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Titolo originale: Bush to Cities: Drop Dead! – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Le notizie sono tutte pessime. Ed è quasi impossibile concentrarsi su qualcosa davanti ai 99 articoli sul deficit crescente, i tentativi dell’amministrazione Bush di privatizzare la Social Security, o l’ultima richiesta multimiliardaria per finanziare la guerra in Iraq. Le cifre sono incomprensibili, le argomentazioni scottano come una piastra incandescente, e vien voglia di buttar via tutto. Lasciare che quei mollaccioni politicanti di Washington si azzuffino fra loro.

Poi c’è questo titolo del Washington Post, 14 gennaio 2005: “ Bush prevede tagli netti ai programmi HUD per le città”. Fa sbarrare gli occhi, vero? Magari è uno di quegli articoli che di solito si saltano. Dopo tutto, che c’entri, tu? Ma proviamo a leggere: “Funzionari dell’amministrazione hanno affermato ieri che la Casa Bianca tenterà di ridurre drasticamente gli 8 miliardi di dollari che il Department of Housing and Urban Development dedica al proprio community branch, tagliando dozzine di progetti di sviluppo economico, eliminando il programma di edilizia rurale, passando le competenze per gli impegni anti-povertà di alto profilo ai dipartimenti del Lavoro e del Commercio”.

Se ci si ragiona per un istante, si capisce che questo articolo tratta di cose che ci interessano. Cosa sono l’abitazione e lo sviluppo urbano se non architettura, progetto, pianificazione? Il fuoco della faccenda è che il bilancio proposto dall’amministrazione per il 2006 taglierà a metà i 4,7 miliardi di dollari del programma Community Development Block Grant (CDBG), da trent’anni fonte di finanziamento per cose che vanno dai sistemi fognari, alla tutela delle zone storiche, alle abitazioni popolari. È un programma tanto vitale per l’esistenza quotidiana delle città americane, che la conferenza nazionale dei Sindaci, riunita a Washington pochei giorni dopo la pubblicazione dell’articolo sul Post, ha approvato una risoluzione urgente a sostegno del finanziamento integrale del programma CDBG, che sembra un grido di dolore dalle casse svuotate dei governi locali.

Gli altri programmi destinati ad eliminazione o trasferimenti, comprendono la Brownfields Economic Development Initiative, che promuove iniziative di infill development e combatte l’insediamento diffuso (e che sarebbe cacciato come un orfano in un romanzo di Dickens, al dipartimento del Commercio), e il piccolo programma da 24 milioni del Rural Housing and Economic Development, che verrebbe eliminato.

Come dice il nome, lo HUD è l’ufficio federale che si occupa principalmente dei bisogni delle città (anche se concorre a costruire case e infrastrutture nelle zone rurali). E una parte del problema è che l’amministrazione Bush non è tanto entusiasta delle città, o delle persone che ci abitano; a novembre John Kerry si è preso il 54% del voto urbano, e il 60% di quello delle grandi città. Poi c’è la spesa crescente per la guerra in Iraq, insieme ai grandi tagli fiscali, e questo significa meno soldi da spendere in programmi interni. Bisogni come le case e le infrastrutture sono improvvisamente diventati dei lussi.

”C’è un deficit da affrontare, e la base di sostegno non sta nelle città” afferma Chandra Western, direttore della National Community Development Association, riassumendo i motivi per cui i tagli presidenziali potrebbero eliminare progetti utili a tante persone. L’architetto Bryan Bell, del North Carolina, noto per aver ideato tipi residenziali innovativi per i lavoratori stagionali agricoli, la prende da un’altra parte: “Credo semplicemente che si tratti dell’alternativa burro-cannoni. E stiamo perdendo il burro”.

”Essenzialmente quello che viene messo in discussione è se il governo federale debba continuare ad avere un ruolo nella soluzione dei problemi urbani e di sviluppo economico per le famiglie a redditi bassi e medio-bassi” spiega Paul Hilgers, responsabile per i quartieri, l’abitazione e il community development di Austin, Texas.

Hilgers dirige quella che è uno degli uffici per l’abitazione più progressisti del paese. Austin di recente ha completato un ambizioso progetto architettonico per uno homeless shelter and outreach center di 2.500 metri quadri, che utilizza acqua piovana per i servizi igienici e funziona ad energia solare. È stato finanziato in parte nel quadro del programma CDBG, che come sottolinea Hilgers fu lanciato da un repubblicano. “È iniziato sotto l’amministrazione Nixon, e l’idea era piuttosto semplice. Abbiamo problemi nazionali riguardo ai quali il governo federale ha alcune responsabilità, che non si sa come risolvere. Allora dobbiamo creare un programma che consenta parecchia flessibilità a livello locale”.

In altri termini, il programma CDBG è un modello di azione in cui un grosso governo agisce con la leggerezza del piccolo governo, e si tratta di un grosso risultato per l’amministrazione Nixon. Purtroppo l’idea di tagliare del 50% i fondi per il community-development ha il profumo di un altro presidente repubblicano anni ’70. È un prodotto dell’annata 1975, dal titolo: “ Ford alle città: a cuccia!”.

Ma può anche darsi che l’idea di un atteggiamento negativo del governo federale verso le città sia una generalizzazione eccessiva, un’astrazione di poca utilità. Magari si pensa a fogne e marciapiedi più o meno come ci si preoccupa di Sicurezza Sociale: non ci si vuol pensare gran che, ma ci si farebbe caso se non esistesse più. In questo caso, c’è una storia più piccola e più accessibile nascosta sotto tutte queste chiacchiere burocratiche. Riguarda il modo in cui negli ultimi dieci anni abbiamo imparato come abitazioni innovative e abitazioni a buon mercato non siano categorie che si escludono a vicenda. L’approccio bottom-up iniziato dallo HUD negli anni della presidenza Clinton (rendere disponibili fondi per il community development con minime formalità burocratiche) ha aiutato il sorgere di una nuova generazione di architetti che, ispirati dai successi del Rural Studio di Samuel Mockbee in Alabama, e da programmi simili in tutto il paese, hanno tentato di recuperare l’idea del Movimento Moderno, della casa per tutti.

Le generazioni precedenti avevano interpretato il messaggio modernista in modo piuttosto letterale, utilizzando i fondi federali per costruire i progetti residenziali monolitici diventati il simbolo dell’incapacità del settore pubblico di realizzare qualcosa di buono. Ora una nuova generazione di architetti trova interessante il tema dell’abitazione a basso costo: un enigma intrigante da risolvere. Giovani professionisti, spesso laureati nelle aree della progettazione/esecuzione, sono diventati maestri nel progetto e finanziamento di case a basso costo e prezzo. I fondi dello HUD entrano quasi sempre nell’equazione.

Hilgers ci dice: “Abbiamo un gruppo di giovani architetti molto innovativi che escono dalle scuole e sono veramente motivati ad alti livelli di progettazione creativa per abitazioni rivolte ai ceti meno abbienti. Non ci era mai successo prima. Ed è un peccato che, proprio quando abbiamo una struttura di giovani professionisti creativi che avrebbero bisogno di essere sostenuti, si debbano prevedere dei tagli”.

L’ufficio di Hilgers ha dato lavoro a studi di Austin come lo Krager Robertson Design Build, aiutandoli ad ottenere fondi federali. Il KRDB ha ottenuto fondi sufficienti dallo Housing and Urban Development attraverso l’amministrazione di Austin e il suo programma residenziale, per ideare, progettare e realizzare case a buon mercato in vendita per famiglie a medio reddito, sulla Cedar Avenue, nella zona est della città. Queste sottili ed eleganti case piene di luce, sono offerte a cifre da 105.000 a 125.000 dollari. Il sostegno dello HUD ha ridotto di 10-15.000 dollari il prezzo di vendita, e dato agli acquirenti un po’ di respiro nel pagamento degli interessi.

A Raleigh, lo studio di Bryan Bell, Design Corps, conta moltissimo sui finanziamenti delle varie branche dello HUD, compreso il programma Rural Housing and Economic Development di cui si prevede l’eliminazione. “Quando si parla di Home Investment Partnership (che per ora non è compresa nella lista dei programmi da eliminare) e di Rural Housing and Economic Development, quelle sono tutt ele risorse per i nostri progetti” dice Bell. “E que

La nostra Camera del Lavoro, con questa giornata di studio e di approfondimento, intende avviare un percorso volto ad elaborare un nostro autonomo punto di vista sulla qualità dello sviluppo della nostra provincia, a partire da una lettura critica del documento preliminare del piano territoriale di coordinamento provinciale (Ptcp). L’obiettivo è quello di costruire insieme una nostra proposta, tesa a concorrere alla formazione del piano provinciale.

Il contributo di conoscenza e di esperienza di chi vive nelle diverse realtà territoriali, è decisivo. Si tratta infatti di ragionare sulla qualità dell’abitare, degli insediamenti produttivi, dei servizi, della mobilità delle merci e delle persone.

Il seminario del 24 maggio si avvale di qualificati contributi esterni che risulteranno particolarmente utili in relazione agli approfondimenti che, successivamente, saranno programmati zona per zona con l’obiettivo di aprire un cantiere finalizzato all’apertura della contrattazione sociale territoriale.

La qualità urbana insieme alla qualità sociale costituiscono infatti un pezzo rilevante della strategia che abbiamo definito nel nostro recente congresso.

Non ci sfugge come declino industriale e boom del mattone siano processi strettamente correlati.

VICENZA PREDA DEL CEMENTO

Di fronte ai problemi posti dalla ineludibile riconversione industriale molti hanno scoperto il business degli investimenti immobiliari: Tronchetti Provera e Benetton sono i nomi più noti, quelli vicentini non sono pronunciabili ma solo sussurrabili.

Ma il boom del cemento a Vicenza ha origini meno recenti. Esso è connesso allo sviluppo disordinato che abbiamo conosciuto che ha “slabbrato” e paralizzato il tradizionale assetto policentrico della nostra provincia e determinato il collasso

della viabilità. La fabbrica post fordista esternalizza, nasce l’impresa rete, il lavoro si disperde nel territorio e così nascono come i funghi i capannoni in mezzo alla campagna e nei nuovi “Pip” della Tremonti concepiti come siti a minor costo. La fabbrica just in time elimina il magazzino perchè esso viaggia sulle nostre strade congestionate che a loro volta attirano attività commerciali, il tutto genera una mobilità multidirezionale delle merci e delle persone, quasi sempre su mezzi privati che congestiona il traffico e soffoca la nostra esistenza.

Sono le strade mercato: la Statale 11 tra Vicenza e Montecchio, Cornedo, Thiene-Zanè, Torri di Quartesolo-Settecà, il Bassanese.

Il colpo d’occhio ci rimanda a una sequenza di case, ville, villette, capannoni, depositi, piazzali e svincoli che hanno consumato il territorio con una crescita urbana senza forma, che ha impermeabilizzato il territorio, rallentato la ricarica delle falde e nel contempo provoca frequenti esondazioni dei corsi d’acqua.

CITTÀ SPALMATE COME MARMELLATA

Si tratta della dispersione insediativa per la quale gli americani negli anni ’60 coniarono il termine di “sprawl town” letteralmente città sdraiata sguaiatamente. In sostanza un ambiente urbano a marmellata sempre più privo di forma e memoria dei luoghi e vissuto come alienante dalle nuove generazioni.

A questi problemi la classe dirigente vicentina risponde in modo vecchio e settoriale.

Se c’è un problema di traffico la risposta è semplice: facciamo una nuova strada, una nuova bretella, meglio se un’autostrada. Di mezzo c’è un territorio agricolo? Meglio. Così non ci sono ostacoli. C’è una falda? “Noi ci occupiamo delle merci che devono transitare”, ci siamo sentiti rispondere.

Non è così che si progetta la “Vicenza del Terzo Millennio”.

Occorre invece pensare ad una riorganizzazione complessiva, sistemica e organica del nostro territorio, che riduca la dispersione delle attività produttive, residenziali e commerciali, attraverso il metodo della pianificazione urbanistica, mettendo al bando la sciagurata pratica dell’urbanistica contrattata che, per altro, è terreno fertile per lo sviluppo di rapporti non sempre trasparenti tra affari e politica. L’idea che proponiamo è quella di una città amica.

Significa eliminare la congestione, restituire alle piazze la loro funzione originaria di luogo di incontro, di scambio di esperienze, significa rendere accessibile per i deboli, come per i forti, i luoghi della vita collettiva.

Significa fare della città il luogo nel quale i differenti ceti, i differenti mestieri, funzioni sociali, differenti etnie, abitudini, culture si mescolano e si scambiano reciproci insegnamenti.

Occorre inoltre puntare sul trasporto pubblico e soluzioni logistiche adeguate anche per favorire la competitività delle imprese. Il tutto va connesso con una idea di sviluppo più qualificato, capace di competere nella fascia alta e innovativa delle produzioni, in grado di generare lavoro qualificato, di sostenere più elevati livelli salariali e migliori condizioni di lavoro.

LA CONTRATTAZIONE SOCIALE TERRITORIALE

Ma oggi dobbiamo fare i conti con una struttura produttiva frammentata, con un lavoro precarizzato e con tutte le conseguenze che ciò produce in termini di minor rappresentatività del sindacato.

È per noi dunque vitale riprendere il controllo sull’intero ciclo produttivo ovvero l’intera filiera di fabbricazione di un prodotto o erogazione di un servizio spesso dispersa nel territorio.

COME RIPENSARE IL LAVORO

Il controllo dei rapporti di lavoro,dell’ organizzazione del lavoro, dalle qualifiche agli orari, alla tutela della salute, dovrà essere al centro del nostro impegno futuro. Ma non si controlla il processo lavorativo se l’azione sindacale non ricomprende tutta la filiera degli appalti, delle terziarizzazioni, delle esternalizzazioni, se cioè non ridefinisce il perimetro della catena lunga e diffusa della produzione di una merce o di un servizio.

Noi vogliamo riunificare ciò che l’impresa divide e frammenta. E’ un compito arduo ma assolutamente necessario. È un salto culturale, politico e organizzativo quello che noi proponiamo: la saldatura tra la contrattazione di secondo livello e la contrattazione nel territorio.

Il territorio in quanto spazio fisico sempre più strettamente interconnesso con le dinamiche produttive diventa decisivo sia per riprendere il controllo della filiera sia perchè la contrattazione di luogo di lavoro possa disporre di una iniziativa esterna in materia di formazione, ricerca, politica industriale.

Oppure, per l’importanza di accompagnare la contrattazione del salario con una contrattazione sociale in grado di ottenere risultati su materie come gli asili nido, i servizi di assistenza, la sanità, la casa, i trasporti, i beni comuni prodotti dai servizi pubblici locali (acqua, ambiente e energia), l’integrazione dei migranti, la vivibilità urbana.

Temi questi ultimi che non possiamo delegare all’azione generosa ma inevitabilmente insufficiente del nostro Sindacato Pensionati o all’azione delle singole categorie di volta in volta interessate. Essi vanno assunti a livello confederale.

È questa una proposta di allargamento del campo d’azione del nostro lavoro sindacale per tenere insieme il luogo di lavoro e la sua inscindibile relazione con il contesto territoriale, nei suoi diversi aspetti di organizzazione e pianificazione dello spazio urbano, di equilibrio ambientale, di qualità ed efficacia del welfare locale.



Oscar Mancini è segretario generale Cgil di Vicenza

Postilla

La Camera del lavoro di Vicenza è una delle organizzazioni sindacali che aderirono, nel 2004, al seminario "La nuova proposta di sei sindacati territoriali della CGIL - Vertenze locali per reinventare città e democrazia"; i materiali furono pubblicati su un numero speciale della rivista Carta (vedi su Eddyburg l’intervista a Guglielmo Epifani e l’eddytoriale n.55.). Da allora la Cgil di Vicenza ha continuato a lavorare sul territorio come poche altre organizzazioni. Adesso ha organizzato una giornata di studio sul PTCP di Vicenza, preceduto da un lavoro di analisi, documentazione e dibattito sull’assetto del territorio provinciale, i suoi problemi, le sue prospettive, senza disdegnare l’attenzione per gli strumenti della pianificazione territoriale e, anzi, attribuendo ad essi l’importanza che meritano quando diventano materia d’interesse politico e sociale.

All’argomento è dedicato anche un numero della rivista della Cgil, Vicenza lavoro , da cui è tratto l’articolo di Oscar Mancini. Nella versione integrale della rivista, scaricabile qui sotto, trovate anche il programma della giornata di studio (che si terrà il 24 maggio), un articolo di Gian Antonio Stella sul territorio vicentino (tratto dal Corriere della sera ), un gustoso scritto su “architetti e geometri” dello scrittore Vitaliano Trevisan e una “Guida per conoscere il PTCP”.

No, l’abusivismo di necessità no. L’abusivismo di necessità è morto da tempo. Era quello dell’immediato dopoguerra, quando, soprattutto a Roma, gli immigrati dal Sud che lavoravano nei cantieri edili, senza casa e senza residenza (vigeva ancora la legge fascista contro l’urbanesimo che non consentiva l’iscrizione anagrafica nei grandi comuni), si costruivano le “casette della domenica”. Furono chiamate così perché solo la domenica e i giorni festivi manovali e muratori, potevano tirar su, con le proprie mani, le loro povere abitazioni, con spirito mutualistico e con pratiche poi definite di autocostruzione. I nuclei del primo abusivismo si concentrarono inizialmente a ridosso dei borghetti dov’erano stati deportati gli abitanti del centro storico cacciati a seguito degli sventramenti mussoliniani e intorno ai quali si è in seguito formata la sterminata periferia della capitale.

Quello era l’abusivismo di necessità. Che fu compattamente difeso dal Pci e dalla cultura di sinistra, all’incirca fino all’inizio degli anni Ottanta. Dopo, fra la sinistra e l’abusivismo c’è stato un graduale distacco, non senza residui di tolleranza. Il direttore di questo giornale sicuramente ricorda le polemiche che si svilupparono in via delle Botteghe Oscure e su l’Unità con una franchezza allora inconsueta.

Intanto, a mano a mano, l’abusivismo ha cambiato i propri connotati, è stato sfruttato dai grandi proprietari terrieri per favorire l’urbanizzazione dei loro patrimoni. Si è un po’ alla volta trasformato in industria edilizia illegale, illegale sotto ogni punto di vista: alla mancanza del permesso di costruzione si è aggiunto il mancato rispetto delle norme igieniche, di sicurezza, assicurative e previdenziali. Alla fine, è entrato nell’orbita della malavita organizzata. Da Roma in giù, in alcuni luoghi ha raggiunto livelli di produzione superiori a quelli dell’edilizia legale, grazie anche alle successive leggi di condono, tre in diciotto anni (ricordiamone gli autori: 1985, governo Craxi; 1994, governo Berlusconi; 1993, ancora governo Berlusconi). E la Campania, ha scritto il 1° maggio su l’UnitàVittorio Emiliani, “vanta da decenni un primato nazionale in fatto di concentrazione della illegalità edilizia e ambientale, con una vistosa presenza del racket camorristico che controlla le forniture di materiali e di manovalanza”.

Queste cose non possono non saperle gli amministratori di Ischia – e addirittura il presidente della regione Campania – che irresponsabilmente hanno resuscitato l’abusivismo di necessità. Operazione pericolosissima, perché oggi torna a essere grave, in molti casi drammaticamente grave, il problema della casa, e l’abusivismo non può essere una risposta. Se oltre l’80 per cento delle famiglie italiane vive in casa propria, quasi tutto il restante 20 per cento vive in condizioni abitative sempre più precarie. Sono giovani, immigrati, studenti, anziani che regrediscono verso la povertà e sono costretti a vendere il proprio alloggio. Un problema, reso acuto dalla progressiva riduzione delle risorse per l’edilizia pubblica, che dovrebbe tornare in primo piano nelle politiche locali. È questo uno, e non certo l’ultimo, dei compiti che il nuovo governo dovrà affrontare con competenza e determinazione. Insieme alla ripresa dell’impegno per il risanamento idrogeologico. Dopo i morti di Sarno del 1998, il tema aveva assunto un riconoscimento prioritario nell’azione di governo e sembrava che potesse finire l’incubo di una frana devastante dopo ogni pioggia prolungata. Ma Berlusconi alla manutenzione del territorio ha sostituito le grandi opere. La tragedia di Ischia riporta la difesa del suolo in testa all’ordine del giorno.

Altro che grandi opere, altro che tolleranza per l’abusivismo.

Un Paese fradicio, senza più manutenzione, che casca a pezzi alle prime piogge insistenti. Poche settimane fa un grande smottamento di un’area denudata dal disboscamento sopra la cabinovia di San Vigilio in Marebbe (Bolzano). Per fortuna senza vittime. Ora la tragedia di Ischia con una gigantesca colata di fango che ha provocato morti e feriti in una zona con abitazioni abusive in attesa di condono edilizio. «Abbiamo abusato del nostro territorio», afferma il responsabile della Protezione Civile, Bertolaso.

Sciaguratamente i governi Berlusconi hanno imboccato la strada elettoralistica delle cosiddette grandi opere (senza valutazione di impatto ambientale) ed abbandonato, o quasi, quella del risanamento idro-geologico percorsa con fatica dai governi dell’Ulivo dopo le tragedia di Sarno e di Soverato. Di più e di peggio: il centrodestra ha varato due devastanti condoni, uno edilizio e l’altro ambientale il cui solo annuncio ha accelerato in modo suicida, per il territorio e per chi lo abita, la corsa a nuove costruzioni illegali in zone vincolate, in aree palesemente a rischio idro-geologico, negli alvei stessi di fiumi, torrenti e fiumare. Laddove la colata di fango o l’alluvione improvvisa sono sempre in agguato con esiti mortali. Specie da quando il riscaldamento del pianeta ha reso più violente piogge e temporali, in ogni stagione.

In tale corsa all’abusivismo - al quale invano si sono opposti Comuni e Regioni contestando i condoni governativi - la Campania vanta da decenni un primato nazionale in fatto di concentrazione della illegalità edilizia e ambientale, con una vistosa presenza del racket camorristico che controlla le forniture di materiali e di manovalanza, tutto «in nero», da ogni punto di vista. L’isola di Ischia fa parte di questo sistema purtroppo, come, del resto, la stessa Capri.

Chi gira l’Italia in questi mesi vede le gru dei cantieri edili alzarsi quasi ovunque, a decine, a centinaia. Il mattone è stato la sola attività a «tirare» in mesi e mesi di stagnazione economica, sottraendo capitali e risparmi ad attività imprenditoriali vere e durevoli, destinate ad irrobustire un sistema di industrie e di servizi divenuto sempre più anemico. Da vecchio immobiliarista, Silvio Berlusconi non si è forse vantato di aver fatto aumentare nell’ultimo quinquennio il valore degli immobili italiani? Chi non è proprietario di case, è trattato alla stregua di un pezzente. Chi è in affitto, viene abbandonato alle follie del mercato speculativo. Un’autentica anomalia rispetto alla media dei Paesi europei più avanzati. E poi si teme sempre che scoppi la bolla speculativa...

La valanga di asfalto e di cemento, quest’ultimo spesso abusivo, ha reso ancor più fragile, dunque, più soggetto a frane e a smottamenti questo Paese antico, intensamente abitato da migliaia di anni, la cui montagna ed alta collina (due terzi dell’Italia) hanno conosciuto in passato uno spopolamento biblico, col conseguente abbandono dei boschi, dei pascoli, del sistema plurisecolare dei canali e delle canalette di scolo, dei torrenti stessi. Mentre, per contro, le zone ad alto sfruttamento turistico (da Ischia a San Vigilio in Marebbe) si costipavano di altre seconde e terze case, con strade di ogni tipo, tutte asfaltate. Tale fenomeno si è verificato, magari, in regioni anche a forte rischio sismico: in Campania, soltanto un 12-13 per cento del territorio non risulta infatti a rischio sismico alto o medio. Ma quali e quanti investimenti sono stati dedicati dalle «magiche» Finanziarie di Berlusconi-Tremonti alla manutenzione ordinaria e straordinaria del suolo italiano? Sempre pochi. Anzi sempre meno. In compenso uno dei primi alti dirigenti colpiti dallo spoil-system è stato proprio il bravissimo direttore del servizio antisismico nazionale Roberto De Marco, un tecnico di autentico livello internazionale, rimosso per ragioni squisitamente politiche e mandato, se non erro, a vendere computer alle scuole. Poteva, del resto, un «comunista» continuare a reggere un simile ufficio tecnico strategico?

Al futuro governo viene quindi lasciata un’Italia ancor più vittima di frane, smottamenti, alluvioni, ancor più povera di misure preventive contro le colate di fango (autentico problema nazionale) e contro i movimenti tellurici. Si tratta di riavviare, per altro in tempi di finanza statale dissestata, una autentica «ricostruzione» del Paese partendo da una aggiornata mappa dei rischi. Altrimenti avremo altre vittime, altri senzatetto, altri ambienti feriti a morte e inabitabili per decenni. Molto tempo fa, Antonio Cederna - di cui ricorrono quest’anno i dieci anni dalla scomparsa - ripeteva una sorta di suo sarcastico slogan: quando piove l’Italia viene giù. Dopo gli ultimi cinque anni berlusconiani va anche peggio. Per non spendere qualche miliardo in più nella prevenzione, ne spendiamo e ne spenderemo decine a disastri avvenuti.

La Società Stretto di Messina ha firmato il contratto con Impregilo S.p.A. per l’affidamento a Contraente Generale della progettazione definitiva, esecutiva e della realizzazione del Ponte tra Calabria e Sicilia. Questo rappresenta un grave affronto alle procedure di infrazione avviate dalla Comunità Europea ed ai procedimenti da parte della magistratura sull’infiltrazione mafiosa negli appalti e le presunte violazioni amministrative nel corso dell’iter concorsuale. La gara di appalto è stata caratterizzata da una serie di gravi anomalie: l’inserimento di clausole contrattuali che prevedono una penale stratosferica in caso di recesso da parte dello Stato (il 10 per cento dell'importo totale, cioè 388 milioni, più le spese già affrontate dal General Contractor) dopo la definitiva approvazione dell'opera; l'improvvisa defezione dei grandi gruppi esteri proprio alla vigilia dell'apertura delle buste; l'ingiustificato ribasso del 12,33% praticato dalla cordata guidata da Impregilo che tradotto in cifre vuol dire 500 milioni di euro e cioè 1000 miliardi di lire, su una base d'asta di circa 4 miliardi di euro.

Ancora più grave, la fitta rete di conflitti d'interesse sviluppatasi tra società concessionaria, aziende in gara per il General Contractor e i rispettivi gruppi azionari di riferimento.

Nella speciale commissione giudicatrice istituita dalla Società Stretto di Messina che ha assegnato l'appalto ad Impregilo, ha partecipato l'ingegnere danese Niels J. Gimsing.

Oltre ad essere stato membro (dal 1986-93) della commissione internazionale di valutazione del progetto di massima del Ponte, Gimsing ha lavorato nella realizzazione dello Storbelt East Bridge, progettato dalla società di consulenza Cowi di Copenaghen a cui il raggruppamento temporaneo d'imprese guidato da Impregilo ha affidato l'elaborazione progettuale del Ponte sullo Stretto.

Alberto Lina, amministratore delegato di Impregilo, è stato dal 1995 al 1998 presidente di Coinfra, la società dell'IRI che ha partecipato come fornitore alla realizzazione del ponte Storebelt insieme a Cowi, e quindi ha collaborato con l'ing. Niels Gimsing.

Se poi si passa alla lettura del curriculum vitae di alcuni membri del consiglio di amministrazione della Stretto di Messina si scorge più di un feeling con il colosso delle costruzioni di Sesto San Giovanni.

Nell’aprile del 2005, è stato nominato quale membro del CdA della concessionaria del Ponte il dottor Francesco Paolo Mattioli, ex manager Fiat e Cogefar-Impresit (oggi Impregilo), consulente della holding di Torino e responsabile del progetto per le linee ad alta velocità ferroviaria Firenze-Bologna e Torino-Milano di cui Impregilo ricopre il ruolo di General Contractor.

Il 22 febbraio 1993 Francesco Paolo Mattioli fu arrestato su ordine della Procura di Torino interessata a svelare i segreti dei conti esteri della Fiat, dove risultavano parcheggiati 38 miliardi di vecchie lire destinati a tangenti. Nel maggio ‘99 arrivò per Mattioli la condanna a un mese di reclusione, pena confermata in appello e infine annullata in Cassazione per “sopravvenuta prescrizione del reato”.

Nel consiglio di amministrazione della Stretto di Messina siede pure il Preside della facoltà di Giurisprudenza dell'Università "La Sapienza" di Roma, prof. Carlo Angelici. Angelici è pure consigliere della Pirelli & C. e di Telecom Italia Mobile (TIM), società controllate dalla famiglia Benetton, che è tra i maggiori azionisti di Impregilo.

Edizioni Holding della famiglia Benetton, attraverso Schemaventotto, detiene anche il 51 % della Società Italiana per Azioni il Traforo del Monte Bianco, gestore della parte italiana. Di questa società è consigliere un altro membro "riconfermato" del Cda della Stretto di Messina, il direttore generale ANAS Francesco Sabato.

Come se non bastasse l’"anomalia" della presenza di più di un consigliere della Stretto di Messina nelle società controllate dai signori del Ponte, va rilevato che sindaco effettivo di Autostrade-Benetton è la riconfermata sindaco effettivo della Stretto di Messina, dottoressa Gaetana Celico.

Presenze ingombranti anche all’interno di Società Italiana per Condotte d’Acqua, altro partecipante alla cordata General Contractor del Ponte sullo Stretto. Condotte d'Acqua è controllata per il 98,85% dalla società Fedina S.p.A., holding finanziaria di partecipazione. Ebbene, nei consigli di amministrazione di Fedina e di Condotte Immobiliare (la immobiliare di Condotte d'Acqua) compare uno dei membri – sino al giugno 2005 – del Cda della Società Stretto di Messina, il professore Emmanuele Emanuele, voluto dalla Regione Calabria. Emanuele, di Fedina, è persino vicepresidente. E' anche presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Roma, una dei maggiori azionisti, insieme all'olandese ABN Amro, del gruppo bancario Capitalia, azionista di Impregilo e della finanziaria Gemina (secondo gruppo azionario della società di costruzioni di Sesto San Giovanni). Capitalia controlla pure un rilevante pacchetto azionario di Astaldi, la società "concorrente" nella gara per il General Contractor del Ponte sullo Stretto. Presidente del Cda di Astaldi è il professore Ernesto Monti, docente di Finanza aziendale presso la Facoltà di Economia della Luiss. Monti è consigliere di amministrazione di Fintecna, la finanziaria statale principale socio di riferimento della Stretto di Messina S.p.A..

Tra i più stridenti conflitti d'interesse, c'è quello legato alla partecipazione delle coop "rosse" – su schieramenti contrapposti, la C.G.C. Consorzio Cooperative Costruzioni di Bologna (in associazione con Astaldi) e la C.M.C. Cooperativa Muratori & Cementisti di Ravenna (con Impregilo). Con 1"anomalia", che proprio la CMC di Ravenna risulta essere una delle 240 associate della cooperativa “madre”, CCC di Bologna.

Ciò avrebbe comportato la violazione delle normative europee e italiane in materia di appalti pubblici, le quali escludono espressamente la partecipazione ad una gara di imprese che "si trovino fra di loro in una delle situazioni di controllo".

L'ipotesi di violazione di queste norme da parte delle due coop durante la prequalifica alla gara per il Ponte è stato sollevato da Terrelibere.org, WWF Italia e dalla parlamentare Anna Donati. Il WWF, in particolare, è ricorso davanti all'Autorità per i Lavori Pubblici e alla Commissione Europea per chiederne l'annullamento.

Intanto, anche al fine di denunciare la scarsa trasparenza dell'affaire, ha preso il via la campagna nazionale "Boicotta il ponte”. Basta compilare, firmare e inoltrare una lettera-diffida (il modulo è disponibile on line sul sito www.retenoponte.org) alle banche e assicurazioni che controllano i pacchetti azionari delle società di costruzioni italiane facenti parte della cordata Generai Contractor o che hanno espresso la disponibilità a finanziare la realizzazione della megaopera. Al bando, dunque, i prodotti Benetton - da quelli tessili a alla catena di ristorazione Autogrill - e pure i gruppi BPM-Banca Popolare di Milano, Capitalia, Banca Intesa, Monte dei paschi di Siena, Unicredit, Efibanca-Banca Popolare Italiana, Unipol Bank, Carige e Assicurazioni Generali.

Intervista di Federico Orlando

Altro che ponte di Messina. La vera grande opera nazionale del ventunesimo secolo sarebbe recuperare Messina e le altre cento città d'Italia, e quelle nuove cresciute di recente. Recuperare significa non solo abbattere, qualche volta, come nel caso irrecuperabile di Punta Perotti a Bari. Significa sostituire i nuovi centri ai non luoghi, in cui l'anticultura degli ultimi decenni ha trasformato quasi tutte le nuove periferie e perfino centri storici dove ai caffè sono subentrate le jeanserie e alle abitazioni le rappresentanze commerciali. Fare di ogni periferia un nuovo centro significa fare la nuova città. Non la città ideale, che non esiste, ma la città urbana moderna.

Ne parliamo con Pier Luigi Cervellati alla vigilia del governo di centrosinistra, se nascerà dalle urne di domani. A gennaio, il Mulino aveva pubblicato un suo articolo il futuro della non città, appunto la città dei non luoghi nella quale viviamo da alcuni decenni. Cervellati insegna recupero e riqualificazione urbana a Venezia; è autore di opere come La città postindustriale, La città bella, L'arte di curare la città; è stato per anni assessore all'urbanistica di Bologna. Ora, nella polemica tra l'architetto romano Massimiliano Fuksas (che dice: Punta Perotti è solo l'inizio, bisogna abbattere lo Zen di Palermo, le Vele di Secondigliano, il Corviale di Roma ed altri ecomostri simbolici nazionali) e l'architetto milanese Vittorio Gregotti (che difende il suo Zen e le Vele, addebitandone il degrado all'occupazione selvaggia e alla debolezza della politica), lui, Cervellati, sta con Gregotti: il problema non è abbattere il brutto, ma sottoporlo a chirurgia plastica e a cura ricostituente funzionale. E non già perché, come dice Gregotti, «la bellezza non è l'unico elemento per giudicare l'architettura, che va sempre oltre il bello, il brutto e la forma»; ma perché occorre recuperare le periferie: «Renderle omologhe alle citta, come si fa nei paesi del Nord dove esiste ancora la cultura della pianificazione urbanistica».

Che vuol dire omologare? Prima di tutto, stoppare quella «razionalizzazione ed efficienza modernizzante» delle città storiche che Jùnger definì "imbiancamento". E non aveva ancora visto la nuova Ara Pacis a Roma. Un imbiancamento che batte perfino il marmo fascista di piazza Augusto Imperatore. Si perde così l'identità storica e culturale delle città. Ma il ministro Urbani, trasferendo i poteri delle Sovrintendenze nelle 26 divisioni del ministero dei Beni Culturali, aveva l'ambizione un po' bottaiana di rifare le città sulla base dell'architettura razionalista della società industriale.

«La città storica non può essere razionalistica o razionalizzata - spiega Cervellati -. Il razionalismo va affermato nelle periferie, cresciute anarchicamente, in non luoghi come ipermercati e svincoli autostradali, o villettopoli casarecce, casermoni e strade, capannoni e parcheggi, che hanno mangiato il territorio espandendosi all'americana. Solo in America, il territorio è tanto e da noi pochissimo. Modernizzare le città non significa riqualificare un quartiere del Seicento in edifici razionalistici, ma creare legami (cominciando dai trasporti) tra la città storica e le sue periferie, ciascuna coi suoi luoghi di convivenza, che si acculturano reciprocamente. La città dispersa e non collegata ci richiude invece nel nostro orto o giardinetto, nell'isolamento culturale. Un governo di centrosinistra non dovrebbe puntare tanto a nuove costruzioni del privato quanto a un'edilizia pubblica che provveda alla casa per chi non ce l'ha, alla socializzazione per chi è isolato, e alla qualità della vita urbana per tutti, oggi sopraffatta dal degrado e dalla dispersione». I non luoghi hanno creato la non città e a questa si associa la non campagna. La grande opera pubblica nazionale, cioè la ricostruzione del legame città-campagna e urbanizzazione-ambiente," è stata descritta da Cervellati e riassunta dal Mulino ancor prima che questa legislatura di destra nascesse. «Le mappe storiche (riportiamo in sintesi) ci guidano nell'individuare le aree da rinaturalizzare. Esse sono uno strumento orientativo per organizzare il territorio e riqualificare la progettazione edilizia». Dunque Prodi non sbaglia quando parla di bellezza, estetica, etica, "felicità". I padri costituenti sapevano quel che scrivevano quando nella Costituzione promisero "La repubblica tutela il paesaggio". «La ricostruzione del territorio, col recupero del tessuto edilizio, deve coniugarsi con interventi di organizzazione e localizzazione di servizi, funzioni, necessità. Il piano regolatore è uno strumento irrinunciabile per riqualificare la periferia in città, e dev'essere scritto nella natura e nella storia del territorio». Esse, natura e storia, «hanno risposte omogenee e consentono di individuare un obbiettivo generale, l'integrità fìsica e la salvaguardia culturale del territorio, su cui misurare qualità e quantità dello sviluppo» (Eduardo Zarelli).

Perciò bisogna fermare l'espansione urbana a megalopoli anarchica e tornare ai "luoghi", cioè alle citta-comunità, con rapporto corretto fra i vari luoghi di cui il centro storico è solo l'archetipo. È questo il policentrismo comunitario, lo sforzo per conquistare il nuovo senza rinunciare all'identità storica. Del resto, come insegnava Benevolo, «la città italiana ha i centri entro le mura». Si può tornarvi, in qualche modo, stipulando un patto di cittadinanza con chi abita fuori le "mura" perché possa non solo abitarci ma viverci "felicemente". Farà sorridere molti italiani di oggi, ma nella Costituzione americana, tra i vari diritti dei cittadini, è previsto proprio quello di «cercare la felicità».

Oggi e domani mattina metteremo le nostre schede nelle urne elettorali. Domani sera conosceremo i risultati. Ciascuno si metta la mano sulla coscienza e faccia le sue scelte.

Inutile e forse sciocco invocare soltanto la ragione, perché si sceglie anche d'istinto, per simpatie e antipatie, per antiche appartenenze giuste o sbagliate che siano, per interessi, per valori partecipati o per slogan mal digeriti.

Questo giornale non ha bisogno di dichiarare le sue preferenze poiché le scelse nel momento stesso in cui nacque trent'anni fa e da allora non le ha mai cambiate.

Siamo stati e siamo per l'eguaglianza nella libertà, per il mercato che dia a tutti pari punti di partenza, per il sostegno dei deboli e l'inclusione degli esclusi, per l'innovazione, per la crescita, per l'Europa, per lo stato di diritto. Insomma per la democrazia nelle forme e nella sostanza.

Questi sono gli ideali positivi per i quali ci siamo battuti. Quelli negativi sono il loro esatto contrario: l'autoritarismo, il populismo, la demagogia, l'egoismo, l'interesse proprio contrapposto a quello comune, l'autarchia e il protezionismo economico, la menzogna politica, la corruzione, l'insicurezza, la pigrizia intellettuale, il conformismo.

Non sono parole vuote. Ad ognuna di essa corrisponde una visione del bene comune e del paese che vorremmo.

Corrisponde una cultura, un assetto politico, una squadra di governo, un tipo di legislazione. La soluzione di problemi antichi troppo a lungo rimasti inevasi e di malanni e storture più recenti che hanno deturpato la nostra democrazia ancora fragile e incerta.

Mi auguro che domani sera un primo nodo sarà stato sciolto. Se così avverrà, agli altri si potrà pensare con più serena e pacata attenzione e con il concorso di tutte le persone di buona volontà. Se la nottata sarà passata.

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Non è retorica dire che il mondo ci guarda: l'Italia non è una sperduta nazione, un segmento irrilevante della comunità internazionale senza storia e senza memoria. Ha dato un contributo di grandissimo rilievo alla cultura antica e a quella moderna. Ha fornito modelli di comportamento nel costume, nella politica, nell'economia, nel diritto, nella scienza.

E' stata ed è una grande nazione, ma da molti secoli le è mancata l'esperienza e la cultura dello Stato. Troppo a lungo siamo stati colonia di questa o quella potenza estera, funzionali a interessi sovrastanti, pedine di giochi altrui. I centri del vero potere erano fuori dal nostro controllo. L'egemonia politica economica militare era altrove. Non c'erano diritti ma favori, non cittadini ma sudditi, non forze politiche radicate e autonome ma consorterie, clientele, oligarchie tributarie di lontane sovranità. Perciò lo Stato è stato vissuto come un potere estraneo e potenzialmente ostile, comunque sospettabile.

Questa situazione si è protratta anche quando lo Stato è finalmente nato anche da noi. La nostra lunga storia "coloniale" aveva infatti creato un retaggio di individualismo anarcoide che i centocinquant'anni di storia unitaria e i più recenti sessant'anni di storia repubblicana non sono riusciti a dissipare completamente.

Tracce visibili di quella vocazione anarchica restano tuttora e si rivitalizzano tutte le volte che l'insicurezza etica e sociale evoca la presenza di personaggi che dell'individualismo politico fanno un valore, della demagogia uno strumento possente e della politica un mercato di scambio per gli interessi delle "lobbies" nel quale tutto si può vendere e comprare. In fondo al tunnel la deriva plebiscitaria.

Quante volte ci capita di ascoltare la frase "io di politica non mi occupo" detta come la manifestazione virtuosa di un rifiuto del male. La politica come sentina delle nequizie anziché come luogo dove si amministrano gli interessi e il destino della città, della "polis".

I paesi che hanno dato forma alla nazione attraverso la presenza dello Stato danno i loro figli alle istituzioni che dello Stato costituiscono la nervatura, alle scuole dalle quali esce la classe dirigente del Paese. Ma qui da noi questa vocazione non c'è mai stata, questa selezione è inesistente. In politica, ma non soltanto. Il capitalismo italiano è altrettanto debole. La pubblica amministrazione non è motivata ed è priva di spirito di corpo. Di analoghe debolezze soffrono tutti i corpi intermedi, i poteri e le classi dirigenti locali.

Ecco dove dovrà fare le sue prove il riformismo forte evocato da Romano Prodi se il voto di oggi e di domani riuscirà a sgombrare il campo dall'anomalia berlusconiana.

I mali che abbiamo qui elencato sono antichi, appartengono alla nostra storia nazionale e Silvio Berlusconi non ne è certo la causa, così come non fu lo al suo tempo Benito Mussolini. Essi anzi, personaggi dissimili tra loro ma non privi di affinità profonde e analogie sorprendenti, sono stati il prodotto di quei mali. Ma li hanno cavalcati, risvegliati, attualizzati laddove bisognava invece e bisognerà curarli con somma attenzione affinché le istituzioni pubbliche e il concetto stesso della "res publica" si radichino nella coscienza civile degli italiani.

Da questo punto di vista la Costituzione repubblicana è uno dei pochi punti di riferimento che l'Italia abbia avuto nel sessantennio repubblicano e alcune figure istituzionali che da essa hanno tratto vigore e alla difesa dei suoi valori hanno dedicato la loro opera meritano riconoscenza e ricordo.

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Uso ancora con trepida incertezza la particella dubitativa "se".

L'evidenza della situazione in cui il paese è stato portato dalla pessima squadra che l'ha guidato negli ultimi cinque anni farebbe infatti supporre che in favore del cambiamento si conti domani una valanga di voti. Temo invece che l'auspicata vittoria sia risicata, tanta è stata la violenza emotiva con la quale l'anomalia berlusconiana ha risvegliato gli antichi malanni e vizi nazionali.

E comunque: se quella anomalia sarà rimossa dal voto bisognerà seguire con la massima attenzione lo svolgersi dei fatti fino all'insediamento del nuovo governo nato dalle urne. Ci vorranno infatti non meno di quaranta giorni prima che l'inquilino di Palazzo Chigi e i suoi ministri sgombrino le stanze del governo dalla loro presenza.

Quaranta giorni sono brevi per persone normali, chiamate soltanto a gestire l'ordinaria amministrazione in attesa che il nuovo Parlamento sia insediato, elegga il nuovo Capo dello Stato e questi a sua volta nomini il nuovo presidente del Consiglio e i ministri seguendo le indicazioni del voto popolare. Nel frattempo si svolgeranno alcune importanti elezioni comunali, l'elezione regionale in Sicilia e infine il referendum istituzionale sulla legge cosiddetta della "devolution".

Spero con tutto il cuore di ingannarmi, ma non sono tranquillo pensando a quei quaranta giorni durante i quali la squadra berlusconiana sarà senza più potere ma occuperà ancora le stanze e le manopole del governo. Mi auguro che, almeno alla fine della loro avventura, prevalga il senso dello Stato. Ove mai il loro leader covasse la folle idea d'un gran finale sulla falsa riga del "Caimano", mi auguro che i suoi corrivi compagni di strada glielo impediscano.

Sarebbe almeno un merito, tardivo ma importante, per aprire una pagina nuova e pulita e per ricominciare.

BARI – L’esercito degli ecomostri è ancora in piedi. Ferito a morte Punta Perotti, crollato per un terzo, a Bari, domenica mattina, restano da demolire decine di brutture e scempi sparsi un po’ ovunque. Per uno che cade, insomma, almeno sedici ne restano in piedi: sedici emergenze che Legambiente ha sottolineato con ,’evidenziatore, in un dossier intitolato «I complici di Punta Perotti». Sedici mostri che sfidano il tempo e la legalità, oltre che il paesaggio e la bellezza di luoghi mozzafiato. Ma c’è di più.

Se il sindaco di Bari, ex pm antimafia, dichiara che ,’abbattimento di Punta Perotti è stata «la battaglia giudiziaria più difficile della sua vita », mentre i costruttori minacciano la richiesta di un risarcimento milionario, a Licata, in Sicilia, accade esattamente il contrario: è la ditta di demolizioni Scirè a chiedere un risarcimento al comune. Il perché? L’amministrazione comunale non adempie alla demolizione dei mostriciattoli cresciuti a ridosso del mare, demolizione che è stata addirittura definita per contratto. E. una storia che risale al Duemila, spiega Giuseppe Arnone, avvocato e responsabile della segreteria di Legambiente, che sta curando personalmente la causa di risarcimento: «Nel 2000- spiega Arnone - anche per via di Ciro Lomastro che era un prefetto molto energico, si giunse finalmente alla chiusura di un contratto tra una ditta di demolizioni - ,’unica che aveva dato la propria disponibilità - e il comune di Licata. La ditta avrebbe dovuto demolire gli immobili, definiti "insanabili", sulla costa. In altre parole: centinaia di costruzioni escluse dalla sanatoria edilizia.

Il contratto si chiuse, e cominciarono le prime demolizioni». Iniziarono, ma terminarono presto: «La ditta riuscì a effettuarne soltanto cinque. Il prefetto fu trasferito e da allora non s’è mosso più niente. E. cambiato anche il sindaco, ora c’è Angelo Biondi (An), e ,’impresa ha sollecitato più volte ,’amministrazione, affinché si potesse ultimare ,’operazione. Ora il contratto è scaduto. L’impresa ha affrontato molte spese per la demolizione e, il 25 aprile, ha fatto causa al comune per ottenere il risarcimento dei danni: 50mila euro».

Le costruzioni di Licata non sono tra le mostruosità più ingombranti del paese, non figurano tra i sedici ecomostri censiti da Legambiente nel suo dossier, ma spiegano bene come sia difficile far piazza pulita del,’abusivismo edilizio in Italia. E in particolare al Sud, specialmente in Sicilia e Campania, che si contendono il primato della sfregio al paesaggio, e dove spesso ,’abusivismo non collima soltanto con ,’inerzia delle amministrazioni, ma soprattutto con la forza militare e intimidatoria di mafia e camorra. La valle dei tempi di Agrigento, per esempio, costruita nel bel mezzo di un.area archeologica: in parte sono state abbattute, con un lunga battaglia vinta, in parte, nel 2001, quando le prime ruspe iniziarono a stritolare il cemento, varcando per la prima volta la soglia della valle. La prefettura di Agrigento e il Genio militare diedero il via libera: sei scheletri andarono giù. Ma molti altri restano ancora in piedi e Legambiente denuncia ,’inerzia della regione guidata dal forzista Totò Cuffaro. Oppure le ville abusive di Pizzo Sella, cresciute su quella che a Palermo, ormai, tutti chiamano la «collina del disonore». Sono ormai patrimonio del comune, ma nonostante la Cassazione abbia definitivamente stabilito ,’illiceità della loro lottizzazione, restano lì come se nulla fosse. Per intendersi: tra le concessioni, ne figurava una intestata alla sorella di Michele Greco, boss conosciuto come «il papa». «Per noi, in Sicilia, conclude ,’avvocato Arnone, «in questi anni il problema principale non è stato quello di abbattere: abbiamo dovuto invece contrastare la nascita di nuovi mostri, di sanatorie e nuove concessioni». Insomma, una vera e propria resistenza.

In Campania è emblematica la storia del,’albergo Castelsandra, detto anche «,’hotel della camorra ». «E. stato costruito nel 1971 su un promontorio stupendo da un imprenditore belga - spiega Michele Bonuomo, responsabile regionale di Legambiente - Poi ceduto a famiglie che, a quanto pare, erano legate alla camorra. C.è chi dice che sia stato costretto a farlo dopo forti pressioni. Queste famiglie ampliarono la struttura, costruirono villette tutt.intorno, costruzioni che in realtà erano dipendenze del,’albergo stesso.

E come se non bastasse costruirono anche un orribile ascensore sulla spiaggia, nonostante, si badi bene, l’albergo non sia esattamente sulla spiaggia. Fu una sorta di prova di forza». L’ascensore, almeno quello, fu abbattuto tre anni fa. A colpi di dinamite. «Però ,’albergo è ancora in piedi», continua Bonuomo. A quanto pare a causa della ferma opposizione del comune di Casltellabate. «La Regione, il parco del Cilento e il ministero del,’Ambiente sono per ,’abbattimento - spiega Bonuomo - ma il comune si oppone e propone un progetto di riqualificazione: ,’albergo, quello costruito dal,’imprenditore belga, non era abusivo, ma per le villette si può procedere tranquillamente al,’abbattimento». E invece non si procede. Un braccio di ferro che dura almeno da tre anni.

Nel frattempo s’è scoperto che, sebbene non abusivo, ,’albergo è comunque illegittimo: «Nella zona sulla quale è stato costruito esistevano usi pubblici e inalienabili. Purtroppo siamo in un’area rappresenta ancora l’impunità - conclude Bonuomo - in Campania si segnalano 20 casi di abusivismo al giorno. Molti dei quali sulla costiera amalfitana». E anche la Toscana, benissimo. Uno scandalo chiamato «Elbopoli», per spiegare che intorno all’ecomostro di Procchio, sull’isola d’Elba, erano coinvolti anche nomi insospettabili: furono rinviati a giudizio due ex prefetti, un magistrato, un sindaco, costruttori e tecnici privati e pubblici. Fu sequestrato nel 2003, non è ancora stato demolito. E ancora: 11mila metri cubi di cemento armato che sovrastano ,’insenatura dello lo «spalmatoio», a Giannutri, un’isola che fa parte dell’arcipelago toscano. In Liguria hanno sfregiato persino le Cinque Terre: lo «scheletrone» di Palmaria, alto trenta metri, costruito su un isolotto di fronte a Portovenere.

Una vicenda iniziata nel 1975 che ancora non trova una soluzione, dopo un’infinita serie di rimpalli che, forse, soltanto ora potrebbero portare la giunta regionale e ,’amministrazione comunale al tanto sospirato abbattimento. Il paesaggio, insomma, continua a subire abusi senza sosta. Gli ultimi cinque anni sono stati da record: nel 2004, soltanto nel Lazio, sono stati registrati 2936 casi di abusi edilizi. E a Licata c’è un’impresa coraggiosa che non riesce a far partire le ruspe.

Dall'organizzazione appello ai 21 paesi che si affacciano sul bacino

"Danni enormi se non si sceglie la strada dello sviluppo sostenibile"

ROMA - Un metro di spiaggia e poi un metro di cemento, cento centimetri di scogli e altri cento di asfalto. E' il drammatico destino delle coste del Mediterraneo da qui ai prossimi venti anni se i 21 paesi che si affacciano sul vecchio Mare Nostrum non cambieranno drasticamente i loro comportamenti, imboccando in maniera decisa la strada dello sviluppo sostenibile. A lanciare l'allarme è l'Unep, il programma ambientale delle Nazioni Unite, che ha creato un'apposita sezione, la Map (Mediterranean action plan), per la tutela del Mediterraneo.

Il Blue Plan, il dossier realizzato dall'organizzazione per fotografare lo stato di salute ambientale delle coste mediterranee e i rischi ai quali vanno incontro, è stato presentato a Roma in occasione dell'apertura di Park Life, il "Salone dei parchi e del vivere naturale". Il quadro è a tinte fosche, anche se il coordinatore del progetto, il maltese Paul Mifsud, si è premurato di precisare che "comunque negli ultimi 15-20 anni moltissimo è stato fatto".

Le minacce per il Mediterraneo, uno dei 25 hotspots mondiali per la biodiversità, si chiamano cemento, traffico marittimo, turismo di massa, sovrappopolamento. "Attualmente - si legge nel dossier dell'Unep - il cemento sottrae alla natura il 40 per cento dei litorali dove vive il 7% di tutte le specie marine mondiali. Ma questa cifra è destinata a crescere: entro il 2025 oltre il 50% delle coste sarà cementificato". Si tratterebbe dell'inevitabile risultato della pressione demografica che in riva al mare ogni anno cresce a un tasso dell'1 per cento. "E' facile immaginare - prevede ancora il Blue Plan - che la popolazione che abita le città costiere raggiunga la cifra di 90 milioni di abitanti entro il 2025 rispetto ai 70 milioni registrati nel 2000".

A farne le spese non sarebbe ovviamente solo il piacere romantico di una passeggiata a piedi nudi sul bagnasciuga. L'Unep, oltre a temere gravissime ripercussioni ambientali, soprattutto sulle fragili e fondamentali zone umide presenti in corrispondenza con i grandi estuari dei fiumi, quantifica il danno in termini monetari. "Il valore strettamente economico di questi ambienti - ricorda il dossier - è di gran lunga superiore a quello di laghi, fiumi, foreste e praterie e può arrivare ai 2,4 milioni di euro per chilometro quadrato".

Altro problema sarebbe poi quello legato all'erosione delle coste, da un lato minacciate dall'innalzamento dei mari dovuto al riscaldamento globale, dall'altro sempre meno rifornite di sedimenti di origine fluviale. "La cementificazione del letto di fiumi e torrenti assieme alla costruzione di dighe e la deviazione artificiale dei corsi d'acqua - denuncia ancora il Blue Plan - ha infatti diminuito del 90 per cento la quantità di sedimento che raggiunge il mare negli ultimi 50 anni".

Il dossier, realizzato in occasione del trentennale della Convenzione di Barcellona, primo tentativo di collaborazione internazionale per la salvaguardia del Mediterraneo, cerca anche di proporre delle linee di azione per invertire la rotta. La parola magica è naturalmente "sviluppo sostenibile", con tutto il suo corollario di scelte nella gestione del territorio, nello sfruttamento delle risorse idriche, nella valorizzazione dell'eco-turismo, nelle scelte strategiche in materia di trasporti.

L'Unep spera di imporlo ai 21 paesi che si affacciano sul Mediterraneo attraverso una rete sempre più vincolante di Protocolli. Sei di questi già esistono, ma il più importante deve ancora vedere la luce. Entro il 2007 dovrebbe essere fissato infatti uno stringente quadro normativo, che si spera gli Stati vogliano assumere anche come vincolo legale, per fissare i criteri di sfruttamento del territorio costiero.

Una materia nella quale una volta tanto l'Italia (o per meglio dire una sua regione) è all'avanguardia, visto che uno dei modelli ai quali questo Protocollo potrebbe ispirarsi è la legge varata recentemente dalla giunta regionale della Sardegna per tutelare le sue coste dallo sfruttamento edilizio.

Appello a Romano Prodi, a Bologna e a Roma, di un folto gruppo di intellettuali, di addetti ai lavori nell’ambito dei beni culturali e ambientali: in tv, nei comizi, negli incontri, parli di più di cultura e di ambiente come valori fondativi della nostra identità nazionale, come investimento pubblico strategico per conservare, tutelare e far conoscere il grande e minacciato patrimonio storico-artistico-paesistico. Glielo rivolgono da mesi oltre trecento esperti e specialisti di questa materia. Glielo hanno ripetuto martedì scorso a Bologna in una tavola rotonda (con Ezio Raimondi, Felicia Bottino, Pier Luigi Cervellati, Marco Cammelli, Andrea Emiliani, Ennio Riccomini e altri) e giovedì scorso a Roma, nel corso di un convegno dal titolo di per sé significativo: “Beni culturali: una politica da ricostruire”, organizzato da Assotecnici, Bianchi Bandinelli e Comitato per la Bellezza. Un dibattito intenso, quest’ultimo, coordinato da Maria Serena Palieri e animato da Irene Berlingò la quale ha ribadito i punti di vista della associazioni. Alla maggioranza degli intervenuti nel vivace dibattito piace in realtà di più la dizione spadoliniana: beni culturali e ambientali. Indebolito, con un errore storico, il rapporto fra loro, in realtà il territorio italiano risulta sgovernato e con esso il paesaggio. Specie dopo il confuso, mediocre Codice Urbani che in poco tempo ha subito già due rimaneggiamenti ministeriali. Per non parlare della nuova legge sull’ambiente: un vero smantellamento della tutela.

Qual è la “missione” del Ministero oggi? “Dobbiamo studiare, lavorare per conservare, per tutelare, o per vedere qual è il maggior reddito possibile ricavabile da quel bene?”, si è chiesto il soprintendente di Pompei, Piero Guzzo. In campo ambientale non va meglio, come ha osservato Gaetano Benedetto segretario generale aggiunto del Wwf: “Difendere la natura sembra diventato un corollario della politica ambientale, non la missione fondamentale degli Enti parco”. Su questo punto strategico è stato molto preciso l’ex ministro dei BC, senatore Domenico Fisichella: “Siamo di fronte ad una questione nazionale che è tutt’uno con la statualità. Io non sono statalista e però c’è stata una deriva economicistica che rischia di snaturare il carattere del bene culturale che è bene pubblico. Esso è irriproducibile e quindi unico, mentre il bene economico è riproducibile, anzi seriale. Certo, anche il primo può avere ricadute economiche, ma il suo valore di fondo è pubblico”. Fisichella ha criticato in profondità l’attuale situazione del Ministero (“Mischia contraddittoriamente privatizzazione e burocratizzazione”) e la secca riduzione dei fondi. Un altro ex ministro, Giovanna Melandri, ha rivendicato la scelta di un Ministero della Cultura, “alterato però dalla riforma interna, con le direzioni regionali che, da organismi di coordinamento e da interfaccia delle Regioni, sono diventate organismi di gestione svuotando le Soprintendenze territoriali”. Melandri ha chiesto la cancellazione della “Arcus SpA”: così com’è configurata oggi, essa è una sorta di cassaforte per i ministri delle Infrastrutture e dei Beni Culturali. “Bisogna restituire finanziamenti stabili e adeguati alla mano pubblica. Se essa non è forte, neppure i privati vengono attratti”. Sul possibile allargamento delle competenze al turismo ha messo un punto interrogativo.

La maggioranza degli intervenuti ha però detto no a questa prospettiva: il turismo è un indotto del patrimonio storico-artistico-ambientale, è altra cosa; certo esige un centro di coordinamento nazionale e però non va mescolato con la tutela del patrimonio stesso, né la deve influenzare. “Nel 1870”, ha esemplificato Mario Torelli, archeologo e rappresentante del Pdci, “il grande Theodor Mommsen andò a Firenze ad incontrare il ministro dell’Istruzione, Pasquale Villari, e gli disse: “A Roma si va solo con idee universali”. E Villari di rimando: “E noi l’abbiamo: la Scienza”. Poteva essere ingenua utopia, ma la spinta ideale era assai forte. Ne vediamo poca invece nel programma dell’Unione per la cultura”. Un’opinione piuttosto condivisa. “Certe impostazioni liberiste e privatizzatici del patrimonio artistico e ambientale c’erano già nei gioverni di centrosinistra”, ha sottolineato Gaetano Benedetto. “Il centrodestra le ha estremizzate in modo becero. Il maquillage non basta certo”. “Dopo le elezioni”, è stato l’appello dell’assessore verde all’Ambiente della Regione Lazio, Angelo Bonelli, “dobbiamo ritrovarci per creare un fronte di intellettuali, di forze politiche che credono ancora ai beni culturali e ambientali come a valori costitutivi del Paese e della sua identità, che li considerano, per principio, inalienabili”. “La separazione fra beni culturali e beni ambientali è stata un grave danno”, gli ha fatto eco Patrizia Sentinelli di Rfc. “Bisogna ridefinire in tal senso l’orientamento di fondo del Ministero, mirando a ricostruire una strategia di conservazione e di tutela.” Che fare allora del Codice Urbani e della legge ambientale Matteoli? “Con un decreto il nuovo governo Prodi potrebbe sospenderne l’efficacia”, ha chiarito Sauro Turroni, vice-presidente della commissione Ambiente del Senato e protagonista dell’affossamento della disastrosa legge urbanistica del centrodestra. “La direzione di marcia dev’essere quella”.

Certo, il Ministero non funziona e sembra in stato confusionale. Pio Baldi, direttore generale, ha evidenziato le “criticità gestionali”: “Dieci anni fa, i passaggi di una pratica di restauro erano quattro. Oggi sono sette. Salvo complicazioni. Una catena di comando che non funziona più”. Ci sono ampi vuoti nelle file dei custodi (nella frequentatissima Pompei appena 360 sugli 872 previsti) e in quelle degli stessi dirigenti: “Ne mancano ormai una sessantina, e i più giovani hanno 50 anni”, ha denunciato il segretario della Uilbac,Gianfranco Cerasoli. “La spesa ordinaria del Ministero prevede 23 centesimi a testa per la formazione dei dipendenti...” A Villa Adriana, per 80 ettari, la vigilanza è ridotta a 40 persone, ha fatto presente Anna Maria Reggiani, direttore centrale.“Viviamo tutti un grande disagio”. I rappresentanti degli archivisti (Ferruccio Ferruzzi) e dei bibliotecari (Mauro Guerrini) hanno portato cifre agghiaccianti: fra dieci anni non ci saranno più archivisti professionali, bisognerà chiedere all’Unesco di occuparsene? L’ultimo concorso per archivisti risale al ’74, quello per bibliotecari all’84, il personale della Nazionale di Firenze si è, in pratica, dimezzato. Il declassamento dell’alta dirigenza è stato sottolineato anche da Marisa Dalai, presidente della “Bianchi Bandinelli”, insieme allo svuotamento operato dei Comitati di settore e dello stesso Consiglio Nazionale, organismi tecnici e democratici come devitalizzati. Anche così nascono leggi e regolamenti mediocri e confusi. Bisogna ripristinare un rapporto forte con l’Università, hanno concordato Dalai e Giovanni Sassatelli, preside di Lettere a Bologna. “Il Ministero ha smarrito il senso, lo scopo della propria esistenza. L’aspetto fondativo va recuperato, come il rapporto col territorio, un rapporto praticamente tagliato,” ha osservato il direttore regionale di Puglia e Molise, Ruggero Martines, “così il territorio non lo governa più nessuno”. Siamo al disastro. Coi piani paesistici della Galasso finiti nel dimenticatoio; col Codice Urbani che li prevede ma non si sa quando; con leggi regionali (vedi Storace nel Lazio) che li subordinano alle trasformazioni urbanistiche. “Di paesaggio non si parla quasi mai”, ha rilevato l’ex sottosegretario, Giampaolo D’Andrea, “il paesaggio è scomodo, per tutti”. Il divorzio fra norme paesistiche e norme urbanistiche deve cessare al più presto, in tutte le regioni. Altrimenti, a contare è il geometra del piccolo Comune, sub-delegato dalla Regione (anche in Toscana, errore mortale) a vigilare sulla compatibilità fra piani e progetti. Il controllato è diventato controllore di se stesso. “La deroga urbanistica poi”, ha denunciato Paolo Berdini, urbanista, “è ormai una pratica costante, distruttiva”. Bisogna davvero voltare pagina, su tutta la linea. Appuntamento a dopo le elezioni del 9-10 aprile. Per una forte azione programmatica in tal senso.

Pechino - L’autostrada urbana a dieci corsie è tappezzata di cartelloni pubblicitari che sfacciatamente fanno il verso all’iconografia della Cina comunista. I personaggi scimmiottano le pose eroiche in voga sotto Mao Zedong. Vent’anni fa il paese era ancora pieno di manifesti e monumenti con statue titaniche di gruppi di operai e contadini uniti nella lotta. Qualcuno impugnava la bandiera rossa, altri falce e martello, piccone e badile, lo sguardo proteso verso il sol dell’avvenire e la costruzione del socialismo. Nei manifesti di questa campagna invece i soggetti sono top model e giovani attori, signorine in minigonna con scollature e ombelico al vento, teenager in jeans e bandana. Falce e martello sono sostituiti da borse e accessori di lusso. Verso il sol dell’avvenire una ragazza sospinge il carrello del supermercato stracolmo di roba, un’altra brandisce una flûte di champagne. La terza top model agita davvero una bandiera rossa, ma sopra c’è il logo del costruttore edile che in questo quartiere vende appartamenti a schiera attorno alla nuova attrazione di Pechino: il più grande shopping mall del mondo.

Se credete di aver già visto i King Kong urbanistici del consumismo moderno negli Stati Uniti, patria dei giganteschi centri commerciali, vi sbagliate. Gli shopping mall americani scompaiono in confronto a questa Cosa che è sorta dal nulla nella zona nord-ovest di Pechino: è Jin Yuan, il Mall delle Risorse d’oro, la madre di tutti gli shopping center del pianeta. Soprannominato anche The Great Mall of China perché le sue dimensioni inaudite evocano The Great Wall, la grande muraglia. Per definire questo colosso gli architetti hanno dovuto coniare il nuovo termine di shopping city. In effetti la scala di grandezza è proprio quella di una città: nelle giornate di maggiore affluenza vi fanno la spesa 400mila consumatori, più degli abitanti di Bologna o Firenze.

Con 650mila metri quadrati di superficie coperta, il centro Jin Yuan ha polverizzato i record storici che appartenevano al West Edmonton Mall di Alberta (Canada) e al Mall of America del Minnesota. L’edificio-mostro di Pechino occupa lo spazio di sessanta campi di calcio, copre oltre cinque volte il Pentagono di Washington, finora la più larga costruzione del mondo. L’altezza media varia dai dieci ai cinque piani, e sono piani molto alti per via dei grandi magazzini e delle sale cinematografiche. Contiene mille fra ipermercati, supermercati, negozi e boutique, duecento ristoranti, cinema multiplex da 1.300 posti, club privati con night club, discoteche, karaoke-bar, sale per fitness e massaggi, molti esercizi aperti sette giorni su sette fino alle dieci di sera o anche giorno e notte, 365 giorni all’anno vacanze incluse. Il parking sotterraneo da diecimila posti auto è annesso a un’altra città invisibile e interrata: lo stadio del ghiaccio dove i genitori possono lasciare i figli a pattinare mentre vanno a fare la spesa.

In questo tempio faraonico del nuovo consumismo cinese lavorano ventimila dipendenti a tempo pieno più un esercito di avventizi delle ditte di pulizie, manutenzione, vigilanza, trasporti e consegne. Tutto intorno il costruttore continua ad allargare il complesso: ha comprato 1.800.000 metri quadrati dove innalza 110 grattacieli di appartamenti residenziali, uffici e scuole. Il terreno va a ruba perché questa non si può più definire periferia. È la zona hi-tech di Pechino, dove hanno sede i campus universitari, fra il terzo e il quarto anello dei "raccordi anulari interni". In tutto i 17 milioni di abitanti della capitale si estendono entro il perimetro di sei tangenziali urbane, grande quanto l’intero Belgio. Il solo "quartiere" che gravita nelle vicinanze dello shopping mall Jin Yuan ha un milione di abitanti.

Visitare interamente The Great Mall of China è un’impresa impossibile. Camminando a passo di gara, dalla mattina fino a notte fonda, si riesce a vederne solo una piccola parte. Le distanze sono tali che si possono affittare macchinine elettriche a due posti per spostarsi con anziani e bambini piccoli. Gli adolescenti per recarsi da un punto all’altro sfrecciano nei corridoi coperti su pattini a rotelle o skateboard. La zona dei grandi magazzini eleganti è una divertente mescolanza di vero lusso per ricchi - reparti Fendi, Gucci, Geox, Dupont, Dunhill, Pierre Cardin, Guy Laroche - e di "quasi vero" che è l’alternativa legale alla pirateria, cioè la moltitudine di marche cinesi che adottano nomi italianeggianti dal suono evocativo come Galace e Versino.

Nei boulevard coperti che ospitano le centinaia di boutique sono strapiene di pubblico le gioiellerie - i cinesi fanno incetta di oro e diademi -, le agenzie di viaggi che cavalcano il boom del turismo all’estero, i rivenditori telecom dove anche le bisnonne vanno a comprarsi il cellulare. La zona casa è un’altra città nella città, centinaia di negozi di cucine design ed elettrodomestici, compresa la Ariston, per arredare gli appartamenti in stile occidentale della middle class urbana. Una vasca da idromassaggio made in Germany arriva a 169.000 yuan, 17.000 euro, lo stipendio di un anno di un impiegato di medio livello.

Dove i prezzi sono così cari non c’è gran folla. La calca raggiunge il suo massimo nell’altra shopping-city semi-interrata che è il regno degli ipermercati alimentari. Lì la folla invade i corridoi dei prodotti di largo consumo. Assalto gioioso ai reparti gastronomici dei cibi freschi, montagne di anatre pechinesi alla faccia della febbre aviaria, ogni sorta di leccornia come i ravioloni dim-sum ripieni, fritti o bolliti, le focacce le frittelle gli spaghetti, i tè pregiati, i funghi preziosi in vasi di porcellana, le uova nere macerate e stagionate: un pezzo della vecchia Cina dei mercati rionali si è impadronito delle viscere dello shopping-moloch.

Il cibo domina anche un altro settore della città-satellite. All’ultimo piano del centro commerciale ci sono vialoni coperti destinati ai ristoranti. Ogni locale esibisce insegne al neon dai colori accecanti, cameriere in abito lungo attirano i clienti alla porta. Sono strapieni e offrono il patrimonio umano della cucina, asiatica e non: da Canton al Sichuan, dalla marmitta tartara alla grigliata coreana, dal sushi all’Australia alla Russia. In mezzo alle file infinite di ristoranti i corridoi del mall ospitano bancarelle di libri e dvd, una caotica accozzaglia di corsi di inglese, di management e yoga, fianco a fianco film porno e documentari su Mao e Deng Xiaoping. I club di sauna fitness e massaggi chiedono una tassa d’iscrizione minima di mille euro, diecimila euro per il trattamento vip (chiedendo spiegazioni sulla differenza ottengo sorrisi radiosi dalle impiegate). Nei cinema multisala straripa Hollywood ma curiosamente si proietta anche una storia dell’Opera di Pechino. Se mi spingessi più avanti, sempre più lontano, forse raggiungerei in futuro quell’altra ala della città coperta, sperduta laggiù all’orizzonte, dove cominciano i concessionari di automobili. Ma la giornata sta per finire.

Geng Kai e Yu Jie tirano il fiato dopo cinque ore di shopping, sono seduti a mangiare spaghetti di riso comprati da un fast food. Fidanzati, lui ha 28 anni e lavora per una tv via cavo, lei 26 ed è impiegata in un’assicurazione: «Da quando hanno inaugurato Jin Yuan ci veniamo molto spesso, almeno tutti i weekend, e qui incontriamo anche la maggior parte dei nostri amici. Compriamo da mangiare, i vestiti, le Nike e le Adidas, andiamo al cinema. Come minimo spendiamo 200 yuan (20 euro) ogni volta che veniamo, senza contare i vestiti. È il posto ideale, c’è tutto quello che ci serve: cibo, moda, divertimenti, elettronica. Questa zona di Pechino ha cambiato volto, ora Jin Yuan è il centro della vita del quartiere».

Moltiplicata per la scala demografica cinese, questa è la ricetta americana: lo shopping mall come calamita della vita quotidiana, luogo d’incontro nella città moderna, centro di gravità del tempo libero e delle relazioni sociali. In questo posto sono ben visibili le tracce dell’evoluzione dei costumi nella Cina contemporanea. I consumi status symbol dei nuovi ricchi sono qui: negozi di articoli da golf, supermercati di elettronica con i televisori ultrapiatti al plasma, tapis roulant per la fitness, un’orgia di prodotti cosmetici L’Oréal e Shisheido. Giovani coppie entrano a far compere in negozi di biancheria intima sexy stile Victoria’s Secret, ed è un paese dove vent’anni fa un bacio in pubblico era scostumato. Ma il più grande shopping mall del mondo non è soltanto il paradiso della middle class benestante. Ci sono signore di mezza età che si accontentano di stare sedute sulle panchine a guardare la gente che passa, nonni che portano i nipotini come fosse lo zoo. L’ambiente moderno, i grandi spazi, la pulizia, le luci potenti, le vetrine sfavillanti: tutto trasuda modernità e comfort. Passeggiare a Jin Yuan è già uno status symbol. Un modo di affermare la propria appartenenza sociale. Farsi vedere in un luogo di lusso. Assomigliare un po’ a quella Cina pop e postmoderna dei cartelloni pubblicitari, delle top model miliardarie che spandono ironia sui padri maoisti.

Jin Yuan è solo la punta dell’iceberg. In tutta la Cina dilaga la febbre degli shopping mall. Ne sono stati costruiti quattrocento in pochi anni, la dimensione media è sei-sette volte superiore rispetto a quelli che si costruiscono oggi negli Stati Uniti. Entro il 2010 la Cina avrà sette dei dieci shopping mall più grandi del pianeta. A Dongguan, nella Cina meridionale, ne hanno inaugurato uno che include una sorta di Disneyland con repliche di Parigi, Hollywood e Amsterdam. Nel business si sono lanciati anche colossi stranieri come la banca americana Morgan Stanley, alleata con gli ipermercati Wal-Mart e i cinema Warner, e il gruppo alberghiero Raffles di Singapore. C’è chi teme che sia una bolla speculativa destinata a scoppiare malamente, perché centri di queste dimensioni hanno bisogno come minimo di un’affluenza quotidiana di 70mila visitatori, al di sotto rischiano il fallimento. Ma i cinesi hanno una formula per "spalmare" il rischio: tutti gli spazi vengono affittati a miriadi di commercianti, se gli affari vanno male sono in molti a perderci, non è il crac di un singolo colosso.

Per il momento la dinamica del consumo rimane forte. In quattro anni le spese dei cinesi sono cresciute del cinquanta per cento. Il capodanno lunare 2006 (fine gennaio) ha registrato il quindici per cento di aumento dei consumi rispetto all’anno scorso. «Entro cinque anni», prevede l’economista Jonathan Garner del Crédit Suisse First Boston, «questo paese avrà superato gli Stati Uniti per gli acquisti di personal computer». Per i beni di lusso secondo la Goldman Sachs la Cina è già il terzo mercato mondiale. Radha Chadha, studioso di psicologia dei consumi, ha diviso i ceti medioalti cinesi in tre categorie. I veri ricchi che possono permettersi tutto. I colletti bianchi in ascesa sociale che sono disposti a fare sacrifici per esibire status symbol costosi. Infine la terza categoria è quella che si combina meglio con la cultura made in Usa dello shopping mall: sono gli scatenati giovani sotto i venticinque anni che non badano a spese perché hanno già scoperto l’altra grande invenzione su cui si fonda l’America: i debiti.

Ho passato molte estati della mia vita in un bellissimo paese della riviera Ligure occidentale, tra Alassio e Imperia: Cervo Ligure. E le rare volte in cui penso al mio passato, mi accorgo che è l´unico luogo che conservo, intero o quasi intero, nella mente. Il paese risale all´undicesimo secolo: quando ero ragazzo, conservava il suo profumo medioevale. Strade che risalivano ripidissime, interrotte da fitti gradini: vicoli, vicoli e vicoli, portici, gallerie, sottopassaggi, archetti e arconi, case che aprivano le persiane nelle persiane della casa di fronte, antiche fontane, davanti alle quali le donne facevano conversazione dalle otto alle dodici di ogni giorno, grosse sbarre di ferro che salvaguardavano i muri contro il terremoto. Ogni tanto, una panchina permetteva agli anziani di riprendere fiato: mentre i bambini correvano follemente, risalendo in quattro minuti tutto il paese, presi dalla gioia e dall´ebbrezza della salita.

Il paese sapeva di pietra: salvo i luoghi dove innumerevoli gatti semiselvaggi alzavano la coda, spiavano, si intrufolavano, si azzuffavano, si contendevano furiosamente i resti del pesce abbandonato per loro nell´angolo di un giardino. Nella parte alta di Cervo, durante le giornate limpide, si scorgeva dal vasto sagrato l´ombra tenue della Corsica. A metà del sagrato, c´era una scalinata grandiosa come quelle di Roma secentesca. E lì sopra una chiesa barocco-rococò, con la facciata concava e un intreccio di frontoni, statue, stucchi, finestre, colonne, pilastri, che sembrava lavorata a mano da una ricamatrice laboriosa, mostrava le pallide creme dei suoi rosa e dei suoi verdini.

Fino agli inizi del Settecento, il paese era assalito dai pirati saraceni: forse gli stessi che nel medesimo periodo arrivarono fino alle coste dell´Islanda. Dappertutto furono costruite torri e torrette, che annunciavano con messaggi di fuoco l´arrivo dei pirati e preparavano le difese. Una di queste torri era diventata la terrazza di casa mia. Sulla facciata della casa, un modesto pittore di Porto Maurizio aveva effigiato, all´interno di una finestra cieca, un pirata barbaresco che stringeva tra le braccia una timida vergine ligure. Oggi i colori dell´affresco sono quasi cancellati, come se tutto fosse scomparso: i pirati, le difese, le flottiglie dei pescatori di corallo, e la storia di Cervo Ligure, che in quel tempo era così attiva, ricca e vivace.

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Non parlerei di Cervo Ligure, se non fosse, per me, il paese dove ho scoperto i "nomi". Tutte le cose avevano un nome: ogni casa, ogni vicolo, ogni fontana, ogni giardino, ogni piccolo orto, uno slargo, un ciuffo di ulivi o di carrubi, le magre colline dove gli antichi capitani di mare coltivavano il pomodoro e il basilico, e nella pianura le serre con le primizie e i fiori.

Sopratutto, avevano un nome le spiagge. In fondo al paese, c´era il "Pilùn", una spiaggia di sassi quasi rotondi, suddivisa in nomi ulteriori. Nella "Mainetta", al riparo di una grande roccia rossastra, facevano il bagno i bambini di due o tre anni. Dopo i sei o i sette anni si avventuravano al largo. Scivolavano presso uno scoglio coperto di erbe e di alghe, la "Pulce", e presso il "Cascìn", del quale non riesco a ricordare niente. La meta era la "Ciappa", uno scoglio sottomarino a trenta o quaranta metri da riva, che dava l´impressione di stare sempre per uscire dalla superficie del mare. I bambini raggiungevano la "Ciappa": posavano i piedi sopra un foltissimo tappeto di alghe; e di lì salutavano trionfalmente la madre e i fratelli rimasti a riva. Era una specie di iniziazione. Chi aveva posato i piedi sopra la "Ciappa", apparteneva già al mondo dei veri nuotatori.

Verso Oriente, il "Porteghetto" distendeva le sue lastre rossastre, spaccate in due da un´insenatura: di lì si gettavano in acqua i virtuosi dei tuffi. Era il luogo dell´orgoglio virile e dell´esibizione. Quattrocento metri più avanti, discendevano le scogliere grigie delle "Ciappellette", circondate da decine di piccoli scogli, pieni di patelle, di granchi e specialmente di grossi granchi pelosi chiamati "fangulle". Lì la pesca diventava la caccia. Con un coltello o un robusto filo di ferro tra i denti, i ragazzi salivano le rocce, si insinuavano tra gli scogli, balzavano da una pietra all´altra. Avevano una meta: le fessure dove si nascondevano le "fangulle". In fondo alle fessure, si intravedevano il pelo, gli occhi loschi e brillanti, le grosse chele che attendevano, semiaperte, una preda invisibile. Bisognava tirarle fuori col fil di ferro, inseguirle se fuggivano in un altro nascondiglio, scovarle e riscovarle, o colpirle all´improvviso con un colpo spietato di coltello.

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Ora che ripenso a quell´infinito intrico di nomi, a volte non riesco a ricordarli, li confondo e non so cosa darei per ritrovare il vero nome di una macchia o di un sasso. Chi aveva inventato quei nomi, non voleva certo appropriarsi della natura, marchiandola con un segno umano. Allora tutti sapevano che gli alberi e gli orti e le fontane e le spiagge erano "individui", e nascevano, vivevano e morivano obbedendo alla propria identità e al proprio nome. Nessuno cercava di abolire queste identità: una pianta di fichi fiore o di fichi "brigiassotti" aveva quasi il carattere individuale di un essere umano, e andava preservata con attenzione. Il bello dell´esistenza era proprio questo. L´universo era gremitissimo di creature viventi, tutte diversissime tra loro, e noi, uomini, portavamo soltanto una piccola parte dei nomi del mondo. Giravamo, guardavamo, ci intrufolavamo tra le creature: qualche volta le uccidevamo o ci perdevamo nel loro intrico; ma non cercavamo mai di inglobarle nel mondo umano.

Poi avvenne il disastro. Nella pianura, dove prima nasceva ogni specie di primizia, il terreno fu venduto, suddiviso, scavato, violato dalle ruspe, e persino sulla spiaggia, a cinque metri dal mare, sorsero orribili casamenti scuri: i "piemontesi" vennero a immergere i pallidi piedi nelle acque timorose del Mar Ligure. Moltissime cose furono abolite e scomparvero: ma il vecchio paese medioevale riuscì a salvarsi. Arrivò all´improvviso la grande epoca turistica, che devastò l´Italia e la Francia. Intere regioni furono immolate alle divinità delle vacanze.

Passarono molti anni. Le leggi italiane sull´ambiente vennero migliorate, poi peggiorate, poi di nuovo migliorate; e ora, a quanto pare, peggioreranno definitivamente, con la Riforma Regionale. Ma, da dieci o quindici anni, gli italiani (o vaste minoranze di italiani) stanno riscoprendo i nomi della natura e delle cose. Hanno compreso che le cose non sono sostituibili, come non sono sostituibili gli esseri umani. Nessuno esclude che un pino o un ulivo abbia un´anima: che essa ci protegga teneramente; o che una pietra possa avere un significato sacro. Il mondo degli individui torna a sembrare infinito: alberi, vecchie o nuove case, macchie, pomodori, spiagge, isole, fiumi, colline, e persino cose modernissime come un orologio o una giacca, hanno diritto allo stesso rispetto che chiediamo per noi. O maggiore, perché la natura e le cose sono indifese.

Mi sembra che questa sensibilità si diffonda sempre di più: in parte in modo segreto, in parte in modo pubblico, attraverso una miriade di piccole associazioni che si propongono di difendere un castello o una chiesa. Per un albero mozzato o vilipeso, qualcuno prova lo stesso dolore che sente per una creatura umana ferita. Molti obbietteranno che questi sentimenti finiranno per arrestare il progresso. Per conto mio, il progresso può addormentarsi o almeno assopirsi per qualche tempo, visto i disastri che ha combinato negli ultimi due secoli.

Postilla

La speranza non è che il progresso si addormenti o almeno si assopisca per qualche tempo, ma che invece si torni a un’idea umana, e non mercantile, di progresso. Il furto che è stato commesso ai danni della civiltà umana è stato questo: rovesciare ilsignificato delle parole, manipolando le cose. Oggi “progresso” non è misurato dalla crescita delle capacità di comprensione, di godimento, di saggezza degli uomini, ma aumento del Prodotto interno lordo (che aumenta due volte se costruisci una casa abusiva e poi la demolisci, che aumenta se fai una guerra e non aumenta se fai la pace).

NAPLES (FLORIDA) – Si chiamerà «Ave Maria» la città simbolo dell'utopia cattolica che aprirà i battenti nell’estate del 2007 a poco più di 130 km da Miami, presso una cittadina dal curioso nome di Naples, vale a dire Napoli. Gli Stati Uniti si riscoprono terreno fertile per l’edificazione della «Città ideale»; hanno già ospitato, soprattutto nel XIX secolo, numerosi esperimenti (fallimentari) da parte di pensatori per lo più europei impegnati a creare la comunità umana perfetta, felice e ugualitaria, da Charles Fourier e il Falansterio a Robert Owen e la sua «Nuova Armonia». Solo gli Amish, protestanti anabattisti allergici al progresso tecnologico e all’uso delle armi, sono riusciti a dar vita a comunità «arcadiche» in grado di sopravvivere al passaggio dei decenni, ma presto potrebbero dover dire addio a questa sorta di monopolio.

IL PAPA DELLA PIZZA – I lavori di edificazione di Ave Maria sono già a buon punto, essendo partiti nel 2002, e stanno trasformando radicalmente un’area di 5mila acri presso le paludi delle Everglades. Nel 2007, il grosso delle opere sarà completato e il sogno visionario di Tom Monaghan diverrà realtà. Stiamo parlando del «Papa della pizza», così soprannominato per la sua religiosità e per aver creato dal nulla (lui orfano cresciuto dalle suore e divenuto poi marine, prima di lanciarsi nell’imprenditoria) la seconda catena americana di pizzerie da asporto, «Domino’s pizza». Attività che gli ha reso molti denari (con cui ha finanziato numerose attività filantropiche, come la costruzione di asili, orfanotrofi e stazioni radio), ceduta peraltro nel 1998 per un miliardo di dollari. Quindici anni fa Monaghan ebbe un risveglio religioso, abbracciò uno stile di vita più morigerato (vendette per esempio il suo aereo e il suo yatch) e decise di fare qualcosa di più per arginare la «decadenza morale dell’Occidente».

LA CITTA’ IDEALE DEI CATTOLICI – Monaghan ha deciso di investire una montagna di denaro (inizialmente 100 milioni di dollari, già saliti a circa 500) nella creazione di Ave Maria, Città Ideale retta da principi cristiani e sede della prima Università cattolica costruita negli Usa da 40 anni a questa parte. La città sarà la prima al mondo a nascere in simbiosi con un ateneo (già foraggiato con 250 milioni di dollari e attivo in una sede provvisoria a Naples). Avrà circa 30mila abitanti, di cui almeno 5mila saranno studenti universitari. Quando la città verrà inaugurata nel 2007 ci sarà posto per circa 650 di loro, nonché per attività commerciali e residenze per famiglie, destinate ad aumentare gradualmente in vista del completamento del grandioso progetto, in almeno 40 anni. Il 45% dei 5mila acri occupati da Ave Maria sarà costituito da aree verdi, laghetti e corsi d’acqua. Al centro del complesso sorgeranno una chiesa alta oltre 30 metri e una piazza sul modello di quelle italiane, concetto semisconosciuto negli States.

LE REGOLE – La città offrirà ai suoi abitanti una condotta di vita «morigerata». Le farmacie non potranno vendere contraccettivi. Le edicole e i negozi di videocassette non potranno commerciare materiale pornografico, ovviamente bandito anche dal canale tv via cavo che nascerà in città. Negli ospedali di Ave Maria non sarà neanche possibile abortire. In tal modo, stando alle parole del rettore dell’Università di Ave Maria, Nicholas Healy, verrà ricostruita «la Città di Dio», in un Paese che «soffre di un catastrofico crollo culturale». Stando ai dati forniti dalla Fondazione Ave Maria, già 7mila persone hanno chiesto di poter andare a vivere nel «nuovo Eden», e il 60% delle attività commerciali è già stato assegnato.

LE PROTESTE – Alcuni attivisti dei diritti civili hanno manifestato l’intenzione di denunciare il progetto per violazione delle leggi sulla separazione tra stato e chiesa. Vero è, però, che nessuno è obbligato a trasferirsi ad Ave Maria, e chi lo vuole fare sa a cosa va incontro. Qualche protesta, che appare più sensata, arriva dai movimenti ambientalisti, che ritengono che la costruzione di Ave Maria ridurrà l’ambiente naturale della pantera della Florida, una specie di piccolo puma di cui ormai esistono meno di 50 esemplari; ormai, però, il progetto è in fase avanzata di realizzazione. I suoi promotori promettono il massimo rispetto per l’ambiente e la creazione di aree agricole destinate a coltivazioni biologiche. Sia quel che sia, a febbraio di quest’anno è stata posata la prima pietra del futuro ateneo, che ha ricevuto anche la benedizione (è proprio il caso di dirlo) del governatore (protestante) della Florida, Jeb Bush, che ha ringraziato Monaghan per la scelta del suo Stato. Forse non gli è stato detto che il «Papa della pizza» aveva scelto inizialmente il Michigan, le cui autorità gli avevano però negato il permesso di edificazione di Ave Maria.

Nota: grazie alla lettrice Laura Zumin per la segnalazione; il sito della comunità "mariana" per chi fosse interessato è http://www.avemaria.com (f.b.)

Il coinvolgimento del vertice Unipol nella speculazione finanziaria del 2005 sta provocando un salutare ragionamento sul mantenimento di un profilo etico da parte della sinistra nei suoi rapporti con il mondo economico e dell’impresa. Speriamo che in tempi brevi anche l’atteggiamento culturale sui problemi delle nostre città sia analogamente sottoposto ad un severo giudizio critico al fine di ritrovare un profilo pubblico nelle trasformazioni delle città non condizionato dalla rendita fondiaria e ricostruire così una cultura riformatrice nuova.

Sono due le motivazioni che impongono questa revisione critica. La prima è di carattere strutturale, poiché la grande saga dell’estate finita in questi giorni sotto il vaglio della magistratura vede protagonisti e alleati spregiudicati finanzieri e operatori del mercato edilizio. Una volta sarebbero stati chiamati speculatori; oggi si chiamano immobiliaristi. Non deve essere un caso che in quest’ultimo periodo si siano crete enormi plusvalenze economiche nel comparto edilizio. Il sistema Italia è come noto caratterizzato da gravi segni di perdita di competitività dei comparti produttivi mentre si riduce la quota di mercato delle aziende incapaci per dimensione e caratteristiche a collocarsi nel segmento dell’innovazione tecnologica.

In questo quadro sconfortante, il comparto del mattone non solo resiste, ma ha fatto incamerare ricchezze così gigantesche da consentire ad alcuni di questi speculatori di ambire a delineare una nuova classe dirigente del paese. E, ricordiamo, è stato solo per un caso che non è riuscita nella scalata al cielo. Chiediamoci dunque quali siano i motivi che hanno consentito alla speculazione edilizia di guadagnare somme vertiginose.

Il primo gruppo di cause risiede nei sistematici provvedimenti legislativi varati dal governo Berlusconi cu cui Carta si è più volte occupata. Riprendiamone solo i titoli, rinviando ai precedenti articoli per gli approfondimenti. Con il provvedimento a favore del rientro dei capitali illegalmente esportati sono stati fatti rientrare oltre 70.000 milioni di euro, un quinto del prodotto interno lordo del sistema italia! Il successivo provvedimento di vendita del patrimonio immobiliare pubblico ha creato una linea di investimento privilegiato a quegli ingenti capitali. Il condono edilizio ha ulteriormente dirottato verso il comparto edilizio le attenzioni degli investitori. Il taglio della finanza locale ha infine irreversibilmente spinto le attenzioni delle amministrazioni locali verso la valorizzazione immobiliare. E’ infatti noto che la legge sulla cartolarizzazione degli immobili pubblici prevedeva espressamente che una parte delle plusvalenze realizzate nel comparto urbano tornassero nelle esangui casse dei comuni.

Ma è il secondo gruppo di cause a preoccupare ulteriormente e a rendere indispensabile l’apertura di una fase di riflessione critica. Insieme al disegno d’insieme delineato dal governo Berlusconi, a livello locale –e la maggior parte dei comuni sono governati dalla sinistra- nel campo del governo del territorio è andata avanti la sostanziale cancellazione dell’urbanistica lasciando spazio al trionfo della iniziativa privata. A parte alcune regioni più rigorose, sono sempre meno i comuni che disegnano il futuro urbano attraverso lo strumento del piano regolatore. La maggior parte ha dato il via ad una vertiginosa fase di contrattazione urbanistica che si basa su una millantata e inesistente impresa privata.

Di quali ingredienti fosse costituita questa impresa ce lo dicono i verbali della Guardia di Finanza che ha indagato sui rapporti tra “l’immobiliarista” Ricucci e il presidente della potentissima Confcommercio Sergio Billè.

La Guardia di Finanza scopre che l’edificio di via Lima a Roma viene valutato il 29 dicembre 2004 12,4 milioni di euro, quando passa dall’Immobiliare Il Corso di proprietà di Fiorani alla Magiste Real Estate di Ricucci. Il valore è basso per la zona, una dei quartieri più signorili della capitale, e viene motivato con il fatto che l’edificio è abitato da inquilini e per averne piena disponibilità bisogna liberarlo. Niente paura, la liberalizzazione selvaggia del mercato dell’affitto ha spianato la strada alla proprietà immobiliare e tempo qualche mese e l’intraprendente e ben introdotto Ricucci riesce a liberare l’immobile. Gli inquilini vengono allontanati il 26 gennaio 2005. Appena due mesi dopo la Magiste R.E vende l’intero edificio alla Magiste Real Estate Property per un valore di 35 milioni. A suggello della spericolata conduzione sempre nel 2005 la Confcommercio firma un contratto di acquisto dell’immobile per un importo (comprensivo del costo di ristrutturazione) di 60 milioni di euro.

Con l’urbanistica fai-da-te la proprietà immobiliare decide la migliore destinazione d’uso a prescindere dai piani regolatori; può cacciare di casa famiglie di residenti in pochi mesi. E in questo modo i trafficanti di immobili possono dunque realizzare in pochi mesi plusvalenze pari a 50 milioni di euro. Plusvalenze di importo simile a quelle guadagnate con la speculazione finanziaria e –come essa- non producono un posto di lavoro aggiuntivo. Durante i cinque anni del governo delle destre l’Italia si è affermata come il paradiso della speculazione. Tocca al fronte progressista dimostrare che c’è un altro futuro.

E’ diffusa l’impressione che il ridimensionamento del progetto del parco del Gennargentu, come previsto dalla legge 394/1991, corrisponda alla rinuncia a farlo davvero (nonostante le assicurazioni che qualcosa di diverso e di meglio è in programma). E’ andata così, dopo decenni di dibattito, guarda caso in una delle migliori stagioni della politica per quanto riguarda la difesa del territorio dell’isola.

C’è chi ha fatto festa. E c’è chi ritiene che le popolazioni di quei luoghi splendidi che sbagliando, contro l’ interesse dei propri figli, hanno rifiutato di aderire a quel progetto, abbiano una linea simile a quella delle comunità che chiamano i “loro” progetti in riva al mare con i nomi degli imprenditori edili, che chiedono libertà di azione per soddisfare rendite senza contropartite.

In ambedue i casi si tratta di posizioni di retroguardia –punti di vista introversi – sia che attribuiscano un valore di scambio alle risorse, sia che si richiamino ai valori d’uso millenari per impedire una scelta da cui verrebbero, come in altri casi, benefici importanti. Le iniziative che puntano a cominciare da capo immaginando una soluzione extra legge 394, hanno rinunciato ad estrarre dall’avversione per il parco una spiegazione, che sarebbe utile– lì e altrove – per fare qualche passo almeno per combattere pregiudizi e mistificazioni. Per ricominciare è indispensabile chiarire cosa c’è prima del punto: non si faranno passi se le ragioni di chi si oppone al progetto resteranno nella nebulosa delle cose mezzo dette, declinando la tiritera del parco “calato dall’alto”, (frutto di una volontà del parlamento e di un’intesa Stato- Regione in almeno tre passaggi istituzionali).

Il dissenso è sembrato spesso una messinscena ideologica. Un riconoscimento privilegiato è stato fatto passare per un castigo, con la parola d’ordine delle autonomie locali sopraffatte e l’evocazione ricorrente e caricaturale dell’uomo-pastore scacciato dai suoi territori, dei diritti espropriati, delle pratiche tradizionali impedite,ecc.

Non è così. C’è nella letteratura sui parchi europei ( e nell’esperienza solida in tanti luoghi) e in tutte le disposizioni di legge, compresa quella italiana, un orientamento che mira a esaltare le attività che si svolgono nei territori protetti, specie quelle pastorali che invece si estinguono lentamente da quelle parti. Sono solo impedite le aberrazioni, gli eccessi che pure negli usi atavici si ravvisano – tanto più con la sensibilità di oggi verso la natura in pericolo – e che una cinquantina di anni fa sembravano ammissibili a fronte di risorse ambientali giudicate inesauribili. Qualcosa nel frattempo è successo: la più evoluta nozione di bene ambientale induce a smettere di considerare comunque buone le attività che nelle campagne si svolgono da secoli, perché non contaminate dalla modernità (che non sempre è un male) o dalla scienza (che aiuta di sicuro), con l’argomento che la vita e le pratiche agropastorali non ammettono troppi cambiamenti perché “così si fa da sempre”. E, d’altra parte, l’isola dove “passavamo sulla terra leggeri”, come nel racconto di Sergio Atzeni, qualche grave manomissione l’ha subita nei secoli, nonostante la bassa densità insediativa. Basta guardare gli incendi che non sono stati e non sono cicliche naturali calamità.

La caccia. Ormai regolamentata dappertutto era ancora negli anni Cinquanta sostanzialmente libera in Sardegna. La sua progressiva limitazione tiene conto di un’accresciuta differente sensibilità e pure delle nette diffuse contrarietà che suscita.

Ma diversamente da quanto si è detto per affossare il parco nemico, neppure nelle aree protette la caccia è del tutto impedita. Sono ammessi prelievi di selvaggina (sotto la sorveglianza dell'Ente, precisa l’art. 11 della legge) che gli strumenti di gestione possono disciplinare a vantaggio dei residenti. Ecco perché la rivolta contro il parco, guidata con clamore da compagnie di cacciatori – soggetti non trascurabili ma parzialmente rappresentativi della società – appare inspiegata.

E a fronte di un dissenso confuso non si è mai saputo nulla del consenso: perché qualcuno che avrà intravisto i benefici del parco ci sarà da quelle parti, magari impossibilitato, diciamo così, a fare sentire la sua voce. Niente ha contato – a proposito di cooperazione nei processi decisionali – l’opinione dei sardi che non stanno sotto il Supramonte. Si è deciso, in pochi, che quel parco non si può fare. Ma non si è chiarito perché ciò che non si può tra Barbagia e Ogliastra è stato fatto senza traumi, anzi con successo, in realtà con caratteri socio-economici simili del sud del Paese, dove gli usi del territorio sono molto radicati.

E’ vero, bisognava spiegare meglio. Ma il confronto nel merito, che avrebbe fatto capire bene le cose, non c’è stato.

Perché solo con la nomina degli organi di gestione si può pervenire alla redazione degli strumenti per il governo del parco ( piano e regolamento) che non si possono, per legge, approvare senza o contro la comunità. Ma a questo punto non si è arrivati – lasciando crescere l’insofferenza per i vincoli provvisori – proprio per la contrarietà alla composizione del consiglio direttivo che non si può fare tutto in casa. Perché la presenza di istranzos nell’organo di gestione è il necessario contrappeso di punti di vista esterni, soprattutto di uomini di scienza, che serve a garantire che le finalità di tutela, finanziate con denaro pubblico, siano rispettate. Non basta autocertificare che tutto va bene se si vogliono attrarre investimenti e visitatori da ogni parte del mondo.

Perché l’idea di parco sottintende una convinta relazione tra locale e globale, tra antichi saperi e nuove economie, tra la difesa della propria identità e le indispensabili proiezioni transnazionali. Questo vale tanto più per una comunità che non può permettersi di restare immobile confondendo l’orgoglio di appartenere a quelle montagne con le piccolissime convenienze di parte a tenere tutto fermo.

E’ il confronto, l’apertura senza pregiudizi, che può determinare il cortocircuito in grado di aprire un nuovo processo: altri sguardi aiutano a vedere, a vedersi meglio ( penso, ad esempio, al beneficio venuto alla Sardegna da esploratori- scienziati come La Marmora che illustrò caratteri di luoghi e costumi dell’isola nel continente sollecitando i sardi a guardare con più attenzione la propria terra).

Si va, sembra di capire, verso un parco più domestico, governato senza intromissioni, e più piccolo ( con chi ci sta) e, immagino,con pochi vincoli. Un proposito che sembra ridursi all’aspetto nominalistico. L’adozione di un marchio- reclame ( che funziona solo a corollario di un progetto più ampio) faticherà per affermarsi, se si guarda al tempo lungo impiegato per promuovere denominazioni di origine illustri (come il Chianti) che alludono all’intreccio di paesaggi e produzioni agricole. E il tempo conta molto. Nessuno impedisce di andare in questa direzione. Ma si tratta proprio un’altra cosa, di una rinuncia che alla resa dei conti apparirà evidente, una piccolissima cosa contro il declino di questi luoghi di cui occorre parlare senza reticenze.

Titolo originale: Plan: All New Orleans could be rebuilt – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Mentre gli uffici compongono un piano per la rinascita di New Orleans, una commissione nominata dal sindaco Ray Nagin doveva esporre entro mercoledì le raccomandazioni per dare agli abitanti il potere di decidere quale forma avranno i loro quartieri.

La “ Bring New Orleans Back Commission” spera così di formare un quadro più chiaro di quali aree saranno ricostruite entro la fine dell’anno.

Le raccomandazioni, che potrebbero essere inerite nel piano generale di ricostruzione, probabilmente susciteranno fuoco e fiamme da parte degli urbanisti, che affermano come molte parti della città non siano sicure da inondazioni future.

La realizzazione di argini in grado di sostenere una tempesta di Classe 3, insieme alla creazione di una Reconstruction Corporation finanziata dal governo per rilevare immobili e terreni, sono elementi essenziali per i piani della Commissione, a parere dei membri del comitato urbanistico.

Doug Meffert, co-presidente del subcomitato per la sostenibilità, dice che sarà anche essenziale acquisire le case dai proprietari a ragionevoli prezzi di mercato. Il subcomitato raccomanderà che la costituenda agenzia acquisisca le proprietà a prezzo pieno, togliendo solo la quota coperta dalle assicurazioni.

”Se non siamo in grado di acquisire gli immobili, sarà difficile ridisegnare la città” osserva Meffert.

Aggiunge che se il futuro della città devastata dovesse essere lasciato alle forze di mercato, New Orleans finirebbe in una “riedificazione a chiazze, con gli abitanti furiosi”.

I membri della commissione sono stati invitati a pensare in grande immaginando scenari, con poco riguardo per il cartellino del prezzo. A quello si penserà poi, quando New Orleans e le altre parti della Costa del Golfo si lanceranno sui 29 miliardi di dollari di aiuti federali per la ripresa e la ricostruzione.

Alcune idee audaci fra quelle esaminate prevedono il ripristino di un jazz district sparito da tempo, la costruzione di una rete di piste ciclabili e ferrovie locali per pendolari, l’organizzazione di un sistema scolastico d’avanguardia.

Ci sono anche raccomandazioni per incentivi fiscali ad attirare nuove attività, e mantenere quelle che già ci sono.

Un’altra idea è quella di usare i crediti fiscali per ricreare Storyville, il quartiere a luci rosse gestito dalla municipalità restato attivo per vent’anni, e chiuso nel 1971. Più tardi, fu raso al suolo.

L’idea non è quella di far rivivere il mercato del sesso, ma di recuperare l’eredità musicale di quel distretto. Molti pionieri del – fra loro Jelly Roll Morton, King Oliver e Manuel Perez – suonavano nei bordelli di quel quartiere.

Si aspetta che la commissione proponga un rilancio del sistema di scuole pubbliche della città, malato di bassi livelli didattici, strutture cadenti, alto turnover e corruzione.

Le raccomandazioni sono per dare alle scuole maggiore autonomia, ridurre la burocrazia, creare più scuole pilota e offrire ai genitori più alternative per dove mandare i figli, ha detto il commissario Scott Cowen.

Le preoccupazioni dei quartieri

Ma la raccomandazione secondo cui tutte le zone della città – anche la Lower Ninth Ward, quella più duramente colpita e a stragrande maggioranza nera – dovrebbero aver la possibilità di ricostruire, probabilmente sarà la più controversa.

Lo Urban Land Institute ha causato tensioni lo scorso anno pubblicando un rapporto che consigliava caldamente alla città di concentrare le proprie risorse per la ricostruzione sulle zone non colpite dall’alluvione. L’istituto avvertiva che se New Orleans avesse tentato di ricostruire ogni cosa, la città sarebbe stata condannata a una ripresa lenta e discontinua.

Questa raccomandazione ha provocato indignazione fra molti abitanti di New Orleans, tra cui l’ex sindaco Marc Morial, ora presidente della National Urban League.

Ha affermato che i gruppi per i diritti civili si sarebbero opposti a qualunque piano di ricostruzione che cancellasse quartieri dove le famiglie hanno vissuto per generazioni. Si esprimeva anche la preoccupazione che alcune delle aree colpite fossero trasformate in zone umide o spazi aperti.

I sette comitati che compongono la commissione pubblicheranno ciascuno un rapporto, e tutti verranno consegnati al sindaco Nagin entro il 20 gennaio. Il sindaco può accettare o respingere qualunque raccomandazione, con decisioni che possono durare settimane.

La forma finale del piano sarà determinata in gran parte dalle decisioni del Congresso e del Presidente Bush, che tengono i cordoni della borsa.

Nota: sul controverso ( e preoccupante) tema del "diritto" di ricostruire ovunque a New Orleans dopo la conferenza stampa della Commissione municipale, si veda tra l'altro anche l'articolo da USA Today proposto dal sito dell'American Planning Association (f.b.)

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Titolo originale: At 150 Edgars Lane, Changing the Idea of Home – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

HASTINGS-ON-HUDSON, New York – La graziosa casa in stile Tudor al 150 di Edgars Lane, costruita con meno di 10.000 dollari nel 1925 sul fianco della collina in questa cittadina sul fiume Hudson, non sembra essere cambiata molto attraverso tutti i suoi proprietari. Ciascuna famiglia la rinnovava, ma in modo modesto, finché non sono arrivati Tom e Julie Hirschfeld.

Gli Hirschfeld hanno acquistato la casa di due piani coi suoi tetti ad abbaini, l’esterno intonacato e le travi di legno a vista, per 890.000 dollari nell’autunno del 2002. Buone scuole, strade sicure, una cittadina pittoresca, vicini con mentalità simile, spostamenti pendolari relativamente brevi verso New York: tutto questo ha attirato la famiglia, così come aveva fatto coi proprietari precedenti.

Ma coi prezzi delle abitazioni tanto lievitati in questi anni, case come questa sono diventate non solo bei posti per abitarci, ma anche validi investimenti. In risposta a questo nuovo valore intrinseco, gli Hirschfeld, come centinaia di migliaia di altre famiglie che vivono nei sobborghi di città come New York, Chicago o San Francisco, hanno trasformato la propria abitazione in qualcosa di più importante e personale.

Ri costruire la storia della casa al 150 di Edgars attraverso i decenni mostra come gli Hirschfeld abbiano rotto col passato: e come sia cambiata l’idea di cosa significhi una casa. Qui hanno abitato otto diverse famiglie, per almeno un anno. La maggior parte aveva un reddito medio per la propria epoca: un direttore di scuola superiore, un tipografo, un ingegnere civile, uno psichiatra, un ambientalista, un piccolo imprenditore.

A differenza dei precedenti proprietari, gli Hirschfeld hanno profuso molte migliaia di dollari nei rifacimenti, rendendo la propria casa più comoda e ben attrezzata di quanto i predecessori ritenessero necessario. E certo molto più degli altri possono permetterselo.

Come coordinatore operativo di una finanziaria di investimenti, il signor Hirschfeld ha guadagni in abbondanza da spendere nei rifacimenti senza far debiti. La coppia non ha risparmiato. Migliorare la casa ai livelli voluti è diventato tanto importante per loro che fra prezzo d’acquisto e investimenti per migliorie, dice Hirschfeld, la somma totale supera l’attuale valore di mercato stimato a 1,2 milioni.

Juliet B. Schor, sociologa al Boston College e autrice di The Overspent American, classifica l’esplosione delle spese in investimenti sul miglioramento della casa come “consumo competitivo che riguarda la fascia del 20% superiore nella distribuzione del reddito”.

Ma molti proprietari, e gli Hirschfeld fra loro, insistono sul fatto che a parte lo status sociale e le comodità, quello che un tempo era principalmente un alloggio in un sobborgo adatto ora assume un’importanza personale maggiore, in un’epoca in cui le famiglie si concentrano sempre più su se stesse.

”La comunità è ancora molto importante” sostiene William M. Rohe, direttore del Center for Urban and Regional Studies all’Università del North Carolina di Chapel Hill. “Ma i proprietari di abitazioni aggi prestano maggiore attenzione alla casa in quanto espressione di sé stessi, nido di vita familiare”.

Per gli Hirschfeld, una nuova e spaziosa ala per la cucina che sporge nel giardino rappresenta il loro senso di come la casa debba migliorare la vita. Completata un anno fa, quella cucina è diventata luogo di incontro non solo per cucinare e per i pasti, ma per fare i compiti, giocare, disegnare, leggere e chiacchierare coi bambini, Ben di 12 anni, e Leila di 8.

”Non abbiamo costruito questa cucina per farne un trofeo o per raggiungere qualche livello di lusso” racconta Hirschfeld, sottolineando che l’arredo, compresi frigorifero e stufa, sono modelli comuni ad appoggio, e non stravaganti oggetti tecnologici. “L’abbiamo fatto per rendere la vita familiare più calda e fluida”.

Ma il giardino non era tanto adatto alla nuova ala della cucina. Così si è dovuto tirar su un muro in pietra di contenimento per ritagliare una superficie piatta dal pendio: aggiungendo migliaia di dollari non previsti ai costi di rinnovamento.

Gli Hirschfeld hanno speso di più anche per rimediare al deterioramento della loro casa vecchia di 80 anni, una delle decine di migliaia costruite durante il primo boom residenziale suburbano, prima della Depressione.

”L’abbiamo comperata davvero perché sia la nostra casa di famiglia” racconta la signora Hirschfeld, “e abbiamo fatto un errore di valutazione non sapendo quanto sarebbe costato rimediare al deterioramento”. Comunque il seminterrato, aggiunge, che “è stato umido per 40 anni, ora non lo è più”.

Prima degli Hirschfeld, ciascuno dei proprietari precedenti aveva fatto via via qualche miglioramento, diluendo i rinnovi lungo gli anni di residenza anziché concentrarli all’inizio. La maggior parte di questi proprietari precedenti aveva convissuto con i difetti della casa, come la cucina troppo stretta, ora convertita a vestibolo della nuova cucina.

Arrivano gli acquirenti facoltosi

Gli Hirschfeld, entrambi all’inizio dei 40 anni, non hanno particolari problemi di reddito, una caratteristica sempre più comune fra le famiglie che si impegnano nei miglioramenti dell’abitazione. Quelli con almeno 120.000 dollari di reddito annuale contano per il 32% fra chi ha speso in rinnovi di casa nel 2003, ultimo anno per cui sono disponibili dati. È più del 21% rilevato nel 1995, al netto dell’inflazione, secondo il Joint Center for Housing Studies di Harvard. La spesa ha raggiunto i 233 miliardi sempre nel 2003, con un aumento del 52% dal 1995.

Per decenni, una casa nei sobborghi era il sogno familiare dei ceti medi, “una specie di ancora nei mari tempestosi della vita urbana” per dirla con Kenneth T. Jackson, storico della Columbia University, nel suo libro del 1985 Crabgrass Frontier.

Era vero per i proprietari del 150 di Edgars Lane. Ma con l’aumento dei prezzi delle abitazioni, il grosso giardino accanto alla casa assunse valore di potenziale lotto edificabile. Non era più l’amato spazio fiorito a terrazze, curato da tanti ex abitanti e descritto con ammirazione dal giornale locale.

Solo l’opposizione dei vicini fermò la proprietaria del 2001, una signora che aveva avuto la casa a seguito di un divorzio, dall’ottenere una variante al piano regolatore che consentisse di scorporare il vecchio giardino fiorito e vendere separatamente i due lotti, a una somma superiore agli 819.000 che ricavò alla fine.

Con quel passaggio di proprietà, la casa esce dalla portata degli acquirenti a reddito medio. L’acquirente, Matthew Stover, era un operatore di Wall Street, e la rivendette presto a Hirschfel, anche lui di Wall Street.

E pure, gli Stover e gli Hirschfeld, come quasi tutti i proprietari prima di loro, vengono qui a Hastings da appartamenti a New York City, scegliendo la cittadina almeno in parte perché offre una miscela sociale più varia di quella di altri suburbi, oltre a vicini che sono spesso artisti, scrittori, accademici.

L’aura intellettuale è particolarmente presente a Edgars Lane. Margaret Sanger, una delle prime esponenti del movimento per il controllo delle nascite, ha abitato dall’altra parte della strada rispetto al 150, e Lewis Hine, famoso fotografo del realismo industriale, era proprietario della casa due porte più in là. Se ne sono andati da tempo, ma gli Hirschfeld, specializzati a Oxford dopo aver frequentato il college negli Stati Uniti, sono fieri di questa eredità.

”Volevamo davvero abitare a Hastings” racconta Hirschfeld.

Diversificazione suburbana

Le case che hanno fatto di questo posto un suburbio cominciano nelle colline boscose sopra la Broadway. Al di sotto di questa strada di divisione, c’erano operai, molti immigrati italiani e polacchi, in case a schiera e ad appartamenti, vicino agli impianti chimici e alla fonderia di rame dove lavoravano, finché l’ultima fabbrica chiuse nel 1975.

I figli di quei lavoratori andavano a scuola insieme ai bambini delle colline, e “c’è ancora la sensazione che esista una differenza: più una sensazione che una realtà”, racconta David W. McCullough, uno storico locale.

Come comunità, Hastings tenta di resistere alle trappole della ricchezza che si sta diffondendo in tanti suburbi. Il centro è ancora una serie di vecchi negozi e ristoranti, che riflette “un certo orgoglio che abbiamo qui per lo squallore”, per dirla con McCullough.

Pochissimi dei negozi e ristoranti di livello superiore, evidenti altrove, sono arrivati sin qui. Ma quasi certamente faranno aumentare i prezzi delle case, il che limita i potenziali nuovi arrivati a famiglie come gli Hirschfeld, spingendo via gradatamente quelle a reddito inferiore.

Gli Hirschfeld, aggiungendo altro valore alla propria casa, hanno installato l’aria condizionata, ampliato il bagno principale e più che raddoppiato le dimensioni della camera di Leila, realizzando un secondo piano sopra l’ala della cucina. Hanno rifatto il seminterrato, spendendo molto più di quanto previsto per liberarsi di fango e umidità, e tirato giù il muro fra soggiorno e sala da pranzo, a creare quello che Hirschfeld descrive come “uno spazio fluttuante, in modo che si possa conversare dalla cucina con qualcuno che sta due stanze più in là, in soggiorno”. Poi arriveranno le nuove finestre.

”Non si può vivere oggi, in quest’epoca, con finestre che fanno spifferi” dice la signora Hirschfeld. “O si fa lavorare la caldaia al massimo per tutto l’inverno, o si devono avere finestre a doppi vetri”.

Le finestre con gli spifferi non avevano preoccupato Ralph Breiling, che progettò e costruì questa casa nel 1925 sul terreno che aveva acquistato tre anni prima spendendo meno di 10.000 dollari in tutto, ovvero circa 111.000 se facciamo il conto con l’inflazione. Breiling era architetto, ma durante la grave recessione dopo la prima guerra mondiale si adattò all’insegnamento, diventando più tardi vice preside e poi preside della Brooklyn Technical High School.

Un gruppo di insegnanti aveva comperato dei terreni a Hastings, e Breiling si era unito a loro, acquistando uno dei lotti.

”Amava la valle dell’Hudson, e quando le foglie cadevano dagli alberi si aveva una veduta del fiume e delle Palisades” ricorda Robert, uno dei figli. Per anni “si fece un’ora e mezza di viaggio per andare al lavoro”.

Quando la famiglia Breiling si trasferì a Edgars Lane, la parte esterna era terminata – aveva più o meno l’aspetto di oggi – ma le pareti all’interno erano in gran parte non rifinite a intonaco. Da quel momento in poi, fin quando vendette la casa nel 1950, Breiling continuò a rinnovare, con le proprie mani.

Amore per la Valle dell’Hudson

Costruì il garage per una macchina che c’è ancora, e la stanza al di sopra, che è diventata quella da gioco dei bambini. Chiuse una veranda, incorporandola nel soggiorno. Quando nacque il terzo figlio, Clover, ampliò la piccola stanza per cucire facendone una quarta stanza da letto, costruendo verso l’esterno davanti alla porta d’ingresso.

”Diluiva i lavori nel tempo, non poteva permettersi di farli tutti in una volta” dice Robert Breiling, 83 anni, ingegnere ora in pensione. “La Depressione colpì duro. Le scuole di New York City dimezzarono le paghe. Dicevano che avrebbero recuperato dopo la guerra, ma non l’hanno fatto. Mia madre aprì un asilo nella sala da pranzo. C’era un piccolo gruppo di tavolini sedioline; era un’aula scolastica. Credo che le piacesse farlo. Ma ripensandoci, fu per bisogno”.

L’eredità duratura dei Breiling fu il giardino sul lato della casa, curato dalla moglie di Breiling, Leila. In un articolo del 1933 sui “ bei giardini di Hastings" il settimanale Hastings News diceva di casa Breiling: “Dal muro di contenimento lungo la strada con la sua densa siepe di recinzione, fino al terrazzo dei bambini che si appoggia al muro della fattoria nel punto più alto del giardino, si passa, livello dopo livello, attraverso prati erbosi, cespugli fioriti, lunghe aiuole di che brillano di centinaia di boccioli”.

Da quel giardino veniva l’agrifoglio che Duncan Wilson intrecciava a ghirlande e vendeva a Natale. I suoi genitori, Byron e Jane Wilson, comprarono il 150 di Edgars Lane nel 1951 per 25.000 dollari, equivalenti a poco meno di 190.000 dollari attuali, trasferendosi da una casa più piccola nella vicina Dobbs Ferry quando il terzo figlio era ancora piccolo.

”Mia madre decise che la famiglia aveva bisogno di più spazio” ricorda Duncan Wilson, che ora ha 69 anni.

Gli Wilson profusero energie nella manutenzione dell’elaborato giardino, ma fecero poco per la casa vera e propria. Erano danzatori, e così sistemarono il seminterrato, con finiture alle pareti e piastrelle sul pavimento, dice Duncan. Come i Breiling, vendettero la casa dopo che il figlio più giovane aveva terminato le superiori, nel 1963.

I quattro proprietari successivi o si trasferirono rapidamente, trovando lavoro in altre città, o si fermarono solo per far crescere i bambini. Questo rapido turnover aiuta a spiegare perché la famiglia americana possieda una casa per cinque-sei anni, un tipo di gestione che dure per decenni.

Jerome e Carolyn Zinn restano 8 anni, dopo aver comprato la casa nel 1964 da uno spichiatra che ci aveva abitato solo diciotto mesi. Gli Zinn la pagano 40.000 dollari – circa 250.000 adeguati all’inflazione – trasferendosi da un appartamento in città con due gemelli di otto settimane.

”Sapevo che si facevano crescere i bambini in una casa singola” dice la signora Zinn. “Non conoscevo niente e nessuno di Hastings. Cominciammo a cercare a Yonkers, capitammo ad Hastings e ci piacquero alberi e colline”.

Il signor Zinn aveva iniziato da poco come imprenditore di linotype, e la moglie insegnava a scuola, risparmiando a sufficienza sul suo salario per il versamento iniziale di 11.000 dollari. Ne rimanevano 29.000 ancora dovuti sul mutuo contratto dallo psichiatra rilevato dagli Zinn: pratica comune a quell’epoca. Prima di venire a Hastings, Zinn era passato da dipendente e proprietario di un piccolo laboratorio tipografico. Andava bene, e nel 1982 gli Zinn si costruirono una casa più grande a Irvington, una cittadina nelle vicinanze.

”Continuavo a pensare di fare questo e quello alla casa” dice la signora Zinn, “e poi mi sono detta se ci sono così tante cose che voglio fare dovremmo comprarne, o costruirne, un’altra”.

Nel 1974, gli Zinn vendono il 150 di Edgars Lane a 67.500 dollari – al netto dell’inflazione, non molto più di quanto l’avevano pagata – a Gerald Franz, specialista di questioni ambientali che all’epoca lavora nella New York City Planning Commission, e alla moglie, Susan, insegnate di matematica in una scuola. Sono sposati da cinque anni, sperano di avere dei bambini – ne adotteranno due più tardi – e l’acquisto della casa per loro è uno sforzo.

”Mi aspettavo di restare sposata e vivere lì per sempre” ricorda la signora Franz.

Quello che un tempo era un giardino

Gli Zinn concedono ai Franz di posticipare il pagamento del giardino, e aspettano quasi dieci anni prima che venga acquistata questa parte della proprietà a 17.000 dollari. Per allora, con nessuna delle due famiglie ad occuparsi del giardino, questo si era inselvatichito, e comunque Zinn ci stava pensando come a un lotto edificabile di valore. “Avevo sempre sperato sotto sotto di chiedere una variante al piano regolatore” dice.

Il divorzio interrompe questi progetti. La signora Franz, che si è risposata da poco e che ora si chiama Susan Franz Ledley, ottiene la casa nella causa del 1996. All’epoca, è valutata 500.000 dollari. Come insegnante, può a malapena permettersi la manutenzione e nel 2001, quando la figlia minore sta terminando le scuole superiori, la vende per 819.000 – ovvero circa 900.000 al valore odierno – al signor Stover, analista finanziario del Citigroup, e alla moglie Jeanine.

Gli Stover sono sulla trentina e pensano ad una famiglia, come avevano fatto i Franz quasi trent’anni prima. Ma a differenza di questi ultimi, e di tutti gli altri proprietari precedenti, iniziano a progettare degli interventi, e chiamano un architetto.

”Stavamo appena cominciando a prendere slancio, quando sono stato chiamato a Boston” racconta Stover. Aveva trovato un lavoro migliore in quella città.

Ora che i prezzi delle case stanno calando, i vantaggi monetari della proprietà di Edgars Lane 150 sono poco chiari. Ma per gli Hirschfeld il piacere di compiacersi vale di più. Julie Hirschfeld indica i nuovi lavandini dei bagno, per esempio, che sembrano catinelle del XIX secolo, o le piastrelle laterali del bagno principale “ridicolmente costose”.

”Una volta cominciato” dice, “dato che dovevamo fare tante cose, ci è sembrato di dover fare scelte sull’aspetto esteriore”.

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