cassa del Mezzogiorno, un partito del Sud. Ed è invece uno squallore, del quale prima o poi dovranno rispondere ai loro elettori, questo silenzio assenso, divertito e neppure imbarazzato, ogni volta che gli uomini di Bossi cercano di mettere l’anello al naso ai meridionali.

Forza dunque La Russa, forza Fitto…: non vi invitiamo a ricordare ai vostri colleghi padani l’inguaribile cretinismo pellagroso che il medico milanese Andrea Verga (c’è il suo busto in bronzo in via Festa del Perdono) denunziò nei mangiatori di mais. Non vi invitiamo insomma al facile conflitto nord sud. Ma solo a un barlume di dignità. In nome di quegli insegnanti che forse inutilmente vi spiegarono che il Sud non è il turgore della commedia di Micciché e di Lombardo. Ecco il dramma italiano: mentre il governo della Lega avvelena l’Italia, i governanti del Sud rischiano, con ignominia, di legittimare la Lega.

Cominciamo a non chiamarli più "piromani". La piromania è una mania incendiaria, un impulso irrefrenabile di dare fuoco alle cose. E come il cleptomane non è un ladro, così il piromane non è automaticamente un delinquente. Meglio, allora, chiamarli incendiari, terroristi, criminali delle fiamme.

Dalla Sardegna fino alla Puglia, alla Calabria e alla Sicilia, l’offensiva del fuoco che assedia ancora una volta il Belpaese - con il favore del caldo torrido e del vento forte - non è né una calamità naturale né tantomeno un evento imprevedibile. Qui si tratta precisamente di dolo, di incendi dolosi, innescati puntualmente da una volontà efferata di distruzione e di speculazione, spesso nelle stesse regioni o addirittura nelle stesse località. Quello che abbiamo di fronte è un esercito clandestino di malviventi; una "mafia occulta" che va combattuta con le armi della legge, della prevenzione e della repressione.

La prevenzione, innanzitutto. Cioè il controllo del territorio, la sorveglianza da parte delle forze dell’ordine, del Corpo forestale dello Stato, della Protezione civile. Magari con l’ausilio di tutti gli strumenti – elettronici e telematici – che la moderna tecnologia mette a disposizione. E purtroppo, su questo primo punto, si deve lamentare un’evidente carenza dell’apparato pubblico, una mancanza di efficacia e di tempestività: sia nell’attività preventiva di vigilanza e di controllo sia in quella d’intervento per circoscrivere e spegnere i roghi.

Poi, la repressione. Non solo, ovviamente, quella di carattere giudiziario che spetta alla magistratura penale e agli organi di polizia, per perseguire il reato di incendio boschivo introdotto nel 2000, sotto il governo Amato, da un decreto-legge dell’allora ministro dell’Agricoltura, Alfonso Pecoraro Scanio. Ma anche quella di ordine amministrativo che deve sanzionare i responsabili sul piano più economico e materiale. Vale a dire risarcimento dei danni, sequestro dei conti correnti, confisca dei beni.

E infine, bisogna rendere più rigoroso ed effettivo il blocco delle aree colpite, in modo da impedire qualsiasi iniziativa edilizia per i successivi dieci, quindici o vent’anni, sulla base del catasto degli incendi che molti Comuni non hanno mai realizzato. Così si può sperare di stroncare la speculazione che prima distrugge i boschi, gli alberi, le piante; poi semina il cemento delle lottizzazioni e delle villette sui terreni arsi dal fuoco.

Soltanto in Sardegna, secondo i primi calcoli degli amministratori locali, al momento i danni ammontano a ottanta milioni di euro. Ma quanto valgono in realtà quindicimila ettari di macchia mediterranea, per la collettività locale e nazionale? Quali sono le conseguenze sull’ecosistema, cioè sull’ambiente, sull’atmosfera, sull’aria che respiriamo? E quanto tempo occorrerà per rimboscare, per ripristinare l’habitat naturale, per tentare di ricostituire un patrimonio di per sé irriproducibile?

C’è, evidentemente, un modello inaccettabile di consumo del territorio all’origine di tutti questi incendi estivi. Una programmazione perversa che, in forza della speculazione e del profitto, tende a privatizzare un bene pubblico inalienabile – come l’ambiente e il paesaggio – che invece appartiene a tutti i cittadini. Il fuoco, appiccato dalla manovalanza criminale, è lo strumento di un’operazione finanziaria che fa capo – come denuncia l’ex governatore sardo, Renato Soru – alla "lobby dei cementificatori".

È l’intero Paese a rimetterci, non solo le regioni più direttamente colpite: anche in termini di sicurezza, di immagine, di attrattiva turistica. E in particolare, il nostro povero Sud, già penalizzato da una politica governativa che tende ad aggravare il deficit strutturale, ad aumentare le distanze, a deprimere ulteriormente l’economia meridionale. Ecco perché questa ennesima emergenza estiva diventa, con tutte le sue implicazioni e connivenze, la metafora di un’Italia spaccata in due, dal caldo e dalle fiamme, dall’incuria e dalla criminalità.

A due anni dalla commemorazione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, le polemiche sono già incominciate. A denunciare il silenzio del governo su questa ricorrenza sono stati alcuni membri del Comitato per le celebrazioni, e il suo presidente, Carlo Azeglio Ciampi, ha minacciato addirittura di dimettersi. Sul Corriere del 20 luglio, Ernesto Galli della Loggia ha fustigato una classe politica che ha dell’Italia «un’immagine a brandelli, di fatto inesistente», suscitando reazioni molteplici. In verità, si tratta di controversie gravide di significati, a dimostrare – se ancora ve ne fosse bisogno – che come ha detto Giuseppe Galasso, l’Italia è una nazione difficile. Non può dunque sorprendere che le celebrazioni per la ricorrenza della sua formazione appaiano alquanto problematiche.

Nel 1911 gli organizzatori del cinquantenario dell’Unità vollero dimostrare agli italiani, ma anche all’Europa e al resto del mondo, che l’Italia era davvero unita, e si presentava oramai come un grande Paese in pieno sviluppo, con dichiarate ambizioni internazionali. L’anno 1911 segnò una tappa nell’affermazione dell’Unità nazionale intorno alla monarchia, ma registrò al tempo stesso l’affermazione crescente del nazionalismo italiano.

Il centesimo anniversario della Repubblica fu celebrato fin dal 1959, con manifestazioni ripartite su tre anni, per commemorare la seconda guerra d’indipendenza del 1859, la spedizione dei Mille del 1860 e la proclamazione del Regno d’Italia del 1861. Le iniziative di maggior rilievo ebbero luogo in quest’ultimo anno, in particolare con l’Esposizione internazionale «Italia ‘61», concepita per onorare i padri della Patria e celebrare i successi di un Paese in pieno miracolo economico, il cui tenore di vita progrediva rapidamente, suscitando un indubitabile ottimismo. Ma le iniziative ufficiali venivano recepite solo limitatamente, tranne nei casi in cui si associavano a comme- morazioni della prima guerra mondiale e della Resistenza. Pur non ignorando la nazione, la Repubblica nata nel segno dell’antifascismo stenta a rivendicarla e a darne una definizione precisa, dopo l’uso che ne avevano fatto Mussolini e il suo partito. Inoltre, la costruzione europea è considerata come una priorità. Perciò il 1961 non dà luogo ad eccessi, né in un senso né nell’altro. Poiché si rivela sinonimo di miglioramento delle condizioni di vita, la Nazione è ben vista dagli italiani, ma non riveste un significato politico di grande rilievo. Così, una volta passata la data dell’anniversario, si torna a una forma di indifferenza nei riguardi della nazione, sempre più confinata alla sua dimensione di patrimonio culturale.

Qual è ora il contesto in cui si prepara il 150° anniversario dell’unità d’Italia? Da quasi due decenni questo Paese è scosso da un duplice processo, complementare e antagonistico. Da un lato si ripropongono gli interrogativi sul significato da dare a ciò che l’Italia rappresenta come nazione, mentre dall’altro si sta facendo strada una domanda proteiforme di nazione. Gli interrogativi nascono peraltro da fenomeni che interessano molti Paesi europei. Innanzitutto, la crescente europeizzazione, e la conseguente rinuncia a interi settori della sovranità nazionale. In secondo luogo, la globalizzazione dell’economia, dei rapporti sociali, della cultura e della vita quotidiana, che restringe gli spazi possibili della nazione. Infine, la reazione a questi due elementi porta ad accentuare la ricerca identitaria nell’ambito della prossimità: un fenomeno che spiega le crescenti rivendicazioni locali e regionali quasi ovunque in Europa. In Italia, la questione della nazione è inoltre acutizzata da due fattori specifici: l’ascesa della Lega Nord, che almeno in un primo tempo proclamava una volontà secessionista, provocando reazioni diametralmente opposte di difesa dell’integrità della Penisola; e lo shock migratorio, dovuto all’arrivo massiccio e pressoché improvviso di popolazioni straniere, con tutto il coacervo di problemi che ne derivano. Tutto ciò ha rilanciato un gran numero di interrogativi, in buona parte anche tradizionali. Su cosa si fonda la nazione? Su un passato comune, su valori comuni? E in questo caso quali: della Costituzione, della Chiesa, o altri ancora da ripensare? Un modo di essere? Un insieme di prassi identificabili? Si sono organizzati numerosi colloqui e trasmissioni radiofoniche o televisive, e sono usciti vari libri – ad esempio «Se cessiamo di essere una nazione» di Gian Enrico Rusconi (1993), o «La morte della Patria» di Galli della Loggia (1996) – che hanno suscitato a volte vivaci dibattiti.

D’altra parte, in Italia sta progressivamente emergendo una domanda di nazione, tanto maggiore quanto più aumenta la distanza dall’esperienza storica del fascismo. La modernizzazione accelerata del dopoguerra ha accentuato l’unificazione già intrapresa – in senso sia geografico che materiale, linguistico e culturale – della penisola. Dagli Anni ‘90 in poi, l’Italia non esiste più solo in occasione delle partite di calcio giocate dagli Azzurri. L’identità nazionale si traduce in una sensibilità a fior di pelle nei riguardi degli altri, delle emozioni collettive condivise, e nella coscienza di un «noi» italiano. A quanto emerge dai sondaggi, è in aumento anche la fierezza dell’italianità, identificata innanzitutto con l’«arte di arrangiarsi». E c’è un fatto nuovo, che non si registrava dal 1945: la politica tenta di rispondere a quest’aspirazione. È con chiara intenzione simbolica che Silvio Berlusconi crea Forza Italia, e Gianfranco Fini lancia Alleanza Nazionale. Su un registro diverso, il Presidente Ciampi riafferma con le parole e con gli atti le virtù politiche e civiche della nazione italiana. Ma tutto questo sembra scontrarsi con certi limiti. Come ha dimostrato Ilvo Diamanti (su Repubblica del 26 luglio) si sta nuovamente rafforzando la diffidenza tra italiani del Nord e del Sud.

La commemorazione del 2011 fa dunque sorgere un interrogativo: l’Italia è in grado di proporre una narrativa comune, la rivendicazione di un passato a un tempo unitario e plurale, contrassegnato da invarianti, ma anche da lacerazioni? Un vivere insieme nel presente, non ripiegato su se stesso ma aperto e capace di integrare, in vista del progetto di un futuro comune? Se non saprà cogliere questa ricorrenza del 2011, l’Italia perderà un’occasione per costruire una nazione non illusoriamente nostalgica, ma adeguata al nostro tempo, capace di arricchire l’Europa e il mondo della sua storia e della sua cultura, certo, ma anche dei suoi valori.

«L´Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà». Questa profezia mazziniana rischia di avverarsi nel senso peggiore. L´ultimo rapporto Svimez dà l´allarme: non solo non si è ridotto il divario tra Nord e Sud, ma è apparso quello tra l´Italia nel suo insieme e gli altri grandi paesi europei.

Il peggio è che, mentre non è diminuito il divario, si è ridotta, fin quasi a scomparire, l´attenzione politica verso la questione meridionale. Essa era stata individuata, non come un problema territoriale, ma come la questione critica dell´unità nazionale. Oggi è praticamene uscita dall´agenda politica e sostituita da una questione settentrionale che punta piuttosto alle divergenze che all´unità.

Il dualismo italiano era stato denunciato dai grandi meridionalisti come il più grave fallimento dell´impresa risorgimentale. L´annessione del Mezzogiorno al resto del paese si era verificata non come liberazione ma come occupazione. Non come rivoluzione nazionale e sociale, ma come conquista regia. E ciò era apparso in tutta la sua tragica evidenza durante quella che fu definita guerra del brigantaggio e che fu in effetti una guerra di repressione vinta dalla monarchia contro il Mezzogiorno e soprattutto contro il suo mondo contadino.

Alla fine dell´ultima guerra la Repubblica aveva finalmente adottato una grande politica meridionalistica, impostata tutta su un intervento economico straordinario e mirante alla riduzione del divario attraverso la costruzione nel Sud delle infrastrutture necessarie allo sviluppo e alla promozione di investimenti industriali, privati e pubblici. La prima parte del programma fu un grande successo: la Cassa del Mezzogiorno realizzò imponenti programmi di bonifica, di irrigazione, di articolazione di una vasta rete di trasporti e di comunicazioni. La seconda è stata sostanzialmente un fallimento.

La ragione essenziale - lo dico in modo consapevolmente provocatorio - sta nell´affidamento della gestione delle ingenti risorse destinate a questo scopo a una classe politica regionale complessivamente incapace: clientelare, incompetente e peggio. Dico complessivamente perché, come afferma Luciano Cafagna, accanto a grands commis moderni e moralmente adamantini, si contano «baroni ladri, banditi di passo e pirati della Malesia». Di qui «le oscure commistioni fra politica, clientelismo, affarismo, criminalità mafiosa cui, involontariamente ma spaziosamente, si apriva un eccezionale varco tecnico, allargatosi con gli anni via via che la democrazia si faceva partitocrazia e l´amministrazione diventava un giro d´affari». Di qui i due grandi problemi attuali del Mezzogiorno: la rivolta del Nord contro i trasferimenti al Sud e la deriva criminale mafiosa del Sud. Quanto alla prima, cito ancora Cafagna: «Non si può accettare che il foraggio destinato all´allevamento di cavalli di razza venga versato direttamente, invece, a ratti, zoccole e pantegane che si mangeranno poi anche i cavalli». Quanto alla seconda, la degradazione dell´amministrazione pubblica consegna vaste parti del territorio all´amministrazione privata criminale delle mafie. Questo è il tremendo rischio che il Mezzogiorno sta correndo.

Dunque, il problema del divario non dipende dall´insufficienza delle risorse trasferite al Mezzogiorno, ma dall´inefficienza (9 miliardi di euro destinati al Sud sono stati trasferiti dai fondi europei ad altre destinazioni per incapacità di utilizzazione) e dalla corruttela (vedi il crescente numero delle amministrazioni locali "sospese").

La "regionalizzazione" del Mezzogiorno non ha democratizzato la gestione delle risorse affidate alla classe politica. Diversamente dal Nord, le regioni meridionali non possono contare su salde tradizioni storiche di autonomia che costituiscano la base della loro educazione politica; mentre ha fatto perdere il senso unitario del problema.

La proposta che oggi si affaccia, di un partito del Sud, avrebbe, se emendata da disegni opportunistici, un suo comprensibile fondamento politico nella necessità di riproporre la questione meridionale come grande problema nazionale, elevandone il livello: di formare una vera e nuova classe dirigente meridionale affrancata dai condizionamenti clientelari locali e capace di esprimere la domanda politica del Mezzogiorno.

Non si tratta però soltanto di un "partito" del Sud. Si tratta di riprendere l´antica battaglia dei meridionalisti federalisti, come Guido Dorso e Gaetano Salvemini, per un governo autonomo del Mezzogiorno nell´ambito di un regime nazionale autenticamente federalista: che intenda cioè il federalismo come grande patto nazionale unitario e non come redistribuzione del carico fiscale.

Compito fondamentale di quel Governo dovrebbe essere di concentrare i mille rivoli nei quali si disperdono i trasferimenti al Sud in un solo grande piano di risanamento urbano: il solo strumento capace di riconquistare alla vita civile e democratica i territori caduti sotto il controllo delle mafie

È possibile che dietro gli incendi che in questi giorni hanno bruciato mezza Sardegna ci sia un piano criminale preordinato? E se questo piano c'è, quali sono gli obiettivi che si prefigge? E possibile, cioè, che le fiamme siano state appiccate non solo da piromani, ma anche da incendiari mossi da fini differenti dalla patologica mania per la distruzione portata dal fuoco? Domande giustificate dalla denuncia del comandante del corpo forestale sardo, secondo cui la maggior parte dei roghi che hanno devastato la Sardegna sono dolosi, e dalla conseguente apertura di un'inchiesta da parte della procura della Repubblica di Sassari.

Per rispondere senza cadere in generalizzazioni che non servono a capire che cosa sta accadendo bisogna praticare l'arte paziente della distinzione.Almeno l'ottanta per cento dei roghi si sono accesi nei territori di comuni come Pozzomaggiore, Berchideddu, Magomadas, Ittireddu, Nughedu, Nulvi, Banari, Cargeghe. Li ha mai uditi qualcuno, fuori dalla Sardegna, questi nomi? No. Perché sono il paese d'ombre che nessuno vede, di cui nessuno sa. Sono il territorio vastissimo dei pastori transumanti, protagonisti di un'economia che è quasi di sussistenza, sulla quale, però, continuano a reggersi le zone interne dell'isola, quelle lontane da Porto Cervo, da Villasimius, da Alghero, da Pula, da Stintino, lontane dalle coste delle vacanze più o meno dorate che turisti dal portafogli più o meno capiente prendono d'assalto in queste settimane. Qui pensare che dietro gli incendi ci siano speculatori edilizi e cementificatori francamente fa un po' ridere. Sono da sempre flagellate dalle fiamme queste zone di pascoli a perdita d'occhio. Ma per altri motivi. Per l'antica usanza pastorale di bonificare i terreni con il fuoco, che a volte sfugge di mano; e perché in un'economia poverissima il controllo di un palmo in più di terra, di un ettaro in più di pastura per le pecore può essere vitale. Si spara, in questo paese d'ombre, per i pascoli, si uccide. Anche con gli incendi. Non è una fatalità. E' l'effetto di un ordine economico e sociale. Si può intervenire sull'effetto con un controllo del territorio efficiente, che spetta al corpo forestale controllato dalla giunta regionale e che in queste settimane non c'è stato. Ma su quell'effetto si potrebbe intervenire toccando anche le cause. Problema che nessuno, oggi, si mette più.

Poi c'è il venti per cento di incendi scoppiati vicino alle coste: Arzachena, Loiri, Budoni. In questo caso il sospetto che dietro le fiamme ci siano i cementificatori è giustificato. Il fuoco per chiedere agli amministratori comunali e regionali mani libere per costruire non solo sulle coste ma nelle immediate vicinanze. Il sospetto però si scontra contro una contraddizione logica. Gli amministratori di Arzachena, infatti, dove il centro destra supera il 60 per cento dei consensi elettorali, non hanno alcun bisogno di essere «convinti» con il fuoco. Per loro che si debba costruire il più possibile è un impegno programmatico. Ugo Cappellacci, poi, su quell'impegno ci ha pure vinto le ultime regionali. Appena eletto il leader Pdl ha detto che tra i primi obiettivi della sua giunta ci sarebbe stato lo smantellamento del sistema di tutela del paesaggio messo in piedi da Renato Soru. Cosa che sinora non ha potuto fare preso dall'emergenza economica sarda che è devastante. Ma che si appresta a fare proprio per contrastare, dirà nei prossimi mesi, la crisi attraverso la ripresa dell'edilizia e il rilancio del turismo. E allora? Forse è meglio lasciare l'ultima parola al procuratore della Repubblica di Sassari.

Sono molti, anzi moltissimi gli italiani che di fronte allo scandalo Berlusconi (non saprei chiamarlo altrimenti) rispondono: «A noi non importano i suoi vizi, privati o pubblici che siano; a noi importa che governi bene nell´interesse del paese e dei cittadini».

Si può non essere d´accordo su questo modo di ragionare che reputa la coerenza morale come un "optional" al quale un personaggio pubblico può sottrarsi.

Ma adattiamoci a questa diffusa indifferenza morale e seguiamo pure quel modo di ragionare: sta governando bene? Poniamoci solo questa domanda e cerchiamo di rispondervi con fatti e cifre.

Il governo ha varato un nuovo decreto legge per contenere la crisi e ha presentato il bilancio di un anno e mezzo di attività. Possediamo dunque tutti i dati per rispondere e non sono dati controversi perché è lo stesso governo a fornirceli.

Il deficit è arrivato al 5,2 ed è molto probabile che salga ancora. In parte questo pessimo risultato è dovuto a cause internazionali ma in altra parte è dovuto a cause esclusivamente interne e cioè all´andamento della spesa pubblica e delle entrate.

La spesa è aumentata in un anno del 4,9 per cento. In cifre assolute si tratta di 35 miliardi di euro. Stiamo parlando di spesa corrente della Pubblica amministrazione. Come è stato possibile uno sfondamento di queste dimensioni che equivale ad una pesantissima manovra finanziaria?Voglio citare il commento che di questo sfondamento sorprendente ha fatto Romano Prodi in un articolo pubblicato sul "Messaggero" di mercoledì scorso: «Questo dato mette in evidenza una non prevista espansione della spesa ordinaria della pubblica amministrazione di fronte ad una preoccupante caduta degli investimenti. Tutto questo in presenza di una diminuzione del peso degli interessi sul debito pubblico per effetto della caduta dei tassi sui mercati internazionali. Davvero viene da pensare che qualche "fannullone" si sia dimenticato di esercitare il proprio compito di contenere la spesa corrente e indirizzarla invece verso gli investimenti necessari per sostenere lo sviluppo futuro del paese».

Io capisco che il nostro premier non voglia rispondere sulle veline, sulle "escort" e sul processo Mills. Ma qui stiamo ponendo a lui e al suo ministro dell´Economia una domanda di tutt´altra natura: che ne avete fatto di quei 35 miliardi di maggiori spese in un anno di vacche magrissime?

In teoria ci potreste rispondere che quei miliardi li avete usati per "stimolare" l´economia. Invece no, neppure quello avete fatto. I denari freschi per stimolare o sostenere l´economia ammontano in tutto e per tutto in 3 miliardi, pari allo 0,2 per cento del prodotto nazionale lordo in confronto con il 3 per cento che è la media dei paesi Ocse. Dieci [sic – ndr] volte meno di tutti gli altri.

Allora ripeto: che cosa ne avete fatto di quei 35 miliardi?

Altre domande non meno stringenti potrebbero esser fatte. Per esempio sul piano-casa che prevede centomila alloggi per famiglie con basso reddito. I progetti saranno certificati da un professionista di fiducia del committente. Sono veramente necessarie queste case, con le quali il territorio sarà definitivamente devastato mentre esiste una quantità di case sfitte per le quali non c´è domanda di mercato?

Un altro esempio riguarda la messa sotto schiaffo (nel decreto approvato venerdì dalla Camera) della Corte dei conti che il governo sta riducendo a un simulacro manomettendo i suoi poteri di controllo sulla pubblica amministrazione.

Chi è il "fannullone operoso" che stravolge dall´interno il sistema delle garanzie dilapidando risorse al punto che bisognerebbe segnalarlo al ministro Brunetta per le opportune sanzioni?

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Può darsi che i molti che se ne infischiano delle veline, delle "escort" e del processo Mills se ne freghino anche della dilapidazione delle pubbliche risorse se non sono loro ad esserne toccati e anzi se per caso ne sono addirittura beneficiati. La comunità nazionale affonda ma i molti che appartengono alla vasta cerchia clientelare ne godono. Il rampante Tarantini è solo uno dei tanti e fa il nababbo tra la sua fattoria pugliese e la villa di Porto Cervo in prossimità di Villa Certosa. Non saranno certo lui e i tanti come lui a preoccuparsi del "fannullone" che sperpera a Roma.

Però non c´è solo questo, il catalogo è lungo. Adesso faremo parlare Mario Draghi, governatore "pro tempore" della Banca d´Italia fino a quando i "fannulloni" non lo sbatteranno fuori perché sta diventando troppo ingombrante.

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Parlando mercoledì scorso davanti alle competenti commissioni parlamentari il governatore ha sollevato un tema del quale finora sono in pochi ad essersi accorti nell´ambito delle istituzioni e quei pochi si sono ben guardati di renderlo oggetto di pubblico dibattito: l´usura nelle sue più varie forme, la penetrazione della mafia, della camorra e della ‘ndrangheta nel tessuto imprenditoriale, specialmente nel settore delle aziende medio-piccole e piccole che hanno poca capacità di resistere alla crisi.

Draghi ha lanciato un allarme rosso su questo fenomeno che sta penetrando massicciamente nel tessuto produttivo non solo sotto forma di racket o di prestiti usurari, ma anche di acquisto di aziende che non sono più in grado di sostenersi e che vengono utilizzate dalla criminalità come preziose stazioni di riciclaggio per capitali accumulati con il commercio della droga, gli appalti di favore e l´usura vera e propria.

Interrogato sull´efficacia dei controlli per impedire l´estendersi del fenomeno, il governatore ha detto a chiare lettere che i controlli esistenti sono assai poco efficaci e andrebbero rapidamente revisionati.

Interrogato anche sullo scudo fiscale (che verrà istituito con il decreto in corso di approvazione parlamentare) e sui suoi probabili effetti negativi sul riciclaggio di capitali, il governatore, molto prudente nel pronunciarsi su una legge in corso di approvazione, ha tuttavia manifestato un aperto scetticismo sui controlli che lo scudo prevede per impedire il riciclaggio di capitali mafiosi. Ha osservato che in altri paesi che hanno fatto ricorso in questi mesi a provvedimenti analoghi non è stato concesso l´anonimato a chi decide di far rientrare capitali, non sono state abbonate le tasse evase ed è stata prevista una rigorosa certificazione sull´origine dei predetti capitali. Nulla di simile è contenuto nella normativa predisposta nel decreto, sicché il rischio che capitali di origine criminale rientrino in Italia beneficiando per di più della robusta sanatoria che il decreto prevede, è ampiamente incombente.

All´allarme di Draghi si sono associate le parti sociali e in particolare la Confindustria, i commercianti, gli artigiani e l´associazione bancaria Abi. Ma le questioni sollevate dal governatore non si limitavano all´usura e al riciclaggio. Riguardavano anche le norme previste nel decreto sulle banche. Si è infatti scoperto che alcuni articoli della legge imponevano alle banche misure molto pesanti che rischiavano di incepparne seriamente il funzionamento. Il governo (i soliti "fannulloni") non se ne erano evidentemente resi conto, ma sotto le energiche proteste dell´Abi e della stessa Confindustria, ha deciso di annullare quelle disposizioni rinviando di 48 ore il voto di fiducia.

Intanto si è saputo che le "sofferenze" bancarie, cioè i crediti che i debitori non sono più in grado di restituire, sono aumentate in questi mesi del 125 per cento rispetto al periodo precedente e tutto fa prevedere che continueranno ad aumentare con ritmi ancor più intensi. La conseguenza inevitabile è una valutazione ancor più rigorosa del merito del credito, specie nel settore delle imprese medio-piccole, le più bisognose di sostegno.

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Parole che direi definitive sono state dette in proposito dall´amministratore delegato di Banca Intesa, Corrado Passera, nell´intervista pubblicata venerdì sul nostro giornale. La fonte è insospettabile per oggettività politica e prudenza di giudizi: Passera è il banchiere che ha voluto e finanziato la nuova Alitalia, così come aveva voluto e finanziato la nuova Telecom senza più il controllo di Tronchetti Provera. Ed è quello stesso banchiere che ha già stipulato con Confindustria il finanziamento delle Pmi con una linea di credito complessiva di 500 miliardi di euro. Ed ecco il suo giudizio sulla situazione e su ciò che ci aspetta a partire dal prossimo settembre.

«Oggi produzione, fatturato interno, export e investimenti sono tutti in drammatico calo. Ciò che è stato fatto finora è nella direzione corretta, ma affinché queste misure abbiano effetto ci vuole molto di più di fronte ad una recessione di tale gravità. L´Italia ha ritardi infrastrutturali gravissimi. L´efficienza del sistema-paese è il nostro vincolo più grave e poi lo scarso dinamismo della società che viene da fattori che ci vedono in fondo a tutte le classifiche mondiali: mobilità, meritocrazia, capacità decisionale. Qui c´è il nostro problema maggiore che logora non solo l´economia ma anche la democrazia».

Più prudente ma più chiaro e più sincero di così...!

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La Lega punta sul federalismo ed ha la capacità politica di imporlo a Berlusconi. La Lega è in grado di ricattare politicamente Berlusconi così come una qualunque "escort" è e sarà in grado di fare su tutt´altro piano. Tra i due tipi di ricatto, così diversi tra loro, c´è tuttavia un nesso evidente che dimostra appunto la ricattabilità del premier.

Le conseguenze sul piano della governabilità sono sotto gli occhi di tutti. I dati e i giudizi sopra riportati sono anch´essi sotto gli occhi di tutti e c´è anche sotto gli occhi di tutti la necessità di quello che Corrado Passera ha chiamato uno «shock positivo», cioè un´immediata politica di rilancio che contenga la gravissima recessione che non sta affatto alle nostre spalle ma davanti a noi.

Se lo shock positivo non ci sarà - e non c´è alcun segno che possa arrivare in tempo utile - avremo uno shock negativo che un paese economicamente prostrato e politicamente imbambolito non è in grado di fronteggiare.

Il premier e i suoi sodali del partito guidato dall´avvocato Ghedini non sembrano rendersene conto e daranno priorità ad una dissennata riforma della giustizia che provocherà una traumatica torsione istituzionale. La Lega dal canto suo vorrà portare a casa quanto più potrà di federalismo e di barriere anti-immigrazione e soprattutto anti-integrazione.

Sono due mine vaganti ad altissimo contenuto esplosivo e questo spiega le preoccupazioni del presidente della Repubblica e nell´ambito del centrodestra del presidente della Camera, Gianfranco Fini.

Occorrerebbe arrestare qui ed ora questa deriva. Non è un complotto politico né un catastrofismo perverso e infondato, ma una lucida visione dei fatti. L´esito è nelle mani degli italiani se sapranno essere all´altezza del compito.

Le scelte che vengono fatte senza la cultura della centralità dell’agricoltura, sono quelle di sottrarre terra fertile e boschi alla produzione di cibo, di aria e di paesaggi e sostenere le speculazioni, come quella che mette in atto la decisione di centomila nuove case o la costruzione di centrali nucleari o la perforazione selvaggia dell’Abruzzo e del Molise per la ricerca di petrolio.

Una nave che naviga senza bussola nell’oceano in tempesta.

Quando diciamo che è la carenza culturale che porta a sbagliare tattiche e strategie e ad accusare una crisi economica, che dovrebbe far capire che siamo giunti alla fine di un percorso e che necessita trovare nuove tattiche e nuove strategie per programmare un nuovo sviluppo, questa nostra verità viene confermata dai fatti.

Infatti, la notizia dell’approvazione, da parte dell’attuale Governo, di un piano che prevede finanziamenti per 100 mila case, con Presidente del Consiglio e Ministri che si vantano di questa loro scelta e con l’opposizione che non coglie il nocciolo della questione, dimostra che la cementificazione programmata o abusiva del territorio, comunque selvaggia, non è un problema per la politica, né per la classe dirigente di questo Paese.

Come non è un problema la sottrazione di una fetta grande di terreno agricolo che questa cementificazione comporta, con la conseguenza che il futuro di questo Paese prevede meno cibo, che saremo costretti ad importare; meno vigneti, meno grano, meno ortaggi, meno frutta e meno oliveti, con una perdita secca dell’ esportazione e di immagine del nostro agroalimentare; meno strutture di trasformazione, meno indotto e meno occupati, ma, anche, meno paesaggio e meno ambiente, ciò che vuol dire anche meno turismo. Meno di tante cose vitali ed essenziali per l’immagine e l’economia del nostro Paese che non preoccupa nessuno, visto che all’applauso di chi ha fatto questa scelta ha risposto il silenzio di chi la subisce o non ha avuto modo di parteciparvi.

Una nuova colata di cemento che toglie ad ognuno di noi il respiro e il gusto della nostra identità.

Quella identità espressa dai campi di grano per la rinomata pasta e la famosa pizza; oliveti per il ricco patrimonio di biodiversità e di oli, che nessun altro paese al mondo può vantare; vigne per i nostri straordinari vini, molti dei quali impeccabili testimoni di territori noti in tutto il mondo; prati e pascoli per i nostri allevamenti di animali che danno formaggi e latticini impareggiabili, salumi unici, carni saporite; orti, familiari o a pieno campo, per le nostre verdure e i nostri pomodori che caratterizzano e rendono varia e speciale tanti piatti della nostra cucina; risaie per i nostri risotti, che continuano a caratterizzare i profumi ed i sapori di luoghi e di Regioni, e orgoglio dei veneti e dei milanesi; il tempo che passa lento da una botticella ad un'altra per rendere l’aceto unto di sapori, balsamico, ricco di sospiri, al pari di un vin santo o di un passito e così i frutteti, i nostri boschi e sottoboschi. Noi, la nostra storia, la nostra cultura, la nostra fantasia e la nostra creatività.

La carenza culturale che ha portato ad escludere l’agricoltura dalle strategie di sviluppo, avviate dopo gli anni ’50, e a rendere questo settore destinatario di risorse che, invece di arricchirlo l’andavano ad impoverirlo, fino ad arrivare alla crisi strutturale in atto, che rischia di spopolare le nostre campagne in modo da renderle, così, libere per le grandi speculazioni e per i nuovi insediamenti che parlano di centrali nucleari, estrazioni di petrolio, depositi di scorie e di ecoballe, grandi digestori

Un paese di rifiuti e di fumi al posto dei profumi delle nostre campagne e dei nostri boschi, che danno ragione a chi ha bisogno di terra per speculare..

C’è chi, invece di entrare nel merito delle questioni oggetto di queste nostre riflessioni, pensa di risolvere la crisi azzerando i chilometri; illudendo i consumatori con l’origine, senza dare ad esso le garanzie della qualità e delle peculiarità organolettiche per appagare la salute e il gusto; mettendosi in contrapposizione con altre categorie, invece di dare ad esse il diritto di svolgere la propria attività e di rafforzare la filiera con il confronto ed il dialogo.

Iniziative che non portano da nessuna parte, ma solo a illudere i produttori ed a far perdere tempo ai coltivatori ed al Paese che, oggi più che mai, hanno bisogno che venga affermata la centralità della nostra agricoltura se si vuole ribaltare una cultura e un modello di sviluppo, che è fallito perché divora le uniche risorse vere che ha, il territorio con la sua storia e la sua cultura, i suoi paesaggi e le sue tradizioni e, soprattutto, con la sua agricoltura e la ruralità. Le prospettive sono quelle di portare a nuovi fallimenti in un arco di tempo più breve del passato.

Avere la consapevolezza di queste risorse e dei valori che esse esprimono, ponendo al centro l’agricoltura, è il solo modo per riprendere il filo del discorso che interessi speculativi e di mercato hanno spezzato.

In questo senso, la necessità di case da dare ai giovani e a quanti la casa non ce l’hanno, avrebbe dovuto portare ad un altro ragionamento: destinare tutte le risorse, oggi messe a disposizione per la costruzione di centomila case, tutte per recuperare le case abbandonate dei piccoli centri in modo da rianimarli e renderli soggetti di quella qualità della vita che i futuri casermoni annullano provocando e diffondendo disagio e criminalità.

Bloccando, così, un processo che porta ad allargare e soffocare le grandi città ed a fare morire la storia e la cultura che i nostri piccoli centri esprimono.

Riportare l’agricoltura al centro del ragionamento e della programmazione economica, politica e sociale, è una necessità, quindi, che non si può più rinviare.

La Repubblica

QUELLE PAGELLE DA RIVEDERE

di Nadia Urbinati

Nel World university rankings 2008, il nostro sistema universitario piazzava soltanto 7 atenei e per giunta nei posti bassi della classifica: il primo ateneo italiano menzionato era quello di Bologna e si trovava al 192° posto.

Altre sei università (Roma-La Sapienza, il Politecnico di Milano, gli atenei di Padova, Pisa e Firenze e l’università Federico II di Napoli) erano tra le prime 400. Si tratta senza dubbio di una inequivocabile bocciatura, resa nota per giunta proprio mentre la Gelmini (era il mese di febbraio) si apprestava a mettere a punto la strategia dei tagli agli "sprechi". Il ministero ha compilato pagelle e dato voti. In palio ci sono i soldi: più a chi ha passato l’esame dei requisiti decisi dal ministero, meno agli altri. Tra i requisiti ovvero gli incentivi ci sono vari fattori, tra i quali la capacità degli atenei di usufruire delle risorse europee e nazionali per la ricerca o di aver sfornato più laureati. Ma due criteri di giudizio su tutti spiccano: la qualità della ricerca e la qualità della didattica. Nel primo caso pare si sia tenuto conto delle valutazioni della conferenza dei rettori sulla qualità della ricerca in base a parametri internazionali, del numero dei ricercatori e dei docenti che hanno partecipato a progetti di ricerca italiani valutati positivamente e della capacità delle università di intercettare finanziamenti europei per la ricerca. Nel secondo caso, la qualità della didattica è stata valutata in base "alla percentuale dei laureati che trovano lavoro a tre anni dal conseguimento della laurea, alla capacità degli atenei di limitare il ricorso a contratti e docenti esterni evitando il proliferare di corsi ed insegnamenti non necessari e affidati a personale non di ruolo".

Per dare una valutazione complessiva di questa distribuzione proporzionale delle risorse pubbliche agli atenei pubblici occorrerà tempo. Un altro tema che occorrerebbe poter valutare è chi seleziona i "giudici" che stilano pagelle e come i criteri vengono applicati. Ho avuto modo di partecipare a una commissione di valutazione di un ateneo americano e posso dire che si tratta di un lavoro complesso che ha portato via un intero anno accademico. La ministra ha messo in piedi la sua pagella in pochissimo tempo benché con molta propaganda. È sperabile che i suoi tagli e le sue pagelle abbiano considerato il fatto che nell’Unione Europea, l’Italia si colloca alle ultime posizioni per numero di giovani laureati; che molte delle nostre biblioteche universitarie versano in condizioni pietose; che molti atenei sono costretti ad accorpare dipartimenti con l’esito prevedibile che mentre il ministero risparmia, gli studenti e la ricerca ci perdono. La logica da "economia domestica" che ha caratterizzato fin dall’inizio questo ministero rende obbligata la diffidenza nei confronti di strategie punitive che sembra tendano a fare dell’accademia italiana quello che è stato fatto con le Ferrovie dello Stato: l’Alta Velocità come specchio per le allodole per far dimenticare o non far vedere in quali condizioni disastrate e disastrose versa la maggioranza dei treni, con grandissimi disagi per la stragrande maggioranza degli italiani.

il manifesto

UNIVERSITÀ AFFONDATA

di Alba Sasso

Le misure sull'Università adottate dal consiglio dei Ministri cercano di presentarsi come un momento di innovazione e di svolta, ma sono schiave della logica della legge 133, il famigerato decreto Tremonti contro il quale si sviluppò il movimento dell'Onda. A fare da sfondo il pesante ridimensionamento del fondo di funzionamento ordinario. Un miliardo e mezzo di euro in meno in tre anni che creano nei bilanci delle Università un buco da paura.

E questo mentre in altri paesi europei investire nell'istruzione e nella ricerca sta diventando in questo momento una scelta per arginare la crisi.

L'Italia, così, rimane l'ultima dei 18 paesi Ocse sia per quote di Pil destinate all'Università, sia per quote di Pil destinate alla ricerca. Ed è recentissima la scelta di Obama di destinare ben 40 miliardi di dollari a scuola e Università.

Gelmini annuncia con grande enfasi la nascita dell'Agenzia nazionale di valutazione (Anvur), creatura del ministro Mussi, non solo dopo averla ritardata di un anno, ma anche dopo averla resa un po' meno indipendente. E con la stessa enfasi racconta di merito e di qualità. Ma è mai possibile che un fondo di premialità, per di più in periodo di pesanti tagli, affossi alcune Università per premiarne altre, come in una sorta di Robin tax alla rovescia?

Oltre tutto i criteri di valutazione adottati, peraltro decisi autocraticamente dal ministro, sembrano discutibili e in alcuni casi cervellotici. Per fare un esempio, le Università meridionali soffrono del blocco da parte del governo dei fondi Fas, destinati agli investimenti in strutture e in edilizia, elementi che però sono rilevanti nella valutazione della qualità. Come dire: ti blocco i fondi, poi giudico inadeguate le tue strutture e per questo ti tolgo altre risorse. E ancora, perché tra i criteri di valutazione sul terreno della ricerca non è stata tenuta in considerazione anche la partecipazione di molte università meridionali al Fondo sociale europeo per progetti di ricerca legati allo sviluppo del sistema produttivo, che tanti risultati hanno avuto in termini di creazione di brevetti, di spin-off, di distretti tecnologici? O, se un criterio è quello della possibilità dell' occupazione degli studenti nell'arco di tre anni dalla laurea, come si fa a imputare la disoccupazione dei laureati alle Università e non alle realtà territoriali che queste hanno alle spalle? Qualche settimana fa il rapporto Svimez ci ha raccontato della rilevanza della nuova emigrazione intellettuale dal Sud. Anche questo colpa delle università spendaccione?

Insomma un gioco delle tre carte. Si tagliano risorse e si vuol far credere che si sta facendo un'innovazione. Anziché aggredire gli squilibri nel sistema universitario potenziandone la qualità complessiva e sostenendo chi cerca di migliorare, si condanna al degrado una parte grande della nostra realtà universitaria. Cresce così, anche per questa via, un dualismo che incrementa disparità e diseguaglianze nel nostro Paese.

Da una parte, l’assessore che rassicura: «Nessun problema per i residenti attuali e futuri». Dall’altra ci sono lo ro, i residenti, che aspettano ancora scuole, strade, mezzi pubblici e negozi. In mezzo, il fallimento di Luigi Zunino, l’immobiliarista che a Santa Giulia avrebbe voluto realizzare una «città nella città» e che aveva portato fin lì sir Norman Foster affidandogli il compito di progettare case di lusso che più lusso non si può. Di quella faraonica operazione restano soltanto le case costruite dalle cooperati ve, la sede che Sky ha appena finito e qualche altro raro big in arrivo. Nel frattempo, ai portoni di Palazzo Marino hanno bussato le banche fi­nanziatrici dell’intervento Santa Giulia, proponendo la strada per salvare il salvabile venendo incontro ad una necessità dell'amministrazione: trasferire il Tribunale in quel la che altrimenti rischia di re stare una landa desolata.

I contatti fra Banca Intesa e i vertici del Comune si erano avviati il mese scorso: in fon do, è stato fatto notare, si tratterebbe soltanto di spostare di qualche centinaio di metri l’ubicazione originaria prevista per la cittadella della Giustizia, fin qui destinata a tra sferirsi a Porto di Mare. Con anche una ipotesi secondaria: che cioè il Tribunale resti do ve era previsto (ammesso che si superino i problemi economici sorti dopo la crisi) e che a santa Giulia si riuniscano tutti gli uffici complementari al 'palazzaccio'. L’assessore all’Urbanistica, Carlo Masseroli spiega che «noi parliamo soltanto con il proprietario delle aree, Risanamento, e finora ci è stato proposto il progetto originale con qualche ritocco, soprattutto per la parte che riguarda il centro congressi (destinato ad essere ospitato a Citylife, ndr ). Comunque, ci aspettiamo altre idee: e noi siamo aperti, per ché nostro obiettivo è che l’intervento si completi».

Più complesso il problema dei residenti. Dei 1887 appartamenti realizzati dalle cooperative, circa 600 sono già abitati, altre 500 famiglie arriveranno a settembre e tra fine anno e marzo dovrebbe completarsi la geografia abitativa. Ma i servizi mancano. Partiamo dalle scuole e dai 600 bambini neo residenti: la scuola di via Sordello non verrà aperta malgrado gli annunci e alcuni bambini che si so no iscritti alla materna non sanno ancora dove finiranno. «Verranno smistati — ipotizzano i consiglieri del Pd, Marco Cormio e Natale Comotti — tra le vecchie scuole di origine, un’altra struttura di via Sordello, le scuole di Rogoredo e Monte Popera. Resta l’ipotesi che una sezione di bambini venga ancora trasportata ogni giorno a Chiaravalle, con i disagi che ne conseguono».

Poi, i trasporti pubblici. La mitica linea 88 che avrebbe dovuto muover si all’in terno di Rogoredo, servendo le nuove residenze e collegando alle scuole, resta un miraggio. «Atm ha pronto il progetto, ma il Comune lo tiene bloccato», chiosa Cormio. Per la sicurezza,sono stati chiesti pattugliamenti ad hoc al questore; per il poliambulatorio, ci ha pensato la cooperative Ecopolis creando una struttura già funzionante. mancano però i negozi e i centri commerciali, così come i collegamenti alla paullese (lavori in corso), la 'promenade' centrale, la metrotranvia che avrebbe dovuto arrivare in piazza Duomo, lo sfondamento di via Pestagalli.

Cormio e Comotti tagliano corto: «Il Comune non ha sa puto garantire una regia a questa operazione, pur causata soprattutto dai problemi di Zunino. Ci chiediamo se gli assessori Simini, Masseroli, Croci e Moioli siano mai riusciti a sedersi intorno ad un tavolo per valutare insieme la situazione e coordinare le risposte ».

MILANO - «L’Ellisse di Norman Foster? Eccola là». Pietro Agosto, responsabile delle opere di urbanizzazione di Santa Giulia, punta il dito dritto davanti a sè. In direzione di quell’area che – parola del sito del Comune di Milano – avrebbe dovuto costituire «un salto di scala nel disegno urbano della città». L’avveniristico quartiere dell’Ellisse non c’è. Le case da 8mila euro al metro quadro orgoglio dell’archistar inglese e di Luigi Zunino – padrone (ancora per poco) di questi 1,2 milioni di metri quadri poco a sud della Madonnina – sono rimaste un miraggio. All’orizzonte solo un mare di ghiaia, mucchi di terra e qualche germoglio di robinia. L’immagine plastica – un po’ preoccupante in vista dell’Expo 2015 – dell’approssimazione con cui imprenditori, banche e politici meneghini sanno immaginare e poi costruire il futuro della capitale morale d’Italia.

A immaginarlo – dice chi ricorda le fastose presentazioni di pochi anni fa – sono stati insuperabili. Plastici avveniristici, feste, video tridimensionali che visti oggi fanno sorridere (per non piangere). A costruirlo un po’ meno: Santa Giulia ora è un quartiere con 1.800 appartamenti in edilizia convenzionata (venduti quasi tutti tra 2.400 e 3.500 euro al metro quadro), la sede di Sky completata per due terzi («siamo persino senza mensa», si lamentano alla tv di Murdoch) e quasi 1 milione di metri quadri (il 70% del totale) di terra incolta. «Siamo stati abbandonati per colpa di un imprenditore che ha sbagliato i suoi calcoli», dicono al Comitato di quartiere, sul piede di guerra perché – oltre all’Ellisse – mancano all’appello scuole, asili, tram e strade promesse. Vero. Ma solo in parte. Il flop, se non altro per le dimensioni (il progetto valeva 1,7 miliardi), non può essere figlio degli errori di un immobiliarista incauto che si è messo a far shopping (a debito) di case di lusso a Parigi e di titoli Mediobanca mentre Santa Giulia aveva già il fiato corto.

«Il colpo di grazia al quartiere l’ha dato a fine 2007 Palazzo Marino quando ha deciso di spostare il Centro Congressi da qui al Portello», giura ad esempio Carlo Pendinelli, che da due mesi ha traslocato lungo la "promenade", in teoria un’elegante arteria commerciale («ma di negozi ne hanno venduti pochissimi», dice Agosto) dove per ora le ruspe della Icems lavorano ancora nel fango. Il motivo del trasloco del complesso da 8mila posti a partita in corso? Semplice. Gli interessi di buona parte dell’estabilishment cittadino, in particolare quello più vicino alla Compagnia delle Opere, sono meglio rappresentati nell’area della ex-Fiera e di Citylife. «Subito dopo questa decisione sono iniziate le defezioni dei big che avevano prenotato un posto nel quartiere di lusso di Foster», assicurano fonti vicine a Zunino. La prima a dare l’addio è stata Esselunga. Poi se n’è andata la Feltrinelli mentre pure Dolce & Gabbana e le 12 sale previste da Uci Cinemas stanno valutando se disdettare i contratti.

La partita adesso è in mano alle banche. Le stesse che nell’epoca del credito facile hanno finanziato quasi al 100% e senza farsi troppo domande i sogni di Zunino. Fidandosi delle solite elasticissime stime dei big del mattone come Reag e Dtz che a fine 2008 valutavano ancora il vuoto pneumatico di Santa Giulia ben 917 milioni di euro. «Gli istituti e il Comune non possono permettersi di farci fallire», dice Agosto. E in effetti oggi tutti si spargono la cenere sul capo. Le banche, per tutelare i propri crediti, sono impegnate in una corsa contro il tempo (e il tribunale di Milano) per presentare un piano che eviti il fallimento. Palazzo Marino pensa di spostare qui carcere e cittadella della Giustizia. E – per agevolare il salvataggio – pare pronto ad approvare una nuova colata di cemento in zona (una specialità della casa). Sarà un caso, infatti, ma Risanamento – la società di Zunino – ha dato mandato la scorsa settimana a Foster & Partners di «redigere la variante urbanistica per incrementare l’edificabilità del progetto».

Il risultato, dice il tam tam dei bar di Santa Giulia, è già scritto. Le banche, magari con qualche nuovo partner, prenderanno il controllo del progetto. E archiviate l’Ellisse e le meraviglie architettoniche del passato, affideranno la costruzione di Santa Giulia-bis – ridimensionata a semplice quartiere residenziale – alle cooperative milanesi, intrecciate spesso a filo doppio con la politica locale. Come «salto di scala nel disegno urbano» della città (e come biglietto da visita per Expo 2015) non sarebbe davvero male.

MILANO - Esiste un contraltare ai progetti sardanapaleschi che gli architetti da autografo hanno redatto per lusingare immobiliaristi e sviluppatori di facili guadagni. E di cui la Santa Giulia milanese cullata da Luigi Zunino è già un totem negativo, un´ambizione tanto alta da crollare fin dalle fondamenta. Il contraltare sono i miliardi concessi a palate dalle banche, che approfittando del boom ultimo scorso hanno lastricato di quattrini la vai di questi venditori di sogni di cemento. Ma ora il sogno dell´immobiliarista può diventare l´incubo del finanziatore.

Del resto i tassi erano risibili, come la percezione del rischio; le amministrazioni contrattavano l´edilizia su pezzi di città da riqualificare, garantendo cubature ingenti per far tornare bilanci sempre più magri. Per gli istituti fu facile: il denaro correva, cresceva un business importante tra prestiti, consulenze, compravendite, mutui. È un meccanismo non dissimile dalla catena di Sant´Antonio, e che puntualmente ha retto finché tutti gli anelli hanno creduto al mito dell´eterno rialzo. «La presunzione di questi soggetti ha portato gli istituti a prendere rischi speculativi – spiega un banchiere – così sono stati concessi fidi basati sulla crescita del mercato immobiliare, anziché su progetti concreti. C´era la sensazione di poter uscire a valori sempre più alti da questi investimenti, invece si sono rivelate solo cifre teoriche». Nella categoria si stima che una fetta cospicua delle sofferenze del sistema – in aumento dai 22,5 miliardi del 2008 ai 26,8 miliardi di maggio, e saranno almeno 30 miliardi a fine anno – faccia capo a questi operatori. Gente che non restituirà tanto facilmente i quattrini ricevuti.

Tre sono le tipologie critiche del rapporto spensierato tra loro e i banchieri. Ci sono i debiti "bullet", normalmente forniti per i grandi progetti di sviluppo, con durata media sui cinque anni, dopo di che vengono rimborsati o rinnovati. Secondo stime diffuse nel settore immobiliare, ammontano a 11 miliardi di euro "bullet" in scadenza l´anno prossimo. Ben pochi saranno realmente esigibili. E per allungarli, i tassi futuri saranno molto salati (visto il mutato scenario): si stimano interessi di 400-500 punti base oltre l´Euribor. Chi non rimborsa né allunga finisce in default, trovandosi con molti debiti a fronte di case sulla carta e cantieri spalancati.

Poi ci sono i patrimoni immobiliari che generano sofferenze, perché troppo "levereggiati". Comprati mettendo due soldi di capitale e il resto leasing o altri debiti. Ora qualche svalutazione si impone, dato che gli affitti non ripagano neppure gli interessi dei prestiti. Infine ci sono i fidi non tirati, che immobiliaristi e sviluppatori non hanno saputo usare nell´avanzamento dei loro lavori. Andranno richiesti ex novo; sempre se i soldi ci sono, e chissà a quale prezzo.

È impossibile fare un conto preciso dei debiti di queste attività; ma il solo conto approssimato inquieta, perché si tratta di qualche decina di miliardi di euro. Cifre che solo una «soluzione di sistema» potrebbe disinnescare. Forse, dopo il sacrificio del suo fondatore, il gruppo Zunino sarà salvato. Ma le banche non potranno salvare tutti i pifferai magici che come lui le hanno sedotte.

Scusi, architetto,ma consiglierebbe mai a un giapponese di venire in Italia? Da turista naturalmente...

«Sì, gli consiglierei ancora di venire. Magari lo fornirei di una guidina: l’elenco di quanto sarebbe meglio evitare, mari, monti, città, paesi, ristoranti, eccetera eccetera...».

Una volta erano i tedeschi. Era Der Spiegelche sintetizzava in copertina: spaghetti troppo rossi e una pistola (della mafia,naturalmente). Ne seguirono altre di copertine “anti-italiane”.Ma quella fu tra le prime e fece scandalo. Adesso anche i giapponesi, quelli che facevano pazienti la coda a Milano davanti a Prada e a Roma davanti ai Musei Vaticani, cominciano ad avere qualche dubbio: prezzi troppo alti, il rischio della truffa dietro l’angolo, per ultimo il pericolo influenzale (malgrado i richiami all’ottimismo di alcuni ministri). Venire in Italia? Sì, risponde l’architetto Vittorio Gregotti, che in Italia ha costruito molto, dal contestatissimo Zen di Palermo al quartiere della Bicocca, tra Milano e Sesto San Giovanni, la dove si alzavano i capannoni della Pirelli. Dove abbiamo sbagliato?Chi ha sbagliato?

«Verrebbe da dire intanto che l’Asahi Shimbunha ragione, riconoscendo con amarezza il fallimento di una politica e di una cultura. Come se ci fossimo tutti piegati alle esigenze della speculazione o di un interesse individuale, negando il valore di una risorsa come il paesaggio, quello naturale e quello costruito. E del turismo. Malgrado tutto, in Italia resistono migliaia di capolavori da ammirare. Ma lo sperpero è stato brutale. L’amarezza nasce dalla constatazione che una volta era forte la speranza di cambiare, era vivo il dibattito, mentre adesso neppure più la speranza rimane. Come se avessimo imboccato la strada più veloce del declino. Con infinite responsabilità e complicità. Persino tra l’indifferenza di chi dovrebbe opporsi. Quando si sente parlare di “piani casa” c’è solo da spaventarsi».

La facoltà degli ampliamenti, in nome del risparmio energetico, del rinnovo edilizio, per premiare il piccolo proprietario... Ultima per ora è arrivata la Regione Lombardia. La verità è che quando si apre una porta, non c’è freno all’invasione. Del cemento in questo caso: s’è fatto il conto di nove milioni di abitazioni “ampliabili”...

«Senza considerare che l’equilibrio urbanistico-paesaggistico è spesso delicatissimo e basta niente per devastarlo. Bastano pochi metri cubi. E poi? Non si recupera nulla».

La sensazione è che ciascuno coltivi gli interessi propri, Ligresti e il padrone della villetta. Incuranti tutti delle conseguenze, figuriamoci dell’estetica o della salvaguardia...

«Trent’anni fa fu violenta la campagna contro il vincolismo dei piani regolatori e si alzò la bandiera della deregulation. La critica al vincolismo aveva un senso, se si fosse contrapposta un’idea forte di sviluppo diverso. Un disegno. Invece tanta battaglia ha partorito solo la miseria dell’urbanistica contrattata, che avrebbe dovuto mettere di fronte pubblico e privato. Senza tenere conto della debolezza del pubblico, debolezza indotta dalla corruzione. Ci siamo visti alle prese con amministratori incapaci, poveri e corrotti. Incapaci di concludere certi programmi, piegati dalle complicità».

La casistica è infinita: dalle coste alle aree dismesse di città industriali come Milano. Chicomanda? La sensazione è di un altro passo in avanti: prima si procedeva a colpi di tangenti, adesso si è addirittura consegnato il bastone del comando.

«Mettiamoci pure la responsabilità della cultura, cioè degli architetti. Alla fine gli architetti firmano solo il dieci per cento di quanto si costruisce. Il resto tocca a geometri e a ingegneri. Ma firmano e avrebbero pur dovuto, in generale, far valere una loro opi-nione, far risaltare un proprio punto di vista. Sarà un problema di committenza, in primo luogo, ma anche in un progetto si dovrebbe far opera di contrasto. La conseguenza è che la cultura del rapporto con il paesaggio è un disastro».

Qui sento la critica all’ennesimo rito ambrosiano: una manciata di grattacieli, progetti di grandi star, distribuiti in luoghi chiave della città, senza alcun riferimento al contesto, cioè con il costruito. Il grattacielo della regione, cioè il nuovo mausoleo di Formigoni, offre in questo senso scorci orripilanti. C’è anche chi ha inventato il grattacielo verde, con un po’ di vasi alle finestre per amore di ecologia.

«Quello lo aveva già inventato mia zia, che abitava in centro a Milano in una palazzina di quattro piani e impose ai condomini di lasciar crescere un bel glicine lungo tutta la facciata. Ma di invenzioni se ne leggono altre: c’è l’assessore che vuole moltiplicare gli abitanti di Milano,come se tutti fossero pronti a tornare e a pagare certi prezzi; c’è l’altro assessore che vuole trasferire il Palazzo di Giustizia, senza spiegare che cosa ne faranno di quello che c’è, se lo demoliranno, dove trasferiranno i mosaici di Sironi. L’architettura di Piacentini non è mai stata nelle mie corde. Ma insomma, un po’ di rispetto... Emi fermo a Milano

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