ILa Repubblica, 19 ottobre 2016
Uno dei siti più frequentati tra quelli classificati come «culturali» è www.eddyburg.it, tra i primi cinque nella graduatoria redatta dal servizio Internet ShinyStat. Sorprendente il numero di contatti (anche mille al giorno), visto che il sito è decisamente specialistico. E' rivolto infatti a chi si occupa di politiche del territorio. I più assidui frequentatori sono certamente «urbanisti democratici», delusi però da come i partiti della sinistra hanno trattato in questi anni la questione ambientale. Il sito è curato da un piccolo staff coordinato da Eduardo Salzano che lo ha fondato alcuni anni fa per dare conto delle sue riflessioni e che via via si è arricchito del contributo di visitatori «regolari» e lettori «saltuari».
Salzano è un intellettuale molto noto specie tra gli urbanisti: docente allo Iuav, autore di esemplari strumenti di pianificazione, saggista, presidente dell'Istituto nazionale di urbanistica (da cui è preso le distanze in polemica sulla linea dell'Istituto ).
Eddyburg è uno strumento agile, quotidianamente e puntigliosamente aggiornato, senza mai cadere nelle trappole della supponenza e della noia. L'idea è che Eddyburg conosca (e assecondi) l'inclinazione dei suoi lettori a trovare, oltre le strettoie delle discipline della progettazione urbanistica e territoriale, spiegazioni e risposte al degrado dei luoghi a cui ha in buona parte contribuito una malintesa idea di sviluppo urbanistico e economico. L'obiettivo dichiarato del sito è dunque di offrire analisi e informazioni utili per la tutela dei beni comuni.
Ma la «redazione» del sito non nasconde di ampliare l'orizzonte del suo intervento, affrontando anche il nodo di come è organizzato lo spazio metropolitano, un argomento centrale nelle discussioni passate degli urbanisti e poi, pian piano, rimosso dalla discussione pubblica.
Il lavoro di Salzano ha contribuito a segnalare e a rafforzare alcune battaglie sui temi ambientali di primo piano (ponte sullo stretto di Messina , Mose a Venezia, coste sarde, autostrade padane ecc.), sempre in evidenza con informazioni tecniche che non eccedono nella pedanteria. Il proposito di potenziare il giornale, deciso anche sulla scorta del successo di pubblico, è una buona notizia: servirà non poco nei prossimi tempi per contraddire e contenere le pratiche di governo del territorio delle destre.
Ogni giorno in Iraq si allunga la lista delle vittime. Mentre scrivo questo articolo, la stampa tedesca ha annunciato l’assassinio di Fuad Ibrahim Mohammed, direttore dell’Istituto di Studi Tedeschi dell’Università di Baghdad, che negli ultimi due anni ha lavorato alla ricostruzione della biblioteca dell’Università, distrutta dai colpi dell’artiglieria durante l’ingresso in città degli americani, freddato mentre rientrava dal lavoro. Sono cose che non fanno più nemmeno notizia. Il costo in termini di vite umane della ricostruzione del patrimonio culturale iracheno è immenso e passa vergognosamente sotto silenzio dai media internazionali. È questa la premessa dalla quale devono partire i lettori che si avvicinano a The looting of the Iraq Museum, Baghdad, che racconta eventi ormai familiari, dando un’idea di quelle che saranno le conseguenze future. Con il museo ancora chiuso, questo volume ci accompagna in una visita immaginaria attraverso le sue sale e la storia della Mesopotamia. Le nostre guide sono un team di studiosi iracheni, italiani, americani e inglesi, la maggior parte dei quali lavorano in Iraq da decenni. Prendendo spunto da opere della collezione del museo, ci conducono dall’Età della Pietra ad Alessandro Magno, fermandosi qua e là per poter ammirare nel dettaglio i pezzi di maggior magnificenza. È una guida seria e puntuale di un museo che non possiamo visitare. Il percorso è talora interrotto da interessanti digressioni, supportate da superbo materiale fotografico, sui principali siti archeologici, islamici e ottomani, scritte da chi ha scavato personalmente in questi luoghi e può illustrarne al meglio l’importanza. Ma lo scopo principale di questo libro piacevole e di facile comprensione è la chiamata a un intervento concreto. La storia del saccheggio del museo è ormai tristemente nota. Non ci sono infatti dubbi e resta poco da aggiungere sulla perdita di migliaia di oggetti delle sue collezioni, specialmente sigilli. I danni consapevolmente inflitti dalle truppe americane e polacche al sito storico di Babilonia, scelto come base logistica, sono stati ampiamente pubblicizzati e condannati dalla comunità internazionale. Ma le fotografie aeree dei saccheggi che continuano a venir perpetrati in numerosi siti archeologici sconvolgeranno i lettori, così come il resoconto dei sistematici fallimenti da parte dell’esercito alleato di proteggerli, nonostante una specifica imposizione in questo senso da parte del diritto internazionale. Non potendo il Governo iracheno riuscire laddove fallisce la coalizione, la pratica del saccheggio è ormai diventata in molte aree una delle principali risorse economiche della popolazione. È realistico temere che questa distruzione continuerà ancora, per molti anni a venire, ed è probabile che la reale natura delle perdite non sarà mai quantificata. Una percentuale dei ricavi del libro verrà devoluta al Ministero iracheno per le Antichità e l’Eredità culturale. Ma tutti noi siamo tenuti a chiederci che cosa possiamo fare, perché la situazione è persino più grave di quella messa in evidenza nel libro. Focalizzando la sua attenzione sul Museo di Baghdad e sui principali siti del paese, non menziona le perdite delle biblioteche, la distruzione di gran parte degli archivi dell’Iraq ottomano o i danni subiti da città e villaggi che sono a tutt’oggi disabitati. Da quando si è insediato il nuovo Governo, il Museo ha aperto solo una mezza giornata: per una conferenza stampa sull’oro di Nimrud che, prudentemente nascosto dal personale del museo nei sotterranei della Banca Centrale, è miracolosamente sopravvissuto alla devastazione. E infatti è così, ma gli avori di questo tesoro sono stati seriamente compromessi quando il loro deposito improvvisato è stato allagato e sono ancora in attesa di restauro. Visti i danni subiti dalla rete elettrica, il museo è privo di illuminazione e aria condizionata, perciò il lavoro di conservazione è pressoché impossibile e l’inventario degli oggetti conservati nelle sale interrate è fuori discussione. In tali circostanze il museo non può fare praticamente nulla. Anche se il personale rischia ogni giorno la vita per recarsi al lavoro, una volta al museo non c’è nulla che possa fare. All’estero, i colleghi sono desiderosi di dare il loro contributo, e hanno già fatto qualcosa in passato, ma da quando gli stranieri sono diventati il bersaglio di rapimenti e attentati, è difficile immaginare che delle istituzioni permettano ai loro esperti di partire alla volta dell’Iraq. La collaborazione sui siti archeologici non è nemmeno presa in considerazione. Subito dopo l’invasione del paese, il Governo inglese si è impegnato a dare il suo contributo alla ricostruzione culturale dell’Iraq: sono stati organizzati corsi di formazione di specialisti iracheni in Inghilterra per migliorare le loro conoscenze in materia, e proprio adesso tre archeologi di Babilonia si trovano al British Museum, ma non è stato concertato nessun programma preciso di interventi. Quando questo articolo sarà pubblicato ci saranno nuovi governi sia a Londra che a Baghdad. Il nuovo Segretario di Stato per la Cultura inglese non dovrebbe lasciarsi sfuggire un’opportunità tanto preziosa. Il Governo inglese ha il dovere di dare il via a un piano di cooperazione, formazione e investimenti della durata di diversi anni, che deve partire da un programma di tirocinio dei colleghi iracheni in Inghilterra, preparando la situazione per il momento in cui ci sarà possibile offrire finalmente un aiuto concreto sul campo.
Non riesco a immaginare un compito più urgente di questo per il nuovo Segretario di Stato, né maggior buona volontà ed energia di quella dimostrata sull’argomento. Ma visto come stanno le cose, non succederà nulla se il Governo non farà la sua parte.
Per altri particolari sull'opera del British Museum a favore delle antichità dell'Iraq, si consulti il sito del Museo.
Una recensione al volume, qui citato, The looting of the Iraq Museum è apparsa sul Sunday Times (8 mag. 2005).
Titolo originale: Bird flu and 1918’s pandemic – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Ci sono sia implicazioni terrificanti che risvolti positivi nell’annuncio della scorsa settimana che i gruppi di ricerca hanno decifrato la sequenza genetica della devastante influenza del 1918 e hanno sintetizzato il letale germe in un laboratorio ad alta sicurezza. L’impresa rappresenta un tour de force scientifico che offrirà importanti notizie sui modi migliori di rispondere all’influenza aviaria che circola ora in Asia, e che ha ucciso un grosso numero di uccelli e circa 60 persone in quattro paesi.
Le due più recenti pandemie di influenza, nel 1957 e 1968, furono causate da virus umani che avevano raccolto alcuni componenti di quelli dell’influenza degli uccelli. Ora emerge che il molto più letale virus del 1918, che uccise da 20 a 100 milioni di persone, fu probabilmente di origine aviaria, passato poi direttamente agli esseri umani. La mutazione genetica che lo consentì sta già iniziando ad apparire nell’attuale malattia degli uccelli, nota come H5N1. Ciò offre all’influenza di oggi due vie per scatenare la devastazione fra gli umani. Può mescolare alcuni dei suoi geni con l’influenza umana, come i virus del 1957 e del 1968, oppure mutare sé stessa per divenire facilmente trasmissibile tra gli uomini, come il virus del 1918.
Sinora, il virus degli uccelli raramente è saltato dai volatili agli umani, e raramente si è spostato da una persona all’altra. Ma potrebbe seguire il medesimo percorso evolutivo del virus 1918. Due funzionari della sanità USA affermano che il virus H5N1 ha acquisiti cinque delle dieci sequenze genetiche legate alla trasmissione umano-umano del 1918.
Questo non significa necessariamente che la catastrofe sia imminente. Nessuno sa quante probabilità ci siano che si verifichino ulteriori mutazioni, o quanto tempo occorrerà. Il virus aviario è stato in circolazione per decenni senza per questo trasformarsi in un mostro.
Le nuove scoperte offrono promettenti sviluppi per gli operatori sanitari che devono prepararsi ad una possibile pandemia. Gli scienziati saranno in grado di monitorare l’evoluzione del virus aviario e portare immediatamente assistenza medica in qualunque area dove appaia che il virus sia più trasmissibile. Saranno anche in grado di sviluppare cure e vaccini mirati agli obiettivi genetici più importanti, consentendo così di curare o addirittura prevenire l’influenza in modo più efficace.
Nessuno sa se il virus aviario ora sotto i riflettori diventerà una minaccia più grave per gli esseri umani. Ma un giorno o l’altro potrebbe arrivare una potenziale pandemia. Le nuove scoperte potranno aiutare a contenerla.
Nota: il testo originale di questo articolo del New York Times è ripreso dal sito dello International Herald Tribune (f.b.)
Alors qu'un projet de loi contesté veut réformer leur statut, ces espaces protégés s'interrogent sur leur devenir. Et Marseille sur l'opportunité de choisir ce type de structure pour sauvegarder ses calanques
Du côté du Vieux- Port, à Marseille, on vous le dit sur tous les tons: «Ici, on s'escagasse.» En clair, on se remue, on s'active, voire on se prend la tête. Objet de toutes les cogitations: le devenir des Calanques, entre la Pointe-Rouge et la baie de Cassis. Linéaire côtier de 38 kilomètres à couper le souffle, le site est un chef-d'œuvre de la nature. En péril. Comme le seraient, sur un autre registre, dit-on, et bien au-delà de la Canebière, nos sept parcs nationaux . Sept merveilles qui devraient devenir huit avec les Calanques si l'on suivait le souhait de certains Marseillais. Sept parcs pris dans la tourmente du projet de loi réformant leur statut.
Adopté en Conseil des ministres le 25 mai, le texte est jugé alarmant par nombre d'associations environnementalistes. Derrière le désengagement de l'Etat au profit des collectivités territoriales, elles subodorent un mauvais coup. «On affaiblit l'exigence de protection des sites, on l'organise même», observe Jean-David Abel, ancien conseiller de Dominique Voynet au ministère de l'Environnement.
Parcs en rade. Après la Vanoise, Port-Cros, les Pyrénées, dans les années 1960, les Cévennes, le massif des Ecrins, le Mercantour et la Guadeloupe, de 1970 à 1989, les Calanques seront-elles le huitième parc national de l'Hexagone, le premier du genre péri-urbain? Ou bien celui des Hauts de l'île de la Réunion (100 000 hectares, soit le tiers de l'île) lui soufflera-t-il la place? En dépit d'annonces réitérées, aucun parc national n'a vu le jour depuis seize ans. Et l'on ne compte plus les reports, voire les abandons - en Ariège, aux îles Chausey, en Corse. Sans parler du projet avorté d' «Espace Mont-Blanc».
Mer d'Iroise, Corse, Guyane, les projets annoncés au début des années 1990 attendent toujours ou se hâtent lentement. «Vidé de sa substance, le Parc national marin d'Iroise n'est plus aujourd'hui qu'un projet a minima», s'agacent les défenseurs de la cause. «Pourvu que les Marseillais ne connaissent pas nos dérives!» dit-on du côté du Conquet.
Montée en puissance d'intérêts particuliers, dérives liées aux dérogations accordées en matière d'urbanisme pour retaper bergeries, granges et cabanes de montagne, toutes résidences econdaires en puissance, les édiles aux pouvoirs renforcés sont soupçonnés d'être vulnérables aux pressions diverses. «Ne voulant fâcher personne, ils seront tentés d'adapter la réglementation pour que les contraintes de protection pèsent moins sur le développement de leurs territoires, dit-on au Syndicat national de l'environnement (SNE). Surtout s'ils président les parcs et ont une voix prépondérante dans le choix du directeur».
«Dans ce débat, le jeu des amendements parlementaires sera décisif. Avec le risque évident, sous la pression de députés préoccupés de leurs intérêts, de dénaturer, voire de démanteler les sites», renchérit André Etchelecou, président du comité scientifique du parc des Pyrénées. Procès d'intention? L'intéressé a toujours en tête les dix années d'affrontements autour de cette piste pour tracteurs qu'on voulait aménager, en vallée d'Aspe, à proximité des vallons d'Annès et de Bonaris, refuges du lagopède et du grand tétras. Ou cette station de ski de fond du col du Somport, annulée par le tribunal administratif mais pourtant équipée.
«Dire que les établissements qui gèrent les parcs sont d'abord la caisse de résonance d'intérêts particuliers est exagéré», conteste Joël Giraud, député apparenté PS des Hautes-Alpes, administrateur du parc des Ecrins. Question de perception sans doute - et de contexte local. «Ici, tous les élus ne sont pas intéressés par un fonctionnement optimal du parc, lâche un garde-moniteur du Mercantour. Ils le vivent comme un empêcheur d'équiper en rond.» Et puis il y a les précédents. «Les retouches successives apportées à la loi Montagne ou à celle sur le développement des territoires ruraux laissent des traces», commente la Fédération Rhône-Alpes de protection de la nature (Frapna). Comme les récentes décisions concernant l'ours ou le loup. Rendez-vous donc dans quelques mois au Parlement.
Successeur de Serge Lepeltier au ministère de l'Ecologie et du Développement durable, Nelly Olin a inscrit le texte en procédure d'urgence, pour discussion à l'automne. Dans l'intervalle, elle entreprend aujourd'hui de renouer avec les associations les fils d'un dialogue interrompu. Inquiètes du manque de lisibilité d'un projet ayant donné lieu à sept moutures successives, elles aussi «s'escagassent» contre un possible dévoiement de pratiques jusque-là vertueuses. Et ce, alors même que chacun reconnaît leur réussite en matière de sauvegarde de la biodiversité et que Lepeltier lui-même évoquait à leur sujet «des cathédrales des temps modernes».
«Mais de quel édifice parlera-t-on si l'on démultiplie les situations d'exception au cœur ou en périphérie des parcs? s'interroge Jean-David Abel. Si la création d'un comité économique et social accentue la pression des intérêts locaux?» Pour Serge Urbano, vice-président de France nature environnement (FNE): «Trop de points fondamentaux restent flous, trop d'inconnues sont renvoyées à des décrets d'application. A la pointe dans le système de notation de l'Union internationale pour la conservation de la nature (UICN), la France risque de régresser.» Au ministère, où l'on affirme vouloir à la fois renforcer les protections et élargir le réseau des parcs, la remarque agace.
Alors, menacés, ces espaces emblématiques, dans la Vanoise et ailleurs, du renouveau des bouquetins, de l'aigle royal ou du gypaète barbu? En danger, ces sites exceptionnels, plébiscités, des Cévennes à Port-Cros, arpentés chaque année par plus de 7 millions de visiteurs? Après quarante-cinq ans de pratique, une réflexion n'est sans doute pas inutile, d'autant qu'avec la décentralisation le contexte politique local a changé. C'était déjà le leitmotiv du rapport remis, il y a deux ans, par le député du Var Jean-Pierre Giran à Jean-Pierre Raffarin. Le parlementaire y préconisait notamment une plus grande implication des élus locaux dans les instances du parc. Le temps où leur création pouvait être imposée d'en haut, au grand dam des édiles du cru, est définitivement révolu. Finie l'époque du plan-Neige, des stations intégrées, lorsque le parc de la Vanoise s'opposait violemment à l'extension de la station de Val-Thorens et celui du Mercantour à la création de deux stations de sports d'hiver. Des combats qui ont laissé des traces.
«Aux Ecrins, nous avons tricoté le parc pour le rapprocher des populations, pour qu'elles se l'approprient. Cela n'exclut pas les divergences, mais on les traite autour de la table», souligne Christian Pichoud, président de ce parc depuis cinq ans. Reste que la nouvelle donne laisse planer incertitudes et craintes de voir ressurgir de vieux projets comme, en Vanoise, la liaison Val-Cenis-Termignon ou celle entre Val d'Isère et Bonneval. Vu leur fréquentation, leur environnement immédiat - cette zone périphérique dotée, demain, d'un plan d'aménagement auquel les communes pourront ou non souscrire - et leurs moyens (le budget de la Vanoise égale celui de l'office de tourisme de Val-d'Isère), les parcs ont l'habitude de vivre sous pression. Le risque est de voir ces tensions s'amplifier. Jusqu'à faire tomber des digues de protection qui ont fait leurs preuves?
A Marseille, on parle d'opportunité. Aux portes de l'agglomération phocéenne, les 5 500 hectares des Calanques - la moitié de la ville de Paris - en imposent. Au même titre que le cirque de Gavarnie dans les Pyrénées, la quarantaine de glaciers des Ecrins ou la vallée des Merveilles, dans le Mercantour. Massif calcaire, escarpé et buriné, aux reliefs vertigineux, le monument est incontournable et Guy Teissier, député UMP et maire de secteur à Marseille, voudrait l'inscrire définitivement dans le scénario des «parcs de deuxième génération» que prépare la réforme législative. Pour ses falaises, coiffées de pins, aux abrupts plongeant dans les abysses de la grande bleue. Pour ses plateaux, entrecoupés de vallons secs et encaissés, de crêtes, de criques et d'aiguilles. Pour ses 900 espèces végétales (soit le cinquième de l'inventaire français) ou son aigle de Bonelli, protégé, comme le martinet pâle. Pour son domaine marin ou sa grotte Cosquer, témoin du paléolithique supérieur - lorsque le niveau de la mer était 130 mètres plus bas qu'aujourd'hui.
Grandiose. Mais fragile. Un fabuleux jardin public que chacun, au nom des usages, s'approprie plus ou moins, qu'il soit «cabanonier», chasseur «à l'avant», friand de petit gibier, ou passionné d'escalade et de passages en tyrolienne. Moyennant quoi, sédentaires ou touristes venus par la terre, plaisanciers, plongeurs ou pêcheurs, arrivés par la mer, ils sont plus d'un million à arpenter chaque année le site.
Un espace en alerte rouge
Surfréquentation? «Depuis cinq ans, TGV et 35 heures aidant, elle s'est accentuée», juge Madeleine Barbier, secrétaire générale de l'Union calanques littoral (UCL). Saturation des mouillages, l'été, à Port-Miou et ailleurs, débarquements problématiques à En-Vau, mauvaise qualité des eaux de baignade, en juillet-août, embouteillages au col de Sormiou, le long d'une des routes du feu, stationnements pris d'assaut à la Gardiole et Callelongue: l'espace est en alerte rouge.
Rouge comme ces feux qui, épisodiquement, ravagent le massif (3 600 hectares brûlés en 1990). Rouge, aussi, comme les boues issues du traitement de la bauxite de Gardanne, immergées au large par 330 mètres de fond.
Cinq ans de concertation
Rouge, enfin, de la colère de ceux qui voient le rivage des criques «mousser» sous l'effet des effluents rejetés, avec les eaux usées de l'agglomération, par l'émissaire de Cortiou. «On a éliminé les macro-déchets, mais on se dépêtre mal des détergents», observe Renée Dubout, de l'UCL. Engagée depuis 1992 dans la protection du site, l'association ne laisse rien passer. De l'aménagement par l'Office national des forêts, sous couvert d'entretien, du chemin d'En-Vau - une soixantaine de pins abattus - à l'utilisation à des fins touristiques de la grotte de Capélan, en passant par ce débarcadère bétonné récemment découvert entre Sugiton et Pierres-Tombées. Détérioration des herbiers à posidonies, des tombants de gorgones, diminution des oiseaux nicheurs, décharges sauvages, braconnage sous-marin... le constat des scientifiques, sans appel, confirme tous ces grignotages, ces petits arrangements, facilités par l'absence d'un gestionnaire unique au pouvoir affirmé.
Si tout le monde s'accorde pour reconnaître que ce patrimoine est menacé (surtout par «les autres»), la manière de le préserver en respectant les habitudes de chacun est loin de faire l'objet d'un consensus. Proposée par le Comité de défense des sites naturels (Cosina), l'idée d'une réserve naturelle, strictement contrôlée, où prévaudraient les interdits, ne convainc guère. «Ce serait tout mettre sous cloche. Impossible aux portes de Marseille de “sanctuariser” un tel espace», fait valoir Jean-Louis Millo, le directeur du Groupement d'intérêt public (GIP) mis en place en 1999 pour concilier les points de vue et préfigurer un parc national. Après cinq ans de concertation, l'entité présidée par Guy Teissier affirme avoir fédéré les bonnes volontés autour de l'idée. «Une conversion tardive, observe François Labande, ancien président de l'association Mountain Wilderness, administrateur du parc des Ecrins. Si beaucoup se décident aujourd'hui pour cette formule de parc national, c'est faute de mieux plus que par conviction».
L'appellation ne fait pas, pour autant, l'unanimité. Une pétition contre circule. «La publicité autour du label Parc national nous attirerait encore plus de monde», résume Janine Pastré, gérante de la SCI Marine-Sormiou (128 cabanons répartis sur 14 hectares). Le mieux, en somme, engendrerait le pire. Mais Teissier n'en démord pas. «On peut adapter ici ce qui marche à Port-Cros ou aux Ecrins», fait valoir son entourage. CQFD: la structure parc national serait donc le seul recours. Surtout si elle est mise au goût du jour par le toilettage législatif annoncé - et décrié. Du coup, les militants «pro» parc de toujours se montrent plus circonspects et attendent de connaître les tenants et aboutissants du projet de loi. Le Gip annonce pour septembre un document d'intention, sorte d'état des lieux que l'ensemble des collectivités concernées devraient parapher. Il faudra ensuite définir un projet de territoire et réaliser une enquête publique. La «bataille des Calanques» ne fait que commencer.
D'autant que, discrète, la mairie de Marseille, qui contrôle 90% du territoire des Calanques, n'a pas encore révélé ses intentions. Cabanonier à ses heures, du côté de Sormiou, son premier magistrat, Jean-Claude Gaudin, n'a sûrement pas l'intention de se laisser déposséder.
Post-scriptum
La rumeur voudrait qu'un projet d'inscription du site des Calanques au patrimoine mondial de l'Unesco soit à l'étude. Sera-t-il écologiquement compatible avec le dossier piloté par Guy Teissier?
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Cancelli. Il cancello fra i ricchi e i poveri si trova in una citta' dell'Africa, che e' per ragioni storiche ancora sotto dominio europeo e si chiama Ceuta. Questo cancello, che e' alto e forte e sempre sorvegliato da custodi, e' il luogo piu' desiderato dell'Africa: i poveri, tuttavia, di solito ne girano al largo, cercando di aggirarne le guardie e di girargli attorno con gl'itinerari piu' lunghi e strani.
Una decina di giorni fa, tuttavia, e' successa una cosa strana. Decine di poveri si sono ammassati, dapprima quasi per caso e come oziosi, poi sempre piu' risentiti e decisi, ai piedi di questo cancello. I pochi son diventati massa compatta. Infine, quando qualcuno ha cominciato ad afferrare il cancello e a scuoterlo forte, un urlo s'e' levato da tutta la folla e tutti si sono spinti avanti. Allora i sorveglianti hanno sparato: non si sa se prima quelli europei o quelli africani (il cancello e' guardato da entrambi i lati). Non si sa, e non si sapra' mai, quanti siano stati i morti, trafitti mentre si arrampicavano o calpestati dalla folla. Ne' si sapra' mai nulla dei loro pensieri, delle loro vite, delle loro eventuali idee politiche (se, lusso estremo, ne hanno).
Passata l'emergenza, i poveri sopravvissuti sono tornati nelle loro bidonvilles e nei loro deserti, e i sorveglianti ai loro ordinari pattugliamenti. Cio' che e' successo, tuttavia, e' di una chiarezza estrema e, nel giro d'un mese, e' il secondo messaggio inequivocabile che noi qui in Occidente riceviamo. Il primo e' stato in Louisiana, coi poveri abbandonati a freddo a morire sotto l'uragano. Il secondo, in Europa. Pochissimi, fra i triclini virtuali di grandi fratelli, grandi politici, grandi giornalisti e grandi tutto il resto, hanno voglia (o ormai facolta') di ascoltarli. Ma ormai hanno un nome preciso, ed e' Titanic.
riccardoorioles@sanlibero.it
Non sono molti, in Italia, gli storici che si siano occupati di ambiente. E che abbiano raccontato le vicende dei fiumi, delle colline, delle pianure e delle paludi. E di come gli uomini se ne siano serviti, spesso correttamente, spesso abusandone. Con la storia delle risorse naturali si cimenta da tempo Piero Bevilacqua, professore di Storia contemporanea all'Università "La Sapienza" di Roma, che prova a ricostruire il nostro passato non limitandosi alle dinamiche dell'economia o alla vita sociale e politica, ma attribuendo dignità di soggetto storico alle forze ambientali. Non è difficile intendere quanto questa indagine torni comoda per capire cosa accade nel nostro paese ogni volta che un acquazzone si abbatte più irruento del solito. L'ultimo lavoro di Bevilacqua è appena uscito, si intitola Ambiente e risorse nel Mezzogiorno contemporaneo: è un volume curato insieme a Gabriella Corona e raccoglie studi di giovani ricercatori sulla legislazione forestale nei secoli scorsi, sull'idea di territorio in età giolittiana, sulla storia della biodiversità, della pesca, delle bonifiche e dei sismi (Donzelli, pagg. 329, lire 45.000). Di qualche anno fa è Tra natura e storia (ora ripubblicato sempre da Donzelli, pagg. 224, lire 35.000).
Professor Bevilacqua, al Nord e al Centro si continua a morire travolti da un'alluvione. Ma si può cominciare questa intervista ricordando che esattamente vent'anni fa un terremoto distruggeva l'Irpinia e parte della Basilicata. Morirono tremila persone. Abbiamo riflettuto a sufficienza su quella tragedia?
"No. Ma bisogna distinguere. La storiografia, generalmente insensibile alle questioni ambientali, ha raggiunto livelli di eccellenza nell'indagine su questi eventi. L'Istituto nazionale di geofisica di Bologna ha pubblicato un Catalogo dei forti terremoti in Italia dal 461 a.C. al 1990 di straordinario rilievo. Con la storia dei terremoti si realizza l'antico detto della historia magistra vitae".
In che senso?
"La memoria è la nostra geologia: apprendiamo da uno studio di Emanuela Guidoboni che negli ultimi cinquecento anni in Italia ci sono stati centosettantaquattro terremoti distruttivi, in media uno ogni tre, quattro anni. In Sicilia e in Calabria, le regioni più disastrate, la media è rispettivamente di uno ogni 17 e 19 anni: almeno una generazione di persone che vivono lì affronta una ricostruzione sismica".
Sono dati terribili.
"Non sono finiti. Nel secolo che si è chiuso sono morte 200.000 persone. E il costo dei sismi accaduti negli ultimi trent'anni ammonta a 180.000 miliardi di lire".
Lei parlava di historia magistra vitae. Non sembra che la comunità nazionale tenga conto di questi studi. O no?
"Purtroppo non ne fa buon uso. Siamo affetti, classe dirigente e semplici cittadini, da un abbaglio tecnologico, che ci fa perdere di vista un dato storico: la fragilità del nostro territorio. Implicitamente ci sentiamo sicuri, non ci sembra possibile che un paese che ha raggiunto simili livelli di benessere soccomba di fronte a un evento naturale".
Da dove deriva questa mitologia?
"Il sapere medio è povero di competenze geografiche e naturalistiche. Un uomo colto dell'Ottocento le maneggiava invece con dimestichezza: prenda il caso di Giustino Fortunato. Poi è prevalsa una certa vulgata idealistica. Nelle scuole la geografia è stata messa ai margini. Oggi una persona di buona cultura stenterebbe a riconoscere cinque, sei alberi fra i più frequenti del nostro paesaggio".
Stiamo negando un passato di grandi conoscenze. E' questo che vuol dire?
"Esattamente. L'Italia ha inaugurato la scienza idraulica moderna. Nel Nord del paese esistevano due grandi emergenze: la pianura Padana e la laguna veneta. La pianura padana è fra i più intricati sistemi idrografici del mondo. Dal Medioevo in poi tante fonti storiche segnalano la questione. E per secoli è proseguito lo sforzo affinché si rendesse agibile quella pianura. Nell'Ottocento gli idraulici sostenevano che il Po fosse frutto del lavoro umano, un fiume costruito, tanto imponenti erano stati i lavori per condurre in un unico argine la quantità di bracci in cui il corso si disperdeva. Carlo Cattaneo definisce il Po "un immenso deposito di fatiche". Nel XVII secolo fu attuata una gigantesca opera idraulica, rimasta senza pari: venne dirottata la foce del fiume per evitare che scaricasse materiali nella laguna veneta".
E arriviamo a Venezia. In un suo saggio di alcuni anni fa, Venezia e le acque, lei sosteneva che la legittimazione a governare la città dipendeva dalle capacità idrauliche della sua classe dirigente, che doveva dimostrarsi in grado di salvaguardare la laguna dall'interramento...
"In quel libro cercavo di raccontare la storia mirabile di un successo tecnico. Una grande opera fu anche la deviazione del fiume Brenta che, come il Po, alterava l'equilibrio della laguna scaricandovi le sue scorie. E a quella seguirono altre iniziative in diverse regioni. Basti ricordare la colmata della Val di Chiana, o il canale Cavour, costruito nell'Ottocento". Come si è arrivati al dissesto e alla noncuranza di oggi? "In seguito a tanti processi. In primo luogo la riduzione delle superfici agricole. Ancora nel 1951 ventisette milioni di ettari erano coltivati. Oggi sono quindici".
Ma il minore sfruttamento della terra non arreca anche vantaggi?
"No, se al posto dell'agricoltura subentra un insediamento cementizio, che impermeabilizza il terreno. Inoltre le trasformazioni nei metodi di coltivazione, pur necessarie per ricavare più reddito, possono provocare effetti negativi sulla tenuta del territorio".
Mi faccia un esempio.
"E' necessaria una premessa. Gli idraulici dell'Ottocento avevano capito che la dorsale appenninica andava incontro allo scivolamento di materiali disgregati dalle vette verso valle, all'erosione delle rocce. Questi eventi provocavano un colmamento delle zone costiere. Nei secoli passati, secondo molte fonti, i problemi erano attutiti dai contratti di mezzadria che imponevano ai contadini di restare nei fondi e di controllare i movimenti della terra e delle acque. Si costruivano i muri di sostegno, e se si sfaldavano si riparavano. Si deviavano i fiumi, si bonificavano le colline, indirizzando l'acqua piovana, si riempivano i fossi, si addolcivano le pendenze con le colmate. Buona parte del profilo collinare toscano è il prodotto di questa manutenzione".
E ora, invece, cosa accade?
"Prevale il lavoro meccanico, che insieme a tanti vantaggi ha provocato anche danni. Un trattore per arare un terreno va in direzione della massima pendenza. Scende e poi risale, agevolando i fenomeni franosi. Troppo spesso i vigneti sono sistemati in verticale. Un tempo, invece, o si costruivano i terrazzamenti oppure si procedeva "giro poggio", come si diceva, tagliando orizzontalmente e dolcemente la collina".
Ma è impossibile arrestare il processo di meccanizzazione.
"D'accordo. Ma resta il fatto che, storicamente, una delle cause dei fenomeni franosi che angustiano le zone appenniniche o le Prealpi è lo spopolamento delle colline interne. E le frane si abbattono sulle pianure inverosimilmente intasate sia dalle abitazioni che dagli stabilimenti industriali. Per non parlare delle costruzioni abusive, tirate su nelle golene o sui greti dei fiumi. E' difficile far tornare i contadini sulle alture, ma allora inventiamoci altri sistemi per non abbandonarle".
A cosa pensa?
"Dieci anni fa la Comunità europea ha varato un programma che si chiama "set aside" e consiste nel disincentivare le coltivazioni - tenga conto che i magazzini europei sono pieni di eccedenze - e nel favorire sui pendii le colture biologiche o la forestazione. Nei secoli scorsi, in particolare al Sud, le alluvioni sono state frenate dai boschi. In Calabria, prima dell'Unità, si procedette a una bonifica dei corsi alti dei fiumi che, raccontano molte memorie, erano pescosissimi e adesso sono ridotti a discariche. E' possibile che non si riesca a formare botanici, biologi, geologi? Nelle amministrazioni statali preunitarie figuravano molte più competenze di quante, in proporzione, ce ne siano oggi".
Lei accennava ai difetti della storiografia contemporanea. Vogliamo chiudere la conversazione su questo?
"Da noi prevale una formazione umanistica e solo umanistica. La storia politica è indispensabile, ci mancherebbe. Ma è possibile che non ci si spinga mai a dialogare con altri saperi, come quelli geografici o agronomici? Quando mi occupo di queste ricerche i miei interlocutori sono i geologi e gli urbanisti. Il mio libro Tra natura e storia non è stato né recensito né segnalato su nessuna rivista storica specializzata. In Germania o in Francia la situazione è diversa. Eppure noi siamo un paese molto più vulnerabile: io credo che nella mitologia popolare la salvaguardia secolare di Venezia possa avere lo stesso rilievo degli Orazi e Curiazi".
Già ricordati nell'editoriale di Rossana Rossanda sul manifesto di domenica scorsa, il terremoto di Lisbona del 1755 e il dibattito che suscitò fra i filosofi dell'illuminismo tornano alla mente in una sorta di associazione spontanea con la tragedia del sud-est asiatico di oggi. E più che i due eventi, a suscitare l'associazione è il loro impatto sull'immaginario dei contemporanei, allora e oggi. A ricostruire quello di allora fa da guida un libro uscito qualche mese fa a cura di Andrea Tagliapetra, Sulla catastrofe. L'illuminismo e la filosofia del disastro (Bruno Mondadori), che raccoglie e commenta gli scritti di Voltaire, Rousseau e Kant sull'evento e traccia alcune piste di riflessione non banali per l'oggi. Scrive Tagliapietra che allora non fu tanto l'entità, pur immensa, della tragedia a fare del terremoto di Lisbona un evento del pensiero oltre che della storia: altri e più terribili cataclismi (il terremoto di Lima del 1746, 20.000 morti, quelli di Qili e Pechino di pochi anni prima, 200.000, quello dei Caraibi del 1693, 60.000, nonché quello dello Huaxian nel `500, 800.000) non lo erano diventati. Fu piuttosto l'effetto di vicinanza a colpire la nascente opinione pubblica europea, amplificato dalla contemporanea espansione del sistema della stampa. Lisbona, che contava all'epoca 275.000 abitanti e govenava un impero già provato dalle guerre coloniali con l'Olanda ma ancora esteso su tre continenti, era la porta dell'Europa sull'oceano e sul Nuovo Mondo, e il suo crollo, puntualmente descritto e comunicato da gazzette e volantini, colpì al cuore l'immaginario dell'espansione e l'ottimismo della conquista. «Il terremoto fu percepito come un evento che, mentre suscitava antichissimi interrogativi sul male, su Dio, sulla natura, la giustizia, il destino dell'uomo, poneva al contempo la cultura europea sulla soglia di qualcosa di nuovo. Sorgeva un mondo in cui si discuterà sempre meno di peccato e di colpa, e sempre più di catastrofe e di rischio, si smetterà di risalire ogni volta alle logiche apocalittiche del diluvio universale e si lasceranno parlare i sistemi descrittivi e gli apparati empirici della geologia e delle scienze della terra». Evento di passaggio: dai piani di Dio alla responsabilità degli uomini. Gli scritti di Voltaire, Rousseau e Kant documentano questo passaggio. La morte dell'ottimismo del migliore dei mondi possibili, decretata da Voltaire nel Poema scritto per l'occasione e nel Candido. La risposta di Rousseau, con il dito puntato sulle colpe dei mortali («la natura non aveva affatto riunito in quel luogo 20.000 case di sei o sette piani») e la speranza spostata dai disegni divini alle possibilità rivoluzionarie umane. L'analisi di Kant, minutamente condotta sulle cause fisiche e geologiche del disastro. Il mondo è nelle mani di chi lo abita: questo si dice, e si impone, la coscienza europea di fronte a una catastrofe che segna l'inizio della modernità. E tuttavia, e contraddittoriamente, nello stesso momento il fantasma della catastrofe si installa nel cuore della modernità stessa: la possibilità permanente del disastro diventa l'altra faccia, il lato d'ombra, l'inconscio persecutorio e minaccioso della responsabilità rivendicata e dichiarata. La modernità nasce in questa tensione fra l'imminenza della catastrofe e le strategie della sua prevenzione e del suo contenimento.
E si rinnova e si ripete in questa stessa tensione, viene da dire di fronte ai dibattiti di oggi sull'apocalisse naturale asiatica, o dell'altro ieri sull'apocalisse politica dell'11 settembre (che non a caso suscitò anch'essa più di un riferimento all'«evento filosofico» del terremoto di Lisbona). Con la differenza che mentre nella nascente opinione pubblica europea dio lasciava il posto alla responsabilità umana, oggi il movimento è piuttosto l'inverso, e sotto varie maschere dio viene invocato a copertura delle responsabilità umane. Un altro segno del processo di decostruzione all'indietro della modernità a cui la post-modernità ci fa assistere. O forse il segno che né le maschere di dio né il totem della responsabilità bastano a fare i conti con la dimensione imperscrutabile della storia che è fatta di caso, accidente, incidente.
Da parecchi anni il giro dell'Agosto è per me il giorno del rendiconto ecologico. Come sta la salute della Terra? Come andiamo con l'ambiente, con l'inquinamento atmosferico, con il clima, con l'esaurimento delle risorse? Va da sé che su tutto il fronte andiamo peggio. Va da sé perché non vogliamo né vedere né affrontare la realtà.
Sì, finalmente il protocollo di Kyoto è diventato operativo. Applaudo perché qualcosa è sempre meglio che nulla. Ma i rimedi di Kyoto sono largamente insufficienti. Eppure il Texano tossico, il presidente Bush, non solo continua a rifiutarli, ma si ingegna anche a sabotarli accordandosi con India, Cina e una manciata di altri Paesi su una cosiddetta «soluzione alternativa» (lo sviluppo di alte tecnologie pulite) che però non viene seriamente finanziata e che comunque non sarebbe alternativa ma complementare.
Sì, un'altra buona notizia è che la comunità scientifica è sempre più convinta e concorde nel denunziare la gravità della situazione e che, correlativamente, le voci dei lietopensanti che ci raccontano che tutto va bene sono sempre più fioche e sempre più contraddette da valanghe di dati, da valanghe di smentite.
Però, però. Tre anni fa i lietopensanti sono stati rassicurati dalle balordaggini di un certo Lomborg (sconfessato dai suoi stessi colleghi della «Commissione danese sulla disonestà scientifica»); e quest'anno fa già furore il romanzo Lo Stato di Paura di Crichton, la cui tesi è che il riscaldamento globale è l'invenzione di scienziati e giornalisti al servizio di interessi politici ed economici il cui proposito è di preservare «i vantaggi politici dell'Occidente e favorire il moderno imperialismo nei confronti dei Paesi in via di sviluppo». Questa è soltanto una tesi dogmatico-marxista rispolverata negli anni '70. Ma se un logoro vetero-marxismo viene rimesso a nuovo da un autore di thriller che sa vendere milioni di copie, allora «l'imbroglio anti-ecologico» riprende fiato.
Il guaio è che sul drammatico problema della «Terra che scoppia» (di sovrappopolazione) e che si autodistrugge, i media, gli strumenti di informazione di massa, non mobilitano l'opinione e non si impegnano più di tanto. Forse perché sono frenati da una colossale rete di interessi economici tutta progettata e proiettata nell'assurdo perseguimento di uno sviluppo illimitato, di una crescita infinita.
Comunque sia, il fatto dell'anno è che su questo cieco «sviluppismo» sta cadendo addosso una bella tegola. In questi giorni il costo del petrolio greggio si è avvicinato ai 70 dollari, e quindi al record massimo di un quarto di secolo fa di 80 dollari (costo ragguagliato a oggi) che produsse allora una grave crisi di stagflazione. Cosa succede? Il petrolio sta diventando scarso? Per il grande (ciarlatano) Lomborg non sarebbe possibile: lui ci assicura riserve per 5.000 anni. Ma anche i petrolieri ci rassicurano: abbiamo riserve per 50 anni (due zeri meno di Lomborg) e la stretta è colpa degli impianti di raffinazione. Ma a parte il fatto che 50 anni sono pochissimi, questa tranquillizzazione è un inganno. Nei prossimi venti anni la popolazione sarà ancora in aumento (quest'anno, saremo ancora 70-75 milioni in più), e si prevede che il fabbisogno energetico mondiale — con lo sviluppo dell'India e della Cina — crescerà del 50 per cento. Per questo rispetto siamo già allo stremo. Il campanello d'allarme è squillato dal 1980. E noi cosa abbiamo fatto e stiamo facendo? Ancora niente. Leggiamo e arricchiamo Crichton. Bravi, bravi.
Titolo originale: The tsunami, one year later – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
NEW YORK – Un anno fa, quando molti di noi stavano trascorrendo il periodo delle vacanze con le famiglie, la terra tremò per otto terribili minuti, scatenando un’onda gigantesca che colpì 12 paesi dell’Oceano Indiano.
Nelle successive 24 ore, morirono più di 230.000 persone, 2 milioni furono i profughi, e migliaia di bambini restarono orfani. Lo tsunami devastò quasi 8.000 chilometri di coste, distrusse 3.500 chilometri di strade, spazzò via 430.000 abitazioni e danneggiò o distrusse oltre 100.000 imbarcazioni da pesca.
Subito dopo tsunami, feci un viaggio con l’ex Presidente George H.W. Bush attraverso la regione, per verificare l’efficacia del contributo americano alle vittime.
Poco dopo, fui nominato Inviato Speciale delle Nazioni Unite per la Ricostruzione dopo lo Tsunami, e da allora ho lavorato sia alle Nazioni Unite che in Indonesia, Sri Lanka, India, Maldive Thailandia, a sovrintendere il coordinamento e aumentare il ritmo dei lavori di ricostruzione, e risolvere specifici problemi in alcuni paesi.
Recentemente sono stato ad Aceh, Indonesia, e a Trincomalee nello Sri Lanka nord-orientale, dove ho incontrato sopravissuti che avevano perso tutto: i loro cari, il lavoro, la casa e la comunità. Mi hanno ricordato il dolore che tanti continuano a sopportare.
A Trincomalee, ho incontrato un ragazzo che aveva salvato il fratellino più giovane, ma era perseguitato dal ricordo del fratello maggiore, scivolatogli tra le dita mentre l’onda da un miliardo di tonnellate distruggeva la casa. Il ragazzo non ha mai più rivisto il fratello maggiore.
In entrambi i paesi, sono restato colpito dalla determinazione dei sopravvissuti a ricostruire le proprie vite nonostante le perdite inimmaginabili che hanno subito e le condizioni spesso disperate in cui vivono.
Sono anche stato incoraggiato, dalle molte significative realizzazioni degli ultimi 12 mesi: sono state prevenute le epidemie; molti bambini sono tornati a scuola; decine di migliaia di sopravvissuti ora lavorano e guadagnano di nuovo; è fornita assistenza costante per l’alimentazione; è disponibile online un sistema comune di verifica finanziaria; si prevede che la prossima estate sarà attivo un sistema di allarme regionale per gli tsunami.
Ma c’è ancora molto da fare. Soltanto ad Aceh e nella vicina Nias, ci sono oltre 100.000 persone che vivono ancora in condizioni inaccettabili e con accessi minimi ad occasioni di impiego.
Anche se le agenzie di soccorso attuano progetti per le abitazioni permanenti, ci sono ancora bisogni urgenti di fornire rifugi temporaneo durevoli, migliorare i centri di vita transitori e assistere le famiglie che ospitano le vittime.
Lo tsunami presenta una sfida critica alla comunità internazionale: continueremo nei soccorsi anche quando l’attenzione del mondo si sarà rivolta ad altre crisi? Cosa succederà domani, il giorno dopo l’anniversario? E nelle settimane e mesi che ci aspettano? Questo impegno richiederà anni, e dobbiamo onorarlo.
Ora più che mai, sono convinto che la ricostruzione debba essere guidata dall’impegno a “rifare meglio”: migliori case, scuole, centri sanitari, città più sicure ed economie più solide.
Le politiche per la ripresa devono includere principi base di buon governo, come la consultazione delle comunità locali per i piani di ricostruzione, gli obiettivi, la trasparenza, la verificabilità.
Nel 2006, mi concentrerò su tre priorità per essere sicuro di rifare meglio (ogni nazione ha un sufficiente impegno finanziario tranne le Maldive, che hanno bisogno di altri 100 milioni di dollari).
Per prima cosa, dobbiamo essere sicuri che il nostro sforzo, unico per la buona disponibilità di risorse si rivolto alla popolazione più vulnerabile: i più poveri tra i poveri, donne, bambini, migranti, minoranze etniche.
Dal Global Consortium on Tsunami Recovery, abbiamo fatto pressioni sui governi per assicurare una diffusa consultazione con le popolazioni locali e promozione di una politica che metta al di sopra di tutto l’eguaglianza nell’assistenza; abbiamo concordato una definizione ampia di popolazioni “colpite dallo tsunami” – a comprendere profughi o persone interessate dai conflitti in luoghi come lo Sri Lanka o Aceh – e abbiamo incoraggiato i governi a mettere in atto sistemi di verifica per le spese di assistenza possibili da consultare online.
Secondo,dobbiamo assicurarci che si facciano continui progressi in termini di riduzione del rischio nel 2006. Un sistema rapido di allerta per l’Oceano Indiano è un avanzamento benvenuto, ma rappresenta solo una parte della risposta.
Meno di un mese dopo che lo tsunami aveva colpito, 168 paesi si sono riuniti in Giappone e hanno concordato lo Hyogo Framework for Action, che fissa alcuni obiettivi strategici, priorità e azioni concrete da parte dei governi per ridurre gli effetti degli eventi calamitosi entro i prossimi dieci anni.
Ne fanno parte campagne di educazione nazionale perché le popolazioni riconoscano rapidamente i segnali di disastro incombente, una migliore pianificazione di uso del suolo per evitare investimenti in zone pericolose, regole comuni per un’edilizia più resistente e il ripristino di alcuni essenziali elementi di prevenzione ambientali come le mangrovie.
Queste innovazioni richiedono politiche e impegni per le risorse, tutte cose ancora da fare.
Terzo, non possiamo ignorare l’importanza della riconciliazione politica, della pace e del buon governo per il successo della ricostruzione.
Ad Aceh, lo tsunami ha obbligato i leaders politici a riconoscere che i problemi che alimentavano il conflitto nel paese erano meno urgenti di quanto invece univa la popolazione.
L’accordo di pace ha molto migliorato le prospettive di ricostruzione in Indonesia. La riconciliazione in Sri Lanka avrà risultati simili. In tutta la regione, le riforme politiche saranno una componente critica di una ricostruzione sostenibile.
Naturalmente, quest’anno ci sono stati altri disastri naturali oltre allo tsunami, e i loro strascichi dolorosi dimostrano la necessità di un maggiore coordinamento internazionale e cooperazione.
Il recente terremoto in Pakistan è un duro promemoria del bisogno di sostenere la creazione di un Global Emergency Fund che offra aiuti umanitari alle popolazioni e governi colpiti con risorse sufficienti ad iniziare il lavoro di salvataggio delle vite entro 72 ore da qualunque crisi.
Lo tsunami e quanto è successo dopo dimostrano sia la fragilità della vita umana, sia la forza e generosità dello spirito umano quando si lavora insieme per ricominciare.
Un anno fa, milioni di persone comuni in tutto il globo concorsero negli aiuti immediati alle comunità devastate dallo tsunami.
Ora la sfida collettiva è quella di finire il lavoro, lasciando comunità più sicure, pacifiche, forti. Non saremo soddisfatti finché questo lavoro non sarà concluso.
L'anno prossimo, il Dpef, Documento di programmazione economica e finanziaria, potrebbe essere corredato da un indicatore del prodotto interno lordo o Pil, in salsa ambientalista. Gli è stata anche trovata una sigla, «Pila», equivalente, appunto a Pil, in senso ambientale. Non è la questione trascurabile, la nominalistica perdita di tempo che sembra a prima vista, tanto che ieri alla camera dei deputati è stata illustrata una proposta di legge depositata da alcuni parlamentari e controfirmata da 100 di loro. Il Pil ambientale ha una lunga strada da percorrere, ma nasce sotto buoni auspici.
I due promotori sono deputati della sinistra ds, Valerio Calzolaio, già sottosegretario all'ambiente nella passata legislatura e Fabio Mussi, attualmente vicepresidente della camera e allora capogruppo. I due deputati hanno scritto una lettera a Romano Prodi per informarlo dell'iniziativa e sottolinearne i punti salienti, impegnando fin d'ora l'eventuale futuro governo ad agire per la costruzione del Pila. Un passo di questa lettera, la critica al Pil felicemente regnante è molto significativo (tanto che lo riportiamo in corsivo):
«Il Pil non sottrae il deprezzamento del capitale prodotto, il Pil non considera l'impoverimento del capitale naturale, il Pil indica alla pari cose buone e cattive, servizi utili e inutili purché prodotti e venduti, il Pil misura insieme e allo stesso modo prodotti che hanno effetti opposti e prodotti che si distruggono vicendevolmente (gli autoveicoli e gli effetti degli incidenti stradali, le mine e lo sminamento), il Pil misura come voce attiva il consumo delle risorse (anche quelle, tante, finite o in via di esaurimento), il Pil include le armi, il Pil trascura ogni servizio o transazione gratuiti, il Pil include le spese "difensive" (le spese per sanare gli effetti dell'inquinamento ad esempio), il Pil non valuta danni ed effetti di lungo periodo, il Pil non dice se il prodotto serve bisogni che sono anche diritti (cibo, medicine, vestiti) per chi non ne ha abbastanza. Se si abbatte una foresta aumenta il Pil...».
E' presto per dire come Prodi accoglierà la letta aperta di Mussi e Calzolaio. Se dirà «sono d'accordo» sarà meglio sospettare di lui, perché nella lettera - come prova il lungo passo che abbiamo trascritto - viene messo in dubbio, attraverso il Pil, tutto il consolidato sistema di interessi e valori, tutto l'inno alla crescita indifferenziata che ogni giorno viene riproposta. La critica al berlusconismo finora non ha mirato tanto alle scelte, quanto ai tempi, ai modi e alle priorità.
I 100 deputati, tutti del centro sinistra e rappresentanti tutti i partiti, da Acquarone dell'Udeur a Folena di Rifondazione, hanno mostrato di ritenere maturo il tempo per aprire una discussione sul principio stesso della macro economia.
Li rappresentavano ieri in una conferenza stampa i due promotori, Calzolaio e Mussi che hanno brevemente spiegato - stretti fra un voto di fiducia e l'altro - la tecnica con la quale procedere.
Nel primo tempo il massimo risultato ottenibile sarebbe quello di affiancare (diciamo: tra parentesi) alle temute cifre, ai sofferti spostamenti del Pil, di uno «zero virgola...» in più o in meno, il dato del Pilacalcolato dall'Istat. Mettendo a disposizione un indice sintetico dei costi ambientali affrontati, si informa e si incuriosisce il pubblico. E lo si spinge a scegliere, facendo conoscere il prezzo reale della crescita in termini di inquinamento, sottrazione delle risorse naturali irripetibili, spreco di acqua e di energia non rinnovabile; e viceversa, i valori del risparmio e dell'introduzione di energie rinnovabili. Ben presto Pila si libererà dalla parentesi.
Titolo originale: Urban design: the issue explained – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Della progettazione urbana [ urban design] quasi nessuno aveva sentito parlare, fino a dieci anni fa. Ora è considerata un aspetto centrale dell’iniziativa del governo per le città sostenibili: creazione di vitali quartieri popolari con buoni servizi pubblici e una specifica identità spaziale [ sense of place]. Ma restano parecchi dubbi su quanto la realtà possa corrispondere alla retorica.
La progettazione urbana, a cui talvolta ci si riferisce definendola “arte di costruire luoghi” coinvolge molte professioni, come architetti, urbanisti, paesaggisti, e anche ingegneri stradali. Si occupa dello spazio pubblico, degli interstizi fra gli edifici, e contemporaneamente anche dell’aspetto degli edifici stessi.
Uno dei suoi obiettivi principali è la pianificazione generale: una supervisione delle caratteristiche fisiche dei grandi spazi destinati per il futuro a urbanizzazione o trasformazione. I masterplans mostrano in che modo i nuovi interventi si adattino agli edifici esistenti e offrono una cornice alla progettazione di quelli nuovi nell’area.
La prestigiosa Urban Task Force, presieduta dall’architetto Lord Rogers, afferma nel suo rapporto del 1999 che le città britanniche sono “molto indietro” rispetto a quelle dell’Olanda, della Germania, della Scandinavia, in termini di qualità della vita urbana e dell’ambiente costruito.
Si afferma, nel rapporto, che un miglioramento delle forme di progetto è vitale per un “rinascimento urbano” che inverta la tendenza all’abbandono delle zone più interne e tuteli la campagna dall’insediamento diffuso.
Il governo ha risposto dando il proprio sostegno ufficiale allo urban design nel 2003, con la pubblicazione del piano Sustainable Communities del vice primo ministro John Prescott, e il suo impegno a costruire centinaia di migliaia di nuove abitazioni entro il 2016.
Si afferma: “Desideriamo vedere un cambiamento netto nella qualità della progettazione. Ad essa si deve affiancare e integrare un appropriato masterplanning per tutti i principali insediamenti”.
In molti dei suoi discorsi, Prescott ha anche auspicato ripetutamente una maggior quantità di edifici che possiedano quello che lui chiama “ fattore WOW”.
Questo auspicio ovviamente è molto sostenuto dall’ambiente degli architetti, ma molti di loro sottolineano come le politiche pubbliche stiano rendendo sempre più difficile realizzare una buona progettazione. La maggior parte degli edifici pubblici si realizzano tramite i progetti di iniziativa privata, che tendono ad emarginare architetti e architettura.
La qualità media di molte realizzazioni finanziate privatamente, in particolare gli ospedali, è stata criticata dall’osservatorio governativo della Commission for Architecture and the Built Environment.
C’è anche la preoccupazione che in Gran Bretagna non esistano le competenze per creare create nuovi quartieri ben progettati, soprattutto negli enti locali. Per affrontare il problema, è stata istituita una nuova “ academy for sustainable communities” a Leeds.
Si teme che la realizzazione di abitazioni di iniziativa pubblica sacrifichi la qualità per la quantità, come già accaduto nel boom edilizio degli anni ’60 e ‘70. Queste paure sono aumentate dalla volontà del governo di costruire case con sole 60.000 sterline.
Ma i ministri insistono sul fatto che si può ottenere qualità anche a basso costo. Nel tentativo di fissare standards migliori, hanno sostenuto i discussi criteri progettuali utilizzati a Poundbury, il villaggio finto del Principe Carlo, e a Seaside in Florida, lo sfondo del film satirico The Truman Show.
Questi criteri sono proposti dall’influente movimento del new urbanism, un gruppo anti- sprawl nato in America a difendere un tipo di vita urbana orientato alla pedonalità e alle zone centrali.
Ma molti, negli ambienti della progettazione, sostengono che questi criteri soffocano l’innovazione, e impongono uno stile.
Il gruppo coordinato da Lord Rogers afferma che entro il 2021 si spera l’Inghilterra possa “godere di una fama mondiale nel campo dell’innovazione nel progetto urbano sostenibile ad alta qualità”. Un obiettivo che pare piuttosto lontano, ma almeno è nato un dibattito, in Gran Bretagna, sulla progettazione urbana.
Nota: il testo originale al sito del Guardian (f.b.)
Titolo originale: Livingstone promises green Olympics – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Il sindaco di Londra, Ken Livingstone, oggi ha promesso che le Olimpiadi del 2012 saranno i giochi più orientati all’ambiente che si siano mai tenuti.
Presentando una bozza di linee guida da seguirsi nella realizzazione delle strutture olimpiche, Livingstone ha fissato una serie di ambiziosi obiettivi riguardo alla rigenerazione che l’evento porterà nella zona orientale di Londra.
Ha affermato che tra gli impegni dei contractors ci sarà molto più che non assicurare il completamento in tempo utile ed entro i limiti di bilancio delle opere previste.
”I Giochi di Londra dovranno essere i più sostenibili di tutti i tempi: lasciare un’eredità in termini di posti di lavoro stabili, abitazioni, miglioramenti ambientali per l’est di Londra, il resto della città e tutta la Gran Bretagna” ha detto.
Le linee guida si soffermano sul fatto che le strutture abbiano le migliori caratteristiche progettuali possibili. Verranno utilizzati i concorsi di architettura per scegliere i progettisti degli stadi e degli altri edifici principali del complesso di Stratford.
L’intero documento di intenti mira ad assicurare che le strutture olimpiche possano essere utilizzate anche dopo i giochi. Si afferma che le Olimpiadi non devono creare “ elefanti bianchi”.
Si ammette che la rigenerazione della città sede dei giochi non è conseguenza automatica del fatto di ospitarli. Letteralmente: “La storia delle scorse edizioni mostra chiaramente che questo risultato non si verifica come naturale effetto dei Giochi”.
Si afferma che gli organizzatori sono intenzionati a unire risultati ambientali come quelli dell’edizione di Sydney, ad una rigenerazione urbana come quella realizzata a Barcellona.
Secondo le proposte nuove regole, i potenziali contractors devono dimostrare il proprio impegno a rapporti di lavoro etici, o all’uso di materiali riciclati. Si ricorda anche che l’intero processo sarà sottoposto alle nuove norme sulla libertà di informazione.
Si suggerisce anche, che nel quadro dei posti di lavoro generati dai Giochi, si dia la precedenza ai residenti locali. Sarà sviluppato un programma di formazione professionale, per dare maggior possibilità di inserirsi ai vari livelli dell’offerta.
Livingstone ha aggiunto: “Una delle priorità dei prossimi setta anni sarà quella di assicurare a popolazione e imprese locali i massimi benefici”.
Il sindaco ha anche annunciato l’avvio di un progetto da 70 milioni di sterline per interrare le linee elettriche nell’area del Villaggio Olimpico.
Nota: il testo originale al sito del Guardian; di un certo interesse anche il discorso programmatico del Sindaco sulle Olimpiadi, di oltre due anni fa ; su Eddyburg vari articoli sull’argomento, come questo sul problema della trasparenza negli appalti (f.b.)
Titolo originale: Can Wi-Fi make it in Manhattan? – Traduzione di Fabrizio Bottini
Se Wi-Fi può farcela a New York, può farcela dappertutto.
Chi decide a New York City sta pensando parecchio all’uso della tecnologia Wi-Fi 802.11 o di altre, per dare accesso alla banda larga a circa 8 milioni di cittadini.
L’interesse di New York per la banda larga municipale arriva proprio quando le voci in città sullo Wi-Fi hanno raggiunto un punto di fibrillazione. Alte città come Filadelfia, New Orleans o San Francisco, si sono già incamminate sul percorso Wi-Fi, ma se New York costruirà una propria rete, sarà il più importante dispiegamento di Wi-Fi municipale del paese, forse del mondo.
”Non è un problema di se, ma di quando”, dice Craig Mathias, analista del Farpoint Group di Ashland, Massachusetts. “Tutte le grandi città avranno qualche tipo di accesso Wi-Fi sul proprio territorio. Diventerà una cosa che ci aspetta, come il servizio dell’acqua o del telefono. Ma il caso di New York è certamente una sfida dal punto di vista tecnologico. È possibile che non si riesca a portarlo in ogni angolo”.
Al momento New York è alle primissime fasi di definizione della propria strategia per la banda larga. Mentre città come Filadelfia, New Orleans o San Francisco stanno avanzando a pieno ritmo nei propri progetti, New York sta ancora cercando di istituire una commissione che studi il problema.
Lunedì la consigliera comunale Gale A. Brewer, presidente del comitato per le Tecnologie di Governo, ha tenuto un’audizione su una proposta di delibera per costituire una speciale commissione che informi il sindaco Michael Bloomberg e il consiglio su come la città possa realizzare un accesso a prezzi contenuti alla banda larga per i cittadini. Obiettivo della commissione sarà acquisire dati sulle varie opzioni tecnologiche disponibili e informare il pubblico. Il voto sulla proposta è fissato per il 21 dicembre.
”Più riunioni facciamo, meglio capiamo quanto sia complesso il problema” ha dichiarato la Brewer in un’intervista dopo l’incontro. “Il pubblico deve essere informato su quello che stiamo tentando di fare. E desidero proprio che ci chiedano di agire. Ma per farlo, devono conoscere il linguaggio della tecnologia, e l’unico modo per farlo è una discussione pubblica”.
Sino a questo momento, Bloomberg non ha sostenuto la nuova proposta, ma la Brewer afferma di contarci per il futuro.
Brewer e altri vedono nella Wi-Fi o in altre tecnologie per la banda larga – come WiMax lungo i cavi elettrici, o la concorrente DSL – un modo per stimolare lo sviluppo economico. Solo il 40% circa dei newyorkesi utilizza il servizio di banda larga, perché è troppo costoso, ha dichiarato nel corso dell’udienza.
Superare le divisioni digitali
Come successo a Filadelfia e a San Francisco, i consiglieri di New York vogliono che si realizzino sistemi in grado di superare le barriere digitali, in modo cha anche i residenti più poveri della città possano avere accesso ad una connessione internet ad alta velocità. Andrew Rasiej, imprenditore di nuove tecnologie e da lungo tempo consulente tecnologico per il comune e l’amministrazione statale, ha testimoniato di fronte al comitato, lunedì. Rasiej, già candidato a diventare avvocato cittadino di New York City nel 2005, sosteneva nella sua campagna come centrale l’idea di un accesso Wi-Fi su tutto il territorio. Anche se ha perso le elezioni, Raisiej pensa che la sua campagna abbia contribuito a portare alla ribalta politica di New York la questione Wi-Fi.
”Siamo nella medesima situazione in cui ci trovavamo nel 1934, quando il governo federale rese universale l’accesso al telefono” dice. “La banda larga è la cornetta dei nostri tempi. È da lungo tempo che la città deve istituire qualche tipo di comitato che si occupi della questione. E il tentativo di oggi è un primo positivo passo in avanti”.
I programmi urbani per la banda larga sono una questione all’ordine del giorno da un paio d’anni, e molti piccoli centri hanno cominciato a realizzare la propria rete di fibre ottiche per le abitazioni o di Wi-Fi. Ma i critici sostengono che le amministrazioni municipali non dovrebbero impegnarsi nella costruzione e gestione di una propria rete, specialmente se ciò significa usare il denaro dei contribuenti. Compagnie telefoniche e operatori del cavo in tutto il paese hanno efficacemente esercitato pressioni su alcuni stati perché si approvassero norme restrittive per questo tipo di reti.
Anche se lo stato di New York non h ain programma alcuno di questi provvedimenti, gli esperti a New York City dicono di essere consapevoli del problema.
”La cosa peggiore che può succedere alla città sarebbe tentare di costruire la rete e non riuscirci” sostiene Rasiej. “Farebbe arretrare l’intero movimento per lo Wi-Fi municipale”.
Molti consiglieri comunali affermano di essere contrari a spendere denaro per qualunque struttura di banda larga. Ma altri insistono che potrebbe giocare un ruolo importante nella creazione di un mercato più concorrenziale per i servizi connessi. Esperti di tecnologie e attivisti locali ritengono che la municipalità possa impegnarsi in una collaborazione pubblico-privato, così come pensata in altre città.
Ad esempio EarthLink, che ha vinto gli appalti a Philadelphia, Portland, Oregon, e Anaheim, California, sostiene il progetto per una rete municipale. Offrirebbe servizi ai residenti e banda larga alla città per usi municipali e di emergenza. La EarthLink prevede anche di offrire accesso a prezzi ridotti ad altri ISP [ Internet Service Provider], con più opportunità per gli utenti. Da parte loro, le città offrirebbero accesso ai propri spazi in modo tale che EarthLink possa installare i sistemi radio wireless.
San Francisco, che è ancora nella fase di esame delle varie offerte per la propria rete wireless, sta considerando un modello simile, dove ci sia una terza parte a costruire e gestire la rete.
Alcuni esperti di tecnologie temono che lasciando la questione della banda larga esclusivamente al settore privato si possa soffocare l’innovazione a New York City mettendo la città in una posizione di forte svantaggio per quanto riguarda l’attirare nuove attività.
”L’idea che il settore privato possa pensarci, semplicemente non funziona”, dice Bruce Bernstein, presidente della New York Software Industry Association, pure ascoltato dalla commissione. “Nessuno è sicuro che il progetto di Filadelfia funzionerà davvero. La EarthLink ha un programma di sviluppo sotto attacco. Ma i tentativi della città stanno già attirando imprese. Non prevedo un esodo di massa verso Filadelfia, ma New York potrebbe avere dei problemi se non facciamo niente”.
Lo scandalo silenzio-assenso; ecco come si distrugge un Paese
Un nuovo intervento su l’Unità (del 10 marzo 2005) contro un provvedimento gravissimo. Che la sinistra comprenda gli erori che ha fatto e le direzioni di lavoro che ha incoraggiato quando è stata al governo?
Con la Super DIA, cioè con la Dichiarazione Inizio Attività molto estesa e col meccanismo del silenzio/assenso in caso di mancata o tardiva risposta degli organi tecnici di controllo e di tutela entro 30 giorni, il governo Berlusconi finirà per intaccare le fondamenta di parti essenziali dello Stato. «Possiamo prenderlo sul serio?», si era chiesto un grande esperto, un ex ministro, Sabino Cassese, sul Corriere della Sera. «Se dovessimo prenderlo sul serio, lo Stato avrebbe chiuso i battenti».
In effetti è in questione il valore stesso della legalità. Ora ne sembrano esclusi beni e paesaggi vincolati. Ma per tutti gli altri la svolta (nel buio) sarà davvero epocale. Non bastavano, e avanzavano, i vari condoni, le varie sanatorie?
«La primissima bozza del provvedimento» prevedeva - l'ha confermato ieri alla Camera il ministro Urbani - l'estensione della «semplificazione», col silenzio/assenso incorporato, al settore, delicatissimo, dei beni culturali e ambientali. Lo stesso ministro, riconoscendo che il vincolo è «perfettamente conforme alla migliore tradizione liberale di questo Paese», ha escluso, sulla base dei dati ricevuti dagli uffici, che la cura Berlusconi-Baccini possa estendersi al patrimonio culturale e al paesaggio. «Queste sono le considerazioni che ribadirò al prossimo consiglio dei ministri». Parole tranquillizzanti. Bisognerà vedere in quale conto verranno tenute al tavolo del governo. Anche ai vari condoni Urbani disse di no. Senza essere, malauguratamente, ascoltato.
Che cosa verrà approvato. Del provvedimento di "semplificazione" sono girate almeno tre versioni. Dovrebbe trattarsi di un decreto-legge, quindi subito esecutivo, senza tanti dibattiti preventivi, inserito nelle misure sull'incremento della competitività.
Quando verrà approvato. C'è chi dice al prossimo consiglio dei ministri, ma non è certo. Allora quando? Quando le forze di governo troveranno una non facile intesa politica. Se si tratterà di disegno di legge, i tempi, ovviamente, si allungheranno.
Carta di riserva. In ogni caso, il governo ha presentato una carta di riserva: alla Commissione Affari Costituzionali del Senato, da metà novembre, è in discussione un emendamento di «semplificazione» che prevede forme di autocertificazione in tutti i campi, escludendo difesa, pubblica sicurezza, salute, immigrazione, giustizia Fino a ieri vi erano inclusi pure i beni culturali e ambientali vincolati. Con 30 giorni per dire un sì o un no. Altrimenti il silenzio-assenso, cioè mano libera alle speculazioni e alle manomissioni più disastrose. Anche sui lavori del Senato bisogna quindi vigilare molto attentamente. Come chiede, allarmato, il senatore Sauro Turroni.
Beni culturali. Esclusa, stando ad Urbani, l'estensione della Super DIA ad immobili e ambienti vincolati, rimangono taluni dubbi. L'articolo 5 - secondo la lettura fatta da «Patrimonio SOS» che ha promosso con Italia Nostra, Wwf, FAI, ecc. un vibrante appello di protesta - conferisce al Commissario straordinario preposto a progetti strategici poteri altrettanto straordinari, senza alcun bisogno di convocare Conferenze di servizi con le Soprintendenze. Mano libera quindi, totalmente? In un altro articolo, il controllo doganale viene «semplificato» anche per i beni culturali. Misura gravissima: il traffico clandestino di opere d'arte e soprattutto di preziosi reperti archeologici in partenza dall'Italia è fiorentissimo, anche se sono ormai tanti i recuperi operati da Carabinieri e Finanza. Allentando però le maglie, «tombaroli» e mercanti ne trarranno vantaggi. Verrà cancellato o rimarrà?
Cosa succede al Ministero. La presa di distanza, piuttosto netta stavolta, di Giuliano Urbani dallo smantellamento dei vincoli su beni culturali e ambientali (la prima legge sul paesaggio reca la firma del massimo filosofo liberale del '900, Benedetto Croce) ha suscitato echi positivi. Si attende però il consiglio dei ministri.
Un j’accuse. Ieri è stato tuttavia reso pubblico un autentico j'accuse contenuto nella lettera inviata a Urbani da Libero Rossi, segretario della Cgil Funzione pubblica-Beni culturali. In essa si sottolineano autentici «buchi neri» come: a) la mutilazione del Nuovo Codice «dei suoi contenuti più interessanti e più rigorosi» attraverso la condonabilità degli abusi paesaggistici; b) il «salto nel buio» della riforma del Ministero, con Direzioni regionali istituite con personale rastrellato da Soprintendenze di settore già carenti di tecnici e quindi ulteriormente indebolite nel loro ruolo fin qui essenziale sul territorio; c) una politica molto sbilanciata a favore dell'imprenditoria privata, «finalizzata a togliere all'Istituzione Pubblica il proprio ruolo centrale nel sistema della tutela e conservazione»; d) la riduzione drastica degli investimenti programmati dal Ministero, vicina al 70 per cento nel settore dei beni architettonici e paesistici (il più minacciato); e) in quattro anni, nessun aumento né aggiornamento della (scarsa) dotazione di mezzi («un qualsiasi ufficio comunale di un piccolo paese è più dotato di mezzi di una grande Soprintendenza»)... Probabilmente il Bel Paese - quello già protetto da vincoli - scamperà allo smantellamento dei controlli pubblici preventivi. Ma, come si vede, la tutela si è già tanto indebolita dal 2001 ad oggi. Come non era mai successo. Una svolta negativa epocale.
Un mostro di 318 articoli e centinaia di pagine è approdato nel Consiglio dei ministri. E potrebbe stravolgere larga parte della legislazione ambientale italiana. In pochi minuti Berlusconi e sodali hanno messo la firma e il testo ha iniziato a far danni istituzionali. Ora devono avere il parere (non vincolante) della conferenza unificata con Regioni e Comuni; sì sono inventati un termine di venti giorni (immotivato e irricevibile). Poi devono avere il parere a maggioranza di centrodestra delle commissioni parlamentari; deputati e senatori non emendano né votano le singole norme, sono vincolati ad un'opinione in soli 30 giorni. Poi un nuovo Consiglio dei ministri potrebbe emanare il decreto definitivo, diciamo a metà gennaio. Speriamo che non accada, che non si arrivi. Ho cercato di seguire la vicenda passo passo, dedicandovi la rubrica una decina di volte in questi quattro anni. Berlusconi e Matteoli avevano chiesto nel 2001 una delega a riscrivere tutto, ottenendola all'inizio del 2005, dopo aver scelto l'inattività, nell'attesa. Sono stati autorizzati a predisporre schemi di riordino di sette materie con l'ausilio di una commissione nominata discrezionalmente dal ministro. La commissione è stata costretta a lavorare poco e male, amici del ministero lo hanno fatto al suo posto. Hanno preparato cinque schemi con decine di allegati, con discutibili abbinamenti e un clamoroso immotivato vuoto che riguarda le aree protette. Il Parlamento, mentre attendeva senza notizie, ha chiesto di esaminarli uno per volta, una volta arrivati. Allora li hanno cuciti insieme, così, per ragioni di opportunismo politico. Potremmo trovarci con un'unica legge di centinaia di articoli che, però, non è un testo unico (ad esempio, restano fuori energia, rumore, parchi), non è un riordino (nelle materie affrontate restano in vigore altri testi), non è un coordinamento (mancano definizioni univoche e ordinate, si copiano norme già in vigore, vi sono innumerevoli disposizioni di dettaglio), non è un'integrazione coerente (qui si centralizza là si decentra, qui si liberalizza là si statalizza, ovunque si rinvia ad ulteriori attuazioni governative), non è un impegno di organiche politiche concrete (ovviamente mancano disposizioni finanziarie). In breve, sarebbe una controriforma in contrasto con l'Europa, capace solo di aggiungere confusione, lasciare nell'incertezza per anni ogni privato e ogni amministrazione, incrementare conflitti amministrativi e giudiziari. Giunte e parlamentari non sono in grado di bloccarla; intanto possono denunciare il rischio e condizionare il percorso. Innanzitutto Regioni e Comuni: non ci sono le condizioni minime per un esame serio di un "mostro" che espropria competenze e travolge centinaia di leggi, enti, controlli regionali. È utile presentare una piattaforma-appello di richieste al governo sul calendario e nel merito della delega, non limitandosi al parere negativo. Lo stesso Parlamento dovrebbe essere investito degli evidenti elementi di incostituzionalità: la delega è stata approvata non nel merito ma con la richiesta di fiducia; lo schema di decreto unico viene esaminato durante la sessione finanziaria, in pochi giorni utili, su un testo che non rispetta i principi della delega stessa. Le presidenze delle assemblee parlamentari non hanno nulla da dichiarare? Come può essere al più presto coinvolta la Corte costituzionale? I parlamentari della maggioranza (come tutti a fine mandato) possono anteporre un qualche senso dello Stato o, almeno, suggerire un percorso legislativo che coinvolga formalmente i parlamentari della maggioranza e dell'opposizione nella prossima legislatura? Possibile che si debba solo "salvarsi" con i due anni di verifica previsti dalla stessa legge delega, accettando un lungo periodo di indeterminatezza di norme e politiche? E gli stessi vertici dell'Unione colgono la gravità della situazione? Verrà promossa una manifestazione a metà dicembre contro le nere cronache ambientali del governo Berlusconi, per lo sviluppo sostenibile?
All'attacco sistematico verso l'insieme delle conquiste sociali e dei diritti portato dalla maggioranza in nome di un liberismo selvaggio non poteva mancare l'aggressione al pilastro su cui si è retto finora il governo delle città. La legislazione consolidata era infatti basata sulla prevalenza degli interessi pubblici su quelli privati: un concetto scontato dal tempo degli Stati liberali che deve però apparire al governo in carica come un'intollerabile provocazione.
Nell'ultimo scorcio del 2003 la competente Commissione della Camera dei deputati ha iniziato a discutere la riforma del governo del territorio che nella precedente legislatura non era stata portata a conclusione dai governi ulivisti. C'è da rimpiangere l'equilibrata proposta allora redatta di fronte al testo di maggioranza steso dall'on. Lupi. Questi, negli anni Ottanta, aveva svolto l'importante ruolo di assessore all'urbanistica del Comune di Milano: proprio in quegli anni "da bere" prende corpo la nuova urbanistica milanese che si basa, come noto, sulla contrattazione tra proprietà fondiaria e l'organo esecutivo comunale. Il metodo dell'urbanistica, la partecipazione dei cittadini, la faticosa ricerca degli interessi collettivi è un inutile impaccio da cancellare senza scrupoli.
Da una tale esperienza non poteva nascere nulla di buono, ovviamente. Vediamo alcune "perle" della citata proposta di legge. All'articolo 3 viene introdotto il concetto di "soggetti interessati": nell'attribuire alle amministrazioni pubbliche la responsabilità della pianificazione, si dice però che questa funzione deve essere svolta "sentiti i soggetti interessati" e ai quali - si noti bene - " va riconosciuto comunque il diritto di partecipazione al procedimento di formazione degli atti". Non si tratta come potrebbe apparire dell'universalità dei cittadini, e cioè di coloro che vivono le contraddizioni e le disfunzioni urbane. Niente affatto, nella relazione di accompagnamento si specifica infatti che si sta parlando "dell'operatore privato" equiparato alla pubblica amministrazione nei doveri verso "il cittadino e la persona". E' dunque l'impresa privata insieme al potere democratico ad assumere il ruolo di attore delle trasformazioni urbane! Un'aberrazione che rappresenta una devastante innovazione nella prassi legislativa del paese.
Di fronte a questa involuzione del concetto stesso di democrazia una parte dello schieramento progressista sta cercando di costruire un argine e ha formulato varie proposte alternative nella stessa Commissione parlamentare. Del resto, di fronte all'apparire di questa nuova filosofia nel governo della città di Milano, la sinistra ebbe la forza di contrapporre un modello alternativo, basato sulla prevalenza dell'interesse pubblico e sul metodo dell'urbanistica. Si affermò in particolare che l'urbanistica contrattata era una regalo alla rendita speculativa fondiaria mentre penalizzava il mondo delle imprese edilizie. Una precisa scelta di campo a favore della proprietà parassitaria che non trova riscontro negli altri paesi europei.
Il grave rischio che si sta correndo in questo frangente è che una parte dello schieramento ulivista si è associato a tale devastante proposta: nel mese di dicembre, infatti, l'on. Lupi ha presentato un testo coordinato con quello presentato da un deputato della Margherita, l'on. Mantini. Ma l'apparentemente inarrestabile cupio dissolvi di una parte del pensiero progressista non finisce qui. Tutto l'Istituto nazionale di Urbanistica, come un sol uomo, ha affermato a più riprese che il testo proposto da Forza Italia è una buona base per poter approvare celermente la nuova legge. Il suo presidente onorario, Giuseppe Campos Venuti, peraltro, oltre a ribadire l'attenzione verso quel testo, ha paradossalmente speso molte argomentazioni nel denigrare e tentare di demolire la proposta dei Ds dell'on. Sandri. In verità sfugge come la sinistra possa accettare una discussione che parte sulla restrizione dei diritti di tutti i cittadini. Più in generale, peraltro, non si comprende come si possa discutere con una maggioranza di governo che ha approvato il terzo condono edilizio e sta svendendo il patrimonio storico e artistico del paese.
La vicenda della nuova legge sul governo del territorio, dunque, rientra nel più generale attacco verso le conquiste del mondo del lavoro, nella volontà sistematica di smantellare lo stato sociale - dalla scuola alla sanità - che garantivano quanto meno la possibilità di accesso ai servizi. E la ripresa della discussione a gennaio del 2004 rappresenta una questione centrale su cui si può ricostruire un profilo dello schieramento progressista.
Gli «energumeni del cemento armato»: Vezio De Lucia rispolvera l’espressione che Antonio Cederna usava nelle sue prime battaglie per il Bel Paese, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, per definire coloro i cui interessi, sostiene, stanno di nuovo trionfando in questo 2005. Classe 1938, «da sempre», sono le sue parole, impegnato con Italia Nostra, De Lucia - l’«urbanista militante», definiamolo così, direttore generale dell’Urbanistica del ministero dei Lavori pubblici fin quando, essendo troppo scomodo, non fu destituito dal ministro dc Giovanni Prandini, poi storico assessore a Napoli con la prima giunta Bassolino, autore di una messe di saggi che, si è soliti dire, hanno spiegato l’urbanistica a chi urbanista non era - dalla Sala dello Stenditoio del complesso del San Michele lancia un appello. L’associazione celebra con un convegno il primo mezzo secolo di vita e qui circola questo documento contro la legge di riforma del territorio che, in esame all’VIII Commissione della Camera, è prossima ad andare in aula. Un appello che Italia Nostra sottopone alle firme dei cittadini. Ma i cui interlocutori politici sono da un lato i sindaci (i primi, spiega De Lucia, a essere spossessati dei loro poteri in materia urbanistica, se la legge passa); dall’altro però i partiti e la stampa di opposizione, colpevoli - giudica - di un interesse tiepido o nullo nei confronti della materia. La domanda sottesa è: per ignoranza o sostanziale concordia, su questo tema, col centrodestra? In vista delle elezioni, perora l’appello, i partiti dovrebbero chiarire come la pensano e cosa fanno «su un argomento così rilevante per il futuro del paese, le condizioni di vita dei suoi abitanti, la sorte stessa della democrazia».
De Lucia, il cinquantenario di Italia Nostra cade in un anno particolarmente sciagurato, quanto alle tematiche che l’associazione ha a cuore: il 2004 ha visto il ciclone Urbani sui beni culturali, il condono edilizio e il decreto delegato per la tutela ambientale; il 2005 nasce con la rimozione di Adriano La Regina dalla soprintendenza archeologica di Roma. Per vederla più rosea, diciamo «lunga vita a Italia Nostra»: di associazioni, come la vostra, che si battono per la tutela, ce n’è più che mai bisogno. La riforma del governo del territorio in esame a Montecitorio aggrava o migliora la situazione?
«Si va di male in peggio. La “legge Lupi” così viene chiamata perché l’estensore ne è Maurizio Lupi, deputato di Forza Italia, già assessore all’urbanistica al Comune di Milano e inventore di quello che io chiamo “rito ambrosiano”, ovvero l’urbanistica contrattata. Un’urbanistica che non vede più l’esclusiva competenza, in materia di decisioni, del potere pubblico, ma dove il pubblico contratta con gli interessi immobiliari».
E nel capoluogo lombardo il «rito ambrosiano» ha già prodotto danni?
«Milano è una città dove il rapporto classico tra piano regolatore e attività edilizia privata si è capovolto: sono i progetti edilizi, una volta approvati, a dettare il piano regolatore».Esportato su scala nazionale il «modello Lupi» dunque, è la sua tesi, produrrà sconquassi: quali?
«Vado in ordine di gravità. Primo: la legge cancella gli standard urbanistici. Cioè quei vincoli che sono stati conquistati grazie alle grandi battaglie degli anni Sessanta per migliori condizioni di vita sul territorio. Il decreto del 1968 garantiva una sorta di “diritto alla città”, espresso sotto forma di superfici minime assicurate a ogni cittadino italiano per ciò che concerneva i servizi essenziali».
A quanti metri quadri di servizi abbiamo diritto in quanto cittadini? Quanti ne stiamo per perdere?
«Nove metri quadrati di verde pubblico di quartiere e quindici metri quadrati su scala territoriale, due metri quadrati e mezzo di parcheggio, poi l’istruzione e altre attrezzature».
E invece, lo scenario futuro che cosa prefigura?
«Siamo al secondo punto: le scelte in materia di uso del territorio non saranno più di esclusiva competenza del potere pubblico, ma deriveranno da “accordi negoziali con i soggetti interessati”. E gli “interessati” non sono la totalità dei cittadini, ma i portatori di interessi economici».I palazzinari?
«Sì, i palazzinari. Terzo punto: la tutela dei beni culturali e del paesaggio viene scorporata dalla disciplina urbanistica, non fa più parte della materia. E allora ricordiamo che alcuni dei grandi risultati ottenuti, anche da Italia Nostra, per esempio a Roma la tutela di duemila ettari dell’Appia Antica, già lottizzata ma restituita a esclusivo uso pubblico col piano regolatore del 1965; la salvezza delle colline di Firenze, Bologna, Bergamo, Napoli; il grande parco, milleduecento ettari, delle Mura di Ferrara: a Roma anche Tormarancia, lottizzata e salvata, invece, col suo valore archeologico e paesaggistico: sono realtà che, con questo nuovo regime, non ci sarebbero».
Ma la trattativa coi palazzinari, in sede di piano regolatore, non è un compromesso necessario? Questa legge non ha il merito di rendere trasparente quello che finora avveniva sottobanco?
«Io dico che le pagine più belle dell’urbanistica del dopoguerra sono state scritte con assoluta limpidezza. Gli esempi fatti prima senza quella limpidezza non ci sarebbero. Mentre da domani saremo “costretti” a contrattare con la proprietà fondiaria».
Un altro urbanista, Paolo Berdini, in un articolo su Aprile di gennaio sostiene che le radici di ciò che avviene oggi - il trionfo di una visione neoliberista che, scrive, rende «le città puro fattore di mercato lasciato al libero arbitrio della rendita fondiaria e immobiliare» - sono in epoche più lontane. A inizio anni Novanta. Ad allora va fatto risalire l’inizio di un processo che abbatte quello che possiamo chiamare il Welfare urbanistico. E che interessa i cittadini in modo primario: un processo che ha fatto lievitare in modo astronomico i costi delle case nelle aeree metropolitane; che, per questo motivo, ha portato tra il ‘91 e il 2001 un milione di italiani ad abbandonare le città; mentre l’imprenditoria immobiliare guadagnava da pazzi, se - questo è l’esempio che Berdini porta - a fine 2004 una cordata di immobiliaristi guidati da Francesco Paolo Caltagirone sono riusciti ad acquistare la Banca Nazionale del Lavoro, uno dei maggiori istituti di credito. E se, aggiungiamo noi, oggi tra gli investitori più dinamici nel mondo dei media, dei giornali, ci sono proprio loro, i «palazzinari».
De Lucia concorda con quest’analisi del suo collega Berdini?
«Certo. Se la proprietà immobiliare si sottrae al rischio dell’autonoma determinazione del potere pubblico cosa succede? Che si valorizza in modo vertiginoso».
E'normale che il tempo rompa verso la fine di agosto e quindi ci siano perturbazioni e temporali. E' molto meno normale che, ormai da anni, maltempo e piogge, che annunciano la fine dell'estate, abbiano sempre conseguenze così devastanti e drammatiche. Quest'anno è successo nell'Europa centrale e orientale, Austria, Svizzera e Romania purtroppo già contano morti, dispersi e migliaia di sfollati. Già sappiamo, però, che se i venti spingessero in Italia quella perturbazione le devastazioni e le conseguenze sarebbero altrettanto gravi. Di fronte al ripetersi di quelle che, una classe dirigente incolta e incapace, si ostina a chiamare calamità naturali, un interrogativo si pone: perché mai qualsiasi pioggia cada, normale o eccezionali che sia, le conseguenze per persone e cose sono sempre le più gravi? Intensità delle precipitazioni e loro concentrazione (in pochi giorni cade la pioggia di una stagione) ci dicono che è in corso un cambiamento climatico. Anche quest'estate abbiamo avuto segnali forti che evidenziano che il cambio di clima non è il futuro a cui dobbiamo prepararci, ma un drammatico presente da fronteggiare. Non ce ne parla solo la tragedia rumena, svizzera ed austriaca di questi giorni o il moltiplicarsi di tifoni ed uragani, che purtroppo colpiscono i paesi più poveri e meno responsabili delle alterazioni al clima, ma anche il drammatico scioglimento di un'area ghiacciata della Siberia grande come la Francia e la Germania, a cui la stampa nazionale non ha dedicato alcuno spazio. Insomma i fatti ci confermano che le previsioni del terzo rapporto Onu sul clima sono ormai una realtà con cui fare i conti. A nulla serve però attribuire al clima che cambia la responsabilità della tragedia che ha colpito l'Europa centro-orientale, soprattutto non è accettabile che il cambiamento climatico venga invocato come giustificazione da chi avrebbe dovuto agire e non l'ha fatto per fronteggiarlo.
Alle popolazioni rumene, svizzere ed austriache così duramente colpite la migliore solidarietà che si può esprimere è la denuncia delle inadempienze e del vuoto di strategie politiche con cui le classi dirigenti non solo politiche e non solo di governo hanno affrontato il cambiamento del clima. Kyoto, che rappresenterebbe solo un piccolo segnale di inversione di tendenza è sì entrato in vigore, ma per ora le emissioni che alterano il clima aumentano anziché diminuire. In realtà il mito dell'eterna crescita continua ad essere l'orizzonte culturale delle politiche economiche delle destre come delle sinistre, senza alcuna preoccupazione di quanti gas climalteranti si manderanno in atmosfera per realizzarla. Ed allora si dia un segnale alle popolazioni colpite convocando un vertice europeo in cui si prendano decisioni su una nuova politica energetica basata sul risparmio e sulle fonti rinnovabili. Ma non è solo il cambiamento climatico e l'incapacità evidente di governarne le manifestazioni la causa di tante devastazioni. Anzi più si guarda e si va a fondo della questione e più emergono le colpe: di territori incapaci di assorbire le piogge perché la speculazione li ha ricoperti di cemento, asfalto e costruzioni, o di fiumi le cui aree di pertinenza, quelle in cui dovrebbero espandersi le piene risultano invece costruite, coltivate, infrastrutturate pesantemente, o di colline rase al suolo da un'agricoltura industriale parassitaria ed eccedentaria, o di un'attività edificatoria senza soste e di un'abusivismo sempre tollerato e sanato.
Da più parti si invocheranno nuove opere idrauliche per governare fiumi e frane e piogge senza capire che se non si mettono in discussione gli usi sbagliati e speculativi del territorio non si potrà governare le conseguenze del maltempo e del cambio di clima. Anche qui servono segnali chiari e non solo parole. Il centro sinistra che si avvia alle primarie dichiari che il riassetto idrogeologico del territorio è la principale ed unica opera pubblica che intende realizzare se governerà, un'opera pubblica fatta non di cemento e asfalto, ma di conoscenza dei territori manutenzione e cura della terra e perché no di qualche demolizione.
Titolo originale: The regional revolution – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Prezzi delle case da far piangere, pendolarismo caotico e ritmi di vita surriscaldati: Londra ha parecchi degli svantaggi che vi aspettereste da una metropoli. Così molte imprese britanniche e i loro dipendenti stanno iniziando a capire che esiste vita anche fuori dalla capitale.
Mentre il governo cerca di rimediare ai problemi e riattirare posti di lavoro e investimenti verso Londra, le agenzie di sviluppo regionale del paese lavorano per convincere le imprese provviste di risorse che esiste la possibilità di avere di più in cambio di quel denaro – oltre ad una migliore qualità della vita per i dipendenti – in Scozia, Galles, o nell’Inghilterra del nord.
Gli uffici governativi hanno promesso di dare l’esempio, con decine di migliaia di posti di lavoro rilocalizzati da Whitehall ad altre parti del paese nei prossimi anni.
Molte delle capitali regionali del Regno Unito - Manchester, Birmingham, Leeds, Glasgow – stanno rinascendo, riprendendo dal punto in cui avevano lasciato quando iniziò il lungo e lento declino della loro tradizione industriale più di 50 anni fa.
Oggi spuntano imprese della comunicazione là dove un tempo c’erano fabbriche (spesso anche letteralmente, quando gli edifici industriali abbandonati del XIX secolo vengono riaggiustati e rioccupati). E l’eredità della tradizione imprenditoriale, dell’assunzione di rischi e dell’innovazione che aveva contribuito alla rivoluzione industriale sta trovando nuovi sbocchi nella scienza, nella ricerca e sviluppo, nella progettazione d’avanguardia.
Appartamenti di città all’ultima moda attirano di nuovo giovani professionisti nei quartieri centrali, dove un tempo stavano zone inaccessibili, e attorno sono spuntati bar, ristoranti, negozi. Compagnie di venerabile tradizione stanno spostando parte delle proprie attività verso zone del paese dove non avrebbero mai pensato di andare vent’anni fa; e nascono nuove imprese, qualche volta con un pizzico di denaro pubblico.
Costi inferiori degli immobili e della manodopera, spesso solo una frazione di quelli della Capitale, e lavoratori formati, contribuiscono ad offrire solide basi economiche a questo trasferimento di interesse da Londra. Aiutano anche i solidi collegamenti nei trasporti, e la congestione inferiore a quella della Capitale. E l’alta qualità della vita, la vicinanza alla costa, i magnifici parchi naturali del Lake District o del Peak District, ad esempio, possono essere un enorme incentivo.
Questo rinascimento urbano non è arrivato certo dappertutto, ovviamente: ci sono ancora sacche di alta disoccupazione e stenti sparse per il Regno Unito, non toccate dalla ripresa economica degli ultimi anni.
E nonostante la quantità di impressionanti vicende positive, sarebbe pericoloso dare per scontata la ripresa di queste regioni. Le RDA [ Regional Development Authorities n.d.T.] sono in concorrenza per gli investimenti non soltanto con Londra o Francoforte, ma anche con la Repubblica Ceca, la Polonia, che ora fanno parte della nuova Unione Europea allargata: oltre che con la Cina o l’India, i giganti low-cost in rapida crescita economica nell’estremo oriente.
Le capacità dei lavoratori britannici, l’inventività degli imprenditori, la qualità della vita, diventeranno sempre più importanti perché le attività arrivate in questi luoghi possano mettere radici profonde e prosperare.
Nei giorni in cui la banlieue della sua Parigi bruciava, Renzo Piano lavorava alla nuova sede della Columbia University a Harlem, il simbolo dei ghetti che sta diventando uno dei motori del rilancio di New York. L’immagine basta a illustrare l’abisso di attenzione che separa gli Stati Uniti e la vecchia Europa sul problema delle periferie. Passata la rivolta, il rischio è di dimenticare, in attesa del prossimo incendio. Il ruolo di ambasciatore Unesco per le città e le decine di progetti sparsi in quattro continenti, hanno portato Piano a conoscere come forse nessun altro le periferie del mondo. O come dice lui, «un mondo di città spesso ridotte a una sconfinata periferia».
Cominciamo naturalmente dalla banlieue francese, una rivolta annunciata. Si è citato molto un bel film, L’Odio, ma si potrebbe parlare anche di decine di tesi di laurea. Lei stesso, l’anno scorso, aveva lanciato l’allarme.
«È spiacevole fare ora il grillo parlante ma non occorreva essere profeti. Il problema delle banlieues è che sono ghetti di cui quasi nessuno in Francia si vergogna. Non la destra ma nemmeno la sinistra. È raro trovare un paese dove l’intera classe dirigente rimane così indifferente ai problemi dell’integrazione. È un dramma che la Francia vive dai tempi della guerra d’Algeria. Ogni tanto esplode, se ne discute un po’ e si torna a rimuoverlo. La rivolta è già stata archiviata da Sarkozy come "opera della solita feccia". Ora non dico che non ci siano i teppisti. Ma la feccia esiste anche nella Parigi borghese o nella Milano bene. Se diventa la guida di una rivolta, è evidente che il problema non si risolve soltanto con una brillante operazione di polizia».
La banlieue parigina non è più povera di altre periferie europee, per non dire delle bidonville di mezzo pianeta. E allora perché tanta disperazione?
«Non è una questione di estrema povertà ma di esclusione, di negazione dell’identità che produce odio. Tutte le città sono egoiste, tendono a trattenere nel centro le attività d’interesse e a relegare le periferie nel ruolo di dormitori. Ma le città francesi sono particolarmente ingenerose nei confronti delle periferie, ridotte a deserti affettivi dove non c’è nulla da fare, nulla in cui sperare. Sarebbe facile dire che si tratta di un fallimento della politica della destra, ma ripeto che neppure ai tempi di Jospin s’era fatto molto. Magari le rivolte servissero a far nascere una sinistra nuova»
Romano Prodi ha detto che una rivolta potrebbe scatenarsi anche nelle periferie italiane. È d’accordo?
«No. Con tutta la stima che ho per Prodi, stavolta sbaglia. Anche se l’approssimazione della politica rischia di innescare la miccia. Bisognerebbe cercare di non ripetere gli errori dei francesi. Ma almeno i nostri politici si pongono il problema, sia pure in maniera maldestra».
Più che altro si fanno grandi annunci, splendidi convegni, pose di prime pietre. Sono vent’anni che si sente parlare del recupero dell’hinterland milanese o delle barriere torinesi ma il paesaggio delle periferie del Nord rimane un dopoguerra industriale, con gli stabilimenti ormai ruderi. E fra le rovine s’avanza una nuova umanità di mutanti, dimenticati da tutti.
«Il problema in Italia è che la politica fa molto spettacolo. Quando Umberto Veronesi era ministro avevamo studiato insieme un progetto per portare nelle periferie gli ospedali. Un lavoro magnifico, avevamo raccolto un consenso entusiastico e bipartisan, poi al cambio di ministero si sono dileguati. Con i sindaci va un po’ meglio. Per esempio i progetti di Ponte Lambro a Milano e soprattutto del recupero del waterfront di Genova - una specie di risarcimento storico del Ponente industriale - vanno avanti, magari lentamente. Soltanto che la politica italiana è scandita dai tempi elettorali e queste non sono faccende da taglio dei nastri alla vigilia del voto. Dove si lavora meglio è nei piccoli centri. A Sesto San Giovanni per esempio, l’ex Stalingrado d’Italia, ho trovato finalmente la libertà di progettare un nuovo modello di trasformazione, con grandi centri di ricerca, parchi, vivaio d’imprese ad alta tecnologia. Soprattutto la libertà di cominciare il lavoro rifiutando la soluzione convenzionale per il recupero delle aree industriali: il centro commerciale. Per carità, basta con gli shopping center»
Le periferie che in Europa sono un problema in America diventano un’occasione. La metamorfosi di Harlem è affascinante, da ghetto a nuova frontiera di Manhattan, con i politici che fanno la fila per aprire i loro uffici, a partire da Bill Clinton, la Columbia University che progetta una grande sede. Che cosa è successo?
«È vero, Harlem è in qualche modo la risposta alle banlieue. È successo che la politica ha imboccato decisamente la strada opposta, quella dell’apertura, dell’investimento nel futuro. Forse perché gli americani hanno avuto le rivolte prima di noi, hanno imparato la lezione. Oppure perché la cultura delle periferie ha avuto successo, pensiamo al rap, alla street dance di West Harlem. Conta anche il coraggio della classe dirigente. A chiamarmi per la nuova sede di Harlem è stato il presidente della Columbia, Lee Bollinger. È stata sua l’idea di portare l’università dove scorre la vita, nel cuore della realtà, piuttosto che in un bel campus con parchi e piscine. Ed è un’emozione straordinaria costruire una biblioteca nella piazza che negli anni Sessanta fu il quartier generale dei Black Panthers. Ma anche il sindaco di Atlanta, Sherley Franklyn, una donna di colore che conosce bene i ghetti, sta puntando tutte le risorse nella creazione di un campus culturale. Lo stesso accade a Los Angeles, che è una specie di metafora della periferia universale, una città gigantesca e senza centro. Qui per la prima volta togliamo un immenso parcheggio sul Wilshire Boulevard per fare una piazza e un parco intorno al museo»
E in Europa invece non si muove nulla. Ma c’è anche una responsabilità degli architetti?
«Il dibattito in architettura di questi ultimi anni è deprimente. Troppo ruota intorno all’equazione fra architettura e scultura. Una colossale perdita di tempo oltre che un’idiozia pericolosa. Sarebbe bene troncare questi tormenti da artistoidi e tornare a occuparsi di faccende serie come appunto le periferie. Il mestiere di architetto serve in definitiva a far vivere meglio la gente, non a mettere il proprio segno sul paesaggio. Un architetto deve parlare con la gente, esplorare la città, capire i cambiamenti, altrimenti a che diavolo dà forma?»
Lei parla di periferie del mondo, di periferia universale contrapposta all’idea stessa di città.
«Non è un’astrazione ma un richiamo ai valori che formano la città e dunque la nostra civiltà. Lo stesso termine periferia ormai è ambiguo, più aggettivo che sostantivo. Che cos’è, dov’è la periferia? È il luogo dove i valori della città muoiono. Può esserci periferia anche nel cuore di una metropoli. Nella mia esperienza, il plateau Beaubourg prima del centro Pompidou, oppure Postdamerplatz a Berlino o ancora la zona dell’Auditorium a Roma, pur non essendo ai margini, erano pezzi di periferia imprigionati nel tessuto urbano. Luoghi dove erano spariti i valori della città, l’incontro, il lavoro, lo scambio fisico. Quei valori della città che per estensione diventano urbanità, civitas. E quando mancano producono odio. A Beabourg, Postdamer, l’Auditorium c’è un tratto comune che si potrebbe definire di allegria urbana. Sono luoghi allegri, vitali, al di là delle diverse e legittime opinioni estetiche dei critici».
Esiste un sistema per ridare vita a luoghi spenti?
«La questione è considerare una piazza, una strada, un parco dal punto di vista di chi ci deve andare. Non da quello del committente o del critico o dell’architetto che progetta. Le città sono lo specchio della nostra società e dunque oggi stanno perdendo i luoghi d’appartenenza, di partecipazione. Diventano città virtuali, dove ci si limita a guardare e a essere guardati. Allora le differenze diventano una minaccia. La banlieue è il punto in cui questo processo di negazione dell’identità collettiva è massimo e disperato. Perché stupirsi se in questo deserto di confine avanzano i barbari?»
Renzo Piano è certamente un bravo architetto e un uomo intelligente. Dovendo intervistare un architetto, la scelta del giornale è ragionevole. Ma possibile che sulle periferie ci si appelli esclusivamente a questi professionisti e non, per esempio, a sociologi o, addirittura, ad urbanisti? Poi è inevitabile che il problema delle periferie venga presentato come necessità di buone architetture (magari entrando in contraddizione con la critica al formalismo dell’architettura di oggi). O che si arrivi ad auspicare come modello una Harlem che ha assunto certamente maggiore vivibilità, ma solo perchè si è lasciata mano libera al mercato, il quale ha esportato un po’ più in là i ghetti. Il problema delle periferie, italiane o francesi che siano, è quello della capacità di governare il territorio con una pianificazione efficace e dotata di risorse, non di costruire qua e là qualche oggetto più o meno bello.
Come Robin Hood non ha voluto sentire ragioni. Ha preso ai ricchi, quelli che in piena emergenza abitativa si permettono il lusso di tenere le case sfitte, per destinarli ai poveri, i tanti sfrattati che nella zona di Cinecittà chiedono un tetto dove dormire. E così ieri Sandro Medici, minisindaco del X municipio, si è beccato un´accusa per abuso d´ufficio: la procura ha aperto un fascicolo sulla vicenda dei 12 appartamenti vuoti in via Lucio Calpurnio Bibulo 13 requisiti temporaneamente dal municipio, iscrivendo nel registro degli indagati il presidente, firmatario dell´ordinanza. Gli accertamenti, affidati ai pm Vitello e Palaia, sono partiti sulla base di una segnalazione della Digos.
«Vedremo come va a finire», replica Medici per nulla intimorito, «anche se la tempestività dell´inchiesta dice almeno una cosa: che abbiamo toccato l´intoccabile, ovvero il patrimonio immobiliare inutilizzato, uno scandalo tutto italiano che consente ad alcune persone di non rispondere a una responsabilità sociale per godere di fonti di reddito e di guadagno parassitarie». Ostenta serenità il minisindaco eletto come indipendente nelle fila di Rifondazione: «Io penso di aver fatto solo il mio dovere di amministratore: da qui a giugno nel mio municipio dovrebbero essere eseguiti qualcosa come 2.000 sfratti. Sono convinto che i diritti sociali non possono essere trattati come gli altri diritti, perciò non è giusto che siano oggetto di inchieste giudiziarie».
Un´iniziativa però sostenuta solo da Rifondazione e dal consigliere comunale "disobbediente" Nunzio D´Erme. La Cdl ha chiesto le immediate dimissioni di Medici. E anche il Campidoglio, per bocca dell´assessore al Patrimonio Claudio Minelli, prende le distanze: «I provvedimenti di requisizione hanno un significato di protesta di fronte al dramma acutissimo dell´emergenza casa, ma non possono rappresentare, in fatto di politica abitativa, una scelta di governo».
Titolo originale: Bursting boom town holds key to a stable China – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
KORLA, CINA – L’aeroplano a elica pieno di uomini d’affari plana su questa un tempo sonnolenta città-oasi nell’estremo ovest della Cina, volando basso sulla spettacolare catena delle montagne Tian Shan, ora coperte di neve.
Nel minuscolo, primitivo aeroporto, dove si deve aspettare all’aperto nel freddo pungente per i bagagli, un cartellone sopra lo scassato terminal annuncia chiaramente che qualcosa è cambiato: dice “ Hotel Petrolio”, in cinese, inglese, e nella grafia araba usata dalla minoranza regionale etnica Uighur.
Di notte, le fiamme dai nuovi campi petroliferi accendono l’orizzonte lungo strade desolate che si diramano in ogni direzione da questa città sui margini di uno dei più vasti deserti del mondo, il Taklimakan.
Di giorno, i treni scaricano passeggeri: i nuovi arrivati migranti cinesi dalle affollate campagne dell’est, o nella stagione dei raccolti i lavoratori giornalieri a decine di migliaia, per raccogliere il cotone e la frutta che cresce nelle distese di proprietà dei grandi investitori della costa orientale.
Queste brulicanti “ insta-cities” sono piuttosto comuni sulla prospera costa orientale. Ma in molti modi quello che sta accadendo a Korla e nelle altre città simili nella Regione Autonoma dello Xinjiang Uighur è molto più impressionante. E a un livello che pochi sospettano la nell’est, il futuro del paese dipende dal successo qui.
La Cina ha una sete inesauribile di petrolio e gas, e lo Xinjiang li produce entrambi in quantità sempre maggiori. In più, grazie alla vicinanza all’Asia Centrale, la regione è diventata il percorso preferito degli oleodotti dal Kazakhstan e oltre.
Dato che questa è la regione o provincia più vasta della Cina in termini di superficie, abitata dalla principale minoranza di popolazione musulmana, quello che succede in Xinjiang è cruciale per la futura stabilità del paese. Come per il Tibet a sud, il controllo cinese sullo Xinjiang è piuttosto recente. Molti delle minoranze Uighur e Kazakh aspirano da lungo tempo all’indipendenza.
Pechino ha represso duramente il separatismo e ha vietato le scuole religiose in Xinjiang, per paura che potessero fomentare radicalismo e separatismo islamico. Ma ora, come accade altrove in Cina, il governo sembra scommettere sulla forte crescita economica come il modo migliore per consolidare il proprio controllo.
Le recenti scoperte petrolifere nella regione hanno certamente creato un’atmosfera di fiducia fra politici e mondo degli affari, in gran parte proveniente dall’est. La produzione di gas naturale è raddoppiata negli ultimi cinque anni, e quella di petrolio sta pure crescendo velocemente, in particolare nel vicino bacino del Tarim.
”Questo posto pompa e brilla” racconta Jim Scott, esuberante americano che trascorre la maggior parte dell’anno in Xinjiang, a vendere valvole ad alta pressione e altri macchinari per l’industria estrattiva alle compagnie cinesi. “Ve lo garantisco, qui c’è un boom in corso. Ci sono più trivellazioni e ricerche di quanto possiate immaginare”.
Oltre agli stranieri del petrolio, l’esplosione estrattiva sta attirando migliaia di imprenditori cinesi dalle città costiere, come Shanghai.
Alcuni arrivano già ricchi, pronti a investire. Altri, come Qian Bolun, 36 anni, che abita qui da 15, cercava fortuna a Korla quando era poco più di un villaggio polveroso.
Un tempo il livello di affari auspicato da Qian era passare da bevande per un quinto di yuan (15 cents), a quelle da uno yuan. Ora tratta esclusivamente prodotti come generatori industriali, trattori, attrezzature per l’estrazione.
La nuova economia del petrolio ha lasciato il segno dappertutto a Korla, dai grandi magazzini e centri commerciali allineati lungo l’ampia via del centro, fino al grande quartiere dei locali notturni immerso nella luce dei neon dopo il tramonto.
Ora la città ha 420.000 abitanti, e cresce di 20.000 all’anno.
Con tutti questi successi economici, i problemi con le minoranze a Korla non sono stati risolti, ma semplicemente accantonati. Lungo le strade del quartiere centrale, i negozi gestiti da Uighur sono una rarità, e gli stessi Uighur in giro sono pochi. Al di là del fiume che taglia la città in due, tra parte vecchia e nuova, la proporzione si inverte.
”Gli Uighur di solito non tengono una vetrina. Affittano uno spazio d’angolo” dice Hao Lin, 32 anni, commerciante di personal computer in un nuovo centro commerciale specializzato in informatica. “I loro clienti sono Uighur. Molto pochi di loro fanno affari con la compagnia petrolifera Tarim. Quelli li fanno gli Han”, ovvero membri, come lui, del principale gruppo etnico cinese.
In una bottega di barbiere al di là del fiume rispetto al centro città, tre uomini Uighur siedono davanti a una stufa a carbone.
”Ho studiato all’università di Urumqi” la capitale provinciale “per tre anni, ingegneria meccanica” dice il barbiere Uighur, Yasen Keyimu, 25anni, “ma non riesco a trovare un lavoro nell’industria petrolifera. Tanta formazione superiore, e non trovo lavoro”.
La metropoli di ieri che contiene quella di domani, è la sua filosofia, l'assunto per dare un futuro vivibile al nostro passato. Pier Luigi Cervellati ha legato il suo nome a grandi progetti di recupero dei centri storici e dedicato la vita a salvare l'anima alle città per una modernità non da perseguire, ma da proiettare culturalmente.
Una giustizia senza debolezza. È questa la soluzione per arginare la rivolta delle banlieues parigine?
La giustizia, che non deve essere né forte né debole, ma solo giustizia, dev'essere fatta nei confronti degli emarginati. Violenza è la stessa banlieue. L'unica soluzione è eliminare il degrado, l'emarginazione, invece si continua a produrre periferie anche nei centri.
Quali invece le cause di disagio delle città italiane?
La perdita del senso della città intesa come bene comune, la massiccia privatizzazione di ciò che apparteneva alla comunità. Cattive amministrazioni locali, pessimi indirizzi statali, fameliche speculazioni, immobiliaristi che si arricchiscono producendo periferia e piani regolatori sbagliati hanno finito per omogenizzare i centri urbani. Siamo uno dei paesi con il maggior numero di case in proprietà. Le strade un tempo luogo di convivenza sono occupate da auto in sosta o in movimento. I luoghi pubblici sono scarsi e in genere lontani, squallidi.
E allora in che modo si possono fare interventi seri con l'edilizia?
In realtà bisognerebbe per almeno un decennio non produrre edilizia, ma recuperare, riqualificare.
Nelle città italiane esiste un disegno urbanistico complessivo?
No purtroppo. E la legge cosiddetta “Merli” [evidentemente Lupi - es] discussa da un ramo del parlamento, senza troppa opposizione, è una tale catastrofe da far temere che se sarà approvata, l'urbanistica italiana sarà materia solo di storia del recente passato.
Qualità dell'architettura e condono. Sarebbe interessante capire la relazione considerato che si profila il terzo condono edilizio in 18 anni.
La bella architettura è un miserabile paravento. Quando non si ha un'idea del futuro della città si ricorre alla bella architettura. Quando si vuol far passare indenne un nuovo condono edilizio, si ricorre al concorso di bella architettura. Chissà perché non si parla mai di città bella, perché non si parla di città. Di che significato, oggi, attribuiamo a questo termine. Eppure siamo in una fase cruciale per il futuro dei centri urbani per il nostro stesso avvenire.
Priva di zone d'espansione, Cagliari vede riempito con il cemento ogni suo spazio. Parcheggi multipiano, centri commerciali, zone residenziali. Quale futuro?
Cagliari ha rinunciato (o non ha saputo o voluto) alla costruzione della città metropolitana. Eppure era avvantaggiata dalla separazione di alcuni comuni che erano stati incorporati nei primi decenni del Novecento. Le cause sono molte. Il Comune maggiore non vuole raccordarsi con quelli minori che ha trattato per decenni come discariche. Sarebbe indispensabile pianificare - e Cagliari potrebbe diventare un esempio straordinario - la città di città. Città metropolitana non significa “grande città” bensì, città mad re . Ma il capoluogo stenta a decentrare quello che ritiene la sua forza, il suo potere, economico soprattutto, e così paga il prezzo della congestione. Produce solo periferia e non capisce che sta diventando essa stessa banlieue. La città di città richiede saggezza amministrativa, volontà pianificatoria, capacità di coordinarsi nell'interesse comune, nel bene della collettività. La perdita di abitanti che si sta registrando nel centro costituisce la premessa per accentuare la perdita del senso di città. Il centro non può essere scambiato per un super mercato con parcheggi, così operando, Cagliari, come luogo di convivenza civile, non esisterà più. Ma non diventerà neanche un centro direzionale e commerciale importante, ma solo uno dei tanti luoghi sparsi nel mondo soffocato dalla periferia. Il capoluogo sardo nell'ultimo decennio ha perduto la sua identità, la sua anima. Ci dobbiamo chiedere: in cambio di cosa?