«Città. Architettura e società» è il cuore della decima Biennale, l'esposizione a cui la mostra veneziana si affida per ritrovare un'identità culturale e un ruolo nella discussione internazionale sull'architettura dopo tre edizioni un po' discusse, accusate da alcuni di essere troppo incentrate sulla pura spettacolarità. Il tema, ufficialmente «assegnato» dal consiglio di amministrazione della Biennale, è quello della «questione megalopolitana», dell'inarrestabile flusso che continua a portare persone e comunità intere dentro ambiti urbani sempre più difficili da gestire, di cosa debbano imparare e poi elaborare gli architetti e gli urbanisti per affrontare il problema. Richard Burdett, anglo-italiano cresciuto alla scuola del pragmatismo architettonico inglese, ha svolto un compito su cui era evidentemente già preparato in modo egregio, dipanando alle Corderie un percorso chiaro e didattico attraverso l'illustrazione delle sedici megalopoli studiate, e raccogliendo al Padiglione Italia materiali più diversi e interpretativi, aperti da un lato alle visioni di artisti e fotografi e dall'altro pazientemente impegnati a raccontare ricerche e studi disciplinari già avviati.
Abbiamo visitato la mostra il giorno 6, approfittando di una pre-vernice riservata a chi aveva lavorato ai vari eventi. La prima impressione è stata strana e inusuale, legata al flusso inaspettatamente rado di visitatori privilegiati e ai rarissimi ritardatari ancora al lavoro nel loro spazio espositivo. Novità assoluta. La ragione è stata chiara quasi subito, dopo il primo sguardo ai pannelli e alle immagini: la biennale praticamente non ha espositori, quindi a mostra semi-aperta non ci sono le solite tribù. Non ci sono le frotte di architetti e affini impazienti di mostrare i propri gioelli, non ci sono le superstar assediate da giornalisti e ammiratori come al Lido. Si girava quindi per padiglioni semivuoti, approfittando per guardarsi in pace un materiale che sopratutto alle Corderie si presenta in modo del tutto inedito per la Biennale: una sequenza unitaria e coerente di pannelli pieni di testi, cifre, informazioni e immagini (ferme e in movimento) relative alle sedici città esposte. Insomma, la Biennale trasformata in una splendida mostra didattica, una cosa non da poco.
L'impressione di novità non finisce qui. Per la prima volta dopo la visita alla mostra si sente una strana impazienza di consultare il catalogo, che invece alla Biennale è in genere un ammasso un po' frettoloso di immagini relative agli autori esposti, quasi sempre del tutto differenti rispetto a quanto esposto (che infatti è stato completato la notte prima). In questo caso, data la materia e l'approccio scelto, il catalogo della mostra va considerato come un vero e proprio libro, che permette di espandere e approfondire quanto vediamo nei grafici e nei pannelli appesi alle Corderie.
Le differenze rispetto alle edizioni precedenti non sono finite, ma sembrano anzi consolidarsi come un elemento preciso e consapevole del programma, anche se il tema delle megalopoli non è certo una novita assoluta per la biennale. Sei anni fa, infatti, Massimiliano Fuksas lo aveva affrontato nella sua Less Aesthetics More Ethics, giocando proprio sulla contraddizione tra il titolo edificante e il contenuto iperestetizzante della mostra. Dalla sua mostra erano usciti pochissimi problemi delle città contemporanee e molta cultura dell'immagine, grazie anche all'indimenticabile megavideo di Studio Azzurro alle Corderie. Non che Burdett rifiuti la cultura visiva del terzo millennio, la fotografia e lo stile «google earth» dominano gli spazi, però anche in questo caso la sensazione è opposta. Il tutto è tenuto insieme con sobrietà e rigore, quasi fosse davvero - come in effetti è - la sezione critica di un corpus di dati e riflessioni molto importanti.
Altra novità che non può non saltare agli occhi, rispetto alle edizioni-parata di Sudjic e Forster, l'assenza totale dello star system internazionale. Non ci sono le ultime fatiche di Gehry e Calatrava (a proposito, che fine ha fatto il ponte di piazzale Roma?), non c'è Eisenman né Libeskind, non c'è Rem Koolhaas e non c'è Zaha Hadid. Anzi Rem e Zaha e pochissimi altri altri ci sono, ma sobriamente inseriti in un ciclo di incontri con il pubblico. Non è difficile prevedere che questa sarà une delle ragioni del «successo di critica» della mostra, soprattutto presso gli addetti italiani. Le ragioni in realtà saranno diverse. Alcuni apprezzeranno la sottintesa consapevolezza, da parte del curatore, che ormai l'informazione in architettura viaggia altrove e in tempo reale. Altri, con un ragionamento un po' meno limpido e forse un po' troppo consolatorio, apprezzeranno l'assenza dell'imperialismo architettonico globalista e di tutto ciò che in genere ci ricorda la difficile condizione dell'architettura in Italia. Diranno che «finalmente l'effetto Bilbao è finito», ed eviteranno di rilevare che le archistar non ci sono, ma che non ci sono neanche i progettisti un po' meno alla moda, né quelli emergenti. Non ci sono i progetti di architettura e basta, salvo pochissime eccezioni, piegate da Richard Burdett all'esigenza di esemplifiare una strategia o una politica urbana.
Ultimo cambio di rotta evidente, rispetto a Forster e Hani Rashid, l'assoluto understatement dell'allestimento. Che la volta scorsa era una mostra nella mostra, enensimo pezzo d'autore teso a dare una chance all'«architettura digitale». E che in questa edizione è ben curato dallo studio Cibic & partners, quasi perfetto nella gestione degli spazi, sobrio e paziente nel distribuire l'enorme mole di dati, immagini e schermi nel corridoione delle Corderie.
L'impressione generale, comunque, è che sia una bella mostra, di quelle che in genere piacciono molto a noi appassionati di rapporti tra la cultura urbana contemporanea e l'architettura ma che piacciono meno ai dirigenti della Biennale. Quindi complimenti a Burdett, che probabilmente è riuscito a realizzare questo progetto grazie alla possibilità di sviluppare una grande ricerca con i mezzi della London School of Economics, al sostegno dei più importanti architetti inglesi e alle relazioni che ha costruito in questi anni, grazie al Forum globale che ha istituito, con le classi dirigenti di alcune delle città coinvolte. E complimenti al consiglio, che ha sostenuto un progetto fondato sui contenuti.
Rispetto a una biennale standard, in cui si scorrono elenchi chilometrici di nomi lambiccandosi su quale valga veramente la pena di citare nello spazio piccolissimo di una recensione, in questo caso il compito è semplice. La mostra è un'opera poco estrosa ma compatta e coerente, dalla quale si fa fatica a staccare «pezzi» sublimi. A parte l'inevitabile scorpacciata di planimetrie e foto aeree, alcune cose da ricordare però ci sono. Per esempio le tavole in bianco e nero di alcune parti comparabili del tessuto urbano delle sedici città messe a confronto con il vecchio metodo à la Colin Rowe del pieno/vuoto. Il nudo profilo degli edifici, come ci insegnava Rowe, si rivela un lettore acutissimo delle differenze di densità e dei modi di occupare il suolo, e in fondo anche l'unico omaggio agli strumenti specifici della disciplina architettonica. Poi gli istogrammi tridimensionali delle densità campione delle città, raccolti intelligentemente in un'unica stanza, gotici e impressionanti come una gypsoteca del sovraffollamento urbano. Infine alcuni lavori dei fotografi e artisti visivi più bravi e interessanti, le immagini di Francesco Jodice e di Olivo Barbieri, l'ermetica scatola magica (video) di Andrea Cavazzuti su Shangai, e soprattutto la mostra al Padiglione Italia, con alcuni artisti davvero shocking e profondi (memorabili alcune fotografie di Robert & Shana Parkeharrison).
Non mancano ovviamente punti meno appassionanti, o scelte discutibili (il mito perduto di MiTo?), ma la visita alla mostra ci restituisce comunque un punto di vista solido e chiaro, ed è certamente meno estenuante di molte altre biennali.
Nota: per un confronto, le opinioni sulle stesso (?) tema di Paolo Vagheggi e Vittorio Gregotti e l'intervista al direttore Richard Burdett; manca ancora un commento dei sociofagi della "città infinita" (f.b.)
L’ombelico del mondo è a Venezia, tra l’Arsenale e i giardini di Castello. Qui è stata allestita la decima edizione della Biennale di architettura che ha per titolo Città. Architettura e società e qui sfilano le megalopoli, le città dove, come ripete in continuazione il direttore, l’inglese Richard Burdett, vive più della metà della popolazione mondiale. E la presentazione è da megalopoli: ai giardini una gigantesca fotografia di Shangai realizzata da Olivo Barbieri avvolge e stravolge magicamente l’intera facciata del Padiglione Italia, alle Corderie, un anfiteatro carico di filmati e di dati bombarda il visitatore (da ieri il vernissage, apertura al pubblico dal 10 settembre al 19 novembre, catalogo Marsilio).
Eppure questa Biennale rispetto alle passate stagioni è meno sensazionalista e visionaria, punta sull’urbanistica, la sociologia, l’economia, la statistica, la ravvicinata visione della città, messe in scena nell’antico corridoio delle Corderie attraverso il continuo confronto tra i dati di San Paolo, Caracas, Bogotà, Città del Messico, Los Angeles, New York, Il Cairo, Johannesburg, Istanbul, Berlino, Londra, Barcellona, Tokyo, Mumbai, Milano e Torino, Shangai.
Sedici giganti mostrati in sequenza con filmati, grafici, fantastiche fotografie satellitari e foto d’artista. E’ un universo colorato dai rossi e dai gialli delle case, dal verde dei parchi, presentato da grandi didascalie, quasi un National Geographic tridimensionale, con la perfezione e la ricercatezza tipicamente anglosassone. «E’ una Biennale da leggere oltre che da vedere», dice il presidente, Davide Croff, una scelta «un rischio» calcolato. E non mancano le polemiche, più o meno sotterranee, nazionali e internazionali. Su Internet c’è chi raccoglie firme contro il padiglione israeliano perché è dedicato a 15 edifici che commemorano sia l’olocausto sia i soldati israeliani caduti in guerra. Il padiglione americano che espone una serie di progetti per rivitalizzare e ricostruire New Orleans distrutta dall’uragano Katrina (After the flood) viene letto pro Bush e contro Spike Lee, che proprio a Venezia e proprio in questi giorni ha presentato un film di segno opposto. Genova, che l’Herald Tribune ha proposto come simbolo del pessimo futuro europeo, alla Biennale diventa l’esempio di una città che cambia e che riesce a entrare nell’era post industriale con i progetti, in parte realizzati, di ristrutturazione del porto.
La questione più delicata e sottile riguarda però l’architettura italiana del Novecento, soprattutto quella degli anni Trenta, la voglia di separare l’architettura dal fascismo, di dividerne il destino, buona la prima cattivo il secondo, pensiero che attraversa anche la classe politica. Le Artiglierie dell’Arsenale ospitano Città di pietra. Nuove possibilità di impiego strutturale di questo materiale antico con lo spettatore salutato da un obelisco alto 15 metri e da una volta a botte di 6 metri di diametro. Ma una sezione di questa mostra curata da Claudio D’Amato Guerrieri ha per titolo L’altra modernità ed è una rievocazione della stagione d’oro dell’architettura anni Trenta con un occhio di riguardo al Dodecanneso, alle città di fondazione italiana in Albania e in Libia, nonché a Roma, con lo stadio dei marmi.
Ma fu davvero indipendente dal regime l’architettura? Della «specificità» dell’architettura italiana del Novecento è convinto l’architetto Franco Purini, curatore del nuovo padiglione italiano appena costruito alle ex Tese delle Vergini, semplice e funzionale, pulito ed essenziale, dove è esposto il progetto di Vema, la città da edificare tra Verona e Mantova, padiglione destinato poi alle arti visive ma assai più piccolo del Padiglione Italia. Troppo? E’ una questione, come quella dell’architettura fascista, sicuramente destinata a infiammare gli animi. Ma è una questione «locale» di questa Biennale che vuol essere globale, che mette a confronto i modelli di densità delle 16 metropoli, che risponde a mille domande: Londra è una città a bassa densità e può crescere in modo sostenibile, Tokyo con 36 milioni di abitanti è la più grande, gli abitanti del Giappone hanno l’aspettativa di vita più lunga (75 anni), i bambini della Sierra Leone la più bassa, il tasso di crescita del Pil del Turkmenistan è il più alto, 16, 8 per cento.
Sono cifre che narrano la vita delle città, i problemi che i sindaci e i rappresentanti delle 16 metropoli studiate dalla Biennale hanno ieri spiegato e confrontato durante un work shop dove è emerso chiaramente che uno dei più importanti mutamenti strutturali in corso è il progressivo affievolirsi dei confini. Si stanno formando territori dove non v’è separazione tra una cittadina e l’altra. Esiste ormai anche una Grande Venezia, testimoniata dalle foto e dalle ricerche dello Iuav nel Padiglione Italia. E le città italiane sono ben presenti alla Biennale: Milano, con le iniziative di Risanamento per l’ex area Falk e Santa Giulia affidate a Renzo Piano e Norman Foster; Napoli, con la metropolitana carica di opere d’arte. E’una piccola grande meraviglia di questo metropoli show della globalissima Biennale veneziana.
Nota: con maggiore enfasi (e apparente schizofrenia), l'articolo sul medesimo tema di Vittorio Gregotti (f.b.)
CAGLIARI. E’ fatta. La Sardegna ha il Piano Paesaggistico, strumento-principe di pianificazione territoriale che fissa regole certe e soprattutto impone vincoli severi alle costruzioni negli oltre 1800 chilometri di coste dell’isola. Il sì della giunta, che ha cominciato i suoi lavori alle 20,30 (l’esecutivo era stato convocato per le 14), è arrivato alle 21,40. Poco prima dell’inizio della seduta, è giunto il parere della Commissione che aveva lavorato in contemporanea con l’esecutivo.
«Sono molto felice - ha dichiarato, a caldo, un raggiante Renato Soru -. La giunta e la maggioranza hanno tenuto fede a un impegno preso in campagna elettorale, che per noi era un punto fondamentale del nostro programma. La Sardegna, adesso, è salva: esiste mediamente una fascia costiera di tre chilometri dal mare dove non si potrà costruire nulla. Il territorio sardo non sarà più consumato».
La giunta. Alle 21, Gian Valerio Sannaha svolto la sua relazione. L’assessore ha ripercorso le tappe del lunghissimo iter che trae origine dalla bocciatura (per difetto di tutela) da parte del Consiglio di Stato di 13 dei 14 Piani Paesistici della Sardegna.
Le variazioni. Sanna ha poi illustrato le modifiche contenute nel testo finale rispetto alle norme già adottate dalla giunta, che non tenevano conto delle novità introdotte dal Codice Urbani. E’ così scomparsa la tabella dei livelli di tutela paesaggistica (motivo di contrasto con la Commissione), ed è stato introdotta una sorta di flessibilità nei vincoli, a seconda della natura e della posizione delle aree rispetto al mare. C’è un punto fermo, però: nelle zone in cui non esiste una volumetria, non si potrà costruire nulla (è il caso di Costa Turchese del gruppo Berlusconi e di Cala Giunco, dell’editore Sergio Zuncheddu), mentre sarà possibile intervenire nei centri abitati per riqualificare cubature esistenti, per le quali è anche previsto un premio pari al 25 per cento (via libera a Tom Barrack e alla nuova Costa Smeralda, e ai siti minerari del Sulcis). Terminata la relazione, Sanna ha risposto ad alcune domande degli assessori, e alle 21,40 il Ppr è stato varato, dopo le conclusioni del presidente della Regione.
Tempi rispettati. Non c’è stato lo slittamento del voto a stamattina (Renato Soru era nettamente contrario), come era stato ipotizzato durante una giornata caratterizzata dall’annunciato vertice di maggioranza e dalla riunione della Commissione Urbanistica, conclusasi con l’abbandono dell’aula da parte dei partiti di centrodestra. Non c’è stato bisogno di alcun rinvio proprio perché il parlamentino, dopo l’audizione dell’assessore all’Urbanistica, ha avuto la possibilità di esprimere un parere compiuto prima che la giunta cominciasse la sua riunione. Il presidente Giuseppe Pirisi e i commissari non hanno potuto prendere visione del testo finale della delibera, ma ogni polemica è stata bandita. «L’assessore - ha dichiarato Pirisi - ha fornito in modo esauriente tutti i chiarimenti richiesti dai commissari e dunque anche da parte nostra c’è stato il via libera».
Restano, è vero, alcuni punti non completamente condivisi. Superato lo shock per la mancata consegna della carta dei livelli, l’impegno della giunta è quello di venire incontro alle osservazioni del parlamentino soprattutto sulle costruzioni nell’agro, e sugli interventi di riqualificazione dei siti che dispongono già di una volumetria. Per gli aggiustamenti s’interverrà attraverso circolari esplicative e la riforma della legge urbanistica regionale.
La giornata. La scansione degli appuntamenti annunciati da giorni è stata rispettata alla lettera. Alle 9,30 la maggioranza (capigruppo e consiglieri della Commissione Urbamistica) ha cominciato a discutere, dopo aver ascoltato Giuseppe Pirisi, che l’altro ieri mattina aveva incontrato l’assessore all’Urbanistica per poi, nel pomeriggio, riferire al direttivo dei Ds. Il via libera della Quercia nel cuore della notte ha giovato all’intera coalizione al cui interno non esistevano altre posizioni contrarie all’approvazione del Ppr nella giunta di ieri.
Alle 11, ecco la Commissione. Protagonista della seduta, ancora Pirisi, che ha illustrato i chiarimenti fornitigli da Sanna sulle osservazioni del parlamentino. Si è poi reso necessaria l’audizione dello stesso titolare dell’Urbanistica, il quale ha ribadito il motivo per cui le tabelle dei livelli di tutela paesaggistica non avevano più ragione di esistere, alla luce delle nuove norme del Codice Urbani. Le zone agricole, poi. Gian Valerio Sanna ha confermato la scelta politica dell’esecutivo che intende vietare ogni tipo di costruzione nelle aree ricadenti nelle zone costiere. Si è anche parlato della riqualificazione delle costruzioni nei centri abitati (è previsto un premio di cubatura pari al 25 per cento di quanto già edificato), che sarà possibile solo con i piani di risanamento previsti dai Puc (se il Puc manca, scatta un’Intesa tra Regione, Provincia e Comune).
Soddisfatti ma non entusiasti, i consiglieri di maggioranza hanno apprezzato l’accoglimento di numerose osservazioni, e hanno poi accettato di rimandare a una seconda fase la definizione dei punti su cui non esiste il consenso.
All’audizione di Sanna, ha fatto seguito la svolta. La Commissione ha infatti deciso di proseguire a oltranza i suoi lavori per esprimere nella stessa serata di ieri il parere da inviare alla giunta per il varo definitivo del Ppr. La cosa non è piaciuta all’opposizione che ha abbandonato l’aula.
«Siamo all’emergenza istituzionale»
Il centrodestra abbandona la seduta della commissione Urbanistica
CAGLIARI. «Siamo all’emergenza istituzionale». Si fa sempre più dura l’offensiva politica del Centrodestra nei confronti di Renato Soru. Ieri pomeriggio in consiglio regionale l’opposizione ha abbandonato la seduta della commissione Urbanistica dopo che la maggioranza aveva deciso di andare avanti per dare immediatamente alla giunta il parere sul Piano paesaggistico. Il vice presidente Fedele Sanciu (Forza Italia), che sta per trasferirsi al Senato, ha affermato che «il marionettista Soru non si accontenta più di mettere a tacere il Consiglio, ora umilia e mortifica anche la sua maggioranza». Sanciu ha inoltre detto che con l’approvazione del Piano «si scrive la parola fine all’operazione volta al controllo totale da parte del presidente di tutti gli atti di programmazione e pianificazione urbanistica del territorio regionale, scippando di fatto alle amministrazioni locali delle loro prerogative e avvilendo l’operato di Province e Comuni». L’esponente di FI ha concluso: «Sotto la maschera di un falso ambientalismo viene impedita qualsiasi attività turistica dei piccoli e medi imprenditori sardi dando spazio solo ai grandi gruppi nazionali e internazionali, che nutrono le “simpatie” del presidente della giunta».
In mattinata tutto il Centrodestra (oltre ai capigruppo e ai membri della commissione c’erano anche parlamentari, segretari regionali e il sindaco di Cagliari Emilio Floris) ha tenuto una conferenza stampa d’attacco, dimostrandosi compatto. Durissime le critiche sia sul merito del Piano sia sul metodo «imposto dal governatore». L’opposizione ha ribadito il giudizio negativo sullo strumento paesaggistico che «blocca lo sviluppo turistico», «attribuisce al presidente della giunta il ruolo di «centro decisionale unico» in modo anche «arbitrario», «espropria di competenze le autonomie locali» e, nelle parole del capogruppo di Forza Italia Giorgio La Spisa, «trasformerà la Sardegna in un museo, da cui tanti sardi saranno costretti ad andare via». Soffermandosi sulla «discrezionalità» riservata all’esecutivo, La Spisa ha parlato di «contraddizione fra un Piano che dice di volere conservare il paesaggio e dall’altro lascia aperte tante possibilità, stravolgendo il sistema delle autonomie locali» e di scelte che «portano a compimento quanto già delineato nella legge 8 che affida alla giunta il potere di approvare strumenti urbanistici senza coinvolgere il consiglio regionale». Per il componente della commissione Urbanistica Franco Ignazio Cuccu (Udc) «nulla è consentito ma contemporaneamente tutto lo è, se di gradimento di chi comanda la partita. Nessun sardo che vorrà intraprendere iniziative imprenditoriali potrà avere conoscenza delle regole del gioco perchè tutto passerà attraverso il governatore». «Il messaggio peggiore - secondo Pierpaolo Vargiu, capogruppo dei Riformatori - è la divaricazione totale fra ciò che si è detto e ciò che si è fatto. Da un’impostazione rigida ispirata quasi a un’etica calvinista è disceso invece uno strumento che somiglia alla vendita delle indulgenze». I dissensi interni al Centrosinistra sullo strumento urbanistico sono il sintomo di una «crisi politica della maggioranza» per il capogruppo di An Ignazio Artizzu, che in riferimento al metodo seguito alla giunta ha parlato di «non ascolto e non condivisione che avrà conseguenze pesanti anche sul lavoro e l’economia di molte famiglie sarde».
Giudizi molto severi sul piano politico e istituzionale («siamo all’emergenza») sono stati dati anche dai coordinatori di FI e An (i senatori Piergiorgio Massidda e Ignazio Delogu), dal coordinatore dei Riformatori Michele Cossa, dal capogruppo di Fortza Paris Silvestro Ladu e dal rappresentante del Nuovo Psi, Raffaele Farigu.
La lottizzazione di Monticchiello, un pericoloso grimaldello.
Vittorio Emiliani
L'Unità, 2 settembre 2006
Non sarà un«ecomostro» la lottizzazione di Monticchiello di Pienza, in piena val d'Orcia, e però rappresenta un pesante sfregio al paesaggio, ancora intatto, di quella stupenda area collinare che l'Unesco ha di recente inserito nel patrimonio mondiale dell' umanità, unico sito paesaggistico, credo. Questa è stata la pronta risposta al riconoscimento dell'Unesco: un bel grappolo di 95 unità immobiliari suddivise in undici lotti.
Condivido in pieno l'allarme lanciato da Alberto Asor Rosa dalle colonne di Repubblica il 24 agosto scorso. Disgraziatamente le parole del sindaco di Pienza, Marco Del Ciondolo, riportate dall'Unità del 29 agosto, non mitigano quell'allarme. Egli racconta che la lottizzazione era stata pensata in funzione di un nobile intento (ma non c'erano altri mezzi meno invasivi?), quello cioè di trattenere sul territorio le giovani coppie locali altrimenti prive di alloggi. Poi le giovani coppie si sono come volatilizzate e quelle unità immobiliari sono diventate seconde case. Per niente indispensabili, ma certamente ben spendibili sul mercato immobiliare, nazionale e internazionale. Inviterei il sindaco di Pienza a Capalbio - dove la pressione dell'area di Roma è più forte -per vedere quali scempi stia provocando il mercato delle seconde e terze case, a Borgo Carige, a Capalbio Scalo e quasi sotto le mura medioevali del borgo capalbiese, a Poggio del Leccio, con costruzioni che saranno visibilissime dall'alto e dal basso. Mentre si riparla di nuovi accessi al mare oltre l'area protetta dell'oasi del Wwf, al lago di Burano, per raggiungere quei 15 chilometri di spiaggia ancora libera, ancora tutta a dune, che certamente fanno gola alla speculazione. Il sindaco di Pienza potrebbe constatare come la pressione speculativa possa stravolgere, letteralmente, un paesaggio eun ambiente. Per sempre. Temo che pure a Monticchiello si sia posta la prima pietra di una invasione cementizia che intaccherà profondamente la stessa isolata e integra Val d'Orcia. Si comincia sempre così, poi il grimaldello scassa anche il resto.
Qual è il punto nodale di questa politica urbanistica alla quale sembra non esservi rimedio? Sono le leggi regionali con le quali le Regioni stesse hanno sub-delegato i singoli Comuni a vigilare sulla corretta attuazione delle norme paesistiche, cioè su se stessi, diventando così, da controllati che erano, controllori di se medesimi. Una normativa assurda, grottesca, che sta provocando disastri in tutta Italia. Autoesclusasi la Regione, rimane infatti un solo potere di controllo sui Comuni: quello delle Soprintendenze. Che però sono state indebolite negli ultimi anni, nei mezzi, negli strumenti e nei poteri. Il Codice Urbani prevedeva infatti che esse non avessero più alcun potere di veto a valle del progetto, per esempio di lottizzazione, una volta espresso il loro parere (soltanto consultivo!) a monte della progettazione medesima. Per non parlare dei vincoli che una volta si potevano apporre con maggiore facilità e autorità da parte degli organismi ministeriali e che un malinteso regionalismo ha reso oggi molto più difficili Questo doppio meccanismo ha,nei fatti, castrato quasi ogni potere superiore di tutela lasciando i Comuni liberi di fare, più o meno, quello che vogliono. È quanto sta accadendo nella intatta (sino a ieri) Piana di Navelli nell'Aquilano, l'altopiano dello zafferano, ricco di chiese lungo gli antichi tratturi delle greggi, dove alcuni Comuni hanno preteso l'attuazione di un faraonico potenziamento della Strada statale 17 con un impatto ambientale e paesistico devastante. Che la stessa Soprintendenza fatica ora moltissimo ad arginare e a ridurre. Il caso di Monticchiello, così opportunamente sollevato da Asor Rosa (non si offenda il presidente della Comunità dell'Orcia, vigili e tuteli piuttosto), è la spia di un aggressione suicida al paesaggio italiano, possibile anche nel cuore dell'Italia più civile e più conservata. Dove c'era, mi risulta, un buon piano urbanistico. Dove ci dovrebbe essere un piano del Parco Artistico eNaturale dell'Orcia. Rimasti entrambi nei cassetti. Col risultato di dissipare non soltanto una bellezza antica e una identità cara a tutto il mondo, ma anche un patrimonio economico fatto di turismo altamente qualificato, di residenze italiane e straniere sensibili al recupero e al restauro dei borghi e dei casali, di presenze rispettose. Così si va dritti all'imbruttimento, alla massificazione, alla omologazione dell'Orcia, come della Piana di Navelli o della Maremma capalbiese, ai luoghi ormai travolti dalla speculazione immobiliare. Un processo dal quale, sciaguratamente, non si torna indietro. Ci pensino gli abitanti dei luoghi. Ci pensino i ministri Rutelli e Pecoraro Scanio: gli organismi di tutela vanno riqualificati e potenziati e quelle leggi regionali di sub-delega ai Comuni vanno azzerate al più presto. Nell' interesse delle regioni e delle loro popolazioni.
La Val d’Orcia tra apocalisse e riformismo
Riccardo Conti
L'Unità, ed. Firenze, 3 settembre 2006
Cara Unità, mentre leggo l'articolo di Vittorio Emiliani «un pericoloso grimaldello » mi trovo per l'appunto a Capalbio e sto lavorando con la Sindaco, un po' di assessori, progettisti e stiamo discutendo del nuovo Piano Strutturale. I temi che abbiamo di fronte sono proprio quelli di cui parla, con toni in verità «apocalittici», Vittorio Emiliani: le olivete, la salvaguardia, come frenare - ero tentato di dire «azzerare» - quell'eccesso di sollecitazioni immobiliari che gravano sulla Maremma e su tutto il territorio rurale toscano, che, è vero, rappresenta agli occhi della speculazione immobiliare un grande infinito potenziale mercato. Con la nostra riforma, con il nostro sistema di pianificazione questo cerchiamo di fronteggiare, contenere, se necessario, azzerare.
Se Vittorio Emiliani è interessato potremo fornirgli materiali, elaborazioni, spunti, idee: a partire dal testo della LR 1/2005 «Norme per il governo del territorio» per vedere se potremmo avvalerci anche di qualche suo suggerimento. Tuttavia c'è un punto di dissenso irrinunciabile con la tesi di fondo dell'articolo in questione che non può essere sottaciuto. Per motivi essenzialmente culturali e politici. Noi per contrastare la speculazione e per un buon governo del territorio investiamo tempo, denaro, energie, risorse sui Sindaci, sugli enti locali, sulla democrazia e sulla partecipazione. Altri su un centralismo di stampo ottocentesco. Invito a rileggere dagli atti parlamentari lo splendido intervento del '67 di Mario Alicata sul sacco di Agrigento e sull'alluvione di Firenze; allora le Regioni nemmeno c'erano, le Sovrintendenze si, la speculazione imperava e creava quei danni e quei dissesti. Un grande intellettuale come Mario Alicata puntava fin da allora il dito contro le Sovrintendenze e invitava ad investire in democrazia. Il tema ha un grande rilievo culturale; attiene alle idee sulla società di domani ma anche alla qualità delle battaglie culturali di oggi. Se qualcuno pensa di governare società complesse, variegate Zygmunt Bauman le chiama «liquide», a furia di editti, decreti, vincoli; auguri! Noi preferiamo la strada dura e faticosa ma non illusoria - certo senza esisti scontati - della partecipazione, del confronto, della crescita politica e culturale. Vivaddio anche di buone leggi, di buoni piani, mestiere che noi toscani pensiamo di saper fare egregiamente. Siamo una Regione dove da due settimane uno stimolante intervento di Asor Rosa su caso di novantacinque nuovi alloggi, purtroppo, in via di costruzione in Val d'Orcia ha innescato un dibattito che impegna sindaci, assessori, intellettuali, giornalisti.
Questo è un bene, può segnare, infatti, la strada di una crescita vera di una cultura urbanistica più avanzata e la sostanza di un metodo riformista di governo del territorio. Fatto questo importante quasi come buone leggi e buoni piani. Questa è la nostra esperienza che pure ancora non ci accontenta e che lavoriamo ogni giorno a migliorare. Insomma non siamo istituzioni che il lunedì si occupano della tutela e il martedì dello sviluppo, ma vogliamo rappresentare una cultura che sa affrontare insieme tutela e sviluppo. Questo chiama democrazia, sindaci, amministratori un grande patto istituzionale per un governo sostenibile del territorio. Il centralismo invocato nell'articolo ci taglierebbe a fette; tutelare sarebbe cosa diversa dal governare. Questa sì è una prospettiva destinata alla sterilità e all'inefficacia. Il tema ha una valenza politica indiscutibile; ricordo a me, prima che ai lettori dell'Unità, che nelle analisi della sconfitta del 2000 che aprì la strada al berlusconismo, abbiamo criticato un'azione troppo volta al «riformismo dall'alto». Reichlin ha parlato di «riformismo senza popolo». Quello che vogliamo fare in tema di governo del territorio è anche tanto «riformismo dal basso». Sarebbe interessante se il tanto «riformismo dal basso» che amministratori, tecnici, intellettuali, cittadini praticano ogni giorno senza poter accedere agli onori delle cronache giornalistiche, potesse incontrarsi con una buona, indispensabile riforma del governo del territorio di tipo parlamentare. Sì, la nostra azione trova spesso limiti insormontabili nei regimi dei suoli, in quello fiscale, nella difficoltà nel praticare buone politiche di perequazione; insomma nell'aleatorietà di strumenti che solo una buona riforma a livello nazionale potrebbe darci. L'appello che faccio io ai ministri del centrosinistra è che insieme ai «riformisti dal basso» possano impegnarsi per darci questa buona legge.
*Assessore Regione Toscana al Territorio e Infrastrutture
Pienza, Capalbio e l’importanza delle Soprintendenze
Vittorio Emiliani
L'Unità, ed. Firenze, 4 settembre 2006
Caro direttore,
l'assessore regionale toscano all'Urbanistica, Riccardo Conti, rispondendo al mio articolo comparso su l’Unità di sabato, mi dà dell'«apocalittico » a proposito del giudizio sugli sviluppi edilizi di Monticchiello-Pienza (lottizzazione denunciata da Alberto Asor Rosa e che neppure lui condivide) e su quelli promossi a Capalbio dalla giunta di centrodestra che ha preceduto quella attuale. Dico solo: andare a vedere per giudicare; il panorama edilizio (tutto di seconde e terze case) parla da sé e il mega-parcheggio grida ancora vendetta. Nocciolo del discorso: per Conti la «buona urbanistica»non si fa con vincoli e controlli (tanto più se ministeriali), ma con la discussione e con la partecipazione democratica. Quest'ultima è certamente fondamentale, e tuttavia, in democrazia, è bene che i Comuni non siano i tutori di se stessi e che abbiano, sopra di loro, un controllo regionale, o provinciale, e ministeriale (Soprintendenze, cioè Stato). In Toscana è mancato il primo livello e il secondo appare, visto da Capalbio e da Monticchiello, decisamente debole. Menomale che il ministro Rutelli ha subito disposto una inchiesta sulla situazione di Pienza. Infine: per la Regione Toscana la tutela dei beni culturali e paesistici dovrebbe essere regionalizzata, modificando, evidentemente, l'articolo 9 della Costituzione che la affida alla Repubblica, cioè allo Stato, in primis, con la collaborazione di Regioni e autonomie locali. Riccardo Conti cita la drammatica frana di Agrigento e scrive che le Soprintendenze, allora, c'erano già. Verissimo. Solo che in Sicilia erano rinate, nel 1947, «regionalizzate». Proprio come le vorrebbe, ora, la Regione Toscana e come molti di noi, invece, non le vogliono. Anche qui, andare a vedere per credere. Cordialmente
Con le nuove norme urbanistiche, un caso Monticchiello non sarà più possibile
Mario Lancisi
Il Tirreno, 5 settembre 2006
Mai più ecomostri come quelli - così numerosi - documentati nelle inchieste del "Tirreno". Mai più, assicura il presidente della Regione Claudio Martini: perché entro dicembre saranno operativi i nuovi strumenti urbanistici che la Regione si è data. Con i nuovi vincoli «un caso Monticchiello non sarebbe stato possibile». Per il passato però la Regione è impotente: «I miei legali mi dicono che non ci sono margini per intervenire», si difende Martini. Di ritorno dalle ferie trascorse tra Salisburgo e l'isola di Capraia, Martini si è ritrovato sul tavolo la "grana" di Monticchiello, l'insediamento urbanistico contro cui si espresso il furore polemico di Alberto Asor Rosa. Un caso che poi si è trasformato in dibattito suU'edilizia selvaggia in tutta la Toscana.
Una grana che l'intervista al "Tirreno" dell'assessore ai trasporti e all'urbanistica Riccardo Conti avrebbe reso ancora più vistosa agli occhi del governatore, stando almeno ad alcune indiscrezioni. Per almeno due ragioni. Conti ha definito «uno schifo» l'insediamento di Monticchiello, e di fronte ad uno schifo, ha replicato Asor Rosa, non si può dire che la Regione non può fare nulla. Seconda ragione: Conti ha accusato Asor di predicare bene ma di razzolare male: «In Toscana ha due seconde case...». Una caduta di stile che non sembra molto piaciuta a Martini.
«Non ci piace, però.....E così ieri il governatore ha preso in mano la patata bollente delle varie Monticchiello toscane. Ha confermato quanto già detto da Conti: la Regione non può farci nulla. E' stato però meno drastico nel giudizio sul complesso residenziale in costruzione a Monticchiello, in difesa del quale si erano spesi il presidente della provincia di Siena e il sindaco di Pienza, entrambi diessini: «Noi non condividiamo quell'opera - ha detto Martini - ma non possiamo farci niente. Possiamo solo rafforzare gli strumenti perché in futuro un caso Monticchiello non accada più». E al ministro per i Beni culturali Rutelli che ha chiesto gli atti dell'insediamento, Martini ha fatto sapere di essere disponibile a collaborare.
Choc e dialogo. Ma è soprattutto su Asor Rosa e le critiche piovute in questi giorni sull'urbanistica toscana che il governatore ha voluto aprire ai critici: «La vicenda ha aperto una discussione utile. Possiamo cogliere questa opportunità per ripartire con un dibattito culturale, anche interno alla sinistra, sulla ecosostenibilità. Il caso di Monticchiello ha offerto un'utile occasione di riflessione, una sorta di choc positivo per approfondire i problemi della tutela e della sostenibilità urbanistica e gli strumenti più efficaci per scongiurare il ripetersi di simili interventi».
«No al centralismo». Martini ha invece polemizzato con la proposta di restituire allo Stato o alla Regione le competenze urbanistiche per toglierle dalle mani dei comuni: ««Sarebbe sbagliato e ingiusto buttare la croce addosso ai Comuni, invocando un nuovo centralismo. Se la Toscana conserva ancora oggi la sue caratteristiche ambientali il merito è anche e soprattutto dei Comuni. Nell'ultimo decennio le previsioni dei piani urbanistici sono passati da 8 a 4 milioni di abitanti. Voglio mettere in guardia da facili scorciatoie e da tentazioni bonapartiste».
Se i Comuni fanno cassa. Martini ha poi accennato a due cause possibili del degrado urbanistico. Intanto la politica dei Comuni: «Se le risorse che arrivano sono sempre meno, alcune amministrazioni vedono negli oneri di urbanizzazione entrate vitali».
E, in secondo luogo, ha concluso Martini «c'è da considerare l'aumento della pressione nel settore edilizio con la crisi di altri comparti produttivi». Un'economia da anni in zona recessione ha trovato nello sviluppo edilizio una boccata di ossigeno. La Toscana produttiva è entrata in crisi mentre ha preso slancio, anche troppo, la rendita finanziaria e immobiliare.
Quanto è banale quell'ecomostro
Vieri Quilici
La Repubblica, 5 settembre 2006
La notizia apparsa su La Repubblica del 24 agosto che il cemento stia cominciando a minacciare seriamente una zona della Toscana conosciuta per il suo straordinario paesaggio e per i suoi altrettanto straordinari beni culturali, ma soprattutto per l’attaccamento della sua popolazione alle proprie tradizioni - avrebbe, come prima impressione, dell’incredibile. Stiamo infatti parlando della Val d’Orcia e in particolare di Monticchiello dove il locale Teatro Povero da decenni propone un continuo confronto critico tra passato e presente come modo consapevole di affrontare i problemi di quel territorio e di quella comunità.
Circa dieci anni fa proprio per quella zona veniva approvato dalla Regione Toscana, dopo un lungo e travagliato lavoro preparatorio, la costituzione di un Parco Artistico Naturale comprendente il territorio dei cinque comuni della Valle (Castiglione, Montalcino, Pienza, Radicofani, San Quirico) che così rientravano in un’unica vasta area protetta. Il progetto si ispirava a princìpi in senso lato ecologici, puntando su di uno sviluppo fondato sulle risorse locali - culturali innanzi tutto, ma anche materiali ed umane - e teso a creare le basi per una ricettività ed una corrispondente redditività diffuse, a conferma di un’esistente, straordinaria qualità ambientale. Un progetto che non intendeva alterare una realtà di per sé preziosa. Al fondo, il segreto di quel territorio, che lo rendeva per molti versi unico e che andava assolutamente rispettato, consisteva nel delicatissimo equilibrio tra popolazione insediata nei borghi ed uso del suolo, ordinato secondo un’armonica alternanza di grandi estensioni a grano e di coltivazioni agricole pregiate.
Questo era quanto si era riusciti ad ottenere sotto la spinta dei Comuni interessati e grazie ad alcuni ammirevoli amministratori locali.
Accadeva dieci anni fa. Oggi invece sorge l’"ecomostro" di cui l’articolo di Asor Rosa ci ha fornito una spietata ma assai precisa descrizione. Siamo di fronte ad un ennesimo paradosso? Non proprio. Ciò che sta accadendo, che purtroppo non risponde a quanto sembrava acquisito sul piano delle intenzioni, risponde invece a meccanismi che tipicamente conseguono all’assenza di un’effettiva politica territoriale. Il progetto di Parco prevedeva ad esempio alcuni interventi che avrebbero dato senso all’intera operazione e di cui non si è più avuta notizia. Dal recupero dell’alveo fluviale, da sempre ridotto a una sequela di cave di sabbia, alla risistemazione dell’area interessata da un’opera rimasta - per fortuna - irrealizzata, la diga di San Piero in Campo; dall’attrezzatura come strada-parco del tratto della Cassia che attraversa la valle in alternativa alla sua trasformazione in superstrada, in gran parte in rilevato (progetto Anas), all’organizzazione di una rete di percorsi che doveva connettere i casali storici sparsi secondo l’antica logica dei "poderi", e così via, con una decina di progetti che avrebbero potuto dare il segno di una strategia coerente con le intenzioni iniziali.
I meccanismi che si sono messi in moto sono dovuti invece più all’assenza che alla presenza di iniziative ed è chiaro che quando non si persegue un obiettivo guidando coerentemente l’evoluzione dei processi, quando non si avvia una strategia che guidi i comportamenti, non solo economici, dei soggetti interessati e degli amministratori, a quel punto non ci si può sottrarre alla pura logica di mercato. Vale a dire, per quanto riguarda l’uso del suolo, al suo sfruttamento edilizio, verrebbe da dire monocolturale.
La questione va anche oltre i limiti di un caso locale: essa può forse anche essere vista nella sua emblematicità tutta italiana. Sembra infatti oggi necessaria una riflessione su alcuni aspetti cruciali della politica di salvaguardia dei beni ambientali per mettere in guardia dalle conseguenze dell’equivoca, malintesa alternativa tra conservazione e sviluppo (che è concetto moderno) inteso, il secondo termine, come "modernizzazione", inevitabilmente soggetto quindi alla banalizzazione dell’immagine, ma anche al suo potere di corruzione nei confronti del gusto e dei consumi correnti.
Si pensi, nel caso segnalato, alla banalità del modello proposto, assimilabile quasi a quello del villaggio turistico, se confrontato con la ricchezza storica del sistema insediativo-produttivo dei poderi e dei "casali". Una banalizzazione che più in generale sta degradando l’offerta di un turismo culturale nazionale sempre più massificato.
Una riflessione necessaria, così come sarebbe il caso di riflettere su come in nome di una ugualmente malintesa democratizzazione delle decisioni si possa giungere ad alcuni eccessi nei meccanismi di delega a singoli poteri locali di fondamentali funzioni di indirizzo e di controllo. Il progetto Val d’Orcia prevedeva, a correzione di tali tipi di eccesso, la formazione di un organo di governo collegiale, costituito dalla Conferenza dei sindaci, che però non sembra particolarmente attivo e convinto delle proprie funzioni.
Mai forse come in questo caso la metafora del Buongoverno (non la "governance", per carità!), appare oggi appropriata ad indicare come e quanto ancora si potrebbe fare e soprattutto a non fare. Sembra tra l’altro che sia stata proprio la corrispondente immagine del Lorenzetti presente nel famoso affresco senese, confrontata con quella attuale di Monticchiello, a convincere i funzionari Unesco del valore unico ed inestimabile di un paesaggio - opera d’arte e a dichiarare la Val d’Orcia patrimonio dell’umanità. Di "ecomostri" in costruzione non avevano ancora sentito parlare.
Postilla
In Campania eccesso di potere regionale; in Toscana eccesso di potere comunale. Non sono forse due facce dello stesso errore? Che è quello di non comprendere che ci sono responsabilità della Regione e responsabilità del Comune, che la tutela del paesaggio è responsabilità primaria della prima (e dello Stato), e che ad essa (e allo Stato) spetta anche promuovere uno sviluppo economico non basato sui valori immobiliari. Ne hanno consapevolezza i governanti di oggi? Non sembra proprio, se in Val d’Orcia (e altrove) ognuno può costruire il villaggio turistico che gli pare senza che la Regione abbia stabilito prima regole rigorose di tutela del paesaggio, e se i sindaci sono indotti a consentire speculazioni inutili (per l’economia) e dannose (per il paesaggio e il futuro) per poter pagare gli stipendi.
La metropolitana di Napoli deve la sua iniziale notorietà alla scelta dell’amministrazione di commissionare a grandi artisti [ vedi la postilla] opere site-specific per gli spazi interni ed esterni delle stazioni, in modo da riuscire in un colpo solo a rendere più attraente l’uso del mezzo pubblico, a dare impulso alla riqualificazione di quartieri degradati e a offrire una sorta di “museo obbligatorio” a una popolazione che in precedenza non ha mai avuto molte occasioni di contatto con l’arte contemporanea.
Il successo di questa operazione, unito all’aspettativa suscitata dai progetti di Siza, Fuksas, Rogers, Tagliabue, Perrault, Botta e altri per le nuove “stazioni dell’architettura” in corso di realizzazione, ha avuto però l’effetto di dirottare l’attenzione sui singoli interventi, lasciando in ombra l’imponente progetto della rete infrastrutturale. Quello che sta avvenendo a Napoli, in effetti, non è il prolungamento di una linea o la costruzione di un passante ferroviario, ma l’attuazione di un rivoluzionario sistema dei trasporti elaborato a partire dal 1994 nell’ambito di un processo di pianificazione integrato con l’urbanistica.
I numeri sono impressionanti: una volta ampliate, interconnesse e rifunzionalizzate le linee su ferro esistenti, e dopo averne costruite altre 3 ex novo, le linee della metropolitana dovrebbero passare entro il 2011 da 2 a 10, le stazioni da 45 a 114, i nodi di interscambio da 5 a 36, la popolazione servita dal 25% al 70%. Porto, stazione centrale e aeroporto saranno finalmente connessi dalla sola linea 1. Dopo la Tav, è la grande opera più importante d’Italia. Un investimento di tale portata lascia facilmente intuire come Napoli, più di qualsiasi altra città italiana, abbia individuato nella mobilità un potente strumento di trasformazione urbana, assegnandole un ruolo che oltrepassa gli stretti limiti delle problematiche della congestione. Se infatti l’altissima densità (8.551 ab/kmq contro i 1.841 di Roma) e la complessa orografia della città rendono indispensabile l’offerta di un’alternativa seria all’uso dell’automobile, la progettazione della rete non ha più nulla a che vedere con la banale esigenza di collegare centro e periferie: l’obbiettivo primario è anzi annullare la gerarchia tra il centro storico di Napoli e il suo circondario, formato a sua volta da centri storici e insediamenti di edilizia popolare saldati l’uno all’altro da uno sprawl ininterrotto.
A questo scopo le linee della metropolitana, invece di assumere la classica configurazione radiale, sono state strutturate in tre anelli intersecati tra loro e da una serie di collegamenti trasversali, in modo da garantire la più ampia possibilità di spostamenti ‘orizzontali’ tra i luoghi senza l’obbligo di passare per il centro e un altissimo numero di nodi di interscambio. I percorsi della metropolitana non si limitano, inoltre, a coprire le zone già abitate, ma precedono e condizionano la progettazione delle aree di futuro sviluppo: come nel caso della linea 8, che servirà l’area interessata dal progetto di riconversione dell’ex-Italsider di Bagnoli, destinata ad accogliere un parco, un porticciolo turistico e la città della scienza, o della linea 3 (che forma insieme alla 4 l’anello est) e di un tratto della 1, fondamentali per i nuovi piani di espansione del Centro Direzionale e di riorganizzazione dell’area orientale.
Ancora più interessanti sono gli interventi di eliminazione delle barriere: mentre nel resto d’Italia si continua a costruire infrastrutture pesanti come negli anni ’50, con un atteggiamento di totale indifferenza verso il contesto, a Napoli si elaborano soluzioni per cancellare quelle più dannose. La realizzazione della metropolitana regionale Alifana – che prevede l’interramento della vecchia linea ferroviaria che collegava il centro della città con i comuni a nord – ha creato ad esempio l’opportunità di progettare la riqualificazione di un’area notoriamente ‘difficile’ che tocca Miano, Secondigliano, Piscinola e Scampia: la sostituzione dei binari di superficie con una strada alberata e la ricucitura dei tessuti viari secondari determina l’attivazione di un nuovo spazio pubblico e di un’accessibilità finora sconosciuta a centri urbani da sempre separati.
“L’urbano è essenzialmente il luogo dello scambio, della mobilità”, non si stanca di affermare Bernard Tschumi. Il movimento frenetico ha sempre connotato la città di Napoli, ma questo è il primo tentativo serio di convertirlo da un’esperienza di fatica e sopraffazione in una forma di qualità della vita.
Lo scandalo è che la metropolitana di Napoli, prodotto di un lavoro ultradecennale di governo del territorio e di pianificazione urbanistica e di settore, debba la sua notorietà alle opere di qualcdhe Grande Firma. That's Italy, baby.
Titolo originale: Goodbye Suburbs – Traduzione di Fabrizio Bottini
Per molte famiglie di New York City, gennaio è il mese più crudele. È il momento in cui si diventa gravemente claustrofobici in un appartamento stipato di bambini e del fitto sottobosco di plastica in cui prosperano. È anche il momento, per molti, di ponderare sull’assurdità (o impossibilità) di pagare migliaia e migliaia di dollari per la scuola privata, di cui si avvicina la rata del semestre.
Ma chi sta progettando una rapida fuga verso il suburbio (spazio! scuole! spazio!) forse possono prendere in considerazione l’esperienza di altri che l’hanno fatto prima di loro, sono per tornarsene indietro nel giro di un anno.
”Non me ne andrò più dalla città; sono terrorizzata dall’idea di lasciare la città” dice Anna Hillen, 42 anni, riassumendo il sentimento che prevale fra i rimpatriati sentiti per questo articolo.
La signora Hillen, il marito, Gerry McConnell, 42 anni, e il figlio Duncan, che aveva un anno all’epoca, hanno lasciato libero il loro loft di TriBeCa nel dicembre 2001, poco dopo gli attentati di settembre. Hanno acquistato una “McMansion” apppena costruita di 500 metri quadrati su oltre un ettaro di terreno nell’enclave di lusso semirurale di Westchester a Pound Ridge, New York, non lontano dalle case di campagna che avevano già affittato.
”Era uno spazio gigantesco, riecheggiante” dice la signora Hillen, e aggiunge “Era magnifico avere tutto quello spazio, ma non l’abbiamo mai usato”, salvo per radunare la famiglia allargata durante le vacanze.
Una volta sistemati, la signora Hillen, mamma a tempo pieno, ha tentato una infruttuosa caccia alla ricerca di compagnia. “Là fuori, bisogna faticare per stare con la gente” dice. “In un anno, sono riuscita un sola volta a trovare un compagno di giochi per il bambino. Ci siamo iscritti al Newcomers Club, ma hanno richiamato solo quando avevamo già messo in vendita al casa. Si cerca una biblioteca per leggere e non ce n’é”. Commenta, “Sei una solitaria casalinga disperata senza niente da fare”.
Anche gli spazi da gioco erano desolatamente vuoti. “E nelle rare occasioni in cui c’era qualcuno e si tentava di attaccare discorso – racconta – letteralmente se ne andavano. E non incoraggiavano i bambini a giocare insieme. Siamo rimasti scioccati”.
Passava in città tutti i mercoledì. A casa, si teneva occupata col giardinaggio. Ma, racconta, “si può far giardinaggio solo per un certo numero di ore al giorno. E Duncan: voglio dire, non si pensa in genere che a meno di due anni abbiano una personalità, ma ce l’hanno. Non voleva uscire. Era estate, stavo fuori ad aspettarlo con un ghiacciolo per andare ‘Su, tesoro, ti do il ghiacciolo se vieni fuori’, ma lui se ne stava sulla porta”.
Dopo nove mesi, ha convinto il marito – che si stava godendo il suo pendolarismo ridotto al lavoro nei servizi finanziari a Greenwich, Connecticut – a vendere al casa. “L’estate era venuta e andata, e io pensavo a un altro inverno da passare completamente sola” dice, ricordando tra le altre preoccupazioni le frequenti interruzioni di corrente, insieme ai ristoranti così così e alla mancanza di consegne a domicilio delle provviste. “È stato molto comprensivo, pover’uomo”.
Entro dicembre 2002la casa era stata venduta in perdita, i mobili messi via, e la famiglia di nuovo sistemata nel vecchio appartamento da 150 metri quadrati, due camere, tre bagni a TriBeCa, che non avevano venduto.
Val la pena notare che i sobborghi sono popolati da innumerevoli ex cittadini soddisfatti, con pochi o nessun ripensamento. Le coppie intervistate, che si aspettavano di aggiungersi a quei ranghi, raccontano come il motivo per muoversi era legato alla vaga idea che si trattasse di una cosa necessaria per crescere dei bambini: un normale passaggio da una fase della vita a un’altra, nel quale avrebbero trovato compagnia in abbondanza.
”Tutti dicono che quando hai un bambino te ne vai dalla città” dice Ronn Torossian, 31 anni, presidente e direttore della 5W Public Relations a Manhattan. In luglio, insieme a sua moglie Zhana – e alla figlia di un anno – ha venduto il grande monolocale all’angolo fra West 68th Street e Broadway per trasferirsi in una casa da oltre 300 mq su due livelli a Englewood Cliffs, New Jersey, vicino a degli amici. Aiutati da Ilan Bracha, broker alla Prudential Douglas Elliman, che aveva venduto il loro appartamento sulla West 68th, in dicembre sono tornati ad abitare in affitto un isolato più a sud da dove erano partiti.
”È come essere morti, là fuori” racconta con la sua parlata veloce il signor Torossian, nativo del Bronx che ha anche resistito ai ritmi relativamente tranquilli, come le consegne a domicilio che chiudono alle 9 di sera, o il giornale consegnato alle 7,30 del mattino.
”Non posso aspettare 15 minuti in una panetteria per avere due panini” dice. “non è possibile che ci sia gente che mi guarda come se fossi impazzito se entro e metto una moneta sul tavolo per uscirmene col giornale. Vado a casa e c’è gente che falcia il prato ogni cinque minuti. Sembrano persone normali, ma davvero passano ore su quel prato”.
Quello che gli ha fatto rifare il gran salto alla fine, dice, è il “dramma” degli spostamenti in auto per andare al lavoro a Midtown. Alle cinque del mattino, quando normalmente Torossian si spostava per evitare il traffico, ci volevano anche solo 17 minuti. Ma tornare richiedeva tre o quattro volte tanto (due ore o più col tempo cattivo), in parte a causa dell’ingorgo nel parcheggio a Midtown. “Chiamare prima non serve perché tutti escono alla stessa ora” dice. “Se non si da’ una mancia ai ragazzi, si devono aspettare 15-20 minuti per la consegna della macchina”. Dice di aver speso cento dollari in una settimana, in mance.
Tutti i suoi fumi sono svaporati dal ritorno in città lo scorso mese. “Mi sento come se stessi camminando sull’acqua” dice. “È un livello di stress completamente eliminato dalla mia vita. Esco molto di più, mi rimane più tempo da passare con mia figlia, è meno stressante al lavoro. È fenomenale”.
Altri di ritorno sottolineano come oltre i confini della città i posti non siano quello che sembrano.
”Si va in queste piccole cittadine che sembrano affascinanti e dolci, con tutti i piccoli bei negozi” racconta Brian Lover, che ha rimesso in vendita la sua casa di West Orange, New Jersey solo tre mesi dopo essersi trasferito lì. “Ma credo che quando si sta a tempo pieno in queste zone, i negozi non appaiono più tanto carini. E quei ristoranti nei paraggi che sembravano grandiosi, adesso si sa quanto siano cattivi, in realtà”.
Lover, 42 anni, vicepresidente al Corcoran Group, e sua moglie, Kristina Rinaldi, 41 anni, decoratrice di interni, hanno deciso di lasciare il monolocale in affitto sulla West 55th Street quando hanno avuto la figlia, Tallulah. Volevano abitare a Montclair, New Jersey, luogo che attira molti aspiranti all’esurbio. Sconfitti nella battaglia delle offerte al rialzo, hanno ampliato la ricerca alla vicina West Orange. Lì si sono fatti istupidire da “una vecchia casa Tudor inglese con un tetto a falde, con un certo carattere, e mezzo ettaro di terreno” ricorda Lover, che all’epoca lavorava come direttore pubblicitario della rivista Esquire.
Nel luglio 2001 comprarono la casa a 480.000 dollari; aveva un’aura di sogno. “Tutti i giorni arrivavo a casa e mi dicevo sono davvero un re, e questo è il mio castello, come mi sento?”.
Portandosi la bambina, la coppia frugava parchi e circoli sportivi nella vicina Montclair, immaginando “qui troveremo la gente di città e i genitori simpatici” racconta Lover. “Ma non c’era nessuno con cui avessimo qualcosa in comune. Sono conoscenze superficiali”. E la gente dalla città che speravano di incontrare? “Non erano più gente di città” dice. “Il suburbio in qualche modo ti succhia fuori la città”.
Gli avvenimenti dell’11 settembre hanno dato la spinta finale. “Ci sentivamo un vuoto allo stomaco, perché era la nostra città, e noi non stavamo coi nostri amici che ci abitavano” dice. La coppia ha preso in affitto un loft da 130 mq senza divisioni interne a Nassau Street, vicino a ground zero.
”Abbiamo perso qualche soldo” dice Lover del ritorno a territori familiari. “A molte persone potrebbe sembrare piuttosto tortuoso. Per quanto riguarda noi, non mi interessavano i soldi. Volevo indietro la mia vita”.
A poca distanza da Montclair lungo la Garden State Parkway sta Ridgewood, New Jersey, considerato da molti come una delle cittadine per pendolari più desiderabili dello stato.
È decisamente un sogno per qualcuno; ma non il nostro” dice Andrew McCaul, fotografo di 37 anni che è tornato da Ridgewood a Carroll Gardens, Brooklyn, in giugno: esattamente un anno dopo ave comperato per 580.000 dollari una casa da tre stanze in stile coloniale olandese, raggiungibile a piedi dalla cittadine, insieme a sua moglie Sarma Ozols, 36 anni, e al figlio Aidan, che ora ne ha 2.
Il loro soggiorno suburbano è iniziato in modo promettente nel giugno 2004. “È stato come una luna di miele, una sensazione come quella di avere una casa di campagna per l’estate” ricorda McCaul. Ma dopo tre mesi “è cominciata la vita reale”.
Per cominciare c’era lo spostamento pendolare. “Ci si autoconvince che spostarsi sia più facile di quanto non sia” dice McCaul, che è riuscito solo occasionalmente a prendere il treno espresso per lo spostamento diretto da 40 minuti. “Ho passato molte serate deprimenti alla stazione di Hoboken” continua, aspettando più di mezz’ora per una coincidenza.
”Se si esce a bere qualcosa con gli amici, si sta sempre a guardare l’orologio” dice. Aggiungendo il danno al fastidio, McCaul è passato attraverso una versione suburbana della sindrome Freshman 15 [ gli adolescenti che ingrassano nel primo anno di college n.d.t.], aggiungendo 5-7 chili al suo fisico normalmente asciutto, di cui da’ colpa ad uno stile di vita principalmente non-pedonale.
Anche se la coppia trovava simpatici i vicini, la signora Ozols, fatografa part-time a casa col bambino, ricorda di essersi sentita tagliata fuori. “Mi mancava un gruppo di mamme, e immagino che l’avrei trovato se mio figlio fosse stato più grande e fosse andato a scuola” dice. “Non è tanto facile come a Brooklyn dove inizi a chiacchierare al campo giochi e trovi sempre qualcuno”.
Poi ha anche scoperto che lo spazio a cui non era abituata – la casa era ampia se paragonata ai 70 metri quadri in affitto lasciati – “mi pesava addosso”. E ha sviluppato una insolita, sgradevole mania per le attività domestiche. “Il giorno del Ringraziamento più o meno mi sentivo di dover essere una specie di Martha Stewart, con tutti i piatti adatti eccetera” racconta.
Hanno fatto un’inserzione per la casa e l’hanno venduta a 60.000 dollari in più di quanto l’avevano pagata. Ora la coppia, che ha avuto un altro bambino da quattro mesi, Julian, sta completando le procedure di un appartamento in condominio da due camere e due bagni su 100 metri quadrati a Carroll Gardens West. “Molto più piccolo, ma è tutto quello che ci serve” dice la signora Ozols.
Melanie Williams, 40 anni, ha deciso che più piccolo può anche essere meglio. Nel febbraio 2004, ha cambiato il suo appartamento in affitto bloccato a 950 dollari al mese in un “decrepito” edificio a Hell’s Kitchen con uno spazioso da quattro stanze da 1.350 dollari a Riverdale, zona di ambiente suburbano nel Bronx, in parte per via delle buone scuole disponibili per la figlia Dorothy, che ora ha 5 anni.
”È un po’ terra di nessuno dal punto di vista umano” dice la signora Williams, proprietaria di Plain Jane, negozio di arredamento per bambini nello Upper West Side. “Non si incontra mai nessuno. C’è una piccola strada con un mercato delle carni. Strana ma bella”.
I vandalismo preoccupava. L’auto di famiglia fu danneggiata parecchie volte quando era parcheggiata sulla strada: una triste necessità, dice, perché i garages erano pieni. E nei nove mesi successivi, racconta, insieme al marito attore/falegname Andrew Finney, 44 anni, scoprì che nonostante si fossero trasferiti “la nostra vita era ancora a New York”.
Nel novembre 2004, hanno affittato un loft da 80 metri quadrati nel quartiere finanziario, nell’apprezzato distretto scolastico 234, che costa un terzo in più dell’appartamento a Riverdale. “Non importa” dice. “Dovevamo uscire da lì”.
Molte coppie tornate a precipizio in città concedono che le cose avrebbero potuto mettersi in modo diverso se avessero avuto bambini in età scolastica, a fungere da legame più solido con la comunità.
”Per noi è stato un po’ prematuro, dato che non abbiamo figli” dice Sara Mendelsohn, del trasferimento insieme al marito Brian, in un appartamento in condominio da una camera a Great Neck, Long Island, la scorsa primavera. I ventisettenni neo-sposi hanno comperato questo alloggio ristrutturato dopo aver deciso che i soldi a disposizione non sarebbero bastati per Manhattan.
Le cose in un primo tempo sono andate bene. “Abbiamo comprato un’automobile e ci piaceva davvero avere questo tipo di libertà” racconta la Mendelsohn, che lavora come business planner alla Marc Jacobs. “Avevamo sempre passato le vacanze estive da quelle parti nelle case delle nostre famiglie”. Ma non sono riusciti a integrarsi nella comunità. Soprattutto perché non sono riusciti a trovarla.
”Tornavamo a casa a piedi dal treno sino all’appartamento, e non c’era mai nessuno per strada dalle 7 alle 10 di sera” dice. “Si ha la sensazione di essere soli. Si esce col cane, e non c’è nessuno”. Insieme al marito, che lavora nelle vendite per il settore comunicazione, hanno offerto l’appartamento da ottobre a 299.000 dollari; ora sono in contatto con Barbara Haynes a Bellmarc e Lauren Cangiano a Halstead per trovare un posto, in affitto o da comprare, in città.
Con una dura esperienza, ripetuta due volte, Mary A. Sweeney, infermiera diplomata dello Upper East Side, si è spostata avanti e indietro e poi ancora avanti e indietro verso Poughkeepsie (la prima fase, cominciata nel 2000, è durata quasi due anni; da’ la colpa della seconda puntata, di tre mesi nel 2003 quando era appena incinta del terzo bambino, a “mancanza di ossigeno al cervello”).
La signora Sweeney, 36 anni, ricorda i vari punti in cui ha scoperto che la realtà si scostava dalle fantasie.
”C’era questo bellissimo spazio verde di quasi un ettaro per far giocare i bambini, ma eravamo terrorizzati dalla malattia di Lyme” dice la Sweeney. “Stavamo in una strada residenziale a cul-de-sac ed era magnifico, ma se si usciva da lì in bicicletta si entrava sulla strada di campagna tutta curve e non era tanto sicuro pedalarci. Abbiamo capito che era molto meglio andare a Central Park, giocare coi bambini e farci il picnic, soprattutto d’estate”.
Lei stava soprattutto a casa, mentre il marito, Azeddine Yachkouri, 43 anni, faceva il pendolare per il lavoro da direttore di sala all’albergo Mandarin Oriental di Manhattan. “Era magnifico per lui guidare sin qui dove c’ero io coi bambini, e poi tornare in città il giorno dopo, e lavorare, e socializzare” ricorda. “Ma per me, con questo isolamento a fare da vita quotidiana, era diventato tutto monotono e banale”.
In città, “Posso uscire con le ragazze quando mio marito fa tardi al lavoro o non ho voglia di cucinare” racconta. “Possiamo entrare in un ristorante di tipo familiare con tante chiacchiere e atmosfera”
Anche se la casa degli Sweeney era parecchie volte più grande del loro vecchio appartamento a due stanze, aveva un invisibile effetto di zavorra. “Improvvisamente saltavano fuori tantissime cose da fare in casa” dice. “È qualcosa che ti tiene dentro più di quanto penseresti”.
Continua: “Abbiamo guardato in altri posti – Scarsdale eccetera – ed era la stessa cosa. Belle case, su belle strade, ma appena i bambini erano andati a scuola si poteva sentire uno spillo che cadeva per terra, in strada. L’unica vita erano gli uccelli che cinguettavano. Preferisco avere rapporti col portinaio o il tizio all’angolo della strada dove si compra il giornale o un caffè”.
Chi se ne è andato e poi è tornato qualche volta scambia opinioni con amici che stanno pensando di fare la stessa cosa. “Quando la gente ci dice che ci sta pensando, la mia idea è, non fatelo” dice la signora Ozols. “Ma ciascuno deve sperimentarlo da solo. Se non si prova, resta sempre da qualche parte nella testa. Forse li consiglierei di affittare, invece”.
Titolo originale: A fence with more beauty, fewer barbs – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
PROBLEMI coi vicini? Mettete uno steccato. Se va tutto bene, potrete appoggiarvi lì a discutere.
Non è proprio questa, l’idea delle barriere fra le nazioni; che non possono facilmente mascherare il proprio spietato obiettivo. Ora si propone una recinzione lungo gli oltre 3.000 chilometri del confine fra Stati Uniti e Messico, nel tentativo di migliorare la sicurezza nazionale e contenere l’immigrazione illegale. Il Senato ne vuole 500 chilometri, la Camera 1.000. E il Presidente Bush ha invitato i contractors militari a definire un tracciato “virtuale” che unisca i sistemi esistenti di recinzione puntuale attraverso strumenti ad alta tecnologia, come sensori di movimento, voli teleguidati e satelliti.
Ma c’è in corso qualche forma di diplomazia ufficiosa – il Messico non è un nemico – e dei precisi sospetti per il compito: architetti progettisti che devono trovare soluzioni accettabili per mascherare il brutto problema; per creare gradevolezza dove non può essercene.
Come per un classico concorso di architettura, il New York Times ha chiesto a 13 architetti e urbanisti di ipotizzare questo “steccato”. Molti hanno rifiutato di rispondere perché ritenevano si trattasse di una questione puramente politica. “É una cosa sciocca da progettare, un rompicapo” ha detto Ricardo Scofidio dello studio Diller Scofidio & Renfro di New York. “Si può lasciarla a genieri e addetti alla sicurezza”.
Quattro dei cinque che hanno proposto schemi, indicano nel confine un ambito di nuova integrazione, non di tradizionale divisione: qualcosa che possa essere visto da entrambi i lati come orizzonte delle occasioni, non una barriera.
James Corner di Field Operations, studio di New York specializzato in urbanistica e architettura del paesaggio, propone che, come qualunque tipo di fortificazione monumentale, abbia un secondo scopo, ovvero una striscia di raccolta dell’energia solare, a realizzare quella che chiama “una zona industriale a regime speciale sostenibile” che attiri le industrie dal nord e crei occupazione per il sud. Entro la medesima terra di nessuno che ora le persone attraversano in cerca di lavoro. Corner chiama questa sua compartecipazione di poteri territoriali del XX secolo e di interconnessione globale ambientalista da XXI secolo, “qualcosa di ibrido, Bush che incontra Gore”.
Anche Calvin Tsao, direttore alla Architectural League di New York e socio di Tsao & McKown, propone una zona industriale a regime speciale, che ricostruendo il confine sotto forma di piccole città in crescita lo faccia diventare un margine di luce, visibile anche di notte dallo spazio.
Eric Owen Moss, architetto di Los Angeles, è più preciso riguardo al proprio confine come vessillo di luce. Nel suo progetto, una passeggiata di colonne di cristallo illuminate inserita nel paesaggio invita allo scambio sociale serale, un po’ come il “ paseo” tanto popolare nella cultura ispanica.
“Costruire qualcosa fra le due culture, che possa condurre a una terza” suggerisce Moss. “Celebrare l’amalagama delle due componenti”.
Enrique Norten, architetto nativo messicano che ha uffici sia a Città del Messico che a New York del suo studio TEN Arquitectos, propone di utilizzare invece il bilancio stanziato per la recinzione in infrastrutture come le strade.
“Il futuro sta nel coinvolgere l’economia del Messico” dice, in un piano di lungo termine per l’area, non in una misura tappabuchi come una barriera. Norten risponde dalla Germania, dove sta seguendo i Mondiali di calcio. “Guadate all’Europa, dove queste cose succedono. La Spagna era una nazione di confine dieci anni fa. Ora fa parte di una comunità più ampia”.
Antoine Predock, di Albuquerque, “smaterializza” la barriera, spiega, attraverso una muraglia fisica progettata come un miraggio. Un terrapieno di polvere irregolare spinto dai lavoratori giornalieri messicani. Sparse di fronte, rocce spezzate, riscaldate dal basso, appaiono sospese sopra il terreno, come il caldo fa fluttuare gli oggetti, come miraggi.
“Ci sarebbe confusione sulla materialità del muro” spiega Predock. “Scoraggerebbe dall’attraversarlo, ma il messaggio da entrambe le parti sarebbe di buona volontà”.
Nota: una breve opinione del sottoscritto e qualche link sul dibattito "politico" attorno al muro di confine (f.b.)
Titolo originale: After $12,000, There's Even Room to Park the Car – Traduzione per Eddyburg Mall di Fabrizio Bottini
WESTBURY, NewYork - Angela Aloi cominciava il giro della sua nuova casa familiare da sogno a Long Island nello stesso modo di tanti orgogliosi proprietari suburbani.
Guidava i visitatori tra le varie icone del benessere che ornano la casa in stile coloniale: il foyer su due piani, il bancone della cucina in granito e le finiture in acciaio inossidabile, il patio in pietra e legno di acero. Ma quando si arrivava al soggiorno – appena passato il grande schermo televisivo e il bar di marmo – faceva una rapida giravolta, usando il proprio corpo per nascondere la porta che va in garage, quasi fosse un lucchetto umano.
”Se potevo evitarlo, nessuno doveva vedere quel pasticcio” dice. “Era una discarica. Addobbi natalizi, biciclette, vestiti, attrezzature da boy scout, scatole e scatole di carabattole. E sei martelli, perché ogni volta che ce n’è bisogno uno dobbiamo comprarlo nuovo, visto che gli altri non si trovano. L’ho detto a mio marito: quel garage è il simbolo di una mente molto malata”.
Ma alla fine dello scorso anno la signora Aloi, il marito e i loro tre figli sono finalmente riusciti a conquistare quella discarica familiare, e a trasformarla nello status symbol all’ultima moda, il garage firmato.
La pattumiera casalinga è stata sostituita da pavimenti brillanti, fatti di piastrelle in plastica durevoli e facili da pulire,e un gruppo coordinato di contenitori di plastica antidisordine. L’insieme è così ordinato che ci stano anche il fuoristrada di famiglia, la dispensa, gli attrezzi per il giardino e il tosaerba, le cose per le attività sportive, altri attrezzi e addirittura uno spazio per il sollevamento pesi.
Sperando di evitare una valanga di battute sui rinnovi, gli Aloi non hanno detto ai vicini di aver speso 8.000 dollari per far fare il tutto a un professionista.
Ma potrebbero essere sorpresi, dalla diffusa comprensione: i proprietari di casa suburbani sono tanto pieni di ansia, sensi di colpa e impotenza per i propri garages straboccanti da aver speso un totale di 800 milioni di dollari in prodotti per l’organizzazione del garage lo scorso anno, il doppio rispetto al 2000, secondo una ricerca di mercato della Packaged Facts. Alleviare questo senso di colpa da garage può facilmente costare 12.000 dollari per volta.
La quantità di soldi spesi in rifacimento di garage dovrebbe aumentare del 10% l’anno nel prossimo decennio, facendone uno dei segmenti di mercato degli interventi di manutenzione edilizia in crescita più rapida.
La National Association of Professional Organizers calcola oltre 500 attività specializzate in questo campo, il doppio che nel 2000. Ma per chi vuole farsi da solo il lavoro, c’è un assortimento di nuovi sistemi e prodotti tale da far sembrare l’assicella coi chiodi per gli attrezzi del nonno assolutamente paleolitica.
”Negli anni ’80 ci sono stati i famosi garages della California” dice Bill West, autore di Your Garagenous Zone: Innovative Ideas for the Garage, uno della mezza dozzina di libri sull’argomento dei garages disordinati. “Oggi. È proprio lì dentro che succede tutto”.
In qualche modo, è strano che i prorpietari suburbani si stiano rivolgendo proprio ora al feng shui del garage. Secondo la National Association of Homebuilders, le dimensioni della casa media costruita negli Stati Uniti sono aumentate di oltre il 50% fra il 1970 e il 2004, anche se decrescevano quelle della famiglia media. Siti internet come eBay dovrebbero aiutare i proprietari a trasformare le proprie cianfrusaglie in contanti alimentando gli appetiti dei collezionisti di mezzo globo. Anche gli stessi garages sono cresciuti: l’83% delle nuove case costruite nel 2004 ne aveva 2 o 3, il doppio che nel 1970.
Ma la lievitazione del commercio online e l’alluvione di prodotti poco costosi di importazione ha reso sin troppo facile per gli acquisti occasionali ingorgare anche le McMansions. Così ora il paesaggio di innumerevoli lottizzazioni americane ora mostra una particolare anomalia: i garages da tre auto tanto pieni di carabattole, che le tre auto sono parcheggiate sul vialetto.
Nella casa della famiglia Costa a Shrewsbury, New Jersey, la decisione di spendere 12.000 dollari in un intervento sul garage verso la strada nasce contemporaneamente dall’esasperazione e dalla vergogna. Barbara Costa, il marito Vincent, e i tre figli, avevano ammucchiato tante cose che le macchine venivano strisciate frequentemente da bidoni della spazzatura o manubri delle biciclette. A peggiorare le cose, il garage del vicino era il ritratto dell’ordine.
”Ci si poteva mangiare sul pavimento, là” racconta la signora Costa. “È un fanatico di queste cose. Lo vediamo sempre pulire, o dire alla gente di raccogliere qualcosa. Ma quando si vede che magnifico garage ha, bisogna riconoscerglielo”.
I Costa hanno tentato di risolvere la cosa da sé in un primo tempo, affittando attrezzature di tipo industriale per gestire grandi quantità di cose scartabili. Ma nel giro di qualche mese, il garage era di nuovo un ammasso confuso.
Verso la fine dell’anno scorso, la situazione è diventata tanto al limite che i Costa hanno pensato ad una soluzione radicale, aggiungere una terza ala al loro garage per due auto. È allora che hanno visto il volantino pubblicitario di una ditta che organizzava garages, e hanno deciso che anche quel prezzo piuttosto caro era comunque più economico di una nuova costruzione.
”E speriamo che resti così – dice la signora – altrimenti dovrò andare a chiedere consulenza al mio vicino”.
non ci sono dati affidabili per stabilire quanti garages rinnovati siano stati in grado di contenere la marea inesorabile di nuovi oggetti nel lungo termine. Ma il sito web della National Association of Professional Organizers Web offre provocatoriamente qualche incoraggiamento, citando un sondaggio fatto dalla compagnia di mobili Ikea nel 2001, che inesplicabilmente afferma come il 31% degli intervistati abbia dichiarato di trarre più soddisfazione dalla pulizia del ripostiglio che non dal sesso.
Barry Izsak, presidente dell’associazione, afferma che anche se alcuni consumatori possono essere riluttanti a pagare per una consulenza professionale, costo fino a 200 dollari l’ora, raramente sente di reclami da parte dei proprietari di garages che si buttano nell’impresa.
Izsak dice che il problema centrale per i garages con questi problemi è la mancanza di un’idea chiara. Si tratta di uno dei pochi spazi usati da tutti, in famiglia, spesso il più grande della casa, ma è uno spazio privo di struttura il che lo trasforma in un pigliatutto. “La gente tiene tutte queste cianfrusaglie inutili, come cataste di National Geographic alte due metri mezze mangiate dai topi e colonizzate dagli scarafaggi” dice Izsak.
”È solo una stravaganza”.
Peter Walsh, psicologo che si è guadagnato la fama professionale di celebrity organizer come partecipante al programma televisivo via cavo “ Clean Sweep” per quattro stagioni, ha ampliato il proprio campo dalla cura dei sintomi del disordine allo studio delle sue cause.
”C’è un’orgia consumistica in questo paese” dice Walsh, che sta per pubblicare un libro dal titolo It's All Too Much (Free Press), sulla psicologia dell’ammucchiare cose. Walsh riconosce di essere una voce solitaria nell’auspicare una nuova epoca di ascetismo americano.
”È la società dell’Io-Extralarge” dice. “Quindi ci vorrà un po’ di tempo”.
Intanto, la comunità degli organizzatori professionisti può trovare conforto in persone come Cary Africk di Montclair, New Jersey, riordinatore recidivo. Qualche anno fa, ha incaricato una ditta locale, la In Order, di scavare nell’alluvione di carte del suo studio di ingegneria. Ha funzionato così bene che li ha richiamati l’anno dopo a bonificare l’ammuffito seminterrato. L’anno scorso, Africk li ha chiamati per farsi riportare il mucchio di cose che una volta stava nel suo garage.
Africk sostiene che, finché la società americana continuerà a inondare le persone con carte e oggetti, lui sarà disposto a pagare per tutto l’aiuto organizzativo che riesce a trovare.
”Credete che ci sia qualcuno, là fuori, che possa aiutarmi a trovare un senso in tutta la spazzatura di files del mio computer?” dice.
Una follia. A Eddy Salzano basta un attimo. Poi il grande urbanista veneziano ha pronta la sentenza sul progetto del Dal Molin americano: «Una vera e propria follia». E il fronte del no all'insediamento Usa nell'aeroporto vicentino si arricchisce di una testimonianza importante, quella di uno dei maggiori studiosi in Italia nel campo dell'urbanistica. «Sarebbe una follia degna del secolo scorso- avverte Salzano- spero che la vasta raccolta di firme raccolta a Vicenza, che mi risulta sia molto cospicua, venga al più presto accolta dal Comune in modo che rinunci a questa assurda operazione». Salzano si muove sulla base di studi precisi, numeri altrettanto definiti, e certezze che derivano da anni e anni di ricerche. Il suo è dunque più di un parere autorevole, nel dibattito che da qualche mese ha varcato i confini di Vicenza sul progetto più discusso degli ultimi decenni. «Quel piano attirerebbe traffici di guerra che sicuramente non farebbero bene alla società civile vicentina e a quella veneta in generale- spiega Salzano- io dico che invece bisognerebbe instaurare un clima di pace e che dovrebbero contribuire tutti a farlo. Dal sindaco al presidente del Consiglio sino al Capo dello Stato. Poi non va dimenticato che questo progetto andrebbe inserito in un contesto di devastazione già esistente, che ha portato alla nascita di caserme una dietro l'altra».
Ed è per questo che” Eddy” boccia senza pietà il piano dell'armata di Bush. Definendolo come una sorta di boomerang per la popolazione vicentina: «Intanto stiamo parlando di costruzioni non previste negli attuali strumenti urbanistici di pianificazione- spiega il professore- e che oltretutto andrebbero a esaurire quasi tutte le cubature e le volumetrie previste per l'intera città nei piani regolatori. Ma il punto vero è un altro: non si capisce perchè queste volumetrie debbano essere utilizzate per scopi bellici e non invece pubblici. Che benefici avrebbe Vicenza dalla nascita dell'ennesima caserma, nel suo unico aeroporto civile e per giunta a ridosso del centro abitato?». Una domanda che andrebbe probabilmente girata al sindaco Hullweck, o a tutti i supporters degli usa che sostengono al contrario che un aeroporto destinato ai militari porterebbe enormi vantaggi economici per la città. Eddy Salzano invece non usa mezzi termini: «Un aeroporto occupato dai soldati americani distruggerebbe la città e il territorio vicentino- afferma- che è già contaminato non solo dalle caserme, ma anche dalle ville cresciute spesso in maniera spropositata. Servirebbe invece una forte attrattiva di attività, che sicuramente non devono essere legate in alcun modo alla guerra». E presto il dibattito in corso a Vicenza potrebbe finire anche nel suo attrezzatissimo sito Internet www.eddyburg.it, e ospitare così altri pareri autorevoli su una vicenda che fa discutere anche fuori dalla provincia berica, ma dopo Diliberto, dopo la scia di parlamentari che si sono detti contrari al progetto, resta una netta linea di divisione: pochi, se non nulli, sono stati sinora gli interventi autorevoli che abbiano esaltato la presunta bontà di questo piano. Molti di più gli studiosi che si dicono convinti che si tratti di “una devastazione”, come ripete Eddy Salzano nel suo studio veneziano. E certi progetti li porta via il vento.
Metropoli come Pechino e Amsterdam. Città come Salerno e Verona. Ovunque si trasforma il volto del tessuto urbano. E poter sfoggiare l'opera di un grande architetto è il nuovo status symbol.
Ci sono città che devono inventarsi un'altra vita. Altre che alla vita che già hanno ne devono aggiungere una nuova, sfarzosamente contemporanea. E altre ancora che in un palcoscenico di primedonne, occupato da Barcellona, Berlino, Londra e Amsterdam, devono sgomitare per ritagliarsi un quarto d'ora di celebrità. E la carta su cui puntare è l'architettura, che occupa i media. Gli Archistar, divenuti maître à penser, sono riusciti quasi a zittire gli stilisti e a dare la linea nella creatività contemporanea, grazie all'indiscutibile capacità simbolica degli edifici che disegnano e al sostegno di biennali, festival e mostre che vanno dal MoMa di New York al Museo Nazionale di Pechino. Una girandola di soliti noti: Renzo Piano, Santiago Calatrava, Domenique Perrault, Alvaro Siza, Massimiliano Fuksas, Norman Foster, David Chipperfield. Capaci di proiettare le città in quel circuito di infotainment che salda turismo e cultura. E fa entrare soldi nelle casse delle amministrazioni comunali.
In Italia, dopo anni di oscurantismo architettonico, a farsi belle sono molte città. Non solo le grandi come Roma, che cerca di replicare il successo dell'Auditorium di Renzo Piano con (quando vedranno la luce) il Maxxi di Zaha Hadid e il nuovo Macro di Odile Decq, mette in cantiere la Città dei Giovani di Rem Koolhaas e quella dello Sport di Calatrava, il nuovo Centro Congressi di Fuksas e la nuova Fiera di Tommaso Valle. O Milano, che scommette sul quartiere Santa Giulia firmato da Foster, la vecchia Ansaldo trasformata in polo culturale da Chipperfield e il completamento della nuova fiera di Fuksas con gli interventi di Perrault, Araassociati, Gino Valle e Cino Zucchi. Una bella addormentata come Firenze si risveglia all'idea della stazione per l'alta velocità disegnata da Foster, mentre un pool di giovani architetti, oltre a Gabetti e Isola, sta trasformando l'area di Novoli in una avveniristica zona residenziale e di servizi. Jean Nouvel è al lavoro in un'altra area ex Fiat, a viale Belfiore. Napoli, non contenta di aver dato una 'madre' (il Museo d'arte contemporanea di Alvaro Siza) al cuore antico della città, continua a incassare favori e polemiche con i progetti di Siza e Souto de Moura (risistemazione di piazza Municipio), di Domenique Perrault (stazione Garibaldi), la stazione della metropolitana affidata a Hanish Kapoor e quella per l'alta velocità a Zaha Hadid.
Dietro le grandi, tante piccole e medie città che non si sognano di diventare nuove Bilbao (modello ineguagliabile per l'ardimentosità del Guggenheim di Gehry e per il grintoso sostegno della città), ma si accontenterebbero di bissare il successo di Valencia, Graz e Basilea, benedette da seducenti architetture e promossse nello scenario mediatico. Attraversata da gran fermento architettonico è Trento, dove l'urbanista catalano Joan Busquets lavora per restituire il fiume alla città e ridurre il traffico privato, mentre Renzo Piano rifà l'area ex Michelin,Vittorio Gregotti quella nord e Mario Botta parte dell'Università. Operazione meno complessa di quella di Sesto San Giovanni, che rinascerà come città terziaria grazie alla matita di Piano, mentre a Bergamo Jean Nouvel allunga con un chilometro rosso fuoco il profilo dello stabilimento Brembo. A Verona il progetto di trasformazione dell'ex Arsenale in polo museale a firma di David Chipperfield soffre un po' di mancanza di fondi, ma va avanti. Reggio Emilia conta cinque interventi di Calatrava, tra cui il solito incapricciato ponte piazzato all'ingresso dell'autostrada che pare gridare: 'Guardatemi!'. A Maranello Fuksas trasforma in turbonuvola il Centro Ricerche Ferrari e chissà cosa farà del vecchio Museo Piaggio di Pontedera. Non che al Sud ci si giri i pollici: Salerno rilancia con la stazione marittima di Hadid e la cittadella della giustizia di Chipperfield, Benevento affida alla matita dell'italiana Carmen Andriani il suo secondo museo d'arte contemporanea, a Palermo Perrault disegna i ponti pedonali, a Nocera Inferiore aprirà un teatro firmato Souto de Moura.
Tutto per rimettersi in pari nella competizione internazionale, ritardi permettendo. Dando il proprio contributo al fenomeno del 'turismo del nuovo' (riferimento, ancora Bilbao), per cui a Roma non si va solo per vedere il Colosseo, ma anche l'Auditorium. Rispetto all'anno precedente, nel 2005 il Parco della musica di Renzo Piano conta il 22 per cento in più degli spettatori, un incremento del 72 per cento delle sponsorizzazioni e del 20 per cento degli incassi. "Numeri che lo collocano al primo posto in Europa e secondo nel mondo solo al Lincoln Center di New York", dice l'amministratore delegato Carlo Fuortes: "Bisognava dare un simbolo visibile della città che cambiava. Ma per avere più turisti (7 per cento in più all'anno) non bastava aprire un nuovo spazio, bisognava confezionare un'offerta capace di aggiungere all'immenso patrimonio storico che abbiamo un'attrattiva contemporanea".
Che l'architettura richiami pubblico e soldi l'hanno capito bene anche a Torino, che doveva reinventarsi nel dopo Fiat (12 milioni di metri quadrati l'area dismessa dalle fabbriche). Le Olimpiadi invernali sono state un prezioso investimento, ma il successo continua. "Oggi mentre organizziamo gruppi di turisti per mostrargli il palaIsozaki e l'Oval dello studio Zoppini, stiamo anche decidendo le loro nuove destinazioni: la creatura di Isozaki sarà il contenitore dei grandi eventi e spettacoli, l'Oval ospiterà le fiere. Ma solo nel 2011, quando sarà completato l'interramento del passante ferroviario, liberando una superficie che ospiterà la nuova Biblioteca di Mario Baldini, il grattacielo per la San Paolo progettato da Piano, forse la nuova sede della Regione di Fuksas e 11 grandi opere d'arte, l'operazione potrà dirsi conclusa", spiega Anna Martina, direttore della Comunicazione, Immagine e Olimpiadi di Torino.
Tutto bene, tranne un fatto. Che la presenza dei bei nomi dell'architettura fosse necessaria per dare una spallata, è fuor di dubbio. Insistere sempre e solo su questi, magari con concorsi a chiamata, pare poco coraggioso. Ma anche qui le cose si stanno muovendo e forse è per questo che la Biennale d'Architettura (a Venezia dal 10 settembre) per la prima volta nella sua storia ospiterà una mostra dedicata all'architettura contemporanea nazionale, 'Italia-y-2026, Invito a Verma'. A fronte di una generazione di architetti italiani, oggi sessantenni, pensionata anticipatamente, una nuova leva di professionisti è sul piede di guerra. Lo studio 5+ 1AA di Genova è riuscito ad aggiudicarsi il concorso per il nuovo Palacinema di Venezia, Marco Casamonti (40 anni) e lo studio Archea sono arrivati ex aequo con l'americano Michael Maltzan per l'area Bicocca di Pirelli Re. Pietro Carlo Pellegrini sta ridisegnando quella splendida città che è Lucca, mentre Luca Cuzzolin è al lavoro per il Design Center di San Donà del Piave. Lo studio Garofalo Miura progetta la Chiesa di Santa Maria delle Grazie a Roma e Mario Cucinella la sede unica del Comune di Bologna.
Non basta. "Se tra vent'anni ci ritrovassimo con 20 nuovi Calatrava, Foster, Meier o Hadid, non staremmo poi tanto meglio di ora: il Rinascimento ci insegna che non è questa la strada. Tornare a investire nell'architettura dovrebbe portare a una qualità minima diffusa più alta", afferma Alfonso Femia, 39 anni, uno dei fondatori di 5+1AA, che vanta progetti dall'Italia (un Centro Espositivo ricavato dall'ex Palazzo del Ghiaccio di Milano, il Centro commerciale di Assago, un'area nella romana Città dello Sport) alla Cina (master plan di Guangzhou).. “Va bene chiamare le archistar, ma per farle lavorare insieme ai nostri ingegneri, politici, amministratori. Per creare un nuovo percorso culturale. Spesso non sono le grandi opere a correggere il maltrattato territorio italiano, ma le piccole e medie: le scuole, gli uffici, le case".
Ecco il cuore del problema. Quanto bisogno c'è di landmark? A che serve la 'Superarchitettura', come la chiamano gli olandesi? A mettere in mostra la città o a ridefinire il paesaggio attraverso segni meno vistosi ma più sostenibili? "Davanti a un'operazione come quella del ponte di Calatrava all'ingresso della mia città, mi chiedo quanto questo segno, pur bellissimo, possa riqualificarla", afferma Giovanni Catellani, assessore alla Cultura di Reggio Emilia: "Operazioni simili sono grandi occasioni di richiamo e di investimento per la committenza pubblica, ma se non agiscono nel tessuto della città, correggendone l'eccesso di sviluppo quantitativo - come è stato a Reggio Emilia - rischiano di essere simboli estranei. Che sul lungo periodo possono rivelarsi addirittura dannosi".
Le ricostruzioni sono appena iniziate. Le polemiche pure.
Titolo originale: Two Urban Makeovers of the Industrial Age – Scelto e tradotto per Eddyburg da Fabrizio Bottini
FRANCOFORTE, 15 agosto – Anche se le loro radici risalgono ad oltre mille anni fa, la Parigi e la Berlino di oggi in realtà sono nate tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, quando l’industrializzazione, l’urbanizzazione e il progresso tecnologico si sono sommati, a costruire vitali crogioli urbani al tempo stesso eleganti e dissoluti, irresistibilmente attraenti.
Gli urbanisti tedeschi e francesi cavalcarono quest’onda, conferendo alle proprie città un aspetto che oggi ci appare di profondità quasi incommensurabile. E per l’eterno vantaggio di chi non c’era, ad osservare questi incredibili cambiamenti, alcuni dei migliori artisti dell’epoca hanno documentato la trasformazione.
Monet, Pissarro e Toulouse-Lautrec, insieme a George Grosz, Ernst Ludwig Kirchner e Mies van der Rohe, hanno usato matite e pennelli per farsi stenografi di una nuova epoca urbana, registrando non solo le trasformazioni fisiche, ma anche l’atmosfera che le avvolgeva. La Schirn Kunsthalle di Francoforte, in “ La Conquista della Strada: da Monet a Grosz” fino al 3 settembre, ha raccolto le loro opere, insieme a mappe e progetti architettonici dell’epoca, a offrire il racconto di come due grandi metropoli europee abbiano rimodellato sé stesse.
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Una carta di Parigi, con larghe strisce rosse sovrapposte alla caotica filigrana di strade su cui si costruiva la città spontanea, dà un’idea delle dimensioni di quanto il Barone Georges-Eugène Haussmann si accingeva a fare. La frattura si sostituiva definitivamente alla continuità, con vasti tratti del cuore medievale rasi al suolo negli anni ’60 per far spazio agli ampi viali che conferiscono a Parigi la sua caratteristica grandeur.
Una delle interpretazioni dei motivi di Haussmann indica il fatto che strade ampie avrebbero impedito ai rivoluzionari parigini di erigere le barricate, usate tanto spesso nei primi anni del XIX secolo, ma la vicenda in realtà è più complessa. Ebbero un ruolo importante anche igiene, ideali di riforma sociale, e ambizioni degli architetti, oltre a quelle di Haussmann.
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Le carte dei trasporti pubblici danno l’idea del crescente bisogno di muovere persone dal luogo di residenza a quello di lavoro, e grazie a Maurice Delondre, possiamo dare un’occhiata all’interno di un “ omnibus”, vagone trainato da cavalli.
Un altro dipinto, del 1890, mostra come le città mettessero insieme molti tipi umani: l’altoborghese in cilindro nero legge un giornale, mentre una donna sta seduta con un cesto di fiori in grembo. Affacciata tristemente a una finestra, una povera culla un bambino, forse a ricordarci dove la nuova ricchezza industriale non è arrivata.
Monet ci porta alla stazione di Saint-Lazare a Parigi, rendendola a malapena visibile attraverso una foschia fumosa, usando semplicemente un segnale sullo sfondo del quadro a dire che il treno è arrivato. Pissarro mostra il Pont Neuf come luogo dove le persone importanti incedono, mentre quelle normali guardano.
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Meno condizionata dalla presenza di una città antica, la metamorfosi di Berlino si concentra sullo sviluppo dei nuovi suburbi, ora assorbiti come semplici quartieri di periferia. L’architetto James Hobrecht – i cui progetti sono esposti anche con una eccellente traduzione in inglese – mirava a una abitazione più salubre, ma i desideri capitalistici di guadagno portarono ad alcuni dei più orribili quartieri proletari d’affitto che il mondo occidentale abbia mai visto.
L’Espressionismo, il movimento artistico nato in Germania all’inizio del XX secolo, appare come il veicolo perfetto per presentare lo squallore utilizzando la distorsione sulla tela, a creare effetti emotivi.
Il pittore Albert Birkle ci mostra la Leipziger Strasse, grande arteria est-ovest, come un vaso sanguigno dove scorre un’infinita corrente di corpi, tranne un uomo che, solo, guarda all’indietro, il volto inespressivo ma in qualche modo angosciato. In un quadro intitolato semplicemente “ La Strada” Grosz è trascinato nell’infinita iniquità della Berlino del 1915, e ritrae un incrocio dove si affollano osservatori, e presenta un uomo dal viso mostruoso e una prostituta dal vistosissimo vestito.
Urbanisti e architetti hanno avuto poi una seconda occasione a Berlino dopo il 1990, quando la riunificazione ha messo insieme la metà occidentale e quella orientale, immensamente cresciuta sotto il comunismo. La mostra non documenta questa trasformazione, ma offre uno sguardo su ciò che è andato perduto in alcuni luoghi.
Spittelmarkt oggi è una piazza abbastanza anonima a cavallo dell’ex Muro di Berlino, tagliata fuori dal traffico est-ovest che era la sua linfa vitale. Il pittore Paul Hoeniger ce la mostra nel 1912, vitale di pedoni, ciclisti e attività commerciale, in un modo che sicuramente colpirebbe gli occupatissimi berlinesi di oggi. Perché Spittelmarkt possa andare avanti, forse Berlino dovrebbe volgere lo sguardo all’indietro.
Giorni infelici per le grandi opere. L'Eurotunnel anglofrancese è nei guai ancora una volta. Non può pagare gli interessi sui 9 miliardi di euro che deve e si pone al riparo della legge francese sui fallimenti. Il fatto è che una grande opera non può offrire profitti. Se li promette, si tratta di un imbroglio o di un calcolo sbagliato. D'altro canto, senza la prospettiva di un lauto guadagno nessuno si lascerebbe tentare da un manufatto, con lunghi tempi di realizzazione e profitti ancora più lontani, Le grandi opere vivono su un inganno, una finzione di copiosi dividendi e interessi, indispensabile perché il progetto decolli.
La finzione, per quanto riguarda l'Italia, verte inoltre sulla fattibilità dell'impresa. Una legge, detta Obiettivo, prevede o meglio imbastisce l'esistenza di centinaia di costruzioni, descritte con tono profetico alla lavagna della televisione, dal Grande Architetto. Vi è un impianto di spesa, una rete di general contractor e di project financing che mostrano una certa familiarità con le usanze internazionali. La legge supera al galoppo le remore ambientali e di politica locale, in vista, appunto, dell'Obiettivo. A conti fatti, gli unici quattrini veri sono pubblici e non basta la finanza creativa per muovere dell'altro.
Nel frattempo procede velocemente la politica della prime pietre. Una prima pietra non si nega a nessuno; a nessuno dei nostri, s'intende. Così vi sono pietre di partito, di sottopartito, con relativi convegni, pubblicazioni, benedizioni vescovili, meglio se alla presenza bene augurante del Grande Architetto. Una prima pietra è molto di più di un cantiere difficile e laborioso. Una prima pietra è speranza, una moneta che si spende subito. Dopo verranno gli aridi conteggi del Cipe e la poesia finirà.
Il Cipe ha pubblicato ieri il punto sulle Grandi opere. Si tratta di 19 titoli che a volte riguardano un oggetto solo, come il Ponte sullo Stretto, a volte l'intera Edilizia scolastica. Con la delibera 121 del dicembre 2001, agli albori del sistema, il costo totale era indicato in 126 miliardi. Nella successiva delibera del Cipe, 5 anni e un governo dopo, nel giugno 2006 (delibera 130) i costi crescevano a 173 miliardi, con un incremento di 46 miliardi. La disponibilità per le realizzazioni era molto minore, essendo pari a 58 miliardi. Ne mancavano dunque 115 per realizzarle tutte.
In altra parte del manifesto si può leggere una critica serrata a questo criterio delle infrastrutture, al loro assetto speculativo e spesso insensato, alla fortuna di non aver avuto soldi sufficienti. C'è continuità tra il Grande Architetto e l'Unione. Romano Prodi ha nominato un suo uomo che prima era stato liquidatore dell'Iri e poi capo in testa al Ponte sullo Stretto, presidente dell'Anas, cioè della struttura pubblica (?) che avrebbe il compito di fare le strade necessarie in Italia per poi badare ad esse.
Tra i progetti elencati, cinque riguardano la parte preponderante delle infrastrutture strategiche che piacciono a tutti: al vecchio potere e al nuovo. Si tratta dei «Corridoi plurimodali», quanto a dire alta velocità/alta capacità con annessi e connessi, con un costo previsto in 95 miliardi, contro 33 disponibili. Neppure l'alta velocità, amatissima a destra e al centro sinistra, sfugge alla regola ferrea: nessun passo più lungo della gamba. Possiamo di nuovo felicitarci per lo scampato pericolo; e poi consigliare che sarebbe opportuno finanziare in primo luogo la voce Schemi idrici, che con 4,6 miliardi necessari e 3 mancanti, è proprio assetata.
Ha attraversato gli incubi peggiori del Novecento ma, come urbanista, è riuscito a dare corpo ad alcuni tra i sogni migliori di quel secolo breve e violento. Giuseppe Campos Venuti, 80 anni domani. Partigiano a 17 anni. Un nome di battaglia, Bubi, che sembra uscire - è il caso di dire ante litteram - dalle pagine di Carlo Cassola. Reclutato dagli americani dell´Oss (Office of strategic services) e lanciato dietro le linee tedesche. Poi docente universitario, negli anni Sessanta amministratore chiamato a disegnare il volto attuale di Bologna, in particolare quello di periferie che - spiega - «non sono periferie». Presidente dell´Istituto nazionale di urbanistica, punto di riferimento per architetti di mezza Europa, a cominciare dagli spagnoli che, già sotto il franchismo, studiavano clandestinamente i suoi testi e pochi anni fa gli hanno dedicato un homenaje, un omaggio dal titolo «Urbanismo». E, ancora, insegnante a Berkeley, fatto non scontato per uno studioso iscritto al Pci, il padre di molti piani regolatori che la giunta Cofferati ha deciso di onorare il prossimo autunno con il conferimento di un premio, il Nettuno d´oro.
Campos parla come uno che ha affrontato i tornanti della vita senza mai fare imballare il motore. «Per il Novecento - dice - non parlerei di incubi. Io non sono uomo da incubi, userei piuttosto i termini "traversie" o "battaglie"». La sua ultima battaglia è quella per la riforma urbanistica, rimasta nei cassetti dei governi di centrosinistra. «È una riforma che non tratta più i privati come se avessero diritto ad avere gratis l´edificabilità. L´edificabiltà c´è dove decide il Comune, ma solo se in cambio viene data la metà dell´area gratis e il 20% dell´edificato in proprietà pubblica. Questa è una riforma praticabile: l´esproprio oggi significa solo regalare soldi alla speculazione»,
Cominciamo da un´altra battaglia. Quando Giuseppe Campos Venuti diventa il partigiano Bubi?
«Non lo ricordo come un passaggio traumatico. L´unico accadimento drammatico fu l´8 settembre 1943. Fui tra i pochi volontari che spararono contro i tedeschi a Porta San Paolo. A pochi metri da me morì Raffaele Persichetti, il mio referente dentro il Partito d´azione, prima medaglia d´oro della Resistenza. Per questo passai le linee, illudendomi di trovare l´esercito italiano. Questo, com´è noto, non c´era più e così finii nei servizi strategici americani. Bubi era semplicemente il mio nomignolo da bambino: diventò il mio nome di battaglia. A operazioni finite, con qualche sforzo, tornai ragazzo e mi iscrissi alla facoltà di Architettura».
A questo punto Bubi si trasforma nell´urbanista Campos?
«Il mio interesse per l´urbanistica nasce quando Aldo Natoli, in quegli anni capogruppo del Pci al Consiglio comunale di Roma, commissiona a un gruppo di giovanotti un´indagine da cui risulta che sette proprietari erano padroni di 27 milioni di metri quadrati intorno alla città. Fu così che scelsi l´urbanistica, ma scelsi soprattutto la battaglia contro la rendita, di cui sono stato in qualche misura il protagonista culturale e scientifico».
E arriviamo agli anni di Bologna, come assessore al fianco del sindaco Giuseppe Dozza.
«Ero candidato al Consiglio comunale di Roma quando arrivò dall´Emilia-Romagna la richiesta di un supporto specialistico. Allora a Bologna non c´era ancora un dipartimento di ingegneria e architettura e Alicata domandò a tre belle speranze, tra cui Aymonino, che divenne rettore a Venezia e Melograni, successivamente preside a Roma 3, di occuparcene».
Credo che non si possa parlare di quell´esperienza senza accennare a un altro passaggio importante, quello dal Partito d´azione al Pci.
«Fu un passaggio "freddo". A Napoli, nel sud dell´Italia occupata, il Partito d´azione e i socialisti, con l´atteggiamento giacobino tipico di quelle posizioni radicaleggianti, dicevano che, se il re non se ne fosse andato, non avrebbero partecipato alla guerra di liberazione. Quando arrivò Togliatti, spedito da Stalin, mi diede la linea più moderna possibile. Intanto bisognava cacciare fascisti e nazisti dall´Italia, con la monarchia ce la saremmo vista dopo. Nella sinistra italiana si cominciava già a parlare dei crimini di Stalin, ma scoprii nel Partito comunista italiano una potenzialità democratica. Direi che i fatti non mi hanno dato torto. A quell´epoca chiamarsi riformisti era pressoché vietato, ma io ero un urbanista e mi battevo per una cosa che si chiamava riforma urbanistica. Essere stato assessore di Bologna da questo punto di vista mi diede un ruolo nazionale»
Nasce Bologna come oggi la conosciamo, con periferie che, come qualcuno ha scritto, non sono state concepite come discariche sociali.
«Sono periferie che non sono periferie. Avevamo perso la battaglia per la riforma urbanistica nazionale, ma questo non ci impedì di applicarla come se fosse stata votata dal Parlamento. Espropriammo a prezzi di terreno agricolo, acquisimmo tutte le aree inedificate che c´erano ai margini del costruito, ma non in periferia. Il famoso Fossolo (una zona residenziale di Bologna ndr), di cui tutti parlano, è di tre chilometri più centrale del quartiere Due Madonne,l´ultimo quartiere fatto da Dozza nel ´57- ´58. I privati finivano ai margini del Comune, le case economiche popolari finivano nelle zone centrali. Questa operazione ci consentì di spostare all´esterno la Fiera e le attività terziarie, garantendo così la salvaguardia del centro storico ed evitando il rischio della cementificazione della collina».
Il riformismo di cui si parla oggi è lo stesso di ieri?
«Io non sono titolato a fare polemiche lessicali. Osservo però che oggi tutti i cambiamenti vengono chiamate riforme. Berlusconi ha fatto molte boiate chiamate riforme: quelle, in italiano corrente, sono controriforme. Le riforme sono le alternative alla forma cruenta del cambiamento. Non c´è una sola operazione del governo di destra che possa essere considerata riformista. Mentre quelle del centrosinistra lo sono state solo talvolta. Bersani è sicuramente riformista. I governi Prodi, D´Alema e Amato non fecero la riforma urbanistica per le contraddizioni che già allora emersero nel centrosinistra».
Sembra impossibile distinguere tra il Campos politico e l´urbanista.
«Certo. Studiando e facendo politica, ad esempio, ho appreso che rendere edificabili molte aree non ha mai comportato una riduzione dei prezzi, ma sempre tenere il prezzo massimo che i grossi proprietari determinano. La politica comincia quando dalla disciplina scientifica nasce una linea. La linea dell´esproprio generalizzato quando si pagavano prezzi agricoli era una linea riformista. Considero massimalisti quelli che oggi sostengono che i Comuni debbano pagare miliardi per acquisire aree: questo serve solo a remunerare la proprietà. Il meccanismo che proponiamo oggi come Istituto nazionale di urbanistica è cessione gratuita in cambio di edificazione».
Per andare da Termini a Trastevere, una volta si prendeva il taxi. Oggi lo si può fare in treno, in poco tempo.
Campos è stato consulente delle giunte Rutelli e Veltroni. «Era la soluzione che non sono riuscito imporre a Bologna, quella che io chiamo "la cura del ferro". Quando arrivai a Roma come consulente del Piano, questa fu la bandiera che Rutelli accettò di impugnare. Quasi mezzo secolo fa si diceva invece che l´automobile, allora mezzo per ricchi, doveva diventare un mezzo per tutti. Ora tornare indietro non è facile ma, come dimostra l´esperienza romana, non è nemmeno impossibile».
L'evoluzione dello scenario geopolitico mondiale negli ultimi vent'anni può essere efficacemente rappresentata dalle vicende di tre muri: quello poligonale di Berlino, quello frastagliato all'inverosimile di Israele e quello dritto della frontera tra Stati Uniti e Messico, mentre l'illusoria sensazione di apertura e libertà generata dalla caduta del muro di Berlino è andata definitivamente sepolta dalle macerie delle Twin Towers, come racconta Marco Belpoliti in Crolli.
Alla cappa della guerra fredda si è sostituita quella ben più claustrofobica della «guerra al terrorismo», che postulando un nemico indistinto ha legittimato la costruzione di «barriere di sicurezza» di dimensioni ciclopiche. Il muro israeliano, avviato nel 2002 da Sharon, una volta ultimato supererà gli ottocento chilometri di lunghezza, mentre il senato americano ha decretato quest'anno il prolungamento di mille chilometri (un terzo dell'intero confine) della recinzione esistente: cifre di fronte alle quali i centosei chilometri di fortificazione tedesca appaiono quasi ridicoli.
Le differenze non finiscono qui: laddove l'archetipo berlinese ricalcava scrupolosamente confini riconosciuti tra parti avverse, il tortuoso tracciato del muro di Sharon segue una logica di appropriazione e frammentazione del territorio palestinese in barba a qualunque trattato: dal canto suo, la barriera statunitense si frappone tra due nazioni amiche. L'esplicita equiparazione tra immigrati e terroristi messa in atto dalla militarizzazione della frontera (nel lanciare questa strategia con l'operazione Gatekeeper del 1994, Clinton dovette ricorrere alla più elitaria categoria dei narcotrafficanti) risulta però imbarazzante al punto che il New York Times ha promosso una sorta di concorso di idee tra una dozzina di architetti di fama per «mascherare il brutto problema» del muro creando «gradevolezza dove non può essercene». Molti degli interpellati, tra cui lo studio Diller&Scofidio, hanno sdegnosamente ricusato l'invito, ma altri coprendosi di ridicolo hanno avanzato proposte di ineffabile arguzia: James Corner ha proposto un rivestimento di pannelli solari, Eric Owen Moss un «paseo di luce» visibile dal satellite, Calvin Tsao la creazione di una striscia di cittadine industriali bipartisan, sempre illuminate di notte, mentre Enrique Norten ha pensato a una fitta rete infrastrutturale. L'idea più straordinaria è però venuta a Antoine Predock: smaterializzare il muro, rendendolo simile a un miraggio di rocce sospese, una vera delizia per le famiglie di chicanos assetati che se lo vedrebbero comparire di fronte dopo giorni di peregrinazioni nel deserto. Al di là di queste amenità, l'aspetto più inquietante del muro è che riproduce su grande scala lo steccato della villetta americana e il modello della gated community, del quartiere ricco recintato e sorvegliato da guardie e telecamere che infiniti architetti e urbanisti ripetono in ogni parte del mondo, da Dubai a Johannesburg a Milano.
Questi recinti «solidificati» fanno parte, secondo Mike Davis, di un unico, virtuale «Grande Muro del Capitale, che separa alcune dozzine di paesi ricchi dalla maggioranza povera», allo scopo di controllare militarmente l'immigrazione per mare e per terra. Le politiche della sicurezza ci stanno trasformando in una mostruosa gated community globale. Per ammirarne gli effetti con un congruo anticipo, basta recarsi a Gerusalemme, laboratorio a cielo aperto di quella che Philipp Misselwitz e Tim Reniets, curatori di City of Collision. Jerusalem and the Principles of Conflict Urbanism (Birkhäuser, 2006, 391 pp. Euro 41,50), chiamano «l'urbanistica del conflitto».
Il Muro della Separazione non è altro che il monumento più fotogenico del complesso sistema di barriere grandi e piccole, strade a scorrimento veloce, terre-di-nessuno, enclaves, accuratamente concepito in funzione della migliore segregazione spaziale tra popolazione araba e israeliana. In generale, l'offensiva israeliana consiste piuttosto che in un genocidio in uno spaziocidio: «In ogni conflitto, le forze belligeranti definiscono quale sia l'obbiettivo nemico e conformano ad esso la propria linea di azione. Nel conflitto israelo-palestinese, l'obiettivo israeliano è il luogo» - scrive Sari Hanafi, che analizza le pratiche di controllo e distruzione territoriale rigorosamente pianificate da Israele; mentre della colonizzazione delle alture parla Eyal Weyzman in Verticalità. The Politics of Israeli architecture, indicando come gli scopi siano il dominio sul paesaggio circostante, il razionamento di acqua ed energia, il rallentamento della circolazione dei palestinesi.
D'altronde, anche a una ragguardevole distanza dal Medio oriente, tanto i fatti di Parigi quanto le rivolte delle nostre «periferie» indicano come una stessa logica governi il modello di sviluppo urbano di Gerusalemme e quello irto di steccati delle villettopoli occidentali.
La notizia non è da poco. Due giorni or sono i conservatori britannici hanno riconosciuto di aver commesso un grave errore nel 1996 con la privatizzazione delle ferrovie. Sono pentiti. Lo ha dichiarato il ministro ombra dei trasporti del partito conservatore: «la decisione di separare le infrastrutture dalla società di gestione - ha detto - non è stata giusta». In effetti, come è largamente noto, la privatizzazione delle ferrovie è stato un disastro sociale, tecnico, organizzativo e finanziario, conclusosi con il fallimento della società privata Rail Track e la rinazionalizzazione delle reti. L'operazione, nel frattempo, è costata un paio di miliardi di euro al contribuente britannico. In un momento in cui in Italia il nuovo governo di centrosinistra ha lanciato una nuova ondata di liberalizzazioni/privatizzazioni nel settore dei servizi pubblici (e locali) con l'eccezione, da verificare nei prossimi mesi, dei servizi idrici, la notizia vale il suo peso.
Uno dei principi chiave adottati dal nuovo governo per giustificare e legittimare la nuova ondata sta precisamente nella asserita necessità di distinguere tra la proprietà del bene o delle infrastrutture che deve/ può restare pubblica e la gestione del bene e/o dei servizi connessi che può/deve essere privata.
Nessuno può escludere il rischio che l'Italia si trovi fra alcuni anni di fronte a diversi casi di «disastro da privatizzazione» nel settore dell'energia, dei trasporti, della salute, anche perché le possibilità di disastro stanno già facendo capolino qui e là, per ilmomento inmaniera episodica.
Penso a certi servizi nel campo della sanità ( per anziani, per esempio), all'alloggio popolare, alle linee di trasporti «secondarie».
Fondamentalismo miope
E' legittimo quindi domandare, ma perché si persiste nell'errore di separare proprietà e gestione di un servizio pubblico , quando questa separazione è dettata unicamente da un fondamentalismo miope derivato dalla teologia capitalista mercantile che fa della concorrenza tra imprese il criterio principe di scelta ottimale tra allocazioni alternative delle risorse, dei beni e dei servizi?
Fortunatamente, il nuovo governo ha accettato di fare eccezione per l'acqua, ma si tratta chiaramente di una eccezione. La regola è quella della separazione.
La separazione è un errore perché, specie nel caso dei servizi essenziali ed indispensabili alla vita ed al vivere insieme come l'aria, l'energia, la protezione del territorio, la salute, l'educazione, la conoscenza, la sicurezza civile, essa adotta il principio che il punto di partenza per costruire l'edifico dei servizi pubblici di un paese è l'esistenza di bisogni di «interesse generale» (perché comuni a tutti i membri di una comunità), ma a domanda individuale (quale è considerato il «consumo» di gas, di elettricità, di trasporto pubblico, di medicinali, di ricoveri in ospedale, di metri quadrati di casa…).
La pubblica utilità
A partire da questo punto, il ruolo dei poteri pubblici consiste principalmente nell'assumere la funzione detta di utilità pubblica ( nel gergo anglosassone le public utilities) per soddisfare i bisogni.
Il servizio «pubblico» (perché offerto a tutti) diventa lo strumento che consente di soddisfare le domande individuali dei bisogni grazie al meccanismo dei prezzi o tariffe sul mercato. Da qui la tesi dominante di considerare la quasi totalità dei servizi pubblici come dei «servizi di rilevanza economica» e quindi sottomessi alle regole dell'economia di mercato concorrenziale.
Il recentissimo Disegno di legge n. S 772 sui servizi pubblici locali parla dell'inevitabile necessità del «confronto competitivo» fra le imprese gestori dei servizi come se parlasse di una «legge costituzionale» inviolabile
Ora, il corretto punto di partenza per l'architettura dei servizi pubblici essenziali ed insostituibili alla vita ed al vivere insieme sono i diritti, umani e sociali, e non i bisogni. Diritto alla salute, diritto all'acqua, diritto alla conoscenza, diritto alla casa…. Da qui, la funzione pubblica deriva dalla responsabilità/dovere della comunità di creare le condizioni ed i mezzi necessari per garantire l'accesso ai beni e servizi relativi ai diritti.
Responsabile collettività
Questo è il senso profondo del «potere pubblico », cioè della legittimità derivata dalla responsabilità Pubblica nei confronti dei cittadini. Pertanto, il servizio è pubblico e di rilevanza «sociale» perché di esso è responsabile la collettività a tutti i livelli, dal locale al nazionale ed al mondiale, e su tutti i piani , da quello legislativo a quello finanziario ed economico.
Questa concezione spiega perché la proprietà del bene/infrastrutture e la sua/loro gestione sono per natura pubbliche e di titolarità di un unico e simile soggetto e quindi non possono essere separate. Partire dai bisogni a domanda individuale anziché dai diritti universali, collettivi, cambia radicalmente la concezione della società e le strategie e le scelte politiche, sociali e tecno- economiche.
Quanti saranno fra cinque anni «i pentiti» toccati dal morbo delle liberalizzazioni/ privatizzazioni? Non sarebbe meglio per tutti cambiare già ora, ed evitare di compiere l'errore? * presidente dell’acquedotto pugliese
Il 19 luglio del 1966, quarant’anni fa, l’Italia venne battuta uno a zero dalla Corea del Nord e fu eliminata dai mondiali di calcio. Una frana, titolarono i quotidiani sportivi. Lo stesso giorno un’altra frana avrebbe segnato in profondità l’Italia. Sconvolse Agrigento e solo per un accidente non provocò vittime, ma tanta paura e la diffusa impressione di quanto fragili fossero il territorio italiano e le basi su cui era fondata una crescita economica molto concentrata sul cemento. Nel novembre di quello stesso 1966 vennero le alluvioni di Firenze e di Venezia, e l’Italia, che pure aveva assistito alle tragedie del Polesine e del Vajont, iniziò ad abituarsi ai disastri che avevano solo in parte cause naturali.
La frana di Agrigento produsse uno choc. Ma anche effetti politici. Si discusse animatamente, vennero varate leggi che tendevano a regolare l’impetuosa espansione delle città. Fu una stagione di grandi fermenti, una delle più intense del Novecento sui temi del territorio e della sua tutela, e si produsse una specie di sussulto riformatore, al quale seguirono reazioni di segno opposto.
La frana venne giù nelle prime ore del mattino all’estremità occidentale di Agrigento. Già intorno alle sette si erano avvertiti i primi smottamenti. Chi si era appena alzato fece in tempo ad accorgersene, udì scricchiolii nelle pareti e vide aprirsi le crepe. Poi la fuga per le scale. Migliaia di persone uscirono in strada, portandosi dietro quanto erano riusciti ad afferrare. Nel giro di un’ora dalla rocca dove si ergeva la moderna Agrigento scivolarono verso valle migliaia di metri cubi di terra. Alcuni palazzi si accartocciarono. Un centinaio i feriti. Milleduecento famiglie senza casa, più di cinquemila persone che da lontano guardavano, come svegliati da un sogno, cosa restava della loro città cresciuta rosicchiando ogni centimetro disponibile su una collina che fino a qualche decennio prima ospitava un piccolo centro di origini medievali raccolto intorno alla cattedrale e ora era sfigurata da un ammasso di edifici di spropositata bruttezza.
Le immagini della città crollata scossero certezze, diedero forza a quanti - urbanisti, architetti, giornalisti come Antonio Cederna, che dieci anni prima aveva pubblicato I vandali in casa - sostenevano che il cemento in Italia stava espandendosi senza controlli, seguendo le direttrici imposte da proprietari fondiari e speculatori, che le città non avevano strumenti urbanistici, e quando ce li avevano li ignoravano e si sviluppavano sconsideratamente. La frana di Agrigento mise l’Italia di fronte a uno specchio che ne rimandava l’immagine deforme assunta da molte sue città - Napoli, Palermo, Roma. Un’immagine che ora emanava paura e insicurezza.
Chi protestava per lo scempio del territorio italiano trovò però una sponda. Nel governo di centrosinistra sedeva, sulla poltrona di ministro dei Lavori Pubblici, il socialista Giacomo Mancini, uomo potente, con una vasta ramificazione clientelare nella sua Calabria, eppure politico accorto, tenace riformista. Mancini affidò al direttore generale dell’Urbanistica, Michele Martuscelli, il compito di condurre un’inchiesta sulle cause della frana. Martuscelli proveniva dai ranghi dell’amministrazione. Era anche lui socialista, ma nella sua personalità prevaleva il profilo dell’alto burocrate che rispondeva solo al precetto della legge. Aveva un carattere difficile, scriveva in modo forbito, convinto che lo Stato preservasse la propria autorità anche con il rispetto di un certo decoro grammaticale, di una tornita liturgia sintattica.
Martuscelli, aiutato da Giovanni Astengo, consegnò l’8 ottobre la relazione definitiva, dopo appena due mesi di lavoro. Quel testo emana un’energia potente: «Gli uomini, in Agrigento, hanno errato, fortemente e pervicacemente, sotto il profilo della condotta amministrativa e delle prestazioni tecniche, nella veste di responsabili della cosa pubblica e come privati operatori. Il danno di questa condotta, intessuta di colpe coscientemente volute, di atti di prevaricazione compiuti e subiti, di arrogante esercizio del potere discrezionale, di spregio della condotta democratica, è incalcolabile per la città di Agrigento. Enorme nella sua stessa consistenza fisica e ben difficilmente valutabile in termini economici, diventa incommensurabile sotto l’aspetto sociale, civile ed umano».
Martuscelli tracciava la storia del dissesto urbano di Agrigento. Era l’atto d’accusa contro un’intera classe dirigente locale. Fin dalla metà degli anni Cinquanta la rocca su cui sorgeva il nucleo storico della città era stata circondata da un anello di palazzi che si elevavano con altezze fuori dal comune. La città aveva 40 mila abitanti, ma un piano di fabbricazione prevedeva appartamenti per 160 mila persone. «Enorme era poi il fatto», esclamava Martuscelli, «che nessuno, in sede di approvazione, abbia eccepito sulla inclusione in zona intensiva dell’intero declivio franoso del versante settentrionale e occidentale». Su strade di 6 metri erano previsti edifici di 15 metri di altezza, e su strade di 12 metri potevano sorgere palazzi di 30 metri, «tali da peggiorare gravemente le condizioni di igiene e di soleggiamento dell’abitato esistente».
Il centro storico era stato chiuso da una barriera di mostruosi casermoni. Fra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, si era costruito ad un ritmo di 2 mila, 3 mila vani l’anno e si arrivò a quasi 5 mila nel 1965. Molti osservatori erano restati stupefatti: Cesare Brandi scrisse documentate invettive sul Corriere della Sera. Ma nulla sembrava potesse fermare la mano dei costruttori. Era scomparso lo sfondo naturale della Valle dei Templi. Il sindaco Foti riuscì persino a ottenere la sospensione di una serie di vincoli imposti a tutela del patrimonio archeologico, criticando «l’assoluta mancanza di fantasia creativa e l’incapacità di concepire un programma che, fondendo e armonizzando il nuovo con l’antico, miri a rendere la Valle dei Templi più bella e attraente». Erano i palazzi di quindici piani che avrebbero, secondo il primo cittadino di Agrigento, valorizzato il tempio della Concordia.
«Gli operatori si sono preoccupati di costruire solo case», denunciava la relazione, «traendo il massimo sfruttamento delle aree, intaccando le falde della rupe singolarmente, con opere inadeguate di consolidamento, senza provvedere alla regolazione delle acque di superficie, oltre che degli scarichi delle acque luride, senza preoccuparsi di sistemare il terreno sconvolto dalle opere». La frana era stata la conseguenza dei lavori di intaglio della rupe, eseguiti proprio nella parte occidentale del monte, la più delicata.
La relazione si concludeva con un capitolo di proposte. Alcune riguardavano Agrigento, altre l’intero territorio nazionale, perché Agrigento era l’emblema del dissesto urbano in Italia. Martuscelli chiedeva che amministratori e costruttori della città siciliana rispondessero delle loro condotte (un processo si celebrò nel 1974, ma tutti gli imputati finirono assolti con formula piena). Chiedeva poi che il Parlamento votasse una nuova legge urbanistica, la cui emanazione «non dovrebbe essere ulteriormente rinviata».
L’allarme lanciato dall’estremo lembo siciliano spinse Mancini a far approvare, nell’estate del 1967, un disegno di legge che diventerà noto come "legge ponte". Il varo fu rapido, indotto anche dalle alluvioni di Firenze e Venezia. Giovanni Astengo, che collaborò all’inchiesta di Agrigento, scrisse che «alla radice di ognuno di essi (i dissesti, n. d. r.) sta, per certo, il cattivo uso del suolo, sotto forma sia di continuativo ed insensato disfacimento di antichi equilibrati ecosistemi naturali, sia di violento e pervicace sfruttamento intensivo del suolo a scopi edificatori. In entrambi i casi, la natura, irragionevolmente sfidata, ha scatenato d’improvviso le sue furie terribili ed ammonitrici. In entrambi i casi, alla radice è l’imprevidenza umana».
La "legge ponte" è considerata un baluardo del riformismo praticato dal centrosinistra di quegli anni. Esemplare non solo nel campo dell’urbanistica, ma per altri settori della vita pubblica, in virtù dei molti elementi di programmazione e di pianificazione che intendeva introdurre nel sistema. La "legge ponte" limitava le possibilità di edificazione nei comuni che non si erano dotati di strumenti urbanistici (il 90 per cento, allora, dei comuni italiani) e cercava di incentivare la formazione dei piani. Per i comuni inadempienti era previsto l’intervento sostitutivo degli organi dello Stato. Un’altra delle innovazioni riguardava i cosiddetti standard urbanistici, cioè le quantità minime di spazio che ogni piano doveva riservare all’uso pubblico, stabilendo che ciascun cittadino aveva diritto a un minimo di 18 metri quadrati di spazio (per asili nido, scuole, attrezzature culturali, assistenziali, amministrative, religiose, sociali, sanitarie, parcheggi pubblici, verde, gioco e sport). Gli standard sono tuttora vigenti. Secondo molti urbanisti andrebbero aggiornati, ma restano una conquista decisiva. Sono invece un inutile orpello per la legge che, nella scorsa legislatura, avrebbe dovuto riformare tutta la materia urbanistica, e per la quale gli standard vengono relegati a semplici optional (ma questa legge non è stata approvata).
Come tante altre intraprese di riforma anche la "legge ponte" rimase in parte uno slancio nel nulla. Durante il dibattito parlamentare fu approvato un emendamento dei liberali che fece slittare di un anno la sua entrata in vigore: e così dal 1° settembre 1967 al 31 agosto 1968 l’Italia fu invasa da licenze edilizie, talvolta, in prossimità della scadenza della moratoria, istruite, esaminate, approvate e firmate in un solo giorno (un’indagine del Ministero dei lavori pubblici stabilì che in quei dodici mesi vennero rilasciate concessioni per 8 milioni e mezzo di vani, quasi il triplo della media annuale).
Un altro effetto produsse la frana: il decreto, firmato dai ministri Gui e Mancini, che istituiva un’area vincolata di milleduecento ettari intorno ai templi di Agrigento. Non fu un’invenzione repentina, un atto d’imperio draconiano. Da anni, la Soprintendenza e il Ministero tentavano di apporre vincoli che almeno evitassero ai templi l’onta di finire soffocati dal cemento. L’area è stata più volte sfregiata dalle costruzioni abusive ed è diventata un’ossessione per quanti ad Agrigento - sindaci, parlamentari, forze politiche - li hanno sempre concepiti come un freno allo sviluppo della città verso il mare. Lo stesso sogno coltivato negli anni Cinquanta e che rimase sepolto sotto la frana del 19 luglio.
Le grandi città come Londra, New York e Tokyo dominano la nostra immaginazione. Sono i luoghi che la gente ancora associa con la ricchezza, la fama e il futuro. Sono il centro dell’economia e della politica nazionale. Gli ultimi cinquant’anni sono stati il loro regno. Il numero delle città con più di 10 milioni di abitanti è salito in questo arco di tempo da due a venti, con l’ingresso di nomi ormai famosi come Rio, Città del Messico e Mumbai. Ma con tutto il rispetto per i tanti romanzieri di fantascienza che hanno prefigurato un futuro sempre di più dominato da colossali centri urbani, la loro epoca è finita. Il tasso di crescita della popolazione delle megalopoli negli ultimi cinque anni si è più che dimezzato rispetto all’8 per cento e oltre degli anni 80, e nei prossimi venticinque anni si prevede che rimarrà stabile. Gli anni a venire saranno gli anni del trionfo di una dimensione urbana più piccola e di gran lunga più umile: la Seconda Città.
Nel giro di un anno o giù di lì, per la prima volta nella storia dell’umanità, saranno più numerosi quelli che vivono nelle città che quelli che vivono nelle campagne: il XXI secolo sarà un secolo urbano. Ma il nocciolo duro si sta rimpicciolendo. Già oggi la metà degli abitanti delle città del mondo vivono in metropoli con meno di mezzo milione di residenti. Sono le Seconde Città - le grandi città dormitorio dell’hinterland, i centri di snodo regionali, le città di villeggiatura, i capoluoghi di provincia - a essere in pieno boom. Tra il 2000 e il 2015, le città più piccole (quelle con meno di 500.000 persone) cresceranno del 23 per cento, mentre quelle con una popolazione tra il milione e i cinque milioni di abitanti cresceranno del 27 per cento. Questo trend è il risultato di scosse sismiche di grande portata, come la bolla speculativa globale del mercato immobiliare, i crescenti flussi migratori internazionali, l’abbassamento dei costi dei trasporti, le nuove tecnologie e il fatto che la generazione del baby-boom sta raggiungendo l’età della pensione.
L’ascesa delle Seconde Città risalta in modo clamoroso dalla nostra top ten, che comprende le città col tasso di crescita più alto in ognuna delle 10 maggiori economie mondiali. In questa lista, basata sulle ultime (e non ancora pubblicate) previsioni di crescita elaborate dalle Nazioni Unite per tutte le città con più di 750.000 abitanti, figurano solo due grandi capitali - Mosca e Londra - che continuano a crescere più delle rivali più piccole, per ragioni nazionali specifiche. Tutte le altre sono aspiranti pesi medi come Tolosa, Monaco di Baviera e Las Vegas, o centri sconosciuti come Florianópolis (Brasile), Ghaziabad (India), Goyang (Corea del Sud) e Fukuoka (Giappone), che probabilmente non rimarranno sconosciuti a lungo.
Delle 150 città di questa categoria a più alto ritmo di crescita, la maggior parte, 55, si trovano in Cina, seguita da Indonesia e India. Nel mondo industrializzato, le metropoli statunitensi crescono a un ritmo molto maggiore di quelle europee e giapponesi. Per un certo verso, l’esplosione delle Seconde Città è una conseguenza naturale (anche se inattesa) del precedente boom delle megalopoli. Negli anni 90, le megalopoli sono esplose parallelamente all’esplosione della globalizzazione economica, in particolare nelle aree metropolitane con presenza di industrie high-tech o "knowledge-based", come la finanza (basti vedere la rinascita di New York e Londra e l’esplosione di Shanghai o Hong Kong). Così i prezzi degli immobili nelle città più ambite del mondo schizzano alle stelle. Il risultato è stata la creazione di quelle che il demografo William Frey, della Brookings Institution di Washington, definisce gated regions (aree riservate), quei posti, cioè - come sono New York, Londra, Tokyo - in cui sia la città che gran parte dei suoi sobborghi sono diventati inaccessibili economicamente tranne che per i super ricchi.
(Copyright Newsweek-La Repubblica, traduzione di Fabio Galimberti)
ROMA • «Approvare presto, nella stessa sessione parlamentare, la nuova legge per il governo del territorio e la legge per l'architettura: sarebbe un grande messaggio al Paese». È la mission annunciata dal vicepremier e ministro per i Beni culturali, Francesco Rutelli, al 3° forum di "Edilizia e Territorio". «Una proposta che presenterò in tempi strettissimi alla maggioranza parlamentare: ne ho già parlato con il ministro Di Pietro», ha aggiunto il vicepremier, ricordando che la normativa nazionale in materia di urbanistica attende da sessantaquattro anni di essere svecchiata.
Uno dei punti cardine della legge sulla qualità architettonica che, come ha ricordato Rutelli, è in giacenza da due legislature, è il rilancio del concorso di progettazione, che il ministro ha definito «una grande opportunità». Con un appunto ai concorsi fatti da privati: «È positivo che li facciano, poi però devono affidare anche la progettazione, senza optare per progettisti in house».
E proprio per rilanciare i concorsi di architettura nel Mezzogiorno Pio Baldi, direttore del Darc, ha annunciato un'iniziativa che metterà sul piatto 800mi-la euro l’anno per i prossimi tre anni nelle regioni del Sud. «Il progetto — ha annunciato Baldi — partirà a ottobre e usufruirà di finanziamenti messi a disposizione del Cipe per le regioni Obiettivo 1».
Il vicepremier (che ha anche la delega al Turismo) si è soffermato sulla proposta lanciata due giorni fa insieme con le Regioni del Comitato Nazionale Turismo: una revisione generale della segnaletica turistica «che punti alla valorizzazione del territorio». Proprio nella mancata trasformazione della ricchezza connessa ai valori immobiliari in vettore di trasformazione di qualità, Rutelli ha individuato la falla del sistema. Il ministro ha infatti citato come estremamente attuali le teorie degli anni '60 sul fallimento dello Stato industriale e delle procedure di modernizzazione produttive nel loro rapporto con la qualità del territorio: «Sottovalutazione dell'esperienza estetica, mancanza di pianificazione e di programmazione come correttivo al mercato; è passato mezzo secolo è la sfida è identica».
Secondo il ministro dei Beni culturali è invece necessario rilanciare «la qualità della trasformazione, fattore decisivo per la competitivita». Parafrasando un brano di Salvatore Settis (chiamato a guidare il Consiglio Superiore dei Beni culturali) Rutelli ha infatti ricordato quanto «la forza del modello Italia sia tutta nella presenza diffusa, capillare di un patrimonio solo in piccola parte conservato nei musei e che incontriamo, invece, nelle strade».
Il vicepremier si è poi soffermato sull'importanza del dibattito («quello che è venuto meno nel nostro Paese è la presenza di grandi intellettuali che portino l'attenzione degli italiani sul nostro degrado ambientale») e sul ruolo cardine, ma un po' sbiadito, dell'architettura «arte principe della cultura italiana, che deve recuperare il suo ruolo leader nel confronto». Da qui la mission che il ministro dei Beni culturali riconosce al maxxi, museo nazionale delle arti del XXI secolo, in costruzione a Roma: «È una delle cose più importanti che l'Italia attende e vorremmo che diventasse una centrale di riflessione sulla contemporaneità».
Non è il ministro delle Infrastrutture, né quello dell’Ambiente e della difesa del territorio a parlare della nuova legge per il governo del territorio. E neppure un gruppo parlamentare della sinistra. È il ministero per i Beni e le attività culturale. Rutelli, coerentemente con il suo ruolo, non parla di urbanistica: parla di architettura, che con il governo del territorio c’entra abbastanza poco. Ma ne parla correttamente. Riprende il tema già proposto da Melandri e caro a Pio Baldi: il miglioramento della qualità estetica delle costruzioni incentivando lo strumento dei concorsi di progettazione.
Ma il ministro sembra avvertire ciò che sfugge ai più. Che il miglioramento della qualità estetica edelle città non si otiene se l’architettura non è accompagnata (o preceduta) dall’urbanistica: come diceva Antonio Cederna, non c’è buona architettura senza buona urbanistica. Infatti Rutelli esprimel’auspicio che vengano approvate insieme “la nuova legge per il governo del territorio e la legge per l'architettura”. Speriamo. Il 28 giugno numerosi parlamentari hanno promesso di partecipare alla presentazione della proposta di legge urbanistica di eddyburg : magari sarà un nuovo inizio.
Nel Consiglio regionale della Lombardia della settimana scorsa è andato in scena il secondo atto di uno spettacolo definito “indecente” dalla minoranza di centrosinistra. Erano in discussione le modifiche alla legge n. 12 del 2005 sul governo del territorio, una legge molto importante, che permette ai comuni di sostituire i talvolta vecchi e complessi piani regolatori con nuovi strumenti di controllo e governo del territorio. Dopo la prima seduta sull’argomento il centrodestra ha di nuovo affrontato l’ostruzionismo dell’opposizione per approvare un provvedimento di modifica della legge apparentemente innocuo, ma che tra le sue pieghe nasconde almeno tre fatti politici raccapriccianti.
Il primo avrà come effetto immediato e concreto il via libera ad una ondata di speculazione edilizia sulle aree verdi e protette di Monza: si parla di quasi 1 milione e 800mila metri cubi. La società che chiede la lottizzazione del terreno di pregio, quello della Cascinazza, fa capo a Paolo Berlusconi; le mosse della maggioranza formigoniana dunque anticipano e vanificano l’imminente approvazione del nuovo piano del governo del territorio da parte del Consiglio Comunale di Monza, che avrebbe bloccato lo scempio.
Il secondo interviene invece sulla normativa che regola i mutamenti di destinazione d’uso degli immobili, imponendo d’ora in poi l’obbligo del permesso di costruire per il solo caso di un mutamento finalizzato a luogo di culto. Qualora la norma fosse approvata si dovrà per legge ottenere il permesso di costruire rilasciato dalle amministrazioni comunali. In altri termini, se si volesse trasformare un capannone in una bisca, non ci sarebbero problemi, ma se per caso si volesse trasformarlo in un posto dove andare a pregare si dovrà chiedere l’autorizzazione del sindaco!
In realtà la norma si riferisce a tutte le religioni, ma pare piuttosto evidente che a subire le maggiori penalizzazioni sarebbero quelli che non dispongono ancora di una consolidata e riconosciuta rete di luoghi di preghiera, ad esempio le persone di fede islamica. Inoltre qualsiasi sindaco che negasse il permesso di apertura di un luogo religioso violerebbe uno degli articoli fondamentali della nostra costituzione: la libertà di culto. Libertà che è fondante anche per le politiche di integrazione che paiono non interessare alla Giunta di centro destra.
Il terzo fatto riguarda uno dei paradossi di questa legge che si appresta a ridisegnare l’assetto territoriale di importanti aree, come Malpensa e la Valtellina, ma anche la zona dell’aeroporto di Montichiari o la zona di Melzo. Il nonsenso legislativo di questa modifica è che viene riservata alla Giunta la redazione dei Piani d’Area, lasciando al Consiglio la sola fase finale di approvazione. Tutto ciò senza che la Regione abbia predisposto il Piano Territoriale Regionale. I piani d’Area infatti dovrebbero essere coerenti con un piano regionale che ancora non c’è. In questo modo la Giunta ha sostanzialmente mano libera su queste aree, chiamando poi il Consiglio regionale ad una mera ratifica.
L’opposizione di centrosinistra ha presentato 868 emendamenti per modificare il progetto di legge, ricordando di avere sempre cercato il dialogo con la maggioranza su un tema tanto importante, pensando che fosse importante anche arrivare ad un testo unico e condiviso. Marco Cipriano, vicepresidente diessino del Consiglio regionale, ricorda che “durante la scorsa legislatura in commissione territorio, c’è stata una improvvisa accelerazione, e la legge è stata approvata gli ultimi giorni con una maggioranza esigua, segno di una non completa condivisione neanche nel centrodestra, che ha utilizzato questo testo per una strumentalizzazione in vista delle elezioni regionali dello scorso anno”.
Al testo di legge approvato avrebbero dovuto seguire, nei sei mesi successivi, i criteri di attuazione della legge, grazie ai quali i comuni avrebbero potuto emanare i piani per il governo del territorio. Più di un anno è passato da allora e mancano ancora i regolamenti previsti. Il risultato è che non c’è una politica di governo del territorio condivisa, né la volontà di risolvere i veri nodi del governo del territorio nella regione.
“Gli effetti concreti” – aggiunge Cipriano – “intanto si manifestano: si è dovuto intervenire a correggere la norma sui sottotetti da un lato, dall’altro la regione Lombardia è oggetto di una continua pressione abitativa. Una regione estremamente urbanizzata la nostra soprattutto in certi centri più grandi dove il problema “casa” è una drammatica emergenza con l’esplosione delle rendite fondiarie, i prezzi degli immobili (per l’acquisto e per l’affitto) alle stelle”.
Una situazione che in ambienti del centrosinistra non si esita a definire come “un’alleanza tra furbetti del mattone e intolleranti religiosi, che riproduce il più classico dei malcontenti politici: lo scambio di favori”. Protagonisti Forza Italia e la Lega Nord, marginali le presenze di An e Udc, tutti a sostegno dell’Assessore leghista Boni.
In sostanza, dicono nel centrosinistra, Forza Italia intasca l’affare a Monza, mentre la Lega si porta a casa uno strumento in più per le sue campagne elettorali. Un centro-destra, quello lombardo, che sin dalla sua vittoria elettorale di un anno e mezzo fa mostra mille contraddizioni e un Presidente della Regione impegnato da due mesi a parlare di se stesso e di stravaganti referendum personali.
In questi giorni la più antica associazione italiana per la tutela, «Italia Nostra», fondata mezzo secolo fa, procede al rinnovo dei propri organi direttivi. Stanno arrivando agli iscritti, assieme al Bollettino, le schede per votare a mezzo posta e il bilancio consuntivo del 2005 che è stato poi il motivo principale per una rottura interna traumatica, con le dimissioni della presidente Desideria Pasolini dall'Onda, della segretaria generale Gaia Pallottino e di alcuni importanti consiglieri (Gianfranco Amendola, Vezio De Lucia. Arturo Osio e altri) e la susseguente elezione di Carlo Ripa di Meana alla presidenza.
Quest'ultimo e quanti l'hanno sostenuto ha infatti attaccato soprattutto sul bilancio la dirigenza in carica, accusandola, sullo stesso Bollettino dell'Associazione, di «dissesto», di «inerzia o incompetenza», di aver prodotto nelle finanze associative un «buco» di 1 milione e 50 mila euro. Tutto ciò, con un linguaggio insolito per l'associazione, in un atto ufficiale come il Bollettino del giugno-luglio 2005.I dimissionari hanno replicato che l'indebitamento non era a quei livelli,che bisognava distinguere bene fra debiti a lungo, a medio e a breve termine, che c'erano cospicui crediti da esigere e che comunque si poteva avviare il risanamento consolidando il debito (quello reale) tutto a lungo termine, con un mutuo per continuare. Carlo Ripa di Meana e i consiglieri che lo sostenevano hanno invece optato per la vendita immediata della villa che Maria Luisa Astaldi aveva lasciato in eredità a «Italia Nostra» auspicando che essa divenisse la sede centrale dell'Associazione. Come è stata per oltre vent'anni. Villa Astaldi, nonostante obiezioni e proteste, è stata così ceduta all'antiquaria romana Ida Benucci per una cifra vicina ai 13 milioni di euro. Altre proteste: ma perché vendere un bene di questo valore per sanare un debito, nel peggiore dei casi, tredici volte inferiore ?
Niente da fare, la vendita è stata ugualmente realizzata nei mesi scorsi e i nuovi proprietari stanno già entrando a Villa Astaldi, mentre «Italia Nostra» - che ha deciso di riversare il proprio archivio all'Archivio Centrale dello Stato - nelle scorse settimane era ancora alla ricerca di una nuova sede. Forse provvisoriamente in un appartamento della stessa antiquaria compratrice in zona Ludovisi e domani in uno stabile vicino a Villa Torlonia.Ma la notizia più inquietante viene dall'ultimo bilancio consuntivo - quello del 2005 - approvato dal Consiglio e pervenuto ai soci col Bollettino. Esso dice che il risultato di gestione per il 2005 è pari a 109.802 euro. I revisori dei conti scrivono che esso è inferiore a quello del 2004. Allora non c'è il «buco» clamoroso, non c'è quel rovinoso «dissesto» imputato agli amministratori dimissionari? Pare proprio di no. Nel bilancio le immobilizzazioni in terreni e fabbricati (Villa Astaldi sostanzialmente) sono iscritte per 4.392.395 euro, contro i quasi 13 milioni di euro fruttati dalla vendita. C'è inoltre un attivo circolante pari a 688.910 euro, con un incremento del 320 per cento rispetto al 2004.
Notizia pure allarmante, se vera: al consulente finanziario che ha sempre redatto con cura i bilanci di «Italia Nostra» (compreso l'ultimo) non è stato rinnovato il contratto di consulenza, appena dopo l'approvazione del consuntivo 2005. Strano comportamento.
Come quello in base al quale si è avallato, senza battere ciglio, che il neo-segretario generale Giuseppe Giliberti, uno degli autori del «ribaltone» anti-Pallottino dei mesi scorsi, sia quasi subito andato a lavorare all'associazione «Greenpeace», lasciando scoperto quel delicato incarico a «Italia Nostra». In compenso uno dei revisori dei conti appena citati è suo fratello Roberto.In questa situazione i soci di «Italia Nostra» stanno votando per il nuovo Consiglio Direttivo Nazionale. Si contrappongono due liste: una di sostenitori dell'attuale presidente Ripa di Meana, in cui sostengono gli esponenti delle sezioni di Roma e di Milano, e un'altra di oppositori formata da elementi, per lo più nuovi, che provengono dal lavoro delle sezioni, sul territorio. A favore di questa seconda lista si sono espressi con un appello «per ridare voce e autorevolezza» all'Associazione, Desideria Pasolini dall'Onda, Gianfranco Amendola, Marisa Dalai, Vezio De Lucia, Adriano La Regina, Paolo Leon, Giorgio Nebbia, Antonio Paolucci, Arturo Osio, Luigi e Silvia Squarzina, Piero Bevilacqua, Bernardo Rossi Doria e molti altri. Allarmati dal silenzio che - a parte la campagna contro la diffusione delle pale eoliche - sta caratterizzando questa stagione di «Italia Nostra», fino ad un anno fa sempre presente e in prima fila nella denuncia e nella proposta sulla attiva tutela del nostro patrimonio artistico e paesistico. Una sua crisi sarebbe gravissima, per il Paese.
Nelle ultime ore della campagna elettorale il governo Berlusconi sta firmando di tutto, distribuendo milioni di euro a pioggia. Lunedì scorso il sottosegretario Gianni Letta ha firmato con Impregilo il contratto da 3,9 milioni di euro per la progettazione definitiva ed esecutiva nonché per la realizzazione del tanto discusso (e avversato) Ponte sullo Stretto. Il progetto definitivo dovrà essere esaminato dal Cipe e però, se respinto, bisognerà pagare sonori rimborsi per le spese sin qui sostenute dal consorzio. Se poi i lavori dovessero iniziare formalmente, la penale scatterebbe a ben 300 milioni di euro. Poiché il programma dell’Unione non prevede fra le opere strategiche il Ponte, correttezza voleva che, per questa firma, Palazzo Chigi attendesse il risultato del 9-10 aprile. Siamo di fronte ad una evidentissima forzatura. Che non è isolata.
Il governo ha partorito di corsa, in vista del voto, un altro Codice, stavolta sugli appalti.Esso piace molto ai costruttori, mentre viene giudicato assai negativamente dalle Regioni e dalle associazioni ambientaliste. Si ripete dunque lo schema della legge delega ambientale fermata dal presidente Ciampi per alcune richieste di “chiarimento”, di forma e di merito, legate soprattutto al rapporto Stato-Regioni? È probabile. Certo, il governo della “devolution”, tanto strombazzata da Bossi, continua a comportarsi nel modo più autoritariamente centralista saltando a piè pari le competenze delle Regioni, in queste materia decisamente rilevanti. Come ha puntualmente rilevato il Consiglio di Stato, un altro organismo di controllo decisamente “fastidioso” per Berlusconi.
Questo Codice degli appalti cancella praticamente le garanzie della legge Merloni approvata, non a caso, subito dopo Tangentopoli ed è tutto all’insegna della flessibilità, della eliminazione di paletti di garanzia. Oltre a risultare, in taluni punti, piuttosto confuso. Comunque corrisponde alle migliori aspettative degli immobiliaristi fra i quali, del resto, il presidente del Consiglio è nato e cresciuto come imprenditore. La Merloni poteva venire modificata sulla base dell’esperienza, ma così viene azzerata.
Il governo di centrodestra, nei giorni scorsi, ha presentato con alcuni anni di ritardo quel «Rapporto sullo stato dell’ambiente», ricco, fra l’altro, di dati fermi al 2001 per i quali il ministro Matteoli non ha alcun merito. Dal centrosinistra e dalle associazioni sono venute puntuali e pungenti contestazioni fattuali: fondi per l’ambiente tagliati del 27 per cento, zero euro per la lotta allo smog, emissioni inquinanti aumentate del 12 per cento rispetto al '90 (con le centrali a carbone galopperanno), condoni per 40 milioni di mc abusivi, fonti energetiche rinnovabili ferme al 5 per cento, ecc.
Queste e altre contestazioni sono documentate in un ampio volume del Wwf Italia, curato da Gaetano Benedetto, «Politica e ambiente: bilancio della legislatura 2001-2006», Edizioni Ambiente, pag.382.
Autentico “manuale” dei regressi di ogni sorta patiti in questi cinque anni dal prezioso ambiente italiano per il quale, dagli anni ‘80 in qua, robusti passi avanti erano stati invece compiuti.
Cominciamo dalle Grandi Opere tanto vantate e rimaste, per fortuna dell’Italia, in buona parte sulla carta: «in alcuni casi mancavano le analisi che avrebbero dovuto costituire il presupposto stesso dei progetti preliminari», scrive Benedetto nell’introduzione. La strategia di governo non ha poi tenuto conto di dati economici di base: per esempio che il 75 per cento del traffico autostradale è locale, si limita ad un massimo di 100 chilometri, per cui c’è bisogno semmai di potenziare le strade, essendovi già in Italia 22,8 chilometri di rete autostradale ogni 100 chilometri di rete stradale (media europea molto più bassa: 13,2 chilometri). Tanto meno ha tenuto conto del fatto che ferrovie elettrificate e a doppio binario coprono da noi il 34 per cento della rete, contro il 43 per cento di quella tedesca e quasi il 45 di quella francese. Col Sud e coi pendolari trattati peggio di qualche decennio fa.
Ma veniamo allo strategico protocollo di Kyoto sulla riduzione delle emissioni di gas serra. Il governo Berlusconi è in netto ritardo e, col decreto “sblocca-centrali” del ministro Marzano, ha semplificato le procedure per decine di nuove centrali elettriche che produrranno 12.000 megawatt (le tanto ricordate importazioni si fermano a 6.000 megawatt), con un forte incremento delle emissioni inquinanti. Bisognerebbe puntare maggiormente sulle fonti rinnovabili (eolico, biomasse, solare e fotovoltaico, ecc.) di cui il programma del centrodestra sull’energia praticamente non parla e su di una rinnovata politica di risparmio energetico. Qui Benedetto produce un dato clamoroso: «intervenendo sull’efficienza (cioè sul sistema di utilizzo dell’elettricità, dalle industrie agli elettrodomestici di casa) si potrebbe recuperare il 47 per cento dei consumi energetici, oltre 10.000 megawatt». Basterebbero incentivi mirati in tale direzione per un risparmio gigantesco di emissioni.
Veniamo ai parchi. Matteoli dice di aver aumentato l’estensione delle aree protette. Operazioni compiute per lo più dalle Regioni, avendo il suo ministero seminato di gestioni commissariali, e di presidenti col solo titolo di merito della tessera di An, i Parchi Nazionali di mezza Italia ed affermato più volte il principio-guida secondo il quale essi devono venire “sfruttati” economicamente, magari anche a fini venatorii. «La conservazione della natura sembra quasi un corollario del lavoro e non la “mission” degli enti parco», scrive il segretario generale aggiunto del Wwf Italia. Non che non ci debbano essere ricadute anche economiche, ma la salvaguardia del patrimonio forestale, naturalistico, delle mille e mille biodiversità della flora e della fauna devono precedere ogni pur corretto “business”.
La Corte costituzionale ha definito con grande chiarezza l’ambiente «elemento determinante della qualità della vita», «valore primario ed assoluto», «bene unitario che va salvaguardato nella sua interezza», «non suscettibile di essere subordinato ad altri interessi». Ripercorrendo la cronaca di questo nero quinquennio, la vicenda dei condoni, della vendita delle spiagge demaniali, dell’abbassamento dei livelli di guardia per i rifiuti e per l'inquinamento, si ha la percezione angosciante che questi concetti-cardine della Costituzione formale e materiale siano stati considerati dal governo parole al vento, anzi precetti ostili e molesti.
Ore decisive per il decreto che vuole stravolgere tutta la legislazione ambientale italiana. Oggi le commissioni parlamentari potrebbero votare il parere. E le scelte di oggi condizioneranno il futuro del Belpaese
Sono ore decisive per l'ecomostro normativo, il decreto che vuole stravolgere tutta la legislazione ambientale italiana. Oggi le commissioni parlamentari potrebbero votare il parere. Che ambiente farà in Italia nella prossima legislatura lo si sta decidendo ora, all'insaputa dei più. Le scelte di oggi condizioneranno l'ambiente italiano, ecosistemi e inquinamenti, norme e fatti, politiche e cronache per i successivi due anni. Almeno.
Il ministro contro l'ambiente vuole assolutamente «emanare» il decreto- mostro di 6 parti, 318 articoli e 45 allegati (confusi e illeggibili, con tabelle, appendici, sezioni, numeri arabi, romani, lettere alfabetiche) che «semplifica» la legislazione italiana, provocando un terremoto giuridico, incertezza e paralisi. Il 15 dicembre 2004 ha ricevuto una delega con voto di fiducia alla Camera dopo precedenti voti di fiducia anche al Senato (estorti alla sua stessa maggioranza, senza consenso di merito).
Un anno fa ha nominato discrezionalmente una commissione quasi tutta compiacente, pagandola molto e riunendola poco, chiedendo improvvisamente il 5 ottobre di esprimersi su cinque schemi apparsi la settimana prima che non avevano mai visto né discusso (elaborati da «altri», suoi amici), via posta elettronica, dopo averli esaminati congiuntamente per poche ore e individualmente per pochi giorni, tralasciando senza motivazione una proposta sulle aree protette.
Un unico testo che «fonde» i cinque schemi è stato approvato dal consiglio dei ministri il 25 novembre ed è giunto alle Camere il 6 dicembre, senza il previsto parere della conferenza unificata. I compiacenti presidenti lo hanno assegnato alle commissioni facendo scattare il termine dei 30 giorni. L'esame è continuato durante questa settimana. I relatori di maggioranza (uno alla Camera, quattro al Senato ovvero uno per partito del centrodestra) parlano apertamente di errori, refusi, perplessità, riserve, violazioni della disciplina comunitaria, giustificati rischi di contenziosi e ricorsi. Le schede predisposte dai servizi studi legislativi citano impietosamente contraddizioni, sovrapposizioni, vuoti.
Tutti i soggetti interessati hanno espresso critiche e contrarietà, basta leggere i verbali delle audizioni argomentate e documentate. Le regioni (tutte, anche quelle poche del centrodestra) hanno indicato vari profili di incostituzionalità. Province e comuni hanno elencato tutte le invasioni di campo nei confronti delle loro competenze, entrando nel merito con osservazioni critiche puntuali su decine di articoli. E trecento scienziati si sono rivolti al presidente Ciampi per impedire lo scempio. Il ministro contro l'ambiente ha bollato i poveri contestatori come «immobilisti reazionari», dichiarando di voler andare comunque avanti. Non avendo attuato, promosso, realizzato una sola politica ambientale vuole poter dire in campagna elettorale che, però, ha cambiato tutte le leggi...!
Dunque, forse, il decreto arriverà. Deputati e senatori della maggioranza in scadenza daranno un lungo parere pieno di condizioni e emendamenti... ma favorevole? I ministri competenti e incompetenti chiederanno qualche giorno in più per ricevere almeno un parere della conferenza unificata, lo avranno negativo... e approveranno in consiglio il testo definitivo? Deputati e senatori si rivedranno a fine febbraio per un ultimo scontato parere anche se le correzioni non saranno state apportate? Il capo dello stato riceverà un testo enorme e confuso, con ricorsi alla corte in itinere, appelli contrari di esperti, giudizi pessimi di tutte le forze sociali... ma non potrà far nulla?È uno scenario probabile.
Dopo cinque anni di condoni e licenze ad inquinare avremo la «precarizzazione» di tutta la normativa, un lungo periodo di incertezza costituzionale, conflitti istituzionali, vuoto amministrativo, confusione diffusa. Ne usciremo. Entro due anni nuovo parlamento e nuovo governo, sulla base della stessa delega, possono rimettere ordine.
L’Europa interverrà subito, la Commissione e la Corte di Giustizia segnaleranno tutti i già annunciati contrasti con le direttive comunitarie. Dovrà pronunciarsi la Corte Costituzionale. Vi saranno una miriade di ricorsi alla giustizia amministrativa, giudiziaria, penale. Un terremoto dal quale usciremo prima o poi. Dico un paio di anni, spero meno. Chi può, nell'attuale maggioranza, soprattutto chi ha incarichi nelle istituzioni costituzionali, rifletta bene.
Forse un altro scenario è ancora possibile: un atto parlamentare che proroghi i termini della delega, che consenta ai nuovi eletti di approfondire seriamente l'articolato, di meditare critiche e proposte, di giungere a testi concertati e condivisi, che lasci al nuovo governo un compito di sintesi unitaria e di transizione studiata.
Non è certo uno scenario ideale. La destra avrà comunque garantito che si parta da un approccio scadente e pericoloso. Almeno avremo evitato che il «mostro» diventi norma e avremo il tempo di coinvolgere esperti e competenti, interessi e principi, regioni e comuni in un'opera di rilancio dello sviluppo sostenibile e di riconversione (ecologica) delle leggi ambientali.
Qual è la formula per far rinascere una città industriale in declino? Primo: identificare un quartiere degradato. Secondo: spingere una comunità di artisti a trasferirsi lì. Terzo: far sì che giornali e televisioni ne parlino, in modo che la zona diventi rapidamente di moda. A quel punto i bar e i ristoranti si moltiplicheranno, i borghesi ricchi cominceranno a popolare le strade, i prezzi saliranno.
Richard Lloyd, sociologo alla Vanderbilt University di Nashville, in Tennessee, dice che questo modello sta diventando fondamentale per lo sviluppo di quella che definisce l''economia dell'estetica', cioè di un'economia post-moderna basata sempre più sulla cultura e sulla creatività. Per sostenere questa tesi, Lloyd ha scritto un libro -'Neo-Bohemia: art and commerce in the post-industrial city' - per descrivere il ruolo crescente che le culture artistiche giovanili giocano nel capitalismo post-moderno.
La 'Neo-Bohème' di cui parla Lloyd è assai diversa dalla Bohème della Parigi del 1840, quando Henri Murger coniò il termine per descrivere una cultura ribelle che faceva scandalo. Lloyd, che ha a lungo studiato l'evoluzione di Wicker Park, un quartiere di artisti di Chicago, applica le sue idee a tutte le città moderne che hanno visto rapidamente svanire le ciminiere e al loro posto nascere un'economia basata sui servizi avanzati. Secondo lui oggi i giovani artisti alternativi sono diventati i portatori d'acqua, e di idee, della nuova economia post-moderna.
Nel suo libro Lloyd, intellettuale trentenne che porta l'orecchino e mostra grande empatia nei confronti delle nuove culture ribelli, rielabora il concetto di 'classe creativa' inventato alcuni anni fa da Richard Florida, sottoponendolo a una dura critica. Lo abbiamo intervistato.
In che modo la Neo-Bohème di oggi è diversa dalla Bohème della Parigi di Baudelaire?
"I quartieri degli artisti di oggi sono molto simili a quelli del passato. Come allora, per esempio, si trasformano rapidamente in zone per ricchi. Ma oggi questi quartieri giocano un ruolo più importante nell'economia urbana. Sono laboratori di ricerca e sviluppo per la produzione dell'economia dell'entertainment, dei media, della pubblicità, dei lavori legati all'estetica".
Lei ha studiato soprattutto il caso di Chicago.
"Chicago è una città importante per capire i cambiamenti in corso. Fino a vent'anni fa era il prototipo della metropoli industriale: produceva acciaio ed era il centro del commercio del bestiame. Ma ha dovuto reinventarsi: oggi produce soprattutto cultura, finanza e tecnologia. E in questo contesto i quartieri della Neo-Bohème, come Wicker Park, giocano un ruolo nuovo".
Che caratteristiche hanno questi quartieri?
"Sono aree per loro stessa natura candidate a diventare punti di attrazione dell'estetica post-industriale. Hanno ampi locali che possono essere usati come loft dagli artisti, o come gallerie, night club, coffee shop. Questi quartieri sono in costante cambiamento. Una volta che un quartiere viene identificato come 'area artistica' il suo momento magico è già finito, i prezzi salgono, i nuovi artisti non possono più andarci a vivere e devono inventare un nuovo posto creativo".
Come è successo a Manhattan nel Greenwich Village e a Soho...
"Certo. Oggi gli artisti non possono più permettersi di vivere lì. Come non possono più vivere nel Quartiere Latino, a Parigi. Ma sopravvivono gallerie d'arte, spazi per le performance, bar e coffee shop. E queste 'istituzioni' offrono opportunità di lavoro agli artisti, che infatti lavorano come barman o come camerieri e questo costituisce una delle parti più importanti di questo processo. Il successo di Williamsburg a New York dipende dalla metropolitana veloce che trasporta gli artisti in pochi minuti nel Village, dall'altra parte dell'East River. Non si può capire la vita degli artisti contemporanei senza studiare l'industria dei bar, perché è qui che la maggior parte degli artisti lavora".
La Neo-Bohème è un fenomeno americano oppure mondiale?
"Non credo che sia solo americano, né solo occidentale. Mi sono chiesto se esista anche in città come Bombay. Ma penso di sì. La Neo-Bohème è un fenomeno legato alla transizione dall'economia industriale a un'economia sempre più basata sulla produzione di immagini e cultura. E questo è un fenomeno generale".
Un esempio europeo?
"Un paio d'anni fa, durante un soggiorno in Olanda, lessi un giornale che si chiedeva perché molti artisti oggi preferiscono Rotterdam, città dell'industria e del porto, ad Amsterdam, più affascinante e cosmopolita. È evidente che oggi i creativi convergono a Rotterdam proprio per certi tipi di spazi post-industriali - i capannoni dismessi per esempio - che fino a ieri sembravano anacronistici e che invece sono diventati il centro di nuove attività. Gli artisti sono attratti da questi spazi, li colonizzano e li fanno tornare alla vita".
Torniamo agli artisti-baristi: che cosa c'entrano con l'economia post-industriale?
"Esattamente come avveniva ai tempi della vecchia Bohème, gli artisti non producono solo opere d'arte, ma offrono anche se stessi come opera d'arte. Gli artisti sono vistosi, creativi, anticonformisti, hanno la capacità di creare tendenze. E nei bar, nei ristoranti, nelle gallerie d'arte, dove passano gran parte del loro tempo, riescono a creare l'ambiente giusto. Chi va a mangiare al Greenwich Village, o a Soho, o al Wicker Park di Chicago, va lì proprio per consumare questa atmosfera alternativa, e una delle esperienze che vuole vivere è avere un cameriere con i capelli rosa e il piercing al naso".
Così i giovani artisti diventano attrazioni per turisti?
"Non solo per turisti. Anche per molti cittadini di New York, o di Chicago, perché molti residenti, soprattutto i più istruiti, usano la loro città come fossero turisti. Certo non vanno a visitare la Statua della libertà o l'Empire State Building, ma vanno nei locali underground dove il clima è creato proprio dalle persone che ti servono un drink".
Questo ambiente di nuovi bohémien americani è sempre influenzato dalla cultura europea?
"Certamente. La nuova Bohemia mantiene fede alle sue origini europee, anche se ha caratteristiche meno intellettuali, rispettando una certa tradizione americana".
Lei sostiene che la Neo-Bohème è associata alla nostalgia, la noia, l'ansia. Ne parla come se fosse uno stato della mente.
"Baudelaire e gli Impressionisti sono stati così importanti perché il loro apparire ha coinciso con l'esplosione della metropoli moderna. Sono stati i primi a fare della metropoli il centro dei loro progetti estetici. La Bohème è sia un posto sia uno stato della mente. E queste due cose si rafforzano l'una con l'altra. Le persone che vivono queste esperienze credono nell'arte per amore dell'arte, riconoscono il primato dell'esperienza, hanno la volontà di fare grandi sacrifici personali per ottenere i risultati voluti. Chi abita in quei posti vive un'avventura collettiva che aumenta la creatività di tutti. Stare in quei posti produce uno stato della mente, un senso di sé. Un giorno una di queste persone mi disse: "Dal momento in cui mi sono trasferito a Wicker Park sono diventato un artista di Chicago". E la stessa cosa si può dire di certe zone di Manhattan e di altri posti che sono diventati dei marchi che identificano le persone che ci vivono".
Come possono i nuovi bohémien essere allo stesso tempo dei ribelli e un ingranaggio fondamentale nello sviluppo della new economy...
"Molti giovani artisti non si identificano con la logica capitalista. Rifiutano i lavori da impiegato nelle grandi aziende perché lo ritengono un insulto alla loro sensibilità di artisti. Vogliono vivere poveri e senza certezze, magari drogarsi e costruire la loro avventura senza legami. Ma si tratta di un'eredità del passato inadeguata al mondo di oggi. Questi giovani vanno alla ricerca della libertà personale e della creatività e poi si trovano incatenati a fare lavori in subappalto per aziende di Internet design, e lavorano 12 ore al giorno per produrre spot pubblicitari della Nike".
Richard Florida sostiene che oggi il successo delle città dipende dalla capacità di attrarre la 'classe creativa'. E i quartieri artistici, con la loro effervescenza e la loro tolleranza, sono un ingrediente fondamentale. Cosa la divide da Florida?
"Non sono altrettanto ottimista. Florida pensa che la classe creativa abbia ampia libertà e grande potere sociale. Credo che sbagli. Secondo me molti di questi artisti restano fregati in questo processo. E con loro, anche molti altri. Florida dice che la classe creativa costituisce il 30 per cento della popolazione. E l'altro 70 per cento? Chi paga il prezzo dei privilegi della classe creativa?".
Chi paga?
"Economia globale non significa solo spostare nel Terzo Mondo le attività produttive che avevano sede a Chicago. Significa anche che nelle fabbriche dismesse oggi lavorano grafici e artisti del web che offrono il loro talento ad aziende come la Nike che così trae beneficio da entrambi i lati: da una parte sfruttando il lavoro a basso costo dei lavoratori del Terzo mondo, e dall'altra quello dei creativi di casa nostra. Mi chiedo quali siano i costi sociali di questo fenomeno. Florida ritiene che la vecchia nozione della proprietà dei mezzi di produzione sia superata perché secondo lui la nuova classe dominante è la classe creativa. Ma io sono scettico sul reale potere sociale di questa classe. Ha grande utilità sociale, ma scarso potere sociale".
Lei oggi dice che le aziende del nuovo capitalismo tendono a incorporare le idee dei giovani artisti alternativi. Un po' come ieri l'industria musicale ha incorporato la musica dei neri...
"Credo di sì. Nel dopoguerra la società americana era diventata ricca ma rischiava di diventare sterile. Gli artisti beat furono i primi a ispirarsi alla cultura nera, in particolare al jazz, vedendolo come un'espressione culturale genuina. Nel 1950 Norman Mailer scrisse un articolo intitolato 'White Negro', negro bianco, per descrivere come gli intellettuali bianchi, per avere successo, dovevano ispirarsi alla cultura dei neri, che proprio perché appartenevano agli strati marginali della società erano liberi di esprimersi in modo istintivo. Oggi le aziende si ispirano ai giovani della nuova Bohème".
Dell’iniziativa della CGIL di Vicenza mi piacciono soprattutto tre cose: il titolo, il taglio, la continuità.
Il titolo “Più piazze e meno mattoni” esprime molto sinteticamente l’obiettivo vero che dobbiamo proporci: restituire la città alla società, ridurre l’edificazione allo stretto indispensabile per allargare lo spazio destinato alla fruizione di tutti. È uno slogan, e una battaglia, che si ricollegano alle grandi lotte operaie del 1969 (sono tra quelli che ricordano ancora la grande manifestazione del 19 novembre di quell’anno, quando l’Italia dei lavoratori si fermò e scese in piazza per la casa come servizio sociale,i servizi, i trasporti pubblici,il Mezzogiorno), ma si apre alla lotta contro il dissennato consumo di suolo per garantire alle generazioni presenti e a quelle future la possibilità di godere di un ambiente pulito, bello, salubre.
Il taglio di una giornata di studio nella quale si esaminano con attenzione le carte tecniche delle scelte sul territorio per valutarle nell’interesse dei lavoratori mi sembra costituire il modo giusto per uscire dalla “politica spettacolo”, dalle risse sulle parole, dalle semplificazione traditrici delle idee, dalle frasi fatte e dai luoghi comuni, dagli ideologismi che nascondono la mancanza di ideali. Studiare per comprendere, comprendere per cambiare: non è questo lo slogan implicito in tutta la storia del movimento operaio?
La continuità con un evento al quale (a differenza di questo) potetti partecipare mi sembra un dato importante. Mi riferisco al seminario che facemmo a Vicenza, all’indomani e “in attuazione” della iniziativa delle sei Camere del lavoro che si riunirono a Bologna nel 2004 per riaprire l’attenzione del sindacato sul territorio. In un’epoca di mode fuggevoli, di revisionismi continui, di altalene tra posizioni e interessi spesso divaricati, la continuità del lavoro che con questa iniziativa testimoniate mi sembra non solo un segno di serietà, ma anche di speranza.
Sulla Giornata di studio vedi Progettare partendo dai diritti dei cittadini