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Nel silenzio quasi totale, raggelante, dell’informazione, la Camera ha cominciato a discutere in aula la legge, firmata dall’on. Maurizio Lupi (Forza Italia, milanese, vicino a Formigoni) con la quale verrà praticamente fatta saltare la normativa urbanistica esistente, a livello nazionale e quindi anche regionale e locale. Naturalmente a tutto vantaggio di formidabili interessi immobiliari. Associazioni come Italia Nostra, intellettuali che hanno a cuore il Bel Paese si stanno mobilitando contro questa legge che demolirà, se approvata come vuole il centrodestra, alcuni pilastri di una legislazione che tanta fatica è costata, a partire dagli anni Sessanta.Una legislazione che ha dato civiltà al nostro Paese, così spesso depredato dalla speculazione immobiliare, legale e illegale.Il punto-chiave, o «nero», di questa legge. Per essa le attuali regole urbanistiche sono «autoritative». Eppure, il potere pubblico viene democraticamente esercitato, coi dovuti controlli dai Comuni attraverso il dibattito e il voto in Consiglio dei rappresentanti del popolo. Tutto ciò non va più bene, è «autoritativo» (o autoritario) nonché dirigista. Quindi va radicalmente cambiato e reso «paritetico». Nel senso che i privati saranno chiamati ad esprimere la loro volontà non dopo l’approvazione consiliare dello strumento urbanistico (cioè nella fase delle osservazioni), o, consultivamente, anche durante il lavoro per il piano. Saranno abilitati a farlo «prima». Insomma, il nuovo piano urbanistico disegnato dalla legge Lupi verrà redatto, in sostanza, sulla base della volontà espressa dai «soggetti interessati», cioè dai privati proprietari di aree, dalle società immobiliari, dai «palazzinari». Prevale così il «rito ambrosiano», vale a dire la non-pianificazione introdotta dal centrodestra a Milano (che non è mai stato un modello di urbanistica europea), dove il piano è, già oggi, la sommatoria dei tanti interessi privati «negoziati» prima col Comune.Quindi, via «la città dei cittadini» (per ricordare un bel libro anni Settanta del sociologo socialista Roberto Guiducci) e spazio alla «città delle immobiliari». Queste ultime, negli anni del boom edilizio, spiazzavano i Comuni costruendo lottizzazioni in zone agricole, e costringendo poi l’ente pubblico a inseguirle portando sin là i servizi essenziali. D’ora in poi non dovranno neppure fare questa fatica, nel senso che saranno loro a pre-determinare gli sviluppi della città contrattandoli con Comuni ormai spossessati dei poteri fondamentali (e democratici) in materia. Un secondo punto-chiave della legge Lupi prevede la pratica sparizione degli standard urbanistici vigenti dopo la legge-ponte del 1968, conquista di grande civiltà che assegnava a ciascun cittadino una quota di metri quadrati di verde, di parcheggi, di scuole primarie, di strutture sportive, eccetera. Sostituiti ora dalla semplice raccomandazione a «garantire comunque un livello minimo» di attrezzature e servizi «anche con il concorso di soggetti privati». In tal modo, i Comuni già avanti nell’acquisizione degli standard minimi retrocederanno e quelli invece più indietro rimarranno desolatamente più in coda. Terzo punto «nero» della legge ora alla Camera (ripeto: nel silenzio totale dei giornali, anche di quelli che con le grandi immobiliari non hanno rapporti di parentela aziendale): la tutela del paesaggio e dei beni culturali non farà più parte della pianificazione ordinaria delle città e del loro territorio. Viene così demolita un’altra acquisizione essenziale della nostra cultura che, con la legge Galasso del 1985 e con altre leggi (anche regionali) di buona qualità, aveva integrato in una salvaguardia unitaria, territorio, ambiente e paesaggio. Di qui in avanti, essi saranno invece divisi e attribuiti a leggi, uomini e strumenti differenti. Col risultato che prevarranno, più che mai, gli interessi forti: quelli che accoppiano cemento e asfalto. Si pensi a Roma che è riuscita a votare in consiglio comunale il suo Piano Regolatore nel 2003, a 94 anni dall’ultimo Prg, approvato nello stesso democratico modo (erano i tempi del sindaco Nathan). Roma, dove negli ultimi 40 anni la popolazione è aumentata soltanto del 17% - e sta calando sempre più - mentre lo spazio urbanizzato, cemento più asfalto, si è dilatato del 260%, e non accenna a frenare questo suo dilagare nell’Agro. Qui non si vogliono difendere, in sé, gli strumenti, a volte invecchiati, della pianificazione urbanistica vigente. Se ne vogliono salvaguardare i princìpi fondamentali incentrati sull’interesse generale tutelato (per ora) dalla Costituzione, sul democratico rapporto Stato-Regioni-Enti locali che insieme compongono la Repubblica dei cittadini, fra i quali ci sono ovviamente anche i privati detentori di aree. Non però il regno delle immobiliari che invece la legge Lupi disegna in ore già drammatiche per la casa abbandonata per anni, un po’ da tutti purtroppo, al cosiddetto «libero mercato», in realtà alla legge selvaggia del più forte.

Nel labirinto ideologico e botanico in cui rischia di smarrirsi il centrosinistra, tra alberi d´alto fusto e fiori di campo o di serra, sigle improbabili e innesti artificiali, c´è un filo di Arianna che può aiutare l´opposizione a trovare una via d´uscita per ridefinire la propria natura e la propria identità: la salvaguardia dell´ambiente come priorità assoluta, come perno programmatico di un´alternativa di governo, come paradigma di un nuovo modello di sviluppo economico e sociale. È una piattaforma riformista tanto ampia da contenere e aggregare intorno all´Ulivo storie e culture diverse, componenti e vocazioni che si richiamano a un´origine e a un destino comuni, in nome di una moderna solidarietà - di ispirazione laica o cattolica - tesa a ridurre per quanto possibile le disuguaglianze, le distanze fra i privilegiati e gli "ultimi", il gap fra le generazioni.

Da un anno e mezzo, in un black-out mediatico che ai promotori è sembrato sconfinare a volte nell´indifferenza o peggio nella censura, su mandato dei rispettivi segretari o presidenti gli otto partiti della minoranza hanno costituito un Tavolo Ambiente dell´Opposizione, denominato ambiziosamente Tao e raffigurato da due spirali contrapposte, come il principio della filosofia cinese. Articolato su due livelli, uno politico e uno tecnico, il lavoro è stato suddiviso in commissioni, con la partecipazione di numerosi esperti di settore: dall´energia all´acqua, dalle aree protette ai rifiuti, dalla difesa del suolo ai trasporti, dalla fiscalità ecologica all´agricoltura.

Attraverso un confronto al proprio interno, ciascun gruppo ha elaborato così un documento monografico con una serie di proposte concrete, «alla ricerca - come si legge in un comunicato congiunto - di una progettualità alternativa che definisca una nuova qualità sociale e ambientale dello sviluppo». E il prossimo 18 gennaio, in vista dell´entrata in vigore del Protocollo di Kyoto, il Tao farà il suo esordio ufficiale per presentare il testo-base, quello sull´energia e i cambiamenti climatici, predisposto dalla commissione di cui è presidente Paolo degli Espinosa (Democratici di sinistra): al convegno parteciperanno Romano Prodi e i segretari dei partiti della Gad.

È un segnale positivo per il popolo di centrosinistra, proprio nel momento in cui la Federazione dell´Ulivo stenta a individuare la rotta da seguire per ricandidarsi alla guida del Paese. Non solo perché testimonia un impegno di ricerca e di dialogo che tende finalmente a unire sulle scelte, piuttosto che a dividere sulle formule. Ma soprattutto per il fatto che l´obiettivo dichiarato è un progetto di società, e quindi un programma di governo, in alternativa a quello del centrodestra. Dai guasti del condono edilizio alle incognite della delega ambientale, negli ultimi tempi la maggioranza parlamentare ha fatto di tutto per dimostrare quanto ciò sia necessario e urgente per impedire l´ulteriore rovina del Malpaese.

Con un apprezzabile sforzo di pragmatismo che punta a contrastare la crisi economica, il Tao propone di «fare dell´Ambiente la principale occasione di nuova e buona occupazione». E nello spirito del Protocollo di Kyoto, sollecita perciò «una diversa politica energetica fondata sul risparmio e su un uso razionale dell´energia nonché sullo sviluppo di fonti rinnovabili pulite quali solare, termico e fotovoltaico, eolico e piccolo idroelettrico», in rapporto alle condizioni e alle caratteristiche locali. Da qui, secondo il documento elaborato dai partiti di opposizione, un triplo vantaggio in termini di qualità ambientale, in particolare per la salvaguardia del clima e i rischi che derivano dalla limitatezza dei giacimenti mondiali di combustibile (petrolio e uranio); di maggiore efficienza del sistema di produzione e consumo; e infine, di riduzione della spesa per importazione di combustibile.

All´insegna dello slogan «Ricominciamo dai Parchi», un altro documento che offre spunti e indicazioni interessanti è quello elaborato dal gruppo sulle Aree protette e la Biodiversità, presieduto da Mario Castorina (Italia dei Valori). Qui la difesa dei parchi va al di là della conservazione della natura, per assumere un "valore culturale" autonomo. Le aree protette diventano allora il luogo ideale per sperimentare le pratiche rispettose dell´ambiente e dimostrate nello stesso tempo che lo sviluppo economico e sociale può svolgersi in armonia con le dinamiche naturali.

Su una «politica per il mare», attenta agli aspetti ambientali, economici e culturali in una visione più internazionale, si fonda infine «una politica di pace, di collaborazione, di integrazione economica e di solidarietà, per coinvolgere l´Unione europea verso l´insieme dei Paesi del Mediterraneo». Il presupposto fondamentale, ovviamente, è quello di non considerare più il mare come una pattumiera o una discarica, per sfruttare al meglio tutte le sue potenzialità. A cominciare dal turismo.

Il rischio principale da cui il Tavolo dell´Ambiente deve guardarsi, tuttavia, è quello di compilare un nuovo "libro dei sogni", tanto completo e originale quanto immaginario. Le idee, le indicazioni e le proposte contenute nei vari documenti devono essere tradotte necessariamente in soluzioni concrete e praticabili, per evitare di contrapporre un Ambiente ideale a un Ambiente impossibile. Ma questo è un compito di sintesi che spetta alla responsabilità e alla competenza della politica.

Business is business… ma declinare arte e cultura con economia e marketing urbano richiede equilibrio. E, secondo alcuni critici, il punto di equilibrio è stato superato. L'«accusa» è che in Italia si realizzano mostre per promuovere l'immagine di una città o per attirare visitatori con persuasive campagne di comunicazione, mentre poche se ne realizzano per dimostrare tesi scientifiche o presentare opere nuove o poco note. Un'accusa, questa, che si somma a quella rivolta il 12 agosto da Le Monde al cosiddetto «idiota da viaggio» che distruggerebbe il vero sapere, sul quale ieri, Sebastiano Vassalli, ha comunque invitato a «non sparare».

Alcuni critici hanno messo «sotto accusa» varie mostre, come quelle degli Impressionisti realizzate nel Nord-Est, quelle dove è sufficiente un nome di richiamo (Caravaggio, ad esempio) per assicurarsi la presenza del «turista culturale» e, infine, quelle suddivise su più sedi espositive. E' il caso, quest'ultimo, della mostra inaugurata il 6 luglio per i settecento anni dalla morte di Arnolfo di Cambio, che si svolge metà a Perugia (Sala Podiani della Galleria Nazionale) e metà ad Orvieto (Chiesa di Sant'Agostino). «Si fa una mostra in due città non per ragioni scientifiche, ma solo per non scontentare nessuna cittadinanza», attacca il critico Carlo Bertelli.

Ma questo aspetto è solo una faccia del problema più generale che riguarda la finalità per cui si organizzano oggi le mostre. Per il collezionista di arte contemporanea, Giuseppe Panza di Biumo «stiamo assistendo a una deviazione dalle funzioni culturali ed educative. Si fanno mostre che hanno legami con l'economia, promuovono alberghi e ristoranti, ma rendono scarsa utilità alla cultura». Su un'analoga lunghezza d'onda si esprime Philippe Daverio: «Già, gli impressionisti e il fiume, gli impressionisti e la neve, perché non anche impressionisti e maionese? Una mostra non dovrebbe essere un luogo di consumo, ma di ricerca».

Rilievi legittimi? In buona parte sì, conferma Massimo Vitta Zelman, presidente delle edizioni Skira e organizzatore di mostre ad alto contenuto scientifico e di visitatori, come quella sui Gonzaga a Mantova (500mila presenze) e come si annunciano le prossime di «Caravaggio e l'Europa» a Palazzo Reale di Milano e «Manet» al Vittoriano di Roma: «Le mostre sparpagliate sul territorio non funzionano: un polo resta dominante e alle sedi decentrate si dà solo un contentino; sono sconvenienti anche dal punto di vista imprenditoriale». Quanto al proliferare del numero delle esposizioni, continua Zelman, «in Italia abbiamo una offerta che valuto tripla alla domanda. Questo avviene perché siamo il Paese delle cento città e ciascuna vuole ricavarsi una fetta di notorietà. Inoltre, spesso le mostre non sono frutto di produzioni con i grandi musei ma con le amministrazioni locali, che hanno interesse politico e mandato corto. Per questo c'è un'overdose paragonabile al calcio in tv! E in questo profluvio di mostre vince chi vende un marchio facile».

A questi rilievi risponde Marco Goldin, il curatore delle mostre Brescia sui vari Impressionisti, che con «Monet e le ninfee» ha portato nella città della leonessa 440mila visitatori. «Non è vero che esponiamo sempre le stesse opere: degli oltre mille quadri portati qui in otto anni, forse 10 o 12 sono gli stessi. Per questo la gente ci segue e i musei ci danno prestiti». Goldin sta preparando per Brescia un'altra stagione che si annuncia di successo, con «Gauguin e Van Gogh» (già 120mila prenotazioni) e con 60 opere di Millet provenienti dal Museo di Boston, più altre 16 esposizioni suddivise in tre sedi: Santa Giulia, la Pinacoteca Tosio Martinengo e il Castello. E conclude: «Non sempre le mostre possono essere portatrici di nuove conoscenze. Se uno pensa che le mostre debbano essere patrimonio solo degli storici e dei critici non sono d'accordo».

Ma su grandi numeri e marketing non mancano voci a difesa. Come quella del presidente del Touring club, Roberto Ruozi: «Se il turismo sta calando del 2,2% in Italia, ma quello culturale cresce del 5% ci sarà un perché? La gente vuole l'evento e chi non segue le propensioni del pubblico sbaglia». «Non c'è nulla di male nel marketing della cultura — aggiunge l'amministratore delegato di Telecom Progetto Italia, Andrea Kerbaker —. Solo se ci fosse impoverimento o sciatteria scientifica sarebbe un problema».

Una soluzione è suggerita dal filosofo e assessore alla Cultura di Milano, Stefano Zecchi. «È ragionevole che si faccia anche del marketing urbano attraverso le mostre, ma le grandi città devono avere progetti più ambiziosi. Per Milano ho suggerito una doppia prospettiva: avere capacità imprenditoriale per realizzare mostre nuove di livello scientifico e, accanto a queste, esposizioni più popolari e divulgative. Poiché si usano soldi pubblici e non di una comunità scientifica».

Mentre in Francia «Le Monde» mette sotto processo gli «idioti da viaggio», da noi anche i piccoli centri fanno a gara nel catturare la «fauna da quadro»

Mentre Michael Crichton invoca, nel suo ultimo thriller intitolato Stato di paura, la nascita di "un nuovo movimento ambientalista" contro la retorica e il conformismo che a suo parere hanno dominato finora questa corrente d´opinione, Forza Italia si appresta a celebrare un esordio assoluto, con il primo convegno nella sua storia dedicato alla natura. Sarà pure una coincidenza, ma è comunque una coincidenza significativa che il maggior partito di governo italiano, il partito del presidente del Consiglio, abbia scelto questo momento per debuttare sul palcoscenico dell´ecologia, in sintonia con una sorta di revisionismo culturale che dall´America all´Europa investe come uno "tsunami" l´intero arcipelago verde.

Il seminario di studio, indetto da Forza Italia per il 29 e 30 giugno a Roma, auspica romanticamente "Più rispetto e amore per la natura". Ma il sottotitolo, ben più impegnativo, promette di elaborare "linee guida per un nuovo programma di governo". Non si tratterà, dunque, di un dibattito rituale, una litania di intenzioni più o meno buone, una parata di esperti e cultori della materia, bensì di un confronto politico finalizzato - così almeno si spera - a formulare proposte e soluzioni concrete da tradurre poi in scelte programmatiche.

Vedremo se alle parole corrisponderanno veramente i fatti. E soprattutto, quale sarà l´ispirazione ambientalista di Forza Italia, la sua maggiore o minore autenticità, il motivo conduttore di questa iniziativa e di quelle che eventualmente seguiranno. Ma intanto si può registrare con interesse, e anche con una certa soddisfazione, che il partito del premier abbia sentito finalmente la necessità di riflettere su questi temi per assumerli nella propria agenda di governo e forse per lanciare una sfida a quello "stato di paura" che, secondo l´intuizione di un romanziere come Crichton, incombe oggi sul pianeta Terra sotto l´allarme generale per l´effetto serra e l´allarmismo di un´informazione considerata più ideologica che scientifica.

Il "revisionismo ambientalista", d´altronde, oggi non interpella soltanto la maggioranza di centrodestra in Italia, il fronte dei moderati o su scala più internazionale quello dei conservatori. Pone interrogativi e problemi a tutti, agli ecologisti in primo luogo e all´intero schieramento progressista di cui questi fanno parte. È in discussione il fondamento stesso dell´ambientalismo, la sua legittimità, la sua credibilità, se è vero - come scrive Crichton in un "messaggio dell´autore" alla fine del libro - che la maggior parte dei suoi princìpi, a cominciare proprio dallo sviluppo sostenibile, "hanno l´effetto di preservare i vantaggi economici dell´Occidente e favorire il moderno imperialismo nei confronti dei Paesi in via di sviluppo".

Non c´è dubbio, quindi, che il richiamo a una maggiore obiettività scientifica vada accolto con favore, proprio per evitare che l´ambientalismo rischi di evaporare nella propaganda, nella retorica o nel conformismo. Per risultare credibili ed efficaci, le denunce o gli allarmi devono essere ancora più documentati, verificati, controllati, anche se a volte sono gli stessi scienziati a fornire informazioni contraddittorie o addirittura opposte. Con tutto il rispetto per Crichton e per quelli che la pensano come lui, non si può scadere d´altra parte nel "conformismo dell´anticonformismo", con il pericolo di sottovalutare situazioni reali, di abbassare la guardia di fronte alla minaccia dell´inquinamento, di non adottare misure adeguate e provvedimenti tempestivi.

Con un´originaria ispirazione animalista, da tre anni il dipartimento Etica dell´Ambiente di Forza Italia - diretto da Giorgio Schmidt, un deputato trentino di nascita e milanese di elezione, giornalista, esperto di comunicazione - ha aperto un dialogo con le principali associazioni ecologiste che saranno rappresentate al convegno da Gaetano Benedetto, responsabile delle relazioni istituzionali del Wwf. Alla base di questa "nouvelle vague" berlusconiana, c´è dichiaratamente il rispetto della vita in tutte le sue forme, per salvaguardare l´equilibrio della natura. Ma l´obiettivo finale, come dice la coordinatrice del dipartimento Cristina Del Tutto, è quello di "definire l´identità ambientalista" del partito "azzurro" prima di confrontarsi con le altre componenti della Casa delle libertà e quindi con l´opposizione, a cominciare dal congresso di Sinistra ecologista che si terrà subito dopo.

A meno di un anno ormai dalle prossime elezioni, l´iniziativa di Forza Italia tende evidentemente a recuperare un ritardo culturale e politico che ha provocato finora un´assenza pressoché totale sul terreno dell´ecologia. E con ogni probabilità, punta anche a contendere la leadership assunta in questo campo all´interno del centrodestra da Alleanza nazionale, con il ministro dell´Ambiente Altero Matteoli che non a caso non è stato invitato al seminario di studio. Ma il fatto stesso che a concludere i lavori sarà - secondo il programma - il presidente Berlusconi in persona, indica che si tratta di un investimento elettorale a cui il partito del premier attribuisce una certa rilevanza. Non è escluso, però, che prima o poi possa rendere qualcosa anche all´ambientalismo militante.

Titolo originale: Metro propels city on fast track – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Li Guang, abitante di Pechino di 25 anni, è soddisfatto della decisione presa due anni fa.

All’inizio del 2003, Li era ossessionato da un grosso problema: dove si sarebbe sistemato, con la sua fidanzata, nella metropoli capitale?

Li lavora nella zona sud, mentre l’ufficio della sua potenziale moglie sta nel nord.

”Dove cercare la nostra futura casa, considerando le convenienze di traffico di entrambi, mi preoccupava” ricorda Li, che lavora per un giornale a Pechino.

È opinione diffusa tra gli abitanti di Pechino, che la parte nord della città sia di gran lunga più sviluppata di quella sud.

La differenza qualitativa è chiaramente evidenziata dal prezzo medio degli immobili lungo il Quarto Anello stradale nord, che è quasi identico a quello del Secondo Anello sud, nonostante quest’ultimo sia molto più vicino al centro città.

Attirato dai prezzi delle case più abbordabili, alla fine Li scelse un appartamento vicino al proprio ufficio a sud, all’interno del Secondo Anello.

Era un momento difficile per lui, perché ciò significava per la sua futura moglie passare lunghe ore negli spostamenti quotidiani di lavoro fra casa e ufficio, utilizzando gli affollati mezzi di trasporto pubblici di Pechino: un destino che nessuno vorrebbe imporre a chi ama.

Li non vedeva rimedi alla sua inevitabile decisione, sin quando la municipalità non annunciò al pubblico lo scorso anno i progetti per due nuove linee di metropolitana, la 4 e la 5.

Ora, Li osserva con grande interesse ogni passo nelle realizzazione del progetto.

“Sarà molto più facile andare da casa all’ufficio di mia moglie” racconta eccitato. Si sono sposati l’anno scorso.

Il progetto della metropolitana

Pechino è un modello di sviluppo urbano, non solo per i suoi residenti.

”L’intero paese è ansioso di vedere che aspetto avrà la capitale negli anni a venire” dice Tan Xuxiang, vice presidente della Commissione Urbanistica Municipale di Pechino.

Tan si anima parlando della revisione del piano regolatore nella città sede dei Giochi Olimpici del 2008.

”Il nuovo piano è una vetrina attraverso cui la gente guarderà nella città”, dice.

Sono state introdotte parecchie radicali modifiche rispetto all’idea precedente di sviluppo, tutta centrata sulla piazza Tien’anmen.

La strategia monocentrica è ora sostituita da un orientamento allo sviluppo pluricentrico, con l’inserimento di una serie di centralità parallele, focalizzate su diverse funzioni.

L’area high-tech di Zhongguancun, il centro sortivo Olimpico, e il distretto terziario centrale, saranno tra questi centri funzionali.

Il piano illustra la decisione della municipalità di realizzare un modello di crescita in tutte le direzioni, e insieme la compatibilità del ruolo di capitale nazionale con una crescente varietà di attività e settori economici.

La gran parte dell’ambizioso piano dovrà attuarsi attraverso l’estensione del sistema di trasporto metropolitano di Pechino.

Al momento, sono in funzione quattro linee. Le Linee 1 e 2 coprono un totale di 54 chilometri, mentre la Linea 13 e la Batong sono di 61 chilometri. Complessivamente, trasportano 1,5 milioni di passeggeri al giorno.

”Pechino manterrà la sua posizione di punta nella costruzione di metropolitane nei prossimi anni” dice l’urbanista Tan.

Secondo il piano urbano, sottola capitale entro il 2020 ci saranno 19 linee interconnesse, per un totale di 570 chilometri.

”Quindici linee serviranno le comunicazioni urbane, e le altre quattro saranno ragliate su misura per il pendolarismo fra le zone suburbane”, continua Tan.

A differenza delle linee 1 e 2 (circolari), realizzate attorno alla zona di Piazza Tien’anmen, il centro tradizionale, i nuovi tratti in costruzione sono diretti verso i settori principali della città.

”La realizzazione della metropolitana entra in una fase cruciale nel 2005” dice Qin Zhaohui, della Beijing Rail Communication Construction Company.

La compagnia è responsabile della costruzione delle linee 4, 5, 10 e della ferrovia diretta per l’aeroporto.

”È la prima volta, in Cina, che si realizzano così tante linee di metropolitana contemporaneamente” prosegue Qin.

Le nuove linee in costruzione si estenderanno sino a raggiungere i suburbi. La Linea 4 collega Fengtai nell’estremo sud, con Haidian nel nord-ovest, per un totale di 28,16 chilometri, costituendo il primo legame diretto fra i due “poli”. La Linea 5 svolge una funzione simile, mirando a stabilire una via breve fra il nord “sviluppato” e il sud “in via di sviluppo”, da Changping a Fengtai.

Oltre le due linee nord-sud, ne è in costruzione anche un’altra a forma di arco, la Linea 10, con le due estremità dell’arco nei distretti di Haidian e Chaoyang, estesa dal nord-ovest alle grandi aree est e sud-est.

Una sezione di 5,91 chilometri è realizzata apposta per gli spostamenti durante i Giochi Olimpici del 2008 Olympic Games, pure inclusa nella Linea 10.

La costruzione di tutte e tre le linee è cominciata un anno fa, e si prevede che saranno disponibili per il pubblico prima del 2008.

La ferrovia diretta per l’Aeroporto

”A parte le linee previste, si ritiene che il progetto di quest’anno più degno di attenzione pubblica sia la linea espresso per l’aeroporto” dice Sun Wenjian, funzionario del Comitato Municipale per le Comunicazioni di Pechino.

Con uno sviluppo previsto di 26 chilometri, la linea espresso è ancora un mistero per il pubblico, dato che al momento non sono disponibili i progetti di costruzione.

”Abbiamo ricevuto proposte per metropolitana leggera, percorso sotterraneo, e MagLev [ Magnetic Levitation n.d.T.], continua Sun.

Il progetto definitivo sarà scelto nel primo aprile, aggiunge.

”Una volta realizzato, basteranno 15 minuti dal centro città all’aeroporto”.

La linea per l’Aeroporto condividerà la stazione di Dongzhimen con la circolare e la Linea 13.

La navetta passeggeri fra Dongzhimen e l’aeroporto darà la possibilità di viaggiare senza impicci, grazie all’introduzione di una avanzato check-in bagagli e relativo sistema di trasporto fra le due stazioni.

Il progetto partirà a giugno, ed è pensato per un treno ogni cinque minuti, e una capacità di 3-4.000 passeggeri l’ora.

Secondo una fonte della Commissione Urbanistica di Pechino, il convoglio a quattro carrozze farà quattro fermate lungo il percorso verso l’aeroporto, compresa quella nell’affollato nodo della stazione di Sanyuanqiao e all’incrocio con la Linea 10.

Si prevede che la Linea 10 raccoglierà un enorme flusso passeggeri” dice Sun. La linea scorrerà attraverso il Centro scambi internazionali di Zhongguancun, che ha un grande potenziale di passeggeri.

Un grosso investimento

Qin Zhaohui afferma che quest’anno sono stati destinati 7,05 miliardi di yuan (860 milioni di dollari USA) per la realizzazione delle Linee 4, 5 e 10.

Tutte queste nuove realizzazioni saranno dotate di porte scorrevoli trasparenti di sicurezza, con vantaggi anche di risparmio energetico.

le Linee 1 e 2, attive da circa 30 anni, sono destinate a subire le più grandi operazioni di rinnovo della loro storia.

Wang Dexing, presidente del consiglio di amministrazione della Beijing Subway Operation Company, afferma che si sta iniziando un ammodernamento generale, a coprire sette sistemi, con un bilancio di 4,3 miliardi di yuan (524 milioni di dollari USA).

Circa 3,7 miliardi di yuan ($ 451 milioni) saranno utilizzati per l’ammodernamento dei treni, che comprende miglioramenti dei dispositivi di sicurezza.

I rimanenti 600 milioni di yuan ($ 73,1 milioni) sono per l’adozione del sistema di pagamento automatico del biglietto. “Entro il 2007, comprare il biglietto e farlo controllare dai conduttori diventerà storia” dice Wang.

Considerazioni inter-urbane

In quanto capitale nazionale, Pechino si fa in parte responsabile per sollecitare lo sviluppo di altre città, dice Li Xiaojiang, rappresentante della Planning Society of China.

Più innovazioni si fanno nel sul della città, più occasioni di sviluppo ci saranno per Tianjin e la provincia di Hebei, sostiene un cittadino, Ge Zong, che va spesso a Tianjin per affari.

Tianjin confina con Pechino a sud-est, mentre la provincia di Hebei cirocnda la capitale.

“Il nuovo piano regolatore di Pechino prende in considerazione i territori di Tianjin e Hebei “ dice Li.

Un esempio evidente è l’attenta localizzazione del sevondo aeroporto di Pechino, che alla fine è stato posizionato a sud-est della città.

”L’enorme flusso di passeggeri verso Pechino, Tianjin e Hebei richiede un lancio dell’aeroporto entro un contesto regionale equilibrato” sostiene Li.

Un sistema ferroviario da 12 miliardi di yuan (1,46 miliardi di dollari USA) a collegare direttamente Pechino e Tianjin accorcerà il tempo di viaggio di circa due ore fra le due città, a 40 minuti.

Nota: qui il testo originale al sito del China Daily (f.b.)

L’11 marzo era passata per uno solo voto in consiglio regionale, adesso il governo impugna davanti alla Corte costituzionale la legge sul Territorio. Il Pirellone può riapprovarla così com’è,oppure riformularla. E magari - come fa capire il nuovo assessore, il leghista Davide Boni - rivederne anche altri aspetti, che vanno al di là dei rilievi mossi dal governo: “Adesso il responsabile del Territorio sono io, in questo campo ci vogliono più risorse e maggiori tutele”.

Il primo rilievo riguarda il meccanismo di “compensazione”. Il provvedimento stabilisce che chi costruisce anziché corrispondere ai Comuni la totalità degli oneri di urbanizzazione dovuti, offra per sdebitarsi, in tutto o in parte, opere di compensazione. Il governo dice che non si può, perché quelle opere debbono essere messe a gara. Secondo rilievo: non può essere la Regione a valutare i rischi idrogeologici legati a particolari interventi sul territorio: la competenza è dello stato. Il terzo no del governo riguarda l’installazione di antenne, tralicci e altri impianti di comunicazione: la legge regionale stabilisce che sono i sindaci a concedere le autorizzazioni, Roma ribadisce, come aveva già fatto l’ex ministro Gasparri, una pressoché totale libertà di antenna.

Davide Boni, il nuovo assessore al Territorio, anticipa che su questo punto il Pirellone darà battaglia, anche se per ora evita di pronunciarsi sugli altri due: “Valuteremo” . Però dice una cosa interessante: “Questa può essere l’occasione per una rilettura generale del provvedimento”. È stranoto che la Lega l’11 marzo l’aveva approvato malvolentieri, e che lo stesso Boni, anche di recente, non ha mancato di rinnovare le critiche a un impianto giudicato insufficiente sotto il profilo dei controlli. C’è un altro problema aperto. Il forzista Alessandro Moneta, predecessore di Boni, aveva inserito nella legge una norma che avrebbe portato a quello che il centrosinistra definì “un abuso” nella realizzazione dei sottotetti. Quella norma fu respinta, grazie anche a una pattuglia di franchi tiratori della maggioranza. E tuttavia Moneta, subito dopo la bocciatura del Consiglio, annunciò che sarebbe stata ripresentata tale e quale in questa legislatura. Boni però lo delude: “In giunta vale il principio della collegialità, decideremo tutti insieme; comunque è molto probabile che la norma sui sottotetti non verrà ripresentata, perché può scatenare un assalto al territorio”. E ancora: “(Sono pronto ad aprire un tavolo di confronto con tutti i rappresentanti degli enti locali, e anche con le minoranze: non voglio fare una legge di destra o di sinistra, ma solo gli interessi del nostro territorio, che va salvaguardato più di quanto lo sia ora”.

Il verde Monguzzi propone un patto con la maggioranza: “Possiamo lavorare insieme”

CARLO Monguzzi, capogruppo dei Verdi in Regione, vi aspettavate che il governo impugnasse di fronte alla Consulta la legge?

“No. È lo stesso governo che autorizza lo scempio di Villa Certosa per Berlusconi. Questa legge è uno dei fiori all’occhiello di Formigoni: questo è solo un capitolo dello scon tro tra il premier e il governatore”.

Anche l’opposizione aveva fatto gli stessi rilievi del governo?

“Anche noi avevamo contestato la possibilità per i proprietari di pagare parte degli oneri di urbanizzazione realizzando verde e servizi, e avevamo avversato la possibilità che fosse la Regione a tracciare da sola la mappatura dei rischi idrogeologici. Sui ripetitori dei cellulari, invece, chiediamo un piano regolatore che disciplini le antenne”.

Se la legge dovrà essere riscritta, quali sono i paletti che porrete?

“La pianificazione urbanistica deve tornare a essere materia della Regione e non solo del Comune: adesso c’è il rischio che ci sia troppo spazio per i signori del cemento. E poi ci sono le aree standard ridotte del 30 per cento. Ma a Boni chiediamo anche che non venga reintrodotto l’abuso dei sottotetti e che accolga la nostra richiesta di impedire i parcheggi sotterranei che prevedono il taglio degli alberi. Possiamo lavorare insieme e impedire che questa legge devasti il territorio”.

(alessia gallione)

La parola spesso usata è sprawl. Viene dal verbo inglese to sprawl che significa, più o meno, sdraiarsi in modo scomposto. È questa la forma che vanno assumendo le città, distendendosi sui territori che le circondano, invadendolo, sparpagliandovi piccoli e grandi insediamenti, per la maggior parte residenziali, oppure destinati al commercio o al divertimento o a tutte queste cose insieme. La trasformazione è in atto da vari decenni - qualcuno dice uno, qualcuno si spinge a due, qualcun altro azzarda tre. Ma sul fatto che ormai la città stia perdendo la sua immagine di struttura compatta concordano urbanisti e sociologi, economisti e geografi. Dividendosi, semmai, sul giudizio: è un fenomeno incontenibile oppure vi si può porre rimedio? Migliora la vita di una città e dei suoi abitanti oppure ne accentua l’affanno? E cosa ne sarà delle campagne, verranno urbanizzate oppure distrutte? E dei paesaggi?

Gli studi si moltiplicano, ma per la prima volta si tenta un’indagine comparata che mette a confronto le analisi su un’area vasta, quella dell’Europa meridionale. Nasce così L’esplosione della città, che è il titolo di un volume (edito dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna) e di una mostra in corso a Bologna, curati da Francesco Indovina, professore di Urbanistica a Venezia, e da Laura Fregolent, Michelangelo Savino, Alessandro Delpiano e Marco Guerzoni. Le aree soggette a verifica, da parte di una quindicina di urbanisti, sono quelle di Barcellona, Madrid, Valencia e Donostia Bayonne in Spagna; di Lisbona e Porto in Portogallo; di Marsiglia e Montpellier in Francia; e di Bologna, Genova, Milano, Napoli e del Veneto in Italia.

La città si sfascia, deborda. Però negli ultimi tempi si sarebbe verificato un fenomeno non proprio in controtendenza, ma comunque diverso. È lo stesso Indovina che lo segnala, dopo essere stato lui, almeno in Italia, fra i primi a individuare lo sprawl (risale al 1990 il suo libro La città diffusa). Secondo l’urbanista, accanto alla dispersione si sta attuando una specie di "metropolizzazione del territorio". Detto in altri termini: i pezzi di città che si disseminano fuori dal perimetro urbano consolidato, fuori anche dalle periferie sorte negli anni Sessanta e Settanta, tendono a riaggregarsi fra loro, i frammenti mirano a ricomporsi, a fare città di città. Spiega Indovina: «Questa metropolizzazione del territorio ha il potere di riprodurre la città. Estremizzando: di salvarla. Perché preserva in una situazione nuova un contesto di scambi non solo economici, ma anche i luoghi dove si creano continuamente i meticciati culturali, si moltiplicano le relazioni sociali, si manifestano le contraddizioni. In questo modo si rinnova la città come nicchia ecologica della specie umana».

Queste trasformazioni risponderebbero a forti pulsioni culturali e sociali. Mentre la struttura compatta, continua Indovina, «costituisce la rappresentazione di un mondo definito, quello che si identifica in una città classista e insieme corporativa, segmentata e disgiunta, difensiva e aggressiva», la città diffusa e che tenta di ricomporsi «dà corpo a una concezione caratterizzata dal problema dell’integrazione».

Fra le cause della dispersione Indovina segnala questioni economiche e di fisionomia produttiva (il passaggio dalla grande industria a una rete di piccole e medie imprese più diffuse e collegate attraverso le reti informatiche). Ma anche i nuovi stili di vita: la spesa nei grandi centri commerciali, sempre più specializzati (fra gli ultimi parti le cittadelle dell’outlet, dove si vendono i vestiti firmati ma a minor prezzo, e che talvolta simulano nell’architettura i centri storici rinascimentali), e il tempo libero nei mastodonti del divertimento che inglobano multisale, pizzerie, paninoteche e sale giochi. Inoltre spingono fuori dalle mura tradizionali di una città le regole della rendita, per cui i centri urbani si svuotano di residenti a vantaggio di uffici, banche, studi professionali, i soli in grado di sostenere alti costi di affitto e di acquisto (secondo Indovina, è soprattutto il ceto medio a essere allontanato dalla città, ceto medio che si trasferisce o nelle villette unifamiliari oppure nei grandi quartieri costruiti dove una volta erano terreni agricoli).

Sociologi e urbanisti discutono da tempo. E se c’è chi, come Indovina, intravede in questi processi, se ben governati, il tentativo di ricostruire la dimensione di una città, altri hanno posizioni più critiche. «Compattezza, mixitè, vicinanza, riconoscibilità, confine: mi sembrano questi gli attributi necessari della città in quanto tale», sintetizza Edoardo Salzano, fino a qualche anno fa preside della facoltà di Pianificazione a Venezia, che sottolinea come «in alcuni paesi europei e perfino in qualche Stato americano, l’obiettivo politico (e l’urbanistica è politica) è arrestare il fenomeno».

Sebbene molto diverse fra loro, tutte le città prese in esame dal gruppo di studiosi coordinati da Indovina tendono a dilagare nel territorio che le circonda. Accade a Milano o nel napoletano, dove un piano elaborato dalla Provincia è arrivato ad autorizzare, secondo i calcoli compiuti da un agronomo, Antonio Di Gennaro, la trasformazione di 25 mila ettari sui 60 mila rimanenti in una zona già esausta, fra le più urbanizzate del pianeta. Accade nel Veneto, dove sono sparite molte tracce del paesaggio agrario, il paesaggio delle tele di Cima da Conegliano, sostituito da una melassa di costruzioni che ha saturato tutto lo spazio, determinando anche il rallentamento dei ritmi di crescita economica di un’area molto dinamica. Ma accade anche a Marsiglia o a Barcellona, come segnala Antonio Font, che insieme a Indovina e a Nuno Portas forma il comitato scientifico dello studio e della mostra. Secondo Font, l’immagine di Barcellona è legata alla città ottocentesca, ma esiste una "ciutat de ciutats", una Barcellona sconosciuta persino agli spagnoli che si estende per cento chilometri da Foix a Tordera, protendendosi verso l’interno per trenta chilometri dalla costa fino ai monti della Serralada Pre-litoral. È una Barcellona che si è formata dalla seconda metà degli anni Settanta, spinta da vari motori e che, sebbene abbia molto investito in reti di trasporto collettivo, si trova comunque a soffrire: Font cita un irrazionale uso del suolo, la congestione del traffico, un progressivo degrado dell’ambiente, con la distruzione di molte aree naturali.

Nel 2001 si contavano in Italia sette milioni e mezzo di case unifamiliari, su un totale di venticinque milioni di case. Ma ogni anno ben più della metà delle case che si costruiscono sono di quel tipo. Speculare al fenomeno delle campagne che si urbanizzano è l’abbandono della città da parte di residenti. Secondo l’urbanista Paolo Berdini, l’insieme dei quartieri storici di Roma era popolato, nel 1971, da 1.400.000 abitanti. Nel 2003 erano 970.000. Non si svuotano solo le zone del centro antico, ma anche i rioni novecenteschi: il quartiere Trieste passa da 92.000 a 65.000 abitanti, Ostiense da 101.000 a 69.000. Cosa diventano le case un tempo abitate da famiglie? Per lo più uffici. Annota Berdini: «Un semplice conteggio ci dice che se una famiglia possedeva una o al massimo due macchine, lo stesso appartamento occupato da un ufficio richiama un numero di macchine due o tre volte superiore». Ecco una delle cause della congestione.

Lo sprawl porta con sé costi elevati. Indovina segnala l’alto consumo di energia: una casa isolata ne ha molto più bisogno per riscaldarsi rispetto a una casa in un condominio. E poi crescono i costi per spostarsi, perché caratteristica della città diffusa è il fiume di macchine che ogni mattina raggiunge il centro della città, e la sera scorre verso l’immenso territorio urbanizzato. Più macchine significa più inquinamento, più tempo trascorso nella solitudine della propria auto. Guido Martinotti, sociologo urbano, parla di "meta-city" di città-oltre e segnala anche i problemi politici: chi governa queste aree? Basta il Comune, la Regione oppure bisogna pensare ad altre istituzioni? In attesa delle quali comanda chi questi insediamenti li ha disegnati e costruiti.

Uno studio rigoroso degli effetti di una città che si dilata lo hanno compiuto tre urbanisti milanesi, Roberto Camagni, Maria Cristina Gibelli e Paolo Rigamonti, in un libro intitolato I costi collettivi della città dispersa (Alinea, 2002). Al primo posto figura il consumo di suolo agricolo, una risorsa non riproducibile. Ma non va sottovalutato il costo sociale, quello che si può chiamare la perdita di un "effetto città", una forma nuova di segregazione e di isolamento. Molto nette sono le conclusioni di Salzano: «Tutte le analisi confermano che la spalmatura urbana è figlia della sregolatezza, dell’anarchia, dell’individualismo. Una realtà con questo genoma non può essere definita città. E infatti non lo è, è il luogo della dissipazione delle risorse territoriali, ambientali, energetiche, finanziarie. Occorreranno sforzi generosi, investimenti ingentissimi, trasformazioni radicali per renderle realtà pienamente urbane».

Titolo originale: Too tall and too close for comfort – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Edifici sviluppati in altezza continuano a spuntare senza sosta nelle principali città della Cina, iniziando a sollevare diffuse preoccupazioni per la loro mole, e densità.In molti casi si considera lo sviluppo in altezza una risposta inevitabile alla crescente urbanizzazione e alla sempre più ristretta disponibilità di suoli; oltre che un simbolo di crescita economica e modernità.Ma i critici sostengono che questo bombardamento incontrollato di edifici sta distruggendo il paesaggio storico delle città, e si porta appresso i problemi collaterali della congestione da traffico, dell’alto dispendio energetico e dell’inquinamento, oltre alla forte vulnerabilità in caso di terremoti e incendi.A Pechino, una città con una storia di oltre 3.000 anni, un’invasione di grattacieli – compresi il discusso edificio di 230 metri della China Central Television, e la terza fase del World Trade Centre che raggiungerà i 330 – in pochi anni farà sembrare un nano lo Jingguang Centre coi suoi 209 metri, realizzato nei primi anni ’80 e per oltre dieci anni l’edificio più alto della città.Pechino si trova di fronte a un dilemma comune alle città di tutto il mondo: salvaguardare il proprio passato senza smettere di costruire il proprio futuro.”Non è saggio, a Pechino, costruire ancora sviluppando in altezza alla cieca, e la città ha bisogno di darsi nuove regole per limitare la realizzazione competitiva di grattacieli” ha sostenuto lo stimato urbanista Zhao Zhijing, secondo la stampa locale.

Mao Qizhi, professore di scienza delle costruzioni alla Tsinghua University, afferma che a Pechino si sono approvate parecchie limitazioni negli anni ’90, a contenere le altezze. Ad esempio, sono vietati gli edifici oltre i 60 metri nella città vecchia.”Ma queste norme non sono state rispettate rigorosamente a suo tempo, e sono già stati completati parecchi edifici di oltre 100 metri nella zona centrale” dice Mao.”Non possiamo semplicemente dire NO alla realizzazione di edifici alti; dopo tutto, i grattacieli sono ampiamente considerati come simboli importanti dello sviluppo della città” sostiene Mao. “Ma si devono avere una progettazione e un piano scientifico. A Shanghai e Guangzhou, i grattacieli pongono un rischio addizionale: la subsidenza. Nel primo caso, si imputa agli edifici troppo alti lo sprofondamento annuale della città di circa 5 centimetri”.Ma le autorità municipali di Shanghai, hanno risposto alla sfida di realizzare più spazi pubblici in centro. Sono riuscite a ridurre di 3.700.000 metri quadrati di superficie di pavimento (circa un sesto del totale) i 376 progetti approvati, aggiungendone più di 210.000 in spazi verdi, alla fine dello scorso anno.”Abbiamo discusso con i costruttori, chiedendo loro di ridurre altezze e densità dei vari progetti, o trasferirli verso zone meno popolate” ci dice Mao Jialiang, direttore dello Shanghai Urban Planning Administration Bureau. “I nuovi progetti vengono approvati solo quando altezze e densità sono rigorosamente conformi alle nostre prescrizioni”.Alle grandi altezze va imputato anche l’inquinamento atmosferico e lo spreco energetico, il peggioramento dell’ambiente, i danni per la salute, sostiene Cai Zhenyu, architetto a capo dello East China Architectural Design and Research Institute.

A Guangzhou, la densità generata dallo sviluppo in altezza ha attirato l’attenzione politica locale.È in corso di stesura una bozza di documento inteso a limitare l’altezza degli edifici in centro. In consiglio si afferma che gli edifici alti e densi hanno innescato un a serie di problemi ambientali e di traffico, che potrebbero aggravarsi se questi edifici continuano a spuntare come funghi.In primo luogo a causa di densità e altezza, si dice, la città ha sofferto lo smog per 144 giorni nel 2004, 98 nel 2003, 85 nel 2002. E lo smog fa guadagnare terreno alle malattie respiratorie.In un’intervista rilasciata ieri, Wang Yingchi, vicedirettore dello Guangzhou Urban Planning Design Research Institute, ha affermato che sarà la densità, più che la semplice altezza, dei volumi edificati, al centro dell’attenzione dell’urbanistica cittadina.A parere del vicedirettore, lo Stato prevede alcuni limiti alla densità degli edifici alti. Ma non esiste alcuna legge in tutta la nazione che possa contenere la semplice altezza.Se si fossero seguite correttamente le norme, aggiunge, non ci sarebbero ora tanti problemi.Le leggi statali stabiliscono che la distanza fra due edifici deve essere 0,7 volte il doppio dell’altezza, ovvero un fabbricato di 100 metri deve stare ad almeno 70 da un altro simile.Si propone che le amministrazioni locali prendano in considerazione incentivi o politiche preferenziali per i costruttori che propongono progetti a insediamento più diffuso.Un funzionario dell’ufficio urbanistica comunale, che vuole restare anonimo, ci ha riferito che a livello politico è stato compreso il problema, e che ora viene data più importanza alla pianificazione.Come esempio cita gli edifici della recente Science Town a est della città: nessuno è stato sviluppato in altezza, sono ben distanziati e lasciano spazio a fasce di verde.

Nota: qui il testo originale al sito China Daily (f.b.)

Parlare di urbanistica e suscitare diffuse passioni credo sia impossibile -una materia troppo specialistica - io vorrei solo suscitare indignazione, cosa forse più facile. Sto parlando della Legge regionale per il governo del territorio che andrà in votazione oggi o domani in Regione.

Prima di tutto bisogna cambiarne il titolo in: Norme per il sollecito rilascio ai privati dei permessi di costruire, se, per un minimo di correttezza semiotica, vogliamo almeno che il titolo rispecchi i contenuti prevalenti.

La legge in votazione è la tanto attesa legge urbanistica regionale, quella che dovrebbe regolare le trasformazioni del territorio lombardo e, tanto per capirci, definire quantità, forma e disposizione degli edifici, il loro formare città e paesi, le loro interconnessioni funzionali - strade, piazze, ponti, ferrovie, aeroporti e altro ancora - insieme agli spazi per una ragionevole qualità della vita: spazi pubblici, verde artificiale, acque, parchi naturali, monumenti e così via. Insomma tutte quelle cose che, di ritorno da un viaggio per il mondo ci fanno dire: “Ho visto una bella città, ci abiterei volentieri”. Oppure no.

Oggi per fare una legge urbanistica seria bisogna aver chiaro cosa si voglia, quale modello si abbia in mente. Per esempio: in Lombardia abbiamo scelto la città come un continuo indistinto di edificato o abbiamo scelto un territorio di municipalità distinte e ben connotate come vorrebbe la Lega?

Puntiamo ancora alla città metropolitana oppure no? Dietro ogni scelta sta un disegno politico che si trasforma in legislazione: nella futura legge regionale non ve n’è traccia salvo che s’intenda per disegno politico il non scegliere o meglio il far scegliere agli operatori immobiliari. Anche questa è una politica.

Una legge urbanistica moderna dovrebbe dare indicazioni per la soluzione dei problemi dell’oggi - inquinamento, pendolarismo, congestione del traffico, calamità naturali, il valore degli immobili, il tutto strettamente legato all’assetto del territorio - senza limitarsi, come fa la nuova legge regionale, ad elencare questi problemi.

Senza chiuderli nella ormai logora cornice dello “sviluppo sostenibile”: un vestito per tutte le stagioni. Sostenibile per chi? Per quelli che hanno firmato il protocollo di Kyoto o per gli amici di Bush, l’amico americano?

La nuova legge regionale in votazione si connota per due aspetti particolari: lo svuotamento dei poteri delle assemblee elettive - Consigli comunali, provinciali e regionali - a favore delle Giunte, veri arbitri dell’urbanistica ed al riparo dalle opposizioni, e il trionfo delle DIA (dichiarazione d’inizio attività) come strumento autorizzativo del costruire.

Chiunque potrà presentare un progetto - dal canile al grattacielo - e aspettare trenta giorni: se nessuno si fa vivo è fatta, al diavolo le commissioni edilizie! Anche per i parchi naturali dispiaceri in vista: gli interessi di Regione, Province e Comuni (le loro Giunte) prevarranno sempre. In tanti ormai riparliamo degli “energumeni del cemento armato” come li definiva Antonio Cederna: mai si sarebbero aspettati tempi così favorevoli.

Ci si domanda però se anche a loro giovi questa deregulation selvaggia: anche nella lotta tra energumeni qualche regola serve, un minimo di civiltà come i protocolli tra re. E ancora: a chi servono città brutte ed inabitabili dove i valori immobiliari tenderanno a scendere? Forse non ci pensano: troppi sono della teoria del mordi e fuggi. No: del vendi e fuggi. Se domani l’opposizione farà la sua ultima battaglia anche in piazza, non lasciamola sola.

Titolo originale George W. Bush and the Cities: The Damage Done and the Struggle Ahead – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Il 29 aprile 2002, nel decimo anniversario dei fatti di Los Angeles, George W. Bush venne in città a parlare in un centro civico sponsorizzato da una chiesa, nell’epicentro della rivolta del 1992, South Los Angeles. Vista l’occasione, i giornalisti si aspettavano che il Presidenze annunciasse alla nazione una nuova iniziativa per i principali problemi urbani. Ma Bush era venuto a Los Angeles – in una breve pausa in un giro per la raccolta di fondi elettorali – solo a portare retorica.

“Sapete, viviamo in un grande paese” disse. “Sono fiero dell’America. Sono fiero del nostro paese. Sono fiero di quello che stiamo facendo. Oh, certo lo so che ci sono sacche di disperazione. Questo significa solo che dobbiamo lavorare più sodo. Significa che non possiamo mollare. Significa che dobbiamo estirparle con amore, compassione, modestia”.

Bush tentava di essere predicatore e storico: “Dalla violenza e dalle brutture nasce nuova speranza” diceva: il tutto in mezzo a un quartiere dove solo il 23 per cento degli edifici commerciali distrutti nella rivolta erano tornati attivi, dove esistevano 43.800 posti di lavoro in meno del 1992, e dove più di un terzo dei residenti viveva in povertà.

Il Presidente ci rifilava il suo programma urbano più visibile: incoraggiare le chiese a sostenere i loro programmi sociali, come il rifugio ai senza casa, le cucine per poveri, i consultori antidroga. Le sue proposte, ferma al Congresso per dissidi sui finanziamenti federali alle attività religiose, non aggiungevano risorse a questi pur validi sforzi, anche se solo di rattoppo: semplicemente chiedevano di riorientare fondi già stanziati. E a dire il vero, grazie ai suoi 1,3 biliardi di tagli fiscali, in massima parte per i ricchi, Bush aveva reso impossibile per Washington fornire qualsiasi aiuto alle città del paese, o ai poveri.

Non è difficile capire perché Bush presta così poca attenzione all’America urbana. Nel 2000, Al Gore aveva battuto Bush fra gli elettori urbani con un margine di 61 contro 35 per cento, aveva pareggiato virtualmente fra gli elettori suburbani con 47 contro 49 per cento, e aveva perso nelle aree rurali, con un ampio margine di 37 contro 59 per cento. Non sorprende, che Bush non veda ragione per formare la sua agenda politica orientata agli elettori urbani.

C’è un ritorno delle città?

Entrando nel ventunesimo secolo, alcuni esperti di problemi urbani e giornalisti proclamarono che era in corso un rinascimento urbano. I dati del censimento 2000 mostravano alcuni segni promettenti. Nel corso degli anni ’90 alcune delle principali città, fra cui New York e Chicago, avevano invertito il proprio lungo declino in termini di popolazione. Il tasso di criminalità nazionale era il più basso da dieci anni. Lo stesso valeva per il tasso di disoccupazione. La proprietà dell’abitazione fra ispanici e neri era aumentata, nonostante restasse un significativo gap rispetto ai bianchi. E nel 2000 anche il tasso di povertà a livello nazionale (11,3%) e quello delle grandic ittà (16,1%) era più basso di quanto non fosse stato per 25 anni. Anche la qualità dell’aria era migliorata, in molte aree urbane.

Ma queste tendenze positive non erano né definitive, né durature. Con l’economia nazionale volta al ribasso dopo il 2000, gli indicatori del rinascimento urbano (riduzione della povertà, del crimine, e del numero di famiglie non assicurate) invertirono tendenza. I miglioramenti in città degli anni ’90 erano dovuti in larga parte ad un’espansione economica nazionale senza precedenti, rafforzata da politiche federali che riducevano la disoccupazione, spronavano la produttività, elevavano i working poors al di sopra della povertà, orientavano gli investimenti verso le aree urbane con bassi redditi.

L’amministrazione Clinton con l’ampliamento dello Earned Income Tax Credit (EITC), un supplemento di salario per gli working poors, aveva aiutato particolarmente gli abitanti delle città e dei sobborghi più interni. Nello stesso modo avevano operato gli sforzi di Clinton per promuovere le Community Development Corporations (CDC). Queste entità non-profit hanno costruito la maggior parte delle case a basso costo dello scorso decennio, ma il taglio dei fondi federali per l’abitazione ora fa sì che possano avere solo un effetto marginale sui progressi delle inner cities americane.

La condizione urbana negli anni di Bush

Come Presidente, Bush aveva tre priorità politiche: tagliare le tasse, specie ai più ricchi, ridurre le norme di regolazione sulle attività economiche; aumentare la spesa militare. Con una maggioranza repubblicana al Congresso, Bush è stato in grado di raggiungere tutti e tre gli obiettivi. L’attacco al World Trade Center dell’11 settembre 2001 ha aiutato a invertire il calo di popolarità di Bush, e ha reso molto più facile per lui convincere i democratici a votare un’impennata delle spese per la difesa, invadere l’Afghanistan e l’Iraq, appropriarsi di fondi per una interna “guerra al terrorismo”. Bush ha ereditato un attivo di bilancio federale da Clinton, ma la combinazione di enormi tagli fiscali e aumento delle spese militari ha portato a un deficit record, lasciando poche e discrezionali risorse per programmi sociali o anti-povertà. L’iniziale sostegno pubblico per la concentrazione di Bush sulla guerra e il terrorismo, ha anche limitato la volontà dei democratici di mettere in discussione il suo modo di gestire la crisi economica.

Alla fine della scorsa recessione, nel marzo 1991, il paese si era incamminato in nove anni filati di crescita dei posti di lavoro. Al contrario, la cosiddetta “recessione di Bush” è terminata nel novembre 2001, ma nei successivi due e più anni il paese ha sperimentato quello che alcuni economisti chiamano “ripresa senza lavoro”, con le imprese americane che esportano all’esterno un numero crescente di impieghi sia operai che amministrativi. Nei primi tre anni di presidenza Bush, il tasso di disoccupazione è incrementato da 4 al 6 per cento, aggiungendo più di 3 milioni di persone ai ranghi dei senza lavoro. La quantità di persone senza impiego per più di sei mesi si è raddoppiata. Il reddito medio familiare è precipitato di 500 dollari fra il 2000 e il 2003. Il tasso nazionale di povertà è salito dall’11,3% al 12,5%; altri 4,8 milioni di americani sono caduti in povertà e il totale ha raggiunto i 36 milioni nel 2003.

Al 2003, vivevano tanti poveri nei suburbi (13,8 milioni, il 38,5%) quanti nelle città (14,6 milioni, il 40,5%). La suburbanizzazione della povertà potrebbe essere una buona notizia se queste famiglie vivessero in suburbi a predominanza di ceto medio, con buone scuole. Ma la maggior parte dei poveri suburbani vive in comunità a rischio, attraversate da problemi un tempo tipici delle grandi città: crimine, fame, problemi dei senza casa, scuole e servizi pubblici inadeguati, crisi fiscali croniche.

Gli anni di Bush vedono una continua consunzione della rete di sicurezza sociale. Il numero di americani privi di assicurazione malattie è salito da 39,8 milioni a 45 (15,6% della popolazione). Alcune delle peggiori previsioni sui programmi di riforma del welfare di Clinton si sonoa vverate negli anni di Bush. Robert Reich, ministro del lavoro di Clinton, aveva avvertito che “[quando] la disoccupazione comicia a risalire, c’è una lunga fila di persone che avrà dei problemi, perché abbiamo tolto la rete di protezione”. Per esempio, la proporzione di famiglie che escono dall’assistenza ma non trovano lavoro è salita dal 50% del 1999 al 58% del 2002. Il numero di chi lo riceve ma resta povero è aumentato.

Non appena Bush entrò in carica tradì la sua promessa elettorale di governare come “conservatore compassionevole”. La sua iniziativa “urbana” più simbolica fu un piano per riorientare fondi federali per programmi sociali come rifugi per i senzatetto, banche del cibo e programmi di recupero per i tossicodipendenti, verso enti sponsorizzati da organizzazioni di “fede”. Il piano divenne pubblico quando John Dilulio, il politologo conservatore ingaggiato da Bush a sviluppare il programma a base religiosa, fece arrivare una lettera a Esquire che criticava il Presidente e i suoi consiglieri per la loro “mancanza di conoscenze politiche di base, e lo scarso interesse a saperne di più” sui problemi urbani, e osservava che “c’erano solo un paio di persone alla Casa Bianca che si occupavano un po’ di analisi e sostanza politica”.

Bush si costruì un consenso bi-partisan al Congresso per far approvare il “No Child Left Behind Act,” che chiedeva alle scuole locali di aumentare le verifiche degli alunni e di redigere un rapporto annuale sui loro progressi. Gli scopi di chiarati erano di migliorare i risultati degli studenti (in particolare nelle inner cities e nelle scuole dei quartieri di minoranze) e aumentare le medie, compresa l’assunzione di insegnanti più qualificati. Gli esperti di istruzione stimavano che per le scuole a livello nazionale sarebbero stati necessari almeno 84 miliardi di dollari per adeguarsi ai nuovi standards federali, ma Bush chiese al Congresso soltanto 1 miliardo in più. Senza fondi adeguati, i sistemi locali non potevano assumere più insegnanti, ridurre la dimensione delle classi, o fornire agli insegnanti esistenti un addestramento aggiuntivo. Le scuole delle inner cities, quelle dove era più probabile ci fossero studenti con basse prestazioni ma anche meno risorse per aumentare insegnanti o strutture, sarebbero state le più colpite dalla nuova legge.

L’abitazione per i poveri compare a malapena sugli schermi radar di Bush. Nei suoi primi tre anni da presidente ha mantenuto il bilancio dello Housing and Urban Development più o meno identico, ma nel 2004 ha proposto grossi tagli alla sezione 8 del Buoni Casa, eliminando 250.000 buoni per il 2005 e 600.000 entro il 2009: un taglio del 30%. Gli inquilini a basso reddito si troveranno di fronte a incrementi di affitto di circa 2.000 dollari l’anno. Nel maggio 2004, testimoniando di fronte al Congresso per giustificare questi tagli, il responsabile dello HUD Alphonso Jackson ha affermato che “essere poveri è uno stato d’animo, non una condizione”. Questo ha fatto infuriare parecchi membri del comitato, compreso Michael Capuano (democratico del Massachusetts), che ha risposto a Jackson, “A quanto pare lei non conosce nessuno che ha di fronte lo sfratto o che non è in grado di pagare l’affitto”. La dichiarazione di Jackson ha rivelato in modo stupido il vero punto di vista dell’amministrazione sulla povertà, che sarebbe dovuta principalmente a debolezza di carattere dei poveri.

Sotto Bush, affitti e prezzi delle case sono aumentati più in fretta dei redditi. Nel 2000, la “ housing wage” nazionale (la quota che chi lavora quaranta ore settimanali deve guadagnare per pagarsi un appartamento a due stanze medio in una certa area) era di 12,47 dollari; nel 2003 era di 15,21, e molto più alta in parecchie città. In generale, la percentuale dell’affitto sul reddito è salita dal 26,5% del 2000 al 29% del 2003. La quota di proprietà della casa è salita al 68,3% nel 2003, ma molti proprietari di ceto operaio hanno scoperto che l’ american dream era un po’ sfuggente.

Negli anni di Bush, il disagio economico nazionale, compresa la spirale del deficit federale, ha determinato una devastazione fiscale negli stati e nelle città. Governatori e sindaci, anche repubblicani, lamentano che Washington li sta mettendo nei guai. Il costo schizzato alle stelle dell’assistenza sanitaria ha logorato la capacità degli stati di provvedere alle proprie quote di Medicaid. I governatori sono stati obbligati a tagliare i finanziamenti sanitari, per le scuole, i trasporti e altri servizi base. Né potevano sperare di affrontare i nuovi costi del welfare-to-work federale perché la disoccupazione crescente rendeva quasi impossibile trovare lavoro ad ex assegnatari di sussidi. I funzionari amministrativi delle città, di fronte alla caduta dei sostegni statali e federali, non avevano altra scelta se non quella di tagliare servizi essenziali, come la sicurezza pubblica, le biblioteche, la manutenzione stradale e le scuole pubbliche.

Il trauma fiscale delle città si è poi mescolato al più costoso programma federale dell’amministrazione Bush: adeguarsi alle iniziative di “lotta al terrorismo” e “sicurezza interna” dopo l’11 settembre. Il governo federale chiede alle città di aumentare esponenzialmente le misure di sicurezza negli aeroporti, nei porti, alle manifestazioni sportive, di migliorare la preparazione all’emergenza connessa ai sistemi idrici, ai numeri di pronto intervento, salute e sicurezza collettiva, ma non fornisce alle municipalità fondi adeguati per acquisire strutture o assumere e formare personale. Le città hanno speso 70 milioni di dollari la settimana solo per adeguarsi agli “allarmi arancioni” di minacce emanati dal Department of Homeland Security. C’è voluto un anno e mezzo dopo l’11 settembre all’amministrazione Bush e al Congresso per varare le norme che destinano a stati e città i finanziamenti per migliorare la sicurezza negli aeroporti e attuare altre misure, ma ancora un anno dopo poche città avevano effettivamente ricevuto i fondi promessi. In più, l’amministrazione Bush ha cambiato la formula per distribuire i finanziamenti per la sicurezza interna a danno delle città dove la minaccia è maggiore, e a favore di comunità meno in pericolo (e, per caso, più Repubblicane). Nel 2003, lo Wyoming ha ricevuto 61 dollari pro capite in aiuti federali alla sicurezza interna, mentre la California ne ha avuti solo 14 e New York City meno di 25.

Per ironia, la tragedia dell’11 settembre ha ricordato ai newyorkesi e a tutti gli americani quanto dipendevano dal governo, non solo nelle emergenze, ma anche in tempi normali. Anche chi di solito fa obiezione alle “grosse spese” governative e agli aiuti per le città ha riconosciuto che Washington aveva la responsabilità di aiutare New York City a riprendersi e ricostruire. In più, a partire da quel momento gli eroi nazionali sono diventati la polizia, i pompieri, le squadre di emergenza, gli autisti delle ambulanze, il personale ospedaliero, gli esperti di salute pubblica e altri funzionari il cui coraggio, dedizione e compassione hanno aiutato la gente ad affrontare una delle peggiori tragedie della storia nazionale.

Con un ritardo di qualche giorno, Bush arrivò sulla scena. Con il sindaco Rudy Giuliani al fianco, Bush promise di aiutare abitanti, lavoratori e imprese di New York City a ricostruire e riprendere dal caos economico. Si impegnò per più di 21 miliardi di dollari per sostenere la città, ma due anni dopo la tragedia, qualche funzionario si lamentava di quanto l’amministrazione fosse lenta a destinare i fondi. All’epoca in cui si tenne la convenzione Repubblicana di New York nell’agosto 2004, la città aveva ricevuto meno della metà dei fondi promessi da Bush.

L’amministrazione Bush ha dedicato più risorse e attenzioni alla ricostruzione dell’Iraq che non a quella delle città americane. Ha fallito in entrambi i casi: in Iraq per incompetenza, negli USA per mancanza di interesse e impegno.

Un’agenda di riforme per le Città

Su molti fronti, l’amministrazione Bush è il regime più conservatore dell’ultimo secolo. Negli anni di Bush, attivisti politici sui temi urbani e militanti per le riforme hanno avuto poco successo a livello federale. Con il Congresso in mani repubblicane, c’era ben poco da fare per i progressisti salvo tentare di bloccare le cose peggiori: l’invasione e occupazione dell’Iraq, il Patriot Act e altre limitazioni delle libertà civili, lo smantellamento delle leggi federali a favore dei consumatori, dell’ambiente, dei lavoratori, la distruzione dei programmi per la povertà, la comunella col capitalismo, gli scandali delle grandi imprese, le riduzioni fiscali per i ricchi. Ci si è dovuti accontentare di piccole vittorie, come il blocco dei tentativi di Bush di ridurre i compensi per gli straordinari a milioni di lavoratori.

Esiste comunque un’azione crescente a livello locale per le politiche urbane. L’esempio più radicale è il crescente numero di amministrazioni (ora sono più di 100) che hanno adottato norme per un salario di sopravvivenza, a testimoniare l’alleanza fra sindacati, organizzazioni di base, e gruppi religiosi emersa nello scorso decennio. Il movimento per gli investimenti nelle città ha avuto un ruolo di punta nel formare un’alleanza di base diffusa, a fermare le banche dal mettere in rosso il bilancio dei quartieri e lanciarsi in operazioni predatorie. In alcune città, gli attivisti dell’ housing hanno unito le forze coi sindacati e altri gruppi per favorire norme di zoning che inserissero le case popolari, e finanziamenti municipali agevolati a questo scopo, come il fondo annuale di 100 milioni a Los Angeles.

La battaglie a livello locale (per esempio, sul miglioramento delle condizioni abitative, la sindacalizzazione dei lavoratori a basso reddito nei servizi e piccola industria, la resistenza alle operazioni predatorie immobiliari delle banche, il miglioramento delle scuole, le lotte contro i rischi ambientali, lo sviluppo dei trasporti pubblici) possono vincere in termini di miglioramenti della vita quotidiana. Ma i progressisti sanno che non possiamo davvero risolvere i problemi urbani nazionali senza cambiamenti nelle politiche federali. Per combattere alla pari nelle campagne sindacali dobbiamo poter cambiare le ingiuste leggi sul lavoro. Per migliorare le condizioni dell’armata crescente degli working poor dobbiamo aumentare il salario minimo federale e ampliare la partecipazione allo EITC. Per fornire di adeguate risorse i programmi per la casa a poveri e famiglie di classe operaia, abbiamo bisogno di un National Housing Trust Fund o di altri strumenti legislativi che aumentino i sostegni federali. Per affrontare la crisi nazionale dell’assistenza sanitaria abbiamo bisogno di qualche forma di assicurazione sanitaria universale. Per migliorare le scuole pubbliche, specialmente quelle che si rivolgono ai bambini più poveri, dobbiamo aumentare i finanziamenti federali per classi più piccole, insegnanti all’altezza del compito, libri e strutture sufficienti. Per riorientare gli investimenti privati sulle città e i sobborghi più consolidati, dobbiamo mettere a disposizione fondi sufficienti alla bonifica dei siti urbani ex industriali. Per affrontare il problema della crescente congestione da traffico ci vogliono soldi federali per migliorare i trasporti pubblici di ogni tipo, e leggi federali per limitare le esenzioni fiscali e gli altri incentivi che favoriscono lo sprawl suburbano e l’insediamento a macchie di leopardo [ leapfrog] nelle zone più esterne delle aree metropolitane.

I progressisti stanno riconoscendo sempre più che qualunque sforzo per affrontare la crisi urbana nazionale deve formarsi su un’alleanza con qualche parte del mondo suburbano. Il Congresso è dominato da eletti in distretti suburbani, e gli abitanti del suburbio rappresentano la maggioranza relativa degli elettori. E allora i pezzi costitutivi di un efficace movimento progressista oggi cominciano dalle città e si muovono verso l’esterno, verso i sobborghi operai e quelli di ceto medio liberal. Consapevoli di questo fatto, i sindacati, gruppi come ACORN, Gamaliel Foundation e Industrial Areas Foundation, organizzazioni ambientaliste, attivisti di area religiosa e funzionari pubblici, hanno cominciato a lavorare sui sobborghi operai ai margini delle città. Sanno che devono lavorare insieme a scala regionale, per limitare lo sprawl e la congestione da traffico, o per orientare lo sviluppo economico e dei posti di lavoro verso le aree di declino, anziché impegnarsi in una sanguinaria guerra tra poveri l’uno contro l’altro attirare gli investimenti.

Nel loro libro The Emerging Democratic Majority, John Judis e Ruy Teixeira mostrano come un numero crescente di professionisti di ceto medio che lavorano fuori dal mondo della grande impresa e abitano nei nuovi suburbi condividano un punto di vista progressista sulle politiche economiche e sociali, e possano essere collocati entro un’alleanza che punti ad un’economia più umana, a limitare lo sprawl, a rivitalizzare le città e ad espandere i programmi sociali come l’assicurazione sanitaria e l’assistenza per i bambini.

L’ambivalenza dell’amministrazione Clinton nel promuovere l’agenda urbana rifletteva le divisioni interne del Partito Democratico. I democratici prestano più attenzione alle città dei repubblicani, perché molti dei loro gruppi sostenitori ci vivono. I seggi più sicuri al Congresso sono quelli dei distretti urbani, che regolarmente eleggono democratici progressisti. Ma i numeri il giorno delle elezioni sono più bassi di quelli dei sobborghi ricchi, specie nelle consultazioni intermedie. Questo può danneggiare i democratici che si candidano a cariche più alte, non solo per la presidenza ma anche il Senato o la carica di Governatore.

Allo stesso tempo, molti democratici, specie quelli che rappresentano distretti suburbani, sono strettamente legati ai grandi interessi che si oppongono alla tassazione progressiva, alle politiche keynesiane di stimolo e alla spesa sociale, compresa quella per le abitazioni popolari.

La storia dell’ultimo secolo mostra che si fanno progressi quando ci si unisce per il cambiamento, costruendo un percorso continuo e solido di riforme, in modo tale che ciascuna vittoria si edifichi sulla base delle precedenti, e costituisca il presupposto di successive. Questo tipo di lavoro è lento e graduale, perché comporta l’organizzazione delle persone ad imparare pazientemente le capacità di leadership e costruzione del consenso organizzato. Richiede di saldare coalizioni che possano vincere le elezioni e poi promuovere politiche che mantengano viva l’alleanza.

Le organizzazioni di base fanno raramente cose clamorose. I mezzi di comunicazione raramente si interessano ai piccoli miracoli che accadono quando la gente comune si unisce e orienta la propria frustrazione e rabbia ad un’organizzazione solida, che ottiene miglioramenti nei luoghi di lavoro, nei quartieri e nelle scuole. I media di solito sono più interessati nel teatrino della politica e nei confronti: quando si sciopera, quando gli attivisti urbani protestano o quando gente senza speranza ricorre alla violenza. Per questo, molto del migliore lavoro organizzativo dell’ultimo decennio – compresi gli sforzi dell’ultima elezione presidenziale – non è stato seguito dalla stampa principale.

I responsabili capiscono che la sconfitta di George Bush è una necessaria (anche se non sufficiente) precondizione per stabilire un’agenda sulle città e aree metropolitane d’America. Non è un caso se durante la campagna elettorale del 2004 molti, sindacati, gruppi di base, ambientalisti, femminili e il Partito Democratico hanno investito sforzi diffusi per la registrazione, per convincere gli elettori degli stati chiave e distretti per il Congresso in bilico ad andare a votare. In Florida, per esempio, l’ACORN ha collaborato ad una iniziativa di scala statale per innalzare il salario minimo, e sta registrando migliaia di residenti urbani, in maggioranza a basso reddito, per aumentare il numero di votanti il giorno delle elezioni.

Nessuno si aspetta che un’amministrazione Kerry sia la salvezza delle città americane, ma anche un democratico moderato alla Casa Bianca farà aperture a riforme progressiste impossibili negli anni di Bush. Egualmente importante, se gli elettori ridaranno la maggioranza Democratica sia alla Camera che al Senato, molte delle presidenze nelle commissioni chiave potranno essere alleate nella battaglia per le riforme. In questa elezione presidenziale, come in nessuna che abbiamo sperimentato in vita, è essenziale che il pericolo sia sconfitto, se vogliamo che un’agenda di riforme abbia ascolto.



Nota: il testo originale, insieme a molto altro, sul sito Planners Network (f.b.)

Titolo originale (con rima che si perde nella traduzione): Dubai reaches for the sky – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

“La Storia che sale” è lo slogan del gigantesco progetto di costruzione avviato lo scorso anno dal padrone di Dubai, sceicco Muhammad al-Maktoum.

Ora è arrivato allo stadio delle fondamenta, profonde 50 metri, di quello che dovrà essere l’edificio più alto del mondo: la Torre di Dubai.

I modelli danno un’idea dell’altezza

La torre di acciaio argentato, la cui altezza resta segreta, è il simbolo scintillante della nuova sicurezza nel boom di Dubai.

L’architetto di Chicago Adrian Smith, che ha progettato l’edificio, dice che ha tentato di superare la distanza fra la tradizione islamica e l’ultramoderna architettura occidentale.

”Le spirali si presentano in molti modi, nell’architettura islamica” racconta.

”La torre sale per gradi in un percorso a spirale. Nell’architettura islamica, questo simbolizza l’ascesa verso il paradiso”.

Un modello in mostra nel bel mezzo del polveroso cantiere da 120 ettari nel deserto, mostra come apparirà la metropoli, completa di lago artificiale.

In mezzo, la torre d’argento sembra un gigantesca freccia a mezza strada per il cielo.

”Sa, l’altezza esatta è un segreto” dice Smith. “Ma sarà parecchio sopra l’edificio più alto, di almeno 600 metri”.

Un record che duri

Le nazioni competono da molto tempo per ospitare l’edificio più alto.

Quello attuale è Taipei 101, Taiwan, di 509 metri, ma la sua gloria sta per essere eclissata dalla terraferma cinese.

Lo sceicco Muhammad, proprietario dei cavalli più veloci del mondo e dei più grossi jet privati, non vuole essere battuto tanto facilmente, e Adrian Smith è determinato a stabilire un record che duri davvero.

”Il nostro piano panoramico sarà il più alto del mondo. C’è un ascensore senza fermate dal pianterreno al 124°. L’intero edificio ha 154 piani.

Ai futuri abitanti si promette una “vita in cielo” di lusso all’avanguardia, con manghi freschi a colazione.

Nodo internazionale

Il livello terreno della Torre di Dubai, conosciuto col nome arabo di Burj Dubai, h ala forma del fiore hymenocallis, un loto bianco originario del deserto d’Arabia.

L’unica cosa che ricorda il fatto che Dubai è un paese islamico, sono le piscine separate per le abitanti donne.

Migliaia di muratori, soprattutto asiatici, lavorano senza pause giorno e notte per realizzare l’ambiziosa visione dello sceicco Muhammad, della sua città capitale mondiale entro il 2010.

Il cyber-sceicco, come lo chiama qualcuno, è ben consapevole che le sue risorse di petrolio sono limitate.

Le nuove risorse della ricchezza di Dubai, così, saranno turismo, finanza, informazione e comunicazione.

Torre di Babele?

Alcuni critici dicono che Dubai – due generazioni fa un primitivo avamposto nel deserto – si sta muovendo troppo in fretta. Non sarà, ci si chiede, la Torre di Dubai una nuova Torre di Babele?

Ma con più dell’80% della popolazione dell’emirato che viene dall’estero, Dubai è già in qualche modo una Babele. E una volta completato, il grattacielo da 900 milioni di dollari coi suoi 3.000 abitanti sarà un grande simbolo.

Questo significa che potrà diventare obiettivo dei terroristi? Mr. Smith preferisce pensare di no.

”Il messaggio di Burj Dubai è di speranza e ottimismo. Credo che non dovremmo aver paura della vita. Altrimenti, che c’è di buono?”.

Un punto di vista condiviso dallo stesso sceicco Muhammad, che arriva in macchina al cantiere lungo la Sheikh Zayed Road.

”Mi piacciono le sfide” dichiara alla BBC. “Se vedo qualcosa di impossibile, voglio farla diventare possibile”.

”Dobbiamo avvicinarci al futuro, non aspettare che il futuro venga a noi”.

Nota: per apprezzare altre massime di “saggezza” dello sceicco, e capire meglio i restroscena del suo piano di modernizzazione di Dubai, su Eddyburg un articolo di Mike Davis ; qui il testo originale sul sito BBC World News (f.b.)

Titolo originale: More Londoners Ride Bikes to Work – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

LONDRA – I londinesi salgono sempre più numerosi in sella a biciclette e scooters, scegliendo di affrontare audacemente il groviglio del traffico armati di solo casco, anziché prendere la metropolitana o gli autobus, dopo le due serie di attentati.

Attraversare Londra su due ruote non è cosa per deboli di cuore: gli autobus che sovrastano, i taxi che tagliano la strada. Dunque l’aumento nelle vendite di biciclette e scooter – oltre alla quantità di persone che ha iniziato ad andare al lavoro a piedi – può essere un segno di quanto gravemente la capitale britannica sia stata scossa dalle esplosioni sulla rete del trasporto pubblico.

I commercianti del settore calcolano un incremento di quasi il 400% nelle vendite il 7 luglio, giorno dei primi attentati, come riferisce la Association of Cycle Traders. “A partire da quel momento, diciamo che realisticamente si può parlare di un probabile incremento fra il 40% e il 100%” dice Mark Brown, direttore dell’associazione.

Alcuni pendolari affermano di aver iniziato ad usare biciclette e scooters per paura, mentre altri parlano di una soluzione pratica, in una città sottoposta a ripetuti blocchi dopo che la prima ondata di attentati ha ucciso 56 persone.

”Ho usato il Tube per tutta la vita, senza pensarci” dice Harold Williams, trentaseienne che sta comprando una bicicletta venerdì. “Non mi piace nemmeno, andare in bici! Ma non saprei cos’altro fare”.

L’aumento dei ciclisti per le strade dopo il 7 luglio ha stipato le piste ciclabili, con quelli più esperti – come i fattorini – a sorpassare i novellini che frenano ad ogni minimo segnale di pericolo.

Da Evans Cycles in centro, il vicedirettore del negozio Mark Marshall dice di aver venduto 16 biciclette, il 7 luglio, quattro volte la quantità di un giorno normale. Le vendite sono risalite di nuovo giovedì, dopo la seconda ondata di attacchi.

Scooter World nella zona ovest della città vendeva cinque moto al giorno, più del normale, prima di esaurire le scorte dopo le esplosioni di giovedì: è la prima volta che il negozio resta senza scorte dall’apertura nel 2004.

”C’è gente di tutti i tipi che entra: studenti, giovani mamme con bambini, uomini d’affari. Un po’ di tutto” dice il commesso Mark Dawson.

La scelta della bici o dello scooter non è a buon mercato. I prezzi base sono di circa 350 dollari per una bicicletta, e casco, fanali e lucchetto si pagano a parte. Uno scooter in media costa più di 3.000 dollari.

Da Condor Cycles su Grey’s Inn Road, in un quartiere dominato da uffici legali, i clienti spendono da 525 a 700 dollari per una bicicletta, dice il direttore del negozio Greg Needham.

”Ci sono anche servizi in offerta: la gente viene a portarci bici che non ha usato per un po’, e le vuole rimettere in strada” dice.

Fuori da negozio, Harold Ayers guarda la vetrina soppesando le varie possibilità.

”Credoc he questi attentati ... possano essere una buona opportunità. Mia moglie insiste da tempo perché mi metta in forma” dice il trentaduenne professionista toccandosi la pancia.

Ma non tutti sono tanto entusiasti.

All’angolo della vicina Holborn Road, un fattorino in bici dice che i nuovi venuti sono “degli idioti ... non sono capaci di andare in giro”. Il semaforo scatta sul verde e lui se ne va, prima di dirmi come si chiama.

Nota: il testo originale sul sito di Yahoo News (f.b.)

Titolo originale: New Urban Model Becomes Article of Faith - Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Alcune chiese praticano l’attivismo sociale impegnandosi per i senza casa; alcune lavorano sui problemi internazionali, come protestare per il genocidio in Sudan; altre hanno adottato l’ambientalismo, il riciclaggio, i giardini di quartiere.

Ora alcune stanno abbracciando il nuovo vangelo delle città, noto come New Urbanism.

Questo movimento, guidato da architetti, costruttori e urbanisti, tenta di riformare o costruire quartieri in forma di villaggi dentro ambienti urbani, dove le persone possano andare a piedi a scuola, al far spesa, al lavoro e in chiesa. Nei nuovi quartieri, ci devono essere portici, e non garages, a adornare le facciate delle case, e ovunque ci deve essere qualche tipo di spazio pubblico.

Il New Urbanism è visto come l’antidoto all’anonimo sprawl suburbano, all’alienazione sociale e spirituale che innescarsi con una vita dominata dall’automobile.

Un caso particolare è quello della chiesa presbiteriana Bidwell di Chico, un luogo di preghiera in stile revival romanico, con un campanile classico all’italiana che da oltre un secolo è un punto di riferimento nel centro di questa cittadina della California settentrionale.

La chiesa ha iniziato la costruzione di un campus satellite per trovare posto ad una congregazione quadruplicata negli ultimi vent’anni, sino ad oltre mille persone secondo Tom Hayes, consigliere anziano nel comitato costruttivo della chiesa. L’idea originaria era quella di un edificio moderno circondato da ettari di parco.

Ma poi la chiesa fu contattata dalla New Urban Builders, un costruttore con progetti 750 milioni di dollari, per un insediamento a funzioni miste di 120 ettari con 1.500 case, appartamenti, uffici, scuole e un campo da baseball, circa cinque chilometri a sud del centro di Chico.

La ditta invitò la congregazione a realizzare la seconda chiesa su un lotto da un ettaro, in uno stile simile a quello dell’edificio originario, nel centro del nuovo complesso, chiamato Meriam Park.

La nuova chiesa sarebbe stata realizzata vicino al marciapiede, senza un proprio piazzale a parcheggio; i New Urbanists considerano i grandi parcheggi delle brutture, e inutili sprechi di spazio. In questo caso i posti macchina sarebbero stati in comune con quelli pubblici degli uffici lì vicino.

Il campus satellite per la Bidwell Presbyterian costerà più di 7 milioni di dollari, si calcola. È prevista l’inaugurazione del cantiere per il prossimo anno, e i religiosi sperano di avere la prima parte completata entro il 2008.

La mancanza del parcheggio consente di costruire altri edifici oltre la sala riunione originariamente progettata: aule e uffici, un cortile, un santuario e una galleria esterna dove i fedeli possono trovarsi a chiacchierare dopo le funzioni, racconta John Anderson, uno dei costruttori di Meriam Park. La sala comune multiuso sarà aperta alla cittadinanza anche per altri tipi di incontro civici ed eventi culturali.

”Sono venuti da noi e ci hanno detto: Vogliamo davvero avere una chiesa in centro al quartiere” ricorda il Reverendo Greg Cootsona, uno dei quattro pastori a tempo pieno della chiesa e capo del comitato costruttivo. “Crediamo che la vostra chiesa, per via delle relazioni storiche con la città, sia esattamente il tipo di chiesa che ci piacerebbe avere lì. Sarebbe magnifico se riusciste a sviluppare una struttura, un’icona che colga l’attenzione visiva del pubblico, e svolga un ruolo sia di simbolo religioso che civico nel quartiere”.

Cootsona è un ambientalista, che va in chiesa in bicicletta (si spostava sui roller-blades quando lavorava a Manhattan), ed è rimasto interessato.

Immediatamente, lui e gli altri leaders della chiesa hanno letto il libro del teologo Eric O. Jacobsen, Sidewalks in the Kingdom: New Urbanism and the Christian Faith, che sostiene decisamente l’impegno delle chiese nella qualità urbana, sia con un’architettura accogliente che con programmi sociali propri.

”I Cristiani possono applaudire il fatto che i New Urbanists sostengono un ritorno alla scala umana nell’ambiente costruito” ha dichiarato Jacobsen, pastore presbiteriano, a una recente assemblea del Congress for New Urbanism a Pasadena. “Considerando l’essere umano il coronamento della creazione divina [i Cristiani] hanno solidi motivi per rispettare la scala umana”.

Jacobsen ha lasciato di recente la sua chiesa di Missoula, Montana, per terminare il dottorato in teologia e ambiente costruito, al Fuller Theological Seminary di Pasadena. Sostiene che le chiese hanno contribuito al deterioramento delle città costruendo edifici che sembrano depositi nel suburbio, con enormi piazzali a parcheggio. Queste mega-chiese sono troppo isolate per aver rapporti con la “vita quotidiana” delle persone, dice.

”Sarò il primo a sostenere che i Cristiani di questo paese hanno mancato di vivere nel modo fissato dalle proprie Scritture” ha anche dichiarato Jacobsen, professore aggiunto di teologia e cultura al Fuller. “Anziché prendere la Bibbia sul serio, abbiamo consentito agli idoli americani dell’individualismo, del consumismo sfrenato, del privato, di influenzare il nostro modo di costruire chiese, e insieme il nostro atteggiamento istintivo verso il paesaggio urbano”.

Al contrario, una chiesa “immersa nel quartiere, con le porte che si aprono sul marciapiede” riflette l’atteggiamento di Cristo al ministero. Cita la All Saints Episcopal Church e la Pasadena Presbyterian Church in centro città, o la Immanuel Presbyterian Church di Los Angeles come esempi positivi.

”Hgesù Cristo ha “messo il tabernacolo”, piantato la propria tenda fra noi” dice. “Non è rimasto distante, ad aspettare che la gente andasse a lui, ma è andato da chi soffriva per toccarlo col suo amore”.

Il New Urbanism genera comunque anche qualche scetticismo. Alcuni osservatori si chiedono se questo tipo di pianificazione non dimentichi questioni più urgenti, come le case popolari, i posti di lavoro, la povertà.

”Il giudizio è emesso” dice il teologo Glenn Smith, professore di teologia urbana alla McGill University di Montreal. Il New Urbanism è essenzialmente un movimento elitario e bianco, dice.

David Frenchak, presidente del Seminary Consortium for Urban Pastoral Education di Chicago, dice che gli piace il New Urbanism, ma nello stesso tempo si chiede se non possa avere conseguenze indesiderate, come lo spostare i poveri dai propri quartieri da parte di nuovi venuti che possono pagare prezzi più alti.

A Chico, comunque, i leaders della chiesa sperano che il proprio campus satellite sarà il centro del nuovi quartiere, un posto dove molti abitanti vorranno andare, camminando. Dicono anche di voler essere sicuri che il nuovo progetto non tolga nulla alla chiesa originaria e al suo ruolo nel vivace centro di Chico.

Philip Bess, professore di architettura alla University of Notre Dame, che ha anche un titolo della Harvard Divinity School, è consulente per il campo da baseball di Meriam Park.

Bess sostiene che le chiese progettate secondo i criteri New Urbanism aiutano “la missione evangelica di costruire la Città di Dio, e contribuiscono a civilizzare la funzione della Città dell’Uomo”.

Nota: il testo originale al sito CalendarLive/Los Angeles Times; riguardo ai temi citati nell’articolo si veda su Eddyburg la recensione del libro di Jacobsen, e l’articolo sulle Mega-Chiese suburbane (f.b.)

NAPOLI — Il titolo di questa storia è «Un paese saggio e previdente», l’autore è Luigi Comencini, maestro del cinema italiano. L'ha raccontata ieri a Napoli durante la tavola rotonda che ha chiuso la conferenza internazionale sul traffico. La proponiamo perché quando si parla di viabilità in Italia non si dimentichino mai «i fatti e le persone».

«Questo mio sfortunato Paese dopo la guerra poteva ben dirsi distrutto. Quello che non avevano fatto gli alleati con i bombardamenti indiscriminati sulle città lo avevano fatto i tedeschi con la sistematica distruzione di ferrovie, ponti, e quant'altro potesse ritardare l'avanzata del nemico. La pace ci trovò stremati e c'era veramente da restare sgomenti di fronte alla mole del lavoro da compiere.

Ma non tardò a farsi strada nella mente dei governanti di allora che questa sciagura poteva anche diventare una fortuna.

Paese fortemente agricolo, calato tra nazioni industrializzate fin dal secolo scorso, era prevedibile che gli anni a venire avrebbero visto colmato questo divario. Popolo intraprendente, gli italiani liberi finalmente dalle pastoie di un regime che ne aveva bloccato lo sviluppo, si sarebbero abbandonati ad ogni sorta di intraprese dando luogo ad un vorticoso e tardivo sviluppo industriale.

Il "vantaggio" di avere il paese distrutto era quello di consentire che lo si ricostruisse a misura del futuro anziché ad immagine del passato.

Saggiamente i nostri governanti di allora istituirono una commissione di economisti e di sociologi chiedendole di tracciare un quadro delle future esigenze del paese. Il responso non tardò: lo sviluppo industriale avrebbe provocato una grande mobilità delle persone, un flusso rapido e convulso dalle campagne verso la città, dalle zone più depresse alle zone dove emergeva il nuovo sviluppo industriale. Le città italiane, rimaste sino ad allora legate al modello dell'economia prevalentemente artigianale e contadina, tutta incentrata sulla piazza del mercato, cioè con un unico centro, sarebbero cresciute in quanto a popolazione sino a raggiungere livelli mai esistiti prima dì allora.

La già citata intraprendenza degli italiani avrebbe fatto sorgere in luoghi più impensati grandi, medie e piccole industrie che sarebbero diventate poli di attrazione per la mano d'opera proveniente dalle campagne. Occorrevano case e ancora case. Ma guai ad affidarsi allo scatenarsi della speculazione edilizia. Avrebbe compromesso l'armonioso sviluppo delle città mentre si poteva, proprio utilizzando i vuoti creati dalle distruzioni belliche, pianificare uno sviluppo edilizio consono ai nuovi bisogni. E anche qui la commissione investita del problema sottolineò l’esigenza di favorire la mobilità. Le case non dovevano costruirsi a ridosso degli inquinanti poli industriali, ma in luoghi salubri e ameni. L'importanza era che il mezzo pubblico consentisse di raggiungere rapidamente i luoghi di lavoro. Favorire la mobilità, era questa la nuova parola d'ordine; rimase famosa la frase di un politico di allora: "Giacché arriviamo buoni ultimi, cerchiamo di essere i primi". Intendeva dire: giacché abbiamo uno sviluppo industriale in ritardo, vediamo di non commettere gli errori degli altri.

L'allarme venne con la ricostruzione del viadotto ferroviario Formia-Gaeta. Queste due cittadine, distanti nemmeno una decina di chilometri, erano unite, prima della guerra, da una linea ferroviaria che passava da una collina all’altra sopra un altissimo viadotto che era stato fatto saltare dai tedeschi in ritirata. Senza che si sapesse né come né perché, questo viadotto fu trovato un bel giorno bello e ricostruito, senza che nessuno dall’alto ne avesse ordinato la ricostruzione. Le cose erano andate alla chetichella usando fondi stanziati genericamente per la ricostruzione, favorendo una ditta appaltatrice e con altri piccoli imbrogli del genere. Ma la cosa grave era che il viadotto, una volta inaugurato, non venne mai utilizzato. Non aveva senso infatti affidare al trasporto ferroviario un collegamento sí breve risolto facilmente con pochi autobus cittadini.

L'incidente del viadotto Formia-Gaeta, diede la misura di quanto poteva accadere; si rischiava di ricostruire tutto come prima senza riguardo per i nuovi bisogni e le nuove tecnologie. Fu quindi giocoforza bloccare la ricostruzione ferroviaria in attesa di un piano d’assieme e frenare, anche a costo di requisire i suoli destinati all’edilizia urbana, lo sviluppo della città per evitare che diventassero preda della speculazione. Furono istituite varie commissioni che svolsero bene e rapidamente il loro lavoro.

Per quanto riguarda la ricostruzione ferroviaria si decise che molte vecchie linee, tortuose e antieconomiche, andavano abbandonate a profitto di nuove linee che consentissero elevate velocità e rapidi collegamenti tra i principali poli di sviluppo.

Per quanto riguarda la mobilità urbana si affermò l'esigenza della priorità del trasporto collettivo su quello privato. Nelle città era necessario installare ferrovie metropolitane rapide ed efficienti, ma uno studio su quanto era accaduto all’estero indusse presto a concludere che le metropolitane fatte “poi”, ossia quelle che seguono lo sviluppo edilizio, costano di più delle metropolitane fatte "prima", cioè sui terreni ancora sgombri, prima della costruzione delle case.

Anzi, collegando preventivamente terreni destinati a nuovi quartieri con le altre zone della città, se ne aumentava il valore e, facendo pagare queste spese, secondo un concetto liberistico, ai costruttori che sarebbero venuti "poi", si poteva ipotizzare una rete di trasporti urbani rapida ed efficiente a costo zero.

Le conclusioni delle commissioni preposte ai problemi della ricostruzione furono prontamente accolte dai politici di allora, ma non sfuggì a questi nostri saggi amministratori che, mentre le commissioni discettavano, si manifestavano insidie che potevano, a lungo andare, compromettere lo sviluppo del piano organico nazionale.

Il mio Paese possedeva già allora efficientissime fabbriche di automobili, tra le quali una imponente e francamente eccessiva per una economia poco più che artigianale quale la nostra. Queste fabbriche, rapidamente rimesse in efficienza in barba al piano di sviluppo, stavano già riproponendo il trasporto privato come unica soluzione ai problemi del traffico. Possedere una macchina stava diventando un fatto di prestigio.

D’altro canto, in attesa della ricostruzione organica delle ferrovie, si stava creando una potente corporazione di autotrasportatori, divenuti gli unici, apparentemente, capaci di assicurare un efficiente trasporto delle merci.

Per le fabbriche di automobili si dovette intraprendere una lotta dura, talvolta strumentalizzata da sinistri mestatori, per ottenere, che la produzione di autovetture e di autoveicoli venisse rallentata a profitto del materiale ferroviario di cui i piani prevedevano un grande bisogno.

Anche la lotta per frenare l’arroganza degli autotrasportatori fu dura e lunga, ma per fortuna la rete ferroviaria che si andava costruendo "ex novo" si rivelò talmente efficiente nel campo del trasporto delle merci che il mezzo su strada venne presto abbandonato. E fu dura anche la lotta per frenare lo sviluppo autostradale che molti chiedevano in nome dell'efficienza, in realtà per incarico degli autotrasportatori e delle fabbriche dì autovetture.

Insomma grazie ad una tempestiva ed oculata azione del nostri governanti, in un momento delicato e irripetibile della nostra storia nazionale, la ricostruzione potè avvenire secondo alcuni concetti che sono fondamentalmente ancora oggi i seguenti: prima i bisogni collettivi poi i bisogni privati; prima i trasporti pubblici (e le fognature, l'acqua, la luce), poi le case; prima i lavori di consolidamento geologico, il rimboschimento, l'arginamento dei fiumi, e poi le strade; prima la salvaguardia del territorio e poi il soddisfacimento dei, bisogni privati.

E così grazie ad una saggia ed oculata politica, il mio Paese ha potuto trasformare la sciagura delle distruzioni in una, grande occasione di adattamento del territorio ai bisogni della popolazione».

Titolo originale: Changes in store for new Wal-Mart – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Il gigante dei big box Wal-Mart sembra essersi piegato alle richieste dell’amministrazione cittadina, per cambiare il progetto del nuovo negozio a Alta Vista.

Le due parti hanno ingaggiato una battaglia, dalla scorsa estate, su un terreno di oltre 36 ettari chiamato Train Yards [ Scalo Ferroviario n.d.T.], dove Wal-Mart vuole costruire un nuovo negozio da oltre 10.000 metri quadrati.

La Wal-Mart in un primo tempo aveva respinto le richieste dell’amministrazione per quell’area, come l’orientamento delle facciate e il progetto generale dell’edificio.

Ma ieri comune e Wal-Mart hanno concordato un piano che lascia intatte queste richieste originali.

”È una grande vittoria per la città” dice il consigliere Peter Hume, presidente della commissione urbanistica. “Quando si ottiene il 99% di quello che si è chiesto ... l’unica cosa che si può dire è ‘abbiamo vinto’, e abbiamo vinto parecchio”.

Il terreno in questione è a sud della stazione ferroviaria di Ottawa fra Terminal Avenue e Industrial Avenue; la passata amministrazione cittadina aveva approvato una variante per un nuovo tipo di destinazione, con un ambiente da “strada urbana”.

UN PAESAGGIO CARATTERISTICO

L’amministrazione voleva che la zona assumesse caratteri architettonici particolari, in modo da sostenere un ambiente pedonale.

Ma Wal-Mart aveva rifiutato molte delle condizioni, presentando un progetto poi respinto dalla città.

Nel progetto su cui si è concordato ieri, Wal-Mart propone un edificio rivolto a nord, senza i toni grigi della maggior parte delle sue costruzioni.

Il nuovo fabbricato avrà un color argilla, e alcuni elementi architettonici pensati per interrompere la continuità delle pareti esterne.

”Credo che entrambe le parti abbiano fatto un passo in avanti in questo caso” dice John Smit, urbanista per la zona centrale di Ottawa.

L’amministrazione ha rinunciato ad imporre un numero di ingressi superiore, continua. È un tipo di richiesta che in passato si è rivelata ingestibile, perché anche quando i negozi avevano varie porte, queste poi non venivano aperte al pubblico.

Wal-Mart dichiara la propria soddisfazione per aver risolto il problema, e spera di inaugurare il negozio entro il 2006.

”Abbiamo unito un buon piano di insieme con un edificio attraente, per un complesso Wal-Mart che mantiene l’ambiente pedonale generale”, dichiara il portavoce di Wal-Mart Canada, Kevin Groh. “Condividiamo l’idea dell’amministrazione, per uno spazio attraente e ben progettato, e siamo lieti di aver trovato un’idea condivisa sull’aspetto del negozio”.

Nota: qui il testo originale al sito dell’Ottawa Sun (f.b.)

Titolo originale: Faith, fear and prudence – Traduzione per Eddyburg di Fabizio Bottini

Sono stati riversati milioni di dollari per la ricostruzione delle zone dell’Asia devastate dallo tsunami. Una ricostruzione con la capacità non solo di risollevare un’economia rovinata, ma anche di migliorare l’ambiente.

Prima di qualunque altra cosa, devono essere realizzati sistemi di allarme e strutture di emergenza in caso di altre calamità.

Poi, nel corso della ricostruzione deve essere preso in considerazione lo spirito dell’area. Molti dei morti rimangono dispersi, il mare la loro tomba, decisa dalla natura e dal fato.

Molte delle reazioni immediate e adrenaliniche sono riflesse nelle storie di eroismo e fortuna, disperazione e impotenza, quando l’onda ha colpito.

Qualche albero ha resistito, dritto, altri sono caduti, edifici di legno sono rimasti in piedi, altri di cemento velocemente spazzati via. Alcune cose sono parse irrazionali: l’assurdità di galleggiare verso la salvezza su una portiera d’automobile, mentre altri perdevano l’equilibrio su una strada asfaltata, prima di essere risucchiati nel gorgo.

Posizionare gli edifici è importante. I villaggi tradizionali erano collocati a qualche distanza dalla spiaggia, sotto cupole di foglie di palma e vicino ai ruscelli di acqua dolce.

Ma i complessi turistici erano sulla spiaggia, direttamente collegati al fronte spiaggia coi bar e i ristoranti, le tavole da surf, gli sci d’acqua e i catamarani da noleggiare a portata di mano. Sono stati i primi e più selvaggiamente colpiti dalle grandi onde.

Le strutture anche a soli 50 metri più indietro rispetto alla linea di marea sono scampate alle distruzioni più grosse, soprattutto perché le onde hanno perso la propria forza, con il terreno in salita a fungere da ammortizzatore naturale alla spinta dell’acqua.

Molti edifici turistici hanno centri commerciali e caffè ai livelli inferiori, alcuni dotati di parcheggi a ree di servizio. È una cosa su cui meditare dopo la tragedia del 26 dicembre.

In fatto di essere nei seminterrati è stato fatale. Il livello sotterraneo è il primo fattore; l’altro è la semplice forza dell’acqua, che ha causato un risucchio tanto feroce da trascinare anche le parti superiori dell’edificio nel vortice.

Altre strutture erano in legno. Ad Aceh, per esempio, molta della zona di spiaggia era una baraccopoli, senza speranza contro lo tsunami.

I villaggi più densamente popolati sono stati completamente distrutti, lasciando in eredità un altro problema tipico degli ambienti devastati: ora non esiste più traccia della proprietà dei terreni, nessun documento, rilievi, mappe, a mostrare dove era collocata un’abitazione. Non si può cominciare la ricostruzione sin che non si decide chi ha diritto al terreno.

A Timor Est, per esempio, dove è avvenuta una distruzione per mano dell’uomo, sono stati istituiti tribunali speciali per le terre, a gestire il problema della proprietà, ma ci vorranno anni per risolverlo.

Aggiungeteci l’enorme perdita di vite umane – intere famiglie che vivevano in quei posti sono state spazzate via – e il problema si fa ancora più difficile.

In queste circostanze, le rivendicazioni per la proprietà dei terreni abbondano. In più, la solidarietà e chi solidale non è sono arrivati in aiuto. L amaggior parte è animata dalle buone intenzioni, ma altri hanno annusato un affare.

Un grosso gruppo arrivato dalla Russia si è offerto di ricostruire complessi turistici, in fretta. Sono atterrati con maestranze, macchinari, materiali e progetti, pronti ad operare come impresa di costruzioni autosufficiente. Alcuni hanno cominciato a costruire sui siti di alberghi distrutti, senza le normali formalità delle autorizzazioni urbanistiche ed edilizie.

Quando si è scoperto che alcuni di questi gruppi erano collegati alla criminalità organizzata, la ricostruzione è stata fermata. È questo il rischio nelle regioni devastate.

Poi c’è la questione delle risorse disponibili per ricostruire. Molta parte della Thailandia meridionale è in un boom edilizio. La pressione esistente riguardo alla disponibilità di materiali da costruzione è stata esasperata dai bisogni post-tsunami. Il governo thailandese dovrà legiferare a proposito dell’attività di ricostruzione ma, nel frattempo, deve essere attento a non danneggiare le economie più fragili, e località come Pattaya o Koa Samui, fatto che farebbe perdere turisti alla regione.

In definitiva, nell’evoluzione delle cose, saranno fede, paura e prudenza a guidare la ricostruzione, insieme alle questioni pratiche sulla proprietà della terra, e come è meglio ricostruire.

Nota: qui il testo originale al sito dell’australiano The Age (f.b.)

Titolo originale: Wal-Mart’s next battle: in the Big Apple – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

( Aggiornamento:Da quando è stata scritto questo articolo, i costruttori hanno abbandonato i progetti per realizzare un Wal-Mart sul sito di Queens. Ma Wal-Mart afferma di aver ancora nei piani un negozio a New York City, e che continuerà a cercare una nuova collocazione)

NEW YORK – Wal-Mart, dal negozietto di campagna che era, spera adesso di coronare il suo impero commerciale globale con la conquista dell’ancora intatta metropoli: New York City.

Anche se non c’è ancora un contratto formalizzato, la notizia che la discussa catena commerciale a bassi prezzi ha adocchiato uno spazio a Queens ha già provocato una tale reazione da far prevedere ad alcuni analisti la più grande e simbolica battaglia, fra il megastore e l’opposizione sindacale organizzata.

”Se c’è un posto nel paese dove la gente non lo tollererebbe [Wal-Mart] è una città come New York , col suo forte movimento di lavoratori” afferma Kate Bronfenbrenner, economista del lavoro alla Cornell University di Ithaca, N.Y. “La gente, lì, reagisce appena sente la puzza di certi topi”.

La battaglia della Grande Mela sarà anche il banco di prova per alcune nuove tattiche utilizzate dagli oppositori, da qui al Montana, per fare in modo che gli operatori big-box come Wal-Mart rispondano alle comunità del proprio operato. A partire dalla richiesta alle compagnie di provvedere all’assicurazione sanitaria, come proposto a New York; o stabilendo le cosiddette living wage laws, in corso di esame a Chicago; o infine contenendo le dimensioni dei negozi, come stanno tentando di fare alcune città del Vermont.

“Nell’ultimo anno è emersa una risposta di seconda generazione rispetto al settore dei big-box” dice Paul Sonn, professore associato al Brennan Center for Justice della New York University School of Law. “L’obiettivo è di mettere i contendenti sullo stesso piano, in modo tale che se Wal-Mart viene a New York, paghi gli stessi contributi di tutti gli altri operatori commerciali, come i supermercati”.

Wal-Mart e i suoi sostenitori affermano di offrire già ottimi livelli, pagando quasi il doppio del salario minimo e alcune assicurazioni sanitarie e dentistiche, oltre a un piano pensionistico di tipo 401(k) ai dipendenti che ne hanno diritto.

L’impresa ritiene di essere presa di mira dai sindacati per il fatto di essere il principale datore di lavoro a livello nazionale, con 1,2 milioni di dipendenti. Ed è orgogliosamente antisindacale, affermando che ciò consente di offrire alcuni vantaggi, come aiutare famiglie e comunità a risparmiare soldi, visto che i propri negozi aumentano la basi fiscale.

”Quello che c’è in gioco, qui, non è se l’uno o l’altro sindacato possa raccogliere le quote dei nostri lavoratori” afferma Daphne Moore, direttore per i community affairs alla sede centrale di Wal-Mart a Bentonville, Arkansas, “È se i consumatori possono scegliere dove fare acquisti”.

Ma gli oppositori sostengono che le paghe di Wal-Mart sono più basse di quelle degli altri commercianti, come grandi magazzini e supermercati. E aggiungono che sono le vertenze sindacali, a contestare casi di diritti negati, o lavoro minorile, paghe minime, assicurazioni sanitarie, a costare denaro ai contribuenti.

Alcuni studi mostrano che i dipendenti di Wal-Mart sono più propensi di altri lavoratori del commercio ad utilizzare i buoni pasto pubblici e il Medicaid negli stati che sostengono programmi di assistenza. Inoltre, si dice, Wal-Mart fa fallire le altre imprese commerciali, e sostituisce buoni posti di lavoro con impieghi malpagati, minando il tessuto stesso del ceto medio americano, a cui dice di rivolgersi.

“Quando Wal-Mart entra nelle zone urbane principali, l’opposizione è molto maggiore che nelle zone rurali, perché si va contro le associazioni dei commercianti, e molti singoli piccoli e attivi operatori” dice Ken Jacobs della University of California, Berkeley Center for Labor Research and Education.

A New York, il potente Central Labor Council, che rappresenta più di 400 gruppi sindacali nelle varie attività, ha già chiarita la propria opposizione all’arrivo di Wal-Mart. Il suo presidente Brian McLaughlin dice che Wal-Mart a Queens “sarebbe un disastro economico per tutta la nostra città”.

E ha parecchio sostegno anche da parte di ambienti esterni al sindacato. I piccoli commercianti nella zona di Rego Park [sito potenziale di Wal-Mart] come Sayed Afaq, proprietario di B&R Photo, Electronic and Wireless, temono che l’arrivo del megastore possa essere “il chiodo finale nella bara” per i negozi. I suoi affari si sono già dimezzati dopo la costruzione di un centro commerciale dall’altra parte della strada due anni fa.

”Lo sanno tutti che Wal-Mart è la compagnia più grossa del mondo, e ovviamente non possiamo competere in termini di prezzi” dice il signor Afaq. “Li abbiamo già ridotti, ma gli affitti aumentano. Credo davvero che se arrivasse Wal-Mart saremmo definitivamente finiti, più presto che tardi, visto che ora stiamo appena sopravvivendo”.

I sostenitori di Wal-Mart in città rispondono che New York non ha il medesimo livello di offerta commerciale delle città circostanti, in parte a causa delle restrizioni del piano regolatore, che rendono difficile costruire. Di conseguenza il gettito fiscale del commercio non è quello che si trova altrove, e Wal-Mart aiuterebbe ad ampliarlo. I sostenitori, anche se ammettono che alcune attività commerciali fallirebbero, non ritengono che la città nel suo complesso ne perderebbe molte.

”A New York City, ci sono piccole botteghe e negozi alimentari” dice Steven Malanga, ricercatore capo al Manhattan Institute, un think tank conservatore. “Non solo fanno prezzi alti per i consumatori, ma non offrono alcuna copertura per i propri dipendenti”.

Wal-Mart sostiene anche di aver parecchi clienti di New York, che semplicemente si spostano per fare acquisti. Anche se non esistono cifre esatte, si tratta di persone come Maria Torres e la sua famiglia, residenti di Queens. Vanno regolarmente in macchina fino al Wal-Mart in New Jersey per approfittare delle offerte, a gli piacerebbe risparmiarsi il viaggio.

”Ci comperiamo un sacco di cose” dice la signora Torres. “Sarebbe importante averne uno qui”.

Ma altri abitanti di Queens sono scettici. Come Maria Garcia, che non ha ancora deciso se essere favorevole al proposto Wal-Mart. “Mi piace molto per i prezzi, ma non mi piace perché trattano troppo con l’estero. Abbiamo tanta gente qui che ha bisogno di lavoro, e che potrebbe perderlo”.

Nota: qui il testo originale al sito del Christian Science Monitor. Per il caso citato del conflitto Vermont/Wal-Mart, anche Eddyburg aveva proposto tempo fa alcune note (f.b.)

[Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini. Per quanto riguarda le immagini, si vedano i riferimenti al link in fondo al testo (f.b.)]

I centri commerciali sono una minaccia per New York: prosciugano la vita dei quartieri attirando i clienti lontano dai negozi lungo la strada, spingono via gli abitanti da Manhattan, e si lasciano dietro una scia di leziose brutture affollate di abitanti suburbani in vacanza. Almeno, questa è l’opinione diffusa. Ma negli anni recenti, mentre compaiono nelle frequentate zone pedonali, da Union Square a Harlem, negozi big-box e luccicanti malls progettati e finanziati nel mercato rampante degli anni ’90, le paure di urbanisti e teorici si sono rivolte altrove. I costruttori e architetti di New York City hanno migliorato i vecchi modelli, per i nuovi malls urbani, e la rapida gentrification accelerata dagli sforzi del sindaco Giuliani per ripulire i quartieri, insieme allo sviluppo di politiche favorevoli alle nuove costruzioni dell’amministrazione Bloomberg, hanno incoraggiato l’assorbimento su vasta scala di questi nuovi centri commerciali. Se i malls urbani sono più convenienti per gli operatori e meglio connessi all’ambiente stradale, i più piccoli negozi tradizionali hanno cominciato a diventare sempre più omogenei, legati alle grandi catene, ovvero molto simili nell’organizzazione a un centro commerciale.

Quando furono aperti i primi centri commerciali a Manhattan negli anni ’80, urbanisti e teorici temevano che queste nuove megastrutture fossero l’avanguardia di una suburbanizzazione per New York. “Erano tutti inferociti quando Trump costruì il suo centro commerciale vent’anni fa, e adesso sembra quasi innocuo” commernta l’architetto e critico Michael Sorkin. “Sono piuttosto agnostico riguardo a questi nuovi interventi”. Altri critici sembrano meno incerti. In dicembre, una delle realizzazioni più note ( The Shops a Columbus Circle) ha vinto il riconoscimento della Municipal Art Society (MAS) 2003, MASterwork, per la progettazione urbana, come migliore spazio pubblico di proprietà privata. Rick Bell, direttore esecutivo dell’American Institute of Architects di New York e membro della giuria, afferma “Dopo l’11 settembre molti dei grandi atri pubblici della città sono stati chiusi ai pedoni per motivi di sicurezza. L’ingresso di The Shops è uno spazio interno/esterno con una vista spettacolare su Central Park, disponibile per tutti gli abitanti”.

I centri commerciali sono da sempre territorio della middle class, e nonostante i nuovi interventi a Manhattan vadano dal livello più basso a punte di lusso, rappresentano ancora un elemento “populista” nel panorama commerciale della città. “Politici e urbanisti di solito utilizzano i centri commerciali come esche per la middle class bianca, ma nel caso di Manhattan c’è stato un processo inverso”, dice Jeffrey Hardwick, l’autore di Mall Maker: Victor Gruen, Architect of an American Dream (University of Pennsylvania Press, 2004). “La middle class è tornata a Manhattan e i centri commerciali l’hanno seguita”.

Qualcuno dice che il relativo silenzio di chi odia i centri commerciali è il risultato di una maturazione degli operatori di edilizia commerciale. “Costruttori e commercianti sono diventati più abili nell’intervenire a Manhattan” sostiene Peter Slatin, che ha creato il sito di notizie immobiliari The Slatin Report. “Lavorano in collaborazione per realizzare centri integrati verticali”.

Cercando di ridefinire la tipologia del mall in senso urbano, i costruttori oggi hanno cominciato eliminando proprio il nome. I primi centri commerciali, come il Manhattan Mall, inaugurato nel 1989 all’angolo fra la Sixth Avenue e la Trentatreesima Strada, erano ancora legati a denominazioni e tipi di progetto standardizzati. L’organizzazione tutta rivolta all’interno e i particolari dozzinali li qualificavano per quello che erano. “Quei centri commerciali non sono mai entrati in sintonia con gli abitanti di New York” prosegue Bell, il direttore dell’AIA. I costruttori di oggi evitano di trasmettere quell’immagine negativa, inventandosi un nuovo gergo, che parla di “ambiente commerciale verticale”, l’etichetta preferita da The Related Companies e Apollo Real Estate Advisors’ per il loro progetto commerciale a Columbus Circle.

Storicamente, è stato sinora impossibile far funzionare il commercio in senso verticale in una città dove ci sono costi dei terreni troppo alti per consentire fattibilità finanziaria al classico modello di centro commerciale su due livelli. Per attirare clienti ai piani più alti, architetti e costruttori hanno migliorato i rapporti con l’ambiente circostante del quartiere, con progetti ricchi di trasparenze e rivolti verso l’esterno.

Harlem USA, l’insediamento commerciale all’angolo fra la 125° Strada e Frederick Douglass Boulevard inaugurato nel 2001, è dichiaratamente lontano dal classico mall suburbano rovesciato su se stesso, nello stile inventato dall’architetto viennese Victor Gruen nel suo prototipo di centro commerciale del 1956 al Southdale Center di Edina, Minnesota. Al Southdale, Gruen separava totalmente i negozi dalla strada, assumendo un controllo totale sull’ambiente commerciale. Quando è stato commissionato allo studio Skidmore Owings & Merril dalla Grid Properties il progetto per Harlem USA, il gruppo di lavoro si è concentrato sul ribaltamento del modello Gruen. “Abbiamo creato l’ anti-mall” afferma Mustafa Abadan, direttore del progetto per SOM. “Le radici del commercio a New York sono al livello strada, e l’idea è stata quella di utilizzare quell’energia, progettando lo spazio orientato all’esterno”. Lo studio SOM ha anche eliminato la circolazione interna. I piani superiori dei singoli negozi sono raggiungibili soltanto attraverso scale mobili interne agli stessi negozi, e l’atrio del cinema al terzo piano, accessibile da un ingresso indipendente al livello strada, si affacca sull’esterno. “Anche se i negozi sono più grandi, mantengono essenzialmente la tipologia delle strade di New York” dice Abadan.

Harlem USA si è attirato molti più commenti negativi da parte della stampa, di quanto non sia successo agli Shops, a causa della sua collocazione in un quartiere storico. I negozianti della zona sostengono che le grandi catene di distribuzione hanno tolto lavoro ai negozi a gestione familiare [ mom-and-pops], e che l’atmosfera generale del quartiere ne soffre. Altri vedono nel nuovo insediamento un importante passo in avanti nel rinascimento economico di Harlem. “ Harlem USA ha portato in zona clienti che altrimenti sarebbero andati a far compere sulla Trentaquattresima o a Downtown” sostiene Abadan.

Anche l’insediamento commerciale della Vornado Realty Trust al’angolo sud-occidentale di Union Square usa le trasparenze per adescare clienti. “A Manhattan si vive lo shopping come uno sport” racconta JJ Falk, responsabile dello studio JJ Falk Design, che ha progettato Filene’s Basement, DSW Shoe Warehouse, e il sistema interno del complesso della Vornado per Union Square. “È come entrare in un museo: se alla gente piace quel che vede, ci staranno più a lungo”. Una “torre” di vetro per la circolazione pedonale è pensata per attirare il movimento dalla strada a partire dal nodo di trasporti di Union Square, e Falk ha sistemato le scale mobili nel grande movimento dei tre piani di Filene’s Basement con pareti a vetro su tutta l’altezza che guardano Union Square. “È come stare nel parco” dice Falk.

DSW e Filene’s hanno aperto i loro punti vendita a Union Square in ottobre e si prevede l’inaugurazione di un Whole Foods Market più avanti quest’anno. Nonostante non siano disponibili dati sulle vendite, Falk dichiara che l’intero costo di costruzione del complesso sarà recuperato entro sei mesi, se le cose continuano così.

I legami col quartiere sono stati importanti anche nel caso del progetto The Shops a Columbus Circle. “È stato innanzitutto un problema di creare ampi spazi di passaggio pedonale, a collegamento con la città” afferma Howard Elkus, socio di Elkus/Manfredi, lo studio di Boston specializzato in architetture commerciali che ha progettato gli Shops. Il disegno intreccia lo spazio del complesso commerciale con il tessuto urbano, attraverso due assi di circolazione, uno che curva seguendo la linea di Columbus Circle, l’altro su dalla Cinquantanovesima a una “ great room” su cinque piani. Il confine ridotto al minimo fra complesso commerciale e strada, è sottolineato dal progetto dello studio James Carpenter Design Associate per la facciata dell’ingresso, una parete di vetro e cavi larga 25 e alta 45 metri, che vanta il record mondiale di dimensioni per strutture di questo tipo.

Oltre l’enfasi sulla trasparenza, Related e Apollo contano sulla posizione dei 36.000 metri quadri di Shops, nel cuore dei 280.000 di funzioni varie del Time Warner Center (progettato da Skidmore, Owings & Merrill) per compensare gli enormi costi di costruzione a New York (il Time Warner Center è costato un totale di 1,7 miliardi di dollari) e giustificare gli astronomici affitti annuali delle principali superfici commerciali (da 3.000 a 4.000 dollari al metro quadro). Il classico modello basato su un anchor store è stato sostituito con residenze di lusso, spazi per uffici di rappresentanza, cinque ristoranti di alto livello, e una sala da concerti per il jazz al Lincoln Center (progettata dalla Rafael Viñoly Architects). The Shops dunque ha buone possibilità di diventare luogo frequentato da clienti che vengono sia da New York che da molto più lontano.

In più, l’insieme commerciale di alto profilo del complesso è adatto sia a clienti dello Upper West Side che se ne tornano a casa dal lavoro, sia per i turisti nel loro giro da Times Square al Central Park. Una delle grosse attrazioni è Whole Foods Market, su 6.000 metri quadrati nel seminterrato. Anche se qualcuno si lamenta per i prezzi elevati degli alimentari, i più l’hanno visto come una benedizione. “Le città non hanno bisogno dei malls a far da luoghi di incontro, come nei suburbi, ma quando ci si trovano le cose che piacciono alla gente (e a New York si comincia dal cibo) c’è un maggior potenziale di riuscita” dice Bell.

Questo tentativo di attirare visitatori con grossi insediamenti a funzioni miste si avvicina ai sogni utopici dei primi progettisti di centri commerciali, come Gruen. “A Southdale, Gruen aveva progettato appartamenti, un parco, un centro medico, anche scuole, oltre al mall. Sembrava un progetto di Le Corbusier con torri e spazi verdi” dice Hardwick. La fantasia suburbana di Gruen fu cancellata da mancanza di risorse, un elemento che lo stesso progettista spesso indicava come causa della crisi della propria visione.

Il problema, ora, è se l’inserimento di residenza, cultura, e altri elementi graditi possa funzionare come pensato. “Non è chiaro se pagherà davvero, o se sia soltanto un elemento di tipo promozionale” sostiene Hardwick. All’avvicinarsi del suo primo anno di attività, The Shops offre cifre promettenti, con vendite maggiori di quelle previste, e il 99% dei suoi oltre 34.000 metri quadrati occupati.

Se i centri commerciali si adattano e abbracciano la vita urbana, gli urbanisti sembrano preoccuparsi per quanto la storica e docente di Harvard Margaret Crawford ha definito “ spontaneous malling”, il processo secondo il quale uno spazio urbano inizia ad assumere tutte le qualità di un complesso commerciale anche senza l’intervento degli operatori. “A questo punto, il tratto di Broadway a SoHo è di fatto e totalmente un mall” osserva Crawford, che ha scritto il saggio The World in a Shopping Mall, nella famosa raccolta curata da Sorkin, Variations on a Theme Park (Noonday Press, 1992). Broadway, su cui si allineavano boutiques alternative e gallerie d’arte, ora è piena di negozi di grandi catene come Old Navy, Crate & Barrel, o Sephora: gli stessi marchi dei centri commerciali suburbani. “La centrocommercializzazione spontanea è un fenomeno sempre più frequente, e le città la considerano anche desiderabile visto che attira clienti suburbani, in questo caso dal New Jersey”.

I colpevoli di questo emergente fenomeno “ street-as-mall” a New Tork sono spesso i Business Improvement Districts (BIDs). Coordinado i sistemi delle insegne, l’arredo urbano, la segnaletica, o addirittura le uniformi degli spazzini, i BIDs spesso inducono consizioni di simil-centro commerciale. Osserva Slatin, “È un continuo tira-e-molla su quanto omogeneizzare un quartiere o lasciare il caos. C’è valore nell’ordine, sopratutto in termini di sicurezza e comodità per i turisti, ma al tempo stesso la città ha un modo proprio di organizzarsi”.

Manhattan è riuscita a rimodellare i malls a propria immagine, mentre le caratteristiche intime del mall si insinuavano in silenzio nel suo tessuto. “Ci sono sempre allarmi di crisi, sul fatto che il centro commerciale sta uccidendo qualcosa, o che sta scomparendo” conclude Hardwick. “La cosa sorprendente è quanto la sua forma appaia flessibile, oggi”. Anche in una città dalla cultura commerciale tanto vivace, il mall ha trovato modi di penetrazione. Il risultato per Manhattan sono due varianti sorprendentemente simili: il centro commerciale come città, e la città come centro commerciale.

Nota: qui il link al testo originale sul sito dello Architect’s Newspaper; riguardo ai temi toccati in questo articolo, Eddyburg ha già proposto a suo tempo articoli sull’opera di Victor Gruen e sull’organizzazione del Business Improvement Districts, disponibili in questa stessa sezione (f.b.)

"Se continuiamo così tra 30 anni la sua bellezza sarà un ricordo - Edilizia, strade, centri commerciali la campagna inglese a rischio"

LONDRA - Addio agli incantati scenari da caccia alla volpe, addio alle splendide coreografie che fanno da sfondo alle inchieste di miss Marple e addio anche alla natura che ha fatto da cornice ad alcuni dei romanzi più belli e più letti. Nel giro di trent'anni la pittoresca campagna inglese rischia di sparire se non si pone un freno all'urbanizzazione e alla cementificazione selvaggia. A lanciare l'allarme è un'associazione ambientalista britannica, la Campaign to Protect Rural England, che ha invocato un intervento deciso del governo per scongiurare la catastrofe.

"Non possiamo continuare a considerare la nostra campagna come una risorsa illimitata, in grado di riprendersi all'infinito dai danni che le infliggiamo", ha spiegato Tom Oliver, uno dei dirigenti dell'organizzazione. Sul banco degli imputati la Cpre pone innanzitutto l'edilizia, troppo invadente e poco attenta a rispettare la caratteristica architettura dei villaggi rurali inglesi. Ogni anno, ricorda l'associazione, in Inghilterra vengono costruite 150 mila case e il governo ha intenzione di spingere ancor di più sull'acceleratore nel tentativo di calmierare i prezzi degli immobili.

Un'altra minaccia è rappresentata poi dal moltiplicarsi degli aeroporti minori, con il loro corollario di strade, svincoli e parcheggi, e dalla mania dei centri commerciali, presenti ormai alle porte di ogni piccolo centro. "Senza rispondere a un disegno preciso - denuncia la Cpre - la maggior parte dell'Inghilterra sta diventando un posto come qualsiasi altro, impossibile da amare e non più amato, una sterminata, omogenea, periferia urbana, dove tutto si assomiglia".

Ma un contributo al massacro di quello che per gli inglesi corrisponde alla Toscana o all'Umbria per gli italiani, secondo gli ambientalisti lo sta dando anche la globalizzazione, con la sua capacità di far arrivare sulle nostre tavole frutta e verdura a prezzi stracciati da tutto il mondo. Con il risultato, si fa notare, che la campagna non è più redditizia e quindi viene abbandonata all'incuria o ceduta per fare spazio alle lottizzazioni.

Il governo inglese, pur non condividendo lo scenario catastrofico tracciato dagli ecologisti, ha preso l'allarme del Cpre molto seriamente. "Riteniamo sia un tema da approfondire a tutti i livelli attraverso un dibattito pubblico, ma uno dei problemi è che la nostra campagna continua ad attirare tanta gente in cerca di una migliore qualità della vita e questo significa che non può essere poi così malmessa come la si dipinge", ha sottolineato un portavoce del ministero dell'Agricoltura e dell'ambiente.

«Vorrei che i sardi e chiunque verrà in Sardegna nelle prossime generazioni potesse andare al mare e trovare un paesaggio intoccato». «La ricchezza di una società non si misura solo con il Pil, il prodotto interno lordo». «A me non interessa valorizzare, a me interessa salvaguardare». Se si potesse racchiudere in poche parole i progetti di Renato Soru è in queste frasi che andrebbero raccolti. Il presidente della Regione Sardegna le va ripetendo da qualche tempo, come fa lui, strizzando gli occhi, puntandoli a terra e incespicando con le parole. Ma quelle frasi non sono solo uno sfogo: ora ispirano un documento approvato dalla sua giunta e intitolato Linee guida per il lavoro di predisposizione del piano paesistico regionale. Spogliato dagli abiti burocratici, è il testo che deve condurre per mano gli uffici regionali nella redazione del Piano paesistico, appunto, il principale strumento di governo e di tutela del territorio sardo.

È un lavoro che fa tremare i polsi. E della cui forza dirompente, nell´isola che da trent´anni è il paradiso degli immobiliaristi e le cui coste sono in gran parte ròse dal cemento, ma quelle che si sono salvate sono ancora intatte e struggenti, neanche Soru è completamente consapevole, forse perché non è politico di professione, forse perché, come molti lo descrivono, ha la caparbia ingenuità di chi arriva alla politica da altri mondi. Se gli si fa notare che una cosa è scrivere un documento di indirizzi, affidato a un comitato scientifico di prim´ordine (che comprende, fra gli altri, l´architetto portoghese Alvaro Siza, gli urbanisti Edoardo Salzano, Roberto Gambino, Filippo Ciccone, il botanico Ignazio Camarda, l´antropologo Giulio Angioni, lo scrittore Giorgio Todde, l´ornitologo Helmar Schenk e il fisico Enzo Tiezzi) altro è redigere il piano, scrivere le norme di attuazione, entrare nei dettagli più minuti armandosi di santa pazienza e mediando con i consiglieri regionali, compresi quelli della sua maggioranza di centrosinistra, e con i sindaci, compresi sempre quelli di centrosinistra, Soru resta silenzioso, affondato nei pensieri, socchiude gli occhi ed emette solo un mezzo sorriso. Fin dove è disposto a spingersi con la mediazione, signor presidente, fin dove la sua linea che somiglia a una specie di "opzione zero" del cemento sulle coste sarde può avere successo? «Fin dove sarà comunque chiaro che non ho affatto scherzato».

È una giornata caldissima. La chiacchierata con Renato Soru avviene nella sua macchina, una fuoriserie di cui non si capisce la marca, e che ha un navigatore satellitare con una vocina gracchiante e una specie di iPod dal quale escono canzoni di Fabrizio De Andrè. Andiamo verso Sant´Antioco, dove qualche settimana fa i pescatori hanno bloccato l´imbarco dei mezzi militari impegnati nelle manovre nell´immenso poligono (settemila ettari) di Capo Teulada. Chiedevano il pagamento dei sussidi perché non possono uscire con le loro barche quando si fanno le esercitazioni. Soru si fa accompagnare a casa, poi saluta l´autista, ci offre le albicocche di un suo frutteto e monta al volante del bolide.

Lo distende guidare sfilando sulla superstrada che da Cagliari conduce verso Ovest. «È giusto che i pescatori abbiano i sussidi. Ma il problema sono le servitù militari. La Sardegna ha già dato il suo contributo, cedendo pezzi del suo suolo. Ci toccano l´ottanta per cento di tutte le bombe che esplodono in Italia. Ora spetta anche ad altri. Noi vogliamo che le basi se ne vadano. Se ne vadano da Capo Teulada e dalla Maddalena». Cosa ci vuol fare con quei terreni? «Come cosa ci voglio fare?! Sono terreni di pregio, quasi integri. Ci voglio fare turismo, agricoltura. Anzi vorrei non farci nulla. È la cosa migliore, no?»

Soru ha quarantotto anni, è nato a Sanluri, nel Campidano, figlio di un commerciante, è laureato alla Bocconi, ha lavorato in una merchant-bank e nel ‘98 ha fondato Tiscali. Nel 2004 si è candidato alle elezioni regionali e le ha stravinte. I partiti hanno diffidato di lui, ma si sono fermati quando hanno capito che era l´unico che avrebbe strappato la Sardegna al centrodestra. La sua campagna elettorale è stata dominata dalla tutela del paesaggio. E appena insediato è giunta sul suo tavolo una pratica bollente: il Tar aveva bocciato i piani paesistici della precedente amministrazione, perché li aveva ritenuti troppo deboli. Ma intanto, senza nessun vincolo rischiava di scatenarsi una corsa a edificare sulle coste. E così in pieno agosto Soru ha fatto approvare un decreto che impediva qualunque costruzione in una fascia di due chilometri dal mare. Un provvedimento drastico, che ha spiazzato tutti e che nessun altro presidente di Regione ha mai immaginato di adottare. Il decreto aveva una durata temporanea in attesa che fosse approvato il nuovo piano paesistico. Ed è questo il lavoro nel quale sono impegnati ora gli uffici degli assessori Gianvalerio Sanna ed Elisabetta Pilìa, pungolati da Soru che ha anche assunto la presidenza del comitato scientifico e che a tutti mette fretta, con gli umbratili sorrisi di cui è capace.

È il presidente il motore del piano che dovrebbe volgere in positivo l´azione della Regione: con il decreto dell´anno scorso si era detto basta cemento, fermiamo tutto, studiamo, riflettiamo e poi vediamo cosa fare. «Salvaguardare le coste per noi è l´occasione di uno sviluppo economico che duri nel tempo», spiega Soru. «Abbiamo livelli di disoccupazione altissimi, in certe zone del 30 per cento, ma finora si è pensato di usare il paesaggio non a fini turistici, bensì edilizi. Abbiamo venduto la nostra terra. E così ci troviamo una pletora di seconde case, vuote per undici mesi l´anno, e villaggi che sono come i presepi, si montano e poi si smontano. Per costruirli si è sfruttata manodopera precaria. Sono un eccellente affare per il proprietario del terreno, per chi li ha tirati su e per nessun altro. Non sono il frutto di abilità imprenditoriale, ma di una brillante capacità di appropriarsi della ricchezza di tutti per la prosperità di pochi. Questi villaggi sono un circuito chiuso, non si consuma nulla che venga dal territorio circostante, anche l´acqua minerale e i pomodori arrivano da fuori. L´anno scorso c´era un mio amico in uno di questi villaggi, sono andato a prenderlo, lui era lì da dieci giorni, ma neanche sapeva dov´era, qual era il paese più vicino, che cosa produceva quella terra, era tutto uguale, lì come in qualunque altro angolo del mercato turistico globale. Molti sardi sono impiegati in questo tipo di turismo, ma restano in seconda fila. È mai possibile che non esista una compagnia sarda di navigazione, che non ci siano tour operator e che a nessuno sia venuto in mente di organizzare una crociera fra Olbia e Cagliari? Siamo soggetti a un esproprio di valore. L´unico vantaggio che abbiamo sulla Tunisia o sulla Croazia è questo nostro ambiente ancora bellissimo, lì i prezzi saranno sempre più bassi, ci si arriva facilmente e la stagione è più lunga: non abbiamo altro da offrire se non il nostro paesaggio».

Soru si accalora, ma il tono della voce resta soffuso. La strada scorre fra colline brulle e i radi cespugli sono piegati dal vento. Ci fermiamo e scendiamo dalla macchina. «Guardi lì, vede le carcasse di quei siti minerari? È quel che resta dei capannoni di Monte Poni, sono in abbandono completo. Eppure lì c´è un´anima che ancora respira, ma nessuno di quelli che visitano la Sardegna l´ha mai ascoltata e nessun villaggio turistico può riprodurla».

Sulle vecchie miniere si è scatenata giorni fa una violenta contesa. Sono arrivati in Sardegna i dirigenti di grandi società immobiliari e uno di loro ha sorvolato un rudere industriale con un elicottero dei carabinieri. È esploso il finimondo: il centrodestra ha accusato Soru di proteggere le coste per dirottare le mire dei costruttori su altri beni. Le miniere, fra queste, che potrebbero essere ristrutturate e diventare alloggi turistici. «La vendita della nostra terra ha divorato le coste e poi le ha invase di cemento», insiste Soru, «mentre l´interno si svuotava, restando del tutto ignoto anche a gran parte di quei sardi che hanno conosciuto il mare di recente, negli ultimi trenta, quarant´anni e per i quali ora esistono solo la sabbia e il sole. Non siamo più un´isola, ma una specie di ciambella con un profondo buco in mezzo».

Sulla difesa del paesaggio si scontrano in Sardegna le diverse anime dell´isola e si mettono in gioco il senso dell´identità isolana, della sua dignità. Risaliamo in macchina. «Quando sento dire che la Sardegna ha bisogno di essere valorizzata mi vengono i brividi, perché chi parla così pensa ai metri cubi e alle stanze. Le migliori valorizzazioni possibili sono il paesaggio che si perde alla vista e il buio. Se costruiamo stiamo già togliendo valore a un bene che lo possiede di suo».

Ma che ne sarà dei due chilometri dal mare? Nel piano paesistico resteranno o che fine faranno? «Potranno essere di più o di meno, a seconda di com´è la linea di costa. Noi ci impegniamo a ricostruire paesaggi distrutti, a conservare quanto più possibile quelli non ancora compromessi e a progettarne di nuovi».

Si intravedono le luci di Cagliari, mentre il cielo diventa scuro. L´hanno accusata di predicar bene e di razzolare male, per via di quella casa proprio sul mare a Villasimius. «Ho comprato il terreno quattro anni fa, la casa c´era già, l´ho ristrutturata, ho ridotto il volume e l´ho riportata a una misura più razionale. Sa quanti metri cubi si potevano costruire su quel terreno? Trentamila. Io ci ho fatto un frutteto. E, visto che ci sono, sa quanti metri cubi in terreni di mia proprietà sono stati bloccati dal decreto? Altri centomila».

Il pensiero di Renato Soru espresso al Comitato scientifico per il Piano paesaggistico regionale e ai sindaci della costa, arrabbiati per il vincolo. Un eddytoriale sul decreto salvacoste e un altro sulla polemica per la "villa abusiva" a Villasimius. Altri articoli nella cartella Pratiche di buongoverno

Il Molise, l’appartato, sobrio, verde Molise fa scuola. Nel male, purtroppo. Lo si è capito giorni fa in una tavola rotonda organizzata a Roma presso la Coldiretti (presenti Italia Nostra, Wwf, Comitato per la Bellezza, Comitato per il paesaggio e Coldiretti stessa). I gestori dell’energia eolica stanno infatti dando ai Comuni poveri dell'alto Molise qualche migliaio di euro in cambio di chilometri di crinali dove piazzare pale da 100-120 metri di altezza. In poche parole, questi Comuni vengono invogliati a “vendere” il paesaggio appenninico. Non è serio. Non è morale. È contro gli interessi turistici, agrituristici, agricoli di quei poveri paesi spopolati. Una volta che sopra le loro teste gireranno vorticosamente, giorno e notte, le pale a vento, i turisti si terranno ben lontani da questa oasi di pace rustica e di bellezza antica.

Pensate : i Comuni del Molise sono, in tutto, 136, e, di questi, ben 52 (il 38,2 per cento), sono interessati all’energia eolica : 6 hanno già piantato le loro pale, 28 aspettano solo l’autorizzazione, mentre 18 si sono comunque convenzionati. Se tutti questi grandi impianti eolici dovessero venire realizzati, quanta energia eolica verrà prodotta dalla nuova foresta tecnologica del Molise? Dettaglio non trascurabile, nella piccola e bellissima regione, col massiccio maestoso delle Mainarde, sta per essere ultimata una centrale a turbogas della cui produzione soltanto una parte verrà riservata agli utenti locali. E allora? Molise senza più paesaggi, ma esportatore di energia? Un bel guadagno.

Se tutti i 52 Comuni si doteranno di gigantesche pale eoliche, potremo infatti dire addio a gran parte del paesaggio molisano. L’allarme viene stato fatto suonare a forza perché due di questi impianti eolici dovrebbero venire installati sul crinale della montagna che sta sopra la piana in cui spicca la splendida città romana di Saepinum, valorizzata da Adriano La Regina anni fa, un centro murato intatto, con la cavea, il foro, le tintorie, i frantoi, nato sul tratturo della transumanza più antica, sannitica probabilmente, fra Pescasseroli e Candela. Un luogo, vi assicuro, di una bellezza e di un fascino difficilmente immaginabili. Ebbene, oltre alle trenta pale da 120 metri di due centrali su 4 Km del crinale là sopra, la Regione (che con una mano incentiva agricoltura e turismo e con l’altra li scoraggia) prevede nella piana di Saepinum un aeroporto e tutte le infrastrutture connesse, un asse stradale di scorrimento inutile doppione di un altro già in via di completamento, un’area industriale vastissima vicino ai 300 ettari di due nuclei industriali già attrezzati, e ampiamente sottoutilizzati.

Possibile che neppure un sito archeologico tra i più belli e attrattivi del mondo possa fermare un modello di sviluppo così vecchio e costoso, in tutti i sensi? Possibile che il bello, specie se è quello rustico, agricolo, archeologico debba sempre fare rabbia? Per la Coldiretti Stefano Masini ha detto «no» a questo modello, ad un eolico dilagante, ad un sviluppo che considera la buona terra agricola e il suo ambiente soltanto come in attesa di altri usi, e «sì», invece, in tali casi, ad un eolico piccolo, da “farm” (come il solare).

Lo stesso Masini, Ivana della Portella presidente della commissione Ambiente del Comune di Roma, archeologa, Fulco Pratesi, presidente del Wwf e Oreste Rutigliano di “Italia Nostra” hanno proposto l'invio al ministro dei Beni e delle attività culturali, Bottiglione, e al direttore regionale in Molise di quel Ministero, Ruggero Martines, di un appello urgente : completino essi il vincolo paesaggistico già esistente su una parte dell’alta Valle del Tammaro e tutelino in tal modo, totalmente, Saepinum e la sua piana. Anche dalle pale eoliche giganti che incombono di lassù.

Non è più così emozionante far volare aquiloni in piazza Tian An Men. Lo era fino a qualche anno fa, in un cielo alto e limpido, di un azzurro intenso, quasi da altopiano tibetano. Ora il cielo di Pechino è sempre grigio e basso, calato come una cappa sull'enorme piazza. È colpa dell'inquinamento, frutto a sua volta dei profondi cambiamenti che hanno investito la città in questi ultimi decenni, in questi ultimissimi anni. Chi oggi arriva per la prima volta, perso tra enormi palazzi in vetro, strade a scorrimento veloce, sopraelevate, cinque anelli viarii, non riesce a immaginare che cosa fosse questa capitale ancora qualche anno fa. Zhang Kaiji, architetto in età, ricorda con nostalgia il vecchio profilo pechinese: una città tutta orizzontale dove il grigio uniforme delle abitazioni piano terra era spezzato dai colori e dall'altezza del complesso imperiale, dalle varie torri, dalla pagoda bianca. Ora questa armonia è stata cancellata dai grandi palazzi (non ancora grattacieli) che hanno coperto la vista degli antichi gioielli architettonici.

Non è che in Occidente ci si possa meravigliare più di tanto per questa opera di demolizione. A Roma la nascita del Vittoriano a piazza Venezia, ai primi del novecento, costò la distruzione o lo stravolgimento di una parte importante della vecchia città papale. La Parigi del barone Hausmann è sorta, nella seconda metà dell'Ottocento, dalla demolizione dei quartieri medievali. La differenza sta tutta nella dimensione del fenomeno: della vecchia Pechino non è rimasto più niente e tutto si è svolto di corsa. Eppure la Cina è il paese che sempre vanta i suoi cinquemila anni di civiltà. Ma è anche il Paese nel quale ogni passaggio di dinastia si è accompagnato alla distruzione dei simboli materiali di quelli usciti di scena. E così oggi si può vedere nella cancellazione della vecchia Pechino, dei suoi hutong ( i vicoletti medievali), delle sue pagode e dei suoi archi in legno, il segno di un superamento ormai completamente realizzato e irreversibile del patrimonio maoista del Paese. Può pure restare il ritratto di Mao sul rostro della Città proibita, può anche restare il mausoleo di Mao al centro della piazza Tian An Men: sono simboli che non hanno più alcuna sostanza. La sostanza vera è quello che è nato intorno. E dice che il passato rivoluzionario è un fardello, il nazionalismo autarchico è sbagliato, l'imperialismo non è più «una tigre di carta», l'egualitarismo non è segno di virtù sociale, è solo umiliante.

Tutto è avvenuto di gran corsa. Yiang Pin è un ex giornalista che ora si occupa di una ong che gode anche di finanziamenti italiani ed è impegnata nel progetto di rimboschimento dell'area al confine con la Mongolia interna in modo di evitare a Pechino le tempeste di sabbia e di polvere che l'affliggono, ancor più dalla seconda metà dello scorso decennio, due o tre volte all'anno. Yiang Pin è stato a Roma e così commenta la sua visita: «Ho visto che voi proteggete le facciate dei vecchi palazzi e ristrutturate solo gli interni. Noi abbiamo fretta, non possiamo perdere tanto tempo, preferiamo abbattere tutto e ricostruire interamente di nuovo». Mostra di non capire che una cosa è un antico palazzo romano e un'altra cosa è un cortile di un hutong pechinese. Ma la sua è una frase molto illuminante. La fine del maoismo residenziale è stata gestita attraverso una sfrenata privatizzazione. Il suolo pubblico è stato concesso a società immobiliari che hanno delineato in prima persona la nuova faccia urbanistica di Pechino ( a Shanghai i risultati sono stati più affascinanti).

Le nuove ricchezze private hanno al novanta per cento origine nella frenesia edilizia che corre per la intera Cina. E a Pechino innanzitutto: di nuovo la capitale sta vivendo una fase di grande effervescenza. Sono all'opera due occasioni di grandi stravolgimenti: le Olimpiadi del 2008, il piano urbanistico per il 2020. In vista della prima scadenza, sono state fatte scelte radicali. Il grande complesso siderurgico, che ha occupato anche centomila persone garantendo loro casa e ospedale, scuole per i figli e la banca per il risparmio, verrà trasferito nella lontanissima periferia e se non ce la si farà per il 2008, allora l'attività produttiva sarà sospesa. Il costo previsto è di 50 miliardi di yuan ( servono dieci yuan per un euro). Per garantire la migliore copertura possibile dei giochi si sta costruendo (costo 900 milioni di yuan) una nuova stazione radiotelevisiva, nella zona orientale della città: il complesso, al cui interno sorgerà anche un albergo a cinque stelle, avrà la sagoma della «Grande Arche» parigina. Sono stati avviati i lavori per nuove strade a scorrimento veloce ed è prossima l'apertura del sesto anello, a valorizzare ancora di più la parte nord della città. Si spera che da questo fluire di soldi verrà un grande impulso al consumo privato e quindi all'economia della città (del resto non in cattiva salute).

Naturalmente il controllo dei giochi olimpici è saldamente nelle mani del partito comunista: il presidente dell'apposito comitato è il segretario del partito di Pechino, primo vicepresidente è la signora Chen Zhili, una dirigente che ha percorso la sua carriera politica a Shanghai prima di approdare nella capitale nell'entourage dell'ex primo ministro Zhu Rongji. Sarà il sindaco della città il responsabile della gestione operativa del tutto, aiutato da Deng Pufang, figlio di Deng Xiaoping. La riuscita della scommessa è fortemente sentita dalla dirigenza del paese, una questione di vita o di morte.

È ovvio che i giochi condizionino al massimo la definizione della Pechino da qui al 2020. E quale sarà la nuova capitale? I cinesi amano molto darsi degli ampi orizzonti strategici e così attraverso tre tappe temporali hanno fissato al 2050 l'anno nel quale la capitale potrà fregiarsi del pieno inserimento nell'elenco delle grandi e moderne città del mondo, ricca di uno sviluppo che ha saputo «armonizzare economia, benessere sociale, rispetto per l'ambiente». Si vedrà.

Nel frattempo, il plastico esposto al pubblico nell'appena ristrutturato museo della pianificazione urbana, a pochi passi dalla Tian An Men, ci racconta che cosa viene previsto da qui al 2020. Sono interessanti due dati. Il primo: oggi gli abitanti di Pechino sono poco più di 14 milioni; tra quindici anni non dovranno essere più di diciotto. Di questi ultimi, tredici milioni e mezzo saranno «residenti permanenti», il resto costituirà la massa di pendolari. Con quanti e quali problemi per la gestione del rapporto tra i servizi della città e questa folla di arrivi giornalieri è facile immaginare. Saranno cinque milioni le auto un circolazione mentre oggi sono due milioni e trecentomila, con spaventosi effetti sul tasso di inquinamento e sul traffico, dal quale sono quasi completamente scomparse le mitiche biciclette. L'altro dato interessante è la previsione più propriamente di pianificazione urbanistica. Oggi Pechino è strutturata con due assi viarii centrali, nord-sud, est-ovest e cinque anelli di scorrimento viario, che hanno permesso l'estensione della città a cerchi concentrici. Pare che questa struttura non venga sostanzialmente messa in discussione anche se per il 2020 si progetta la creazione di undici «città satellite» verso ovest e verso est, con l'obiettivo di allentare la pressione sulla parte centrale della estesa capitale. Questa soluzione non è che trovi tutti d'accordo. Fortemente critico è il professor Jiang Je, docente di urbanistica alla Qinghua e buon conoscitore di Roma che ha visitato varie volte grazie agli accordi tra la sua facoltà e quella di architettura della Sapienza.

Dice di sapere benissimo che Pechino ha bisogno di spazio, ma ritiene che la soluzione del «satellite» sia una banale imitazione di esperienze occidentali, poco adatte alle esigenze cinesi, segnate da una popolazione di un miliardo e quasi trecento milioni e da una penalizzante scarsità di terra utile. Critica anche l'assenza di chiarezza sui collegamenti che, per evitare ancor più devastanti paralisi del traffico, dovranno pur esserci tra le varie città satelliti e tra loro e il resto della rete viaria della regione. Jiang Je propende per la nascita di città di medie dimensioni, che siano del tutto indipendenti e autonome in termini di servizi, attività produttive, istruzione e cultura, e tali dunque da non aggravare la già insostenibile congestione della capitale. Ma sa anche che l'accentramento urbanistico è funzionale alla centralizzazione del potere politico. Ed è questo, dice, che non si intende mettere in discussione. Difficile dire se l' ipotesi prospettata dal docente di Qinghua sia realistica o efficace.

Sta di fatto però che il tema della pianificazione urbanistica oggi in Cina occupa uno spazio importantissimo perché è legato, più ancora che in Occidente, a dinamiche sociali che possono anche diventare pericolose. Si è visto nel 2003 in occasione della epidemia Sars quanto fosse difficile gestire la massa dei pendolari e garantire la loro sicurezza e quella dei residenti. La deflagrazione urbanistica ha portato alla luce, creato, consolidato, una nuova mappa sociale di Pechino, una città ormai piena di disuguaglianze come qualsiasi altra grande città del mondo. Nell'area nord, oltre il grande tempio dei Lama, sono sorti i quartieri residenziali per ricchi, con parchi, ville recintate, guardie che impediscono l'ingresso agli estranei. Sempre a nord, spostandosi in direzione della Grande muraglia, sono sorti insediamenti di avanguardia, frutto della sperimentazione di giovani architetti venuti da Hong Kong. Nella zona sud invece sono nati in questi anni i palazzi popolari per operai o impiegati di basso reddito; e ancora più a sud, verso le aree interne, la città ha sconfinato nei villaggi di campagna, le case contadine sono state occupate e riattate dagli emigrati arrivati dalle lontane province meridionali, innanzitutto dallo Zhejiang, nuovi palazzi sono stati tirati su alla buona : sono luoghi di una bruttezza angosciante, degradati, privi di molti dei servizi essenziali. L'altra faccia del boom.

Da qui al 2020 Pechino ha un altro obiettivo ambizioso: trasformare radicalmente la sua economia lasciando che siano il terziario e i servizi a garantire il 70% del prodotto interno lordo e del reddito individuale ( 10 mila dollari all'anno a persona, non proprio la cifra che possa far gridare al miracolo consumistico, come stiamo facendo in occidente).

A guardare il plastico del nuovo piano urbanistico e a leggere le schede presentate dai vari distretti ( l'equivalente dei nostri consigli municipali, anche se molto più consistenti demograficamente) si vede che è già in atto la corsa ad accaparrarsi attività terziarie, centri di ricerca, istituti di alta specializzazione, laboratori farmaceutici, con una apertura molto più decisa ed estesa al capitale straniero. E dunque se la nuova Pechino dello stravolgimento urbanistico aveva sanzionato la fine del maoismo, la Pechino dei servizi sanzionerà la fine del denghismo, centrato sulla filosofia del produttivismo dell' industria manifatturiera.

Altre notizie sulle grandi trasformazioni urbane di Pechino, al sito (in inglese) della Commissione Municipale per l'Urbanistica

Titolo originale [sezione inglese]: Hamburg's Harbor of Hope – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Su un’isola occupata per anni da vecchi spazi a depositi e edifici a magazzini, la città di Amburgo sta iniziando uno dei progetti di ristrutturazione urbanistica più importanti d’Europa degli ultimi anni.

Negli anni a venire, dalle rive dell’Elba sorgerà HafenCity, offrendo alla città una rara occasione per ridefinire il centro e – sperano i funzionari – metterla alla pari con metropoli europee quali Barcellona o Londra.

”Rispetto ad altre città europee, la gente ha solo una vaga idea di cosa sia Amburgo” dice Jürgen Bruns-Berentelg, a capo della agenzia pubblica responsabile del progetto.

”È l’occasione per costruire un centro città completamente nuovo”.

L’idea è quella di seguire il percorso positivo della ristrutturazione dei waterfronts a Londra nei docklands e a Amsterdam nel porto orientale. La riorganizzazione dei trasporti navali negli anni recenti, verso la containerizzazione, ha cambiato l’uso degli spazi a terra nei porti, lasciando grandi fasce di ex approdi disponibili per l’urbanizzazione.

Edifici in vetro e un capolavoro

Le autorità portuali di Amburgo nel 1997 cedettero un’isola a forma di chiave inglese sull’Elba, poco fuori dal centro tradizionale della città, in cambio di spazio per containers sull’altro lato del canale. Negli scorsi due anni, nei vecchi cantieri navali sono iniziati a crescere edifici moderni di acciaio e vetro, a pochi isolati di distanza dai magazzini in mattoni scuri del XIX e primo XX secolo, ancora occupati da mercanti di tappeti orientali.

Ciascun nuovo edificio è realizzato da un diverso investitore, progettato da un diverso architetto: chi pianifica HafenCity non vuole che il destino del progetto dipenda troppo da una manciata di imprese o investitori immobiliari. Bruns-Berentelg sostiene che questa strategia proteggerà la zona nei momenti di incertezza economica, assicurando “che ogni parte di Hafencity abbia un’identità diversa”.

Oltre ad attività economiche, residenza e spazi commerciali, Bruns-Berentelg dice che si realizzeranno anche una scuola, un museo scientifico marittimo e un acquario. Il gioiello di tutto il progetto è una ambiziosa sala concerti con albergo di lusso e complesso residenziale, progettati dalle star dell’architettura Herzog e de Meuron. Se gli uffici della municipalità di Amburgo daranno la propria approvazione in giugno, l’edificio sarà alto 37 metri nell’aria, sopra un tradizionale complesso a magazzini.

”Sarà un fabbricato moderno, costruito sulla base della Amburgo passata” osserva Bruns-Berentelg.

Ci vuole tempo

Al momento, HafenCity non è molto più di una promessa di cose che verranno. I costruttori sono impegnati a sollevare il livello stradale da 4,5 metri sul livello del mare a 7,5 per proteggersi da allagamenti.

Le carte mostrano edifici progettati al computer in dettagli sorprendenti, ma solo un quarto del piano sarà realizzato entro il 2007. Il passo moderato di realizzazione è una strategia intelligente, dice Dieter Läpple, professore di edilizia al Politecnico di Amburgo-Harburg.

”Il grosso vantaggio è la flessibilità. Si costruisce per fasi, così che si possa imparare dagli errori”, sostiene Läpple, che in un promo tempo si era opposto al progetto.

HafenCity ha già iniziato a imparare dagli altri. Anziché concentrarsi sui soli spazi per uffici, come nei Docklands, o sulla residenza, come nel riuso del porto orientale di Amsterdam, i progettisti hanno optato per un modello a funzioni miste.

Il piano è molto migliorato rispetto alla concezione originaria, dice Läpple. In un promo tempo, si era concepito il quartiere con in mente solo giovani coppie e singles, una cosa che secondo Bruns-Berentelg non avrebbe mai realizzato il pieno potenziale di un nuovo centro città.

Un nuovo tipo di abitante

A differenza della Potsdamer Platz di Berlino, al cui progetto ha collaborato, Bruns-Berentelg non considera Hafencity una residenza temporanea per il jet-set internazionale. L’idea qui è di attirare gli abitanti dalla città e dai sobborghi, per conferire vita anche di sera.

”Dobbiamo in pratica scoprire un tipo nuovo di abitante”. Bisogna avere uno spirito un po’ pioniere per vivere qui. È un po’ rustico, il vento punge”.

Niente che sembri preoccupare Claus e Monika Andresen. La coppia viveva in una casa vicino a un lago nell’interno, prima di decidere di cercare qualcosa in città. Sono venuti a Hafencity la scorsa estate, e dopo qualche mese hanno comperato un appartamento da 104 metri quadrati.

”Se vuoi avere un rapporto con l’acqua, che è uno dei grandi motivi di fascino di Amburgo, senza lasciare la città, qui è perfetto”, dice Claus Andresen, il cui ufficio all’agenzia di accoglienza e vendite iSe si può raggiungere a piedi.

Questioni aperte

La maggior parte dei 130 appartamenti terminati sono stati venduti e sono occupati, dicono i rappresentanti di Hafencity. Altri 650 saranno realizzati nel prossimo anno. A progetto completato, saranno 5.500.

”È un tipo di vita fantastica, qui” dice Monika Andresen, che dirige l’ufficio pubblicità di uno dei principali giornali domenicali tedeschi. “Contemporaneamente, è un grosso investimento per il futuro”.

Gli ideatori di Hafencity sinora hanno trovato più di 150 investitori nel progetto, ma non tutti gli edifici hanno iniziato i lavori. Ci sono ancora questioni aperte, su quando e come saranno costruite le necessarie infrastrutture di trasporto. Al momento, c’è un autobus che serpeggia attorno all’isola. Entro il 2012, sarà realizzata una nuova linea di metropolitana.

”Ci sono ancora da risolvere problemi strutturali” dice Läpple.

Ma anche chi prima era scettico inizia a vedere l’oro che luccica in questo progetto, sempre che sia estratto in modo corretto.

”È l’occasione di una vita per correggere le carenze del centro città, dove resiste una solida monocoltura. Non è un centro vitale, come Vienna o Parigi” sostiene Läpple. “Hafencity potrà dare un nuovo impulso all’intero centro”.

Nota: qui al sito di Deutsche Welleil testo originale (f.b.)

Titolo originale: Chicago's Magic Kingdom - Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Il grande parco urbano è un’invenzione americana del XIX secolo. È improbabile che si costruiscano ancora cose ambizione come il Central Park di New York, il Golden Gate Park a San Francisco, o la Emerald Necklace di Boston. Semplicemente, lo spazio costa troppo e le città sono troppo povere: il solo mantenere i parchi che hanno ereditato mette a dura prova i bilanci. Ma in ogni caso, nonostante la loro popolarità, i parchi urbani con le panchine di ghisa antiquate e i sentieri tortuosi sono un ritorno a tempi più educati e riflessivi. Oggi, costruiamo parchi a tema, non parchi urbani.

A Chicago, evidentemente, non sono d’accordo. La città ha appena speso quasi mezzo milione di dollari per il Millennium Park, che ha aperto lo scorso luglio. Nei primi sei mesi, questo spazio verde in centro a attirato più di 1,5 milioni di visitatori. È un numero impressionante, se si considera che il parco è di soli 10 ettari: il Central Park ha 20 milioni di visitatori l’anno, ma copre più di 320 ettari. Calcolando in termini di visitatori/ettaro, il Millennium Park deve essere il parco più popolare del paese.

Questo nuovo spazio di Chicago può non essere vasto, ma è affollato di attrazioni. La più visibile è un padiglione per orchestra con un vasto prato (chiamato inevitabilmente Great Lawn) che insieme possono contenere 11.000 persone. In più, ci sono fontane, sculture, un ampio giardino, una stazione per biciclette, un teatro per musica e danza con 1.500 posti a sedere. Il tutto costruito sopra un parcheggio su tre livelli e i binari della ferrovia.

Nel corso di una recente visita, mi è venuto in mente che in molti modi il Millennium Park è un parco a tema. In un angolo c’è il Burnham’s World, con un peristilio classico di affusolate colonne doriche, un prato formale, molte urne e aiuole geometriche, sistemi di illuminazione progettati dal grande architetto di Chicago, Daniel Burnham. Lì vicino, la Foresta Non-Tanto-Incantata. Concepita da Kathryn Gustafson in uno stile chic ed estremo, su un ettaro abbondante di paesaggio da prateria dietro a piante fiorite ornamentali, comprende una passerella diagonale e un corso d’acqua simile a uno scarico industriale. Giusto di fianco, Artland si organizza su due piazze: una con la scultura di acciaio inossidabile di Anish Kapoor (ancora impacchettata, quando ci sono stato io) dal titolo Cloud Gate, ma nota localmente come “ il Fagiolo”; e poi la fontana dello scultore spagnolo Jaume Plensa. Ad una prima occhiata, i due prismi rettangolari da 15 metri, con l’acqua che scende dai fianchi a blocchi di vetro, sembrano una torre di raffreddamento che perde. Ma l’installazione via via cresce, sul pubblico. Vengono proiettati visi umani su schermi interattivi, cosa che può sembrare banale, ma è curiosamente attrattiva, e anche divertente. La vasca poco profonda è progettata in modo da incoraggiare il guado.

Il Millennium Park ha anche il suo Castello di Cenerentola. La scelta di Frank Gehry per il padiglione dell’orchestra è stata ispirata. Appare ovvio, ora, che Gehry è il più completo architetto barocco dai tempi di Borromini, e che la sua esuberante composizione esprime in modo ideale il tema della musica nel parco. Le regolari torri in vetro e acciaio della Michigan Avenue offrono un perfetto sfondo per questa architettura liberamente scultorea.

Le attrazioni del Millennium Park, che offre anche una striscia di luoghi di ristoro al chiuso e all’aperto di fronte a una pista di pattinaggio, rappresentano un’esperienza una per volta, ma – come nella maggior parte dei parchi a tema – non si mescolano in un tutto coerente. È un peccato, ma forse inevitabile, visto il tentativo di soddisfare un’ampia fascia di gusti e sensibilità. È un peccato anche che il Millennium Park non abbia imparato un’importante lezione dal Magic Kingdom. La presenza di così tanto personale della sicurezza, in uniformi arancione vivo, è troppo vistosa. Si aggirano con aria sospettosa, come guardiani da museo. È come se, dopo aver creato questo spazio pubblico, le autorità non si fidino del nostro comportamento. Ci sono certamente troppi cartelli: che spiegano, etichettano, orientano, proibiscono. I privati e le imprese hanno sostenuto quasi la metà dei costi del parco, come ci ricordano in continuazione. Ma i cartelli più interessanti, sono quelli che avvertono: “ Non sostare”. Come se ci fosse qualche altro motivo, per andare al parco.

Nota: il testo originale e qualche immagine al sito di Slate; altre informazioni, la planimentria ecc, a quello del Millennium Park (f.b.)

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