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Titolo originale: Consumer Versus Community – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

“Una società di proprietari”. Grazie al presidente Bush, quelle due parole rotolano sulla lingua come fossero una sola. Ma ci sono momenti in cui la nozione di proprietà trama contro l’idea di società: specialmente quando si confrontano nella vita quotidiana delle città americane. Quello di cui l’America ha davvero bisogno è una politica che accenda il sentimento comunitario e la cooperazione fra cittadini, anziché semplicemente insegnar loro a investire la vita nell’ American Dream.

La Società dei Proprietari vuole essere la risposta del XXI secolo al New Deal o alla Great Society: programmi dove il governo aveva un ruolo definito nel migliorare la vita degli americani. Programmi che avevano dei difetti, certamente, ma che promuovevano il lavoro e la responsabilità collettiva. Spingevano gli americani a porre al centro il benessere della comunità, a considerare il proprio destino personale come inestricabimente legato a quello del prossimo.

Quando il Presidente Bush parla della sua Ownership Society, invece, offre un programma che esalta le possibilità del singolo consumatore. La proprietà della casa ne è un esempio perfetto. Pilastro centrale della società dei proprietari, la proprietà della casa è abitualmente dipinta come la più alta forma di cittadinanza alla quale gli americani dovrebbero aspirare.

Questa valorizzazione è sostenuta da una notevole quantità di studi sulla proprietà. L’ossessione inizia con la teoria secondo cui la casa della singola famiglia rappresenta un investimento fondativo per la comunità. Ciò significa, prosegue la teoria, che i proprietari sono meno propensi a muoversi, saranno portati alla manutenzione della proprietà, all’attenzione per l’ambiente del quartiere, di quanto non siano i loro pari, ma inquilini in affitto.

Eppure in tutti i miei anni di impegno in organizzazioni per lo sviluppo economico – oltre ad essere io stesso proprietario di casa – ho visto anche come la proprietà possa spingere la gente a concentrarsi su di sé, a spese della comunità che gli sta intorno.

Nei miei dodici anni a capo di un’organizzazione di base a Central Brooklyn, la maggior parte dei gruppi di proprietari di casa con cui sono entrato in contatto erano del tipo NIMBY ( Not In My Backyard). Erano più appassionati ed efficienti nell’organizzare giri per le case in pietra caratteristiche della zona, e a bloccare vari progetti cittadini in partenza, anziché ad iniziare qualunque programma di beneficio sociale.

Alle assemblee del mio condominio, sono regolarmente trascinato in discussioni in buona fede coi miei colleghi proprietari, inevitabilmente orientate a proteggere il valore della nostra proprietà e i nostri interessi. Quando penso a me stesso in modo ristretto, come proprietario di casa, il mio cortile diventa l’universo. Qualunque cosa, dalla cacca di cane sul mio prato alle case popolari all’angolo, diventa una minaccia. Vengo colto da impulsi di autodifesa, reazionari e gretti che non sapevo di avere.

Siamo chiari: aumentare la possibilità che le famiglie a basso reddito possiedano una casa è senza dubbio uno degli elementi più importanti per la costruzione del benessere, utilizzati dai professionisti dello sviluppo economico comunitario in tutto il paese. In un’economia dove tante persone si sentono escluse, la proprietà della casa spesso offre alle famiglie un rifugio, una fetta di dignità e un modo per esercitare controllo sulle proprie vite e il proprio ambiente.

Ma è comunque fuorviate fare della proprietà della casa un feticcio, conferendole virtù mistiche di misura del valore dell’individuo per la società, in base a ciò che possiede. Se lo scopo della Ownership Society del presidente Bush è quello di creare soggetti che siano responsabili, membri attivi della società, abbiamo davvero bisogno di una leadership nazionale che sappia distinguere il consumismo dalla cittadinanza.

La proprietà della casa è una scommessa di alto profilo. Proponendo un’idea individualista come quella dei buoni scuola o delle assicurazioni private per la sicurezza sociale, la politica interna americana isola sempre più vite familiari e vicende economiche che un tempo erano esperienze condivise da tutti. Contemporaneamente, la nostra cultura incoraggia i ceti operai e medi a concentrare la propria sicurezza finanziaria nella casa familiare. In queste condizioni, l’impegno civico non direttamente legato agli interessi della proprietà diventa un lusso che pochi si possono permettere.

Programmi come la American Dream Downpayment Initiative (ADD), approvata all’unanimità dal Congresso nel 2003 con enorme sostegno bipartisan, offrono sostegni al pagamento degli interessi per famiglie a basso reddito. Ma se la ADD è un’iniziativa valida, sia questa che altri programmi per la proprietà della casa si concentrano esclusivamente nell’ungere gli ingranaggi del mercato immobiliare. Anziché accettare solo i paradigmi del mercato, i progressisti dovrebbero guardare alla Ownership Society per quello che realmente è. Così gli strumenti potrebbero diventare nelle mani dei professionisti di sviluppo locale mezzi per promuovere modelli come i land trusts o le cooperative a proprietà indivisa, forme di proprietà alternative che consentano agli abitanti di condividere e diffondere sia i rischi che i benefici della proprietà.

Nello stesso modo, quando si parla di rimuovere gli ostacoli all’accesso alal casa in proprietà, i legislatori dovrebbero tutelare e aggiornare il Community Reinvestment Act e introdurre leggi di giustizia economica contro gli impedimenti discriminatori e strutturali del mercato della proprietà e dell’affitto, come i mutui ad alto costo predatori.

Quando parlano di società dei proprietari, i leaders locali, politici, religiosi, dovrebbero parlare della responsabilità dei proprietari di casa verso i propri vicini, di come si possano usare il capitale e la posizione sociale per ricostruire la comunità che ci sta attorno. Forse, allora, la proprietà di casa potrà essere usata per ispirare qualcosa di più elevato del “Prenditi ciò che è tuo”.

Nota: qui il testo originale al sito Tom Paine Common Sense (f.b.)

Titolo originale: Supreme Court Case Could Affect Baseball Stadium – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

C’è un caso pendente alla Corte Suprema USA che a parere di urbanisti, giuristi esperti del settore, e consiglieri comunali, può decidere la sorte di due importanti progetti economici per il Sud-est, compreso quello dello stadio di baseball.Ci si aspetta che la corte decida nei prossimi mesi, se l’amministrazione locale possa o meno usare il proprio potere di esproprio per trasferire terreni da un proprietario privato all’altro, al solo scopo di trasformazione per usi economici (diversa dall’acquisizione per scopi pubblici come strade o uffici governativi)È stata ascoltata ieri una deposizione sul caso Kelo v. City of New London, Connecticut, e i funzionari del District of Columbia stanno seguendo la vicenda da vicino, preoccupati che possa complicare (o per lo meno aumentare i costi) i progetti per costruire uno stadio di baseball su aree private, e ristrutturare l’obsoleto centro commerciale di Skyland, all’incrocio fra Alabama Avenue e il tratto sud-est della Good Hope Road.”È più facile prendersi un pezzo di terra agricola, tirar giù una foresta, e costruire lì”, nelle aree esterne, dice il sindaco Anthony A. Williams (D), che ieri ha seguito i lavori della Corte da semplice spettatore. “Se vogliamo avere un approccio smart growth, abbiamo bisogno di questo strumento”.Le autorità pubbliche abitualmente usano la facoltà di esproprio per acquisire i terreni necessari ai loro progetti, contando sulla magistratura per fissare un prezzo equo, se non hanno esito positivo i tentativi di accordo con la proprietà. Nel caso citato del Connecticut, il proprietario aveva messo in discussione the il diritto dell’ente pubblico di utilizzare questa procedura al solo scopo di consentire che un diverso proprietario privato facesse un uso differente dei terreni.La città ha bisogno di circa 10 ettari per costruire uno stadio di baseball per i Washington Nationals vicino alle rive del fiume Anacostia, e alcuni dei proprietari dei terreni circostanti non vogliono vendere.”Posto che la Corte [Suprema] decida che ci sono limiti costituzionali alla facoltà di esproprio per scopi privati, il problema è vedere se lo stadio sia davvero una funzione pubblica, oppure un regalo per la Lega Baseball, come dice qualcuno”, afferma Dale Cooter, legale del proprietario di un porno-shop sui terreni dello stadio. “Qui si tratta della lega Baseball travestita da funzione pubblica”. Il proprietario del porno-shop non intende muoversi.

David A. Fuss, avvocato specializzato in questioni urbanistiche allo studio Wilkes Artis, è d’accordo, e dice che “l’effetto ultimo [sulla Città] potrebbe essere che l’esproprio a uso baseball non corrisponda a quello che la Corte Suprema considera pubblica utilità”.”Questo potrebbe portare al blocco dell’intera operazione dello stadio” continua Fuss, e consentire ai proprietari di chiedere qualunque prezzo al comune.Il sindaco Williams non è d’accordo, e sostiene che il precedente di Kelo non riguarda il caso dello stadio, perché la struttura resterebbe di proprietà comunale. Ma aggiunge anche che, se la struttura fosse affittata “a una cifra troppo bassa” alle Lega Nazionale, si potrebbe sostenere che qui si favorisce un privato, rientrando nel precedente di Kelo.”Quello di proprietà è un diritto importante in questo paese” dice Williams, ma aggiunge che qualunque restrizione alle possibilità del comune di usare la facoltà di esproprio “rallenterebbe fino alla paralisi molte attività costruttive”.”Ci sarebbero tante resistenze che diventerebbe impossibile fare qualunque cosa”.Herb Miller, costruttore di edilizia commerciale in città, che ha proposto un piano per finanziare privatamente lo stadio e realizzare un complesso di negozi big-box sui terreni circostanti, dice di aver incaricato consulenti legali per verificare se il progetto possa ricadere nel precedente di Kelo.”Nel nostro caso, mi dicono, la zona attorno allo stadio è degradata ed esistono parecchi casi del genere in cui è stata accettata legittima la procedura dell’esproprio per pubblica utilità”, afferma Miller. Dice, anche di voler tentare un accordo coi proprietari dei 6 ettari fra i tratti sud-est delle strade N e M, per collocare lì i negozi big-box, e che il comune dovrà usare la facoltà di esproprio solo se i proprietari non vogliono vendere.

La decisione della Corte Suprema potrebbe influenzare anche i progetti della città per la ristrutturazione del centro commerciale Skyland, su Alabama Avenue e Good Hope Road, dove alcuni proprietari rifiutano di vendere al comune (che cederebbe le superfici ad altri commercianti di livello superiore). In città si è parlato a lungo di portare lì un negozio Target, ma non si è ami firmato l’accordo con la catena.I funzionari della National Capital Revitalization Corp., organismo semipubblico legato al comune e in prima fila nei progetti di ristrutturazione dello Skyland, dicono di aver in corso negoziati coi proprietari, nella speranza di comperare i terreni senza dover ricorrere alla procedura di esproprio. I proprietari dello Skyland affermano di non volere cedere tramite esproprio, solo perché le superfici siano consegnate a un altro proprietario privato.”Il governo vuole prendersi la mia proprietà e darla a un costruttore privato: credo che l’America non possa tollerarlo”, ci dice Larry Hoffman, proprietario di alcuni piccoli uffici e gestore per conto dei proprietari di circa 5.000 metri quadri di negozi allo Skyland. “Non ho nessun problema, se il governo si prende la mia proprietà per costruirci una strada a uso pubblico ... ma semplicemente darla a un altro che ci fa dei soldi, forse lui è migliore di me?”.

Nota: qui il testo originale al sito del Washington Post (f.b.)

PARIGI - I primi a dover prendere atto del cambiamento epocale che si sta per realizzare intorno al Mont Saint Michel sono stati i piccoli rospi verdi e gialli. Le centinaia di esemplari di «pelodite punteggiato», specie molto rara e protetta, che vivono nella baia sotto al Monte sono stati infatti raccolti da un gruppo di zoologi e traslocati in nuove paludi allestite appositamente per loro. Iniziano i lavori di riconsolidamento della storica roccia granitica, luogo sacro del cristianesimo a picco sulla Manica, tra la Bretagna e la Normandia, che la leggenda vuole sia stata visitata dall' arcangelo Michele. Sarà un' opera idrologica monumentale (220 milioni di euro, fine dei lavori nel 2010) che dovrebbe restituire al promontorio il suo carattere insulare. Da tempo ormai, il Mont Saint Michel, patrimonio dell' umanità e meta turistica di oltre 3 milioni di persone ogni anno, è circondato da una triste distesa sabbiosa. è l' effetto delle maree, che qui sono fortissime (fino a 15 metri di dislivello al giorno) e della strada che ai primi del Novecento fu costruita per portare i pellegrini verso i santuari e l' abbazia, rubando spazio all' acqua. Ma è soprattutto colpa delle diverse dighe costruite sui tre fiumi che confluiscono nella baia. Una volta, erano proprio le acque fluviali, in particolare del più grande Couesnon, che ripulivano la sabbia che le maree portavano dentro alla baia. Poi la mano dell' uomo ha rotto quest' equilibrio millennario e il Mont Saint Michel piano piano si è insabbiato. Fu Francois Mitterrand, nei primi anni Ottanta, a chiedere di far tornare il mare. Il presidente socialista voleva restituire il suo aspetto originario al santuario arroccato fra i venti e le onde, che in altre epoche era per i pellegrini un' apparizione divina. Oggi molta della poesia si è persa, tra distese paludose e il grande parcheggio alle pendici del Monte dove vengono scaricate migliaia di turisti. Sono anni, dunque, che si studia per trasformare la roccia di nuovo un' isola. Il progetto approvato prevede una nuova sistemazione delle dighe sul fiume Couesnon, l' abbattimento delle precedenti costruzioni e la realizzazione di un ponte nella baia. L' obiettivo è spazzare via circa 3 milioni di metri cubi di sabbia e fare lentamente posto all' acqua. Il trasloco dei rospi, insieme ad altre minuscole specie rare che abitano nella baia, è il primo passo. Nelle prossime settimane inizieranno i lavori per il parcheggio e poi, da gennaio, le opere idrologiche. «Alla fine, avremo restituito al luogo un carattere magico, d' altri tempi», assicura Philippe Duron, presidente del comitato pubblico incaricato del progetto. Confiscati alla Chiesa durante la rivoluzione francese, dal 2001 i monumenti di culto del Mont Saint Michel sono di nuovo la casa di una piccola comunità religiosa: sette monaci e cinque suore. Dentro alle mura fortificate della cittadella medievale vivono soltanto 50 abitanti, di cui venti residenti tutto l' anno. Ma c' è un forte indotto in tutta la regione. Il sindaco del rocca, Patrick Gaulois, si è convinto dopo aver ottenuto qualche concessione. Gaulois si è battuto affinché la passerella pedonale sia percorribile a mezzi di soccorso o che devono scaricare merci, e che il parcheggio non sia distante più di un chilometro. Alcuni hanno criticato le sue richieste, considerato che si tratta di salvare un monumento naturale e storico unico al mondo. «Per chi vive sul Mont Saint Michel il turismo è la sola fonte di reddito», si è giustificato il sindaco. Che ha poi rassicurato tutti con un avviso sui giornali: «Turisti e pellegrini - è il messaggio - continueranno ad essere ben accolti per tutta la durata dei lavori».

Titolo originale: Mall Makeover Spurs Critics – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Sin dai primi tempi, il centro commerciale Beverly Connection è stato messo in ombra dal Beverly Center, suo gigantesco vicino dall’altra parte del La Cienega Boulevard. Ma il Beverly Connection ha molto di cui vantarsi: ha ospitato il primo Starbucks della California, aperto nel 1991, e qui c’è il mitico Rexall Square Drug, salutato come “il drugstore più grande del mondo” all’inaugurazione nel 1947.

Ora Starbucks è chiuso, insieme al cinema AMC, al ristorante Daily Grill e a Bookstar. Questa settimana, chiuderà i battenti Ralphs – almeno temporaneamente. Anche Rexall è stato assorbito dalla catena di drugstore Longs.

Il centro Beverly Connection è vittima del boom commerciale degli ultimi anni nella zona del Miracle Mile di Hollywood, dove il nuovo shopping center Grove circa un chilometro e mezzo a est su Farmers Market, e in misura minore il complesso Hollywood-Highland qualche chilometro a nord, si sono portati via gli affari.

Col centro commerciale ora ridotto all’ombra di se stesso, i proprietari propongono una ristrutturazione radicale, da 125 milioni di dollari, che sta già provocando opposizione tra gli abitanti. Si vuole trasformare il Beverly Connection in un insediamento mixed-use costruendo un centro di residenza assistita con 177 alloggi con una sezione per ammalati di Alzheimer, e 62 appartamenti condominiali di lusso.

Ma i residenti sostengono che l’area non può proprio accogliere un altro grosso insediamento: specialmente dopo il Grove e il recente ampliamento del Cedars-Sinai Medical Center.

La battaglia che si sta preparando evidenzia le crescenti difficoltà per i costruttori che tentano di aggiungere residenza ai complessi commerciali in città.

Il progetto del Beverly Connection si inserisce in una tendenza in corso nell’urbanistica, di mescolare spazi residenziali e commerciali, specialmente nelle zone più terziarie. A Hollywood si sono visti parecchi interventi mixed-use realizzati negli scorsi anni, come quello sul Sunset Boulevard all’incrocio con Vine Street, con ristorante e libreria Borders a livello strada, e appartamenti ai piani superiori.

L’area attorno al Beverly Connection, appena a sud di West Hollywood e a est di Beverly Hills, si compone di strade residenziali con case ad appartamenti o in stile coloniale ispanico, con file di caffè trendy è negozi su Beverly Boulevard e Third Street.

Ma i residenti lamentano che negli ultimi trent’anni la zona è diventata uno snodo centrale, punteggiato da torri multipiano dal Beverly Center al Cedars-Sinai. Il Grove, frequentatissimo shopping center all’aperto con ristoranti, cinema multisala, negozi di lusso e un Nordstrom, ha aggiunto altra congestione, dicono.

”Qui il traffico è mortale” racconta Bernie Meller, di 65 anni, che vive qui dal 1969 e faceva spesa da Longs Drugs qualche giorno fa. “Già adesso è terribile. Eravamo nell’area del Beverly Center. Adesso siamo in quella del Grove”.

Alcuni gruppi di cittadini si stanno mobilitando per la protesta.

”Non abbiamo timore di coinvolgere l’amministrazione. Siamo stanchi di come stanno rovinando la città” dice Diana Plotkin, presidente della Beverly Wilshire Homes Association, con 800 membri.

”Il concetto di abitazione assistita: un’ottima idea. Una clinica per l’Alzheimer: magnifica”, dice Harald Hahn, presidente della Burton Way Homeowners Association, che comprende circa 200 famiglie. Ma non vuole vedere ampliarsi significativamente il complesso. “Lo facciano entro le quantità attuali” dice.

Le due associazioni hanno ingaggiato un consulente urbanistico, premono per uno studio di impatto ambientale del progetto, hanno raccolto 500 lettere contrarie e hanno inviato altre lettere di pressione al consigliere Jack Weiss, il cui collegio comprende il centro. Weiss non ha preso una posizione sulla proposta, comunica il suo ufficio stampa.

I proprietari degli immobili dicono che le preoccupazioni dei residenti sono comprensibili, ma infondate.

”A dire il vero, si tratta di un impatto minimo. Stiamo sostituendo un cinema con 60 unità residenziali” dice Richard Ackerman, socio della Apollo Real Estate Advisors. Apollo ha comperato il Beverly Connection nel 2003 per 108 milioni di dollari, e ora è associata al Vornado Realty Trust.

Ackerman afferma che il piano ridurrà addirittura la congestione, dato che i nuovi residenti non si muoveranno dentro e fuori quanto i frequentatori del cinema. Dice anche che si offrirà un servizio all’intera area, vicino al Cedars-Sinai Medical Center, per gli alloggi agli anziani.

Il complesso residenziale per anziani andrebbe dove ora sta il negozio Old Navy, verso Third Street. Il condominio sopra l’ex cinema.

Il piano dei costruttori ridisegna radicalmente il Beverly Connection, criticato a lungo per la situazione confusa dei parcheggi, dove i pedoni erano obbligati ad attraversare le corsie di ingresso e uscita delle auto.

Ma, dicono i critici, l’aumento dell’edificato trasformerà il quartiere. Trent’anni fa in zona c’erano ancora pozzi petroliferi. I terreni del Beverly Center erano occupati da un parco divertimenti. L’elemento centrale della zona era il drugstore Rexall, una struttura moderna e ricurva, inaugurata da Jimmy Durante Dorothy Lamour.

Qualcuno dice anche che si cambierà in meglio.

Stephen Kramer, presidente della Camera di Commercio del Miracle Mile, dice che la sua organizzazione sostiene il piano, e crede che i costruttori abbiano lavorato bene per accogliere le preoccupazioni dei residenti.

”Capisco che ci possano essere alcuni effetti nelle immediate vicinanze” dice Kramer, che è anche consigliere di quartiere al Mid-City West, che comprende le zone dei gruppi di cittadini-proprietari Burton Way e Beverly Wilshire. “Non credo che ci sarà niente di disastroso”.

Ma altri residenti esprimono preoccupazioni per l’altezza degli edifici proposti, in alcuni casi più del doppio degli attuali 15 metri. Si parla anche di timori per il traffico.

Cesia Miller, 75 anni, che si è trasferita in zona nel 1966, dice di essere contraria al nuovo centro principalmente perché crede che produrrà traffico.

”Qui diventerà un manicomio. Siamo già stipati adesso”, racconta mentre fa spesa da Ralphs al Beverly Connection, dove acquista alimentari da quando è aperto.

Il proprietari del Beverly Connection hanno già ottenuto alcune autorizzazioni, come spostare negozi e costruire un accesso a tunnel alla struttura per i parcheggi. Si prevede che queste prime modifiche saranno pronte a dicembre. Altri elementi del piano dovrebbero essere presentati alla Los Angeles Planning Commission in ottobre.

Leila Aboutaj, 27 anni, dipendente del Men’s Wearhouse dentro al Beverly Connection, dice che questi miglioramenti non la faranno venire qui a far spesa.

Abita a Beverly Hills, e preferisce far shopping a Century City.

”Per essere sincera, non è il mio posto preferito” dice, citando il traffico. “È stressante, semplicemente arrivarci”.

Nota: il testo originale del Los Angeles Times, ripreso da sito KTLA ; su Eddyburg, il tema delle residenze per anziani affrontato in modo se non altro meno "ideologico" a Portland (f.b.)

È possibile che l´architettura divenga il più efficace ritratto (senza alcuna sublimazione) degli aspetti meno amabili della convivenza sociale? Tornando a Shanghai, ma assai di più a Beijing, questo interrogativo sembra confermarsi in tutta la sua ambigua drammaticità rispetto alla capacità vendicativa dell´architettura nel momento del suo affondamento come pratica artistica. Allora, insieme ad un´irresistibile attrazione per la premonizione del vuoto del futuro vi è la tentazione di riempirlo con l´indomabile desiderio del noto, del fraterno, del conosciuto come una reazione incontenibile di paura intorno all´incapacità dell´intelligenza di far fronte al nuovo fatto metropolitano.E l´idea stessa di città a non essere più un insieme interconnesso e riconoscibile di rappresentazione di relazioni ma invece solo quello della quotidiana sopraffazione della megalopoli realizzata. Ogni elemento costitutivo è gridato contro il vicino senza che l´insieme raggiunga la grandezza del combattimento ma solo quella sgangherata della competizione pubblicitaria. Meraviglia, nello stesso tempo, la capacità dell´architettura di trasmettere ostilità e presunzione senza fine in modo tanto compiuto. Anche l´ordine ortogonale planimetrico antico è del tutto senza corrispondenza nelle tre dimensioni; resta solo la sua eco irriconoscibile impressa sul suolo da uno sconvolgimento rabbioso di cieca violenza costruttrice che gridando balbetta di sé stessa.Ogni architettura non è più in alcun modo isolabile e giudicabile in sé. Da un lato il contesto la divora senza distinzione qualitativa: essa non presenta più un punto di vista sul mondo ma il mondo stesso così che, da un altro lato si può dire che lo rappresenta completamente al di là di ogni soggettività. In questo «nuovo pittoresco» (pittoresco non a partire dalla pittura ma da altre forme di rappresentazione) il ruolo del progetto è di divenire cellula di un´organizzazione totalitaria dei valori e degli obiettivi correnti.Non vi è più traccia del senso della necessità ma solo di quello dell´accumulazione, nell´estensione senza fine della volontà di stupefazione senza meraviglioso: meraviglioso è l´insieme di questa assenza di specificità singolare. Tutto è grande, enorme, fuori scala da sé, eccezione nell´eccezione, moltiplicazione di un ipertesto che annulla ogni possibilità della differenza. Non vi è forma edilizia che non sia stata utilizzata, deformata, ingrandita, decorata, coronata, variata in infiniti modi. L´estensione e la cura straordinaria ed antica dell´arredo urbano si assimila al deserto del costruito senza fine, ai frammenti in rovina del passato nobile e povero. Tutto è immerso in una foschia grigia, polvere di demolizioni e umidità inquinante.Ovviamente occorrono per le città cinesi del XXI secolo le spiegazioni del caso: la grandissima estensione della città, la rapidità della sua espansione, del rinnovamento interno e delle trasformazioni sociali, l´immissione violenta di forze economiche straniere, l´ambizione dimostrativa delle istituzioni e della stessa popolazione delle proprie capacità di riconquistare un posto importante nel mondo, le necessità travolgenti del traffico, della fornitura delle energie; tutte questioni tra l´altro a cui la città cinese ha fatto ragionevolmente fronte. È comunque stupefacente come tutto riesca a funzionare con un alto livello di efficienza (gli aeroporti che servono 15/20 milioni di persone sono più efficienti di quelli di Milano o di Roma). Una città come Pechino copre con il suo costruito circa 17.000 kmq, quasi come la dimensione dell´intero Belgio.Di fronte ad uno sviluppo tanto impetuoso quale può essere la risposta della città europea, costruita secondo una temporalità più stratificata, dal punto di vista dell´architettura e del disegno urbano certamente più solida ed articolata, se non cercare forme diverse di modernizzazione misurata, di migliore equilibrio tra nuovo ed esistente, di restituzione di significato ad una differenziazione leggibile?Tutto questo va molto al di là delle capacità indipendenti dalla nostra pratica artistica ma non dei suoi doveri di indicare possibilità. Che la scala metropolitana delle città asiatiche (ma anche di alcune del terzo mondo) sfugga alla comprensione effettiva della nostra mente, che ci faccia toccare con mano la nostra appartenenza al secolo passato, questo riguarda la nostra condizione di generazione di transizione che può ancora avere un´esperienza della memoria di una nozione diversa di città e che può quindi misurare anche ciò che viene perduto. È significativo comunque osservare lo spostamento dell´intelligenza organizzativa umana di fronte all´estensione smisurata, dalla forma delle cose alla loro gestione, con le relative conseguenze sull´architettura.Così per esempio il coronamento dell´edificio si trasforma in gigantesco spazio pubblicitario che ne indica la provvisoria funzione e la connette con altre della stessa natura distribuite nel territorio. Dove non importa; tra luogo e cosa la connessione è interrotta, si riapre solo tra le utilizzazioni. Tutto questo distingue nettamente queste metropoli da quelle del terzo mondo ed ovviamente da quelle europee eppure non si può fare a meno di riflettere sul limite dimensionale della concentrazione urbana e sul come non si riesca con l´aiuto delle comunicazioni e dei trasporti (ed in generale delle nuove tecnologie) a promuovere o pianificare una ridistribuzione territoriale dei fatti urbani più equilibrata. Ci si domanda nello stesso tempo perché non sia più possibile favorire un organico rapporto tra le matrici della città, i loro princìpi insediativi, le loro geografie ed i fatti dell´architettura. Se non sia possibile cioè accedere ad un condiviso principio civile, meno competitivo, ad un ideale di lavoro architettonico meno concitato, capace di affrontare la lentezza che produce la lunga durata, di diminuire le esibizioni spettacolari a favore del ricongiungimento con gli antichissimi fondamenti del compito di costruire poeticamente.Ma forse tutto questo è un sogno impossibile di chi non vuole rinunciare ad amare la pratica artistica

Nuova residenza in Cina: un powerpoint

Sono oltre trecentomila gli immigrati regolari che vivono stabilmente in provincia di Roma. La Caritas, che ci aggiorna puntualmente su questo imponente fenomeno, ne fornisce le nazionalità di provenienza, sono 192, e le condizioni lavorative. Si tratta di posizioni subordinate, di lavori poco ambiti o della vendita di mercanzie lungo le nostre frettolose strade, anche se non mancano, sono 15.000, i nuovi imprenditori. Da altre ricerche conosciamo il loro grado di istruzione e la loro fede religiosa. Se però cerchiamo di comprendere dove abitano queste persone che a Roma sono oltre il 10% della popolazione, ci troviamo di fronte a una forte carenza informativa. Dove gli immigrati passano le notti, insomma, non è dato sapere.

Se utilizziamo fonti narrative o di cronaca, comprendiamo che — al pari della emigrazione storica italiana nel secolo scorso — gli immigrati preferiscono abitare nei quartieri in cui già esiste una presenza, piccola o grande che sia, di altri loro connazionali. I « pionieri » sono un sicuro punto di riferimento per poter risolvere i primi problemi: così, al pari delle altre grandi capitali, iniziano ad evidenziarsi anche a Roma le specializzazioni nazionali dei quartieri. Se Esquilino è da tempo sede della comunità cinese, ad Ostia c'è una forte presenza di russi.

A San Paolo sono molti gli immigrati provenienti dal continente indiano, mentre i popoli africani abitano nel quadrante orientale. Ma spesso le cronache ci dicono che decine di persone dormono a caro prezzo in sordidi scantinati o capannoni. In baraccopoli di fortuna o addirittura sotto i ponti del Tevere. La dimensione del problema induce a chiederci se davvero non sia venuto ilmomento di porre la questione nella sua complessità e potenzialità.

Anche perché, sempre le cronache narrano di edifici scolastici, abbandonati da anni per l'invecchiamento dei nostri quartieri, devastati da atti vandalici: è accaduto non molti giorni fa ad Albuccione e lungo la Colombo. Se diventassero luoghi di accoglienza per gruppi di immigrati si fermerebbe il loro decadimento fisico e si fornirebbe a quelle persone una grande opportunità di integrazione.

Una nazione che stenta a far ripartire la macchina economica deve trovare motivazioni forti per disegnare un futuro nuovo e la questione delle abitazioni per gli immigrati è sicuramente tema di grande potenzialità: si tratta di definire le politiche abitative e di accoglienza adatte per metter in moto questo fenomeno. Se a livello nazionale si iniziasse a definire strategie e risorse per interventi di riuso degli edifici non più utilizzati presenti nel cuore delle città, si potrebbero aprire nuove pagine di storia urbana e di integrazione. Pochi giorni fa il consiglio comunale di Roma ha votato una delibera programmatica che affronta l'emergenza abitativa, dagli sfratti alla carenza di alloggi in affitto. É di ieri la notizia di uno stanziamento di 50 milioni per l'acquisto di alloggi popolari. Il prossimo capitolo dovrà riguardare il mondo degli immigrati.

Titolo originale: World’s mayors seek to fight global warming, make cities greener – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

I sindaci delle più grandi città del mondo si riuniscono questa settimana per mettere a punto una serie di orientamenti per la vita urbana sostenibile: una versione municipale, è stato detto, del Protocollo di Kyoto sul riscaldamento globale, che gli Stati Uniti non hanno mai ratificato.

L’Accordo sull’Ambiente Urbano, che sarà firmato alle Nazioni Unite nella Giornata Mondiale per l’Ambiente, è l’ultimo esempio di come le città stiano cercando di affrontare il mutamento climatico nonostante la riluttanza dei governi nazionali.

”Non possiamo permetterci di aspettare che lo facciano i governi statali o federali. C’è chi trova troppe scuse, particolarmente in questo paese” dice il sindaco di San Francisco Gavin Newsom. “Il mondo guarda sempre più ai sindaci come custodi dell’ambiente, visto che la stragrande maggioranza dell’inquinamento viene dalle città”.

Almeno 70 sindaci da città come Londra, Rio de Janeiro, Tehran, Capetown, Sydney e Shanghai parteciperanno ai cinque giorni della conferenza di San Francisco: la prima volta che l’evento annuale è ospitato da una città degli USA. La Giornata Mondiale per l’Ambiente, che si celebra ogni 5 giugno, fu istituita nel 1974, e le conferenze annuali si tengono dal 1987.

Al raduno di quest’anno, sul tema “Le Città Verdi” dal 1 al 5 giugno, i sindaci si scambieranno idee sulla vita urbana sostenibile in settori come le energie rinnovabili, il riciclaggio, i trasporti pubblici, i parchi urbani, aria e acque pulite. Si prevedono oltre 230 iniziative nell’area della Baia di San Francisco, per la Giornata Mondiale dell’Ambiente.

Mercoledì, all’apertura della Conferenza, il Governatore Arnold Schwarzenegger renderà pubblico il programma della California per ridurre le emissioni di CO2 e di altri “gas serra” ritenuti responsabili di intrappolare il calore nell’atmosfera terrestre e si alzare le temperature mondiali.

San Francisco, dove furono fondate le Nazioni Unite 60 anni fa, è nota come città che fa tendenza dal punto di vista ambientale, e i suoi rappresentanti prevedono di esibirne i successi verdi. Ora la città ricicla due terzi dei propri rifiuti, possiede il maggior parco veicoli a carburanti alternativi, e può vantare la principale installazione di energia solare di proprietà municipale del paese, al Moscone Convention Center.

”C’è molto che possiamo condividere, ma c’è anche parecchio da imparare dalle altre città” ha affermato Newsom.

Sino a tempi recenti, i trattati internazionali sono stati l’ambito principale di dibattito sui problemi ambientali globali come il mutamento climatico, che secondo gli scienziati causa tempeste sempre più violente, la riduzione degli habitat naturali e l’innalzamento del livello dei mari a minacciare le città costiere.

Il Protocollo di Kyoto, adottato nella città giapponese nel 1997, chiede alle nazioni industrializzate di tagliare le emissioni di gas serra in media del cinque per cento al di sotto dei livelli 1990. Il trattato è stato ratificato da almeno 140 paesi, ed è entrato in vigore a febbraio.

Ma gli Stati Uniti, il principale produttore mondiale di gas serra, non hanno firmato perché i rappresentanti del governo Bush ritenevano che l’adesione avrebbe significato la perdita di cinque milioni di posti di lavoro e un incremento delle tariffe energetiche, come sostiene Michele St. Martin, portavoce del Council on Environmental Quality della Casa Bianca.

”Il Presidente Bush è favorevole a un approccio aggressivo rispetto al mutamento climatico: un approccio che sostenga una crescita economica che conduca a nuove innovazioni e tecnologie” dice St. Martin, indicando l’iniziativa sul mutamento climatico da 2 miliardi dell’amministrazione, che promuove tecniche pulite di uso del carbone, veicoli spinti a idrogeno, energia nucleare e fonti rinnovabili.

Ambientalisti e funzionari governativi dissentono sul fatto che Kyoto e altri trattati internazionali fra i governi nazionali siano la soluzione.

”Abbiamo tutte queste leggi scritte, ma nessuna di esse viene applicata” sostiene Jared Blumenfeld, direttore del Department of the Environment di San Francisco. “Non hanno mordente. Non succede niente, se non si mettono in pratica. Nessuno ne tiene conto”.

Frustrati dalla posizione del governo federale USA sul riscaldamento globale, molti Stati, città e imprese stanno intraprendendo azioni per ridurre le emissioni di gas-trappola di calore da fabbriche, automobili e centrali energetiche.

Lo scorso anno, San Francisco è stata probabilmente la prima città USA ad adottare un proprio “piano di azione sul clima” che tenta di ridurre le emissioni di gas serra – del 20% inferiori ai livelli 1990 entro il 2012 – aumentando l’uso del trasporto pubblico, le quote di riciclaggio, l’efficienza energetica e l’uso di fonti rinnovabili.

In maggio, il sindaco di Seattle Greg Nickels, preoccupato per i ripetuti inverni senza pioggia nella sua città famosa per essere umida, ha annunciato che più di 130 sindaci USA hanno firmato un accordo per ridurre le emissioni di CO2, in quantità uguale o superiore agli obiettivi di Kyoto.

”Sindaci, imprese, e anche il Governatore della California, stanno iniziando a mostrare una capacità di leadership mondiale, di fronte ad un vuoto”, dice Kathleen Rogers, presidente dello Earth Day Network. “È una nuova tendenza, determinata dalla pura disperazione”.

Ora, i sindaci da tutto il mondo si uniscono a quelli delle città d’America nella lotta al riscaldamento globale e per gli altri problemi ambientali. Sottoscrivendo gli Accrodi per l’Ambiente Urbano, i sindaci sanciscono il proprio impegno verso uno sviluppo urbano eco-friendly in sette ambiti: energia, salute ambientale, trasporti, progettazione urbana, spazi naturali in città, riduzione degli sprechi e acque.

Gli organizzatori affermano che i problemi ambientali mondiali si devono affrontare a livello municipale, perché oltre la metà della popolazione mondiale vive nelle città: una proporzione destinata a crescere in modo drammatico in questo secolo. E le città consumano circa tre quarti delle risorse mondiali, e producono tre quarti dell’inquinamento.

”A differenza dei governi nazionali, che sembrano trovare molto spazio di manovra nei trattati, i sindaci sono più responsabili rispetto ai propri elettori” afferma Rogers. “Sono più sintonizzati su ciò che vuole la gente”.

L’accordo elenca 21 specifiche azioni che i sindaci possono intraprendere per rendere le città più verdi, e i firmatari promettono di adottarne almeno tre l’anno, molte delle quali comportano incentivi economici o norme legislative. Nel campo energetico, per esempio, le città possono adottare politiche per aumentare l’uso di energie rinnovabili, spingere ad una maggiore efficienza e ridurre le emissioni di gas serra: tutte azioni che aiutano le città a risparmiare denaro e a ripulire l’ambiente.

”È un vero e proprio rimboccarsi le maniche” dice Susan Ode, coordinatore del Local Governments for Sustainability. “Sono azioni che aiuteranno davvero, e che possono essere attuate dalle amministrazioni locali e dalle comunità”.

Anche se gli accordi non sono legalmente vincolanti, gli organizzatori sperano che gli attivisti dei gruppi locali riescano a far mantenere ai sindaci le proprie promesse, una volta tornati a casa.

”Spero che alla fine non si firmerà solo un pezzo di carta” dice Newsom said, “ma ci si impegni davvero ad agire concretamente”.

Nota: qui il testo originale al sito del San Francisco Chronicle; altri dettagli al sito delle Nazioni Unite per la Giornata Mondiale dell’Ambiente, e al Settore Ambiente della municipalità di San Francisco (f.b.)

La Casa dell’Asfalto e del Cemento

Gli aspetti territoriali della manovra finanziaria berlusconiana. Da l’Unità del 12 maggio 2005

Il governo Berlusconi appare sempre meno capace di far funzionare gli strumenti ordinari dell’amministrazione e quindi si affanna a rivedere norme su norme (anche sue proprie), a rifugiarsi nello straordinario e nell’eccezionale, creando continue corsie d’emergenza, insediando commissari su commissari. Insomma, un automobilista che, incapace di far viaggiare la propria vettura in condizioni normali, si applica ad aprire percorsi preferenziali, ad eliminare per sé limiti di velocità, a cancellare divieti di sorpasso, e magari suona in permanenza la sirena per allontanare ogni fastidio di controllo “democratico”. Col risultato, in tanto caos politico-amministrativo, di entrare in conflitto con altri soggetti di governo, anzitutto con le Regioni.

Non sfugge a questa strategia da kamikaze il decreto legge sulla competitività che, già passato con modifiche al Senato (dove la solita fiducia ha “fucilato” 1.500 emendamenti), ora deve essere approvato alla Camera e tornare di corsa a Palazzo Madama.

In premessa va detto, ancora una volta, che le sue scelte di fondo sono strutturalmente errate. A fronte di incentivi modesti destinati alla ricerca, alla innovazione tecnologica, alle tecnologie “pulite” (lo nota in un ampio documento, anche propositivo, il Wwf), il governo Berlusconi continua a puntare essenzialmente sulle infrastrutture, e, al loro interno, su cemento&asfalto, trascurando ferrovie, porti e trasporti di cabotaggio. Eppure, mentre in Europa ci sono 13,2 chilometri di autostrada ogni 1.000 chilometri di rete stradale, in Italia se ne contano ben 22,8. Non solo: il 70 per cento degli investimenti ferroviari viene concentrato nell’Alta Velocità, lasciando alla rete più debole (quella del Centro-Sud e delle Isole) le briciole. Discorso analogo per le energie rinnovabili : la Germania - che non è certo “O paese d’o sole” - è diventata leader nell'energia solare e, unitamente ad altri Paesi proiettati in avanti direzione come Spagna e Danimarca, ha creato nelle fonti rinnovabili circa 250 mila posti di lavoro (con altri 200 mila entro il 2015). Col decreto sulla competitività, osserva la nota del Wwf, «il governo ha scelto di investire nell’asfalto e nel cemento, invece che in materia grigia, cioè in ricerca e in sviluppo».

All’interno di questa logica, il provvedimento scassa tutta una serie di regole anche recenti, per esempio in campo edilizio. A forza di “semplificazioni”, all’articolo 3 si finisce per far prevalere la norma speciale su quella ordinaria, col rischio incombente che le opere edilizie di maggior impatto e consistenza possano ricevere un trattamento persino più blando rispetto a quelle minori. Dovrebbero essere salvate però, dopo fiere proteste, le norme riguardanti il patrimonio storico-artistico e paesaggistico. “Dovrebbero”, perché l’esclusione dalla semplificazione riguarda gli atti «rilasciati dalle amministrazioni preposte alla tutela». Dizione generica e probabilmente aggirabile. Né va granché meglio per la tutela ambientale. In ogni caso, il silenzio/assenso hanno provato, una volta di più, ad applicarlo anche ai beni tutelati, e ci riproveranno.

Uno degli aspetti “innovativi” più allarmanti riguarda il finanziamento dei progetti infrastrutturali, per il quale vengono coinvolti gli Enti previdenziali fin qui giustamente soggetti ad una disciplina attenta volta ad una accurata trasparenza. Ad essi si chiedevano infatti interventi immobiliari debitamente valutati. Ma, poiché il “project-financing” in campo infrastrutturale non decolla, per la renitenza delle banche e dei privati ad impegnarsi in iniziative che non siano garantite, in toto spesso, dallo Stato, il governo Berlusconi ha pensato bene di far saltare una serie di regole e di far assumere agli Enti previdenziali un ruolo sostitutivo. In quelle opere infrastrutturali a rischio elevato da cui i privati, non a caso, si sono tenuti lontani. Manovra più che spericolata.

Un altro capitolo molto allarmante del decreto (articoli da 5 a 9) riguarda la proliferazione di commissari straordinari da istituire per la realizzazione di tratte autostradali. Evidentemente col fine di eliminare in modo definitivo l’impaccio delle osservazioni delle Regioni interessate. In questo caso i bersagli sembrano essere Emilia-Romagna e Toscana le quali si oppongono, in modo fondato, a tracciati assai sbrigativi della Variante di valico fra Firenze e Bologna. Col commissario straordinario, il potere dei concessionari autostradali diventa quasi assoluto: saranno loro a pianificare l'uso del territorio, e non più le istituzioni a ciò preposte dalla Costituzione e dai cittadini. Secondo una inchiesta del «Sole 24 Ore», i commissari “all’emergenza” e simili sono, in Italia, circa 10 mila, di cui un migliaio nella sola Sicilia. Una amministrazione straordinaria che si sovrappone ormai a quella ordinaria, spiazzandola. Non sarà inutile ricordare che i concessionari autostradali hanno già avuto da Berlusconi-Lunardi una pioggia di regali, come la cancellazione della soglia massima del 50 per cento per il contributo pubblico, come l’abolizione del limite di trent’anni nella durata delle concessioni, come l’accantonamento della disciplina, giustamente minuziosa, per bandi, contratti, criteri di assegnazione, ecc. E meno male che al Senato è stato cancellato quel comma 11 col quale si consentiva ai commissari di poter utilizzare il meccanismo del silenzio/assenso quando le opere impattassero con la tutela ambientale e paesaggistica.

La scelta di fondo del governo rimane dunque: sempre più asfalto&cemento. Quindi, sempre più premi per la rendita fondiaria e immobiliare. Poco o nulla per il profitto industriale e per la competitività delle imprese. Tutto questo nel Paese che nell’ultimo anno ha diminuito del 2,4 per cento gli investimenti, che ha visto contrarre del 3,9 le proprie esportazioni, che continua a destinare alla ricerca l’1,1 per cento del Pil (una delle quote europee più basse) e in cui le imprese dedicano alla stessa voce appena lo 0,54 contro l'1,28 della media europea. Con chi dobbiamo prendercela poi se (le statistiche sono del World Economic Forum di Ginevra) siamo caduti al 45° posto nella classifica mondiale della capacità di sviluppo, superati anche da Tunisia, Giordania e Sudafrica?

Titolo originale: “Supermayor” uses firm hand to clean up Manila – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

MANILA – È stato definito un tiranno, un dittatore, un Hitler dei nostri giorni, un elitario: epiteti piuttosto incongrui per un uomo che ama il colore rosa. Ma Bayani Fernando, responsabile della Metro Manila Development Authority, dice che non gli interessano le etichette. In quanto “SuperSindaco” [in originale Supermayor, che richiama il personaggio di SuperMario] delle 17 municipalità che compongono Manila Metropolitana, è sin troppo occupato per offendersi dei nomiglioli.

Fernando, cinquantottenne, è responsabile di una megalopoli di più di 13 milioni di persone: una delle più rumorose, congestionate e inquinate città del mondo.

L’area metropolitana, che copre 630 chilometri quadrati, è famigerata per il traffico. La sola quantità di veicoli supera qualunque immaginazione.

Automobilisti indisciplinati turbinano attorno a venditori di strada, gareggiando con le ubique jeepney, i vistosi furgoncini ricavati dalle Jeep militari della seconda guerra mondiale, che qui rappresentano il principale mezzo di trasporto.

La criminalità di strada imperversa. Una buona quota della popolazione abita in baraccopoli o sulla pubblica via, e decine di migliaia campano sulle 6.700 tonnellate di spazzatura che la megalopoli genera quotidianamente.

Di questi rifiuti, 1.500 tonnellate al giorno sono scaricate dentro a fiumi e torrenti, o nella baia di Manila, che puzza, scoraggiando chi vuole ammirare i suoi famosi tramonti. Gli allagamenti causati dalla spazzatura che intasa i corsi d’acqua sono un fatto comune.

Anche se Metro Manila è piuttosto lontana dall’essere perfetta sotto Fernando, molti concordano sul fatto che sia migliorata. Ha aumentato la quantità di spazzatura raccolta e ha tentato di sgorgare corsi d’acqua e fogne. Parecchi settori della città sono ancora in preda alla congestione da traffico, ma nelle vie principali e autostrade c’è un po’ più di ordine.

Fernando ha istituito corsie preferenziali per gli autobus. Ha realizzato rotatorie per l’inversione a “U” che consentono un flusso continuo di traffico, escludendo la possibilità che agli incroci jeepneys e autobus trasformassero queste aree in veri e propri terminal.

Ha anche realizzato ponti pedonali per scoraggiare gli attraversamenti pericolosi, e fermate protette dell’autobus.

Ha riempito le vie principali e strade di comunicazione di orinatoi per gli uomini, la cui abitudine, di farla ovunque gli pare contribuisce alla puzza e provoca qualcosa possibile solo a Metro Manila: porte metalliche e cancelli corrosi dall’urina.

Infine Fernando ci ha aggiunto un tratto distintivo: ha pitturato le strutture pedonali di rosa.

Il rosa, dice, “ha un effetto calmante. Offre un gradevole contrasto. Può aiutare i pendolari a stare tranquilli mentre sono bloccati nel traffico”.

Oggi, Metro Manila è tutta pitturata di rosa. Un po’ kitsch, ma offre un contrasto dal fosco ambiente circostante di edifici cadenti, autobus che eruttano fumi neri, locandine di film strappate. Fernando ha anche realizzato nuovi capolinea degli autobus, per scoraggiare le fermate a caso a raccogliere passeggeri ovunque.

Ha costruito griglie e corrimano lungo i marciapiedi, che in pratica incanalano come bestiame i passeggeri verso le bocche dei bus. Nello stesso tempo, ha istituito la procedura “straccio bagnato”: i pedoni che escono dal marciapiede sono colpiti da strisce di stoffa bagnata appese a furgoni della Metro Manila Development Authority.

Per tutto questo, Fernando si è guadagnato sia ammirazione che derisione. Ma tutti concordano sul fatto che possegga una qualità di cui Metro Manila ha bisogno: la volontà politica. I sindaci di Metro Manila nel passato si sono rifiutati di demolire le baracche degli squatters e le bancarelle del commercio illegale sulle strade e marciapiedi, per paura di contraccolpi elettorali. Ma Fernando, che è di nomina presidenziale, non si deve preoccupare di questo. Nonostante le demolizioni spesso si siano trasformate in fatti di violenza (alcune persone sono morte e molte sono rimaste ferite) Fernando in molte occasioni ha partecipato di persona, dirigendo le operazioni. Fernando deriva il proprio mandato dalla Presidente Gloria Macapagal Arroyo, e non si fa problemi a ribadirlo. Una volta, davanti ad ambientalisti e residenti che protestavano per un taglio di alberi da parte dell’amministrazione metropolitana, ha tagliato corto: “Ho l’approvazione della presidente”. È fra i pochi che possono dire di non temere ritorsioni politiche. “Il mio mandato è piuttosto chiaro: far funzionare Metro Manila nel modo più efficiente possibile” ha dichiarato in un’intervista. “Se la gente ha dei problemi rispetto a questo, è un loro problema”.

Molti dei sindaci delle municipalità costituenti Metro Manila, di sicuro hanno problemi con qualcuno che invade il loro territorio e pretende di dire come devono essere amministrate le loro comunità. Almeno una città, la vecchia Manila storica, cuore della capitale, ha dichiarato Fernando persona non grata. Altri fra i 17 sindaci hanni minacciato di trascinarlo in tribunale.

”Voglio che ci dica le cose prima, che ci consulti, prima di fare qualunque cosa che interessa la nostra città e i nostri abitanti” dice Peewee Trinidad, sindaco di Pasay City. “Non sono tenuto a farlo”, è la classica risposta di Fernando a queste proteste.

Creata dall’ultimo dittatore, Ferdinando Marcos, nel 1975, la Metro Manila Development Authority ha il compito di centralizzare la raccolta dei rifiuti, gestire il traffico e sovraintendere la manutenzione delle fogne dell’area metropolitana. Marcos ha unito le 17 municipalità confinanti, che in quel momento stavano iniziando a gonfiarsi, trasformando l’area metropolitana in una provincia: dapprima amministrata da sua moglie Imelda. Qualcuno dice che sono le radici dittatoriali dell’autorità metropolitana il motivo per cui i suoi responsabili, e più di tutti Fernando, hanno teso a imporre la propria volontà su tutti gli altri. Ma questo significa non tener conto dei precedenti di Fernando. Quando diventò sindaco di Marikina, un centro fluviale a nord di Manila che era una delle città più congestionate dal traffico delle Filippine, dieci anni fa, Fernando (che è ingegnere) mise ordine: demolì marciapiedi, bancarelle, allargò strade, ripulì le rive del fiume, ridipinse pareti. Diventò persino illegale passeggiare per strada senza camicia. E certo: pitturò la città di rosa. Un sondaggio nominò Marikina la “città più vivibile” del paese, e Fernando andò avanti vincendo tornate su tornate elettorali, per un totale di nove anni. Adesso il sindaco è sua moglie, Marides.

Quando fu nominato all’autorità metropolitana di Manila nel 2002, Fernando non impiegò molto tempo a trasformare la disordinata e scassata metropoli in una Marikina più grande. “Vai, Fernando. Siamo saldamente davanti, dietro e intorno a te” ha scritto l’economista Raul Fabella su un giornale. Fernando è così apprezzato da far pensare - l’anno scorso - a una sua candidatura alla vicepresidenza. “Fernando è un’aberrazione?" si chiede Fabella. “Questo in parte dipende da noi. La lezione fondamentale che possiamo imparare da Fernando è che le vere riforme sono dolorose”.

I critici la pensano in modo diverso. Per loro, un amministratore che ignora come le sue azioni incidano su povera gente, che sta solo tentando di vivere in un’economia debole, è un’aberrazione. Quando una mattina di gennaio gli uomini di Fernando hanno rincorso e maltrattato dei venditori ambulanti davanti a una chiesa, un testimone si è indignato al punto da spedire a Fernando una lettera acida. “Qui c’è gente che tenta di guadagnarsi onestamente qualcosa, e a cui sono negati i diritti fondamentali” ha scritto quel testimone, Sharon Joy Duremdes. “Pulire i marciapiedi posso capirlo, ma deve dare la caccia alla gente, e pestarla? Solo i fascisti fanno queste cose”.

Fernando risponde che non può essere di cuore tenero. “Per quanto ne soffra, non poso piangere coi poveri, perché se sono accecato dalle lacrime, chi li guiderà?” ha dichiarato in un’intervista.

In uno dei tanti opuscoli e fogli distribuiti dal suo ufficio, su come i filippini dovrebbero imparare a comportarsi in pubblico, Fernando, che è proprietario di una grossa ditta di costruzioni, è così citato: “Voglio essere ricordato come un costruttore di carattere”.

Ai critici, naturalmente, si rizzano i capelli davanti a questa retorica. Nel bene e nel male, Fernando ha lasciato il segno, in un modo che Imelda Marcos non avrebbe nemmeno immaginato. Ed è molto più, del colore rosa.

Nota: qui il testo originale sul sito dello International Herald Tribune (f.b.)

Sono uno degli Amministratori che ha aderito all’appello che qualche mese fa Marco Guerzoni ha lanciato dalle pagine di Liberazione. In quel documento veniva manifestata la necessità di allargare il confronto con il centrosinistra anche alla “questione territoriale”, partendo dall’esigenza di un recupero culturale rispetto questi temi. Già in precedenza, riferendomi alla proposta di confronto programmatico per le Sinistre avanzata da MicroMega, avevo lamentato una carenza proprio sulle questioni relative al governo del territorio, a conferma di una loro sottovalutazione anche a sinistra.

Su questi temi per battere Berlusconi non è sufficiente, seppur necessario, indignarsi per il condono o organizzare uno sbarco nella villa del Premier in Sardegna, è indispensabile costruire una proposta programmatica esattamente contraria allo slogan “padroni in casa nostra”; capace di fare comprendere l’aberrazione di Milano2, che troppo spesso ha rappresentato un modello anche da qualcuno all’interno del centrosinistra. Occorre un grande sforzo per promuovere questo processo poiché è necessario recuperare un’ arretratezza del nostro paese in questa materia sia dal punto di vista legislativo, con una riforma che non è arrivata, sia dal punto di vista economico e culturale.

Troppo spesso infatti per favorire la rendita immobiliare si è trattato il problema della casa come una questione privata, individuale e, di fronte alla carenza strutturale di iniziative pubbliche nel settore della casa, si consegna il cittadino nelle mani dell’immobiliarista, che a sua volta lo gira al sistema creditizio per un mutuo “agevolato” (a questo andrebbe aggiunto, come male minore, una qualità degli insediamenti quasi sempre scadente dettata da una visione esclusivamente domestica dell’abitare).

Questo blocco d’interessi non ha certo stimolato il varo di norme e interventi pubblici organici in questo settore tanto meno ha favorito la diffusione della qualità architettonica diffusa, al contrario ha spesso ridotto il piano regolatore ad un “affare” per pochi e provocato guasti che sono sotto gli occhi di tutti: dallo scempio architettonico e ambientale al congestionamento del traffico dovuto all’irrazionalità del sistema insediativo.

Occorre quindi anzitutto lavorare per superare quel blocco e al tempo stesso controbattere alla concezione che sta dietro a quello slogan: la libertà di chiudersi in casa per disinteressarsi a quanto accade fuori, salvo indignarsi quando si ritiene possa essere coinvolta la nostra sfera “domestica”. E’ necessario liberarsi dalla trappola che induce a considerare il piano regolatore come uno strumento riservato agli addetti ai lavori e ricominciare a discuterne, soprattutto con chi i terreni non li possiede, occorre rilanciare il Piano quale unico strumento capace di garantire l’interesse collettivo, superare politiche neo liberiste e derogatorie che hanno caratterizzato tutti gli anni 90, e che continuano ad imperversare, e su questo avviare un confronto a sinistra sul governo del territorio.

Sono anche questi i motivi che mi portano a condividere una recente intervista al Segretario Fausto Bertinotti in cui dice di immaginare, per un prossimo governo di centrosinistra, un Ministero dell’Economia e del Piano. Pur comprendendo che probabilmente in questo caso la mia è una lettura “interessata” ( mi rendo conto che il termine Piano va riferito prioritariamente all’esigenza di programmazione economica) è per me significativo che si torni a parlare in questi termini (di Piano). Procedendo nella lettura, mi conforta ulteriormente una serie puntuale di richieste che il Segretario avanza al centrosinistra fra cui “un piano per l’edilizia popolare che comprenda i bisogni degli immigrati”. Ritengo questi cotenuti estremamente qualificanti per il confronto programmatico in vista delle elezioni 2006, credo però che sia importante, nel frattempo, costituire un fronte comune per evitare che in questo lasso di tempo si approvino provvedimenti legislativi che possano pregiudicare un nostro futuro impegno di governo.

Finalmente questo dibattito, da più parti invocato, si sta attivando, in particolare sulle pagine del nostro giornale. Mi riferisco in particolare all’appello “Fermate la Legge Lupi”: speriamo di essere ancora in tempo per fermare una Legge che annichilisce il Piano anziché dargli centralità, subordina il potere Pubblico all’iniziativa privata, sottrae aree all’obbligo di pianificazione, cancella quelle poche conquiste degli anni 60 come la dotazione minima di spazi pubblici prevista per legge! E’ vero che il paese aspetta una riforma da sessant’anni ma non per questo dobbiamo avallare questa, come invece qualcuno sta dicendo, anche nel centrosinistra.

Titolo originale: Dan Dare and doll’s houses – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Saranno gli architetti o i vandali a costruire il Thames Gateway?

I grandi leaders analizzano bisogni e definiscono principi, per offrire una visione di lunga prospettiva. I principi che stanno alla base del rinascimento urbano sono l’inclusione sociale e un’architettura di alta qualità. Quello attuale è il primo governo britannico che incoraggia le persone a tornare verso le città, e la sua idea di città compatta, sostenibile, per vivere e lavorare, ben collegata, ha riportato vita in molti centri e quartieri in declino.

Ma c’è qualcosa di sbagliato se, a sette anni di distanza da quando John Prescott mi ha chiesto di presiedere la Urban Task Force, dobbiamo ancora competere con quanto di meglio c’è in Europa in termini di qualità delle abitazioni.

Le città che più amiamo da visitare e per viverci, hanno una cosa in comune. Dall’Atene classica alla Venezia rinascimentale, dalla Londra georgiana ai centri toscani in cima alle colline, vitalità e identità civica sono state sostenute da grandiosi spazi pubblici racchiusi da edifici ben progettati. Questi emozionanti spazi sono il risultato di uno sforzo collaborativo fra la committenza, gli architetti e i costruttori. Le città belle non capitano per caso, ma vengono costruite di proposito.

L’architettura è il processo di dar corpo alla bellezza e funzionalità nell’ambiente costruito. Porta ordine, proporzione, luce e bellezza nello spazio. Credere che la qualità architettonica sia solo soggettiva è pericolosamente irresponsabile: ci sono criteri condivisi e punti fermi per giudicare. La comprensione e l’apprezzamento vengono dagli studi, dall’esperienza, dall’affinamento della sensibilità e – forse più importante – da una buona capacità professionale. E tuttavia abbiamo miseramente evitato di porre i migliori architetti al centro del processo decisionale. La nostra è un’età dell’oro per l’architettura, ma rischiamo di ripetere gli errori del dopoguerra.

Il Thames Gateway è il più vasto piano di rigenerazione urbana in Europa, per sistemare quasi un milione di abitanti – una città grande quanto Manchester – lungo il glorioso corso del Tamigi, dalla Isle of Dogs fino a Southend. Dovrebbe essere il progetto più stimolante d’Europa, ma rimango profondamente perplesso sulle possibilità di realizzarne in pieno il potenziale.

Come presidente della Urban Task Force e più di recente come principale consulente per l’archietettura di Ken Livingstone, ho sollecitato pianificatori e politici a considerare il London Thames Gateway (i 90 chilometri quadrati del Thames Gateway interni ai confini della Greater London) come parte di una città compatta, come Manhattan o Barcellona, anziché come una catena di new towns scollegate. Dobbiamo avere un approccio generale attento, che valuti lo spazio disponibile, e comunità e i trasporti, per evitare il peggio.

Barcellona può essere un esempio. Ancora molto dopo i giochi olimpici del 1992, impressiona sia i residenti che i visitatori. Questa magnifica città mediterranea, devastata da una brutale combinazione di governi fascisti e declino industriale, si è risollevata con stile: straordinarie spiagge e quartieri vitali, dando forma fisica alla miscela di vita-lavoro-tempo libero a cui aspirano tutte le città moderne.

Londra è più ricca di Barcellona, dal punto di vista culturale e materiale, ma quando guardo a come è costruita, temo che si stia perdendo una grossa opportunità. I nostri spazi più preziosi vedono allinearsi file di case per bambole alte e basse, occasionalmente interrotte da torri di vetro e acciaio alla Dan Dare, senza alcun rapporto per il contesto o l’ambiente circostante. I bungalows si appiccicano senza direzione su per le sponde del Tamigi, uno dei più meravigliosi fiumi del mondo. Assi e tegole di plastica, pietre finte, cemento scadente e finestelle, affacciati sulle viste migliori, sono sintomi di barbarie.

Perché Barcellona è tanto vitale, e Londra ancora lotta solo per raggiungere livelli minimi di qualità? La resurrezione di Barcellona è stato il risultato di 18 anni di pianificazione urbana, con tre grandi sindaci a lavorare in stretto rapporto con architetti, artisti, studiosi e sociologi visionari, per trasformare la propria città.

L’incarico di Pasqual Maragall al grande architetto catalano Oriol Bohigas, e il suo lavoro in stretta collaborazione con lui, è stato cruciale nel dar forma alla visione. Bohigas, insieme al collega e attuale urbanista della città, Josep Acebillo, ha predisposto una strategia urbana tridimensionale, e successivamente l’ha attuata incaricando alcuni dei migliori architetti d’Europa a produrre progetti su progetti, senza mai perdere di vista né il quadro generale né i particolari.

John Prescott e Ken Livingstone credono che non ci sia rinascimento urbano senza un progetto, ma stiamo ancora lottando per raggiungere quelli che nelle altre città d’Europa considerano solo il minimo standard accettabile. Non esiste un vero quadro di politiche per l’eccellenza progettuale: ci sono troppe organizzazioni in campo, con troppa poca concentrazione sulla qualità. Governo e costruttori devono porre architetti capaci, sul fronte del rinascimento urbano. Senza di essi, non realizzeremo mai le nostre aspirazioni.

A Londra, con la necessità di realizzare almeno 400.000 nuovi alloggi entro il 2016 a contenere l’incremento demografico della capitale, Ken Livingstone ha fatto la scelta politica, brillante e audace, di contenere la crescita entro la green belt e le 32 municipalità esistenti. È andato oltre l’obiettivo governativo del 60% delle costruzioni su siti ex industriali (già edificati), mirando al 100%.

Ma i poteri del sindaco sono fortemente limitati dall’eredità di 15 anni senza governo metropolitano, e dalla mancanza di focalizzazione sul progetto che infetta tanta parte della vita politica britannica. Il piccolo gruppo che collabora con me alla Greater London Authority, la Architecture and Urbanism Unit, ha commissionato e predisposto alcuni eccellenti piani di massima, in particolare per il London Thames Gateway con la London Development Agency. Abbiamo incaricato alcuni eccezionali architetti europei attraverso concorsi aperti, ma abbiamo poteri molto limitati per realizzare edifici ben progettati, spazi pubblici o infrastrutture di trasporto. Ogni decisione è schiacciata da trattative con infiniti uffici, molti dei quali mancano di visione e competenze specialistiche.

In assenza di una struttura gerarchica, il processo decisionale è abbandonato in un pantano di mediocrità. Molti degli organismi esecutivi operano principalmente e soprattutto come gestori di terreni e contabili, interessati a numeri e gestione, non al progetto. Fra gli organismi con cui sono a contatto, solo il nuovo London Thames Gateway ha un architetto nell’ufficio direzione.

A meno che al sindaco non siano conferiti alcuni poteri, e un maggior peso in questa moltitudine di burocrati poco coordinati, non produrremo mai una politica di sostenibilità o progetti paragonabili ai migliori che si vedono all’estero. E se non si progettano buone città e quartieri anche il nostro lavoro sulla criminalità, l’istruzione, l’occupazione o l’esclusione sociale, ne usciranno compromessi.

C’è sempre un modo per prendere le cose per il verso giusto. La maggior parte della migliore edilizia oggi si realizza per concorso. Ma si tratta di una qualità buona tanto quanto le giurie. Quando ero consulente del presidente Mitterrand per i Grands Projets a Parigi, lui insisteva sul fatto che le giurie dovessero comprendere buoni architetti. Nel Regno Unito, siete fortunati a trovarne uno, in una giuria di dieci persone. E anche quando nonostante tutto si riescono a scegliere architetti di talento, non c’è alcuna garanzia che i loro progetti riescano a sopravvivere oltre la fase preliminare. Dopo essere stati usati per ottenere le autorizzazioni, gli architetti sono scaricati, e si fa spazio ai costruttori.

Se continueremo a trattare gli architetti come una “aggiunta” marginale, la quantità continuerà a prevalere sulla qualità, l’avidità sull’immaginazione. Costruire città sulla base della convinzione che disegno urbano e ambito pubblico vadano presi in considerazione solo alla fine e dopo aver sistemato tutte le questioni di proprietà, politiche di piano, fattibilità economica, significa sottoporle ad una forma di vandalismo da cui poche sapranno riprendersi.

Il giuramento dei Greci Ellenici nel momento di diventare cittadini ci lascia un potente messaggio: “Lasceremo questa città non meno, ma più grande, migliore e bella di come l’abbiamo ricevuta”. Se non diamo la possibilità ai nostri leaders di creare città belle, non solo ripeteremo gli errori del passato, ma condanneremo i nostri figli a viverci. Nota: qui il testo originale al sito del Guardian (f.b.)

Titolo originale: More than buildings will have to be rebuilt– Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

“New Orleans ha come risorsa principale la sua tradizione e la sua storia” dice Ari Kelman, una storico che ci ha vissuto due anni e mezzo a fare ricerche per il suo libro del 2003, A River and Its City: The Nature of Landscape in New Orleans. “Questo è un colpo duro”.

La gente di fuori conosce Big Easy per il jazz, il Quartiere Francese e la più importante festa del Nord America per il Mardi Gras. Sotto questa fama festaiola, sta una città profondamente influenzata dal colonialismo francese e spagnolo, e dalla cultura afroamericana che si sono intrecciate a formare il tessuto sociale e la psicologia collettiva di New Orleans.

”È il posto più magico del mondo”, dice il nativo di New Orleans e guru delle diete Richard Simmons.

Ma ora ci si chiede se questa magia non sia stata spazzata via per sempre.

“È tanto radicata nella nostra cultura. Ma ora mi sembra che lo spirito si sia spezzato” racconta il dirigente della CNN Kim Bondy, nativo di New Orleans la cui casa di mattoni a due piani è rimasta gravemente danneggiata dall’alluvione. “La cosa che mi colpisce profondamente, è che queste sono cose che non possono essere ricostruite, non si possono recuperare”.

New Orleans ha un’alta percentuale di residenti di lunga data, superiore a quella della maggior parte delle città degli USA. Migliaia sono dispersi, e si teme morti. Ci sono 350.000 abitazioni danneggiate o distrutte, altre migliaia gravemente colpite, proprietà e vite devastate. Nonostante le radici profonde, non è chiaro quanti degli sfollati decideranno di rendere permanente quell’esodo.

“Non sono sicuro che la città possa tornare” dice il romanziere nativo della Louisiana James Lee Burke, che ritiene che l’alluvione abbia semplicemente accelerato le lenta spirale in discesa della città, che durava da decenni, di deterioramento sociale fra droghe illegali, criminalità e assenza del governo.

Gli storici ricordano che New Orleans si è ripresa da tre epidemie a metà ‘800, quando morirono migliaia di persone, e dall’alluvione del Mississippi del 1927, che ne uccise centinaia. Ma la dimensione del colpo di Katrina non ha precedenti, e potrebbe cambiare per sempre l’immagine della città a gli occhi di residenti e turisti.

”New Orleans ha la fama di posto divertente” dice lo psicologo Robert Butterworth. “Le immagini di migliaia di persone in grande difficoltà, non aiutano in questo senso l’immagine della città”.

Ma, come Simmons, altri esprimono speranza per una rinascita di New Orleans.

Potrebbe anche rinascere più forte” pensa il commentatore politico James Carville, noto come il CajunInfuriato. “Non ci si dimentica come si suona il saxofono, o come si cucina, o si scrive. E nemmeno come ci si diverte. È tutto ancora qui. Disastri e calamità fanno parte della storia di New Orleans. Anche questo passerà”.

Nota: il testo originale di questo articolo, al sito di USA TODAY (f.b.)

Titolo originale: Second homes and the housing crisis– Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Un giorno apprendiamo della crisi nella disponibilità di abitazioni, e quello successivo che ci sono in Inghilterra 300.000 seconde case ( Guardian 5 agosto: Surge in second property ownership). È ora di smetterla col mito che la domanda supera sempre l’offerta. La quantità totale delle case a disposizione è sempre maggiore delle famiglie, e di recente è aumentata a livelli che non si vedevano dai primi anni ‘90.

I ricchi hanno investito i propri redditi crescenti in seconde case e abitazione da affittare.

I poveri hanno visto i prezzi crescere oltre le loro possibilità, e devono pagare l’affitto ai ricchi.

Il governo dovrebbe intervenire per fermare questo trasferimento di ricchezza verso i ricchi. Non può affermare di essere contro un intervento nel mercato edilizio, come dimostrano le iniziative per le “case a prezzi accessibili”.

Gavin Bailey, Londra

La difesa che fa Tristram Hunt delle green belt ha poco senso ( Guardian 5 agosto: Act now to save the green belt). Se l’obiettivo era quello di concentrare l’edificazione entro le aree urbane, allora perché poco dopo l’approvazione della legge nel 1955, si è assistito a un netto spopolamento di Londra, Liverpool, Manchester ecc?

Ciò significa fallimento per la politica della green-belt. Peggio ancora, la gran parte di questo spostamento di popolazione avvenne verso spazi oltre la green belt, in insediamenti a bassa densità di tipo pendolare. La green belt ha avuto come conseguenza la diffusione, anziché la concentrazione, dello sviluppo urbano.

Dr. Richard Williams, Università di Edinburgo

L’obiettivo di Jeremy Paxton, di trasformare un sito industriale in un nuovo insediamento ( Guardian 1 agosto: On the Waterfront) è condivisibile. Ma è un errore paragonare il fatto di affidare progetti ad architetti superstar, per promuovere delle seconde case, con gli obiettivi del Principe Carlo di una mixed community a Poundbury in Dorset.

Poundbury comprende fabbriche, uffici, un asilo, un pub e un negozio di alimentari, tutti raggiungibili a piedi da residenze miste, delle quali il 20% è a prezzi accessibili. L’approccio tradizionale utilizza materiali naturali per edifici ben progettati e realizzati, rivolti a persone con molti livelli di reddito.

Hank Dittmar

Responsabile della Foundation for the Built Environment

Nota: Il testo originale al sito del Guardian Di seguito gli articoli citati nelle lettere: On the Waterfront (1 agosto) Surge in second home ownership (5 agosto); Act now to save the green belt (5 agosto) (f.b.)

Titolo originale: A Park With a Powerful Spell – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Per costruire il suo parco a tema da sogno ad Anaheim, mezzo secolo fa, Walt Disney liquidò la sua assicurazione per la vita, e trasformò in contanti qualche immobile, compresa la casa vacanze a Palm Springs, per pagare il conto di 17 milioni di dollari ai costruttori.

Quando aprì i battenti il 17 luglio 1955 il parco tematico di Anaheim – con irritabili californiani del sud ad agitare ventagli in una giornata rovente – i gabinetti perdevano, le scorte di cibo finirono in fretta, e i tacchi delle signore affondavano nell’asfalto fresco. Alla Disney la chiamano ancora Black Sunday.

Ma sin dall’inizio, non si poteva non cogliere l’infatuazione del mondo per Disneyland, rito di passaggi per milioni di famiglie in vacanza. Nei cinquant’anni da quando Walt Disney sbancò quell’aranceto, il parco ha lasciato un’impronta enorme sulla cultura americana, influenzando l’idea di tempo libero familiare, i centri commerciali, l’immagine delle imprese e molto altro.

”Non c’è niente che si possa paragonare” dice Jamie O’Boyle, analista del Center for Cultural Studies and Analysis di Filadelfia. “È una calamita culturale per la gente ... Walt non ha costruito un parco divertimenti. Ha costruito la prima realtà virtuale”.

Altri sono meno lusinghieri, e sostengono che il parco è troppo artificiale, controllato, idealizzato. Lo scrittore italiano Umberto Eco suggerisce che Disneyland sia “la Finzione Assoluta”. Dopo aver affrontato le fauci aperte degli alligatori nella Jungle Cruise di Disneyland, Eco è rimasto perplesso perché nessuno prendeva il vapore a ruota del Mississippi.

”Si rischia la nostalgia di casa per Disneyland, dove gli animali selvatici non devono essere domati”, ha scritto Eco nel suo saggio “ La Città dei Robot”, del 1975.

Davvero nessuno ha padroneggiato – guadagnandoci – la fantasia e l’illusione quanto la Walt Disney Co., una potenza dell’intrattenimento da 30 miliardi di dollari, che ha trasformato le attrazioni dei parchi tematici in film da grandi incassi o una mazza da hockey in un sistema economico-sportivo.

Il parco originale di Anaheim, da solo, attira più di 13 milioni di turisti l’anno, e l’anno scorso vi sono stati spesi oltre 1,9 miliardi di dollari. I fans hanno comprato più di 78,6 milioni di paia di orecchie da Topolino: abbastanza per ornare la testa di tutti i bambini d’America.

Disney costruì il suo sogno in meno di un anno, trasformando 65 ettari di aranceto e noccioli nel Castello della Bella Addormentata, un fiume nella jungla e un razzo per portare la gente sulla Luna.

Un abitante che se ne fosse andato da Anaheim nella primavera del 1954, tornando un anno dopo “avrebbe sperimentato una delle più incredibili trasformazioni della sua vita”, ricorda l’ex presidente della locale Camera di Commercio, Earnest W. Moeller, in una memoria storica del 1980 per gli archivi della biblioteca.

”Non restava nessuna traccia del paesaggio precedente, completamente cancellato … Ed entrando dal cancello, camminando nel parco nascosto da un terrapieno, sarebbe rimasto sconvolto nello scoprire che qui era nato il parco divertimenti più all’avanguardia del mondo”.

L’opera era anche più notevole, dato che l’industria dei parchi era in difficoltà. Anche i più grandi, come Coney Island, per la maggior parte si rivolgevano ai giovani, per rubare un bacio sulla grande ruota panoramica.

”Erano, nell’opinione di Walt, posti decadenti con gente spaventosa” ricorda O’Boyle.

Disney trasformò il parco divertimenti in “parco tematico”, un gradino più in alto per l’intrattenimento familiare.

”Disneyland seppe catturare l’immaginario collettivo, rivoluzionando realmente l’industria dell’intrattenimento in tutto il mondo”, dice Phil Hettema, ex vicepresidente anziano del settore attrazioni alla Universal Studios.

”Aggiunse uno strato di storia, esperienza, sopra e oltre dei bei padiglioni ben progettati, o le giostre dalle luci scintillanti ... Se si voleva essere un uomo dello spazio, o andare sull’isola di Tom Sawyer, diventare un abitante della frontiera o sognare una battaglia coi pirati, si poteva farlo: tutto in un giorno”.

Disney non era il primo a tentarlo. A pochi chilometri di distanza, la Knott’s Berry Farm al Buena Park portava la gente nel Vecchio West. Ma il parco di Disney era più grandioso, tecnicamente avanzato, con un approccio di mercato senza precedenti, che usava uno spettacolo televisivo per condurre la gente dietro le scene della costruzione di Disneyland.

Disney trasse profitto dall’atmosfera felice degli anni ‘50. Trasse profitto dalla ricchezza del dopoguerra, dal baby boom, dalla creazione del sistema autostradale interstatale che metteva Disneyland alla portata del resto del paese.

Da allora, altri hanno seguito la stessa strada: Sea World, gli Universal Studios, anche Las Vegas, che ha adottato alberghi tematici e attirato le famiglie con montagne russe e maghi. Ma nessuno è riuscito a replicare Disneyland, che fissò il gold standard per il settore. Quasi 500 milioni di persone sono passate attraverso quei cancelli, rendendolo il più popolare parco divertimenti del mondo.

A partire dall’inaugurazione, esperti e gente comune hanno tentato nello stesso modo di analizzarne il senso e il successo. Disneyland ha ispirato centinaia di libri, articoli su oscure riviste accademiche, corsi universitari dove se ne dissezionano le mistiche e valutano gli impatti.

Il museo moderno, ad esempio, riflette l’esperienza di Disneyland utilizzando una particolare illuminazione o mostre a full-immersion. Nelle banche e aeroporti, la gente aspetta in file “ switch-back” sperimentate per la prima volta da Disney. Ed è stato Disneyland a introdurre il termine “ospite” nel lessico del servizio al cliente.

Disneyland ha influenzato anche la Madison Avenue, impartendo lezioni sulle sinergie di impresa, i marchi, le promozioni incrociate. Think Happy Meals, Kodak Moments, Il Re Leone a Broadway.

Margaret King, studiosa di Disney che ha scritto l’introduzione per i parchi a tema nella Guide to United States Popular Culture, dice che tutto fa parte dello “Effetto Disney”.

“È una cosa enorme. Disney ha permeato di sé la nostra cultura. È quasi più facile cercare qualcosa che non sia stato influenzato”.

La Main Street di Disneyland ha ispirato le città per inserire innovazioni in centro, attraverso immagini del borgo tradizionale. Ha contribuito alla progettazione dei centri commerciali moderni, connettendo i negozi in modo tale che si possa passare da uno all’altro senza uscire all’esterno. E scimmiottando Disneyland, i malls di oggi si evolvono verso complessi per l’intrattenimento con cinema, ristoranti, e in alcuni casi anche attrazioni da parco divertimenti.

Architetti e urbanisti riconoscono il ruolo di Disneyland con continui commenti su riviste e nei convegni di settore. Il parco è stato definito “Utopia simbolica americana”.

Disneyland fu pianificato sin nei più minuti dettagli pratici. Ci sono alte recinzioni a isolare i frequentatori dal mondo esterno. Altoparlanti nascosti diffondono piacevoli musiche in ogni angolo. Negozi di dolciumi e pasticcerie soffiano deliberatamente profumi di vaniglia e cardamomo sulla Main Street.

”Quello che si costruisce è un “Realismo Disneyano”, specie di natura utopistica, dove si programma accuratamente l’esclusione di tutti gli elementi negativi e indesiderati, e l’inclusione dei positivi” scrive nel 1975 in un manuale d’impresa l’artista e designer John Hench.

”Creiamo un mondo dove sia possibile rifugiarsi ... e godere alcuni brevi momenti .. un mondo fatto come vorremmo che fosse”.

È tanto, intenso, lo sforzo di Disneyland per perpetuare la propria immagine da Pollyanna, che i responsabili hanno ritardato di 90 minuti l’intervento della polizia di Anaheim in una sala convegni Disney, quando la vigilia di Natale del 1998 un pezzo di metallo staccatosi dal ponte del veliero Columbia colpì fatalmente un turista. La polizia fu ammessa solo dopo che alcuni addetti avevano ripulito il sangue e portato via tutte le prove.

Nell’alimentare la propria reputazione, Disneyland ha da lungo tempo imposto il proprio senso morale e convenzioni sociali. Orientato in modo conservatore. L’alcol si serve all’interno dell’esclusivo Club 33, riservato ai soli soci. I dipendenti, chiamati cast members, devono portare targhette col nome proprio, e sono indottrinati sul “ Disney Look”, descritto come “pulito, naturale, leggero e professionale, [che] evita le tendenze “all’eccesso” e gli stili estremi”. Una guida di 18 pagine proibisce di aggrottare la fronte, masticare gomme, stare scomposti e chiacchierare troppo al cellulare.

Fino al 1998 erano proibiti pure i baffi, anche se Walt ne ostentava un bel paio curato. E ci sono anche regole sulle calze (consistenti, senza marchi), le mutande (bisogna portarle), le unghie (non vanno dipinte di colori brillanti, come rosa o corallo).

Nel 2003, sono stati autorizzati gli orecchini col buco, purché non più grandi di una monetina. Il doppio piercing resta vietato.

Il cambiamento dei gusti e degli orientamenti collettivi non si riflette solo sui dipendenti, ma anche sulle attrazioni.

Il parco aprì nel 1955 con diciotto divrese attrazioni a pagamento. Molte esistono ancora, come Autopia, Mad Tea Party, Jungle Cruise o Mr. Toad’s Wild Ride.

Ma per restare all’avanguardia il parco si è costantemente evoluto.

Sono arrivati e scomparsi Michael Jackson e Captain EO, e nello stesso modo è diventata obsoleta la Casa del Futuro, o il Razzo per la Luna. I Pirati dei Caraibi anno dovuto sottostare al political correct, coi pirati a caccia di ragazze che inseguono ora giovani cameriere che portano vassoi carichi di vivande, golosi anziché concupiscenti. I capitani della Jungle Cruise sono stati obbligati nel 2001 ad appendere al chiodo la fondina, solo per tornare alle armi da fuoco quest’anno, in un impeto di nostalgia.

Le ultime attrazioni sono decisamente ad alta tecnologia: Buzz Lightyear Astro Blasters, una struttura ispirata a “ Toy Story” rivolta alla generazione di internet. Unisce un percorso e un videogioco tiro a segno, consentendo anche di giocare da casa, online. Alla fine del percorso, si possono mandare via e-mail delle foto agli amici.

Alcuni critici sostengono che questo “Realismo Disney” altro non è se non “Disneyficazione”: una verniciatura che da’ a tutto un aspetto più superficialmente positivo, a spese della storia o della realtà. Negli anni ’50 una delle poche presenze di neri era Zia Jemima che salutava i clienti della Pancake House. Attrazioni come “Grandi Momenti con Mr. Lincoln” chiosano su argomenti come la schiavitù; dentro a It's a Small World, i bambini cinesi sono rappresentati con addosso i cappellini da coolie.

Di conseguenza, la protesta politica trova in Disneyland un palcoscenico perfetto, con quello sfondo da Utopia che tanto contrasta con problemi come la discriminazione sociale o la guerra.

Fra gli incidenti memorabili: l’invasione nel 1970 da parte di 300 Yippies (membri dello Youth International Party fondato da Abbie Hoffman e Jerry Rubin). I contestatori dai lunghi capelli sciamarono sulla isola di Tom Sawyer Island, issando la bandiera Viet Cong. Ci furono diciotto arresti, la maggior parte per danneggiamento degli ingressi o disturbo della quiete pubblica.

”Ci limitammo ad andare un po’ in giro, a salire sulle attrazioni, eccitarci e fare casino” dice il contestatore Mike Jones, che ora ha 60 anni e vive in Idaho. “In qualche modo si rompevano le convenzioni sociali. Fu una grande protesta, un bel teatro di strada, ed era divertente scuotere un po’ l’ establishment della Disney”.

La Disney era accusata di sostenere idee conservatrici, ma è arrivata a tollerare e anche a sostenere alcune trasformazioni sociali.

Negli anni ‘90, ai parchi Disney furono celebrate con la tacita approvazione della compagnia le “Giornate Gay”, attirando migliaia di omosessuali e il boicottaggio della chiesa Southern Baptists e della conservatrice American Family Association.

Entrambi i gruppi hanno sospeso la protesta quest’anno.

Nonostante tutto questo bailamme la popolarità di Disneyland ha continuato a crescere, ben oltre i confini di Middle America.

Ha attirato leaders mondiali, campioni olimpici, astronauti, stelle del cinema.

Nel caso dell’imperatore giapponese Hirohito, la visita del 1975 a Disneyland e la foto di fianco a Topolino – trasmessa dal vivo in Giappone – ha aiutato a ricostruire la sua immagine, da personaggio militare a anziano nonno, rafforzando l’infatuazione giapponese per tutto ciò che è Disney.

Anche il premier sovietico Nikita Khrushchev strepitò per visitare Disneyland nel 1959: e fece il diavolo a quattro quando gli fu impedito l’ingresso da funzionari governativi per motivi di sicurezza.

”Mi hanno appena detto che non posso andare a Disneyland” disse Khrushchev durante un discorso tenuto a Los Angeles. “Chiedo: perché no? Avete basi missilistiche là dentro? C’è un’epidemia di colera? C’è una banda di gangsters che si è impossessata del parco?”

Il suo scatto mette in luce l’importanza di Disneyland nella cultura americana, il suo esserne la quintessenza. La squadra Disney per il marketing ha ben sfruttato questo aspetto, e andando anche oltre ha suggerito – in una campagna pubblicitaria del 1987 – che un giorno a Disneyland fosse la ricompensa più giusta per un record sportivo.

Il quarterback dei New York Giants, Phil Simms, dopo aver portato la sua squadra alla vittoria nella ventunesima edizione del Super Bowl, lanciava un trionfante (e memorabile) grido: “Ora me ne vado a Disneyland!”.

Divenne parte del vocabolario nazionale.

”È il modo di questa generazione, di cogliere un grande risultato in una frase” disse il consulente di marketing sportivo David Carter. “Si è riusciti in qualche modo a collegare sogni ed eroi [a Disneyland]”.

Ma lungo tutti i 50 anni, la missione essenziale di Disneyland è rimasta identica.

Per Troy e Maricel Doerschel, ha offerto una via d’uscita – un po’ di conforto – nei giorni dopo l’11 settembre 2001, quando tutti i voli erano bloccati e si trovarono spiaggiati in vacanza a Disneyland, a 2000 chilometri da casa.

Sognavano di tornare a Seattle, ma Disneyland si rivelò un posto quasi altrettanto buono.

”In un modo un po’ triste, ero felice di essere a Disneyland”, dice Troy Doerschel, trentaquattrenne direttore di un ufficio. “Quando vedi gli ingressi, i fiori – i fiorni a forma di Topolino – senti come se stessi per sollevarti da terra e iniziare a volare”.

Nota: al sito del Los Angeles Times, il testo originale, una galleria di immagini e una cronologia dettagliata di Disneyland (f.b.)

Di fronte a un titolo come The Flood (L’inondazione), per di più a distanza di pochi mesi dallo tsunami, chiunque sarebbe legittimato ad aspettarsi una mostra di catastrofi alla Virilio, densa di immagini terrificanti e sostenuta dal più dionisiaco antipositivismo. La 2ª biennale di architettura di Rotterdam (27/5/2005-26/6/2005, Las Palmas, Wilhelminapier 66-68, 27/5/2005-4/9/2005, Netherlands Architecture Institute, Museumpark 25) tematizza invece la relazione tra l’acqua e il territorio costruito: l’inondazione non è un evento straordinario e spettacolare, ma un rischio costante che va tenuto sotto controllo attraverso la pianificazione del territorio e del sistema delle acque.

L’Olanda, che più di ogni altro paese ha dovuto porsi questo problema – un quarto della sua superficie, frutto del processo di polderizzazione, si trova sotto il livello del mare – ha elaborato nel corso di secoli tecnologie idrauliche raffinatissime e strategie di intervento sul territorio che hanno garantito un buon equilibrio ambientale. Era l’artificialità assoluta di questo paesaggio strappato alle acque, fatto di linee rette a perdita d’occhio, a esercitare già sui viaggiatori del Grand Tour un fascino insolito, completamente diverso da quello che scaturiva dalle rovine romane o dalle sublimi eruzioni del Vesuvio.I polders erano l’espressione di un approccio collettivo, lungimirante e processuale alle questioni territoriali, fiducioso nella capacità di non farsi travolgere («Eppure la gente dorme in questo paese», annotava Diderot). Si trattava di un modello culturale al tempo stesso più democratico e più efficace rispetto all’ideologia delle grandi opere, destinate inevitabilmente a sconvolgere interi ecosistemi.

L’operazione messa in piedi dal curatore della biennale, Adriaan Geuze, architetto paesaggista del gruppo West 8, consiste nel legare questa tradizione olandese alle sfide mondiali del futuro (innalzamento del livello degli oceani, consumo del suolo, crescita smisurata del fabbisogno abitativo) attraverso cinque mostre: Polders, Three Bays, Water Cities, Flow, Mare Nostrum. Le prime due sono una ricostruzione storica delle bonifiche olandesi e dell’evoluzione delle baie di Amsterdam, Venezia e Tokyo, mentre Water Cities espone decine di modelli delle città d’acqua di tutto il mondo in ordine cronologico – porti commerciali, cittadelle militari, le utopie di Archigram e Constant, fino alle sterminate distese di container di Shanghai e alle isole a forma di palma di Dubai per turisti di lusso.

In questa biennale sui generis, che invece della solita carrellata di star dell’architettura mette in mostra idee e problemi, gli unici progetti esposti si trovano nell’ultima sezione delle città, New Dutch Water Cities, e in Flow. Alcuni di questi tendono ad assecondare il carattere effimero dei territori modellati dalle acque, come Catamaran city di Spacegroup, un «nuovo tipo di spazio pubblico» appoggiato a una sottile striscia di sabbia che compare occasionalmente al largo di Goeree. Oppure sono pensati per sfruttare, letteralmente, l’acqua: è il caso del WAVEgarden di Yusuke Obuchi, una centrale elettrica in forma di membrana galleggiante, composta da 1734 elementi che mossi dalle onde generano energia, o del notissimo Lifescape di James Corner (Field Operations), un piano che in 25 anni convertirà la più grande discarica del mondo, Fresh Kills a Staten Island (quella di Underworld di Don DeLillo), in un parco pieno di laghi e zone umide grande tre volte il Central Park.

Fin qui la pars construens. La destruens è un attacco serrato contro la logica dello sprawl, dell’occupazione indiscriminata del suolo in nome di uno sviluppo spesso controproducente, come nella Los Angeles descritta da Mike Davis (nel 1995 Adriaan Geuze aveva polemicamente ricoperto il pavimento dell’NAI con ottocentomila casette in scala, contro un piano governativo che prevedeva la costruzione di centomila abitazioni l’anno). Ma anche, e soprattutto, contro l’abbandono di quell’insieme di pratiche e competenze incrociate, architettoniche e ingegneristiche, che avevano reso possibile il modello olandese: «Negli anni Settanta – scrive Geuze – è emersa una generazione di professionistiche ha tentato di porre bruscamente fine a secoli di bonifica e all’ambizione di una pianificazione nazionale […] Fortunatamente questi baby-boomers si stanno avvicinando alla pensione».

In Mare Nostrum, una riflessione fortemente critica sulle conseguenze sociali e urbanistiche del turismo di massa, diciassette curatori stranieri hanno svolto una ricerca sullo sviluppo costiero dei loro paesi. Capitalist Metastasis, curata da Arman Akdogan per la Turchia, insiste sulla cattiva qualità dell’urbanizzazione indotta dal turismo e dal fenomeno in crescita dell’immigrazione permanente dai paesi nordeuropei: i servizi vengono stornati a favore dei turisti, i prezzi delle abitazioni aumentano, le risorse naturali vengono consumate e le città sformate. Manuel Gausa si interroga su come far evolvere quell’uniforme marketscape che si estende dalla Catalogna all’Andalusia. Un team di architetti croati cerca di liberarsi dell’eterna impasse del pensiero orientato al turismo – costruire alberghi e villaggi o lasciare il territorio vergine per attrarre più gente – ed elabora dei progetti finalizzati alla democratizzazione del paese.

La spettacolare massa di dati al centro della sala è ancora più eloquente: decifrandoli si viene a sapere, tra l’altro, che il 70% del denaro prodotto dal turismo in Thailandia viene incassato dalle multinazionali estere; che un turista consuma ogni giorno 15 volte più acqua di un cittadino di Zanzibar; che con l’acqua necessaria a un campo da golf in Malaysia si possono irrigare i campi di cento fattorie. Un vero affare.

Tre giorni di digiuno totale. È il prezzo che pago dopo aver seguito Zhang Yifei in una bettola di Yuanjiang a mangiare la specialità locale: sangue di maiale, una gelatina marrone che si scurisce dopo esser stata fritta in olio nero come il catrame. La visita alla cucina avrebbe dovuto dissuadermi. Onorato di esibirsi di fronte allo straniero lo chef si accanisce con mani lerce su zampe e teste di galline, interiora di animali di cui non chiedo la specie, pesci maleodoranti, mentre sotto i suoi piedi uno scolo aperto evacua i rifiuti alimentari insieme con quelli della vicina latrina. Avrei potuto spacciarmi per vegetariano però non volevo deludere Zhang Yifei. A 28 anni Zhang è una figura che non ti aspetti d´incontrare in questa regione depressa dello Hunan. Sbarca il lunario come giornalista precario e fotografo occasionale per dei quotidiani locali, ma la sua vera occupazione è militante ambientalista. È il rappresentante locale del Wwf - una novità resa possibile solo pochi anni fa, quando la Cina ha legalizzato certe organizzazioni non governative. La missione della sua vita, la ragione per cui mi accompagna attraverso le wetland (zone umide) dello Hunan, è salvare il Dongting. Il grande lago scomparso nel cuore della Cina.

Il Dongting occupa un posto importante nella storia cinese. Per millenni fu la più immensa distesa d´acqua del Paese. Più mare che lago, si allargava dal fiume Yangtze a nord al fiume Xiang a sud, sconfinava dallo Hunan fino alla regione dello Hubei. Antiche leggende sono ambientate qui, come la storia del poeta Qu Yuan del terzo secolo prima di Cristo, annegatosi suicida in una sera di maggio: da allora a maggio ogni anno i pescatori hanno attraversato il lago sulle barche con la testa di dragone, hanno gettato in acqua i zongzi (riso dolce bollito e avvolto in fagottini di foglie) perché i pesci restituissero il corpo del poeta. L´isola di Junshan in mezzo al lago è l´unica dove cresce il benefico tè "Aghi d´Argento", pregiata varietà le cui foglie non affondano ma restano sempre a galla nell´acqua bollente, una rarità riservata alla famiglia imperiale nella dinastia Qing. Qualcosa della magia passata rimane, quando al tramonto la grande palla rossa del sole si rispecchia nell´acqua immobile, le barche piatte dei pescatori tornano a casa, gli stormi di gru e aironi attraversano l´orizzonte rosa. Ma l´imponente Dongting di una volta non c´è più. È svanito da gran parte delle terre che occupava, si è ritirato sempre più indietro. Lo Earth Policy Institute lo ha messo nell´elenco dei grandi laghi in via di estinzione. Ancora 150 anni fa era largo 6.200 chilometri quadrati, negli anni Cinquanta si era ristretto a 4.350, oggi ne restano 2.700 ed è retrocesso al secondo posto fra i laghi cinesi. Ben più di metà del Dongting non esiste più. 3.500 chilometri quadrati d´acqua spariti: è come se fossero finiti nel nulla, evaporati, inariditi dieci laghi di Garda. È tutta terra rubata al Dongting dagli uomini, avidi di superficie coltivabile. La distruzione dei laghi si unisce con un altro flagello ambientale, la desertificazione della Cina: già il 28% del paese è sabbia e rocce sterili, e ogni anno i deserti avanzano implacabili rubando altri 10.000 km quadrati di territorio. Stretta in questa tenaglia, fra uomini e deserti che l´assediano, l´acqua lentamente abbandona un miliardo e trecento milioni di cinesi. Lo smog delle città è la più visibile, ma la prima grande calamità ambientale a stremare la Cina sarà la crisi idrica.

Dieci milioni di contadini vivono coltivando i campi fertili rubati al lago Dongting. Lo hanno cacciato indietro generazione dopo generazione, a furia di tante piccole dighe costruite con le loro braccia, terre umide emerse come i polder olandesi ricavati dal mare. Ma migliaia di chilometri di piccole dighe rudimentali, un labirinto artigianale di terriccio e sassi, sono un pericolo mortale. Il lago sconfitto e umiliato si vendica sugli uomini. La sua maestosa dimensione originale offriva un ampio sfogo alle ricorrenti piene dello Yangtze. Ora quando il fiume straripa dal suo letto la violenza spazza via le piccole dighe come fuscelli. Crudelmente, in un paese dove manca l´acqua, le inondazioni uccidono ancora. Negli anni Novanta quelle dello Yangtze si sono fatte più frequenti e devastanti. «Combatti un esercito con un altro esercito; combatti l´acqua con la terra» diceva l´antico proverbio cinese. Ma nel 1998 la disperazione lanciò l´armata nazionale in un´impossibile guerra contro le acque scatenate dello Yangtze. Quell´anno, mentre il fiume incontenibile travolgeva tutti gli argini, l´Esercito di Liberazione Popolare mandò allo sbaraglio due milioni di soldati, poliziotti e riservisti a combattere a mani nude contro le inondazioni, la più grande mobilitazione militare dalla seconda guerra mondiale. Almeno 4.000 morirono annegati.

L´esperimento degli ecologisti

Da Yuanjiang si arriva al polder di Xipanshanzhou, dove Zhang Yifei mi guida alla scoperta di un esperimento promosso e finanziato dal Wwf: restituire, un pezzetto alla volta, un po´ di terre rubate al lago Dongting. Questa zona di 110 ettari è stata scelta perché per tre volte consecutive in tempi recenti, dal 1996 al 1999, qui le dighe sono state travolte, le inondazioni hanno distrutto le case dei contadini, affogato le loro coltivazioni, annientato i loro miseri beni. «Le catastrofi - spiega Zhang - ci hanno aiutato ad aprire gli occhi ai contadini sull´insostenibilità di quell´errore ambientale che è stato l´assalto al lago Dongting». Con il benestare delle autorità Zhang Yifei e un pugno di ecologisti locali hanno convinto questi contadini a tornare alle origini. Abbandonare le case costruite nelle terre basse e ricostruirle in collina. Rinunciare a coltivare le zone umide, aprire le dighe per allagare i campi, riconvertirsi ad altri mestieri: allevamento di oche e anatre, pesca.

Piano piano a Xipanshanzhou il paesaggio cambia. Dove c´era terra tornano a vedersi specchi d´acqua. Certo non rinasce d´un colpo il paesaggio antico. Il vero Dongting è ancora lontano da qui. Al posto del lago magnifico bisogna accontentarsi di un mosaico di stagni, bacini e laghetti. Tutt´attorno è una landa desolata, con qualche "cattedrale nel deserto" che ricorda disastrosi piani di industrializzazione. Spiccano le ciminiere orrende di una cartiera abbandonata: costruita in omaggio al presidente Mao che nacque in questa regione, inefficiente e in perdita, fu chiusa licenziando gli operai pochi anni fa. Nessuna ricchezza creata, solo un deposito di rifiuti tossici in fondo al lago.

Anche l´acqua con cui vengono ri-inondate le terre basse viene dallo Yangtze ed è spesso inquinata, purificarla costerà altro tempo e denaro. Veleni nuovi e pericoli antichi si mescolano in queste zone palustri. Le acque sono infestate di invisibili vermi che penetrano la carne umana, a un forestiero possono spappolare il fegato in pochi mesi ma pescatori e contadini dicono di essere quasi immuni, in loro la malattia è endemica e raramente colpisce in forma mortale. Gruppi di pescatori dormono sotto tende di plastica piantate sulla nuda terra, una stufetta è il massimo comfort, l´acqua potabile va a comprarla in città l´unico che possiede una moto. Ogni tanto qualcuno va e viene in barca ma la loro vita scorre al rallentatore, per ore intere fumano e fissano il vuoto. «Il pesce lo vendiamo 2 yuan al chilo (20 centesimi di euro), è un´annata magra e ognuno di noi non guadagnerà più di 500 yuan al mese».

Questa è la Cina che ancora sembra India, con le stesse puzze, la mancanza di fogne e di igiene. Per tre giorni non incontro un occidentale. Nei negozi l´unica marca estera ad essere arrivata è la Coca Cola. Solo il capovillaggio di Xipanshanzhou, che è anche il capo del partito comunista, ha un privilegio che è segno di benessere: tre figli iscritti all´università. Le idee (e i soldi) del Wwf lo hanno convertito. In casa sua a fianco a un manifesto di Mao esibisce un cartellone pubblicitario con due parole che qui suonano incredibilmente esotiche: eco-turismo, agricoltura biologica. Zhang Yifei sogna questo miracolo. Resuscitare il lago scomparso e dare un futuro agli abitanti della zona trasformandola in un´oasi naturalista, attirando un turismo sofisticato, e consumatori in cerca di frutta e verdura non contaminate. Il capo villaggio esibisce con orgoglio un pozzo dei rifiuti attrezzato per produrre bio-gas, ci fa assaggiare arance coltivate senza concimi chimici né pesticidi (dice lui). Ci invita a pernottare nella sua villetta a due piani, inaugurando così il primo agriturismo della zona. Dopo una breve ispezione dei letti e del bagno la mia interprete, cinese di Pechino, oppone un rifiuto irremovibile. Zhang Yifei sospira rassegnato. È lunga la strada da fare per attirare qui gli eco-turisti, o per vendere le arance biologiche ai supermercati Carrefour di Shanghai, dove l´alta borghesia urbana ormai preferisce strapagare la frutta e verdura della Nuova Zelanda, per evitare i veleni dell´agricoltura cinese.

La battaglia più difficile

Zhang Yifei è un volontario in prima linea nella battaglia più difficile della Cina. Il destino del lago Dongting che lo appassiona non è un caso isolato. Nelle grandi pianure del nord è scomparso quasi del tutto un intero fiume con 300 affluenti, lo Hai. Il Fiume Giallo, la culla della civiltà cinese sulle cui rive le prime popolazioni di razza Han costruirono l´impero 4.000 anni fa, ormai per un terzo dell´anno è così secco che non arriva più fino al mare. La Cina ha dovuto creare un Ministero dell´Acqua, e il suo titolare Zhai Haohui descrive questa realtà: «Un terzo della popolazione rurale, cioè 360 milioni di persone, non hanno acqua potabile. Il 70% dei fiumi e dei laghi sono gravemente inquinati», comprese dosi massicce di arsenico. È al collasso la rete idrica delle metropoli sovrappopolate di Pechino e Shanghai, Canton e Chongqing, che negli ultimi vent´anni hanno assorbito la marea demografica di 200 milioni di immigrati dalle campagne.

La malattia dei laghi e dei fiumi è aggravata da decenni di disboscamenti - il legname consumato dal boom economico - che hanno reso la Cina sempre meno "umida". Dove si ritirano il verde e le acque si insedia un nuovo padrone: la sabbia. Senza le barriere delle foreste, le tempeste di sabbia arrivano direttamente a Pechino dal lontano deserto di Gobi. Cinque anni fa in una delle peggiori tempeste, a 160 km a nord di Pechino la valle di Fenging, il fiume Chaobai e la cittadina di Langtougou sono state sepolte dalle dune, costringendo l´allora premier Zhu Rongji a lanciare un allarme nazionale. Nella sua avanzata oggi il deserto è a 70 km dalla capitale, in una zona dove pochi secoli fa la famiglia imperiale aveva laghetti, parchi e riserve di caccia. Chi arriva a Pechino in aereo dall´Europa o dagli Stati Uniti sorvola per ore le distese aride, un oceano pietrificato grigio e giallo, montagne sterili e altipiani senza un filo d´erba. La lunga linea di confine del deserto che si estende dalla Manciuria fino al Xinjiang nell´Asia centrale, secondo i geologi si espande alla velocità di tre chilometri all´anno. Otto secoli dopo le orde mongole di Gengis Khan un nuovo flagello incombe dal nord.

Di fronte a questa emergenza le autorità reagiscono con il riflesso condizionato dell´epoca maoista: lanciano campagne di mobilitazione nazionale. La campagna contro la deforestazione. La campagna per il rimboschimento. La campagna contro gli sprechi d´acqua. Le scolaresche vengono mandate a piantare giovani arbusti attorno a Pechino perché ricrescano barriere naturali contro la sabbia. Dietro la retorica ufficiale è difficile misurare i risultati reali. Alcuni agronomi denunciano operazioni di rimboschimento fatte solo per le telecamere, e il 60% degli alberi muoiono poche settimane dopo. La collusione tra il potere politico e il nuovo capitalismo cinese vanifica le leggi contro l´inquinamento. I fiumi continuano ad essere avvelenati dalle fabbriche, e per fronteggiare la crisi idrica avanza un cantiere temerario: tre canali sud-nord che dovranno dirottare 44 miliardi di metri cubi d´acqua dallo Yangtze e dai suoi affluenti, il sacrificio dei fiumi per dissetare le metropoli. L´impatto ambientale è un incubo.

Lontano da Pechino e dai suoi progetti titanici, Zhang Yifei con la sua jeep che affonda nel fango continua a fare la spola tra i polder. Racconta le virtù del grande lago fuggito, invoca l´apertura delle dighe, educa i paesani dello Hunan ad allevare pesci senza antibiotici e mele senza prodotti chimici. Deve farlo perché un giorno, lui ne è certo, l´ecologia sar

Titolo originale: FoE anger at leaked planning law changes – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Gli ambientalisti accusano il governo scozzese di un “brutale gesto di potere” dopo la fuga di notizie riguardo a proposte urbanistiche che renderebbero quasi impossibile per i cittadini obiettare ai principali progetti, come autostrade, discariche, centrali nucleari.I Friends of the Earth affermano che alcuni documenti ufficiali di cui sono venuti in possesso suggeriscono come i ministri vogliano accentrare la pianificazione in Scozia, avocando a sé poteri senza precedenti sui grandi progetti.I piani classificati di interesse nazionale potrebbero essere messi in discussione solo in termini localizzativi o nei dettagli, non riguardo alla necessità, affermano rappresentanti del FoE.”Non è niente di meno che un brutale gesto di potere, da parte di ministri che vogliono accentrare l’urbanistica, ridurre la partecipazione pubblica e consentire di imporre progetti controversi e ambientalmente dannosi” sostiene il coordinatore dei FoE scozzesi, Duncan McLaren.”Chi può dirlo ... anche le centrali nucleari potrebbero entrare in questo proposto sistema senza alcun riguardo per l’opinione pubblica. In teoria, tutto quel che resterebbe ai cittadini per condizionarle, sarebbe scegliere di quale colore dipingerle”.Nel memoriale pervenuto, dal titolo Modernising the Scottish Planning System, si propone che nel caso in cui l’esecutivo consideri un progetto di importanza nazionale, si possa “limitare la possibilità di discuterne la realizzazione ... limitando il dibattito a localizzazione, e a considerazioni di dettaglio sugli effetti ambientali associati”.Le priorità nazionali fissate dall’esecutivo sarebbero sottoposte all’esame di Holyrood [palazzo di Edimburgo sede del governo n.d.T.], ma non all’approvazione parlamentare.McLaren afferma che questa proposta, che potrebbe essere inserita nel progetto di legge per la riforma urbanistica il prossimo mese, significa carta bianca alla realizzazione di opere senza diritto di appello per le comunità, e nessuna possibilità di contestare il bisogno delle grandi opere, indipendentemente dal loro impatto.Questa controversia segue di meno di un mese una precedente fuga di notizie, su una memoria relativa a un progetto ministeriale di rendere più scorrevole il sistema di pianificazione scozzese introducendo il diritto di appello per parti terze.Il partito Scottish Green ha affermato che quest’ultima fuga di notizie conferma come il governo si prepari a ignorare le preoccupazioni ambientaliste e dei cittadini.”Si può vedere per certo che l’esecutivo è orientato al 100% verso ciò che vuole la lobby dei grandi affari, e non ciò di cui vuole o ha bisogno l’ambiente” ha affermato un portavoce. “In qualche modo, questo memoriale non è una sorpresa, ma vedere le cose messe così nero su bianco è comunque scioccante”.Un portavoce del governo ha rifiutato di commentare l’affermata fuga di notizie.Il ministro per il governo locale, Malcolm Chisholm, dichiara che non è stata ancora presa nessuna decisione.”Stiamo lavorando su una serie di proposte pensate a migliorare e fluidificare le procedure urbanistiche” ha detto. “Siamo decisi a equilibrare i diritti delle comunità con il bisogno di un sistema di pianificazione più efficiente”.Le priorità di pianificazione del governo sono già sotto tiro, dopo l’approvazione del nuovo tratto di autostrada M74 attraverso Glasgow, nonostante una consultazione pubblica chiedesse di non farla proseguire.Il FoE dichiara che ora eserciterà pressione sull’esecutivo, perché le ultime proposte vengano ritirate.

Nota: qui il testo originale al sito del Guardian (f.b.)

Titolo originale: Quake shakes up tsunami fears – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

BANGKOK – Le organizzazioni di soccorso tentano di raggiungere l’isola indonesiana di Nias, dove si teme siano morte più di 2000 persone in seguito al forte terremoto di lunedì notte al largo della costa dell’Indonesia, che ha diffuso in tutta l’Asia panico e timori che arrivasse un altro tsunami assassino.

Nelle ore immediatamente successive alla scossa milioni di persone della regione, ancora in fase di recupero dopo le devastanti onde che hanno colpito le coste il 26 dicembre, hanno atteso con ansia la conferma che le forti scosse di Sumatra non avessero innescato un disastro simile. Quando le temute onde provocate dal sisma non si sono mostrate, le agenzie di soccorso hanno cominciato a mobilitare i propri mezzi.

”Stiamo preparando i materiali per l’emergenza da inviare e i nostri elicotteri sono pronti a decollare verso l’arcipelago delle isole di Nias” ha dichiarato a Inter Press Service Bekele Geleta, capo delegazione per il sud-est asiatico della Federazione Internazionale di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa.

”La Croce Rossa indonesiana ritiene di avere soccorsi sufficienti a Sumatra.I suoi elicotteri partiranno presto, concentrandosi sulle isole dell’arcipelago di Nias. Un aereo Cessna della Croce Rossa decollerà dalla capitale di Sumatra, Medan, per controllare la linea di costa” aggiunge Geleta.

Ma nonostante le forniture di soccorsi siano sufficienti, il rappresentante della Croce Rossa ammette che le carenze nelle comunicazioni rallenteranno le operazioni di soccorso. “Il collegamenti con la zona di costa indonesiana prospiciente a Nias sono statti interrotti. È importante tentare di ristabilirli entro le prossime ventiquattro ore”.

In vicepresidente indonesiano Jusuf Kalla ha dichiarato alla BBC che teme possano essere morte fino a 2.000 persone sull’isola di Nias, una rinomata località per il surf non lontana dall’epicentro del sisma. Comunque, ha dichiarato, questa cifra si basa su una valutazione degli edifici colpiti, non su un conteggio dei cadaveri. Circa l’80% dei fabbricati della città di Gunungsitoli sono stati danneggiati, continua Kalla. Funzionari locali avevano dichiarato in precedenza che si temevano 300 morti.

Il sisma, con una magnitudo di 8,7 gradi sulla scala Richter, ha colpito a 205 chilometri nord al largo dell’isola indonesiana di Sumatra, e le scosse sono state avvertite sino alla Malesia e Thailandia. Il servizio geologico USA (USGS) ha dichiarato che la scossa si è verificata circa 30 km al di sotto del fondale marino, 250 chilometri a sud-est di Banda Aceh, capoluogo della provincia di Aceh. L’epicentro si colloca a soli 177 chilometri a sud-ovest di quello del 26 dicembre che ha scatenato lo tsunami, uccidendo circa 300.000 persone in dodici paesi dell’area del Oceano Indiano

”È una parte della medesima placca da cui è partita la sollecitazione del 26 dicembre” ha dichiarato all’Inter Press Service Carolyn Bell dell’USGS americano. “È stata una scossa forte. Si tratta di una zona molto attiva dal punto di vista sismico”.

Aggiunge Jan Egeland, coordinatore delle unità di soccorso delle Nazioni Unite per il segretariato generale agli aiuti umanitari: “Questa non è una scossa di assestamento: è una vero e proprio grande terremoto, da 8 a 9 sulla scala Richter”.

La scossa ha spinto Indonesia, India, Malesia, Sri Lanka e Tailandia ad annunciare il pericolo di un imminente tsunami, e le autorità della regione dell’Oceano Indiano sono state allertate dallo United States Pacific Tsunami Warning Center ad agire immediatamente, compresa l’evacuazione delle coste sino a 1.000 chilometri dall’epicentro, e un continuo monitoraggio per verificare l’eventualità di ulteriori evacuazioni. È stato riferito che la polizia tahilandese utilizza fari sulle coste per vigilare sull’arrivo di onde giganti.

Ken Hackett, presidente del Catholic Relief Services americano, era a Medan quando il terremoto ha colpito lunedì notte.

”Siamo stati svegliati poco dopo le 11 di sera. Abbiamo sentito una forte scossa nell’albergo, e siamo stati evacuati brevemente, prima di poter ritornare alle nostre stanze” ha dichiarato in un’intervista. “Per dare un’idea dell’intensità del terremoto, Medan si trova sulla parte opposta dell’isola rispetto all’epicentro. Le onde sismiche devono attraversare una larga catena di montagne prima di raggiungere la città”.

”Mentre vi parlo, il sole non è ancora spuntato. Non sappiamo quanti danni abbia provocato questo terremoto. Ma sappiamo che si è scatenata un’onda di paura [è come se] gli abitanti delle coste già colpite stiano rivivendo lo tsunami”.

Secondo alcune notizie dalla provincia di Aceh in Indonesia (dove sono morte 126.000 persone e altre 93.000 risultano disperse dopo lo tsunami del 26 dicembre) gli abitanti del luogo sono fuggiti da case e tende dopo aver afferrato in fretta e furia qualche fagotto di vestiti. Molti piangevano, saltavano nelle auto, sulle motociclette e taxi a pedali per dirigersi verso zone più elevate.

Il terremoto di magnitudo 8,7 è stato avvertito fino all’isola turistica di Phuket nel sud della Tahilandia, e anche in alcuni edifici alti di Bangkok. Abitanti e turisti sulla spiaggia di Patong a Phuket sono corsi fuori da case e alberghi, saltando su qualunque veicolo a disposizione per allontanarsi dalla costa.

”Sento automobili rombare dappertutto, Le strade sono nel caos. Ora devo correre fuori dall’albergo” ha dichiarato una reporter televisiva locale in diretta da Phuket.

In Malesia, decine di migliaia di persone si sono precipitate fuori dalle case e alberghi quando il terremoto ha colpito. L’uomo d’affari di Penang Lee Beng Tatt, che abita al quindicesimo piano di un condominio, ha raccontato al quotidiano The Star che era nel bagno, quando ha notato l’acqua del water agitarsi”.

”I mulinelli sono diventati più intensi, fino a quando non è uscita acqua dalla tazza. Con mia moglie e mio figlio siamo corsi in fretta fuori dall’appartamento, fino al pianterreno”.

Il capo della polizia di stato di Penang, vicecommissario Christopher Wan, dichiara che è stato emesso un allarme tsunami precauzionale, diretto a chi risiede lungo la linea di costa.

”La polizia costiera della regione settentrionale ha anche emesso un allarme rivolto ai pescatori in mare. Sono state anche impiegate imbarcazioni della polizia per monitorare la situazione dal largo” ha riferito Wan a The Star. “Funzionari della polizia sono presenti in modo continuo lungo la linea di costa. Non vogliamo essere colti di sorpresa come l’ultima volta”.

Anche se il numero di vittime a Penang il 26 dicembre è stato relativamente basso, con soli 68 morti riportati, le onde giganti hanno quasi spazzato via i villaggi dei pescatori, gli accampamenti e i negozi lungo la costa dell’isola malese.

La tragedia dello tsunami ha provocato un flusso di aiuti senza precedenti da tutto il mondo, anche se come ha dichiarato la Asian Development Bank a un recente incontro internazionale di paesi donatori, governi dell’area e agenzie di soccorso, mancano ancora 4 miliardi di dollari promessi per la ricostruzione in India, Indonesia, Maldive e Sri Lanka.

L’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli aiuti umanitari (OCHA) ha dichiarato lunedì che i propri funzionari stavano discutendo con il governo indonesiano il tipo di azioni da intraprendere una volta stabiliti gli effetti di quest’ultimo terremoto.

Nota: qui il testo originale sul sito di Asia Times(f.b.)

Titolo originale: Why New Urbanism Isn’t for Everyone – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Dale Borders sta cercando di comprare casa a Orlando, Florida, ed è incrollabilmente entusiasta nell’aggiungersi allo sprawl suburbano dell’area.

Non che questo padre di cinque figli non sia illuminato, a proposito della vita nei cosiddetti quartieri new urban, che privilegiano miscele di spazi amichevoli per i pedoni, stretti legami fra case unifamiliari, appartamenti, verde, negozi. Molte delle case hanno ampi portici sul fronte, e vicoli di servizio sul retro che collegano a garages autonomi. Tutto questo dovrebbe rievocare tempi più semplici, e migliori.

Ma la cosa non affascina per niente Mr. Borders, trentenne venditore di articoli promozionali, che di recente è scappato dai rigidi inverni di Boston.

”Volevamo allargarci, prenderci il nostro spazio” dice. “Vogliamo un grosso giardino e una piscina”. Le proposte New urbanism, che enfatizzano il fatto che gli abitanti possano andare a piedi al mercato o dal dottore, non fanno per lui. “Camminare dappertutto, con cinque bambini? Non fa per me” aggiunge.

Nonostante i quartieri di tipo new urban stiano vendendo molto bene in alcune zone, il new urbanism nelle sue forme più pure rimane essenzialmente un modello ideale, che non piace alla grande maggioranza degli acquirenti.

L’industria delle costruzioni stima la quota di questo tipo di realizzazioni ad un massimo del 10% delle vendite annuali, a seconda di come vengono definiti questi spazi (alcuni quartieri coordinati contendono parti new urban frammiste a tratti suburbani classici).

Una realtà che ridimensiona le previsioni di alcuni urbanisti-ambientalisti secondo cui questo nuovo approccio avrebbe trasformato lo sprawl suburbano in comunità più compatte e vivibili. Suburbia, dove il motore a scoppio è re, e il garage il suo castello, è uno spazio considerato da molti urbanisti come guazzabuglio soffocato dal fumo, dove si spreca combustibile, e la desolazione è interrotta solo da chiazze di erba ad lati costi di manutenzione o piante ornamentali.

Nella prospettiva dei new urbanists, una nuova possibilità prese forma nel 1981 sulla costa del Golfo, nord Florida, nell’allora poco popolata Walton County, con la piccola comunità di 40 ettari chiamata Seaside del costruttore Robert Davis e dei coniugi architetti Andres Duany e Elizabeth Plater-Zyberk. Lodata dai critici di architettura, da allora si è evoluta in un luogo di vacanze con pochi residenti fissi. Alcuni analisti immobiliari affermano che questo si deve in parte al fatto che chi sta in vacanza, soprattutto in spiaggia, è lieto di camminare un po’ più del normale.

Ma spostandosi al mercato di massa, e alla dura vita di tutti i giorni, la maggior parte degli acquirenti di case non vogliono staccarsi dal proprio stile di vita autodipendente.

Lewis Goodkin, ricercatore del settore immobiliare di Miami consulente dei costruttori per la Sunbelt, sostiene il new urbanism dal punto di vista teorico, ma dubita che possa funzionare altrettanto bene in pratica. “Verifichiamo che esiste un limite a quanto sono disposte a camminare molte persone” dice. “La maggior parte non si trascineranno sotto la pioggia, o nemmeno il caldo umido, fino al negozio dell’angolo, per trascinarsi poi dietro una pesante borsa”.

E cosa più importante, ci sono pochi segni che la grande maggioranza degli americani sia pronta a rinunciare alle proprie automobili, afferma Gopal Ahluwalia, economista della National Association of Home Builders di Washington, che comprende sostenitori sia dei quartieri new urban che delle lottizzazioni felicemente dipendenti dall’auto. “I quartieri new urban hanno un bell’aspetto e molte buone caratteristiche, ma piacciono di più agli architetti che ai potenziali acquirenti”.

Le ricerche condotte dall’Associazione mostrano che meno del 20% dei consumatori desidera vivere in un ambiente di tipo urbano. “La maggior parte tenta di andarsene dalle densità urbane” racconta Ahluwalia, “e andarsene significa sobborghi con grossi lotti, grandi quantità di spazio fra le case, e strade cul-de-sac a ridurre il traffico”.

Le difficoltà a cambiare le opinioni favorevoli al suburbio non hanno scoraggiato Charles Brewer, imprenditore del settore internet diventato costruttore. “Ho sempre pensato ai costruttori come a dei distruttori. Non mi piace proprio quello che hanno fatto” racconta Mr. Brewer, fondatore della Mindspring Enterprises, internet provider, ora fusa con la Earthlink in un’operazione finanziaria da 1,7 miliardi di dollari. Mr. Brewer, quarantaseienne, ha investito 8 milioni di dollari per lanciare un quartiere new urban di 13 ettari chiamato Glenwood Park, in un’ex area commerciale vicino al centro di Atlanta.

[...]

Nota: la seconda e ultima parte dell’articolo non era al momento disponibile sul sito del New York Times (f.b.)

La guerra di camorra che ha luogo a Napoli porta a preoccupanti considerazioni sulla situazione della città. Ma purtroppo ha portato anche a una serie di considerazioni prive di fondamento su Napoli e Scampia in particolare sia per quel che riguarda l’analisi sia per quel che riguarda i rimedi. Forse bisognerebbe invece cominciare a capire quello che sta succedendo. E non è facile. Qui non intendo affrontare la complicata e drammatica questione di Napoli, ma riferirmi solo a Scampia.

La mia esperienza di ricerca sul quartiere mi porta ad avere una immagine completamente diversa da quella truculenta che ne stanno dando i giornali. Parto - per fare un esempio - da un episodio che mi ha riguardato personalmente ma che riflette piuttosto bene l’atteggiamento nei confronti di Scampia e che ha molto a che fare con i processi di criminalizzazione del quartiere: dovendo andare in zona per delle interviste (siamo nel 2000) tentai di prendere un taxi e il tassista si rifiutò di portarmi dicendo che “ là ce sta ‘o far west”. La verità - come mi spiegò il tassista successivo - è che una corsa a Scampia è un pessimo affare perché è lontana e non si prendono passeggeri al ritorno (trattandosi di un quartiere popolare). Questa storia del far-west l’ho sentita ripetere fino alla nausea. E mentre il tassista aveva almeno i suoi buoni motivi materiali per mentire e diffamare il quartiere, ben più grave, e gratuita, è quella del “quartiere in mano alla camorra”, che si trova sulla bocca di tutti: giornalisti, politici e quant’altro. E la diffamazione, la criminalizzazione – perché di questo si tratta – non è priva di non è priva di implicazioni pratiche concrete, materiali quanto tragiche per la gente di Scampia. Diverse donne intervistate da me e dai miei collaboratori sostenevano di aver incontrato sempre maggiori difficoltà a trovare lavoro come persone di servizio per il fatto che vengono da Scampia. La brutta fama del quartiere si riflette su di loro e ne rende la loro condizione ancora più misera. Il tassista (e il giornalista) che parlano di far west sono corresponsabili delle loro difficoltà di vita.

I giomalie la televisione ci hanno poi abituati a pensare che a Scampia abitino tutti nelle “vele”. Grazie a dio (e, in parte, grazie al Piano di recupero del 1997) non è così: una larga parte degli abitanti legali delle Vele sono stati trasferiti in altre palazzine ben più umane. Scampia inoltre è un quartiere (anzi una sorta di subquartiere di Secondigliano) piuttosto misto. Ci sono le Vele, ma ci sono anche e da tempo altre strutture abitative. Proprio in prossimità delle Vele, ad esempio, ci sono diverse strutture residenziali per la piccola e media borghesia. Oddio: qui sono un po’ blindati, non si può negare. Ma ci sono. Il punto è che a Scampia vivono poveri sottoccupati in maggioranza, poi delinquenti - minoranza estrema, ma l’unica celebrata dalle cronache - e una solida componente piccolo e medio borghese che è costretta a vergognarsi di vivere a Scampia: il quartiere delle Vele.

Ma forse è bene intendersi su cosa sono le vele. Si tratta di costruzioni molto alte e grandi, indubbiamente belle dal punto di vista architettonico ma frutto di una cultura urbanistica già al declino all’ epoca della loro costruzione e comunque – almeno con il senno di poi - ovviamente male adatte a Napoli. La cultura urbanistica che le ha prodotte si era affermata in Italia quando già le condizioni dello sviluppo industriale capitalistico che le avevano determinate erano andate esaurendosi. Scampia insomma è il frutto di una cultura urbanistica fordista, dello sviluppo occupazionale nella grande fabbrica per la produzione di massa della società del pieno impiego (ancorché maschile ), con regolarità di occupazione e di salario.

L’idea del quartiere popolare residenziale, del quartiere dormitorio - per dirla come è - non era una follia partenopea: era il frutto di una cultura d’epoca. E cattiva ne fu anche la gestione. Poi vi furono le occupazioni, i terremotati e quant’altro. La tragedia è che anche le soluzioni più giuste e belle risultarono un tremendo boomerang. I grandi spazi disponibili - dovuti al rispetto tra area verde e area costruita - finirono per diventare inutili e grandissime spianate con effetti di agorafobia per chiunque. Nel frattempo gli edifici - solidissimi - cominciarono a degradare al loro interno. Nessuna vita sociale ed economica di quartiere si realizza per la totale assenza di negozi o botteghe artigianali a piano terra. E poi il tutto si aggravò con le occupazioni degli scantinati. Insomma la lista dei fattori di malessere sociale nelle Vele è lunghissima.

E questo più o meno lo sanno tutti. Non tutti sanno però che la cosa non finì lì. In base al piano di recupero si cominciarono a costruire i nuovi alloggi nei quali sono stati trasferiti una parte degli abitanti delle Vele. È incredibile l’immagine di vita sociale diversa che a prima vista danno le nuove e le vecchie strutture (abitate dallo stesso tipo di gente). Finanche i panni stesi ad asciugare sembrano più puliti e coloriti. Senza entrare nel merito dei numeri va ricordato che si sono realizzati diverse centinaia di alloggi nuovi e circa 600 famiglie si sono trasferite.

A gonfiare l’immagine di Scampia come quartiere dei disperati, di quartiere della droga e della delinquenza, hanno contribuito un po’ tutti, chi con buone chi con cattive intenzioni. Per quanto riguarda poi le Vele anziché puntare l’attenzione sul trasferimento degli abitanti nelle nuove palazzine e denunciare sistematicamente i motivi spesso ingiustificati e oggetto di faida politica si è preferito celebrarne l’abbattimento, quasi che abbattendo le Vele si risolvessero i problemi del quartiere. Tra l’ altro non è stato mai parte di alcun progetto l’abbattimento di tutte le Vele. Per la maggior parte di esse si è trattato semmai di discuterne l’eventuale destinazione.

Qualche anno addietro fu data grande risonanza all’ abbattimento della prima Vela, che non si lasciò neanche abbattere subito. Risuonò per Napoli un inutile boato, mentre l’elegante struttura in cemento resistette sbeffeggiando giornalisti e amministratori. La Vela non ne voleva sapere di essere pressa a simbolo del male. Proprio quel giorno era uscito su il manifesto un fondamentale articolo su Scampia e l’abbattimento della Vela di Vezio De Lucia, dal significativo titolo “Quella di oggi non è la mia festa”, il quale affermava che l’abbattimento non risolveva nulla.

I termini della questione non sono cambiati di molto neanche oggi. Si tratta di dare una nuova vita e una nuova immagine al quartiere. E le cose sono strettamente intrecciate. L’impegno per il trasferimento degli abitanti nelle nuove strutture rappresenta sicuramente un passo fondamentale: un passo da compiere in un terreno molto accidentato. Ma non si tratta solo di questo. Bisogna attrarre gente e attività. nell’area trovando delle soluzioni che rendano interessante il trasferimento di attività produttive e bisogna lavorare anche per migliorare la qualità della vita. Ovviamente la responsabilità. massima a questo riguardo è dell’amministrazione comunale e delle istituzioni locali. Non so se esse devono “avere uno scatto d’orgoglio”. Dovrebbero innanzitutto capire di più ed evitare faide politiche sulle spalle delle persone.

FIRENZE Le ultime notizie dal mondo dell’economia si somigliano. Le aziende chiudono, gli operai sono licenziati, la cassintegrazione è un miraggio, le famiglie s’indebitano. Gli affitti delle case, invece, sprizzano di salute. Mettere insieme queste notizie è meno ardito di quanto sembra. Lo fa Alessio Gramolati, segretario della Camera del Lavoro di Firenze. «La cattiva cultura d’impresa ha scelto la rendita. Il rischio d’impresa non esiste più: è tutto a carico del lavoratore e del suo posto di lavoro. I soldi prendono la scorciatoia: si compra il mattone, si praticano affitti scandalosi, 800-1.000 euro al mese per un bilocale. E il lavoratore, con il suo reddito fisso e basso, è penalizzato due volte: perché non può pagare l’affitto e perché il suo datore di lavoro non investe nell’innovazione, nel prodotto, ma cerca la rendita, mettendo a repentaglio il suo posto di lavoro». Il leader della Cgil fiorentina analizza fenomeni e cause della crisi, e prova a cercare vie di uscita: «Servono risposte nuove. Questa è una crisi inedita, i vecchi strumenti non bastano più»

Gramolati, la Ciatti è chiusa. È andata in Romania. Questo non sembra così inedito, ricorda un malcostume in uso e in abuso.

«La vicenda della storica azienda produttrice di mobiletti per televisioni è spiacevole. Ma il ragionamento è più complesso e la delocalizzazione può addirittura essere un sintomo che ci porta fuori strada».

E da dove si parte?

«C’è una crisi economica grande, internazionale, lunga e datata che non salva nessuno. La guerra fa aumentare il costo del petrolio e noi non possiamo farne a meno. Il dollaro si svaluta e costringe l’Europa alla minore competitività: cose sapute. Ma va sommato allo scenario il “caso Italia”: siamo ultimi per crescita nell’Unione europea. Nell’esportazione dei prodotti tecnologici siamo alla metà dei livelli di paesi come Olanda e Belgio. Negli “affari” interni, questo governo ha creato sfiducia e paralisi negli investimenti. Addirittura blocca opere importanti: qui a Firenze, il passante fra la città e Castello per l’Alta Velocità è fermo da diciotto mesi e il Polo tecnologico dell’Osmannoro non si traduce in realtà. Questo pesa sull’economia fiorentina, sulle imprese edili della zona. E se si tagliano i soldi ai comuni, vanno in crisi le municipalizzate e le partecipate, creando situazioni di lavoro precario. Molti dei problemi fiorentini e toscani nascono da questo quadro e le azioni - condivise - contro il governo non saranno mai abbastanza. Ma c’è dell’altro».

Dove sono i tratti nuovi, peculiari?

«Nella perduranza di questo stato di crisi, nell’incapacità di fissarne una fine (quanto durerà la guerra?). Nelle cose che si aggiungono anche da qua: la rarefazione degli investimenti, la conseguente caduta produttiva che accorcia il perimetro vitale di queste aziende, la scelta della rendita, l’abbandono del rischio d’impresa. Problemi nuovi, anche “naturali” per un tessuto d’imprese che conta mediamente 4 addetti. Poi al “netto” vediamo la delocalizzazione che vaporizza i posti di lavoro, ma il vero problema è la mancanza degli investimenti che vincola le aziende ai capitali esteri».

Quindi i soldi ci sono?

«Non è questo il punto, semmai è capire dove finiscono e impedire questo circolo vizioso, perché non possono essere sprecati: se si perdono nei lacci delle rendite, l’economia si impoverisce. Bisogna prosciugare i vantaggi di queste rendite perché sono soldi che vanno messi nello sviluppo. È questo il ruolo che spetta agli imprenditori e alle Istituzioni. Negli ultimi quattro anni il valore delle aree residenziali fiorentine è cresciuto del 400%, e in qualche zona perfino di più: ecco dove sono finiti i soldi».

E dove non sono finiti?

«Nella ricerca. La Toscana investe nella ricerca e nell’innovazione solo con il pubblico, che ci mette il 70%, mentre Lombardia ma anche Emilia Romagna hanno maggiori investimenti privati che pubblici (il pubblico in Lombardia si ferma al 25%, in Emilia Romagna al 40%)».

Sommano questi difetti, qual è il quadro definitivo?

«Lo scorso anno, solo nel settore tessile, lo stato di crisi attanagliò 200 imprese (e solo una ditta delocalizzò la produzione). Nei primi due mesi del 2005, nella provincia di Firenze già 66 aziende parlano con noi di crisi. Occupano circa duemila addetti: la metà rischia il posto di lavoro».

Sono numeri da incubo...

«Negli anni novanta i numeri erano ancor più giganti, erano in crisi fabbriche storiche, manifatture con centinaia di lavoratori come il Nuovo Pignone, la Gucci, la Galileo. Ne siamo usciti, perché allora le aziende avevano nella ristrutturazione e nella riorganizzazione un’ambizione vera. Cercavano di salvare la produzione, il lavoro, con strumenti di contrattazione e con idee industriali. Ai sindacati quegli accordi costarono un prezzo altissimo ma se ne videro i frutti. Oggi la ristrutturazione ha un altro obiettivo: la riduzione dei costi. Punto e basta. E quello del personale è il costo meno gradito. Con quelle 66 aziende in crisi nel 2005 solo in 10 casi riusciamo a parlare di cassintegrazione. Non si cerca una soluzione, non si attraversa la crisi con coraggio. Si scappa. Verso la rendita, altro che in Romania. Semmai è la delocalizzazione indiretta a incidere di più sul sistema toscano: le aziende leader - posizionate fuori dall’Italia - che abbandonano le “subforniture” delle fabbriche toscane per opportunità di costo e di mercato. Ma credetemi, la delocalizzazione è la crosta (evidente, ingiusta), ma sotto c’è altro. C’è di peggio: l’impoverimento del tessuto della regione. Si disperde il “sapere” della Toscana. Invece dobbiamo ritrovare un’identità, ricreare un mercato interno che assecondi uno sviluppo sostenibile e che parta dalla centralità dei posti di lavoro».

Cosa chiede alla politica?

«Di sostenere chi scommette. Di punire chi nasconde i soldi, chi abdica al rischio d’impresa. La “polverizzazione” - caratteristica toscana - ci propone aziende deboli, piccole, che non si mettono insieme, nonostante gli inviti a farlo. Serve uno scatto del sistema e sono risposte che deve dare la politica. Una forte reazione che può avvenire solo se si riesce prima a fare la diagnosi giusta, a cogliere la novità della crisi».

Insiste molto su questo inedito. Teme di parlare ai sordi?

«Credo che ci sia troppa fiducia nel determinismo storico: la Toscana ce l’ha sempre fatta, ha sempre vinto sulle crisi, e così sarà anche questa volta. Ma non si può attendere, perché i mezzi che hanno salvato il sistema in passato non sono più efficaci».

Che si può fare?

«Scegliamo l’innovazione. Ci sono intorno nuove imprese di chimica, di raffinazione della plastica, di trattamento dei generi alimentari. Nel tessile ci sono aziende che affiancano la produzione con la filiera del lusso. La politica deve creare le opportunità per chi decide di avere coraggio, deve sostenere le buone imprese che non fuggono nella rendita. E bisogna combinare azioni meno indulgenti con questi altri che la scelgono»

Si può pensare che la crociata agli affitti d’oro sia condivisa. Ma come si pratica?

«C’è un blocco d’interessi attorno a questa bolla speculativa: va colpito. Con gli affitti sociali. Ci sono già? Se ne fanno cento volte di più: rispondono ad un problema vero della città. Chi lavora per mille euro al mese non può pagare affitti di 800 euro per 60 metri quadrati. E magari scelgono il mercato nero degli affitti: altra piaga della città. Quindi colpire la rendita è giusto due volte. Il sindaco ha rilanciato una grande iniziativa che veda fianco a fianco governo ed enti locali per cercare di stanare questa pratica. Il buon esempio deve venire dall’alto».

Il recente accordo fra le categorie economiche fiorentine, cui fu dato risalto e importanza, sta realmente dando i suoi frutti?

«Va tradotto. Domani c’incontriamo con il comune di Firenze, ci siamo già visti con l’Università, e dal rettore sono arrivate ricette nuove e coraggiose. Marinelli apre ai privati per la ricerca, s’inventa modelli nuovi. È un esempio da seguire. Alternative non ce ne sono, aspettare la fine della crisi sarebbe un’eutanasia. Gli ammortizzatori sociali non sono sufficienti ma il governo non ci sente, è un muro. Questo non deve essere un alibi: noi dobbiamo fare la nostra parte. Approfittiamo dell’accordo, affrontiamo questa emergenza: bisogna governare il reinserimento delle persone espulse dal mondo del lavoro. Servono risposte nuove. Oggi il carico della crisi, il costo sociale, è scaricato tutto sul lavoratore che perde il suo posto. Va ridistribuito questo costo con le imprese. Costruiamo un modello nuovo per assorbire queste situazioni. È il primo passo per realizzare il patto, perché è un accordo vero, radicato nella parte del ceto produttivo che ha voglia di competere sui mercati».

Titolo originale: In the tsunami region, disbelief over U.S. woes - Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

BANGKOK - A Aceh, dove lo tsunami dello scorso dicembre ha colpito nel modo più forte in Asia, la prima reazione al disastro di New Orleans è stata di simpatia, racconta Azwar Hasan, assistente sociale nella provincia indonesiana, dove sono morte almeno 126.000 persone.

“Hanno da mangiare?” ha chiesto. “C’è acqua? Mi dispiace davvero, di sentire quello che è successo”.

Ma poi dice qualcosa che si sente in tutta l’Asia sud-orientale, dove l’America è ricordata con gratitudine per gli aiuti rapidi e ben organizzati alle vittime dello tsunami.

“L’America è il paese più sviluppato del mondo” dice Azwar . “Questo genere di cose non dovrebbero accadere in America. Ci stiamo chiedendo cosa succeda, e perché”.

In tutta la regione, la gente ha visto in televisione le scene da gli Stati Uniti, di sofferenza e caos, con simpatia, orrore, e stupore per l’incapacità di badare a sé stessa.

Per qualcuno, le scene dell’uragano Katrina sembrano scuotere dalle fondamenta el idee sulla forza e la capacità di quel paese. Molti dei commenti, nelle interviste telefoniche realizzate nella regione, suonano come domande perplesse.

“Come è possibile?” chiede Aristedes Katoppo, giornalista indonesiano. “Come è possibile che in una società avanzata come gli Stati Uniti sia tanto difficile portare aiuti, o soccorrere delle persone? Come è possibile che avvengano simili cadute in termini di legge e ordine?”.

Dice di essersi sentito a disagio, nel criticare una nazione nel pieno dell asofferenza, ma aggiunge che trova inevitabile il paragone con il ruolo forte dell’America in Iraq .

“Diciamo, semplicemente, che si nota come l’America mandi truppe per mantenere l’ordine in paesi lontani, ma sembra avere difficoltà a farlo nel proprio cortile”.

Alcuni, come F. Sionel Jose, romanziere filippino con un lungo ed entusiastico rapporto con l’America, sembrano esterrefatti.

“È piuttosto scoraggiante”, dice. “È qualcosa che la gente come me non si aspetterebbe. Qualcuno mi ha raccontato che sparano agli elicotteri! E saccheggiano”.

Paulynn Sicam, funzionaria pubblica delle Filippine che ha studiato e vissuto negli Stati Uniti, sembra pure perplesso, e arrabbiato.

“Spezza il cuore, vedere come sia diventata indifesa l’America” dice. “Non è più forte. Non riesce a salvare i propri cittadini, ed eccola lì che tenta di controllare il mondo”.

Dice che non ci sono scuse, in un paese come l’America, per le sofferenze e l’evidente incompetenza a cui si assiste in televisione. “Perché la gente ha fame?” dice. “Questo mi lascia perplessa. Perché sono affamati? La prima cosa da fare è nutrirli”.

E aggiunge: “L’altra cosa che mi lascia perplessa è come il capitalismo continui allegramente per la sua strada di fronte a un disastro come questo, coi prezzi dei carburanti che schizzano alle stelle. È così opportunista. È questa, l’America? È questa la American way?”

Molte persone sono restate colpite dalle divisioni sociali e razziali che sono affiorate in superficie, un aspetto dell’America che si scontra con l’immagine comune di una nazione ricca e avanzata.

“Ho notato che non si vedono molti bianchi in televisione” dice Anusart Suwanmongkol, direttore di un albergo a Pattani, Thailandia.

“Quello che si vede sono gli impotenti, i malati, i poveri, i vecchi: in maggioranza neri, il sottoproletariato” racconta. “È un’immagine piuttosto forte sullo schermo”. Come molti altri, ha seguito attentamente la cronaca dell’evento sui canali della televisione locale, sulla CNN e i canali satellitari delle reti americane.

“Era quasi incredibile che il Presidente Bush, mi pare su Good Morning America, stesse sorridendo, e la cosa non mi andava bene” ricorda. “Ho pensato che avrebbe dovuto dare un’immagine di serietà: la nazione ha bisogno di aiuto”.

La presunzione americana potrebbe aver contribuito al disastro, commenta Supara Kapasuwan, professoressa di college a Bangkok che ha trascorso più di cinque anni negli Stati Uniti per conseguire master e dottorato.

“Non posso dire di essere sorpresa” commenta a proposito del fallimento nell’evacuazione della città.

“Gli americani – non tutti, ma molti – sembrano avere questo atteggiamento di invincibilità, per cui non è possibile gli succeda mai niente”, dice.

I giornali della regione riflettono questi punti di vista, condividendo la simpatia ed esprimendo choc e stupore davanti a queste inconsuete immagini di quella che è stata chiamata “la nazione più potente del pianeta”.

Nota: il testo originale al sito dello International Herald Tribune ; una breve rassegna anche in un articolo quasi contemporaneo dell'Economist, qui su Eddyburg (f.b.)

Via libera al progetto definitivo. Prevede anche sottopassaggi per i rospi Ha già staccato di parecchie distanze Brebemi, Pedemontana e Tangenziale Est-Est ed ora, forte di un progetto definitivo, punta sull'apertura dei primi cantieri entro il 2006. E' il Tibre, il collegamento Tirreno-Brennero: 85,25 chilometri di nuova autostrada da realizzare tra Parma e Nogarole Rocca per collegare l'Autobrennero alla Cisa. Il volume di traffico, secondo stime che però risalgono a qualche anno fa, dovrebbe aggirarsi sui 25 mila veicoli al giorno. Un miliardo e ottocento milioni è il costo di realizzazione del progetto, previsto già nel 1974 dalla concessione ad Autocamionale Cisa della Parma-La Spezia e inserito tra le 21 opere «di preminente interesse nazionale» individuate dalla Legge obiettivo nella prima fase del governo Berlusconi.

Mentre gli altri tre grandi progetti che riguardano la viabilità lombarda (appunto, Brebemi, Pedemontana e Tangenziale Est-Est) sono ancora alla fase di massima dei progetti e quindi ben lontani dal definitivo via libera del Cipe (quello di fine luglio ha riguardato solo il preliminare), il Tibre, con la sua versione definitiva, potrebbe riuscire ad avere l'ultimo benestare del Comitato interministeriale prezzi prima della prossima primavera quando, alla fine della legislatura, anche il comitato andrà in scadenza.

L'ITER — Approvato lunedì scorso dal consiglio di amministrazione di Autocamionale Cisa spa, entro il 9 agosto il progetto definitivo sarà notificato agli oltre 120 enti interessati: a partire dal 9 settembre potranno essere convocati alla conferenza dei servizi chiamata a dare il parere favorevole, ultimo passaggio prima del «sì» definitivo del Cipe. «Per la primavera l'obiettivo è di completare l'iter delle autorizzazioni e il piano finanziario» dice Giulio Burchi, presidente di Autocamionale Cisa oltre che della metropolitana Milanese.

IL TRACCIATO — Gli 85,24 chilometri della nuova autostrada si snodano tra Veneto (km 15,7), Lombardia (km 51,750 tra le province di Mantova e Cremona) ed Emilia (km 17,5). La maggior parte del tracciato è a raso, ma sono previsti anche circa 10 chilometri di viadotti e 6 in trincea. Sul Po sarà realizzato il più lungo ponte strallato (senza piloni di sostegno nel fiume) d'Italia in cemento armato, lungo 3.700 metri; altri ponti permetteranno di superare Oglio e Mincio.

L'AMBIENTE — La Cisa sottolinea che «una parte rilevante» della spesa prevista è destinata alla salvaguardia dell'ambiente: le aree espropriate sono circa il doppio di quelle strettamente necessarie alla realizzazione dell'autostrada in modo da realizzarvi, a fianco, boschi e altre barriere antipolvere e antirumore. Una cinquantina di piccoli depuratori — serviti dal collettore realizzato sotto il manto stradale — filtreranno l'acqua piovana che dilava la carreggiata (ed eventualmente liquidi versati in seguito a incidenti). Un pensiero, infine, agli animali: ricci, topi, ranocchie e rospi desiderosi di passare da un lato all'altro del Tibre avranno a disposizione comodi e sicuri sottopassi con tanto di presa d'aria a metà, a intervalli di 2-300 metri.

Gli ambientalisti: un'opera costosa e inutile

«Una spesa sproporzionata ai benefici che verranno dall'autostrada». Mario Pavesi, segretario provinciale dei Verdi di Mantova — la provincia maggiormente toccata dal Tibre, che ne taglierà la campagna per 37 chilometri — segue, e combatte, il progetto sin dalle prime bozze. «Non siamo contrari alle autostrade — spiega —, ma qui si parla di un prezzo esorbitante per un'opera di scarso interesse: nella geografia commerciale l'asse Brennero-Spezia non ha particolare importanza. Senza contare che è in via di completamento la superstrada che da Reggiolo Rolo, a sud di Mantova, va a Parma: praticamente lo stesso percorso».

Insomma, pochi veicoli risparmierebbero pochi chilometri? «Sì, questa è anche il risultato di analisi della Provincia di Mantova. E, intanto, i costi di realizzazione delle autostrade sono sempre più alti, anche perché costruirle, in zone tanto urbanizzate, è sempre più complicato».

Nota: su Eddyburg, anche il progetto "parallelo" e complementare al TiBre, della Cremona-Mantova, articoli di Bottini e Corradi (f.b.)

Dall’inizio degli anni Novanta l’interesse per lo spazio pubblico ha cominciato a trascendere il campo dell’urbanistica e dell’architettura coinvolgendo filosofi, sociologi, storici, artisti. Benché in questi anni molti piani di rinnovamento urbano siano stati impostati sulla creazione di nuovi spazi pubblici, in generale l’evoluzione della città contemporanea è caratterizzata dal fenomeno opposto: espansionismo delle strutture commerciali e politiche di sicurezza urbana sempre più invadenti.

Ma esiste un’idea comune di spazio pubblico da difendere? A giudicare dai risultati di Trans:it. Moving Culture through Europe, un’indagine triennale sulle pratiche artistiche europee legate al territorio che Bartolomeo Pietromarchi ha condotto per la fondazione Olivetti, si direbbe proprio di no. La documentazione di questa ricerca, esposta fino al 10 luglio a Venezia nella mostra Nowhere Europe (nella sede del Laboratorio Scientifico della Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Veneziano alla Misericordia) e pubblicata nel catalogo Il luogo [non] comune. Arte, spazio pubblico ed estetica urbana (Fondazione Adriano Olivetti e Actar, 2005), rivela come lo stesso termine pubblico ispiri diffidenza agli artisti e intellettuali coinvolti, specialmente se provenienti dai paesi mediterranei o ex-socialisti. Secondo Iara Boubnova, direttrice dell’Istituto per l’Arte Contemporanea di Sofia, «pubblico spesso si riferisce a proprietà statale o a urbano piuttosto che a condiviso», mentre il critico Erdan Kosova sostiene che in Turchia «non si può dividere lo spazio sociale nelle due categorie astratte di spazio pubblico e privato», perché i luoghi pubblici vengono percepiti come rigidamente normati, e quelli privati appartengono alla famiglia – e quindi ancora a una dimensione comunitaria.

L’oggetto della ricognizione europea di Pietromarchi, organizzata in tre itinerari (Parigi-Rotterdam-Amsterdam-Roma; Berlino-Bucarest-Sofia-Belgrado; Istanbul-Cipro-Atene), è dunque uno «spazio delle relazioni» che non ha più nessuna connotazione fisica definita: non si tratta necessariamente della strada o della piazza, ma di un luogo condiviso che può essere istituito nelle case private, nei caffè o nei campi nomadi, a seconda del senso che una determinata cultura gli attribuisce. In quest’ottica relativista il progetto del collettivo Oda Projesi – che nel 1997 ha affittato un appartamento a Istanbul nel quartiere Galata per offrire alla gente uno spazio flessibile, privato e pubblico allo stesso tempo, in cui mangiare, ritrovarsi o svolgere attività artistiche – sta sullo stesso piano dell’«architettura oppositiva» teorizzata dalla rivista berlinese An Architektur-Production and Use of the Built Environment, che si ispira al pensiero di Henri Lefebvre e che elabora interventi politici diretti contro l’uso capitalistico dello spazio urbano.

Corviale, Roma

Tra gli artisti coinvolti molti sono architetti o lo sono stati – come Socrates Stratis di Cipro, il gruppo Škart di Belgrado, Osservatorio Nomade di Roma nato dal gruppo Stalker, il collettivo Urban Void di Atene – ma tutti nutrono una completa sfiducia nella possibilità che delle soluzioni spaziali a scala urbana possano contribuire a migliorare la vita delle persone. L’idea di un’urbanistica democratica, generalmente liquidata frettolosamente come un patetico revival di utopie urbane fallite quarant’anni fa, viene qui considerata improponibile perché ritenuta troppo «istituzionale» e «universalistica». Gli obbiettivi della loro ricerca sono, invece, la documentazione delle istanze identitarie legate al territorio delle comunità nomadi o stanziali e l’individuazione dei desideri e delle esigenze dei membri di questi gruppi. Se alcuni si limitano all’analisi o al racconto delle storie e delle situazioni con cui sono venuti a contatto, altri producono delle «utopie realizzabili», fornendo servizi – come la cisterna dell’acqua costruita nel 2003 da Matej Bejenaru nel centro di Tirana, dove metà della popolazione non aveva accesso all’acqua – oppure progettando la trasformazione dei luoghi a stretto contatto con gli abitanti. Un esempio di questa tipologia di intervento è l’operazione imbastita dalla Fondazione Olivetti insieme a Osservatorio Nomade al Corviale, il lunghissimo edificio costruito negli anni Settanta da Mario Fiorentino alla periferia di Roma, che ha mirato non solo a riqualificare la struttura fisica del quartiere, ma anche a ribaltarne l’immagine di archetipo del degrado urbano che opprime i suoi abitanti.

Il desiderio di agire «dal basso», comune alla quasi totalità dell’arte politica contemporanea dall’America del Sud alla Russia, è in parte l’effetto di una diffusione in questo ambiente di quello che ormai potrebbe essere definito il pensiero unico (e soprattutto il lessico unico) deleuziano: non si fa che parlare di rizoma, nomadismo, micropolitica, Corpo senza Organi. Al di là del rischio di trasformare un pensiero critico in un dizionario dei luoghi comuni, il limite più evidente di questo genere di attivismo artistico è che i suoi interventi appaiono esoterici a chiunque non ne sia capillarmente informato, circostanza che nuoce non poco proprio alla sua dimensione pubblica.

D’altra parte è stato lo stesso lunghissimo dibattito teorico sull’arte pubblica e la site-specificity, che ha avuto come epicentro soprattutto gli Stati Uniti, a fare evolvere le cose in questo modo. Una volta posto il problema della legittimità politica, per l’artista e i committenti istituzionali, di situare un oggetto in un luogo pubblico, o di modificare lo spazio a fini estetici senza consultare la gente che avrebbe dovuto subirne le conseguenze, l’arte pubblica si è trovata nella necessità di orientare le sue pratiche nella direzione dei suoi veri committenti: i cittadini.

In realtà l’estetica urbana continua per lo più a essere alimentata dall’arte pubblica tradizionale e, nei casi migliori, sono le amministrazioni con una buona politica urbanistica a difendere lo spazio pubblico.

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