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Duro, anzi durissimo. Il braccio di ferro tra il Comune di Vicenza e il governo sull’allargamento della base Usa, non solo si inasprisce ma si estende alla Regione che si schiera a fianco dell’amministrazione municipale berica. Sul caso però si allunga anche l’ombra di una crisi Italia-Usa, accentuata dalle accresciute distanze tra Roma e Washington per l’intervento Usa in Somalia e per la politica di Bush in Iraq. Ieri il presidente Prodi è stato in proposito di ghiaccio: «Bush dovrebbe trarre migliori lezioni dal rapporto Baker». Un macigno sulla tradizionale amicizia tra Usa e Italia. E in questo contesto non facile si inserisce lo spinoso caso dell’ampliamento della base Usa di Vicenza sul quale il governo «sta riflettendo».

Un caso, del resto, diventato scottante dopo la forte contestazione di tre giorni fa, a Vicenza, nei confronti dell’ambasciatore americano Spogli che ieri, dopo Prodi, ha visto il ministro D’Alema.

Il «go home» all’ambasciatore, anzi, ha acceso una vera e propria rissa verbale tra centrodestra e centrosinistra che sembra destinata a spegnersi non molto presto. «Troverei assurdo e dannosissimo il distacco degli americani da Vicenza - ha detto il presidente del Veneto, Galan, in una nota -, un distacco che di sicuro avrebbe serie ripercussioni sul piano politico generale, sull’immagine di Vicenza e del Veneto negli Usa e nel resto dell’Occidente, tranne che a Cuba o nel Venezuela di Chavez». «Siamo di fronte ad una vicenda che già troppi danni ha fatto nei rapporti internazionali e nelle alleanze politiche e militari del nostro Paese - prosegue il presidente - Danni causati dall’incredibile ma fortemente sospetta inerzia del governo, che avrebbe dovuto farsi promotore già da tempo di una soluzione adeguata e quindi vantaggiosa per Vicenza, per l’Italia, per la nostra alleanza con gli Usa».

Il sindaco di Vicenza, Enrico Hullweck, da parte sua, è tornato sul «duello» a distanza con il ministro degli Esteri D’Alema. «Premesso - dice il sindaco - che avrei gradito da D’Alema una parola di solidarietà per i due agenti della polizia locale e per la dipendente comunale picchiati dai dimostranti, che volevano malmenare l’ambasciatore Spogli».

A ribattere per il centrosinistra sono stati Mauro Bulgarelli, senatore dei Verdi, e Laura Fincato, deputato dell’Ulivo. «L’ambasciatore Usa Spogli è venuto a Vicenza per esercitare pressioni assolutamente indebite sulle autorità locali, minacciando rappresaglie sul piano occupazionale se non dovesse andare in porto il raddoppio della Ederle».

«Il sindaco Hullweck porta la responsabilità della situazione che si è creata intorno alla base Usa Dal Molin: ha gestito tutta la vicenda all’insaputa della città e del Consiglio comunale», afferma infine Laura Fincato, secondo la quale «se il sindaco di Vicenza fosse stato più trasparente nei confronti della proposta degli Stati Uniti, che sono un paese amico, si sarebbero evitate le disdicevoli contestazioni all’ambasciatore Spogli». Fincato, che coglie l’occasione per esprimere solidarietà all’ ambasciatore, conclude dicendo che «i cittadini di Vicenza decideranno, come è giusto che sia, con il referendum il futuro della base, dopo che il sindaco aveva occultato la trattativa con gli Usa».

Nella disputa si è infine inserito il presidente degli industriali di Vicenza, Massino Calearo, secondo il quale «la gestione politica della vicenda Dal Molin prima era deludente, ora è preoccupante».

Sull'argomento, in eddyburg articoli del 18.08.2006, 26.10.2006, 18.11.2006, 03.12.2006.

L’inverno del nostro scontento»: l’espressione che Shakespeare mette in bocca al futuro re Riccardo III è stata usata molte volte come metafora di quella protesta sociale serpeggiante prende forma in certi periodi freddi. Una protesta che propende ad autoalimentarsi, nutrendosi di una diffusa insofferenza, intessuta di un malessere sordo. È una metafora che sembra tagliata su misura per la situazione che l’Italia vive in queste settimane e ha l’aspetto d’un malcontento generalizzato, che non sembra sanabile ricorrendo agli strumenti consueti. Come se uno stato di sfiducia, che si riproduce continuamente, fornisse l’impulso a manifestazioni che finiscono col travalicare l’ambito cui si riferiscono per investire una dimensione generalizzata, estesa un po’ a tutto.

Contratti di categoria rinnovati a termini scaduti

Le città hanno evitato all’ultimo momento di subire la fermata del trasporto locale che le avrebbe poste in difficoltà se si fosse attuato lo sciopero indetto per ieri. Ma l’intesa in extremis non ha spento del tutto la protesta dei sindacati non confederali, che si è espressa in riduzioni occasionali del servizio, com’è successo a Milano, dove ieri mattina la metropolitana funzionava in modo parziale. Lo sciopero Alitalia ha invece avuto effetto, mentre vi sono stati fenomeni di microconflittualità sui treni, con disagi sull’asse Torino-Milano. Tutti segni che, sommandosi ai fischi e ad altre proteste, non solo possono essere considerati come prova della disaffezione verso il governo, ma sono destinati ad accentuarla. Come non avvertire un senso di disillusione di fronte al fatto che certi contratti di categoria continuino a essere rinnovati quando i termini sono largamente scaduti e che, soprattutto, non vengano rivisti i criteri che regolano la prestazione di lavoro in alcuni comparti? È chiaro che più nessuno pensa che, chiuso un periodo di conflittualità, non se possa aprire un altro, magari quasi immediatamente.

La caduta degli standard e le promesse credibili

Nel campo delle infrastrutture, la discrasia fra le dichiarazioni di intenti e la realtà vissuta da numerosi cittadini-utenti dei servizi è massima. Da una parte, le cronache riportano di interminabili tavoli di progetto su grandi opere destinate - forse - ai nostri nipoti, mentre la caduta degli standard di efficienza e qualità in sistemi come i trasporti è verificabile quotidianamente e le cifre sui dissesti di gestione appaiono sempre più inquietanti e problematiche da rimediare. La via d’uscita dall’impasse attuale non sta nel preannunciare grandi misure d’intervento e progetti che per essere sviluppati hanno bisogno di un arco temporale medio-lungo. Ciò di cui necessita adesso il nostro sistema infrastrutturale è una vasta, meticolosa e puntuale opera di manutenzione dell’esistente, senza di cui nessuna prefigurazione di un soddisfacente futuro assetto risulta credibile. Un programma di manutenzione che non può essere fatto soltanto d’interventi sulle strutture materiali, prescindendo da un’azione condotta sulle relazioni di lavoro, con la capacità e l’intenzione di fare della contrattazione collettiva con le rappresentanze dei lavoratori uno strumento valido di regolazione, sia per quanto attiene l’efficienza organizzativa che le condizioni di lavoro. Senza questo passaggio, il malcontento non potrà che essere permanente.

I due ampi articoli di Vittorio Emiliani pubblicati sull'Unità del 26 e del 29 novembre, sul «Belpaese da salvare» hanno non solo riproposto con una certa drammatica attualità il problema (la documentata analisi con tanto di cifre e riferimenti specifici, forniti dall'Autore non concedono spazi al dubbio o alle ipocrisie) ma dovrebbero indurre politici, pubblici amministratori (locali e centrali), uomini di cultura (urbanisti, sociologi, economisti, geologi ecc.) e del mondo delle professioni (architetti, ingegneri, costruttori) ad una seria riflessione. Ciò che stiamo ogni giorno «mangiando» (per dirla con Emiliani) del Bel Paese non è più riproducibile ed è destinato ad incidere negativamente sul futuro delle prossime generazioni. All'inizio degli anni Sessanta nel pieno di una rovente polemica scoppiata a Torino sul nuovo piano regolatore e più specificatamente su tremila licenze edilizie rilasciate dall'amministrazione comunale centrista in contrasto con il Piano stesso, un autorevole esponente democristiano (l’avvocato Valdo Fusi) sensibile ai problemi urbanistici aveva ironicamente accusato un suo amico di partito (l'assessore Silvio Geuna) di «avere fatto più danni alla città di quanti non ne avesse fatti la Seconda guerra mondiale». Non si trattava di un paradosso, ma di una verità. La guerra, con i suoi terrificanti bombardamenti aerei (più di un terzo del patrimonio edilizio di Torino andò distrutto) non aveva compromesso definitivamente l'uso del territorio. Anzi, nella sua grottesca crudeltà aveva consentito nella fase della ricostruzione post-bellica, di rimodellare il tessuto urbano.

Ciò che sta accadendo oggi in Italia a danno delle città e del paesaggio (processo di degrado avviato con virulenza a partire dagli anni Ottanta) è molto peggio di una terza guerra mondiale, poiché compromette definitivamente un patrimonio non riproducibile come il territorio. L'importante riflessione di Emiliani mi induce ad alcune considerazioni integrative che così riassumo.

1) Regime dei suoli. Nel programma dell’Unione di Prodi si denuncia che il governo di centro-destra «ha favorito un’abnorme crescita delle rendite immobiliari», ma non si dice esplicitamente cosa si intende fare per colpire quella «rendita parassitaria» così definita da un pontefice ultra-conservatore come Eugenio Pacelli, che l'aveva condannata. Negli ultimi cinquant'anni (dopo la legge del 1942) l'unico che abbia avuto il coraggio di avanzare una proposta scritta di riforma urbanistica fu un ministro democristiano (poi finito malamente nei social-democratici), Fiorentino Sullo, nel 1964, quando reggeva il dicastero dei lavori pubblici. Si scatenò il finimondo contro quella proposta elaborata e sostenuta dall'Inu (Istituto Nazionale Urbanistica) nel suo congresso di Cagliari. Ricordo in particolare il contributo di Bruno Zevi, dei torinesi Gabriele Manfredi e Alberto Todros, di Michele Achilli, di Giovanni Astengo e di tanti altri illustri urbanisti.

La reazione dei cosiddetti «poteri forti» fu così violenta che il segretario nazionale della Dc dell'epoca, Aldo Moro, si precipitò alla televisione per sconfessare il suo ministro e prendere le distanze da quel provvedimento che in altri paesi civili europei era norma da decenni.

Pietro Nenni, nei suoi diari, quando parla di «rumor di sciabole», cioè del famigerato «piano solo» del Generale De Lorenzo, allude esplicitamente alla Legge Sullo, che avrebbe nientemeno che provocato un tentativo di colpo di stato, un golpe, pur di fermare una riforma che voleva colpire la speculazione sulle aree fabbricabili.

Perché, ancora oggi, il centro-sinistra e gli intellettuali non legati alla peggiore cultura della rendita parassitaria (camuffata da libero mercato) hanno totalmente rimosso il problema di una nuova regolamentazione del regime dei suoli? L'incidenza del valore attribuito al terreno reso edificabile è esorbitante rispetto al costo dei fabbricati: il prezzo degli affitti, soprattutto nelle grandi aree metropolitane, ha raggiunto livelli proibitivi. Nel contempo gli investimenti per l’edilizia «economica e popolare» da parte degli enti pubblici - come ci ricorda Emiliani - sono ridotti al lumicino. Domanda: c'è un programma di intervento del governo in questo settore? Il ministro Di Pietro che tanto si affanna per la Tav, strapazzando sindaci e popolazione della Valle di Susa (indipendentemente dalle questioni ambientali) ci vuole dire il costo aggiornato dell'alta velocità? Nel 1991 era stato previsto in 9203 milioni di euro. A distanza di quindici anni (secondo dati desunti da documenti della Tav spa, Rfi e Fs) è salito a 38500 milioni di euro, con un aumento del 418%. Non è casuale che sia stata presentata una proposta di legge per una commisione d'inchiesta parlamentare su tutta la vicenda a partire dalla lievitazione dei costi sino alle infiltrazioni camorristiche negli appalti relativi alla tratta Napoli-Roma.

Come sarebbe bello vedere i nostri ministri, i presidenti di regione, i sindaci delle grandi città accalorarsi per avere più strumenti per la difesa del suolo e per un programma serio per il recupero del grande patrimonio immobiliare fatiscente, abbandonato. Purtroppo non è così. Si continua a «mangiare», ogni giorno, fette di territorio soprattutto lungo le coste del Belpaese, ma anche nelle grandi città dove un certo tipo di processi di deindustrializzazione ha liberato milioni e milioni di metri quadrati di aree. Per le coste cito quella più vicina al mio Piemonte e che meglio conosco. Consiglio un viaggio da ponente a levante della Liguria, da Ventimiglia a La Spezia. Un vero saccheggio. La Regione, il mio amico e antico compagno Claudio Burlando (già ottimo sindaco di Genova) non vede, non sente, non parla. Così dicasi per le aree industriali dismesse. A Torino hanno realizzato la cosiddetta Spina3 (ex ferriere Fiat e altre fabbriche) che di fatto è un nuovo ghetto, di lusso, ma sempre ghetto. La densità consentita è da capogiro. È stata teorizzata e santificata la rendita sui suoli quale incentivo per gli investimenti e quindi per lo sviluppo tutto all'insegna della falsa modernità nuovo simbolo della cialtroneria politica, culturale e sociale.

2) Piani regolatori. A partire dagli anni Ottanta il revisionismo in campo urbanistico ha contrapposto alla politica dei «piani» quella dei «progetti». La tesi, in sintesi, è stata questa: i piani regolatori ingessano le città, bloccano l'attività edilizia perché i comuni non hanno i mezzi finanziari per procedere agli espropri. È stata così inventata la pratica del progetto, cioè la politica del carciofo, del singolo lotto, avviando quella che fu definita l'«urbanistica contrattata», tra pubblica amministrazione e privati interessati alla edificazione. Sono gli anni della «Milano da bere», con giunte di sinistra (Psi e Pci) che fanno da battipista: sciaguratamente quella politica della contrattazione caso per caso, fu l'anticamera di Tangentopoli.

L'Istituto Nazionale d'Urbanistica, allora presieduto da una nobile figura come quella del senatore Camillo Ripamonti (democristiano) sostenne una dura battaglia contro questo orientamento a fianco dei migliori urbanisti militanti nel Pci e nel Psi. Ripamonti fu successivamente un ottimo presidente dell'Associazione dei Comuni (Anci), e anche da questo fronte fece sentire la sua voce. Ma l'onda liberista, riformista, modernista, ebbe il sopravvento. Oggi a Torino, ad esempio, gli attuali dirigenti dell'Inu se non sollevasse troppo scandalo sarebbero disposti a sopraelevare anche lo storico Palazzo Madama. Le voci della cultura urbanistica scientificamente valida si sono affievolite, direi si sentono mortificate e si contano in Italia sulla dita delle mani di un mutilato.

3) Governo delle aree metropolitane. Ne ho sentito parlare per la prima volta nel 1956, al congresso dell'Inu, presieduto allora da Adriano Olivetti, con all'ordine del giorno: «i piani regolatori intercomunali». Dopo anni di discussioni e di battaglie si giunse a definire le aree metropolitane dando loro dignità istituzionale inserendole addirittura nella Costituzione (art. 114: la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Provincie, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato). Gli oppositori più accaniti a questa fondamentale riforma anche ai fini dell'uso del territorio sono stati soprattutto, purtroppo, i sindaci delle grandi città, compresi quelli di sinistra. Tanto per non far nomi nelle passate tornate amministrative si sono distinti in senso negativo il sindaco di Roma Rutelli e quello di Napoli Bassolino. L'idea di «spezzare» il comune capoluogo per dare vita alle municipalità è stato vissuto come un atto di lesa maestà: Dio me l'ha dato il potere, guai a chi me lo tocca. Ancora il mese scorso il sindaco di Torino con il suo noto real-understatement ha dichiarato pubblicamente: «una città come Torino potrebbe reggersi anche senza circoscrizioni (di municipalità manco se ne parla, ndr) per dirla in maniera tranchant». Un tempo il decentramento e la partecipazione per il controllo e la gestione del territorio facevano parte di «quel fervore culturale (...), di quella elaborazione generosa e avanzata» di cui parla Emiliani, patrimonio non solo della sinistra, ma della migliore cultura italiana. Il grido di allarme lanciato dalle colonne dell'Unità deve far pensare sul grado di «mutazione genetica avvenuta a sinistra». L’autore dei due articoli conclude la sua importante riflessione con questa domanda: «Vogliamo precipitare ancora? Siamo sulla buona strada». Per quanto mi riguarda confermo.

LA guerra alla cementificazione delle nostre coste passa anche attraverso quel "gendarme" dell´architetto Giorgio Rossini, soprintendente per i Beni Architettonici e per il Paesaggio della Liguria. Che chiede ai costruttori di porti di smetterla con le colate, puntando sui silos per barche. Che reclama - nel nome delle sempre più scarse risorse idriche - un gesto concreto da quelli che si occupano di seconde case: dissalatori per i nuovi immobili destinati a lombardi e piemontesi. E ancora: «Vorrei non vedere più progettisti privati che sono anche membri delle commissioni edilizie».

Al presidente della Regione, Claudio Burlando, che in tema di lotta alla speculazione senza troppi giri lo aveva invitato a darsi da fare e bocciare i progetti che non convincono, l´architetto Rossini replica: «Il nostro potere è limitato, io vorrei invece che la Regione esercitasse un controllo maggiore su Comuni e Province. La legge regionale in materia di difesa del territorio è ottima, ma subdelegando agli enti, diventa fondamentale una verifica che oggi non esiste».

Ai costruttori di porti ha chiesto uno sforzo di fantasia. Che realizzino silos per barche, in modo da risparmiare quel poco che resta della nostra costa. Dai costruttori di seconde case vorrebbe un gesto concreto nella battaglia contro lo sfruttamento delle nostre, sempre più scarse, risorse idriche: dissalatori per i nuovi immobili destinati a lombardi e piemontesi.

L´architetto Giorgio Rossini, soprintendente per i Beni Architettonici e per il Paesaggio della Liguria si definisce un "gendarme" ma non un "integralista". Nel senso che pur avendo intrapreso una crociata contro le colate di cemento sulle riviere, è, ad esempio, un sostenitore del grattacielo («magari un po´ limato in cima») di Fuksas ad Albissola. Il suo contributo al dibattito sulla cementificazione contiene proposte innovative e considerazioni critiche sul ruolo degli amministratori («vorrei non vedere più progettisti privati che sono anche membri delle commissioni edilizie»). Rossini ne discuterà domani mattina a Savona, nel palazzo della Provincia, con l´assessore regionale all´ambiente Franco Zunino, il sottosegretario del ministero dell´ambiente Laura Marchetti, l´urbanista Vezio De Lucia ed altri interlocutori nel convegno "Salvaguardia della fascia costiera" organizzato da Italia Nostra. Previsto l´intervento del presidente della Regione Sardegna Renato Soru.

Soprintendente, lei ha già espresso la sua preoccupazione di fronte all´esplosione del fenomeno immobiliare. Alla vigilia di nuove colate cosa state facendo per "limitare" i danni?

«Intanto il nostro lavoro nelle commissioni che, anche se con difficoltà, ogni tanto riesce ad essere efficace e ottenere annullamenti o modifiche. Le faccio l´esempio del progetto per il nuovo porto di Ventimiglia per il quale abbiamo chiesto drastiche riduzioni per le opere a terra».

Secondo gli ambientalisti, i porticcioli sono il cavallo di Troia per il business delle seconde case.

«È vero, ma detto questo mi rendo conto che in alcune punti della costa la nautica da diporto deve trovare spazio. Il punto è come. «

Qual è la sua proposta?

«Quella che sto comunicando ai costruttori ogni volta che li incontro. Si parte da una considerazione. I porti turistici di oggi sono larghe estensioni che mangiano la costa ma che vivono solo tre mesi all´anno, per i restanti nove sono abbandonati. Allora perché non imparare da Inghilterra e Olanda dove esistono silos per barche. Certo non per le più grandi, ma per le piccole e medie, che sono la maggior parte. Ricoveri su più piani, per ridurre l´impatto e razionalizzare l´utilizzo degli spazi».

Sistemati i porticcioli restano le case. Anzi le seconde case.

«Sull´edilizia la nostra posizione è chiara. Prima di tutto bisogna salvare il levante, la riviera spezzina che è uno dei luoghi più belli del mondo. A Framura, ad esempio, noi e la Regione siamo divisi su un Puc che aumenterà l´edificabilità di molte zone. Avrei voluto parlarne al convegno di Savona, ma in questo caso il mio interlocutore naturale è l´assessore all´urbanistica Carlo Ruggeri che purtroppo non è tra i relatori».

Torniamo alle seconde case.

«Abbiamo lanciato una proposta ad architetti e imprenditori che non sembrano però molto interessati. Anche qui parto da una considerazione sulle risorse naturali, poche e ipersfruttate. Vorrei che i nuovi insediamenti venissero dotati di dissalatori di acqua marina, per risparmiare l´acqua di fonte dei liguri. Credo che gli enormi ricavi del business possano permettere spese extra come queste. Così come sarebbe interessante un discorso sull´energia, sui pannelli solari o le centrali eoliche».

La situazione della riviera di ponente.

«Siamo già al collasso, e bisogna cercare di limitare al massimo. C´è una corsa a dotarsi di nuovi porticcioli, Ceriale, Albenga, Pietra Ligure. Per quello di Ospedaletti la Regione ha dato parere favorevole e noi abbiamo chiesto aggiustamenti. In linea di massima siamo favorevoli all´edilizia alberghiera o agli agriturismi, ma il mercato vuole seconde case. Sto seguendo la situazione di Finale per la quale è previsto un´operazione gigantesca. D´accordo per l´intervento nelle ex cave Ghigliazza che sono una ferita al territorio. Molto di meno per l´ipotesi sull´area oggi occupata dalla Piaggio. Ci stiamo trasformando in una riviera dormitorio, dove a fronte di uno sfruttamento intensivo del territorio e delle risorse, gli unici che ne hanno beneficio sono i costruttori e i proprietari dei terreni».

E a chi vi accusa di essere solo contro?

«Non è così. Sono favorevole alla contestata struttura alberghiera alle Cinque Terre, dove ora ci sono ruderi e abbandono. E lo sono anche ai grattacieli sulla costa, naturalmente in casi eccezionali. Penso al progetto dell´architetto Fuksas per la Margonara. Quella è un´area degradata, praticamente all´interno del porto di Savona. È un progetto che caratterizza in positivo. Poi credo che sia prevista una destinazione totalmente alberghiera (in realtà ci sarà anche una parte residenziale, ndr). L´unica cosa è l´altezza, forse un po´ esagerata, ci vorrà una spuntatina... «.

VICENZA Più che pacifici, Abele al confronto è un attaccabrighe, persino i gramigni del Gramigna erano gentili e vellutati come un prato inglese. Salvo i petardi di prammatica tirati sulla recinzione dell’aeroporto Dal Molin e gli sputi di ordinanza alla divisa, la manifestazione di Vicenza è stata ordinata, pacifica e persino festosa. Onore al carabiniere che si detergeva la visiera con la mano destra, la sinistra sul lancia fumogeni, per la gentilezza usata nell’arretrare allontanandosi dalla recinzione e per la compassione politica mostrata nel sapere che dava fastidio a vista: la nazione della pace scesa ieri in piazza a Vicenza contro il raddoppio della base americana Ederle ha messo in campo tutte le sue eterogenee componenti, dalla cattolica alla comunista, dalla verde-no global alla diessina passando per le sfumature anarchiche e centrosociali, ognuna delle quale inconfondibili.

Stili e fede condividevano il lungo corteo che da viale della Pace (grosso modo dove sorge l’attuale Ederle) per otto chilometri si è snodato attraversando il centro cittadino fino a raggiungere Lobbia, il paese che fa da confine al lato più esterno del Dal Molin.

Qualcuno giura di aver visto una croce uncinare tra le bandiere nere degli anarchici, ma non è sicuro e, se anche fosse, persino l’occasionale passaggio dato a dei nazi-antiamericani non dimostra niente se non il fatto scontato che l’ecumenismo pacifista, nel momento in cui si esercita, deve pagare i suoi prezzi: il più evidente è l’antiamericanismo, antifona comune a tutti gli slogan, nota di fondo e humus psicologico di ogni cuore weapon-free che ha sfilato ieri.

Il sindaco Hullweck sbagliava, temeva la discesa dei fantomatici black-bloc del G8 genoano, ma al Brennero non s’è visto niente e tutta l’apprensione dell’amministrazione comunale si è risolta il giorno della vigiglia con la lite tra il primo cittadino che non voleva il corteo in città e il prefetto Rotondi che lo autorizzava. Uno a zero per il prefetto.

Città blindata, ma con decoro, ottimo il servizio d’ordine della Cgil che ha offerto il meglio dell’antica sapienza stringendo i no-global in un panino di sindacalizzati a prova di bomba.

Anche i Comunisti italiani di Diliberto hanno fatto in modo di risparmiare al loro segretario la brutta figura di tre settimane fa a Roma quando tre soldati vennero bruciati in effige, un americano, un inglese e un italiano. Non si sono nemmeno sentiti gli osanna a 10-100-100 Nassiriya.

Non voleva essere la risposta al Berlusconi di Roma, ma un contrappunto sì, se non altro per gli orari coincidenti e la rappresentazione grossier che vien fuori di due etnie, italiane entrambe ma abitanti su differenti pianeti.

Gli osservatori imparziali parlano di 20 mila persone, i più coinvolti di 40-50 mila, un successo comunque, costruito tenendo fuori le motivazioni più locali ostili all’allargamento americano (viabilità nel caos, profilo urbano deturpato, etc.) per prediligere quelle politiche ed ideologiche: di fatto la manifestazione era contro il Dal Molin non più di quanto poteva essere contro gli americani in Iraq e gli israeliani a Gaza; slogan e bandiere gloriavano la lotta dei palestinesi e la «resistenza» dei tagliagole islamici in Mesopotamia.

Anche qui solo e a causa di una distorsione percettiva dovuta alla supremazia vocale dei più estremisti, gli unici che strillavano gettando un’indebita omologazione sulla stragrande maggioranza dei manifestanti tra cui erano evidenti solidi e sobri padri di famiglia operaia, fervidi e schivi cattolici, giovani delle superiori in cerca di aggregazione e comunisti sentimentali, tanti questi, sopravvissuti alle dure repliche della storia e per questo malinconici.

Il professionismo era rappresentato da Paolo Cacciari, Luca Casarini e Max Gallob, consolidati manifestatori; ma a un tiro di slogan c’eranol’ex-lighista Renato Rocchetta assieme alla leghista vicentina «rinnegata» Franca Equizi con il consigliere circoscrizionale verde Olag Jackson, figlio di marine americano ed esso stesso dimostrazione di un ben riuscito melting-pot berico-texano.

L’antipatia per lo zio Sam, quello che ti guarda dai muri e ti dice «I want you», ha a Vicenza la sua variante americana o, come dicono a casa loro, liberal.

Tom, per esempio, gestore di un bread & brekfast dalle parti di Ponte Pusterla, e i suoi amici radical di Seattle e bostoniani dell’est più europei di un europeo.

Nel campetto di Lobbia i comizi sono stati aperti da un saluto di un indio Mapuche della Patagonia membro della comunità che lotta contro Benetton per le terre che l’industriale ha comprato levandogliele da sotto in piedi che neanche Pizzarro. Sono seguiti gli interventi dei Comitati cittadini che formano l’assemblea permanente contro l’ampliamento della base: il Comitato di Caldogno, quello di Sant’Antonino (il più vicino al Dal Molin) e quello cittadino di Vicenza. Ha parlato anche Luca Casarini per i Centri Sociali del Nordest, Arci Giovani, Rdb-rappresentanze di base Cobas, una rappresentante del Movimento Anarchico piemontese No-Tav, dei partiti Prc e Verdi.

Presenti pr l’Unione le parlamentari Luana Zanella (Verdi), Lalla Trupia (Ds) e Laura Fincato (Margherita).

Per dire del multiuso c’era anche Luciano Mazzolin (Prc), portavoce dell’assemblea NoMose contro le dighe mobili nella laguna di Venezia: «Siamo anche qui - ha detto - ad esprimere solidarietà contro la gestione privatistica del territorio, a Venezia come a Vicenza». Il Gramigna ha irriso a Bertinotti e Diliberto, quest’ultimo definito «servo dei padroni, prima scende in piazza, poi voti le missioni».

Giovanni di Castelfranco, classe 1942, alpino di leva nel 1965, sostiene che «il cappello si porta sempre (il suo ha la bandierina arcobaleno), caso mai è la clava delle armi che va riposta. Non serve più».

L’aria è rilassata, Bonck (ce l’ha scritto sulle falangi come Jacky nei Blus Brothers quando esce dal carcere) riprende i carabinieri con il cellulare.

Due skin-head, rasati e borchiati come si deve, allontanano da sé il sopetto che li vuole a destra spiegando che sono i discendenti inglesi di una lunga storia, sempre di sinistra, da quando i Rude Boys fecero pace con i Mods e la guerra dei figli della Jamaica con i fighetti Wasp della Britannia finì. Ma questo è secondario. Richiesti dei nomi rispondono: «Io Adolf, lui Hitler».

Titolo originale: Spanish parliament begins debate on law to rein in rampant urban development – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

MADRID – Un disegno di legge per contenere il rampante sviluppo urbano e la speculazione immobiliare in Spagna ha superato il suo primo passaggio per diventare legge giovedì, dopo la fase di dibattito alla camera bassa del parlamento spagnolo.

La maggior parte dei partiti politici hanno presentato emendamenti al disegno proposto dal Ministro per la Casa Maria Antonia Trujillo, quindi ci potrebbero volere mesi prima dell’approvazione finale.

In apertura del dibattito, la Trujillo ha descritto la legge come “progetto contro la speculazione urbana, a favore della trasparenza e della partecipazione dei cittadini”.

Il progetto è finalizzato al contenimento del boom edilizio che nello scorso decennio ha visto grossi insediamenti residenziali, campi da golf e complessi turistici spuntare in tutto il paese.

Jose Luis Carretero, del gruppo Piattaforma per la Casa Giusta, ha affermato che il boom è prossimo a trasformarsi in una bolla insostenibile, che potrebbe causare un rallentamento economico se dovesse scoppiare.

“Abbiamo un gruppo che studia il progetto di legge, e può darsi che riesca a impedire un po’ degli eccessi che stiamo vedendo, ma secondo la mia opinione si sarebbero dovute prendere misure molto più drastiche per contenere questi eccessi” dice Carretero.

La Trujillo ha lamentato come la gran maggioranza delle case non siano destinate ad abitazione, ma siano alimentate dagli investimenti speculati, modi rapidi perché i costruttori possano arricchirsi. Molti dei progetti si realizzano in assenza di programmi di adeguate infrastrutture, in termini di fornitura idrica e trasporti.

Uno degli esempi proposti dal governo è un progetto, ora bloccato, per la città orientale di Cullera, che ha 22.000 abitanti, per costruire decine di edifici ad appartamenti da 25 piani, che avrebbero contenuto circa 20.000 persone.

Nella cittadina di Sesena, vicino a Madrid, 10.000 abitanti, le autorità hanno approvato un ampliamento per 13.500 abitazioni, che potrebbe ospitare oltre 40.000 persone.

Col nuovo progetto di legge, i socialisti sperano di imporre più adeguate procedure di valutazione per qualunque progetto preveda incrementi di popolazione superiori al 20%. Inoltre, il 25% delle nuove abitazioni in questi progetti dovrebbe ricadere in un programma a controllo governativo di abitazioni sussidiate.

I media spagnoli riportano quotidianamente casi di corruzione nel settore edilizio e pagamenti sottobanco. Nello scandalo più importante, sono state arrestate quasi 60 persone, con accuse di frode immobiliare relative alla località turistica meridionale per il jet-set di Marbella, compreso un ex sindaco, e molti consiglieri e costruttori.

Il nuovo progetto di legge va a sostituirne uno approvato nel 1998 dal governo di centrodestra del Partido Popular, accusato dai socialisti di consentire sostanzialmente l’edificazione di tutto il territorio non specificamente protetto.

Alcuni partiti lamentano che la legge entrerebbe in conflitto con i poteri regionali sulla casa.

Carretero sostiene che se il progetto fosse approvato avocherebbe al governo centrale i poteri urbanistici attualmente prerogativa esclusiva delle amministrazioni locali. Ora quasi tutte le decisioni relative all’uso dello spazio ricadono nelle competenze locali. Il governo centrale vuole una maggiore apertura del processo, spiega Carretero.

Carretero avverte che la legge poco probabilmente riuscirà ad essere approvata, se il Partido Popular all’opposizione la bloccherà all’ultimo gradino, della Corte Costituzionale.

“Prevediamo di tenere manifestazioni fuori dalla corte, per assicurare che l’opposizione non blocchi la legge” conclude Carretero.

La Piattaforma per la Casa Giusta ha mobilitato decine di migliaia di persone in dimostrazioni a Madrid, Barcellona e Valencia chiedendo una modifica delle leggi sulla casa, per consentire ai giovani di avere più accesso alle abitazioni economiche.

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TORINO - Mentre Prodi e Chirac chiedono all´Ue di finanziare la Torino-Lione, i fronti si spaccano. Tutto si muove nella battaglia sulla Tav in Val di Susa. Si divide il fronte del no ma anche sulla sponda opposta si avvertono sinistri scricchiolii. Alla data del settembre 2007, concordata da Prodi con Bruxelles per una decisione definitiva, si arriverà probabilmente con un quadro di posizioni assai diverso rispetto a quello di oggi. Le dichiarazioni di Di Pietro ieri al vertice di Lucca hanno gettato benzina sul fuoco della protesta valligiana proprio quando i sindaci, che quella protesta avevano cavalcato, si trovano nella scomoda posizione di essere attaccati da una parte del movimento «No Tav». Contemporaneamente si divaricano le posizioni nell´area di governo che ha sempre caldeggiato il progetto: da una parte il ministro delle Infrastrutture insiste nel voler convocare per lunedì una conferenza dei servizi che dovrebbe continuare a discutere sul vecchio progetto di alta velocità già bocciato dai comuni interessati. Dall´altra il commissario di governo Mario Virano, nominato direttamente da Palazzo Chigi, ottiene l´assenso di quegli stessi comuni per dibattere a tutto campo sulle diverse ipotesi di tracciato esistenti. La linea intransigente e quella più faticosa del dialogo attraversano insomma i due fronti.

Il primo atto è andato in scena giovedì pomeriggio a Bussoleno. Quando Virano ha incontrato gli amministratori locali concordando con loro il programma di lavoro dell´Osservatorio tecnico sulla Tav: «Non abbiamo pregiudiziali - ha detto il commissario - discuteremo di tutto partendo dal se è necessaria la nuova linea. Utilizzeremo le consulenze dei periti per analizzare ipotesi di traffico, studi di tracciato, effetti sull´ambiente». Una posizione apprezzata dai sindaci: «Questa sera - ha commentato Antonio Ferrentino - abbiamo fatto un importante passo avanti». Poi lo stesso Ferrentino ha dovuto vedersela con quei militanti dei Comitati «No Tav» che contestavano Virano con lo slogan: «No Tav, No Tavolo».

Il secondo atto è di ieri pomeriggio, non appena le agenzie hanno battuto le dichiarazioni di Di Pietro: «La Tav in Val di Susa si farà - ha detto il ministro - anzi si sta già facendo. La data per la decisione definitiva è quella del settembre 2007. I sindaci che disertano la conferenza dei servizi convocata per lunedì sono degli irresponsabili». Immediate le reazioni critiche non solo dei partiti della sinistra radicale ma degli stessi sindaci. Nilo Durbiano, primo cittadino di Venaus, ha richiamato il ministro a un atteggiamento meno intransigente: «Dovrebbe venire in valle a rendersi conto di persona qual è la situazione prima di lanciarsi in certe dichiarazioni». «Noi irresponsabili?», si chiede Ferrentino. «Abbiamo concordato un percorso con il commissario di governo. Svolgere oggi una conferenza dei servizi su un progetto già bocciato dai comuni non ha senso. Sospendiamo la conferenza e diamo all´Osservatorio il tempo per lavorare». La partita a scacchi, da una parte e dall´altra della barricata, è solo all´inizio.

ROMA. Il ministro delle infrastrutture Di Pietro si considera come uno dei vincitori della battaglia interministeriale sulla Finanziaria tanto che nei giorni scorsi aveva diffuso aveva diffuso un master plan delle grandi opere, ma i verdi avevano subito storto la bocca ed ora la presidente della commissione lavori pubblici del Senato, Anna Donati, prende carta e penna per esplicitare al ministro tutte le perplessità del Sole che ride.

«Gentile ministro Di Pietro - si legge nella lettera - l’elenco "Priorità infrastrutturali" costituisce in realtà l’insieme delle richieste dei singoli governatori, rielaborato dal suo ministero, ma non rappresenta in alcun modo, la lista delle grandi opere su cui il governo Prodi è impegnato» .

Per la senatrice Donati manca la concertazione prevista fra il ministero delle infrastrutture e quelli dei trasporti e dell’ambiente, come previsto con la cabina di regia istituita al Cipe. L’esponente dei Verdi ricorda a Di Pietro che parlamento, maggioranza e commissione hanno già fissato «i criteri per l’individuazione delle opere prioritarie. Criteri - sottolinea Donati - volti a superare la legge obiettivo e la sua sbagliata registrazione notarile e meccanica che proietterebbe nel futuro gli elementi negativi contenuti nelle scelte del precedente governo».

In effetti il primo Dpef del governo Prodi ha disposto che si dovrà procedere con "una programmazione fortemente integrata con il Pgtl e il suo aggiornamento (che spetta al ministro dei Trasporti) che garantisca, per un verso, il coinvolgimento delle realtà regionali e territoriali e, per altro verso, il costante controllo e monitoraggio del Parlamento sugli investimenti". Ed inoltre - continua il parere - "l’individuazione delle opere prioritarie deve avvenire sulla base di una valutazione ambientale strategica (di competenza del ministro dell’Ambiente) che abbia come obiettivi il riequilibrio modale verso sistemi a minore impatto ambientale come ferrovie e cabotaggio e la soluzione dei problemi di mobilità urbana nelle città".

Un approccio ben diverso da quello decisionista mostrato da Di Pietro negli ultimi tempi e quindi la presidente Anna Donati ringrazia il ministro ma gli comunica che «che la Commissione lavori pubblici potrà prendere in considerazione, e discutere con molto interesse, solo un Piano di interventi infrastrutturali scaturito da un autentico processo di concertazione che, oltre le Regioni, coinvolga i Ministri competenti, e che sia stato adottato dal Cipe. Infine, si renderà necessario sovrapporre il Piano concertato con la ricognizione sullo stato delle opere della legge obiettivo, approvata nell’ultima seduta del Cipe».

Caro ministro Rutelli, il suo intervento di venerdì in Confindustria a Roma al nostro Convegno Nazionale «La riscossa del Patrimonio» è stato ricco di impegni concreti che hanno dato molta speranza a noi del Fai, ai quasi mille ospiti in sala, alle nostre cento delegazioni e, ne sono certa, anche al presidente Napolitano che ha onorato con la sua presenza noi e tutti coloro che hanno a cuore la sorte del Patrimonio Comune. Tra i vari temi emersi durante la giornata, quelli che a tutti sono parsi come i più urgenti sono la necessità di un Patto tra le forze più vitali e civili del Paese e la definizione di regole per il governo e la tutela del territorio la cui salvaguardia è oggi a rischio in troppe parti d'Italia. È stato ribadito da molti oratori come dalla concertazione tra Regioni, ministero dei Beni Culturali e ministero dell'Ambiente debbano nascere i Piani Paesistici Regionali, le «Tavole della Legge» sulle quali l'Italia deve poggiare il futuro del suo paesaggio. Proprio la mancanza di regole chiare e condivise ha creato episodi gravi come quello — ormai celebrato e irreparabile — di Monticchiello, o come l'altro — forse recuperabile e di dimensioni catastrofiche — di Mantova.

Signor ministro! Per evitare che 185.000 mc di cemento coprano per sempre 30 ettari di paesaggio intatti sulle rive del Lago Inferiore di Mantova; per evitare che il panorama d'acqua, di campi e di filari che una volta solo i Gonzaga godevano dalla loro camera dipinta dal Mantenga e che oggi riempie milioni di occhi e di cuori venga per sempre stravolto; per evitare che la rozzezza dell'interesse privato prevalga sul Bene Comune nel territorio del Parco del Mincio; per evitare che i cittadini di Mantova e di tutta l'Italia perdano fiducia nelle istituzioni e nelle leggi che regolano la Tutela del Patrimonio, mi permetto di rivolgerle l'appello che i partecipanti al convegno di ieri mi hanno incaricato di indirizzarle, dopo il determinato e appassionato intervento del Sindaco di Mantova Fiorenza Brioni: vada a Mantova caro ministro, si faccia fotografare a braccetto di questa donna coraggiosa sulle rive ancora intatte (ma sulle quali le ruspe stanno già lavorando) di quel leggendario Lago Inferiore che i mantovani costruirono nel 1100. Così facendo darà forza a tutti quegli Amministratori locali che lavorano per il Bene Comune e che vedono nel rispetto del nostro Patrimonio culturale e paesaggistico la via per uno sviluppo civile del nostro Paese.

Sulla lottizzazione di Mantova qui l'articolo di Francesco Erbani

L'Italia è come un signore che sa di avere sotto il suo campo una miniera di diamanti, ma preferisce coltivarci sopra patate e costruirci capannoni.

È difficile smentire questa considerazione dell'ex-ministro francese della Cultura, Jack Lang. Il patrimonio culturale che i nostri padri ci hanno lasciato è sterminato. Purtroppo, però, soprattutto in epoca recente, essi hanno avuto come eredi dei veri e propri stupidi o barbari che hanno cominciato allegramente a sfregiare quel lascito, a coprirlo di capannoni e di orridi edifici, a calpestarlo con disprezzo. Ormai questo lamento sulla devastazione ambientale e monumentale, spesso persino avallata da leggi insensate, è diventato un luogo comune che talora è bollato come maniacale.

È così che si abbassa progressivamente lo stile di vita, che si trovano giustificazioni per gli scempi edilizi o per gli orridi graffiti urbani, che ci si disinteressa di arte e di musei a partire già dalla scuola, protesa solo su Internet e sull'inglese. La corruzione non è solo una questione di etica ma anche di estetica: il Nobel messicano Octavio Paz (1990) affermava che un popolo comincia a guastarsi quando corrompe la sua grammatica e il suo linguaggio. Banalità, volgarità, stupidità che ci assediano sono il segno della perdita non solo del senso del bene ma anche del bello. La bruttezza delle città e delle cose genera anche brutture e brutalità morali. La degenerazione nello stile di comportamento trascina con sé un calo dei valori e della dignità umana. Per questo è necessario riscoprire i veri diamanti della cultura, della spiritualità, della bellezza.

Sono d’accordo con Enrico Fierro, l’esercito non serve, è una parata inutile, uno spreco. Ha ragione Enrico Pugliese, servono maestri, non soldati. In molti sulla stampa, in questi giorni, si sono chiesti com’è stato possibile passare, in meno di dieci anni, dal rinascimento alla città che muore. Provo ad aggiungere qualche modesta riflessione. Che cosa fu il rinascimento di Napoli? Secondo me fu la speranza che demmo ai napoletani di diventare cittadini normali, abitanti di una città normale. “Sindaco, ci avete levato lo scorno dalla faccia”, dicevano in tanti quando inauguravamo scuole, parchi e biblioteche nei favolosi primi cento giorni e nei primi anni dell’amministrazione Bassolino. Simbolo del rinascimento fu la restituzione alla città di una splendente piazza del Plebiscito. “Napoli la deforme, Napoli l’incurabile, la disperata, il recinto ribollente, amarissimo del degrado. E adesso, di colpo, Napoli la rinata, Napoli la sfolgorante. La sue sterminate difficoltà sopravvivono, tutte. Ma da qualche settimana questo luogo di fastose meraviglie ritrovate sembra somigliare pochissimo alla patria dei De Lorenzo e dei Pomicino. Si intuiscono le emozioni di un riscatto non solo di superficie ma di coscienze”, così scrisse Donata Righetti su La Voce, allora diretta da Indro Montanelli, quando la piazza fu inaugurata.

Più ancora di piazza del Plebiscito, simbolo del rinascimento e della speranza fu il progetto Bagnoli. L’idea era di trasformare l’Italsider in occasione per risarcire la città degli spazi e delle qualità urbane negate da quarant’anni di uno sviluppo urbano criminale, fatto di cemento e di asfalto (le sostanze che nella coscienza nazionale definiscono l’identità di Napoli moderna). Ci volle coraggio (come ce n’era voluto per piazza del Plebiscito). Non fu facile far accettare la nostra impostazione da una cultura politica che vedeva lo sviluppo solo nella conferma di improbabili attività industriali. L’idea vinse a furor di popolo, per primi gli operai e il sindacato. Ma sono passati dieci anni dall’approvazione del progetto e della nuova Bagnoli non c’è traccia. Procede stentatamente un’operazione di bonifica che non finisce mai. La speranza è diventata uno scandalo. Da tempo ho il sospetto, forse un po’ più del sospetto, che, in effetti, il mondo politico napoletano aspetta la volta buona per rimettere tutto in discussione. Tre anni fa, la candidatura di Napoli a ospitare la Coppa America pareva fatta a posta per far saltare, impunemente o quasi, il progetto Bagnoli. Una caterva d’incompetenti, economisti, giornalisti, architetti in lista d’attesa, da allora continua a divulgare sconfortanti vacuità, a ripetere che 120 ettari di parco pubblico a Bagnoli sono un’esagerazione, che quello spazio deve essere dato subito a chi sa farlo fruttare, che il portafoglio viene prima del verde pubblico, che il comune di Napoli non può sprecare le poche risorse di cui dispone per contentare i capricci di qualche anima bella.

Perciò è morta la speranza.

Le ragioni di ciò che sta succedendo a Napoli sono complesse e sarei uno stolto se pensassi che basta rimettere mano con determinazione al progetto Bagnoli per trovare il bandolo della matassa. Bagnoli è solo un esempio. Ma serve per ricordare che a Napoli c’è stata una radicale mutazione del pensiero politico, che io non so spiegarmi. Capisco che gestire (peraltro male) l’esistente è più facile che costruire un difficile futuro e che ci si è illusi così di rischiare meno, ma mi pare una spiegazione troppo semplice. Certamente non è possibile tornare indietro e sono convinto che siano ormai indispensabili dolorosi cambiamenti, anche al vertice del potere locale, per restituire credibilmente ai napoletani la legittima aspirazione a vivere in una città normale. Senza di che non è possibile fuggire da Gomorra.

Titolo originale: In Spain, a Tide Of Development – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini



BENISSA, Spagna - Lieve de Cleippel e Hubert van Bel, belgi, sono fa vent’anni proprietari della loro casa vecchia di 150, affacciata sul Mediterraneo spagnolo. Appollaiati in cima a una collina, circondati da palme e tre ettari di terrazze a vite e ulivi, sono a lungo restati isolati dall’infermale urbanizzazione che ha devastato lunghi tratti della costa.

Lo scorso novembre, avvisati che l’amministrazione locale aveva approvato un nuovo insediamento nella loro zona, sono andati in municipio a dare un’occhiata. E sono rimasti esterrefatti da quanto hanno scoperto.

“Vogliono demolire tutto” sulla loro proprietà, racconta van Bel, 59 anni. “Perderemo più di metà del nostro terreno, e inoltre ci faranno pagare 700.000 euro”, in contributi per nuove strade, fogne, illuminazione e altri servizi. “Siamo orripilati”.

Van Bel sostiene di non essere stato informato della variante al piano regolatore – destinata alla realizzazione di diciassette case – e di non aver avuto la possibilità di presentare opposizione. E questo è illegale per le norme urbanistiche locali.

L’incubo giudiziario, ancora in corso, è solo un esempio della rampante pressione edificatoria lungo gran parte dei quasi cinquemila chilometri di coste spagnole. Gli ambientalisti dicono che questo boom edilizio che dura da dieci anni sta alimentando la corruzione e le attività mafiose, distruggendo gli ecosistemi e trasformando la costa in una bruttura.

Sono state realizzate o iniziate circa tre milioni di case in Spagna negli ultimi quattro anni, di cui 812.000 nel 2005, e circa la metà di queste si trovano lungo la costa. Secondo alcune stime, nel paese avviene il 40% di tutta l’attività costruttiva europea.

Il boom è alimentato in parte dalla domanda degli europei del nord per case in cui ritirarsi da pensionati sul Mediterraneo. Attirati dal clima mite, dalle abitazioni relativamente economiche, dalla facilità di aggirare le tasse conducendo le operazioni in nero, gli stranieri in alcuni piccoli centri costituiscono fino al 70% della popolazione.

“Stanno legalizzando l’edilizia illegale, urbanizzano l’intera area. E adesso stanno occupando direttamente il mare” con l’ampliamento delle darsene e attracchi in zone ambientalmente sensibili, spiega Miguel Angel Garcia, portavoce del World Wildlife Fund. “Oggi non si fanno più piani. Semplicemente si costruisce”.

Un rapporto a luglio del gruppo ambientalista Greenpeace ha rilevato che centinaia di migliaia di nuove case e stanze d’albergo, 40.000 nuovi approdi e centinaia di campi da golf, vengono progettati in zone che stanno soffrendo della peggiore siccità da 50 anni. Nelle quattro regioni della Spagna che abbracciano la costa del Mediterraneo, ci sono 273 centri con 4,3 milioni complessivi di abitanti senza impianto di depurazione dell’acqua.

Di fronte alle rimostranze della Commissione, braccio esecutivo dell’Unione Europea, perché le spiagge pubbliche del paese erano troppo inquinate, la Spagna ne ha tolte 365 dall’elenco delle zone balenabili approvate, anziché risolvere il problema.

Sono in corso decine di indagini di reato. Nella cittadina vacanze di Marbella, circa cinquanta chilometri di costa da Gibilterra, sono in corso processi riguardanti 30.000 case accusate di essere state edificate illegalmente, delle quali 1.600 in zone a parco.

Qualche mese fa, la polizia ha lanciato un’operazione in profondità, congelando 1.000 conti correnti bancari e sequestrando oltre tre miliardi di dollari in varie forme –da ville di lusso, a cavalli purosangue, a tori da combattimento e 275 opere d’arte – a politici, avvocati, funzionari pubblici degli uffici tecnici, tutti accusati di aver accettato denaro in cambio del rilascio di autorizzazioni edilizie e varianti urbanistiche. Sono stati arrestati il sindaco e altre dieci persone, tra cui due ex sindaci, giudicati colpevoli di corruzione.

Il boom edilizio ha contribuito a creare un’economia sommersa tale da attirare miliardi di euro in finanziamenti illeciti, sostengono gli esperti. Oggi, in Spagna circola il 26% di tutte le banconote da 500€ dell’Unione Europea, secondo il Ministero delle Finanze, in gran parte per riciclaggio e corruzione nell’ambito del settore edilizio, si ritiene. Gli spagnoli hanno soprannominato queste banconote “ Bin Laden” perché si sa che esistono, ma nessuno riesce a trovarle.

“Essenzialmente, i trafficanti di droga del sud della Spagna hanno investimenti nell’edilizia e immobili perché è un modo facile di ripulire il denaro senza troppe domande” spiega Alejandra Gomez-Cespedes, lettrice all’Istituto di Criminologia dell’Università Andalusa di Malaga.

A Altea, cittadina di mare poco meno di cento chilometri a sud di Valencia, è stata ricoperta di cemento un’intera scogliera, e via via nuovi edifici ad appartamenti hanno scavalcato i vecchi fino al margine dell’acqua.

Si sta allungando un nuovo molo, attraverso una foresta sommersa di 5 ettari di alga Posidonia, per raddoppiare la capacità di attracco a 1.064 imbarcazioni. Il governo ha ordinate di trapiantare le alghe altrove, ma l’85% della foresta traslocata è morto, secondo Garcia del World Wildlife Fund.

Alcune delle critiche più aspre hanno riguardato la cosiddetta legge arraffaterreni dell’area di Valencia, che ai costruttori di controllare le proprietà private, conferendo loro mezzi legali per obbligare i proprietari a rinunciare ai terreni o a ricomprarli.

“Se esiste una motivazione sociale per la trasformazione del territorio, questa prevale sul diritto fondamentale europeo: quello della proprietà privata”, spiega Charles Svoboda, diplomatico canadese in pensione presidente di Abusos Urbanisticos NO, gruppo con 30.000 associati formato allo scopo di tutelare i proprietari.

La legge è stata esaminata dal Parlamento Europeo dopo che 15.000 persone, di cui molti pensionati da altre zone d’Europa, avevano firmato petizioni chiedendo un intervento. La Commissione ha chiesto alla Spagna di modificare la legge.

“Chiamiamola col suo nome: furto di terreni” dice Michael Cashman, deputato britannico al Parlamento Europeo che ha guidato un gruppo di lavoro e indagine sulle leggi edilizie di Valencia. “Quello che abbiamo rilevato sono 18-20.000 casi di mancato rispetto dei diritti individuali”.

L’amministrazione di Valencia ha chiesto alla Washington Post di presentare le proprie domande sulla legge per iscritto, ma non ha risposto.

In un incontro a Madrid, la vicepresidente spagnola María Teresa Fernández de la Vega ha spiegato che il governo federale ha poco controllo sulle materie urbanistica e edilizia, che, dice, sono responsabilità delle amministrazioni locali. Ma ha aggiunto che il governo sostiene nuove norme urbanistiche per combattere la speculazione sui terreni e ha messo in bilancio 77 milioni di dollari per acquisire aree ecologicamente sensibili e tutelarle dall’edificazione.

A Benissa, centro di 12.000 abitanti ottanta chilometri a sud di Valencia, il caso di Lieve de Cleippel e Hubert van Bel è rimasto sospeso per qualche mese. Ma il sindaco Juan Bautista Rosello dice che verrà riesaminato, secondo una norma rivista che eliminerà le minacce di demolizione della casa della coppia, ma ha pronti progetti per “urbanizzare” gran parte della proprietà secondo il piano regolatore cittadino.

Dice che non è vero, che la legge di Valencia consenta alle amministrazioni di prendersi i terreni. Invece, spiega, le città “convertono i terreni agricoli in edificabili”, e poi fanno pagare ai proprietari i costi di urbanizzazione.

Nel caso della coppia belga e dei suoi tre ettari, dice Rosello, verrà loro garantita una superficie di circa un ettaro attorno alla casa, mentre quella rimanente verrà classificata urbana. Secondo le nuove norme, verranno tassati circa di un milione di dollari in oneri di urbanizzazione, spiega.

Se la coppia non vuole che quella superficie venga edificata, dice Rosello, deve pagare quanto calcolato, come chiunque sia proprietario di aree destinate all’edificazione nel nuovo piano. L’altra possibilità che hanno, è di vendere il terreno a un costruttore.

“Non lo vedo come uno scontro” fra interessi pubblici e privati, spiega Rosello, ma piuttosto come un equilibrio fra i due aspetti. “Non viene sottratta una proprietà senza dar niente in cambio … In cambio ottengono un terreno edificabile” che, dice, sarà di valore più elevato.

“Noi non abbiamo comprato per investimento, volevamo abitarci” racconta la de Cleippel, 56 anni, mentre passeggia all’esterno della casa in stile coloniale con ampi portici, giardino lussureggiante e veduta mozzafiato sul mare a un chilometro di distanza. “Vogliamo soltanto tenere la nostra proprietà, non vederci costruire sopra diciassette case”.

Alla redazione dell’articolo ha contribuito la corrispondente da Madrid Molly Moore.

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Dopo mezzo secolo di convivenza con gli americani, Vicenza rivive oggi la

"sindrome del barbiere Eolo" raccontata da Goffredo Parise nel 1956. E stasera lo psicodramma, scandito da una manifestazione di protesta politicamente trasversale nella piazza palladiana che solo cinque giorni fa ha inneggiato agli anatemi di Berlusconi contro Prodi e fischiato l´inno nazionale, si consuma in un Consiglio comunale arroventato.

Nella Sala Bernarda dovrà decidere se dare o no l´aeroporto Dal Molin alla 173esima Brigata paracadutisti, facendo di Vicenza la più potente base militare americana d´Europa.

Il barbiere Eolo vedendo arrivare mezzo secolo fa in piazza dei Signori un italo-americano di nome Roy de Ciccio sospettò che fosse una staffetta spedita in città per i primi contatti con la popolazione alla vigilia dell´installazione delle truppe Setaf. Di lì a poco giunsero le truppe americane. Aveva ragione Eolo. Ma stavolta il Roy de Ciccio non s´è visto, perché a preparare a dovere il terreno del nuovo sbarco americano, già concordato dal governo Berlusconi, c´era il sindaco forzista, grande amico dell´ex premier, il quale è stato testimone delle sue seconde nozze. Ex fascista, o post, poi deputato leghista nel 1994 e infine approdato a Forza Italia, Enrico Hullweck, un medico pediatra che la sua ex avversaria elettorale Laura Fincato, deputata ulivista vicentina, definisce sorridendo «mellifluo», trattava in segreto almeno da un paio d´anni la superfetazione della presenza militare americana a Vicenza e la concessione dell´aeroporto Dal Molin. Operazione strategica per gli Stati Uniti, che ai bordi di quella pista, distante solo un paio di chilometri dalla basilica palladiana, hanno progettato un nuovo villaggio per due o tremila soldati americani provenienti dalla Germania, dove non li vogliono più, che si aggiungerebbero ai 3000 già in città, riunificando i quattro battaglioni e il comando della 173esima brigata paracadutisti, il team di combattimento, la brigata aviotrasportata d´élite destinata ad operazioni «chirurgiche» in Medioriente. Tanto che a presentare l´operazione, accolto più o meno con gli onori che spettarono a Orson Wells e a Olivia de Havilland nel 1955, giunse il 27 gennaio 2004 alla Caserma Ederle, sede delle truppe americane di stanza a Vicenza, il vicepresidente degli Stati Uniti Dick Cheney. Hullweck sapeva. Ma non l´ha detto alla città, finché la città non l´ha scoperto.

Così i tranquilli vicentini, quasi tutti occupati normalmente a far tre volte il segno della croce e a contar schei, non l´hanno mandata giù e stasera, senza distinzione di colore, andranno a urlarlo sotto la Sala Bernarda.

«La protesta è nata dai comitati spontanei, i partiti sono arrivati dopo», giura Laura Fincato che, con Lalla Trupia, ha raccolto alcune decine di firme di parlamentari ulivisti per il «no» al progetto americano. Un bel problemino per il ministro della Difesa Arturo Parisi, che si trova in mano impegni del precedente governo, l´opposizione di parte cospicua della maggioranza e Rifondazione Comunista che minaccia addirittura di «negare il sostegno all´esecutivo», al momento per bocca del segretario veneto e deputato Gino Sperandio e del segretario cittadino Ezio Lovato, se il prevedibile «sì» del Consiglio comunale vicentino venisse avallato dal governo senza che prima si svolga almeno un referendum.

Uno dei leader dei comitati spontanei, che si chiama Albera, snocciola i mille e uno motivi, a parte i silenzi menzogneri di Hullweck, per dire no a Camp Ederle 2: l´aeroporto Dal Molin è in piena zona residenziale, sul fiume Bacchiglione, a un paio di chilometri dal centro di Vicenza, patrimonio Unesco dell´umanità, ed è l´unica area verde da Vicenza a Schio e Thiene; l´impatto ambientale e per la mobilità sarebbe devastante, non meno della perdita di valore delle case e della definitiva americanizzazione della città, che già di problemini ne dà non proprio da niente. Ma il vero argomento lo coglie Marino Quaresimin, ex sindaco di Vicenza della Margherita: «Perché gli americani vogliono proprio l´aeroporto Dal Molin e non le altre migliori localizzazioni che si sono proposte? Chiaro, perché gli interessa la pista. Lo dice la logica: da dove volete che si buttino i paracadutisti della 173esima, dal campanile della basilica? «Il generale Frank Helmick giura che non useranno la pista dell´aeroporto e che in città non ci saranno armamenti pesanti, già custoditi a pochi chilometri di distanza a Longare e Tormeno e in altri siti di stoccaggio segreti sparsi nei dintorni. Ma possibile che la brigata d´élite debba fare 150 chilometri di autostrada in camion o in pullman, attraversando il passante di Mestre, per partire verso una missione "chirurgica" in Medio Oriente o anche per andare ad addestrarsi? O i paracadutisti si lanceranno dal campanile?

Lecito allora pensare che la pista sia l´oggetto del desiderio. Se è così, sarebbe come autorizzare una caserma da 600 mila metri cubi più pista d´atterraggio a Villa Borghese a Roma o al Valentino a Torino.

«Uscivano alle prime ore del mattino, pochi potevano vederli», scriveva Goffredo Parise nel racconto «Americani a Vicenza», che avrebbe voluto essere un reportage, ma, come lui dice, «è piuttosto una intuizione figurativa della funebre spettacolarità di oggetti americani (uomini e cose) che vidi cinque anni dopo in America, carichi del loro falso splendore».

Anche oggi escono alle prime ore del mattino dalla caserma Ederle, per il jogging d´addestramento in gruppo verso il Monte Berico, con gli zaini affardellati. O, più o meno verso la stessa ora, escono dalle discoteche di lap-dance, dalle periferie del sesso a pagamento. E sono questi, spesso ragazzi che tornano da missioni in Iraq, che angosciano la città serena e produttiva che ha introiettato la democristianità dei Rumor e dei Bisaglia, il culto dei papi. E´ l´angoscia dei tassisti del primo turno, dei vicentini faticatori e mattinieri che ne vedono qualcuno pisciare ubriaco sulle pietre del Palladio o, peggio, a far rissa tra loro, come mezzo secolo fa capitò a Parise, sgomento per un lago di sangue che usciva da un occhio accoltellato.

Interviene, efficiente, la Military Police e il generale garantisce che i controlli saranno persino più severi. Ma come frenare ragazzi che tornano dalle missioni di guerra?

Quelli che hanno famiglia stanno nel loro «Villaggio della pace», se non sono di turno escono col loro immenso Suv targato «ZA», cui nessun vigile fa le multe, ma la spesa si fa dentro, il pane arriva dalla Germania. Dentro la caserma e dentro il villaggio ci sono il supermercato, la scuola, il campo di basket e baseball, le piscine, i centri ricreativi, adesso pure l´ospedale, in base ad un accordo con la Usl numero 6, di cui si dice informato l´ex sindaco Quaresimin. Sono forse quindicimila in tutto, con le famiglie, più del dieci per cento dei vicentini.

Trecentosei milioni di dollari è l´investimento previsto per il raddoppio della base, che potrebbero salire al doppio. I costruttori locali, Ingui, Maltauro e gli altri, sono lì ansiosi per la nuova americanizzazione cementiera, ma non tutta la locale Confindustria presieduta dal capo di Federmeccanica Massimo Calearo. Il sindaco e i suoi, come il consigliere di An Francesco Rucco, che pur si dichiara fortemente «antiamericano», dicono che l´economia potrà giovarsene e anche l´occupazione di personale vicentino nella base, che è già di qualche centinaio di persone.

La Camera di commercio e gli enti locali hanno partecipato a sponsorizzare un libretto intitolato The american heart of Vicenza che è un piccolo peana americanista, teso a dimostrare che, dopo cinquant´anni di coabitazione, gli americani a Vicenza vivono «like ordinary citizens». Ma il 62 per cento dei vicentini, secondo un sondaggio condotto dal professor Ilvo Diamanti su un campione rappresentativo di 1500 persone, è fieramente contrario a Camp Ederle 2. Addirittura l´85 per cento pretende un referendum. Il vicepremier Francesco Rutelli l´ha promesso, qualunque sia stanotte l´esito della Sala Bernarda.

Poi c´è la questione più generale, che è stata posta dal vecchio liberale Sergio Romano: se l´America fa una politica estera non conforme ai nostri interessi, perché mai l´Italia dovrebbe ospitare basi che sono strumenti di quella politica? Si chiudano, semmai, anche quelle esistenti, in ossequio alla sovranità nazionale.

Brutta serata, dopo Sala Bernarda, per Arturo Parisi, che non potrà più fare a scaricabarile, e per Prodi. L´American heart of Vicenza rischia di diventare per loro un altro incubo.

Non solo la Biennale Architettura, ma anche le ricorrenze sottolineano i problemi della città e del territorio. È da poco passato il quarantennale della frana di Agrigento, il disastro urbanistico che travolse una parte rilevante della città siciliana provocando riflessioni e tentativi di riforme, e le immagini offerte dai vari «paesaggi italiani» ci dicono che anche oggi - a fronte della crescita disciplinare e culturale che pure si è registrata a partire da quell'avvenimento - la situazione delle politiche e delle pratiche urbanistiche resta molto problematica, a indicare azioni inadeguate e, forse, nuovi rischi di evanescenza civile della disciplina.

Il ripetersi di calamità naturali come frane e alluvioni rivela un ambiente sempre più fragile di fronte ai cambiamenti climatici: un mondo «in cottura» - come lo ha definito Jeremy Leggett - che trova un territorio indebolito dalla rottura delle più elementari regole di organizzazione idrogeologica, oltre che delle strutture principali degli apparati paesistici. D'altra parte, il paesaggio soffre della ormai abnorme pervasività della «città diffusa». A distanza di qualche anno dall'analisi, ancora oggi utile, di Arturo Lanzani nel suo Paesaggi italiani (Meltemi 2002), che riusciva a cogliere prospettive nell'inviluppo tra «morfologie sociali, trame insediative e quadri ambientali», gli stessi contesti appaiono spesso rozzamente stravolti dalla inarrestabile crescita del costruito.

Macchie scure sulla pianura padana

Di questi fenomeni la disciplina urbanistica offre interpretazioni profonde quanto brillanti. È il caso, recentissimo, degli studi contenuti nel Rapporto «Itater 2020», L'armatura infrastrutturale e insediativa del territorio italiano del 2020, concluso da poco per il Ministero delle Infrastrutture da un gruppo della Società Italiana degli Urbanisti. I luoghi del «Belpaese», così come ci vengono restituiti dal rapporto, appaiono da nord a sud stravolti dalla diffusione insediativa. La «Grande Torino» si è sparsa oltre la collina, nella campagna piemontese. L'area metropolitana milanese si rivela - vista dal satellite - come un «macchione grigio» che si estende dalle Prealpi varesine, alla Brianza, alla Orobia, fino all'Oltrepo pavese, con una megaconurbazione che lascia solo qualche isola di verde, agricolo o forestale e lambisce sempre più le rive del Po. Più a est, oltre il Garda e Verona, la «marmellata insediativa veneta», basata su tre tipi di abuso, fiscale, sociale e ambientale, sconvolge il paesaggio storico ecorurale («nella campagna, interrotta da piccoli villaggi, per ogni campanile c'è una ciminiera»). È un prezzo che non basta a evitare l'incipiente crisi dell'economia del Nordest, dovuta all'esaurimento di spazi e risorse territoriali, ma anche alle spietate regole della globalizzazione (i distretti dovrebbero diventare «dislarghi» per affrontare le sfide della competizione con le tigri asiatiche e le bizzarie di un mercato sempre più oligopolistico, come sostiene fra gli altri Luciano Gallino).

Restano così gli ingombri territoriali del «modello Nec», ormai in crisi: la megacittà lineare della costiera adriatica che, alimentata da turismo e terziario, dal Veneto prosegue in Romagna, Marche e Abruzzo, fino al Gargano, sostanzialmente senza soluzioni di continuità. Nel basso adriatico, emergono ancora le urbanizzazioni allargate di Bari e del Brindisino. Dall'altra parte, Bologna che si allunga sulla via Emilia, e, superato ad «alta velocità» l'Appennino, la «media città toscana» (la piana Firenze-Prato-Pistoia che, attraverso l'Arno, tende a saldarsi con la urbanizzazione tirrenica che si estende ormai dalla Versilia a Livorno). Ancora, la nuova centralità della «grande Roma» da ricercare nella campagna romana. Verso Sud la «megalopoli campana» che va da Napoli a Caserta: un continuum insediativo che colpisce per la sua irrazionalità, quasi voluta (rifiuti prossimi e interni a campi coltivati, addirittura anche a servizi sanitari, talora a fungere da barriera tra aree residenziali e attrezzature di servizi).

Chiudono lo stivale gli ottocento chilometri di città costiera calabra, jonica e tirrenica, dove si affolla l'ottanta per cento di popolazione calabrese che svuota un interno ecologicamente tanto prezioso quanto fragile. Di fronte, la Sicilia dal paesaggio ambivalente, dove si alternano episodi dai valori paesistici altissimi a grandi ambiti di costruito, città ormai molto più grandi delle proprie armature ambientali ed economiche, degradate e congestionate. In Sardegna, infine, alle minacce di resa nei confronti della diffusione urbana costituita dalle conurbazioni cagliaritana e di Sassari-Alghero e ancora dalla città turistica della Costa Smeralda, sembrano voler rispondere le politiche di tutela del paesaggio e di sviluppo sostenibile del territorio proposte dal governo regionale di Renato Soru.

A queste analisi così precise, però, non sempre corrisponde un fertile rapporto tra disciplina e politiche urbanistiche, anche se proprio su scala regionale, e a livello normativo, si avverte probabilmente l'unico tentativo di un qualche rilievo di reazione rispetto al quadro descritto. Difficile però cercare soluzioni singolari, pure nell'ambito delle architetture sostenibili rappresentate alla Biennale. Ma se le istituzioni del settore soffrono spesso per inadeguatezza culturale e programmatica, è la disciplina urbanistica stessa oggi a mostrare grandi disagi, poiché la forte crescita di alcune aree di problemi ha ulteriormente complicato un quadro già confuso.

Innanzitutto la domanda sociale, già in dissolvenza, si è ulteriormente dispersa fin quasi a «liquefarsi». Nei confronti di quello scivolamento verso una «società di scarti», capace di esprimere «grumi di identità» solo attraverso «le nuove dimensioni del consumo», descritto da Zygmunt Bauman in Vita liquida, la disciplina ha manifestato una eccessiva rigidezza, che si è accompagnata alla «crescente difficoltà a implementare politiche pubbliche di gestione della città e del territorio», come ha scritto Luigi Mazza in Prove parziali di riforma (Franco Angeli, 2004). Un tema, questo, che tocca un nodo critico, forse «ideologicamente» enfatizzato negli ultimi anni dalla «ubriacatura di mercato» e dalle «magnifiche sorti e progressive» delle privatizzazioni che hanno segnato ampi strati della cultura progressista e di sinistra.

Abitanti stanziali e abitanti nomadi

Altri problemi sono derivati di recente dalla necessità di comporre dinamiche socioculturali sempre più complesse con le crescenti esigenze di tutela dell'ambiente e del paesaggio. Tutto ciò ha portato a escludere, di fatto, dalle scelte urbanistiche istituzionalizzate, gli «abitanti». In realtà questi problemi - magari in forme meno marcate rispetto agli anni recenti - si erano già avvertiti già dalla fine della fase «riformista» della politica urbanistica, all'inizio degli anni '80, e avevano contribuito a far considerare forse irrimediabilmente obsolete le diverse tipologie di piano che costituivano il dispiegamento del «progetto moderno».

In Trasformazioni e governo del territorio (Franco Angeli 2004) uno dei più raffinati interpreti delle vicende urbanistiche non solo italiane, Pier Carlo Palermo, preside della facoltà di Architettura e Società di Milano, individuava nell'esperienza di «progettazione urbanistica» (legata direttamente o indirettamente alle elaborazioni di Bernardo Secchi) e nelle versioni più recenti dell'urbanistica «razional-riformista» (ruotante attorno all'Inu, con Giuseppe Campos Venuti tra le figure di maggior rilievo) gli estremi tentativi di superamento dei modelli trascorsi e di riproposizione della «pianificazione e governo del territorio» come strumento risolutivo dell'organizzazione socio-spaziale delle città. Questi progetti prefigurano nuovi meccanismi di interazione con un quadro sociale assai più dinamico e complesso del passato (compresi gli «abitanti nomadi» di Deleuze e Guattari, quando esistono) e provano a disegnare gli apparati fondativi dello strumento per dispiegarne le ulteriori elaborazioni, tecniche e politiche, culturali e programmatiche.

Quello che viene in luce è una centralità del ruolo dell'istituzione territoriale ai diversi livelli, che spesso costituisce il momento più debole del meccanismo. Le crisi delle istanze politico-istituzionali finiscono infatti per riversarsi sul processo di piano, condizionandolo progressivamente. Lo scarto tra un programma fondato soprattutto sulla domanda di innovazione sociale e un quadro istituzionale ormai espressione di interessi tesi a trasformare o usare città e territorio secondo logiche appartenenti a mercati anche diversi (ma certamente estranee alle istanze degli abitanti) diventa un nodo critico pressoché insormontabile, capace di mettere in crisi anche i «progetti di territorio» basati sulla programmazione concertata.

Emergono dunque due piani di problemi, che già si erano profilati rispetto ai «vecchi» arnesi disciplinari, ma che ora esplodono clamorosamente a fronte dei tentativi di rinnovo. Non importa che questi si trovino nel solco della pianificazione «virtuosamente» aperta alla domanda sociale o nelle proposte di svolta drastica, di nuova azione dall'alto, interrelata alla capacità di offerta trasformativa (la «programmazione concertata»). In estrema sintesi, possiamo affermare che nelle ultime fasi siamo stati di fronte a un'azione sul territorio talmente incapace o nolente di tener conto dei suoi valori da produrre - nel negarli - problemi crescenti, problemi che dallo specifico delle sensibilità ambientali, paesaggistiche e socio-culturali, sono diventati fatti critici nel quotidiano di ciascuno.

La cesura tra istituzioni decisionali e partecipazione sociale costituisce peraltro oggetto di numerosi studi. Sono molti i temi a proposito dei quali il disagio urbano si è già «rivoltato» in proposta progettuale, fino a produrre addirittura forme di autogoverno, sia pur limitate ad aree tematiche spesso fortemente contestualizzate, che riguardano tuttavia diverse questioni. Valga per tutti l'esempio di Firenze, dove l'amministrazione - certo di salde tradizioni democratiche e riformiste - spinge i rappresentanti di associazioni e movimenti a programmare, insieme ai professori del Laboratorio per la Democrazia, agli urbanisti più avanzati, ambientalisti e sinistra radicale, una lista alternativa a quella dell'Unione. Di questa esperienza, del resto, aveva già parlato Giancarlo Paba nel suo Insurgent city. Racconti e geografia di un'altra Firenze (Mediaprint, 2002).

Alberto Magnaghi ha tentato di affrontare il nodo critico istituzioni/partecipazione fin dall'avvio del programma di ricerca «territorialista». La sua indagine sulle formazioni sociali dei «nuovi abitanti» muoveva dalla crisi, per certi versi irreversibile, del concetto di «comunità», almeno nelle formulazioni più consolidate tra sociologi e urbanisti. Il luogo, tuttavia, restava un concetto distintivo per riterritorializzare contesti troppo spesso degradati, dequalificati, disastrati nella negazione dei valori del patrimonio territoriale. In effetti il filone cresciuto attorno a quelle esperienze di pianificazione «ambientale», «territorialista» o «autosostenibile» si è molto ampliato. Una parte prevalente del campo disciplinare oggi assume il riferimento della «sostenibilità» - come si nota fra l'altro nel volume Complessità del territorio e progetti ambientali, a cura di Maurizio Imperio e Manlio Vendittelli, da poco uscito per Franco Angeli - anche se i più tendono a declinare troppo disinvoltamente tale termine, trascurando i criteri-guida del progetto «territorialista»: critiche al modello di sviluppo globalizzato, affermazione da parte dei nuovi abitanti dei valori tipici del contesto locale, interazioni tecnici-abitanti-istituzioni, azioni dal basso per la costruzione di «scenari di futuro», riterritorializzazione come recupero e riqualificazione del paesaggio e vincoli a ulteriori urbanizzazioni.

Dentro le articolazioni leggere

Il concetto di scenario, visione di futuro, disegnato dagli attori locali per tutelare e affermare il quadro di valori patrimoniali presenti, costituisce oggi un motivo distintivamente innovativo dell'elaborazione territorialista, così come emerge nella raccolta di saggi curata da Magnaghi La rappresentazione identitaria del territorio (Alinea, 2005): esso, infatti, nella sua possibilità di «articolazione leggera» può rispondere ad alcuni dei nodi critici ricordati sopra; è costruito dal basso e favorisce processi di self-governance, anche oltre la partecipazione; permette di interagire - in maniera positiva, dialettica o conflittuale - con il quadro istituzionale fino a determinarne la posizione; costituisce una griglia di valori «costruttivamente interpretati» tali da semplificare la valutazione strategica o più semplicemente di compatibilità delle istanze, pubbliche o private, che eventualmente «dall'alto» si proponessero per quel contesto; è costruito «comunicativamente» per allargare la partecipazione e l'interazione; costituisce una prospettiva dal basso, dal punto di vista dei valori di «quell'ambiente» per l'azione. La rete dei «Laboratori Territoriali», forum composti da studiosi, movimenti e abitanti, è molto cresciuta ed è diventata oggi una trama ampia, che si gioca soprattutto sul piano socio-politico e si distingue armai dall'ambito della ricerca scientifica, anche se mantiene con essa solide relazioni culturali.

La risposta «dal basso» all'incapacità politica di affrontare nodi e temi di un territorio sempre più complesso si è allargata: accanto agli studiosi, ai movimenti, ai soggetti locali che animavano i laboratori ci sono oggi molte istituzioni territoriali. La «Rete» è diventata «Nuovo Municipio», perché vede l'adesione di molte istituzioni che provano a costruire politiche urbanistiche, del paesaggio, dei servizi, dell'accoglienza, dell'educazione: sono insomma quei Percorsi condivisi che hanno dato il titolo a un recente volume di Giovanni Allegretti e Maria Elena Frascaroli, uscito per Alinea.

Qualche tempo fa sembrava che le condizioni per un «laboratorio territoriale», spesso primo passo verso il «Nuovo Municipio», fossero in qualche modo «eccezionali», dato che richiedevano convergenze rare tra attori sociali e quadro istituzionale. Oggi, degrado, invivibilità, deterritorializzazione, perdita di senso dei luoghi, allargano le occasioni di un cambiamento che si proietta verso visioni realmente diverse.

LANUSEI. Con sei etti e mezzo di esplosivo da cava le hanno detto «Vattene!» per la terza volta, e Maria Laura Del Rio, 37 anni, capo dell’ufficio tecnico del Comune di Lanusei, ha deciso di ascoltare il consiglio e di chiedere il trasferimento a un altro ente.

Nella città in cui non si potrà costruire neppure con i mattoncini del Lego finché non saranno prese tutte le precauzioni contro alluvioni e frane, i professionisti della dinamite attaccano i professionisti dell’urbanistica e dell’edilizia. Giovedì sera, rientrando a casa, l’architetto Del Rio ha trovato appeso al cancello un candelotto di Tutagex dentro un sacchetto nero. Due notti prima una bomba era esplosa davanti all’abitazione dell’ingegner Antonello Sulas, 33 anni, ex dirigente regionale dell’Udeur.

«Se qualcuno pensa che sia impossibile costruire a Lanusei per colpa dei politici o dei tecnici locali, sta sbagliando mira», dice il sindaco Tonino Loddo, 56 anni, ex deputato della Margherita, in carica dalla primavera del 2005 e ora dimissionario a causa dello stato confusionale della maggioranza di centrosinistra che dovrebbe sostenerlo.

«Ripeto quello che ho già spiegato e rispiegato ai miei concittadini in diverse assemblee popolari - continua Loddo -. L’intero centro abitato è zona HG3, ad alto rischio di frane, e finché non sarà entrato in vigore il Pai (Piano di assetto idrogeologico) non si potrà costruire nulla. Ma queste sono cose che si decidono a Cagliari, non a Lanusei: al Genio civile e all’assessorato regionale ai Lavori pubblici. Secondo punto: nelle campagne ci sono almeno trenta licenze edilizie bloccate, ma questo dipende dal piano paesaggistico regionale, non dal Comune di Lanusei. Un agro spezzettato come il nostro, con proprietà piccole o piccolissime, è inedificabile».

Il sindaco è stato più volte a Cagliari con il capo dell’ufficio tecnico per sbloccare almeno il Pai: «Ci hanno promesso risposte in tempi brevi, quindici/venti giorni», dice Tonino Loddo.

Intanto Lanusei (circa seimila abitanti, capitale della Provincia Ogliastra in coabitazione con Tortolì) ha accolto l’invito del sindaco a manifestare per Maria Laura Del Rio e per gli altri bersagli degli attentati. Solidarietà silenziosa, «evitando - dice Loddo - quelle assemblee popolari in cui intervengono sempre le stesse venti persone», ma efficace: negozi chiusi e città praticamente ferma dalle 12 alle 13.

Maria Laura Del Rio non vuole fare commenti. Le forze dell’ordine per la terza volta le hanno dovuto chiedere se abbia sospetti, se sappia spiegarsi chi la vuole cacciare a tutti i costi da una poltrona che sarà anche prestigiosa ma che in questo momento, insiste il sindaco, «non conta niente». Ed è probabile che per la terza volta l’architetto abbia detto di non sapersi spiegare tanto accanimento. Quel candelotto inesploso le ha fatto molto più male degli incendi che le hanno distrutto due macchine, la prima un anno fa, la seconda nel maggio scorso.

L’esplosivo, infatti, è stato lasciato davanti alla casa che Maria Laura Del Rio ha progettato e in cui è appena andata ad abitare con il marito Mario Marongiu, titolare di alcuni supermercati a Lanusei. Chi conosce bene l’architetto Del Rio la definisce una «minimalista» e riconosce il suo gusto negli interni austeri e nelle pareti nude di quella casa candida e quasi nascosta a Pizz ’e susu, in cima alla città.

L’ingresso nel nuovo nido familiare, il ritorno al lavoro in municipio dopo tre mesi di pausa seguiti al secondo attentato: una fragile felicità, quella di Maria Laura Del Rio. Un equilibrio facile da incrinare con il terribile sottinteso di una bomba non innescata: «Questa casa te la possiamo distruggere quando vogliamo». Giovedì sera, mentre i poliziotti diretti dal commissario Salvo Siracusa esaminavano l’esplosivo e cercavano tracce degli attentatori, il capo dell’ufficio tecnico già confidava al sindaco il proposito di mettersi in mobilità e di cercare un posto di lavoro meno pericoloso.

Tonino Loddo cerca una spiegazione agli attentati: «Viene da pensare che siano attacchi provenienti dall’esterno, da qualcuno che vuole screditare Lanusei». Il sindaco raccoglie gli appelli a combattere l’omertà lanciati dal procuratore della Repubblica, Bruno Alfonsi, e dal comandante provinciale dei carabinieri Salvatore Favarolo: «Chi sa cominci a parlare. Quando sono al bar, tutti sanno tutto. Appena escono, zitti. Questo non è più tollerabile». Un muro contro il quale gli investigatori - gli uomini del commissariato di polizia e quelli della compagnia carabinieri di Lanusei, diretti dal capitano Vincenzo Barbanera - sperano di non scontrarsi anche questa volta.

«Altro che mettere le bombe, a noi tecnici dovrebbero dare le medaglie per come abbiamo tutelato i nostri clienti cercando di sbloccare almeno qualche singola opera», dice l’ingegner Antonello Sulas, penultima vittima degli attentatori. La bomba davanti a casa è stata un fulmine a ciel sereno: «Non ho mai avuto segnali negativi, né per la mia attività professionale né per il mio impegno politico nell’Udeur, durato fino a un anno fa. Posso soltanto dire che a Lanusei si assiste a un progressivo degrado della vita sociale. C’è tanto pessimismo e noi giovani abbiamo una gran voglia di cambiare aria».

Ieri pomeriggio pioveva fitto, e da Pizz’ e susu, dove c’è la casa dell’architetto Del Rio, l’acqua veniva giù trasformando in minacciosi torrenti le strade a serpentina. Ogni temporale è il preannuncio di una possibile alluvione, come quella che nel 2004 portò distruzione e morte in Ogliastra. «Da allora è tutto bloccato - dice il sindaco -. Il Genio civile ci pensa diecimila volte prima autorizzare qualcosa. Abbiamo diverse lottizzazioni pronte a partire, due delle quali sbloccate dalla nostra giunta dopo vent’anni: bene, senza il piano idrogeologico non si può far nulla. Ma di tutto questo il capo ufficio tecnico, che è giovane e brava, non ha la minima colpa».

Maria Laura Del Rio, laureata in architettura a Firenze, lavora in municipio da pochi anni: prima un contratto a termine, poi la responsabilità del settore urbanistica, infine, con l’arrivo di Tonino Loddo, la nomina a capo dell’ufficio tecnico. Con lei lavorano tre geometri, un amministrativo e due ingegneri assunti a tempo determinato. È possibile che una carriera così brillante abbia suscitato invidie? O che i tre attentati contengano un messaggio trasversale diretto non a Maria Laura Del Rio ma al marito, uno degli imprenditori più in vista della città? Sono ipotesi che quasi nessuno prende in considerazione. E nell’attesa di capirci qualcosa, Lanusei resta in ostaggio delle bombe e della sua precarietà geologica.

Un commento di

Sandro Roggio

Non sono da sottovalutare le gravi e reiterate intimidazioni alla dirigente dell’ufficio tecnico del Comune di Lanusei, capoluogo dell’Ogliastra, regione bellissima tra mare e montagna della Sardegna meno conosciuta. Le notizie di stampa dicono che le minacce sono in relazione a mancate autorizzazioni per case in agro. Tutto farebbe pensare che si tratta di piccole cose, reazioni di balordi alle regole che il Piano paesaggistico e il Piano di assetto idrogeologico hanno introdotto di recente in Sardegna. Ma così si comincia. Una minaccia tira l’altra. E si sa come vanno le cose in questi casi, quale è il rischio quando le istituzioni non replicano tempestivamente e adeguatamente. Lo ha fatto il sindaco del Comune ed è sembrato un po’ isolato. E l’impressione è che la cosa possa finire nei prossimi giorni nell’archivio delle notizie di secondo piano. Così è normalmente. A fronte di brutte storie non mancano le repliche nell’immediato, ma lo sdegno dura poco. In Sardegna ci sono stati brutti segnali negli anni scorsi. Più volte sono stati denunciati interessi della mafia nelle zone più belle. Il magistrato della Procura di Tempio Valerio Cicalò ha da poco riferito di investimenti sospetti in Gallura in immobili di pregio; “ ma sinora non siamo riusciti a capire – ha detto il magistrato – da dove arrivano i capitali. E siccome il presupposto fondamentale è che si individui la fonte, e la fonte e all’estero, per ora non abbiamo chiuso il cerchio. Indagando su alcune persone, siamo solo riusciti a trovare collegamenti con ambienti russi […]”. Che cosa dire ? La Sardegna è una regione povera ma la democrazia qui è un valore, la gente è onesta eccetera. Ma c’è da tenere alta l’attenzione, credo.

PS. Le cose che ha detto Briatore oggi a Lucia Annunziata della Sardegna fanno sorridere ma un po’ mi preoccupano.

13 ottobre 2006

Piano da 300 milioni per trasformare lo scalo veneziano in Marco Polo City

Il master plan della Save prevede il raddoppio del sistema aeroportuale - Una porta d’eccellenza per il Nordest - Previsto nel 2020 un traffico passeggeri di 15 milioni sorretto da un moderno centro intermodale

VENEZIA. I numeri condensano gli obiettivi di Save. Il master plan dell’aeroporto di Venezia indica il sostanziale raddoppio dell’infrastruttura attuale, in funzione di un traffico di passeggeri stimato in 15 milioni al 2020.

Lo scorso anno il sistema aeroportuale veneziano ha fatto volare 7,1 milioni di persone. Il master plan al 2020 prevede una seconda pista lunga 2,3 chilometri e distante 1,7 chilometri dall’attuale (oltre la strada statale Triestina), 74 aree di parcheggio per aeromobili su circa 1,1 milioni di metri quadrati di piazzale, un terminal passeggeri con superficie di 130mila metri quadrati integrato alla nuova stazione ferroviaria Tav, parcheggi per oltre 11mila auto. Una cifra ancora: la realizzazione di questi piani implica un investimento di 300 milioni di euro. Numeri che sintetizzano la portata della sfida racchiusa in questo master plan, di cui in queste pagine anticipiamo alcune tavole progettuali. L’aeroporto Marco Polo è candidato a divenire la porta per eccellenza nella rete di mobilità del Nordest, collegato con tutte le modalità di trasporto lungo il Corridoio transeuropeo numero 5.

L’arco temporale sul quale è cadenzato il piano può apparire remoto. Non è così. In materia di infrastrutture, la pianificazione su base 10-15 anni è del tutto ragionevole data l’estenuante lentezza del processo autorizzativo e dati i tempi di elaborazione di un dossier progettuale estremamente complesso. Non di meno, è necessaria una analisi approfondita delle tesi di Save, anche in relazione al delicato contesto ambientale e urbanistico in cui l’aeroporto è sorto.

Al netto del dialogo necessario con le istituzioni e con la popolazione locale, il potenziamento del quartiere aeroportuale può includere una importante chance di sviluppo. Naturalmente per Save il raddoppio dell’infrastruttura e dei traffici è uno dei principali drivers di sviluppo della società, quotata in Borsa due anni fa e da allora al centro del risiko del settore su scala nazionale e internazionale. Ma la presenza di un forte e strutturato polo aeroportuale può essere un fattore di spinta dell’economia del territorio nel suo insieme. In una stagione segnata da reti di relazioni sempre più «lunghe» in economia, laddove la produzione è dislocata anche a migliaia di chilometri dal quartier generale dell’azienda, la disponibilità di efficienti servizi di collegamento aereo è un plus di primario rilievo. Specularmente, l’economia turistica del territorio veneto può avere un notevole vantaggio dalla presenza di un esteso network di rotte aeree. Particolarmente significativo, al proposito, è il volano costituito dallo scalo di Tessera rispetto all’attività crocieristica basata a Venezia. Da ultimo, ma non per ultimo, va pure ricordato un dato statistico che il presidente di Save cita di frequente: Enrico Marchi sottolinea che per ogni milione di passeggeri, cresce di mille unità il numero dei lavoratori dipendenti di Save. A questa cifra va poi aggiunto l’indotto (ossia le attività di coloro che, dai taxi ai ristoranti, hanno relazione con la vita del Marco Polo).

Lo scenario non è tuttavia per nulla sgombro di problemi. Il principale aspetto critico ha a che fare con la negazione stessa - attualmente - di Tessera quale nodo infrastrutturale. Non esiste aeroporto intercontinentale degno di tal nome che sia raggiungibile, e di frequente con estrema difficoltà, solo in auto. Su scala internazionale, l’aeroporto di Parigi «Charles De Gaulle», per esempio, è interconnesso direttamente con la rete dei treni ad alta velocità (Tgv).

La progettazione delle Ferrovie dello Stato prevede a Tessera una gigantesca stazione ferroviaria per i treni ad alta velocità. Stazione che sarà interamente interrata, sulla linea tra Mestre e Trieste. Ma i disegni sono poco più che schizzi, di finanziamenti nemmeno l’ombra. Le Fs soffrono una crisi finanziaria di straordinaria gravità (seconda solo a quella di Alitalia). Ma occorrerà pure che il governo dica una parola chiara sulla linea Tav Transpadana, di cui a Ovest di Verona non esiste nemmeno un tracciato condiviso dagli enti locali. E’ in avanzata fase di costruzione la tratta Padova-Mestre, nulla di più. Quanto al nodo di Mestre, non è neppure stato abbozzato un dibattito sul dislocamento della stazione Tav a Mestre piuttosto che a Tessera. Di sicuro non è ipotizzabile che di stazioni Tav ce ne siano due a una manciata di chilometri di distanza. Tutta da capire è poi la posizione della Regione Veneto riguardo al tracciato della linea Tav Mestre-Trieste, che il Cipe nel 2003 ha voluto affiancata al percorso dell’autostrada A4. La Regione Veneto non esclude che i treni Tav corrano lungo nuovi binari posti sulla costa.

Restando ai binari, è sempre di là da venire il finanziamento di una idea ormai antica chiamata Sistema ferroviario metropolitano regionale. L’idea consiste in una bretella che si stacchi dall’attuale linea Fs Mestre-Trieste e, affiancata al raccordo autostradale, consenta un agevole accesso al Marco Polo ai clienti veneti e friulani.

Rimane da dire un altro fattore critico. Nemmeno per chi raggiunge Tessera in auto è facile stimare i tempi di percorrenza. La tangenziale di Mestre è una incognita imponderabile. E qui viene in causa la questione del Passante autostradale Dolo-Quarto d’Altino. Il primo lotto del Passante, tra A4 (Quarto) e A27 (Mogliano) dovrebbe essere inaugurato nell’estate del prossimo anno. Ma le risorse finanziarie fino a oggi disponibili sono in via di rapido esaurimento: nell’arco di 2-3 mesi i 113 milioni stanziati dallo Stato e i 174 milioni anticipati dal general contractor Impregilo saranno terminati.

Sta al governo indicare, nella complicata vertenza che oppone il ministro Antonio Di Pietro e le concessionarie autostradali, come è possibile che i pedaggi riscossi alle barriere di Venezia siano finalizzati alla costruzione del Passante. Ne va di mezzo, tra l’altro, anche l’efficienza del polo aeroportuale. (p.pos.)

13 ottobre 2006

Il «quadrilatero d’oro» intorno all’aeroporto cambierà volto

di Alberto Vitucci

Un puzzle con Casinò e stadio abbellito dalla firma di Gehry

VENEZIA. Il quadrilatero d’oro prende forma. Da scalo aeroportuale, il Marco Polo si candida a diventare «il primo gate dell’Euroregione del Nord Est». Non soltanto un aeroporto, dunque, ma un grande nodo intermodale, unico punto di arrivo per le reti ad Alta Velocità, i nuovi collegamenti ferroviari e autostradali. Un’area destinata a cambiare volto nei prossimi anni, con investimenti di miliardi. E’ questo l’ambizioso progetto («Master plan») realizzato dall’architetto Giulio De Carli per conto di Save. Un piano che prevede accanto all’ulteriore ampliamento dell’aerostazione la seconda pista, infrastrutture, alberghi e centri commerciali. E nelle aree vicine, il nuovo stadio, il terminal di Gehry e la nuova sede del Casinò. Un puzzle che prende forma e che in alcune parti è già definito. Restano sullo sfondo le diversità di vedute tra enti locali e la società aeroportuale, Provincia e Comune hanno ritirato i ricorsi al Tar che avevano portato due anni fa a un’aspra polemica con Save. Un segno di disgelo che dovrebbe essere accompagnato dalla nomina nel Cda della società aeroportuale dei due consiglieri «politici», in sostituzione dei due funzionari nominati ai tempi della guerra legale. In cambio del ritiro dei ricorsi, dovrebbe arrivare l’accordo sulle nuove localizzazioni di stadio e casinò. E il via libera al futuristico terminal da 130 mila metri quadri progettato dall’architetto canadese Gehry. Un sogno dello scomparso presidente Gianni Pellicani, e la porta sull’acqua che ancora manca al terzo aeroporto d’Italia. Dove ancora oggi chi arriva da Venezia con il motoscafo deve percorrere un chilometro a piedi per andare agli aerei, senza navetta e senza tapis roulant.

Il master plan disegna Tessera come dovrebbe essere nel 2020, quando l’aeroporto nato sulle barene in mezzo alla laguna potrebbe raggiungere la soglia dei 15 milioni di passeggeri l’anno. Un piazzale da un milione e 100 mila metri quadrati che può ospitare 74 aerei, parcheggi per 11 mila auto, alberghi e spazi per la logistica, le stazioni dell’Alta velocità e della linea Sfmr regionale. E poi il nuovo stadio con servizi e attività ricettive e commerciali collegate, la sede del Casinò per cui l’Urbanistica sta trattando con gli architetti di Save. E infine, la terza pista. La contestata infrastruttura che gli abitanti della zona non vogliono. 2300 metri di lunghezza, poco più di un chilometro a nord est di quella esistente nell’area fra la bretella autostradale e il fiume Dese.

Nel futuro dell’aeroporto c’è anche la sublagunare. Il contestato progetto, bocciato dai tecnici di Comune e Provincia un anno fa, giace in qualche cassetto. Ma nel master plan del nuovo aeroporto è segnato sulla cartina come una struttura già realizzata, collegata allo scalo.

Infine, l’area sud. Qui Save non ha ancora trovato un accordo con i fratelli Poletti, imprenditori trentini e nuovi padroni del Venezia calcio, proprietari delle aree strategiche che affacciano in laguna dove è prevista la nuova strada di accesso all’aerostazione. Con loro ci si dovrà accordare.

13 ottobre 2006

Appuntamento oggi e domani alla Fondazione Cini

Due giorni di «Stati generali» con Cimoli e il ministro Bianchi

VENEZIA. Sarà il presidente di Save, Enrico Marchi ad aprire gli Stati Generali questa mattina alle 9.15 alla Fondazione Cini sull’isola di San Giorgio a Venezia. Seguiranno gli interventi del sindaco Massimo Cacciari, del presidente della Provincia Davide Zoggia e quello del governatore regionale Giancarlo Galan. Gli Stati Generali sono suddivisi in quattro sessioni su quattro temi. I primi due - il business e i sistemi di collegamento e mobilità - saranno affrontati oggi; gli altri due - le funzioni urbane e le prospettive strategiche - saranno affrontati domani. Nell’arco dei due giorni di discussioni interverrano tra gli altri il presidente dell’Enac, Vito Riggio, l’amministratore delegato di Unicredito Italiano, Alessandro Profumo, l’amministratore delegato delle Generali, Giovanni Perissinotto, l’amministratore delegato delle Ferrovie, Marco Moretti, il presidente di Alitalia, Giancarlo Cimoli, il presidente di Assaereo, Fausto Cereti, il vicepresidente della Delta Air Lines, Doug Blissit, l’amministratore delegato di Hapag-Lloyd Express, Roland Keppler, il presidente dell’Enav, Bruno Nieddu, il presidente di Copenaghen Airport, Niels Boserup, il presidente degli Industriali veneti, Andrea Riello, il Ceo del Vienna International Airport, Herbert Kaufmann. E’ previsto anche un intervento in video di Frank O. Gehry, architetto e progettista del «Venice Gateway». Interverranno inoltre il ministro dei Trasporti, Alessandro Bianchi, il viceministro Cesare De Piccoli, il presidente della commissione Trasporti e Turismo Paolo Costa e il presidente della Regione Friuli Venezia Giulia Riccardo Illy. La seconda sessione su «sistemi di collegamenti e mobilità» sarà coordinata dal direttore de La Nuova di Venezia e Mestre Paolo Possamai.

14 ottobre 2006

Marco Polo, ponte europeo in un corridoio bloccato

di Alessandra Carini

Al mega-aeroporto veneziano del futuro mancano infrastrutture stradali e ferroviarie - Per ora vinta sulla carta la sfida lanciata da Marchi. Denunciati i gravi ritardi italiani sul Corridoio Cinque

VENEZIA. La sfida del Marco Polo per diventare la piattaforma aeroportuale del Nordest è, almeno sulla carta, vinta. Il master plan è fatto, gli accordi con Treviso quasi, quello con Ronchi dei Legionari è nelle cose. Sarà un polo sostanzialmente privato. Il presidente della Regione, Giancarlo Galan annuncia che venderà le sue quote che, per patti già scritti, entro il novembre del 2007, finiranno a Enrico Marchi e soci, Generali comprese, facendo raggiungere ai privati la maggioranza. Ma senza un contorno di infrastrutture ferroviarie e stradali che facciano del Marco Polo un punto di snodo infrastrutturale quella sfida rischia di essere persa, non solo per Venezia e tutto il Nordest ma anche per l’Italia. Perchè significa che il Paese avrà perso l’occasione per far passare a Sud delle Alpi il Corridoio Cinque sul quale le decisioni dell’Europa sono imminenti e i ritardi accumulati dal sistema italiano enormi.

Dice sconsolato Riccardo Illy, presidente della Regione Friuli: «Il sistema aeroportuale del Nordest non parte se non c’è la Ferrovia che vada a est e per adesso non c’è neanche il progetto. Purtroppo in questo settore facciamo un passo avanti e due indietro, come i gamberi e pensiamo sempre ai costi della realizzazione e non a quello che paghiamo se le opere non si fanno». E conclude sfiduciato: «Visto che è un Corridoio europeo perchè non deleghiamo all’Unione il compito di realizzarlo?». Ribatte un concretissimo ma amaro Mauro Moretti, amministratore delegato delle Ferrovie: «Scontiamo tagli pazzeschi fatti l’anno scorso e un’incapacità cronica di stabilire priorità sul territorio e di valutare i costi: l’alta velocità non si può fermare dapertutto». E sparisce ad est la litania di date, anche se sempre disattese, che spesso davano la speranza. L’alta velocità si farà sì, ma chissà quando.

La prima giornata degli Stati generali dell’Aeroporto di Venezia, convocati da Marchi per segnare il punto sul suo progetto, uno dei più importanti oggi in campo aeroportuale, si è concluso così con una sorta di «vittoria mutilata». Vittoria perchè Marchi incassa un’adesione sostanziale di Massimo Cacciari al suo progetto (anche se la seconda pista è ancora in contestazione), l’impegno formale di Galan a vendere, l’adesione del viceministro dei Trasporti Cesare Piccoli a rivedere le norme sui requisiti di sistema e quelle della finanziaria che impongono il passaggio al demanio delle aree non destinate al servizio aeroportuale. E, infine, un primo sì da parte di Renato Chisso alla stazione dell’alta velocità a Tessera. Mutilata perchè nel corso degli interventi che si sono susseguiti è emerso che tutto il resto del sistema, sul quale soprattutto l’Italia si gioca la sua credibilità, rischia di franare sotto i macigni dei ritardi e dell’incapacità di decisione strategica.

Paolo Costa, presidente della commissione Trasporti del Parlamento europeo, non ha avuto difficoltà a mostrare quanto sia strategico ai fini dell’Europa, lo snodo aeroportuale nordestino che fa perno sul Marco Polo. Le slides presentate a illustrazione della sua posizione nell’Europa dei Corridoi mostrano una fitta rete che passano proprio nel tratto che va da Verona a Trieste con una tendenza, dice, «di un’asse che è destinato a spostarsi sempre più a Est». «Ma le scelte non sono più dilazionabili», aggiunge.

Entro l’anno l’Europa stabilirà le regole finanziarie. Prima dell’estate dove allocare i soldi. Per sapere in quali «tasche» potrebbero finire sono indispensabili tre condizioni: che sia firmato il trattato internazionale, che il progetto tecnico sia approvato, che ci sia l’impegno dei governi a finanziarlo». Ma il trattato italo-sloveno non c’è, anche se Illy ha annunciato per il 16 ottobre una riunione tra i rappresentati dell’ arco sud europeo.

Un pugno di mesi separa l’Italia da queste decisioni, è un abisso se si tiene conto dei tempi e della coerenza delle delibere italiane. Dalle risposte alle domande poste dal direttore della Nuova Venezia, Paolo Possamai, sono emersi così interrogativi che per ora non trovano risposta. Da quelli sollevati da Alessandro Profumo che dice che le banche sono disposte a finanziare progetti e investimenti ma che vogliono certezze di introiti e di tempi. E che conclude: «Mi domando perchè nel 1864 si trovarono i soldi per il Frejus e oggi non ci sono per la Torino-Lione». A quelli di Moretti che dopo avere ricordato con orgoglio che le Ferrovie sono diventate tra i più grossi investitori europei e non sono più un carrozzone di residui passivi è passato all’enumerazione delle difficoltà: «L’anno scorso sono “spariti” 6 miliardi di euro di finanziamenti, abbiamo fatto miracoli per non chiudere i cantieri. Ecco perchè il progetto Mestre-Ronchi non c’è». Ma non c’è solo questo a tormentare il percorso dell’Alta velocità ferroviaria. Ci sono i costi pazzeschi imposti dalle richieste, il passaggio di Vicenza, e poi Padova, il quadruplicamento della linea: chi mai li finanzierà? E perchè si dovrebbero spendere tutti questi quattrini per fare queste opere anzichè collegare Bari e Napoli che costa molto meno e rovescerebbe la situazione di una gran parte del Sud? E poi c’è un territorio che non vuole stabilire priorità e si illude che l’ alta velocità possa essere fermata ad ogni campanile: «Ci vuole un’ autorità che stabilisca le priorità e che pensi ai collegamenti fra le grandi aree metropolitane». Merce rara in un Paese poco incline alle decisioni e troppo attento a contemplare le risse tra gli enti locali. Comunque nel 2008 sarà fatta la Bologna-Milano, nel 2009 la Firenze-Bologna, poi la Torino-Novara. Ad est c’è la certezza, tra poco, della Padova-Mestre. E un piano per la Treviglio-Verona che però costa 5 miliardi e mezzo di euro. Tutto il resto e in mente dei.

14 ottobre 2006

Confronto pubblico sul futuro dell’aeroporto

Oggi e domani si svolgono nell’isola di S. Giorgio, promossi da Save, i cosiddetti stati generali dell’aeroporto, per i quali s’è fatto ricorso al presuntuoso conio di Marco Polo City. Nelle dichiarazioni del presidente di Save, Enrico Marchi, questo evento servirebbe a presentare i piani di sviluppo dell’infrastruttura aeroportuale e a condividerli con la «società civile». Le dichiarazioni del presidente Marchi sono senz’altro significative, consentono di penetrare nella forma mentis di chi, in quest’ultimo anno, si è nei fatti sottratto a quel confronto pubblico che nel buon ritiro di S. Giorgio dovrebbe essere praticato. Premesso che le forme e gli stili della condivisione sono quelli dei luoghi pubblici e degli organismi rappresentativi e democratici, e che la figura claustrale prelude piuttosto alla separatezza e alla divisione del decisore dagli astanti, le interviste che Enrico Marchi ha rilasciato in questi giorni rappresentano la più radicale contraddizione con il nobile scopo cui gli stati generali si votano, e dimostrano tutta la distanza che intercorre tra il predicato e il praticato da parte di Save. Stupisce che Enrico Marchi si periti di affermare che il nuovo Master Plan dell’aeroporto «è stato presentato alla Provincia e al Comune» e che qui ritenga di avere assolto il proprio ruolo. Dovrebbe rammentare, il presidente di Save, che le scelte sull’evoluzione di un territorio, l’atto della pianificazione, gli indirizzi su come le comunità territoriali possono evolversi e trasformarsi, hanno un carattere radicalmente pubblico, rappresentano cioè uno degli elementi per i quali una società può davvero dirsi democratica e aperta. Nei fatti e negli atti fin qui compiuti, il presidente di Save ha eletto sé e i propri partners quali soggetti attivi della pianificazione, pretendendo di imporre le volontà dei privati ai decisori istituzionali che, a differenza del patto di potere che ha consegnato a Marchi la società Save, sono retti da un patto civile che ha nella legittimazione popolare l’intima e originale sua natura.

Ancor prima che nel merito delle scelte proposte dagli stati generali, è quindi il percorso che pone capo alla decisione che appare viziato da una stortura colossale e insanabile. Perché, se si sostituisce al decisore pubblico sulla pianificazione e sulla composizione dei diversi e legittimi interessi coinvolti il decisore privato che rappresenta proprio uno o alcuni di quegli interessi (magari con il complice silenzio degli attori istituzionali), è evidente che ogni possibile garanzia che le scelte sui territori avvengano contemperando tutte le sensibilità e vocazioni degli stessi è destinata a venire meno. Nel momento in cui le scelte sul futuro dell’aeroporto di Venezia possono modificare in modo determinante i pesi e gli equilibri urbani della città, sul piano delle nuove economie delle reti di mobilità su rotaia e di interscambio piuttosto che sulla possibile espansione di attività commerciali o della logistica, è la città stessa a doversi riappropriare, mediante le forme rappresentative che ne incarnano la volontà, del ruolo dirigente dei nuovi processi di espansione. Ciò cui pensiamo è del resto quel che le migliori democrazie europee praticano da tempo, interpretando il pubblico appunto come il soggetto prediletto della governance dei grandi disegni metropolitani, di soggetto direttore in grado di coinvolgere in legame di partnership i grandi attori economici e sociali che ogni comunità esprime.

Ciò cui invece pensa Marchi, nel solco di una troppo consumata abitudine italica, è il depauperamento di quell’altissimo valore economico e sociale rappresentato dal cuore dell’infrastruttura aeroportuale, dal suo snaturamento utile a spingere la società nel pelago pericoloso delle speculazioni finanziarie, lasciando sempre più alle spalle il suo fondamento industriale. Se la contemporaneità impone agli universi urbani il modello della rete tra soggetti come unica via per una pianificazione delle grandi funzioni urbane davvero praticabile (soprattutto in un tempo che deve misurarsi con la sostenibilità e il limite di ogni territorio), Marco Polo City si attarda invece tra le peggiori esperienze novecentesche di concentrazione massiva degli insediamenti, use a ricercare il profitto dei pochi piuttosto che quello dei molti.

Ciò cui occorre invece tendere è l’integrazione dei sistemi urbani con le reti di trasporto e mobilità, con la valorizzazione del capitale ambientale inteso come soggetto propulsore di sviluppo economico (del tutto inesplorato per la nostra città è il ruolo ad esempio del bosco di Mestre e della linea di gronda come incubatori di nuova intrapresa), in una prospettiva che non concepisce Venezia come un solum isolato, ma la inserisce in una tramatura urbana e sociale che giunge almeno fino a Trieste e la inserisce al centro dei grandi corridoi europei. In fondo, ciò a cui pensiamo, ciò cui vogliamo ritornare (e, se riusciamo a farlo, è perché assumiamo il concetto dell’interesse pubblico come paradigma dell’azione e della scelta) non è altro che quell’«apertura al mondo» e alle sue opportunità che, a partire dal ’300, fece di Venezia una delle capitali d’Europa e del mondo.

Andrea De Pieri, Silvia Falchi, Alessandro Ruffini, Carla Falchi, Emanuele Rosteghin, Nicola Da Lio, Marina Dragotto, Francesco Fracassi, Gabriele Scaramuzza, Gianluca Trabucco, Carmela Tarantino, Massimo Ongaro, Matteo Ribon, iscritti ai Ds di Venezia

14 ottobre 2006

«Il masterplan? Sarà un’altra Val di Susa»

Il presidente Scaramuzza è furibondo «Quell’aeroporto futuro è uno scandalo» - «Il territorio così sarà distrutto Cacciari ha il dovere di fermare questo scempio»

FAVARO. «Siamo stati invitati ma tra il pubblico, non certo a dire la nostra». Il presidente di Favaro Gabriele Scaramuzza ieri era a Venezia, all’isola di San Giorgio, ad assistere alquanto allibito alla presentazione del nuovo master plan di Save e immaginare nel frattempo, la distruzione delle aree ancora libere e da salvaguardare del territorio della Municipalità. «E’ uno scandalo» commenta lapidario. Alta Velocità, nuovi collegamenti ferroviari e autostradali, l’ampliamento dell’aerostazione e soprattutto la seconda pista, infrastrutture, alberghi e centri commerciali.

Fino ad un anno fa un master plan dai contorni sfuocati ma pur sempre di portata che dire mastodontica non rende l’idea, pubblicato quasi in sordina nel sito dello scalo veneziano. Invece ora, le più meste e grigie previsioni della Municipalità prendono forma. E la polemica si accende nuovamente. «Abbiamo ricevuto un invito, ma non certo a rappresentare le istanze del territorio - spiega il presidente Gabriele Scaramuzza -, e il sindaco di Venezia non ha sicuramente difeso i cittadini, ha spiegato che condivide le linee strategiche del master-plan di Enrico Marchi, parlando anche di scali integrati, ma bisogna scegliere, o l’una o l’altra soluzione, non certo entrambe». Insomma, il «cerchiobottismo» in questo caso non è apprezzato dall’ente locale. «Siamo stati ottimi profeti - continua Saramuzza -, anzi lo sviluppo prospettato è ancora peggiore di quello che immaginavamo». Ancora una volta il presidente di Favaro attacca sindaco e giunta. «Fino ad ora sono stati inadempienti, bisogna capire se questa città ha deciso di spogliarsi definitivamente del ruolo di pianificazione dello sviluppo del suo territorio e lasciarlo al presidente di Save, il Comune deve dire «no» al master plan, adesso Cacciari deve dirci se la sua scelta è quella di massacrare i territori per favorire gli interessi del privato, oppure se attuare una seria politica industriale dei gruppi aeroportuali mediante l’integrazione degli scali». Ancora: «Deve venire a Tessera e a Ca’ Noghea, a dirlo davanti a tutti i cittadini e spiegare perché espropria in modo scandaloso il territorio del principio democratico che rende una città una comunità viva, quello di scegliere del proprio futuro». Aggiunge il presidente: «Il sindaco non ha il mandato per concludere accordi con Save perché non è legittimato a farlo così come non può violentare il territorio». Conclude Scaramuzza: «L’esasperazione può portare anche alla Val di Susa». Una dichiarazione di guerra. Sulla stessa linea il capogruppo della Margherita: «Lo spazio ragionevolmente accettabile - commenta Fiorenzo Bison -, è il limite della Triestina, tutto il resto avrebbe delle conseguenze disastrose, altri aeroporti ce ne sono, l’Alta Velocità consente l’integrazione con lo scalo friulano, al resto ci opponiamo».

(Marta Artico)

15 ottobre 2006

Il ministro «benedice» Marco Polo City

di Matteo Marian

Bianchi: «Buon piano, può essere sostenuto» Generali pronte ad aumentare la quota in Save - L’esponente del governo «Venezia è zona chiave per i rapporti con l’Est»

VENEZIA. «La scarsità di risorse impone delle scelte. I progetti di sviluppo infrastrutturale sono centinaia, per tutti i soldi non ci sono. Questo significa che un buon progetto potrà essere sostenuto, a discapito di altri, come il ponte sullo Stretto, che non dimostrano altrettanta qualità. A me, Marco Polo City sembra un buon progetto». Il ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi «benedice» il master plan di sviluppo del Marco Polo presentato da Save. Non manca di sottolineare come, nella sua crescita, la società veneziana debba coinvolgere la comunità - «è un rapporto indispensabile», sottolinea - e come ci siano alcuni aspetti del piano «che non mi hanno convinto». Ma la struttura portante del progetto, che guarda al 2020, viene ritenuta intelligente e di alto respiro. Tanto da poter essere «un esempio a cui rifarsi».

Certo, va fatta la tara su interrogativi di non poco conto (alta capacità, Sistema ferroviario regionale e Passante) e, forse, sulla «convenienza» di non far scattare altri allarmi in un territorio dove si scende in piazza contro la Finanziaria. Ma Bianchi è apparso «competente e serio», il commento a microfoni spenti colto in uno scambio tra Enrico Marchi e Andrea Riello. E anche sincero, e rassicurante, nel rispondere ai temi cari al presidente di Save. «I beni demaniali aeroportuali inseriti nella Finanziaria? Non me ne sono accorto, ripareremo al malfatto» ha ammesso il ministro che ieri è intervenuto alla giornata conclusiva degli stati generali su Marco Polo City. Mentre sui requisiti di sistema ha precisato che «la cosa da fare non è cancellarli, ma riformarli profondamente riunendo i diversi soggetti coinvolti».

Tornando al cuore del progetto Save, Bianchi ha avuto parole lusinghiere per il progetto. «Ho molto apprezzato il modo di proposione, c’è una visione alta e a lungo periodo, cosa che è mancata a questo Paese. Un’idea che stiamo reintroducendo nel piano generale della mobilità. Inoltre, ho guardato con interesse all’attenzione posta all’intermodalità, un’idea avanzata e vincente. Ma anche alla visione della città aeroporto, e cioè al trasferimento di funzioni urbane nell’ambito di una struttura tradizionalmente considerata solo come uno scalo». A tutto questo, ha spiegato il ministro, «si aggiunge la carica simbolica enorme che ha Venezia e l’opportunità di creare una porta importante in una zona strategica per i rapporti con l’Est».

La città aeroportuale ha raccolto, quindi, consensi trasversali. Da quelli del governatore Galan, l’altro ieri, a quelli dell’urbanista e docente universitario entrato nella squadra del governo Prodi in quota Pdci. Un aeroporto visto come «motore di sviluppo», come prima porta nella rete della mobilità del Nordest, collegato con tutte le modalità di trasporto lungo il Corridoio V. Rimane ora da capire come accendere questo motore, trovando, allo stesso tempo, un interlocutore istituzionale in grado di rispondere a una richiesta, come ha rivelato Massimo Colomban, giunta recentemente da Frank Gehry: «Chi mi promette che la Venice Gateway sarà realizzata?».

I buoni progetti, è la convinzione di Marchi, trovano i finanziamenti necessari. E, in questo senso, le Assicurazioni Generali (azioniste di Save) si sono dette pronte a fare la loro parte. «Le compagnie assicurative, operando come investitori istituzionali, potrebbero contribuire maggiormente alla crescita economica del Paese - ha commentato l’amministratore delegato del Leone, Giovanni Perissinotto -. La speranza è che il decollo della previdenza permetta la creazione di veicoli in grado di supportare queste operazioni. Noi siamo pronti a impegnarci, ma servono norme adeguate per poterlo fare. Se la legislazione lo permettesse, le assicurazioni potrebbero destinare una parte delle riserve tecniche (accantonamenti effettuati a fronte di obblighi futuri verso i propri assicurati) in strumenti finanziari per lo sviluppo di nuove infrastrutture. Oggi questo accade solo in parte».

Rispetto all’annunciata cessione di parte della quota della Regione Veneto in Save (volontà ribadita venerdì dal presidente Galan) Perissinotto ha dichiarato che alle Generali «non dispiacerebbe aumentare la partecipazione in Save, ma, allo stesso tempo, non sarebbe male un allargamento ad altri soci qualificati». Per Marchi la quota sarà riassorbita dal Leone e da Finint.

15 ottobre 2006

«Un polo espositivo unico? A Tessera»

Olivi (PadovaFiere): «Per noi Veneto City è un’alternativa astratta»

VENEZIA. L’integrazione delle funzioni urbane nella città aeroportuale ha fatto breccia. Casinò, sedi di società multinazionali, stadio, commercio e fiere, secondo il piano di Save. E proprio sul sistema fieristico tornano a farsi strada vecchi sogni. «Pensando a un polo regionale, non si può che immaginarlo vicino all’aeroporto» ha sottolineato dal palco della Fondazione Cini Andrea Olivi, amministratore delegato di PadovaFiere. «Venezia ha una formidabile capacità evocativa: quando vado all’estero per spiegare da dove arrivo parlo di Venezia». I se e i ma, nonostante il tema sia tornato d’attualità a palazzo Blabi, però non mancano. «La politica si dovrebbe ritirare da questa attività» ha precisato Olivi tornando a ricordare come la società padovana sia l’unica interamente privatizzata in Italia. «Invece di preoccuparsi di tutelare rendite locali la questione dell’unico polo fieristico andrebbe affrontata con logica imprenditoriale. Ci sarà un perché al fatto che un’area metropolitana più piccola di Los Angeles (il riferimento è alle province di Padova, Venezia e Treviso, ndr) non riesca ad esprimere un’unica realtà dove organizzare grandi manifestazioni fieristiche».

Non è un mistero che PadovaFiere ha la necessità di trovare una sede più adeguata a un business che deve porsi in un’ottica di mercato internazionale. «Quando parlo di un polo vicino all’aeroporto non intendo Veneto City - aggiunge Olivi -. A oggi questa è un’alternativa molto astratta, quella di Save è più chiara». Il manager chiamato a coordinare tutti gli eventi fieristici del gruppo Gl Events (azionista di riferimento di PadovaFiere) non scorge, comunque, elementi di novità rispetto al vecchio e infruttuoso dialogo sul polo veneto. «Verona è difficilmente coinvolgibile, nelle vicinanze dell’aeroporto potrebbe insistere un’unione fra Padova, Venezia e Treviso. Ma accanto alle grandi idee servono, anche, i numeri. Ovvero l’unico elemento che permette una valutazione sulla convenienza, imprenditoriale, di un’operazione di questo genere. Senza dimenticare che serve l’accordo di tutti: dalla nostra parte serve l’assenso del Comune di Padova. Resta il fatto che costituire un polo a Venezia darebbe la possibilità anche di attrarre investimenti diretti dall’estero».

Per Olivi, lo spostamento di PadovaFiere in quella che dovrebbe essere Veneto City a oggi non è un’ipotesi concreta. «Nessuno ci è mai venuto a parlare di area e affitti» sottolinea. Ma anche la prospettiva di Marco Polo City, «pur essendo più chiara», sconta un problema. «Pensare di realizzare un’intesa fieristica tra Padova, Venezia e Treviso con un orizzonte di tempo che guarda al 2020 non serve a nulla - spiega -. Altro che 14 anni, al massimo bisogna ragionare nell’arco di due anni. Le fiere italiane che possono essere competitive a livello internazionale sono due o tre. E invece lo Stato butta centinaia di milioni in quartieri fieristici inefficienti. Penso a Roma a Bari, sono soldi buttati dalla finestra. Così hanno fatto tanto la destra che la sinistra. E questo per tutelare vere o presunte rendite locali». (m.mar.)

Andrea Zanzotto, straordinario poeta veneto, in occasione di una festa per il suo ottantacinquesimo compleanno ha detto: «Il paesaggio sfregiato rimane il mio dolore». Bisogna fare attenzione; per lui il paesaggio non è un «belvedere», un panorama alberato, uno sfondo da cartolina, ma l'interazione vivente dell'uomo con la natura, il contesto empatico della coevoluzione della cultura del genere umano e della storia naturale del pianeta. Piero Bevilacqua, storico meridionalista, ha studiato per lungo tempo le trasformazioni del paesaggio operata dalle diverse pratiche agricole e ha in questi giorni ha pubblicato un libro che si intitola «La terra è finita. Breve storia dell'ambiente».

Con meno fascino letterario e senza grandi studi storici alle spalle, sulla semplice scorta di esperienze dirette di vita, i cittadini, gli abitanti, i lavoratori che si ritroveranno a manifestare oggi a Roma sono giunti alle medesime conclusioni: le ragioni dello Sviluppo, del Progresso, della Produttività... non possono compromettere le condizioni del buon vivere e del bene stare delle comunità umane nell'ambiente naturale. Quando le logiche dell'economia entrano in conflitto con quelle della salute, fisica e mentale, dei suoi «beneficiari» vuol dire che qualcosa non ha funzionato negli equilibri delle forze in campo. Vuol dire che qualcuno (pochi) è riuscito ad accumulare tanto potere da ricattare grandi masse di persone, così da costringerle ad accettare condizioni di vita e di lavoro non volute, non desiderate, non scelte. E non ci si venga a dire che può esserci uno scambio utile, reciprocamente valido tra i due interessi in campo; un patto leonino può al massimo generare un mercimonio alienante, mai vera equità. Come un tempo in fabbrica si pensava che la «nocività» potesse essere compensata con un «premio» in denaro (poi li hanno chiamati «lavori usuranti» che aspettano ancora un riconoscimento nel pensionamento), c'è oggi chi crede che le popolazioni locali possano essere risarcite per i disagi imposti da grandi cantieri, grandi forni, grandi infrastrutture, grandi antenne... concedendo sconti sulla bolletta elettrica e qualche finanziamento ai comuni di residenza. (C'è un articolo della Finanziaria 2007 che prevede esattamente questo trattamento agli enti locali «interessati» da nuovi impianti energetici). Non scherziamo con l'intelligenza di noi tutti! Non si vuole capire che i comitati dei cittadini inquinati non sono mossi da inconfessabili logiche egoistiche e proprietarie, ma dalla volontà di esercitare un diritto universale all'abitare nella salubrità. Essi affermano: «Né qui, né altrove». Se una cosa fa male a me fa male a tutti. L'atmosfera, le acque, le foreste... sono beni indivisibili, interdipendenti. Come la pace e la sicurezza. Né vale contrapporre a queste verità l'abusata argomentazione secondo cui l'età media delle popolazioni dei paesi più sviluppati è enormemente aumentata proprio grazie ai ritrovati della scienza e della tecnica che sono figlie del libero mercato, della libera ricerca, della libera impresa capitalistica. Quante volte ci siamo sentiti dire che «non è possibile mangiare la polpa senza sbucciare la scorza»? Un modo per dire che qualcuno pure si deve sacrificare in nome di «interessi generali» sovraordinati. Costoro non comprendono che la sfida che la nuova generazione dei movimenti ambientalisti (quelli nati con il rifiuto del nucleare e per il solare e che sono giunti fino alla straordinaria mobilitazione popolare della Val di Susa) hanno lanciato al mondo della scienza e della politica sta proprio nel pretendere una capacità di innovazione tecnico-scientifica tale da non provocare effetti indesiderati, da scongiurare conseguenze impreviste, da non impoverire inutilmente le risorse del pianeta. E' la sfida intelligente che la modernità consapevole ha di fronte a sé.

La manifestazione di domani a Roma contro le Grandi opere, inutili e dannose, e per un nuovo piano generale dei trasporti che parta dal superamento della Legge Obiettivo, chiede anche una svolta nel governo sui temi della mobilità, dei trasporti, del paesaggio, dell'ambiente e dell'energia: in generale di quel grande bene comune, oggi in grave pericolo, che è il territorio del Belpaese.

Poche giorni fa era il decennale della morte di Antonio Cederna, l'antesignano della concezione, adesso assai diffusa, che lega l'urbanistica alla difesa del territorio e del paesaggio. Nelle appassionate denunce dell'ambientalista c'erano elementi che si sono rivelati drammaticamente evidenti negli anni più recenti, come l'incapacità di modernizzare il Paese in ossequio alle regole dettate dai caratteri di quei beni finiti e deperibili che sono il territorio, l'ambiente e il paesaggio. Con l'aggravante che spesso ciò - già di per sé inaccettabile - non avveniva di fronte a reali istanze di sviluppo emergenti dalla società italiana, ma per privilegiare gli interessi (e le disinvolte politiche gestionali, errori macroscopici compresi) delle lobby monopolistiche che dai centri di potere del sistema industriale e, adesso soprattutto, bancario, privato e pubblico, controllavano (come continuano a fare) alcuni settori chiave dell'economia, tra cui l'auto, l'energia, la chimica, la termomeccanica e principalmente le costruzioni.

Se guardiamo ai proponenti e ai gestori delle grandi opere previste dalla Legge Obiettivo di Berlusconi (attorno alla quale sono riproliferate anche le holding di progettisti, cui oggi neppure la mafia è estranea: «Per il ponte non c'è bisogno di aspettare appalti che forse non arriveranno mai», si diceva), o quelli che stanno dietro il Mose o gli impianti a gas, centrali e rigassificatori o i termovalorizzatori, troviamo questa tipologia di soggetti. Non meraviglia che Antonio Di Pietro, allorché si tratta delle opere pubbliche, metta da parte i Valori dell'Italia e sostenga che «fosse per lui, realizzerebbe tutto il programma del precedente governo» se solo gli «avessero lasciato qualche euro» (e meno male!): visto che tra l'altro continua ancora ad essere attorniato dagli stessi dirigenti promotori e titolari del «fantasmagorico» programma infrastrutturale di Lunardi. E tra l'altro nell'ambito di un governo in qualche modo costretto all'efficienza da problemi di budget, ma che sembra incapace di prospettare logiche diverse. Così, se il Ponte viene accantonato, ma solo come «non priorità», il Mose rallenta, ma non si ferma, perpetuando le spese per un progetto dai mille problemi irrisolti, le cui risorse potrebbero essere più utilmente destinate alle urgenze, per esempio dei Comuni o dell'Università. Neppure l'Alta velocità Torino-Lione viene ufficialmente bloccata, anche se la sua unica utilità acclarata sembra quella di far sfrecciare merci a trecento all'ora in Val Susa: si riesce, forse, al massimo a concedere la procedura integrale di Via. Ma per i problemi enormi di molte altre situazioni, dal nodo fiorentino del primo tronco dell'alta velocità agli stessi sfasci dei cantieri del Mugello, ai rigassificatori, agli inceneritori, cambia poco o nulla.

Ebbene, a Roma si manifesta per una svolta rispetto a tutto questo. I sindaci, i comitati, le associazioni ambientaliste e non, che arrivano dalla Val Susa e dalla Sicilia, da Venezia e da Brindisi, da Civitavecchia e dalla Brianza, chiedono che il governo colga, interpreti e finalmente assuma l'innovazione politica, sociale, culturale e scientifica che arriva dai territori del Belpaese. I quali denunciano che, nell'era dell'infotech e della sostenibilità, non si può tollerare oltre il saccheggio di quello che resta del territorio italiano ad ipotesi di sviluppo obsolete e speculative che propongono attrezzature spesso inutili, senza domanda sociale, insostenibili; e che alimentano, tra l'altro, un'urbanizzazione infinita, pervasiva, inarrestabile, che cancella ecologie, storia, natura, economie dei diversi «cortili d'Italia».

Si mettano da parte le infrastrutture della Legge Obiettivo e le altre opere dannose. Si proceda ad un nuovo piano dei trasporti, basato sulla reale domanda sociale di mobilità, partecipata e sostenibile.

Analogamente, Regioni, Province, Municipi disegnino dal basso i propri nuovi scenari territoriali e paesaggistici, energetici e trasportistici. Anche per promuovere uscite intelligenti dalla crisi economica, basate sulla tutela e valorizzazione dei beni comuni.

Chi, venendo da Verona e prima di attraversare il ponte sul Mincio, si ferma di fronte alla sagoma della città di Mantova resta impressionato per come una serie di elementi architettonici che vanno dal tardo Medioevo al Rinascimento riescano a comporre un paesaggio urbano armonico per compattezza e decoro, con la mole del Castello di San Giorgio e le mura del Palazzo Ducale. Ora questa percezione, che nei secoli si è consolidata, potrebbe essere seriamente intaccata.

Le mura mantovane traggono molto del loro significato estetico dal contesto - il Lago di Mezzo, innanzitutto. E poi dal verde dei pioppi che, sull´altra sponda rispetto alla città, si spinge fin quasi nell´acqua. È qui, in un´area pianeggiante di poco più di 30 ettari - Strada Cipata, si chiama - che dovrebbe sorgere un grande insediamento, villette e palazzine, soprattutto, ma anche parcheggi ed edifici per uffici. Mitigati, stando alle intenzioni dei progettisti, da un parco di 10 ettari che, si dice, rivaluta tutta la zona. In totale, secondo alcune stime, la volumetria dell´intero complesso ammonterebbe a 320 mila metri cubi, che dovrebbero ospitare intorno a 1.200 persone ("tre Hilton", sarebbe sbottato Antonio Cederna, che usava l´albergo romano con i suoi 100 mila metri cubi come indice di imponenza e di bruttura edilizia). Un quartiere residenziale, insomma, che si specchierebbe nel lago, ma che si squadernerebbe proprio davanti alle possenti torri del Castello di San Giorgio e davanti agli occhi di chi si affacciasse dal Cortile della Cavallerizza, alle spalle del Palazzo Ducale, che custodisce le opere di Mantegna, Pisanello, Giulio Romano e quindi l´essenza del Rinascimento italiano.

In realtà il panorama intorno a Mantova venne già alterato quando furono issate le ciminiere del grande polo petrolchimico. Ma la nuova lottizzazione viene vista da chi la contesta come una gravissima deformazione della prospettiva di cui Mantova ha goduto da sempre. In prima fila fra gli oppositori è l´attuale sindaco della città, la diessina Fiorenza Brioni, sindaco da un anno e mezzo. E qui si inciampa in un paradosso: la Brioni è alla guida di un´amministrazione di centrosinistra subentrata ad un´altra amministrazione di centrosinistra - sindaco sempre un diessino, Gianfranco Burchiellaro - che quel progetto approvò e sostenne in modo convinto.

È una storia complessa. Il progetto, firmato dalla società immobiliare Lagocastello, venne presentato alla fine del 2004, ma per approvarlo era necessario varare un piano urbanistico ad hoc. Cosa che il consiglio comunale fece a tappe forzate: le elezioni erano fissate per la primavera del 2005. Si racconta che all´ultima seduta utile i consiglieri della maggioranza vennero blindati purché andassero a votare. Un esponente dei Ds, in ospedale per assistere un parente, fu mandato a prendere da un auto dei vigili. Più volte mancò il numero legale che poi venne raggiunto grazie a due esponenti del centrodestra. E così il piano venne approvato.

In campagna elettorale il nuovo candidato sindaco non ha fatto mistero di voler cancellare quel progetto. E non è stato semplice chiedere agli elettori di votare in nome della continuità politica, distanziandosi però da una scelta urbanistica fra le più rilevanti nella storia recente della città. Fiorenza Brioni ha vinto al ballottaggio con un largo margine e appena si è insediata in Comune ha cercato il modo di fermare la cementificazione. Si è accorta subito, però, che la strada non era in discesa. Il consiglio comunale aveva dato il suo assenso. E tutto sembrava in regola. Intanto era subentrato un altro problema. I sei consiglieri dei Ds hanno minacciato di voltare le spalle al nuovo sindaco se non fosse stato confermato l´assessore all´urbanistica della precedente giunta, grande sostenitore dell´insediamento di strada Cipata. La Brioni ha tenuto duro, pagando però un prezzo in termini politici molto alto: la sua maggioranza è apparsa subito molto incerta e tale resta.

La lottizzazione aveva comunque un punto debole, balzato agli occhi di un consigliere di Rifondazione, Matteo Gaddi, e a quelli di Paolo Rabitti, ingegnere, esperto di normative urbanistiche: l´intero progetto avrebbe dovuto essere sottoposto alla Via, la valutazione di impatto ambientale. Perché superiore, spiega Rabitti, ai 10 ettari e perché compreso dentro il perimetro del Parco del Mincio, una zona delicatissima. Ma c´è un altro punto preoccupante. L´insediamento confina con l´aera del petrolchimico, che in base alla cosiddetta Legge Seveso, è considerata «a rischio di incidente industriale rilevante». Quell´area è soggetta a bonifica, perché gravemente inquinata da una serie di componenti chimiche che vanno dal mercurio ad altri clororati cancerogeni.

Fiorenza Brioni ha quindi firmato un´ordinanza con la quale si sospendono i lavori del cantiere, che nel frattempo erano stati avviati. Anche la Regione Lombardia ha emesso un decreto per imporre una Via. Entrambi i provvedimenti, però, sono stati impugnati dalla proprietà, che ha ottenuto dal Tar la loro sospensione. Contemporaneamente il sindaco si è anche rivolto al Ministero, chiedendo se il Parco del Mincio rientra o meno fra i parchi nei quali gli interventi edilizi devono essere sottoposti alla Via. La lettera è stata scritta nel novembre del 2005. Altero Matteoli, ministro del governo Berlusconi, non le ha mai risposto. Ma neanche Alfonso Pecoraro Scanio, titolare del ministero con il centrosinistra, si è fatto vivo.

Gli sbancamenti sono in corso. Ma il sindaco spera che il ministero si esprima al più presto. E che si possa salvare, nell´anno in cui si celebra Andrea Mantegna, la cornice paesaggistica nella quale Mantova ha sempre vissuto e che è il naturale contesto dei suoi gioielli.

Ci siamo dati sette mesi, scadenza fine aprile 2007. Sette mesi per riuscire a convincere il governo Prodi di fare del vivere insieme, della promozione dei beni comuni, l'orientamento nuovo, marcante, dell'agenda politica italiana e - se possibile - europea dei prossimi cinque anni. Per questo, i sette mesi serviranno per far prendere le decisioni di principio che consentiranno la realizzazione dell'obiettivo res publica sull'arco di tempo 2006-2010. L'obiettivo è quello di far sì che il governo Prodi si impegni ad operare per l'inversione dei processi attuali di mercificazione della vita, di finanziarizzazione dell'economia e di privatizzazione del politico, ridando la priorità alla giustizia sociale fondata sui diritti umani e sulla sicurezza, ad una vita umanamente degna per tutti i cittadini, attraverso la promozione (e finanziamento) dei beni comuni essenziali ed insostituibili alla vita, al vivere insieme, al miglioramento qualitativo delle condizioni di esistenza, anche nell'interesse delle generazioni future.

In che modo? Cercheremo di ottenere entro aprile 2007 la creazione di un Segretariato di coordinamento nazionale dei beni comuni sotto la responsabilità della Presidenza del Consiglio, come primo passo fondatore - sul piano politico-istituzionale e simbolico - del cammino di reinvenzione della res publica. Il compito del segretariato sarà quello di stimolare e coordinare le iniziative delle istituzioni pubbliche (governo, regioni, province e comuni) e degli operatori economici e sociali (imprese pubbliche, terzo settore, sindacati, movimenti ed associazioni) rivolte a promuovere i beni comuni, al fine di identificare, valutare e proporre gli strumenti giuridici, istituzionali e finanziari più idonei alla loro realizzazione e sviluppo. Si pensa, fra altre azioni che dovrebbero essere promosse dal Segretariato, all'organizzazione di Conferenze programmatiche regionali sui Beni comuni e ad Ateliers di progettazione.

Considerato lo stato attuale delle cose, proponiamo di concentrare i percorsi da compiere sul cammino della nuova res publica su quattro direttrici: 1) l'acqua, valorizzando l'eccezionalità conferitale dal governo Prodi nell'escludere i servizi idrici dai processi di liberalizzazione e far sì che non passi la sua privatizzazione e mercificazione attraverso altre disposizioni. Quel che è in gioco, attraverso l'acqua, è la sacralità della vita; 2) l'energia e l'ambiente, i due grandi campi del vivere insieme sui quali si sta giocando il futuro delle nostre economie e della civiltà urbana; 3) la conoscenza, «spirito» dell'essere umano e cultura di ogni comunità, non essendo più accettabile la sua attuale appropriazione privata e mercificazione. Ne va dell'educazione. L'università sta diventando, anche in Italia, una impresa di produzione, vendita e distribuzione di saperi mercificati. La mercificazione della conoscenza significa quella della salute e, quindi, la sparizione del diritto alla salute; 4) la bellezza, o quel che resta del Bel Paese che non è stato ancora fagocitato da una logica finanziaria di valorizzazione turistica puramente commerciale, sia di lusso che di massa.

Due i nostri alleati principali. I membri oggi al Governo ed in Parlamento. Non è saggio né giustificato pensare che i nostri amici al governo ed in parlamento siano oramai dall'altra parte. Anzi, queste settimane dimostrano il contrario, malgrado certi limiti e certe contraddizioni. Sta anche a noi non abbassare la guardia e fornire proposte e contenuti innovativi nonché sostegno popolare, mantenendo una forte capacità critica costruttiva. L'altro alleato sono le reti dei movimenti impegnati in particolare lungo le direttrici menzionate (acqua, energia/ambiente, conoscenza/educazione/salute, bellezza). Si continuerà nei prossimi giorni a promuovere l'iniziativa res publica già lanciata grazie a il manifesto e a Carta.

Milano, la capitale della deregulation urbanistica, fucina di immensi livori nei confronti di qualsiasi forma di pianificazione, la «città del pragmatismo» che ha gestito la trasformazione postindustriale degli ultimi decenni giustapponendo allegramente i progetti parziali man mano che venivano proposti, comincia improvvisamente a emettere segnali sovversivi. Con il progetto di una cintura di bosco intorno a Milano, promosso da provincia, regione e comune Stefano Boeri sdogana un modo di pensare la città, fondato su una visione unitaria a lungo termine e sulla comprensione della complessità, oramai desueto tra gli intellettuali e gli amministratori milanesi e più in generale italiani.

Dopo anni di muro contro muro, le rivendicazioni dei facinorosi abitanti dell'Isola, il quartiere simbolo delle battaglie civiche contro la speculazione e il fenomeno della gentrification, vengono accolte nell'insperata revisione del progetto originale Isola-De Castilla, anch'essa affidata allo Studio Boeri. E il nuovo sindaco (Letizia Moratti! Tant'è) assesta un colpo ferale alla monocultura dell'automobile, associata inevitabilmente alla sete di parcheggi e alla fuga nelle villette in campagna, lottando per l'introduzione del ticket anti-inquinamento per i mezzi di trasporto dei non residenti. A questo punto diventa lecito chiedersi che cosa stia succedendo, se gli elementi di questo puzzle rappresentino i germi plausibili di una rivoluzione copernicana o una triste apertura al politically correct.

Nonostante l'evocativa analogia con la Congestion Charge e la Green Belt, il paragone con le felici vicende urbanistiche di Londra non è pertinente, perché le soluzioni inglesi fanno parte di una strategia complessa enunciata nel London Plan, a sua volta espressione di una volontà politica ben precisa, mentre quelle lombarde sono di fatto episodi concepiti in momenti e contesti diversi, frutto di istanze eterogenee e persino contraddittorie.

Il Metrobosco progettato da Boeri è una fascia boschiva di profondità variabile che non si limita a collegare il sistema di parchi e cascine localizzato nelle aree perimetrali della città - Parco Nord, Parco Lambro, Forlanini e a ovest Bosco in città, parco delle Cave, Cascina di Prezzano e Parco dei Fontanili, fino a Parco Sud - ma prevede l'integrazione di aree agricole e soprattutto un'imponente opera di riforestazione, in parte anche da destinare a bosco produttivo, per un totale di 3 milioni di alberi su un'estensione di 30.000 ettari. La sua realizzazione comporterebbe, oltre ai prevedibili benefici nei termini di quantità di ossigeno, qualità paesaggistica, tutela del territorio, un grande vantaggio strategico: «Guardare Milano dal punto di vista degli spazi aperti - afferma Boeri - significa capovolgere la prospettiva del policentrismo edilizio e delle concentrazioni funzionali, puntare l'attenzione sulle relazioni sociali e sui flussi vitali di una metropoli. Significa ragionare sul senso di una città progettandone prima di tutto gli spazi collettivi, i luoghi di incontro, i punti di condensazione della vita sociale e i nodi di scorrimento delle folle metropolitane».

Si tratta dunque di un piano sviluppato a partire dai vuoti invece che dai blocchi edilizi, una novità assoluta nella prassi milanese e al tempo stesso un'idea che ha ossessionato a lungo Giancarlo De Carlo - e del resto il suo modello della città-turbina, elaborato negli anni '60 nel contesto dei dibattiti sul Piano Intercomunale Milanese è uno degli archetipi del Metrobosco. Tuttavia l'aspetto più dirompente dell'anello verde è costituito dal fatto che la sua presenza assume di necessità lo status di confine: «È un confine poroso, naturalmente, permeabile, da attraversare lentamente a piedi o in bicicletta o a tutta velocità percorrendo le arterie radiali di Milano», aggiunge Boeri. Il suo valore è soprattutto simbolico, rappresenta un argine contro il continuo urbano esteso da Torino a Venezia, e una discontinuità rispetto a quel filone di pensiero, finora dominante, che ne elogia la produttività.

L'eliminazione di una barriera reale è invece uno dei punti fondamentali della revisione del progetto Isola-Lunetta, parte della ricchissima opera di sistemazione dell'area Garibaldi-Repubblica con annessi Giardini di Porta Nuova, Città della moda e nuova sede della regione. Il popolare quartiere Isola, tuttora circondato da infrastrutture e aree abbandonate che lo rendono poco accessibile dall'esterno, è sempre stato considerato la pecora nera del piano. Tutti i progetti e i concorsi che si sono avvicendati sull'area (il masterplan, redatto da Pierluigi Nicolin, risale a vent'anni fa) hanno mantenuto il quartiere rigorosamente separato dal prestigioso parco per mezzo di una nuova strada a scorrimento veloce e di un'enorme quantità di cubature date in permuta ai proprietari dei terreni su cui sorgerà lo stesso parco. Gli abitanti hanno ricambiato con una mobilitazione accanita che ha prodotto un caso «scomodo».

La revisione dello Studio Boeri prevede un pesante ridimensionamento e la redistribuzione delle cubature, la soppressione della strada-barriera e la creazione di un nuovo giardino pubblico contiguo al parco, oltre alla conservazione di alcuni edifici del tessuto storico: un buon risultato, ottenuto anche grazie al recupero dello straordinario lavoro di progettazione partecipata svolto dal gruppo coordinato da Giancarlo De Carlo per il concorso (perso) dei Giardini di Porta Nuova (documentato nel libro La costruzione di un progetto, Alinea editrice, 2004).

Verrebbe naturale pensare che il committente della revisione sia l'amministrazione pubblica, decisa a porre rimedio - seppure tardivamente - allo scempio programmato e a farsi carico delle esigenze di un esasperato gruppo di cittadini. Invece a chiamare Boeri è stato Manfredi Catella, amministratore delegato dell'immobiliare Hines, e per giunta, con un totale ribaltamento dei ruoli, è toccato a lui porre dei vincoli qualitativi all'indifferente Comune. Non è stato un oscuro progetto di riforma sociale a indurre una società immobiliare a un comportamento apparentemente tanto anomalo, ma la constatazione che la qualità di un progetto del genere doveva necessariamente tenere conto dell'aspetto sociale, oltre che delle soluzioni tecniche ed estetiche. In altri casi, per ragioni più o meno legate alla promozione d'immagine, le società offrono tecnologie ecosostenibili o spazi pubblici, ma la committenza pubblica sembra sempre più confinata al ruolo di passacarte.

Gli abitanti delle villette brianzole e gli sviluppatori possono dormire sonni tranquilli, per ora non ci sono elementi sufficienti per una svolta radicale: la rendita fondiaria resta il motore principale della trasformazione e la conurbazione Milano-Torino è oggi considerata uno degli agglomerati economicamente più efficienti d'Europa, e come tale è rappresentata anche in Biennale. Tuttavia il fatto stesso che questi progetti abbiano potuto essere concepiti e diffusi e che raccolgano consensi è tutt'altro che irrilevante. Sono i primi, importanti colpi inferti a un mondo culturale che per anni ha sostenuto le ragioni del buonsenso ambrosiano, della prospettiva a breve termine, della «mancanza di visione».

Nota: su Mall anche un breve dibattito sugli aspetti effettivamente " ambientali" di Metrobosco (f.b.)

Maria Novella De Luca "Allarme abusivismo e incuria" l´Unesco boccia i siti italiani

Vedremo qualche segno di civiltà dal centrosinistra al centro e in periferia, oppure continueranno a cercare le grandi firme? Da la Repubblica del 13 settembre 2006

ROMA - «Sapete quale è l´ultima beffa? Case costruite su terreni vincolati, in aree definite patrimonio dell´umanità, e poi vendute con il marchio Unesco come valore aggiunto. Senza vergogna...». Scherza amaro il professor Giovanni Puglisi, presidente della commissione italiana per l´Unesco, riferendosi alle nuove speculazioni edilizie della Val D´Orcia, alla fine di un´estate dove gli allarmi sul degrado dei siti inseriti nelle liste del world heritage, sono diventati una vera e propria emergenza. Dai centri storici snaturati dal turismo di massa come San Gimignano, che ad agosto ha registrato un tale incremento di presenze "mordi e fuggi"da far temere per la sopravvivenza del borgo stesso, alle 42 villette con piscina pronte ad essere edificate a Corniglia, nelle Cinque Terre, in quel fragile lembo di Liguria ancora immune (quasi) dagli sfregi del cemento, l´intera lista italiana dei 41 siti che vantano il marchio di patrimonio dell´umanità gode di cattiva salute. L´ultima notizia, in ordine di tempo, arriva da Matera, dove Legambiente ha denunciato la costruzione di un parcheggio sotto i Sassi, inseriti nella lista Unesco nel 1993, recuperati, restaurati, ora di nuovo in pericolo.

Ma questi sono solo gli ultimi esempi, perché ricorda Giovanni Puglisi, «ci sono luoghi non soltanto a rischio ma che potrebbero essere espulsi dalle liste del patrimonio mondiale, come Lipari, dove tuttora non è risolta l´annosa questione delle cave di pomice, o l´area delle Ville Palladiane, se verrà approvato il progetto di un´autostrada che dovrebbe tagliare in due tutta la zona, e quindi distruggere giardini e paesaggi». E perdere il "marchio" Unesco non è cosa da poco se si pensa che poter scrivere su un depliant che quel borgo, quel castello, quel centro storico, quell´isola fanno parte del world heritage, fa aumentare del 30% i flussi turistici. E invece è proprio a ridosso di quei siti che si concentra la corsa al mattone, si continua a costruire attorno, vicino, a ridosso all´opera d´arte, per riuscire a portare il turismo dei pullman e dei grandi numeri proprio sul luogo, quasi dentro l´area archeologica, incuranti di vincoli e bellezza, come è avvenuto nella Valle dei Templi ad Agrigento. Ma che cosa può fare l´Unesco? Puglisi è realista: «Io sono sommerso da un martellamento costante di segnalazioni di abusi e violazioni, che possono portare anche all´espulsione dalle liste. Eppure questo non sembra essere un deterrente abbastanza forte, perché in realtà si continua a costruire dappertutto, ad ogni condono edilizio c´è un pezzo di Italia che scompare. Attenzione, non è giusto museificare i luoghi artistici e storici, ma so deve fare una tutela vera, a cominciare da un turismo di flussi programmati, quella che io chiamo versione omeopatica del numero chiuso».

In realtà quello che sta succedendo è che si cominciano a vedere gli effetti del condono approvato dal governo Berlusconi, l´edilizia sembra avere un nuovo boom, una valanga di cemento che non risparmia neppure, appunto, i siti patrimonio dell´umanità. Ma l´attacco al Belpaese non è appannaggio soltanto del centrodestra. A Monticchiello è un sindaco Ds a difendere il nuovo insediamento abitativo di 95 villette già in costruzione alle porte del minuscolo borgo di 150 abitanti, affermando che si tratta di case per le giovani coppie del paese, altrimenti costrette ad emigrare. E forse era questo il progetto iniziale, eppure le vendite sul mercato locale sono state pochissime, e le abitazioni vengono invece cedute a stranieri e forestieri anche, come raccontava Giovanni Puglisi, con la segnalazione che si tratta di appartamenti che «sorgono in una zona definita patrimonio dell´umanità». A Corniglia la battaglia sui seimilacinquecento metri quadrati di villaggio turistico che dovrebbe essere costruito su un pezzo di costa a ridosso di una collina franosa, è tutta interna alla sinistra, che difende il progetto, e gli ambientalisti che, in parte, cercano di impedirne l´attuazione.

Sono soltanto alcuni casi. Perché si dovrebbe parlare di Ercolano, del Cilento, della Costiera Amalfitana... «Il marchio dell´Unesco - conclude Puglisi - ha una forte valenza culturale e simbolica, e la commissione può decidere di espellere dalla lista i siti non adeguatamente tutelati, ma sugli abusi devono intervenire le soprintendenze e le procure della Repubblica, e ci vogliono sanzioni forti». Chissà. Per adesso tra le "vestigia" dell´umanità spuntano residence, alberghi, casette a schiera e campi da tennis.

SALTI sulla sedia chi credeva che col centrosinistra si cambiasse musica in tema di beni culturali: fra le idee "nuove" che il governo Prodi avanza sulla "modernizzazione" del Paese (nel disegno di legge presentato dal ministro Nicolais il 5 settembre), rispunta, impudicamente scopiazzata dal peggior Tremonti d’annata, l’idea sgangherata e perversa del silenzio-assenso in materia di beni culturali.

Sarà bene ricordare che negli anni del centrodestra il principio del silenzio-assenso fu introdotto, calpestando la Costituzione, prima a proposito delle alienazioni di beni culturali pubblici, e poi per favorire i costruttori privati. Ripercorriamo quei due momenti prima di valutare la brillante idea (si fa per dire) del ministro della Funzione pubblica.

Nella scorsa legislatura si cominciò con il D. L. 269/2003, affiancato dall’emendamento Tarolli alla Finanziaria 2004. Il Codice dei Beni Culturali era allora in dirittura d’arrivo, e prevedeva in caso di vendita di beni pubblici la prevalenza dell’accertamento dell’interesse culturale senza iugulatori limiti di tempo; ma prima ancora dell’approvazione del Codice quel principio fu vergognosamente capovolto in silenzio-assenso, secondo cui se di qualcosa non si dichiara velocissimamente l’interesse culturale, vuol dire che non ne ha affatto, che non ne avrà mai più, che si può vendere impunemente. Sia la Commissione Cultura del Senato che quella della Camera, entrambe con maggioranza di centrodestra, osservarono l’incoerenza fra il dettato della Finanziaria e quello del Codice, raccomandando al governo che avesse la meglio il Codice in quanto rispondente ai principi della Costituzione; ma il Consiglio dei ministri fece l’opposto, e secondo il dikat di Tremonti inserì il silenzio-assenso nel Codice. Cominciò allora una battaglia contro il silenzio-assenso, universalmente deprecato dalla sinistra allora all’opposizione. Alla fine, su proposta di una commissione insediata dal ministro Buttiglione, il governo cancellò il silenzio-assenso dal Codice con un decreto di fine legislatura (156/2006).

Nasceva però intanto un’altra applicazione del silenzio-assenso, stavolta in beneficio di chi voglia edificare presentando una DIA ("dichiarazione di inizio attività"), e cioè un’autocertificazione che sostituisce il nullaosta amministrativo (a meno che l’amministrazione competente non vi si opponga entro 90 giorni). La legge 537/1993, in ossequio alla Costituzione, escludeva espressamente i beni culturali dall’ambito di applicazione, ma nel febbraio 2005 il centrodestra, contrabbandando il provvedimento come "semplificazione della regolamentazione", provò a sopprimere l’eccezione: per la prima volta nella storia d’Italia, in tal modo, l’intero sistema della tutela non sarebbe stato governato né dalla Costituzione né dalle apposite leggi, bensì da autocertificazioni e dal pessimo principio del silenzio-assenso. Anche allora, grande mobilitazione della sinistra, delle associazioni, dell’opinione pubblica contro quella proposta, caldeggiata dall’allora ministro della Funzione pubblica, Baccini. E anche quella volta, il governo Berlusconi dovette fare marcia indietro: secondo la L. 80/2005 furono esclusi dal silenzio-assenso «gli atti e i procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico e l’ambiente», oltre a quelli sulla sicurezza nazionale, la difesa, la sanità.

Inutile battaglia. Inutile cambiare governo e colore politico, visto che il "silenzio-assenso" proposto da Nicolais è identico a quello di Baccini: ora come allora, vuol dire che se la risposta all’autocertificazione di un costruttore non giunge "entro il termine perentorio di 90 giorni dal ricevimento della richiesta", la richiesta si intende accolta. Anche se comporta la distruzione (ovviamente irreversibile) di un’area archeologica o di un paesaggio, lo sventramento di un palazzo barocco, la riconversione di una chiesa medievale in discoteca, l’edificazione di un condominio su una spiaggia protetta. E questo mentre le Soprintendenze sono ormai coperte per circa il 40% per reggenza a causa della cronica mancanza di assunzioni; mentre l’età media del personale è intorno ai 55 anni; mentre mancano in musei e soprintendenze il tempo per l’ordinaria amministrazione, i soldi per pagare la luce e il telefono. La ridicola foglia di fico della proposta Nicolais, secondo cui in un indeterminato futuro si potrà forse stabilire (con regolamenti di là da venire) quali atti sul patrimonio culturale e paesaggistico potrebbero sfuggire al silenzio-assenso, non ingannerà nemmeno i più ingenui.

Scopriamo adesso, grazie al ministro Nicolais, che il silenzio-assenso sui beni culturali, pessima barbarie se fatta dal centrodestra (che peraltro lo ha, seppur tardivamente, abolito), in mano al centrosinistra diventa modernizzazione progressista. Andando avanti di questo passo, diventerà di sinistra vendere i beni del demanio culturale, cosa orripilante quando voleva farlo la destra? Ci convinceremo che i tagli ai beni culturali, ma anche alla ricerca, all’università, al teatro e alla musica, se fatti dalla destra sono deplorevoli, se li fa la sinistra vanno accolti con giubilo? Che i musei di Stato vanno privatizzati, purché sia la sinistra a farlo? Che il saccheggio del territorio e la distruzione del patrimonio culturale e del paesaggio sono diventati "di sinistra"?

Il silenzio-assenso in tema di beni culturali è contrario all’art. 9 della Costituzione, come espressamente dichiarato dalla Corte Costituzionale in almeno cinque sentenze: in questa materia "il silenzio dell’Amministrazione preposta non può avere valore di assenso" (sentenza 404/1997). Come ha ben spiegato un eccellente giurista, Silvio Martuccelli, sul Sole-24 ore del 9 maggio 2004, è questo uno strano modo di utilizzare il silenzio-assenso. Nato per tutelare il cittadino dinanzi all’inerzia della pubblica amministrazione, per una sorta di eterogenesi dei fini diventa un espediente tecnico attraverso il quale lo Stato, a danno della collettività, elude i vincoli della tutela dei beni culturali. Il silenzio, continua Martuccelli, non ha di per sé alcun significato giuridico. È il legislatore che sceglie se attribuirgli un significato, e quale. Se (nel caso della tutela dei beni culturali, paesaggistici, ambientali) il legislatore vuol privilegiare l’interesse a tutelarli, allora attribuirà all’eventuale silenzio dell’amministrazione il valore di un diniego; se - come vuole Nicolais in piena sintonia con Tremonti e Baccini - gli dà invece valore di assenso, è chiaro che ritiene secondario l’interesse pubblico della tutela rispetto a quello privato di chi voglia spianare dune, devastare boschi e coste, annientare zone monumentali e archeologiche. Perciò va denunciata con forza, col centrosinistra proprio come col centrodestra, l’assoluta illegittimità costituzionale di questa norma, scritta in totale spregio dell’art. 9 della Costituzione.

Contro il silenzio-assenso di Tremonti e contro quello di Baccini, l’allora ministro Urbani provò a battersi, perdendo la prima battaglia ma vincendo la seconda; l’allora presidente Berlusconi non rispose nemmeno alle proteste di associazioni, stampa, società civile. In questo che rischia di essere il primo atto significativo del governo Prodi sui beni culturali, sia lecito sperare che il presidente del Consiglio blocchi una manovra indegna della sua cultura e del suo governo; e che il ministro Rutelli (che è anche vicepresidente del Consiglio) voglia battersi con decisione, e sappia vincere.

Occorre una buona dose di immaginazione per far credere di fondare una città tra Verona e Mantova, nominarla «Vema» e pensare che lì possano andare a vivere trentamila persone. Tra quelle due città, dove ancora l'agricoltura convive con un'industria aspramente ristrutturata, chi lì investe i proventi delle sue attività imprenditoriali nella rendita immobiliare, lo fa senza troppa enfasi e «Vema» sarebbe considerata semplicemente un'estesa lottizzazione. Purtroppo una parte della cultura architettonica italiana sembra preferire questi mezzi per affermare la sua vitalità, quando non è in difesa e grida sui giornali allo scandalo per i troppi incarichi assegnati agli architetti d'oltralpe o all'attacco del ministro Bersani per opporsi alla concorrenzialità dei loro servizi professionali.

Di «speranze progettuali» se ne producono molte, ogni giorno di inutili, e passerebbe inosservata anche quest'ultima se a promuoverla non fossero il ministero dei beni per le attività culturali, attraverso il Darc, la Direzione generale per le arti e l'architettura contemporanee, e la Biennale di Venezia che espone in una parte dell'Arsenale questo anacronistico quanto sterile esercizio accademico. Un'operazione vuota di significato che però contribuisce ad avvalorare la tesi che si può fare a meno di tutta la cultura urbanistica che fino ad oggi è stata prodotta per assegnare all'opera di un architetto-fondatore la costruzione in vitro di un luogo-modello per il nostro abitare prescindendo da qualsivoglia fattibilità sia tecnica sia economica. Nessun interesse ha la storia della città che può essere facilmente sintetizzata e svolgersi in schemi planimetrici sulla lunga parete davanti al plastico e agli stands dei giovani architetti selezionati per elaborare ognuno una porzione o funzione di «Vema». Dalla città futurista di Sant'Elia a quella «analoga» di Rossi, dalle «città nuove» del fascismo a quella megastrutturale del gruppo romano Metamorph (1963), dagli insediamenti dell'edilizia popolare del dopoguerra alle prove dell'urbanistica razionalista, la storia si riduce ecletticamente a un inventario indifferente di figure e modelli oppure a evocazione mitica, come nel caso della celebrazione del centenario del «Gruppo 7» da far coincidere tra vent'anni con l'esecuzione di «Vema». Tutto a un tratto è come se fossero transitate invano in questo mondo figure come Piccinato o Astengo, Michelucci o Rogers, evaporate nel nulla le indagini storico-critiche sulla metropoli compiute proprio nell'università del capoluogo lagunare da Tafuri, Cacciari, Manieri-Elia, Dal Co, in una stagione felicissima di studi intorno il pensiero filosofico e sociologico di Benjamin, Simmel, Sombart, Endell. Insomma sembra che il progetto urbanistico, fatto di riflessioni, studi, analisi, redatte per i numerosi piani regolatori delle più importanti città italiane, da Campos Venuti, Secchi, Indovina, Benevolo, non sia mai esistito, che la storia urbana e urbanistica del nostro paese si sia occultata, suggestionati dalle parodie del moderno, per dare spazio allo shock mediatico della città-ideale.

Eppure ci aveva già avvertito alla fine degli anni trenta Lewis Mumford che la «salvezza» delle nostre città risiede, allora come oggi, nello «spalancare un nuovo campo di vita e di attività nelle stesse aree metropolitane» e non di «progettare unità chiuse» perché è un «compito senza speranze di riuscita». Invece di riflettere per dare soluzioni immediate agli errori causati da programmi urbanistici sbagliati che hanno prodotto periferie con tipologie edilizie banali, scarne di funzioni sociali e assenti di ogni interesse estetico, c'è chi preferisce allontanarsi dalla città pensando di ricreare dall'origine le condizioni di un abitare migliore, più idoneo di quello prodotto anche dalle più recenti generazioni di piani urbanistici. Del quartiere «Lunetta» a Mantova o delle aree di Verona-sud è bene che se ne occupino gli assessorati per riqualificarli, nei casi di più alto disagio sociale, l'assistenza pubblica, se c'è qualche possibilità di profitto il mercato. Per i giovani gruppi di architetti italiani scelti da Purini per progettare «Vema» - di alcuni ne seguiremo con interesse il percorso - l'architettura non ha necessità di confrontarsi con un programma e un committente, se non con l'autoreferenzialità di un tema, non possiede finalità di risultato, né intende misurarsi con la società e la storia: è «architettura per l'architettura» per usare una definizione di Ernesto N. Rogers e come tale «non ha senso, come non ha senso nessuna azione umana che si chiude in una tautologia».

Cos'è restato del progetto di Aldo Rossi per l'area mantovana di «Fiera Catena» e di quelli dei partecipanti al concorso internazionale del 1982? In una delle poche aree pregiate della città è stata edificata una «insensata» lottizzazione eseguita pragmaticamente da alcune società immobiliari a dispetto dell'architettura e delle sue scuole. Forse, sarebbe stato utile in quegli anni avere investito meno in poetica e un po' di più nel mestiere. Oggi non assisteremo a questo mediocre spettacolo sul Mincio. Conosciamo bene il paesaggio agrario industrializzato e i centri minori che si dispiegano lì dove «Vema» si vuole fondare e non possiamo che augurarci che la riflessione degli architetti si orienti, dopo la kermesse veneziana, alle questioni urgenti di quei luoghi evitando le inutili e ambigue prove di estetizzazione che già omologano e pervadono le città e il territorio.

L'immagine è di Giuseppe Scalarini: "Un braccio per dare, cento per prendere". Ecco una biografia del mantovano Scalarini

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