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Con il placet della Giunta, la nuova legge toscana sul governo del territorio comincia il suo cammino «parlamentare». Non è e non sarà un evento istituzionale di poco momento. Si tratta di definire come continuare e come innovare cultura, principi e metodi cui debbono ispirarsi e attenersi Comuni, Province e Regione nell´amministrare la maggiore ricchezza di cui disponiamo e che più ci identifica e accomuna come toscani.

La nuova legge regionale sviluppa principi e regole della legge 5 del 1995 - una delle leggi in materia più apprezzate e studiate in Italia - e ne dà aggiornamento sia al mutato quadro costituzionale (il nuovo titolo V) sia a quanto nel frattempo avvenuto nel territorio toscano. Inoltre, aggrega al suo interno l´insieme delle disposizioni normative regionali vigenti nella disciplina urbanistica ed edilizia, proponendosi come il «codice» di riferimento per amministratori e operatori. I profili valoriali legati al come, quanto e perché pianificare l´uso del territorio e delle sue risorse non sono nuovi. Ma vi vengono declinati con maggiore nettezza. A cominciare da una nozione di «sviluppo sostenibile» che pur gravido di significati molteplici ed evocativi, è comunque ancorato ad una chiara tipologia di beni pubblici non negoziabili o comunque da garantirsi quali che siano le buone ragioni dell´innovazione territoriale. A questo servono quelle «invarianti strutturali» alla cui definizione è tenuto ogni governo locale quando disegna nuovi interventi insediativi o di trasformazione territoriale: che mai possono ridurre «...in modo significativo e irreversibile» (art. 3, coma 3) aria, acqua suolo ed ecosistemi della fauna e della flora; città e sistemi insediativi; paesaggio e documenti materiali della cultura; sistemi infrastrutturali e tecnologici. E mai lo possono fare non come salvaguardia di un bene collettivo nella sua formale o statica preesistenza. Ma come tutela di beni fruiti dalla collettività per la sua crescita e che debbono continuare ad esserlo.

Tuttavia, per nutrire simili ambizioni di governo, valori, principi e auspici non bastano. Occorrono strumenti. Se non vogliamo altre villette a schiera sui crinali delle colline o aree industriali a macchia di leopardo nei territori di comuni limitrofi. Questi strumenti la nuova legge toscana li individua non in nuove gerarchie tra potere regionale, potere provinciale e potere comunale.

Che la Costituzione del nuovo titolo V ha immolato sull´altare della sussidiarietà verticale. Bensì in quella che Dante Alighieri chiamava governazione e che noi - solerti meticci - chiamiamo governance.

In una parola: differenti ma analoghe missioni tra a) quello che è il governo del territorio a livello regionale (la «grande visione» di ciò che almeno si vuole non accada nell´insieme del territorio regionale, per incanalare entro visioni condivise di medio e lungo andare le sollecitazioni al cambiamento e alla trasformazione cui è perennemente sottoposto il suo tessuto); b) quanto di analogo compete alle Province sulla propria scala territoriale di riferimento e nella propria capacità di coordinamento tra le opzioni e le compatibilità delle scelte municipali; e c) quanto spetta decidere ai singoli Comuni, a più diretto contatto con chi materialmente costruisce, consuma e trasforma. Il tutto, però, non su basi autoritarie bensì mediante un intenso e costante lavorìo di confronto e concertazione tra analisi, programmi e strategie in cui ciascuna istituzione reca il contributo della propria capacità di visione e del proprio impegno di aggregazione e rappresentanza. L´immagine complessiva è quella di un grande cantiere che privilegia, piuttosto che specifiche capacità di comando, una regìa regionale costruita attorno a valori condivisi con le amministrazioni locali e a standard conoscitivi elevati circa i fenomeni territoriali da governare. Una regìa, dunque, che immagina la possibilità di prevenire i conflitti tra istituzioni mediante procedimenti duttili e articolati nella formazione degli strumenti e degli atti di governo del territorio e attraverso una complessiva omologazione nei criteri.

Può bastare? Più che altro «deve» bastare. Siamo il paese europeo in cui i Comuni hanno sovranità garantita circa le proprie opzioni urbanistiche finali.

Per cui una regione che non si diverta a lanciare inerti proclami non ha strade di altro tipo. La legge comunque prevede strumenti di arbitrato sui conflitti tra istituzioni di governo che appaiono innovativi e potenti, almeno sul piano della loro capacità di political suasion regionale, come la «Conferenza paritetica istituzionale». O strumenti di coordinamento consensuale e integrazione preventiva tra strategie pianificatorie di enti diversi, come gli «Accordi di pianificazione». Anch´essi legati alle risorse di argomentazione politica di chi li promuova e di chi vi partecipi. Inoltre va anche rammentato che la nuova legge entrerà in vigore con una situazione normativa, pianificatoria e operativa già abbondantemente strutturata. Il lavoro essenziale dei prossimi anni consisterà nel mettere coerentemente in opera opzioni già in gran parte consolidate e nel correlarle a quelle politiche di sviluppo e innovazione, in una pluralità di settori (dall´impresa alle infrastrutture) dell´azione regionale, che la legge in modo corretto e innovativo riassorbe nei doveri regionali di governo del territorio. Per questo le chances di successo di questa legge dipendono, forse ancor più di sempre, dai modi con cui si regoleranno e adopreranno strumenti analitici e tecniche conoscitive (e dunque, prima di tutto, che uso ne faranno dirigenti, tecnici, esperti - a cominciare dai «responsabili dei procedimenti» - e non solo i politici dei vari enti) che essa attiva per governare sapientemente il territorio e per dare gambe al suo disegno di governance.

Tra queste, cruciale è una nozione di «valutazione integrata» che meritoriamente la legge delinea come istituto necessario e pregiudiziale alla formazione degli strumenti del governo del territorio. Dove «integrata» sta per consapevole degli effetti anche ambientali, economici, sociali oltre che territoriali delle opzioni di governo: anche di quelle che attengono a politiche non propriamente territoriali o urbanistiche ma che un impatto territoriale ce l´hanno comunque. Ed è proprio su questo snodo, su questa capacità di innestare, sul pernio della valutazione, politiche di segno diverso ma accomunate da una comune «pre-occupazione» territoriale, che si gioca gran parte della partita che la nuova 5 ha voluto ingaggiare. Come dare a tale nozione una concettualizzazione operativa e sistematica, per evitare che essa diventi un mero adempimento procedurale, è altro capitolo. In gran parte da scrivere

Titolo originale: Practice What You Teach?Traduzione di Fabrizio Bottini

Anni fa, da studente specializzando alla University of Southern California, avevo apprezzato una presentazione di un professore esterno sul problema dei senza casa nelle città, e il ruolo della pubblica amministrazione. Così, nonostante fossi piuttosto consapevole dell’essere nuovo agli Stati Uniti, andai a trovarlo in ufficio per discutere l’argomento in modo più approfondito, e chiedergli come poteva conciliare i problemi quotidiani degli homeless con la sua personale agiatezza, visto che questa agiatezza era tanto strettamente legata alle ricerche e conferenze sui senza casa. Mi rispose che spetta al singolo individuo tracciare la linea che separa la vita personale dai problemi sociali.

In un certo senso, la risposta di quel professore è il problema etico e filosofico con cui mi sto misurando fin da studente: come posso tracciare una linea di separazione fra i problemi sociali e la mia vita? Essendo cresciuto in India, mi sono sempre sentito impacciato e a disagio quando innaffiavamo il nostro giardino, e persone senza casa se ne stavano fuori dallo steccato sperando di raccogliere una o due ciotole di acqua. Mangiare caramelle alla stazione mentre bambini denutriti chiedevano l’elemosina per mangiare, era un altro evento che provocava sensi di colpa.

Ripensando a queste cose, trovo piuttosto divertente il fatto di aver creduto di trovare risposte a domande del genere nell’università. Sono passati molti anni da quando ho preso il mio dottorato, e ora come professore abitualmente tengo lezione, discuto, faccio ricerca su problemi sociali. Non solo devo ancora trovare risposte chiare a tutto, ma continuano anche a spuntare nuove domande, e sto ancora cercando quella “linea”.

L’ultima di queste domande è venuta da quando grazie ai nostri nuovi lavori io e mia moglie abbiamo comprato casa e ci siamo trasferiti da Bakersfield, California, a Eugene, Oegon. Comprare quella casa a Eugene si è trasformato in una magnifica lezione pratica sulla linea che separa il dibattito accademico sul New Urbanism e la mia vita personale.

Il nuovo urbanesimo raccoglie i modi di pianificare e realizzare quartieri urbani che promuovano un senso comunitario. Questo significa che, per esempio, i garages per le auto stiano dietro le case in modo che si de-enfatizzi l’uso dell’automobile e i quartieri siano più facilmente percorribili a piedi. Fino al luglio scorso, la mia esposizione al new urbanism avveniva attraverso le pubblicazioni di tipo giornalistico e professionale. In quanto esperto di trasporti, seguivo con attenzione problemi come lo sprawl urbano, o la smart growth, o la “LosAngelizzazione” delle zone urbane. Come professore universitario, insegnavo geografia urbana e pianificazione, discutendo con gli studenti gli stessi temi.

Ma le discussioni sul new urbanism non erano che esercizi accademici. Nello stesso modo in cui sono completamente separato, che so, dalla povertà in Etiopia o dal problema delle nanotecnologie, ero egualmente separato – a livello personale – dallo sprawl urbano e dal new urbanism. A dire il vero, qualche volta mi davo anche una pacca sulla spalla complimentandomi per quanto ero un osservatore obiettivo, per quanto stavo lavorando bene portando avanti una discussione equilibrata all’interno dei corsi. Poi mi sono impegnato attivamente con alcune organizzazioni locali che tentavano di partecipare alle decisioni urbanistiche a Bekerfield, Califirnia, e le ricerche che ne sono seguite hanno aumentato la mia comprensione dei problemi, ma i risultati erano ancora solo il frutto di un lavoro teorico.

Quindi, nel momento in cui abbiamo visto per la prima volta la casa che poi abbiamo comprato, io e mia moglie non ne sapevamo niente. Non che non fosse spaziosa; i poco meno di 200 metri quadrati erano paragonabili ai qualcosa più di 200 della vecchia casa di Bakersfield. Ma la casa del vicino era troppo vicina, e l’ingresso ai garages dietro le case era in comune. Le strade erano strette, solo due corsie. Praticamente non c’era spazio per il giardino: la casa sta su un lotto che non arriva a 500 metri quadri! In altre parole, casa e quartiere erano più o meno come gli esempi che si trovano su un manuale di new urbanism, e la cosa mi stava creando dei problemi.

Ad ogni modo, mia moglie ed io siamo tornati a vederla, quella casa, tentando di immaginarci lì dentro: sarebbe stato gradevole, sentire i vicini tanto vicini? Quanto sarebbe stato comodo, starsene seduti sulla veranda e scambiarci più di un cenno di saluto? Avremmo perso il senso di privacy? È abbastanza interessante, perché sono le stesse questioni che discutiamo con gli studenti a lezione, e che sollevano le critiche al new urbanism, sostenendo che i consumatori non accetteranno questo tipo di abitazioni.

Beh, comunque, anche se non ci siamo liberati del tutto dall’incertezza, abbiamo comprato la casa, che sta vicino al fiume Willamette: una bella differenza col quasi asciutto Kern, che passava da Bakersfield. Nel settembre 2003, abbiamo chiuso il contratto, e insieme a mia moglie (e al cane, ovviamente) ci siamo trasferiti nella nuova casa. È passato quasi un anno da allora, e non potremmo stare meglio.

Dopo due trimestri accademici, da quando avevamo comprato la casa, la scorsa primavera, lo sprawl e l’urbanistica erano due degli argomenti che trattavo al corso di geografia urbana. Ma stavolta, grazie all’esperienza personale col new urbanism innescata dalla nuova abitazione, ho dovuto accertarmi di essere davvero un osservatore obiettivo e di discutere tutti gli aspetti del problema senza mostrare preferenze personali. Verso la fine delle discussioni, ho iniziato a chiedermi se per la prima volta non avessi trovato davvero il punto dove tracciare quella magica linea, fra la vita accademica e le decisioni personali.

Ero piuttosto emozionato, e un tantino orgoglioso di questa sensazione di vittoria, fino a quando Katie dalla prima fila (naturalmente!) mi ha chiesto: “L’altro giorno io e Francesca stavamo parlando di lei, dottor Khé. Come mai non guida una piccola auto, ma una trangugia benzina come la Jeep Cherokee?”.

Per un attimo, mi è sembrato che la domanda di Katie mi avesse rispedito al punto da cui ero partito, studente, tentando di tracciare la linea che separa la discussione teorica e la vita personale. Ma la lunga pausa estiva mi ha aiutato a riconoscere che gli ardui dilemmi non finiscono mai; semplicemente cambiano forma, dai senza casa, al new urbanism, a qualcos’altro. E forse la vita accademica significa proprio questo continuo tentativo di tracciare la linea che separa le cose che insegno dalla mia vita.

Qui il sito Planetizen, con l'originale e moltissimo altro (fb)

Oggi il mondo - così come lo conoscevano gli esploratori da Marco Polo a Magellano, ma anche gli urbanisti costruttori del sogno moderno della città pianificata - sembra fuoriuscire dalle mappe e dilatarsi a dismisura al punto che i vecchi modelli della descrizione cartografica non bastano più. La nuova economia globale finanziaria ha infatti accorciato le distanze e compresso il tempo per la velocità dei trasporti e delle informazioni, tanto che - più che di fine della storia - verrebbe da parlare di fine della geografia. Una trasformazione, questa del rapporto tra i sistemi di produzione e la rappresentazione dello spazio, che ha appassionato critici dell'economia politica come David Harvey ( La condizione della modernità, Il Saggiatore); urbanisti e filosofi come Paul Virilio ( Città panico. L'altrove comincia qui, Cortina) e, non ultimi, i geografi. Ed è da queste considerazioni che prende avvio il nostro incontro con Franco Farinelli, professore di geografia all'Università di Bologna e autore di Geografia, edito da Einaudi (ne ha parlato su Alias del 29 febbraio Marco Belpoliti).

Alla mostra L'immagine antica del territorio, in corso a Venezia al museo Correr, appare evidente come le mappe e gli strumenti del cartografo fossero indispensabili per l'organizzazione del bacino lagunare da parte dello Stato. In che modo è cambiato oggi il rapporto tra geografia e potere?

Ma la modernità, tutta la modernità, consiste nella compiuta riduzione del mondo alla sua forma geografica. Ha scritto tanto tempo fa Jacob Burckhardt che lo stato moderno è «un'opera d'arte», e l'espressione va intesa alla lettera: lo stato è una tavola dipinta, una pittura, un quadro. E la geografia, insegnava Tolomeo, è l'imitazione della pittura del mondo, cioè della carta geografica. La modernità nasce quando, all'inizio del Quattrocento, ricompare a Firenze l'opera geografica di Tolomeo, scomparsa dall'occidente dodici secoli prima con la crisi del sistema imperiale romano. Ma rispetto al passato il Moderno instaura una straordinaria inversione: la geografia resta l'imitazione della carta geografica, ma quest'ultima a sua volta non è più la copia del mondo, bensì è il mondo che diventa la copia della carta. Con buona pace di Baudrillard che invece nella precessione del simulacro - nel fatto che appunto la mappa preceda il territorio - vede l'inizio della postmodernità. In ogni caso lo stato, il territorio statale diventa in termini moderni la copia della mappa. E infatti lo stato moderno ha da essere, proprio come una tavola, continuo, omogeneo ed isotropico, deve dunque possedere le tre proprietà che nella geometria euclidea appartengono all'estensione. Quello che si chiama potere è stato, modernamente, nient'altro che la pratica d'assecondamento di tale modello, dunque l'esercizio e la gestione del primato della logica cartografica. Ma oggi la situazione inizia a mutare, anche se non sappiamo ancora come, perché la globalizzazione, qualsiasi cosa con tale processo s'intenda, implica anzitutto la comprensione letterale del termine, e significa che non è più possibile contare sulla potentissima mediazione cartografica per capire quello che la Terra è, cioè un globo.

Nel suo libro, lo studio della geografia urbana rivela uno stretto legame tra l'organizzazione della città e la produzione del capitale. Nel secondo dopoguerra questo legame si consolida e viene modellato sulle esigenze del nuovo patto sociale di tipo keynesiano-fordista. Quali sono i cambiamenti più importanti per la vita della città in questo periodo?

Vi è differenza tra la città fordista e la città keynesiana, anche se la seconda prosegue la prima. La città fordista è una città nazionale, topografica e visibile, dunque ancora moderna nel senso pieno del termine, nel senso che la città imita la carta, il suo funzionamento continua a obbedire alla logica di questa. Come già spiegava Gramsci nei Quaderni il fordismo si fonda sull'inclusione della città, e in particolare del suo sistema di trasporti, all'interno della produzione stessa. Sicché l'incremento delle funzioni si fonda ancora sulla rapidità degli spostamenti materiali, qualcosa che Giulio Cesare aveva già descritto e affermato col suo celebre modernissimo motto, che per essere compreso va letto al rovescio: ho vinto perché ho fatto in fretta e ho ridotto la comprensione alla visione. Per Cesare in tal modo si trattava di fare la guerra, per Henry Ford di fare le macchine, ma in ogni caso la regola era la velocità, la riduzione del mondo a tempo di percorrenza, cioè a spazio, a standard. Ma la città fordista è la città della produzione, mentre la città keynesiana è la città del consumo. Come ha argomentato David Harvey, difficilmente a partire dagli anni Trenta il capitalismo avrebbe potuto sopravvivere senza il consumo promosso dallo stato e finanziato dal debito. In questo senso la città keynesiana prosegue la città fordista, rilanciando lo sviluppo della città come motore dell'accumulazione, l'urbanizzazione del capitale. Il risultato fu la smisurata crescita delle periferie, nient'altro che una maniera per rendere necessari i prodotti e i servizi delle ditte di costruzioni, delle aziende petrolifere ed automobilistiche, delle fabbriche di gomma, che trasformò la città in un gigantesco artefatto per la redistribuzione dei redditi.

La geografia, dunque, come strumento per studiare non solo i rapporti tra l'uomo e lo spazio, ma anche i rapporti politici. Proprio a questo proposito è interessante la sua ricostruzione della svolta neoliberista del capitale. Lei sostiene che nell'agosto 1971, quando Nixon annullò la convertibilità del dollaro in oro, il considdetto gold standard, non è solo finita l'epoca del compromesso keynesiano-fordista, ma anche la possibilità di governare lo sviluppo dello spazio urbano in base a uno standard che fornisce la misura concreta dell'astrazione capitalistica. Alla luce delle trasformazioni del capitale che cosa accade da quel momento alla città?

L'evento decisivo che segna l'inizio della fine della città keynesiana fu nel 1969 la nascita negli Stati Uniti della prima rete di comunicazione elettronica. Mentre eravamo con il naso in su a contemplare la luna, o davanti al televisore a guardare il primo atterraggio su di essa, in silenzio la materia che ci circonda iniziò così, quasi nello stesso momento, a mutarsi senza clamore in immateriali unità d'informazione: preso nella rete, il mondo topografico e spaziale, quello che vediamo e che davvero distingue la superficie della Terra da quella del suo astro, il mondo moderno, iniziò a dissolversi. Si tratta di un vero e proprio reincantamento del mondo, l'opposto di quel che Marcel Gauchet, sulla scorta di Max Weber, gli assegna, cioè il disincanto. È l'inizio dell'esaurimento del regno del visibile. Da questo momento la crescita urbana si svincola del tutto dal quadro di riferimento dello stato-nazione (dall' ethos cartografico) per dipendere, secondo la logica dell'universalità del lavoro astratto, dai diversi rapporti della nuova economia mondiale: nazionali, internazionali, multinazionali, planetari. Perciò la città viene definitivamente a perdere, nel suo funzionamento, i suoi storici attributi euclidei, diventa discontinua e disomogenea e le sue parti sono funzionalmente voltate in tutte le direzioni. E l'astrazione del capitale finanziario da cui la sua attività dipende si riflette puntualmente nell'astrazione matematica dei modelli che per tutti gli anni Settanta ma anche in seguito pretenderanno di governare l'analisi urbana.

Saskia Sassen in Le città nell'economia globale (il Mulino) descrive il nuovo tipo di produzione, basata sugli scambi di informazioni e le transizioni finanziarie, che si svolge nelle città globali. Questo dato segna una differenza tra le città statunitensi ed europee, rispetto alle megalopoli asiatiche e sudamericane in cui si concentra una buona fetta della popolazione mondiale. Dal suo punto di vista, in che modo le città globali si differenziano dalle megalopoli e in che modo controllano la produzione?

Il concetto di città globale nasce alla fine degli anni Ottanta, proprio in riferimento alla crisi della città keynesiana e dei suoi modelli analitici. A farvi caso, esso è la traduzione a scala planetaria dell'idea di sistema urbano, che sul piano dell'analisi ha funzionato soltanto finché vi erano quadri territoriali nazionali, cioè sostanzialmente chiusi o presunti tali: l'idea cioè che vi sia una relazione, una connessione funzionale tra una città e l'altra. Da questo punto di vista le città globali sarebbero quelle al cui interno vengono esercitate le funzioni in grado di controllare tutte le altre, quelle finanziarie di ordine superiore. Proprio la mancata coincidenza tra livello funzionale e numero di abitanti, cioè tra città globali e quelle che anche lei chiama megalopoli, segnala una realtà che si pone in termini inediti rispetto al passato. La città più importante non è la città più grande, Zurigo è una città globale ma non lo sono Bombay o Buenos Aires, che pure hanno dieci volte il suo numero di abitanti, ma questo ci sorprende soltanto perché siamo ancora abituati a pensare il mondo come una tavola, dove la superiorità di una figura rispetto all'altra dipende dall'estensione, è cioè un dato quantitativo. Sassen ricorda, come esempio della catena della produzione finanziaria globale, che verso la metà degli anni Ottanta Tokyo è stata la principale esportatrice della materia prima chiamata moneta, New York il maggior centro di trasformazione di questa in prodotti intesi a massimizzarne il rendimento, Londra il raccordo dei mercati finanziari minori sparsi in tutto il mondo. Le città globali, come tutte le megacittà, sono connesse globalmente ma disconnesse localmente, fisicamente e socialmente, al punto che non ha più senso parlare di città. Che cosa davvero vuol dire oggi «Tokyo»? Se è così, è probabile che la storia della città sia la storia di una progressiva astrazione che da un pezzo (o forse dall'inizio) non si riesce a controllare.

Mike Davis in Geografie della paura (Feltrinelli) traccia la storia del nuovo assetto urbano di Los Angeles. La segregazione del centro urbano e del suo valore immobiliare rispetto ai ghetti rappresenta a suo avviso il nuovo modello dell'apartheid urbana del prossimo secolo. Lo stesso modello sembra essere stato esportato dagli americani nella nuova organizzazione dello spazio urbano di Baghdad: una «zona verde», in cui vivono gli occupanti, assediata da milioni di persone. Si può dire che le città globali siano l'evoluzione dell'ordine disciplinare della città del XX secolo?

Sì, a patto di intendere per ordine disciplinare il prodotto della logica tabulare-cartografica, e per evoluzione l'incremento della selettività e la concentrazione per frammenti dei suoi effetti. È indubbio che la disconnessione locale, fisica e sociale, la rottura dell'ordine euclideo, porti alla frammentazione materiale del mondo. È come se la mappa, impotente ad afferrare ed avvolgere tutto il mondo nella sua complessità, a fare di tutto il mondo la copia in un sol pezzo, lo faccia in tanti pezzi e se ne impossessi direttamente. È il processo che prende il nome di «road map», quella che dovrebbe regolare la soluzione bi-statale del contrasto tra israeliani e palestinesi. Primo, si nomina mappa qualcosa che è tutto fuorché una mappa, è anzi il suo contrario, nel senso che non contiene il disegno di nessun confine ma si compone di una serie di procedure politiche che debbono servire a stabilire il confine. Nel frattempo, una delle parti ( e non v'è bisogno che dica quale), in assenza di qualsiasi accordo, costruisce un confine che avanza, indietreggia, insomma cammina e diventa la strada per l'indebita inclusione di territorio, la «road map» appunto. Nella seconda metà del Novecento Borges ed Eco hanno descritto l'impossibilità di costruire una mappa grande proprio come il territorio che essa rappresenta, la mitica mappa 1:1. Adesso la stanno invece costruendo sotto i nostri occhi, nel senso che il territorio è direttamente la mappa.

Quella della mescolanza delle nazionalità è una realtà molto diffusa nelle città globali. Nel suo libro lei ricorda che un terzo delle vittime delle Torri gemelle non aveva una nazionalità americana. Sembra che dal Bangladesh provenisse più del doppio degli abitanti della Pennsylvania seppelliti dal crollo. A suo parere in che modo è cambiata la natura della frontiera?

Nell'antica Grecia un'unica parola serviva a designare i limiti e le montagne, significativamente la stessa che Euclide adopera per dire «definizione». Con la crisi della logica euclidea del funzionamento del mondo e della sua rappresentazione, il dato naturale e materiale non coincide più con il modello geometrico-ideale e l'immagine antropologica da cui il significato di frontiera (fronte) deriva non basta più. D'altra parte, anche molto prima della trasformazione degli atomi in bit, i confini più potenti erano spesso quelli che non si vedevano: si pensi a quelli che noi geografi chiamamo l'istmo ponto-baltico e l'istmo Stettino-Trieste, le due grandi linee ideali che collegano rispettivamente la foce della Vistola con quella del Dnjestr e la foce dell'Oder con il golfo di Trieste. A oriente resta il corpo tozzo dell'Europa, circondata da mari chiusi, che si confonde con l'estesa massa asiatica. A occidente è invece il merletto sfrangiato dell'Europa bagnata dall'Atlantico e dal Mediterraneo. Nessuna invasione proveniente da oriente ha oltrepassato, dopo la caduta dell'impero romano, tale doppio istmo, come confermano le ricerche genetiche di Cavalli-Sforza e dei suoi collaboratori. Fino a ieri è stato impossibile separare le specificità del corredo biologico umano dai lineamenti della faccia della Terra. Ma poiché anche questo viene oggi messo in dubbio dai risultati dell'ingegneria genetica, forse non possiamo davvero consolarci con quel che ha scritto Regis Debray: che l'arcaico non è soltanto quello che ci lasciamo indietro, ma anche quello che ci attende. Il che però resta ancora oggi l'ipotesi più plausibile, appunto perché la Terra non è una tavola ma una sfera, sicché quel che abbiamo alle spalle può tornarci, prima o poi, di fronte.

Bruno Toscano e Bruno Zanardi, Licia Vlad Borrelli e Giorgio Torraca, Caterina Bon Valsassina (direttrice dell´Istituto Centrale per il Restauro) e Cristina Acidini (direttrice dell´Opificio delle Pietre Dure), Gianni Romano e Giorgio Bonsanti: questi alcuni dei partecipanti alla giornata di studio che la Scuola Normale Superiore di Pisa dedica oggi a Giovanni Urbani nel decennale della morte, con l´intervento del ministro Giuliano Urbani. Non si tratta tuttavia, come potrebbe credersi, della postuma celebrazione di una figura pur importantissima nella storia della tutela in Italia: ma piuttosto di una riflessione, attuale oggi più che mai, sulla sua grande, inascoltata lezione.

Con straordinaria lucidità, infatti, Giovanni Urbani vide assai precocemente che le norme di tutela stabilite nel 1939 dalle leggi Bottai, per quel tempo avanzatissime, non potevano essere ibernate in perpetuo, scambiandole per intoccabili tavole della Legge. Al contrario, bisognava (bisogna) riflettere sul rapporto fra due fattori di mutamento (se non di rivoluzione) che gli anni del secondo dopoguerra misero in moto con velocità crescente: da un lato, l´imprevisto evolversi della società sotto la spinta di una crescita economica tumultuosa, a cui non corrispose e non corrisponde una parallela crescita culturale; dall´altro, l´incessante affinarsi della cultura e delle tecniche della conservazione, un ambito in cui l´Italia ebbe, e in certa misura ha ancora, una riconosciuta leadership mondiale.

Il problema era dunque se assistere passivamente a questi due sviluppi, simultanei ma discordanti, lasciando sempre più divergere la più avanzata cultura della tutela dalla pratica applicabilità di norme concepite per una società ormai liquidata dalla guerra e dall´irrompere di nuovi modelli di comportamento; o se invece, come Giovanni Urbani volle con tenace intelligenza, riflettere per riformare norme e strutture. Riformarle, s´intende, non per ansia di superficiale "aggiornamento", bensì onde prevenire i più perversi sviluppi e assicurare il massimo livello di tutela. Se le leggi Bottai funzionavano in modo tanto imperfetto, infatti, non era solo perché la guerra impedì la redazione dei relativi regolamenti, che poi il parlamento repubblicano sempre trascurò di compilare, bensì per incontrollati rivolgimenti di struttura e di contesto. Quegli stessi che, con l´aggiunta del rapporto Stato-regioni inquinato dalla retorica sgangherata di un "federalismo" straccione e senz´anima, hanno generato negli ultimi anni prima il Testo Unico del 1999 e poi il Codice del 2004.

Giovanni Urbani osservò che nella tutela si riconoscono «gruppi troppo poco influenti per avere la possibilità di prevalere su scelte ad essa contrastanti», e mise in guardia dai rischi di un´indiscriminata economia di sovvenzione che non sappia distinguere «ciò che è effettivamente utile e giustificato da quello che è puramente ostentatorio o oblativo». La conseguenza inevitabile sarà (egli scrisse) «che sarà considerato utile e giustificato sempre e solo l´intervento minimo»: mentre il sistema dovrebbe evolvere, per essere efficace, verso «il passaggio dell´attività conservativa dall´attuale stato di attività marginale (...) a una fase di sviluppo che non può essere definita altrimenti che come industriale", col necessario corollario di corrispettivi investimenti nella conoscenza e nella ricerca. Qui egli aveva in mente il ruolo centrale dell´Istituto per il Restauro (di cui fu direttore), al quale era affidata nel suo disegno la pratica dimostrazione che la conservazione programmata dell´insieme, e non il restauro occasionale e terapeutico di isolati oggetti e monumenti, risponde a una logica di convenienza economica del Paese.

In questa concezione, frutto di una lucida analisi che ci appare oggi profetica solo perché allora nessuno volle ascoltare, l´intimo legame contestuale che fa del territorio e dell´ambiente (città, campagna, paesaggio) un continuum inscindibile da tutelare nel suo insieme è visto non come un peso fastidioso di cui sbarazzarsi svendendo coste, foreste e monumenti, ma come l´innescatore di potenti meccanismi di sviluppo, che potrebbero assicurare l´immagine e la memoria storica del Paese, e al contempo garantire ampia occupazione. Ne nasceva anche l´esigenza, ancor oggi irrisolta, di intendere le strutture di tutela come enti di ricerca, fondendo le pratiche conservative con la dimensione conoscitiva del patrimonio, con la pianificazione urbana e del territorio, con lo sviluppo civile. Negativa fu perciò, com´egli vide subito, la burocratica invenzione di un ministero dei "beni culturali", «binomio malefico funzionante come un buco nero, capace di inghiottire tutto, e tutto nullificare in vuote forme verbali», e l´assegnazione dell´ambiente a un altro Ministero: il suo progetto (condiviso con Andrea Emiliani, Baldini, Valcanover) era invece di ricostruire la funzionalità delle strutture di tutela a partire dal territorio, con "laboratori intersoprintendenze" che elaborassero strategie di ricerca e di conservazione programmata del patrimonio culturale e dell´ambiente (donde il suo Piano-pilota per l´Umbria).

Un messaggio, come si vede, di drammatica attualità: mentre le Soprintendenze, al contrario, si svuotano di personale a ogni giorno, e aumentano fino a farsi legione i direttori generali, e di nuove assunzioni nessuno parla. Vorrà il ministro Giuliano Urbani ascoltare la vox clamantis in deserto del suo illustre omonimo?

I fatti si commentano da soli, e non hanno bisogno del trascendente, dei grandi principi universali, dei versetti della Bibbia. Semplicemente, i fatti stanno lì, e li si può rigirare da tutte le parti, ma non ignorare o nascondere sotto lo zerbino. Come l’osservazione attiva dei propri affari quotidiani, da parte di uno “speculatore”, il quale nota come esista una cosa chiamata legge della domanda e dell’offerta, e un’altra cosa chiamata maggioranza dei cittadini, e che queste due cose vanno d’amore e d’accordo quando si tratta di giudicare l’ambiente. Quello di tutti i giorni, dove si vive e lavora, dove si abita, dove si tocca con mano cosa significhi la parola “valore”, anche immobiliare.

Ma c’è sempre una trascendenza in agguato, pronta a porre la maiuscola sui Valori, a prosciugarli e trasformarli in Grandi Principi. Una brutta abitudine, della destra ma non solo, e che si replica in ogni tempo, latitudine, legislatura e mandato amministrativo. Per questo ha un certo valore, anche qui e oggi, la solida testimonianza di un americano medio di dieci anni fa (fb)

“L’ambiente contro i diritti della proprietà: volete una discarica velenosa sulla porta di casa?”, The New York Times, 15 marzo 1995 (traduzione di Fabrizio Bottini)

Filadelfia – Come proprietario di casa, e come costruttore, credo nei diritti di proprietà e nella tutela dei valori immobiliari. E precisamente per lo stesso motivo sono contrario al disegno di legge sui cosiddetti diritti di proprietà approvato dal parlamento questo mese, e a quelli simili proposti al Senato o nei governi statali di tutta la nazione.

I particolari delle proposte variano, ma tutte vogliono stabilire una regola generale. I contribuenti devono compensare un proprietario quando un regolamento di zoning, una legge ambientale o qualunque altro provvedimento di governo limita il valore del suolo.

A prima vista, questo può sembrare una buona cosa, persino attraente. Ma ad un esame più attento, appare chiaro come la cosiddetta legislazione a favore dei proprietari danneggerà la maggior parte dei proprietari di casa.

Molti dei disegni di legge in discussione nelle assemblee statali chiedono che i contribuenti paghino i proprietari inclusi in ordinanze di zoning. Ma lo zoning ha uno scopo; le ordinanze sono concepite per proibire usi incompatibili nella stessa zona: per esempio, discariche o grandi centri commerciali in un’area residenziale. In questo modo, se alcuni proprietari possono guadagnare meno denaro perché non gli è consentito di costruire una discarica, i valori del resto del quartiere sono protetti.

In modo simile, il parlamento ha già approvato un disegno di legge cosiddetto di prelievo per le leggi su zone umide, acque, protezione della flora e fauna, che chiederà ai contribuenti di pagare i proprietari per i mancati profitti. Al Senato, Orrin Hatch, Repubblicano dell’Utah, ha proposto un progetto che richiede l’indennizzo per i proprietari di terreni toccati da qualunque standard ambientale o di sicurezza, inclusi i regolamenti federali che richiedono la bonifica dei siti inquinati, proibiscono alle attività estrattive di danneggiare il paesaggio, mantengono aria e acque pulite e limitano l’edificabilità nelle zone a rischio di inondazione.

Certo, gli standards ambientali possono contenere il profitto potenziale che si può ottenere da alcuni terreni, o anche proibire l’edificazione in alcune zone, e quindi possono abbassare il valore della proprietà. Ma sono regole che tutelano o aumentano il valore delle abitazioni nelle stesse zone.

I sostenitori di questi disegni di legge sembrano aver ignorato un cliché: i fattori che determinano il valore di una casa sono localizzazione, localizzazione, localizzazione. Un inceneritore costruito lì vicino, o l’acqua inquinata ridurranno immediatamente i valori immobiliari in un quartiere. La tutela delle zone costiere e le leggi sulle zone umide tutelano i valori immobiliari mantenendo la qualità residenziale, e proteggendo contro inondazioni e mareggiate. Una fascia di zone umide lungo la costa invariabilmente incrementa il valore delle abitazioni che stanno nell’entroterra.

Così, con l’attuale tendenza anti-regole, i valori delle case sono messi in pericolo. In più, il semplice costo della compensazione ai proprietari di terreni per le loro pretese, e le continue controversie, indeboliranno le leggi ambientali e di zoning.

I nuovi disegni di legge sui prelievi presumono che i proprietari abbiano il diritto di fare quello che vogliono con la loro proprietà, indipendentemente dall’impatto su altri. Ma io sostengo un’altra ipotesi: i proprietari hanno il diritto di essere tutelati contro gli abusi da parte di altri proprietari.

Alcune grandi imprese agricole, o nel settore del legname e cartario, industrie minerarie, costruttori di grandi centri commerciali, trarranno sicuramente benefici da questi disegni di legge. Non li preoccupa molto, quello che i loro vicini possono fare con i terreni, e possono permettersi gli avvocati per chiedere il pagamento di indennizzi per le limitazioni governative. E il 3 per cento dei proprietari terrieri in questi campi possiede l’80 per cento del suoli privati.

Ma il 2 per cento del terreno destinato ad abitazioni detiene la maggioranza dei valori immobiliari. Gli investimenti, qui, sono sensibili agli abusi da parte di altri.

Ho sperimentato personalmente sia i dolori che le gioie del seguire le regole, acquistando immobili in due zone storiche di insediamento nelle cittadine sul fiume Hudson. Anche se mi accapiglio con i funzionari sui costi per rifare un tetto con le tegole originali, sono fiducioso che queste regole abbiano contribuito a conservare i valori immobiliari, che in zona restano più alti che altrove.

Grazie ai programmi federali e statali degli ultimi vent’anni, gli americani hanno acque più pulite, i pesci stanno tornando in fiumi dove non se ne vedevano da tempo, e i boschi si stanno rigenerando. Questa tendenza non fa bene solo all’ambiente, ma anche al proprietario di una abitazione.

Col tempo, le comunità che tollerano alti livelli di inquinamento tendono al declino. Le case perdono valore perché la gente non vuole vivere in posti inquinati e poco attraenti. Le comunità con standard più severi tendono invece ad un innalzamento dei valori. Mi irritano regole e limiti quando lavoro sulla mia proprietà, ma in genere sono piuttosto soddisfatto di averle, queste garanzie, a protezione dei luoghi. I progetti di legge cosiddetti di tutela dei diritti di proprietà non proteggono la proprietà, ma semplicemente ne trasferiscono il controllo: da chi possiede la propria casa ai grandi proprietari di terreni edificabili.

Altri testi simili a quello proposto, sul tema dei diritti e del rapporto pubblico/privato, al sito del World Policy Institute, da cui ho ripreso questo articolo del NYT. Da confrontare anche con l'approccio messianico dei neo-conservatori riportato su Eddyburg (fb)

Chi ha paura dei soprintendenti

Adriano La Regina

La Stampa del 24 novembre 2004 pubblica un ampio stralcio della denuncia del responsabile dei Beni archeologici romani scritto per il la rivista Micromega: «Molti ambienti politici e imprenditoriali alimentano il mito di uno strapotere che non abbiamo, per giungere alla definitiva soppressione del nostro ruolo»

L’insofferenza nei confronti della tutela esercitata dalle soprintendenze è una vecchia storia. Nel dopoguerra, quando ogni freno alla peggiore speculazione edilizia era stato rimosso con il pretesto delle urgenti necessità, venne accreditato presso l'opinione pubblica italiana il luogo comune della ricostruzione e dello sviluppo economico fortemente ostacolati dalla tutela archeologica. In realtà da parte di alcune soprintendenze si tentava solamente di evitare in quegli anni di disordinata trasformazione i maggiori guasti che si stavano producendo al territorio nazionale e di cui tuttora dobbiamo lamentarci.

Da allora l'applicazione dei «vincoli archeologici», come venivano comunemente definiti i provvedimenti di riconoscimento del notevole interesse archeologico dei suoli, è divenuta sempre più difficile. Procedure estenuanti sono state progressivamente introdotte per rallentare l'esercizio della tutela con il risultato di favorire le attività speculative ai danni del patrimonio archeologico. Nel contempo, a partire dalla meta degli anni Ottanta le soprintendenze subivano un graduale e inarrestabile indebolimento con il blocco delle assunzioni di personale tecnico-scientifico. Potrà sembrare incredibile, ma sono occorsi circa vent'anni, a partire dal 1980, per riuscire a vincolare solamente un terzo del comprensorio archeologico della via Appia nel territorio del comune di Roma. Si calcolò allora che per riuscire a proteggere tutte le aree ed i monumenti di evidente interesse archeologico nella città di Roma sarebbero stati necessari, con quelle procedure e in quelle condizioni di efficienza operativa, almeno duecento armi.

Con le nuove norme approvate quest'anno la procedura prescritta per adottare un vincolo è divenuta ancora più defatigante. Alle difficoltà già descritte si è infatti aggiunto un altro non facile passaggio burocratico, il parere di un comitato regionale di coordinamento composto da tutti i soprintendenti della regione. È evidente l'intento di vanificare quelle pur minime capacità che restavano alle soprintendenze per esercitare i proprii compiti. Questa misura ulteriormente restrittiva nei confronti dell'azione di tutela sarebbe stata adottata per frenare un eccessivo potere dei soprintendenti, perché la nuova riforma, con le parole del ministro Urbani in un'intervista del 26 settembre, «"uccide" alla radice il potere monocratico di quelle che talvolta erano vere e proprie satrapie, sostituendolo con decisioni prese in modo collegiale». È un riferimento specifico alla procedura instaurata per l'applicazione dei vincoli, l'unico caso in cui il nuovo regolamento richieda esplicitamente il parere collegiale nel comitato regionale.

Questo dello strapotere dei soprintendenti è veramente un mito perdurante, tuttora alimentato dall'intento, ormai non più sottaciuto da parte di molti ambienti politici e imprenditoriali, di giungere alla definitiva soppressione delle soprintendenze. I vincoli, infatti, seppure proposti dai soprintendenti come è tuttora secondo le nuove norme, in passato sono stati sempre approvati solamente dai ministri o dai direttori generali, dopo l'esame da parte di ispettori centrali e di altri uffici ministeriali. Ulteriori valutazioni di legittimità nella maggior parte dei casi sono scaturite dai ricorsi ai tribunali amministrativi, che comportano anch'essi tempi lunghissimi. La procedura era già così arzigogolata e disarmante da rendere eroico e al tempo stesso inoffensivo qualunque intento di esercitare regolarmente quelle funzioni di tutela che la legge attribuisce alle soprintendenze. Adesso è divenuto praticamente impossibile.

Insofferenza ancora maggiore si è manifestata in anni recenti nei confronti della gestione pubblica del patrimonio culturale, sulla quale è stato gettato discredito nonostante i risultati raggiunti, che per fortuna ci vengono riconosciuti almeno negli ambienti internazionali, e nonostante le condizioni indegne in cui sono state intenzionalmente tenute le nostre istituzioni culturali. Si è infatti venuto vieppiù affermando il mito dell'impresa nella valorizzazione del patrimonio culturale. [...]

L'Italia era riuscita a crearsi, dalla fine dell'Ottocento, un sistema per la difesa del patrimonio culturale, con buone capacità di ricerca e di vera valorizzazione; un sistema inteso al riconoscimento, allo studio e alla salvaguardia dei beni di interesse storico, artistico e del paesaggio. Questa struttura è stata gradualmente costruita attraverso tutte le difficoltà dei tempi, certamente meno opulenti di quelli attuali, e ha dato lustro al paese sul terreno della conoscenza e della conservazione. Adesso viene svilita e umiliata con il depauperamento delle sue capacità scientifiche, con la riduzione della sua efficienza e con una politica ormai intesa ad altro. È infatti luogo comune che la conservazione del patrimonio culturale non connessa alla valorizzazione sia attività sterile. A parte l'ambiguità dei termini che non lascia mai intendere se il patrimonio culturale sia l'oggetto della valorizzazione oppure se esso ne sia lo strumento con finalità di profitto, tutto questo sembra dimostrare come siamo ormai giunti al tramonto di una delle più nobili glorie della cultura italiana.

Città e territorio sono pressoché scomparsi dalla riflessione della sinistra. Eppure nelle nostre città è in atto un processo di cambiamento che sta mutando il destino di intere fasce sociali. Il primo grande fenomeno riguarda la concentrazione della proprietà immobiliare nelle mani di pochi gruppi, complici le numerose leggi di alienazione del patrimonio pubblico. Qui ha origine la vertiginosa crescita dei valori immobiliari e il fatto che una fetta sempre più grande di popolazione non riesce a sopportare gli affitti né a poter accedere alla proprietà. Nel decennio tra i due ultimi censimenti abbiamo così assistito a un massiccio trasferimento di popolazione da tutte le città capoluogo di provincia verso i comuni delle cinture metropolitane dove i prezzi delle case sono più bassi. E' un fenomeno rilevante che ha coinvolto centinaia di migliaia di famiglie. E' del tutto evidente che il livello della qualità della vita di queste famiglie è peggiorato per la necessità di compiere lunghi spostamenti quotidiani per arrivare nei luoghi di lavoro.

Il secondo grande fenomeno in atto è l'inarrestabile restringimento del welfare che si riflette nella diminuzione dei servizi pubblici e nella progressiva privatizzazione di alcuni di essi. Chi può paga, mentre una parte della popolazione riduce il suo livello di vita. Il fenomeno riguarda ogni settore, dai trasporti pubblici alla scuola, dal verde alla sanità: la sicurezza sociale di interi ceti sociali si riduce poiché si basava su questa rete di servizi pubblici.

Infine il metodo delle decisioni. Nell'ultimo decennio una serie ininterrotta di leggi derogatorie consentono alla proprietà fondiaria di poter decidere ogni trasformazione immobiliare senza attivare procedure democratiche di approvazione. Tutto avviene in un oscuro dialogo tra poteri forti senza coinvolgimento delle popolazioni interessate. Un esempio per tutti: la discarica di Acerra è stata decisa dalla società privata cui era stata affidato lo smaltimento dei rifiuti. Eppure, invece di queste aberrazioni, si parla «dell'egoismo» degli abitanti. Sono convinto che il motivo del silenzio della sinistra sia rintracciabile nel fatto che una parte di essa è convinta che i problemi urbani vanno lasciati al mercato e non sia più necessario alcun intervento pubblico. Non è soltanto per opportunismo, dato che alcune di queste immobiliari si chiamano Pirelli RE: il problema è culturale. La destra sta cercando di chiudere una fase storica: è infatti in discussione alla Camera dei deputati una legge che affida addirittura - come nel caso di Acerra - la funzione di pianificazione ai privati. Sembrerà incredibile, ma una parte della cultura urbanistica di sinistra appoggia apertamente questa sciagurata legge. Il problema è dunque nella cultura con cui la sinistra saprà affrontare il tema della casa, dei servizi e della difesa della natura pubblica del governo delle città, del territorio e dell'ambiente. Nel comprendere che le città sono al centro di uno scontro di potere tra interessi ristretti e interessi diffusi. Nel perseguire - proprio a partire dalle aree urbane - l'obiettivo di mantenere livelli di uguaglianza e diffusione del benessere.

*Urbanista, Associazione Polis

Da qualche tempo le trasformazioni urbane non seguono più i «grandi disegni» dei gruppi dominanti. Le modificazioni che accadono nella città contemporanea sono essenzialmente l'esito «del rapido succedersi - come ha scritto Bernardo Secchi - di una folla oscura di scambi tra soggetti dall'identità cangiante che agiscono entro logiche rapidamente mutevoli». La velocità di questi «scambi» è facilmente verificabile: il costruito intorno a noi si espande e stratifica a dismisura riducendo il territorio a uno spazio indifferenziato nel quale si depositano i volumi edilizi di qualsiasi tipologia purché soddisfino le leggi del consumo. Ha scritto di recente Vittorio Gregotti ( L'architettura del realismo critico, Laterza, 2004) che la periferia o lo sprawl che si diffonde con progressione intorno e dentro la città trova fondamento nella perdita di «regole chiare e culturalmente condivise di disegno urbano» e nella «scarsità culturale dell'imprenditore-architetto». La «civile modestia» di entrambi ci propone modelli insediativi banali e inespressivi perché estranei alla storia e al paesaggio ma organici solo alle logiche del mercato. Il disagio umano che vi si vive attende di essere guarito e in molte città d'Europa ciò sta avvenendo con politiche urbane mirate di riqualificazione ambientale e sociale. Di fatto, il malessere della «Città panico» assume carattere d'urgenza e nell'attesa dell'«implosione pirotecnica» delle periferie, come prefigura Paul Virilio, una quantità di materiali si accumulano per farci comprendere da ogni punto di vista la condizione esistenziale, sociale ed estetica che producono quei luoghi marginalizzati. Intorno ai conflitti prodotti dalle periferie da diversi anni si sono concentrati gli interessi non solo di architetti, urbanisti, filosofi e sociologi, ma anche di artisti che dalle contraddizioni metropolitane hanno tratto riflessioni critiche di indubbio interesse.

A Reggio Emilia la mostra Suburbia (fino al 12 settembre), promossa dal Comune e dai Musei Civici della città emiliana e curata da Marinella Paderni e Marco Senaldi, si occupa di documentare la ricerca di diversi giovani artisti che in tre luoghi della città - Chiostri di San Domenico, Officina delle Arti, ex Fonderia Lombardini, oggi sede dell'importante Fondazione nazionale della danza - espongono le loro opere creando uno «spaccato della dimensione umana della periferia odierna con le sue paure, le sue difese, i suoi progetti, i suoi comportamenti» (Paderni). In questo senso tutti gli artisti selezionati compongono una «polifonia di sguardi» ove le tecniche e linguaggi dell'arte possono da un lato essere strumento di riscatto dell'anonimato dei luoghi metropolitani, dall'altro momento di seria riflessione critica sul presente. Nella mostra ogni retorica sulla periferia è bandita: sia essa pittorica, nelle forme nostalgiche ed estetizzanti dell'iperealismo, sia teorica, nella restituzione saggistica della Generic city, intesa quale diversa e legittima espressione di «bellezza» che ancora dobbiamo comprendere e cinicamente nel futuro accettare.

Al contrario, ciò che fa da filo conduttore dell'intero percorso espositivo, è l'idea di progetto che fonda le varie «microutopie» in mostra sia nel senso della realizzazione materiale dell'opera d'arte sia in quello del contenuto critico che le motiva. I conflitti della città sono qui espressi come elementi trasfigurati dall'immaginazione e non ridotti ad asettiche rappresentazioni, le contraddizioni della realtà urbana sono materiali manipolati dalla creatività riflessiva e non sterili immagini della metropoli.

Nei chiostri di San Domenico sono già tutti evidenti i temi che in diverse forme saranno presenti nelle altre sedi espositive. Il contrasto, per iniziare, tra la velocità e la permanenza delle trasformazioni urbane. Gli scatti fotografici di Paola Di Bello sopra il cavalcavia di via Monte Ceneri a Milano sono raccolti di corsa e restituiti in una stampa formante un emiciclo. In velocità sono anche i cambiamenti ambientali descritti nel lavoro di Natacha Anderes. Il quartiere Tolbiac a Parigi e i cantieri ferroviari dell'alta velocità nei pressi di Reggio Emilia sono riprodotti in plastilina perché l'opera segue le rapide trasformazioni del territorio, modificandosi fisicamente anch'essa nel corso del tempo, secondo precise clausole contrattuali con l'acquirente del quadro. Altrettanto veloci sono le «astrazioni pittoriche» delle highway di Carolyn Chambliss: macchie di colore che simulano a distanza l'immagine digitale di queste «cattedrali della mobilità» (Ingersoll), frammentaria e mobile quanto la percezione dello spazio vissuto dentro l'auto.

In senso opposto, altri artisti si confrontano con il tema della permanenza e della durata. Rientrano in quest'ambito le installazioni di Flavio Fanelli: pochi elementi di arredo di case da lui abitate che decontestualizza per comunicarci la transitorietà dei luoghi oppure l'opera di Andrea Contin che con la sua compagnia di facchini ammucchia masserizie e vecchi mobili anch'essi simboli della precarietà degli spazi che viviamo e degli oggetti che ci stanno attorno. In entrambi si tratta di poetiche abusate - le più deboli dell'intera mostra - che si giustificano solo all'interno del progetto espositivo. Diversa è la riflessione che svolgono una serie di fotografi: ad esempio quella «notturna» di Paola Di Pietri o «in luce» di Paola Dellavalle e Fulvio Guerrieri. Il soggetto è sempre il villino della piccola borghesia: micromostri edilizi che coniugano il pastiche stilistico delle facciate con la solitudine culturale di chi li progetta e di chi li possiede. Un fenomeno, quello dell'architettura informe o spazzatura ( junk architecture) che è ormai presente in ogni parte del pianeta. Francesco Jodice l'ha filmata in Marocco, in riprese notturne che rendono evidente quanto sia diffusa l'arbitrarietà dei segni - vero «deposito significativo del disordine» (Gregotti) - e specchio dell'ideologia globale del mercato. Rispetto al caos metropolitano e «glocale» (globale + locale) l'equilibrio che Luca Pancrazi propone con le sue parti di città miniaturizzate sembra prefigurarci un destino diverso attraverso l'integrazione sociale di arte e infrastrutture. Al tempo stesso, però, con le sue piccole telecamere che nascoste all'interno del plastico riproducono su video il comportamento del visitatore-Gulliver, ci fa riflettere sul controllo sociale che nella metropoli può esercitare chiunque detenga il potere dei media.

Intorno al tema della comunicazione e dell'integrazione sociale si orientano le azioni del laboratorio di arte urbana del gruppo Stalker. Non a caso la visione del loro video Corviale Network è nell'Officina delle Arti: un edificio alla periferia di Reggio Emilia, recuperato dall'amministrazione comunale e assegnato a giovani architetti, artisti, designers, con il compito di aprire le loro ricerche e attività professionali ai cittadini in un confronto diretto e partecipe con la città. Gli Stalker hanno sempre prediletto nel corso dei circa dieci anni della loro attività un particolare interesse per le aree più marginali ed escluse della città. Nel caso di Corviale - un chilometro di edificio multipiano costruito nella campagna a sud di Roma - il loro interesse è di recuperarlo dando dignità a chi l'abita. Un'impresa che passa, nonostante il loro impegno, attraverso investimenti pubblici significativi per recuperare non solo il complesso edilizio ma anche le aree esterne che vi stanno intorno e che consiste nel disegnare nuovi spazi per i servizi, progettare la flessibilità delle unità abitative, ripensare l'uso delle aree comuni; il tutto nell'ambito di regole democratiche di assegnazione, di serio controllo della spesa e di autentico impegno per l'assistenza ai nuclei familiari più deboli. L'augurio è che la presenza del gruppo Stalker con il loro network contribuisca all'affermazione di questo risultato quanto la recente nascita di TeleCitofano, la prima telestreet del capoluogo emiliano, riesca a togliere dall'isolamento individui, gruppi, associazioni, «dando voce a chi non ce l'ha»: quelle figure, moltissime straniere, che Fabio Boni mette in posa nei giardini pubblici di Reggio Emilia e che fotografa cercando anche lui di rompere così la loro diffidenza e paura.

Ha scritto Mike Davis in catalogo: «Buona parte del mondo urbano sta tornando rapidamente all'epoca di Dickens». A differenza, però, dei tempi dello scrittore inglese non è l'industrializzazione ad attrarre moltitudini di persone nelle metropoli. Le cause, soprattutto per i paesi del Terzo Mondo, ricadono nel fatto che il capitalismo tecnologico ha sganciato la crescita della produzione da quella dell'occupazione. Nelle metropoli crescono a dismisura gli slums e la povertà urbana. Possiamo anche seguire i consigli di Massimo Canevacci (intervistato da Marco Senaldi) per avere una «buona etnografia» e predisporci al «nuovo sentire ibrido metropolitano» ma è urgente un progetto senza ideologismi, riflessivo e critico sulla città che contrasti l'«urbanizzazione della povertà». «Suburbia» non può essere soltanto «descritta» ma occorre pensarne il cambiamento.

Nessun regista per la città

Le nuove nebulose urbane nel saggio «Sprawltown» di Richard Ingersoll (Meltemi)

Sprawltown è una parola di difficile traduzione in italiano. È un neologismo americano che applicato all'urbanistica intende una crescita urbana senza regole e senza forma. Nel corso degli ultimi decenni sta a significare non solo genericamente la periferia bensì quella «nebulosa urbana» che gravita intorno alle città ma che è anche al suo interno ed è composta di incongrue emergenze edilizie come di aree abbandonate (terrain vague). Sprawltown è il titolo scelto da Richard Ingersoll per il suo saggio (Meltemi, pp. 236, € 19,25) che descrive questo particolare fenomeno di morfologia urbana che però ingloba anche aspetti esistenziali. Infatti, «la diffusione dello sprawl - scrive Ingersoll - non dipende soltanto da come si occupa lo spazio, ma soprattutto da come lo si vive». Nell'ambiente periurbano centri commerciali e multisale, aree industriali e della logistica, lottizzazioni residenziali e infrastrutture, creano un amalgama di estesa conurbazione dove le categorie «classiche» di centro e periferia, urbano e rurale, comunità e individuo, sono del tutto superate assumendo nuovi significati, più complessi e articolati. Nel contesto posturbano il lavoro e l'educazione, lo svago e i consumi degli individui seguono altre regole e valori dati dalla dimensione spaziale, frammentaria e policentrica, di un tessuto urbano «generico» e «senza storia» come il «rizoma antigerarchico», già descritto da Deleuze-Guattari - «ove un qualsiasi punto e in relazione a qualsiasi altro» - in una rete di così ampia estensione che solo l'informatica può fornirgli un ordine (cyborg). La descrizione della città contemporanea di Ingersoll alterna teorie urbanistiche a racconti di luoghi dove si esprimono nuovi comportamenti sociali e nuovi soggetti come, ad esempio, il «cittadino-turista»: «abitante ibrido» dei centri commerciali e del museo metropolitano, entrambi spazi dove si perpetua il rito del consumo delle merci e tutto si simula per sembrare vero. E' il «cittadino-turista» a consumare la «città-cartolina», simbolo dell'imperialismo economico destinata ad essere «strangolata» dalla «città generica», quella «cinicamente utilitaristica e senza etica» prefigurata dall'architetto olandese Rem Koolhaas. Se il turismo iberna le città storiche stravolgendole nella loro vita civica e riducendole a simulacri di se stesse, altra questione è ciò che vi accade intorno: nelle aree metropolitane composte dai centri urbani satelliti della città. Lì dove un denso reticolo stradale ha creato uno spazio urbano la cui percezione privilegiata è quella che si ha nell'abitacolo dell'auto. Noi percepiamo questi spazi come un «montaggio rapido» (jumpcut) di immagini in movimento. E' questo il cosiddetto Jumpcut urbanism: una condizione del paesaggio che, come nel cinema, accelera e frammenta lo sguardo in piani sequenza ma che a differenza di qualsiasi racconto cinematografico non conosce regia. Tutto, infatti, si succede «a casaccio», senza l'ordine di una teoria che regoli i conflitti e sappia governare le «mostruose incongruenze di frammenti architettonici e i vuoti sproporzionati».

Ingersoll sente la necessità, a differenza di tanti moderni esegeti dei «non-luoghi», di ricercare soluzioni urgenti al degrado umano e ambientale che le città subiscono. Oltre le analisi dei fenomeni urbani planetari occorre ricercare almeno dei correttivi per fare avanzare un «nuovo civismo». Si può, innanzitutto, «ridistribuire lo sguardo» trasferendo, ad esempio, i musei e le altre «attrazioni» della città in periferia oppure in contesti emarginati integrandole con le realtà locali. Inoltre, si può incidere contro l'economia parassitaria provocata dal «cittadino-turista» incentivando e salvaguardando le attività produttive nei luoghi da lui frequentati oppure evitando scelte monofunzionali inserendo programmi d'uso differenziati. Infine, poiché nella città si concentrano i più gravi sprechi di risorse, un ruolo importante lo dovrà svolgere l'ecologia. Intendere Sprawltown come una «seconda natura» significa per Ingersoll prendere atto che l'«apocalisse ecologica» è già in atto e che il processo entropico è inarrestabile, quindi: «Piuttosto di redimere il mondo, cercheremo di introdurre terapie che ne permettano una fine dignitosa». Il «Bioregionalismo» - l'idea che l'urbanistica debba seguire la logica dei fattori naturali - preconizzato dal biologo Patrick Geddes, può servire da modello di riferimento urbanistico, così come l'«agri-civismo» - la possibilità di preservare le aree verdi delle città facendole «appartenere» all'abitato, quindi responsabilizzandone la salvaguardia - può generare un nuovo impegno civico. La scala e le dimensioni degli interventi determineranno i risultati. È nella ricerca di forme di integrazione tra lo sprawl e la città che la politica

Titolo originale Strengthening the Connection Between Transportation and Land Use – traduzione di Fabrizio Bottini

Quella della ” Smart Growth” è una questione di cui si parla in tutto il paese. Cittadini e funzionari pubblici in molte zone in crescita stanno tentando di essere quanto più smart possibile nel controllarla, così che non travalichi le capacità delle infrastrutture, delle scuole, dell’organizzazione di servizi pubblici, o abbia altri effetti negativi sulla qualità della vita nell’area. Nei sondaggi di opinione condotti da Tampa a Minneapolis, da Denver alla Baia di San Francisco, i cittadini indicano lo sprawl come il principale problema delle loro zone, e indicano un efficiente sistema di trasporti come strettamente legato ad un’alta qualità della vita.

Questa opinione pubblica ha determinato le politiche di sviluppo in molte aree. Per esempio nel novembre 2000, sono state messe ai voti 533 misure statali e locali connesse alle modalità di crescita, in 38 Stati. In generale, il 72 per cento di queste proposte è stato approvato; ad ogni modo, non è detto che ogni “si” indichi un sostegno alle idee e politiche di smart growth insite nel testo delle singole misure.

Questi provvedimenti riguardano aspetti della crescita diversi ma correlati. Circa la metà si occupa di conservazione degli spazi aperti, e un quarto si indirizza alle infrastrutture statali e locali. Le misure sugli spazi aperti sono particolarmente popolari: è stato approvato il 78 per cento delle 257 proposte su questa materia, con un significativo incremento dall’ultima consultazione nel 1998. Anche le proposte sui trasporti, che si concentravano sullo sviluppo del sistema pubblico e di mobilità alternativa all’auto, o sulla costruzione di strade e autostrade, hanno in generale avuto sostegno.

Esempio di referendum legato ai trasporti proposto agli elettori nel 2000, è la proposta del New Jersey di modificare la costituzione dello Stato, per raddoppiare le quote delle tasse sui carburanti e il commercio utilizzate in progetti di costruzione, riqualificazione, manutenzione del sistema stradale. Le modifiche proposte spostano il gettito delle tasse esistenti dal fondo generale del tesoro di stato, direttamente al Transportation Trust Fund.

Gli elettori di Denver hanno approvato una misura che consente alla città di spendere circa 5,8 miliardi di dollari, di un surplus di bilancio e di altri attivi generati nei prossimi quattro anni, in progetti per case popolari e trasporti, che rendano più accessibile la vita e il lavoro in città, riducendo la congestione da traffico.

Comunque, alcune delle proposte sono state respinte. A Charleston, South Carolina, è fallita l’idea di incrementare dell’ 0,5% le tasse sul commercio per 25 anni, al fine di raccogliere 1,2 miliardi di dollari da investire in trasporti pubblici, strade, conservazione di suoli, parchi, e gestione dell’autorità regionale trasporti, nonostante il forte sostegno di molti leaders locali. Anche nello Stato di Washington non è passata una misura che avrebbe richiesto di spendere il 90% dei fondi nazionali e locali per il trasporti in costruzione, ripristino, gestione, manutenzione di strade.

Il fatto che queste proposte siano comparse in così tante consultazioni a scala nazionale, indica un consenso generalizzato sul fatto che la crescita debba avvenire in modo diverso, ma nello stesso tempo il fatto che le misure siano tanto varie, e abbiano avuto vario successo, indica come non ci sia una chiara e universalmente condivisa direzione corretta verso cui crescere.

La Smart Growth implica una prospettiva olistica di sviluppo, e si radica in molte questioni oltre quella dei trasporti. Alcune di esse, sono lo sviluppo urbano, la casa, l’urbanizzazione, la conservazione degli spazi aperti, la qualità dell’ambiente, la tutela degli spazi storici. Quello che funziona in un ambito, può non funzionare nell’altro, ma l’attenzione della smart growth si punta su parecchi principi di massima: usi misti del suolo, i vantaggi dell’edificazione compatta, la diversificazione delle opportunità di scelta residenziale, la conservazione degli spazi aperti, la priorità dello sviluppo nelle aree già urbanizzate anziché in quelle inedificate.

Da una prospettiva dei trasporti, la smart growth comprende la realizzazione di spazi percorribili a piedi, e la messa a disposizione di varie possibilità di trasporti, così che i residenti abbiano alternative all’auto con a bordo il solo guidatore, per muoversi da un luogo all’altro. Tutte queste questioni richiedono a gran voce professionisti dei trasporti, ambientalisti, conservazionisti, costruttori, altri operatori, e la collettività tutta, a lavorare in modo collaborativo per realizzare solide comunità.

Molti dei programmi esistenti e altre iniziative della Federal Highway Administration (FHWA) contribuiscono a conseguire gli scopi della smart growth e della vivibilità urbana. Essi comprendono:



I trasporti sono inestricabilmente legati alla smart growth e alla qualità della vita. Se non c’è ancora un’idea chiara e condivisa sui modi migliori per gestire efficacemente la crescita, i molti referendum connessi al suo rapporto con i trasporti delle elezioni del 2000 mostrano la volontà dei cittadini e dei governi di sperimentare strategie e politiche per dare una forma allo sviluppo nei propri Stati, contee, città. E la vitalità di molti centri continua ad essere determinata dalla loro capacità di rispondere alle questioni dei trasporti e dell’uso del suolo.

Nota: link al sito di Public Roads, rivista online (e non) della Federal Highway Administration. Altri materiali, di carattere storico e tecnico, sono disponibili alla homepage della FHWA. (fb)

Doverosa premessa - di Fabrizio Bottini

Mitridatizziamoci alle cazzate! Credo sia l’unica esortazione possibile, quando si affrontano testi e temi che avrebbero dell’incredibile se non fossero, appunto, credibilissimi e quotidianamente sventolati da infiniti pulpiti. Mitridatizziamoci alle cazzate, perché se il veleno non si può evitare, almeno bisogna abituarcisi poco a poco. È l’idea di quanto troppo sia il “poco”, a spaventare mica poco.

Troppo come la pappardella neocon antiambientalista che ho trovato in un sito di varia umanità modestamente chiamato Discerning Today, e gestito dal tale Michael Coffman Ph.D., il quale usa la philosophy del suo titolo per renderci un po’ più inclini a “discernere” un complotto internazionale. Al Quaeda, Saddam, i vecchi comunisti? Macché, ci spiega il Ph.D., quelli sono solo e al massimo la punta dell’iceberg. Sotto c’è ben di peggio: il movimento ambientalista che, addirittura, pare si sia subdolamente infiltrato anche nell’amministrazione Bush Senior, e financo negli anni Settanta in quella del compagno Nixon.

Ma niente paura, l’intrepido Michael Coffmann oppone il suo Ph.D. alle perfide bordate dei sovversivi demoni ecologisti, al punto, come ci racconta, da aver scritto un libro tanto influente da bloccare il trattato mondiale sulla biodiversità “poche ore prima che fosse ratificato dal Senato Americano”. Un bel successone.

In sintesi, e come ogni classico predicatore bibbia/fucile da film di serie B, Coffmann ha una inesauribile serie di citazioni del Libro pronte ad ogni uso, soprattutto quello di indicare i rischi mortali di tutto quanto è (parolaccia!) “internazionale”, cioè non-Americano, cioè pare di capire non grettamente reazionario. Ma lasciamo che sia lui a parlare, anche se tramite l’indegna traduzione del sottoscritto.

Michael Coffmann Ph.D., Il dominio internazionale sulle leggi statunitensi in materia ambientale e la proprietà privata(traduzione di Fabrizio Bottini)

Pochi americani capiscono quanto molte delle nostre leggi e regolamenti federali sull’ambiente abbiano origine a livello internazionale. Sono leggi che hanno un effetto devastante sulla proprietà privata, e che strappano centinaia di milioni, forse di miliardi di dollari di valore dei terreni ai nostri concittadini rurali. Documenti federali rivelano come le agenzie pubbliche abbiano più voglia di applicare queste leggi internazionali di origine socialista, che di proteggere e servire i cittadini degli Stati Uniti.

La Legge sulle Specie Minacciate, per esempio, è consentita da una serie di trattati emanati dalle Nazioni Unite, non dai poteri conferiti al Congresso così come citati all’art. 1 sez. 8 della Costituzione Americana. Tali trattati comprendono la Convention on Nature Protection and Wildlife Preservation nell’Emisfero Occidentale, e quella sul commercio internazionale delle specie vegetali e animali in pericolo. Allo stesso modo, la convenzione internazionale sulle zone umide costituisce la traccia per gran parte dei regolamenti federali in questa materia, anche se il Clean Water Act non parla nemmeno, specificamente, di zone umide.

Le agenzie federali hanno usato questi trattati, e altri più di 150 simili, per controllare l’uso della proprietà privata, dichiaratamente per il “bene pubblico”. Più di cento, di questi trattati, furono ratificati dopo il fallimentare tentativo, durato cinque anni, di Morris Udall e delle organizzazioni ambientaliste per far approvare al Congresso leggi federali sul controllo nell’uso del suolo nei primi anni Settanta, sulla base dello studio The Use of Land: a Citizen's Policy Guide to Urban Growth, del 1972. Lo studio affermava che il suolo era essenziale per la sopravvivenza umana, e che pianificarne un saggio uso era il migliore strumento per guidare la crescita in direzione di benefici economici e tutela della qualità ambientale. Laurance Rockefeller finanziò lo studio, e William K. Reilly, che più tardi sarebbe diventato presidente dell’Agenzia per l’Ambiente sotto Bush Sr., ne curò la pubblicazione.

Dopo il fallimento dei tentativi di ottenere un controllo sui suoli attraverso la legislazione degli Stati Uniti, la Conferenza delle Nazioni Unite sugli insediamenti umani (Habitat) di Vancouver del 1976 sposò gli stessi principi di The Use of Land. Ad esempio, il rapporto della Conferenza al punto 10 della premessa dichiara:

“Il suolo non può essere considerato come un bene ordinario, controllato da individui e sottoposto alle pressioni e inefficienze del mercato. La proprietà privata dei suoli è anche strumento primario di accumulazione e concentrazione di ricchezza, e dunque contribuisce all’ingiustizia sociale; se non controllata, può divenire un grave ostacolo nella predisposizione e attuazione di piani di sviluppo. Abitazioni dignitose e condizioni salubri per gli abitanti, possono essere ottenute solo se il suolo è utilizzato nell’interesse della società nel suo insieme. Dunque è indispensabile un controllo pubblico nell’uso del suolo. (corsivi di Michael Coffmann Ph.D.)

Con questo documento, si rivendica il modello socialista sui diritti di proprietà come base della futura politica delle Nazioni Unite:

La proprietà pubblica, o comunque un effettivo controllo pubblico, sull’uso del suolo, è il metodo principale per ottenere una più equa distribuzione dei benefici dello sviluppo. ... I Governi devono mantenere piena giurisdizione ed esercitare completa sovranità su tali suoli ... Le trasformazioni nell’uso dei suoli ... devono essere soggette a controllo e regolamentazione pubblica ... per il bene comune”.

Il controllo statale sulla proprietà privata è al centro di qualunque trattato internazionale dagli anni Settanta. La Convenzione sulla Diversità Biologica, bisnonna di tutti i tentativi per il controllo di uso dei suoli, è stata introdotta nel giugno 1992 al summit di Rio de Janeiro. L’articolo 8 di questo breve trattato di 18 pagine chiede che le nazioni “regolino o gestiscano le risorse biologiche importanti per la conservazione della biodiversità”.

Il che, tradotto, significa letteralmente che gli stati devono approvare e applicare leggi che limitano le attività di uso del suolo potenzialmente dannose per la biodiversità degli ecosistemi, il che comprende quasi tutti gli usi del suolo. La pubblicazione da parte delle Nazioni Unite delle millecento pagine del Global Biodiversity Assessment (GBA), nel 1995, articola questa idea, e aiuta a definire il linguaggio applicativo del precedete, incompleto trattato. Il GBA chiama i proprietari a:

“cedere i propri diritti a qualche tipo di autorità che regolamenti le decisioni [perché] le risorse non sono di loro uso esclusivo: essa hanno natura di beni pubblici ... I diritti di proprietà possono applicarsi a beni pubblici ambientali, ma in tali casi devono essere ristretti a diritti d’uso. Quote di raccolto, emissione di titoli e diritti edificatori ne sono esempi”.

Ciò rappresenta una palese contraddizione con gli intenti della Costituzione americana: che i Padri Fondatori hanno concepito per proteggere i diritti di proprietà, non per controllarli. Comunque, il vero pericolo di questo trattato è l’intenzione di destinare dal 30 al 50 per cento degli Stati Uniti a riserve naturali e corridoi di connessione, per proteggere gli ecosistemi e la biodiversità. Questo obiettivo è stato esposto al Senato degli Stati Uniti poche ore prima della prevista ratificazione, bloccandola: una delle poche nazioni del mondo a farlo.

Anche prima che l’accordo fosse proposto al Senato per la ratificazione, l’agenzia per la protezione dell’ambiente (EPA), aveva già elaborato un piano per metterne in pratica le previsioni. Secondo un documento di lavoro interno all’EPA, datato 6 agosto 1993:

“Le agenzie interessate alle risorse naturali e all’ambiente devono sviluppare una strategia congiunta per aiutare gli Stati Uniti ad ottemperare ai propri attuali impegni internazionali (per esempio la Convenzione sulla Biodiversità) ... L’esecutivo dovrebbe guidare le agenzie federali a considerare politiche nazionali ... alla luce delle politiche e degli obblighi internazionali, e a modificare quelle nazionali per conseguire obiettivi internazionali”.

È impressionante: la strategia dell’EPA è quella di invitare le agenzie federali a valutare le politiche nazionali, e a modificarle per renderle conformi ad obiettivi internazionali. Cambiare la politica nazionale è compito costituzionale del Congresso USA, non dell’esecutivo, e certamente non delle agenzie federali. Nonostante questo certi burocrati ritengono che la loro responsabilità verso obiettivi internazionali sovrasti la Costituzione degli Stati Uniti e il loro mandato di servire il popolo americano.

Nonostante gli Stati Uniti non abbiano ratificato il trattato, l’amministrazione Clinton ha comunque applicato la Convenzione secondo la strategia dell’EPA. Il primo atto ha interessato oltre venti milioni di ettari di parchi nazionali e altre terre registrate secondo la convenzione delle Nazioni Unite del 1972 Protection of the World Cultural and Natural Heritage, e il programma dell’UNESCO Man and the Biosphere. La gestione di questi parchi e riserve è stata trasformata per adeguarsi ai protocolli della Convenzione sulla Biodiversità e altri simili trattati delle Nazioni Unite, anziché per servire l’interesse pubblico americano.

Due altri notevoli tentativi di un certo significato, per il controllo nell’uso del suolo a livello federale, sono il programma American Heritage Rivers (AHR) e quello del Vicepresidente Gore, Clean Water Initiative (CWI). Entrambi sono il parto del trattato sulla biodiversità, e della Agenda 21 delle Nazioni Unite. Come sembra essere diventato norma, il Congresso USA non ha votato nessuno dei due programmi. Il Presidente Clinton li ha attuati con ordinanze esecutive. Agenda 21 è un documento delle Nazioni Unite di quaranta capitoli per riorganizzare il mondo secondo regole socialiste e autoritarie.

Il Clean Water Action Plan, del 1998 nell’ambito della CWI, prevede la cancellazione di ottomila chilometri di strade su terreni federali all’anno, e la destinazione della colossale quantità di “ 32 milioni di miglia a fasce di conservazione” su terreni agricoli. Il potenziale impatto di questi programmi è enorme. Lo Stream Corridor Plan del Dipartimento all’Agricoltura richiede che questi corridoi di conservazione siano ampi quanto i bacini alluvionali dei fiumi su una base di cento anni, che possono essere larghi anche parecchi chilometri. Anche una fascia di protezione di dieci metri, su uno sviluppo di tre milioni di chilometri fa un totale impressionante: l’area di un intero stato.

Nello stesso modo, anche l’AHR chiarisce subito che i propri programmi probabilmente interesseranno “interi bacini idrografici”, semplicemente classificando una porzione del fiume come American Heritage. Tecnicamente, l’intero bacino del Mississippi , che copre il 40% degli Stati Uniti, ora è sottoposto al programma AHR! Con un gigantesco balzo verso l’imposizione federale di controlli nell’uso del suolo, il CWI propone mille ambiti fluviali come “bacini rurali critici”, da sottoporre a particolare regime, secondo “standard applicabili”, coerenti con obiettivi di “pianificazione di bacino”.

Promossi nel quadro di una rifondazione dei metodi di governo, sia AHR che CWI sono spacciati come azioni “radicate a base comunitaria”, sotto il controllo degli abitanti locali. In realtà, ciascun passo è compiuto sotto il controllo diretto dall’alto dei federali. Letteralmente, secondo l’AHR una comunità di bacino è “autodefinita dai membri della comunità”. Il CWI lo chiama Watershed Council. Questi consigli non rispondono alle persone interessate dalle loro politiche. Ma essi hanno il potere di negare soldi a chi non fila dritto secondo le linee federali, o premiare chi lo fa.

L’amministrazione Clinton ha chiarito che l’idea di eco-management aveva fatto un passo di troppo, tentando di imporre un controllo federale sull’intero nord-est Pacifico, con l’ Interior Columbia Basin Ecosystem Management Project. Se fosse stato applicato per intero, il governo federale avrebbe avuto il controllo dei raccolti, delle estrazioni minerarie, coni ottici e diritti edificatori su terreni pubblici e privati nell’intero bacino del fiume Columbia, dal Canada al nord, a Idaho, Montana e Wyoming a est, a Utah e Nevada nel sud.

Sono solo pochi esempi. Molte, se non la maggior parte delle leggi, regole, programmi USA per l’ambiente discendono da trattati e programmi internazionali. Tutti, trasformano i diritti di proprietà privata della Costituzione in diritti controllati dallo Stato, dichiaratamente per conseguire certi mitici livelli di “sostenibilità”. Agendo in questo modo, come ci dice Hernando de Soto nel suo illuminante The Mistery of Capital, si distrugge o si limita la base stessa per la creazione di ricchezza. Se regole soffocanti opprimono i diritti di proprietà c’è poca giustizia, e poco o nessun capitale con cui creare ricchezza.

Per ironia, solo una nazione ricca può permettersi di proteggere il proprio ambiente. Distruggendo i diritti della proprietà privata, queste leggi e regolamenti di ispirazione internazionale stanno distruggendo la stessa possibilità di conseguire il proprio obiettivo dichiarato: la tutela dell’ambiente.

Nota: per chi vuole approfondire (o continuare a stupirsi, se è il caso), non c’è che un giro al sito Discerning the Times da cui ho estratto i brani riportati, e leggere il resto. Da confrontare anche, pur con molte cautele, con l'idea di territorio e urbanistica di Gilberto Oneto, intellettuale ambientalista della Lega Nord, del cui "manifesto" su Eddyburg riportiamo una lunga recensione (fb).

(immagini tratte dal sito)

La Lombardia? Un contesto unico al mondo per articolazione e interconnessione: un grappolo di metropoli imperniate su Milano, capaci di autonoma forza propulsiva ma anche di fare sistema. Un’imprenditoria diffusa il cui brodo di coltura vanta una tradizione plurisecolare, una pluralità di settori economici che ha finora consentito rapidi superamenti delle crisi. Ma ecco, negli ultimi decenni, la comparsa di patologie “da semplificazione”. A esserne particolarmente investito è il capoluogo regionale: mezzo milione di abitanti costretti dalla rendita immobiliare ad abbandonare la città, 900.000 auto che si riversano tutti i giorni sulla stesso cuore metropolitano, un’elevata dissipazione di energie a cominciare dalla risorsa tempo, uno squilibrio abissale fra presenze diurne e presenze notturne che di notte trasforma molte zone del centro in deserti, l’impoverirsi di un’armatura vitale come le strade commerciali, colonizzate in larga parte da banche, agenzie immobiliari e boutiques identiche a quelle che ormai si trovano in tutti gli agglomerati medi e grandi. E, fatto ancor più drammatico, dopo la scomparsa della componente operaia l’erosione del ceto medio, un tempo folta presenza distintiva della Milano in ascesa, con il profilarsi di un nuovo dualismo sociale fra ricchi e poveri che ripropone nelle strade scene sei-settecentesche.

Ma la semplificazione ha lasciato segni vistosi anche sulla trama minuta e policentrica degli hinterland metropolitani. Mentre esprime una straordinaria vitalità economica, questa trama si dimostra incapace di costruire quadri ambientali e paesaggi di qualità. A farne le spese sono luoghi un tempo segnati da una grazia diffusa, frutto della cura.

La metropoli contemporanea è stato un modo per rispondere alle crisi delle città: la coniugazione delle differenze e l’estendersi delle relazioni hanno creato un organismo più capace di promuovere la crescita economica e di evitare disastrosi regressi. Ma a fronte delle semplificazioni prodotte dai suoi sviluppi maturi, si assiste, per un verso, alla scarsa determinazione dei centri minori a conquistare caratteri e condizioni urbane e, per altro verso, all’incapacità delle stesse città a difendere e a rinnovare la propria urbanità.

Poco male dicono in molti: siamo nella post-città. La città non è più necessaria: le reti materiali e immateriali l’hanno resa inutile.

Reti, flussi e contenitori: può bastare questo a definire l’orizzonte del vivere? No: proprio quando sembra sancita l’inutilità della città, questa mostra il suo apporto specifico: prezioso quanto insostituibile. Basti pensare al tema della sicurezza che riesplode periodicamente. Il determinarsi dell’insicurezza è inversamente proporzionale al regredire di relazioni urbane. Non è la militarizzazione la soluzione, ma il perseguimento dell’urbanitas. Come? Tornando a ragionare per luoghi: perseguendo la loro complessità nelle forme, nelle presenze, nelle potenzialità relazionali, contro la tentazione a erigere recinti, che è l’altra faccia dell’utopia dell’atopia, del mito della rete a cui si va delegando il compito di tenere insieme il mondo.

Tre notizie da questa Italia. La prima: il caro-case imperversa, decine di migliaia di italiani (15mila soltanto a Roma) sono sotto sfratto per fine marzo, e non sanno dove andare. L'affitto è come sparito, reperto del passato. Pure l'edilizia popolare è fuori moda, dimenticata. Gli Istituti, regionalizzati, non hanno un euro e spesso smobilitano. I Comuni cartolarizzano il loro patrimonio e poi danno sussidi. Le Regioni operano in ordine sparso premiando per lo più la proprietà della casa. Sul tavolo dello stesso Ciampi è stata portata la denuncia di Federcase: nel nostro Paese mancano 600mila alloggi popolari.

Dagli anni 80, in modo organico, non se ne occupa nessuno. Seconda notizia: le Regioni varano leggi sul devastante condono governativo. Alcune (quelle dell'Ulivo più Liguria e Lombardia) cercano di limitarne i guasti, altre no: la Regione Lazio sanerà pure le seconde case, cioè le ville al mare, quali «abusi di necessità». Terza notizia: con la Finanziaria il governo Berlusconi taglia altre risorse ai Comuni sacrificando così i servizi ai ceti e ai soggetti più deboli. Quindi: 1) una vera politica della casa non esiste più e già si avanza una legge che privatizzerà pure l'urbanistica; 2) i condoni premiano l'edilizia illegale a spese dei Comuni gravati dei costi per i servizi; 3) nelle aree metropolitane come nei piccoli Comuni chi stava male, starà peggio.

Anni fa c'era una politica per l'edilizia sociale, per quella economica e cooperativistica. Una politica, nei casi più avanzati, volta alla tutela dei centri storici e di quanti, pur con bassi redditi, vi risiedevano in affitto. Di tutto questo c'è ben poca traccia. Ci sono i buoni-casa alle famiglie meno abbienti per consentire loro di pagare affitti altrimenti insopportabili. Ridotti del 50 per cento dal governo nell'ultimo biennio. Denari pubblici che vanno spesso a nuovi proprietari che, con la cartolarizzazione di patrimoni ex pubblici ingentissimi, stanno sconvolgendo la mappa delle residenze nelle città e cacciando altri residenti, altri artigiani, altri negozi storici. Cartolarizzazione spinta da un governo che ha fame di soldi per «fare cassa», per turare le falle aperte nel bilancio di tutti.

In Italia siamo ben oltre i 120 milioni di vani abitativi (seconde case comprese), non pochi sfitti o vuoti, più altri milioni di vani abusivi. Per una popolazione la quale invece cresce di poco, e soltanto per l'immigrazione. Ma ha bisogno di alloggi in locazione per giovani coppie, per immigrati, per sfrattati, al fine di sottrarli alla speculazione più bieca o al faticoso destino di pendolari sulla lunga distanza, con pochi trasporti abbordabili, coi treni regionali in perenne ritardo (in questo campo si è puntato tutto sulle Grandi Opere, stradali per lo più, impantanate). Alloggi potenzialmente ricavabili, spesso, dal patrimonio già esistente: antico, vecchio, degradato, da ristrutturare. Come si sta facendo in alcuni Comuni. Per esempio a Genova su vasta scala nella sua città vecchia e altrove.

Ci sono accordi di «rottamazione» e ricostruzione in atto - a Roma per il quartiere Giustiniano Imperatore, pericolante - da valutare con attenzione. Sere fa Sergio Cofferati in Tv ha indicato nella casa la prima emergenza di Bologna, cioè di una città ricca, avanzata, che però da tempo ha perduto la leadership nel campo del restauro e del recupero di case in affitto per i ceti più deboli e anche per gli studenti fuorisede, «lasciando fare» al mercato. Cioè a speculatori e affittacamere, con canoni-capestro. Succede a Bologna, città che negli anni 70 e 80 veniva portata ad esempio nell'Europa più civile per questa sua politica. Succede che i centri storici, le nostre bellissime vecchie città, se si «lascia fare» al mercato, o si spopolano desolatamente, o diventano un'accozzaglia volgare di paninerie, pizze a taglio, pub, locali notturni. In tutt'e due i casi senza abitanti veri o quasi, e con seri problemi di violenza, di spaccio, di sicurezza.

A specchio con questa autentica dissipazione se ne verifica un'altra : quella dei terreni a coltivo, a bosco, a pascolo che vengono «mangiati» da nuovo cemento e asfalto. Ogni anno almeno 100 mila ettari. In dieci anni, una regione vasta come la Puglia. Poi, dopo tanta impermeabilizzazione, ci stupiamo delle continue alluvioni.

Molto del nuovo cemento è per giunta abusivo, illegale. Se in affitto può abitare soltanto per il 19 per cento degli italiani (contro il 59 per cento dei tedeschi e il 46 dei francesi), se condoni e sanatorie sono frequenti come le lotterie, perché non farsi la prima casa, e magari pure la seconda, abusivamente, magari in zona protetta, nei parchi, lungo le spiagge, o con affaccio sul lago? Per la seconda casa, se non ci ha pensato Berlusconi, ci penserà Storace a condonarla. In effetti la distanza fra le Regioni più severe e quelle più generose nel «perdonare» è impressionante. L'Umbria ha aumentato gli oneri concessori del 100 per cento e limitato la sanatorie ai soli ampliamenti e per appena 30 metri quadrati ad unità abitativa. In altre Regioni dell'Ulivo si potranno sanare i piccoli abusi.

Al contrario la Sicilia ha dimezzato e rateizzato l'importo dell'anticipo sugli oneri concessori e per le nuove costruzioni condonerà sino a 750 metri cubi per singola domanda e sino a 3.000 complessivamente. Nel Lazio l'opposizione di centrosinistra ha evitato che si potessero sanare anche gli edifici costruiti nei parchi. Ma il centrodestra ha respinto, in pratica, tutte le richieste del Campidoglio per un condono «stretto» . Abruzzo, Calabria e Campania non hanno approvato entro il l2 scorso le loro norme sul condono, come richiesto dalla Corte costituzionale. In Campania il progetto Bassolino, molto restrittivo, è stato sepolto sotto 500 emendamenti del centrodestra e osteggiato da alcuni consiglieri della Margherita. Se ne discute ancora perché v'è chi ragionevolmente ritiene che vi siano margini per una legge regionale. Grazie al governo, non ci si capisce più nulla.

L'aumento, in molte Regioni, degli oneri per la domanda di sanatoria indurrà parecchi abusivi a non pagare l'oblazione rimanendo «sommersi». Così calerà il gettito. Per questo i ministri studiano dilazioni nel 2005. Insomma, pochi milioni di euro incassati - meno di 450 sui 3,1 miliardi preventivati - e un incredibile, indecente caos, legislativo e regolamentare. Coi Comuni costretti ad incassare, per la parte di loro competenza, da questo terzo condono sì e no la metà di quanto spenderanno per portare i servizi agli ex abusivi perdonati e premiati. Con l'aggravante che la Finanziaria 2005 li penalizzerà sul piano degli investimenti e dei servizi ai cittadini rispettosi della legge. Un ultimo dato: secondo stime del Sole-24 Ore, il costo della vita in Italia è aumentato negli ultimi quarant'anni del 2.061 per cento. E però la casa è rincarata quasi tre volte di più : esattamente del 5.752 per cento, facendo dileguare l'affitto, il civile affitto. Un costo sociale, alla fine, enorme.

Titolo originaleCar Use Drives Up Weight, Study Finds - Obesity Called More Likely in Sprawling Areas Than Mixed-Use Neighborhoods– Traduzione di Fabrizio Bottini

Chi vive in quartieri dove bisogna guidare per andare da qualunque parte, è significativamente più portato ad essere obeso di chi può facilmente raggiungere la propria destinazione a piedi. Lo dimostra uno studio, che per la prima volta verifica un rapporto da lungo sospettato.

Una ricerca su circa 11.000 persone nell’area di Atlanta ha rilevato che le persone abitanti in zone a destinazione prevalentemente residenziale tendono a pesare significativamente più di quelle residenti dove case e attività economiche sono adiacenti.

Questo effetto sembra essere in gran parte il risultato del tempo trascorso rispettivamente a guidare, o a camminare. I ricercatori hanno calcolato che ogni ora passata in macchina si associa a un 6% di incremento nella probabilità di diventare obesi, e ogni 800 metri percorsi a piedi ogni giorno riducono questa probabilità di circa il 5%.

”Il tipo di quartiere dove vive una persona chiaramente ha effetto sulla sua salute” dice Lawrence D. Frank, professore associato di pianificazione urbana e regionale alla University of British Columbia, che ha coordinato lo studio.

I risultati hanno implicazioni a scala nazionale, dato che i quartieri studiati sono rappresentativi di tutti quelli del paese.

”Queste conclusioni sono chiaramente la prova più consistente al momento del legame fra ambiente costruito e obesità” prosegue Frank. I risultati saranno pubblicati sul numero di giugno dell’ American Journal of Preventive Medicine, ma sono stati resi noti in anticipo ieri in occasione di una conferenza sull’obesità che si terrà a Williamsburg alla fine della settimana.

Dato che il numero di persone sovrappeso e obese ha raggiunto proporzioni epidemiche negli USA, si sono accumulate prove che una delle cause principali possa essere lo sprawl suburbano. Quartieri che rendono il camminare e altre attività fisiche più difficili, perché spesso mancano i marciapiedi, sistemi stradali che incoraggino a spostarsi camminando, o aree commerciali accessibili senza l’automobile.

I ricercatori avevano evidenziato per la prima volta lo scorso anno, che le persone residenti nelle regioni a insediamento più rado avevano più probabilità di diventare sovrappeso o obese. Questo nuovo studio è il primo ad affrontare la questione a livello di quartiere e a collegare le specifiche caratteristiche fisiche dell’ambiente dove la gente vive alla quantità di attività fisica praticata, e al peso.

Altri ricercatori osservano che questi risultati offrono nuove valide prove del legame fra sprawl e obesità.

”Il posto dove abiti, chiaramente conta” dice Reid Ewing del National Center for Smart Growth alla University of Maryland, che ha condotto uno studio a livello di contea lo scorso anno. “Se abiti in un posto a densità più bassa ... dove l’automobile è l’unico modo di spostarsi, questo sembra avere effetti negativi sulla salute”.

Ma gli scettici mettono in discussione questo rapporto, affermando che i quartieri diffusi potrebbero semplicemente attirare more persone meno fisicamente attive, e viceversa.

”Può anche darsi che chi tende ad essere più magro sia il tipo di persona a cui piace vivere in quei quartieri, e naturalmente gravita lì” dice Samuel R. Staley, presidente del Buckeye Institute for Public Policy Solutions, a think tank di Columbus, Ohio. “Non è per niente certo che se mettessimo quelle persone in un insediamento diffuso diventerebbero grasse”.

Ancora più importante, anche se il legame fra sprawl e obesità fosse provato, è che questo non giustificherebbe restrizioni alla crescita, aggiunge Staley.

”Le persone devono avere la possibilità di vivere dove possono essere grasse. È una delle conseguenze di una società libera”.

Per la ricerca sui quartieri, Frank e i suoi colleghi hanno raccolto fra il 2001 e il 2002 informazioni dettagliate su 10.898 persone, sulla loro altezza, peso, chiedendo loro di tenere un diario di due giorni che registrasse esattamente come e dove si spostavano, e quanto tempo passassero rispettivamente a camminare e a guidare.

Sono state anche condotte analisi dettagliate sui quartieri della zona di Atlanta dove vivevano i partecipanti all’indagine, su quanto fossero densamente popolati, se ci fossero marciapiedi, se l’organizzazione stradale fosse favorevole al passeggio, e se gli edifici commerciali fossero vicini alle abitazioni.

I ricercatori hanno poi diviso le comunità in quattro categorie, in base alla percentuale di residenza, e hanno rilevato che le probabilità di essere obesi aumentavano da una all’altra del 12,2%.

”Avere negozi e servizi vicono a dove si vive è il miglior antidoto contro l’essere obesi” dice Frank.

Detto in altre parole, per i residenti questo significa che il rischio relativo di diventare obesi aumenta del 35% fra le aree a funzioni più miste e quelle meno miste.

L’essere sovrappeso significa avere una massa corporea (Body Mass Index, BMI, un indice basato sul rapporto fra altezza e peso) da 25 a 29. Chiunque con un BMI superiore a 30 è considerato obeso.

Un maschio medio alto 1,78 che abita nel quartiere a maggior quantità residenziale, per esempio, pesa circa 5 chili più di un maschio bianco simile nel quartiere meno residenziale, secondo i risultati della ricerca. La proporzione di persone obese nelle zone meno miste è di circa il 20%, e nelle più miste di circa il 15%.

Questi risultati valgono anche se si prendono in considerazione le variabili età, reddito, livello di istruzione.

Ma Frank afferma che la quantità di attività delle persone non spiega del tutto i risultati. Ipotizza che in alcuni quartieri sia più facile per le persone avere una dieta salubre, perché ci sono negozi di alimentari anziché discount, e ristoranti di nuona qualità anzichè punti fast-food.

”Credo che l’ambiente alimentare giochi un ruolo importante”.

Sulla base dei risultati, i ricercatori hanno calcolato che triplicare il numero dei negozi e di altre attività vicino alle case potrebbe ridurre il tasso di obesità tanto quanto una diminuzione di cinque anni nell’età media della popolazione (l’età è un elemento trainante nell’aumento di peso).

Le persone sarebbero meno portate a guidare e più a camminare, se vivessero vicino alle varie attività, ma la maggior parte degli intervistati camminava molto poco, indipendentemente da dove viveva. Più del 90% dice di non camminare affatto, e la media afferma di passare più di un’ora al giorno in macchina.

Nota: qui il link alla “ prima puntata” (in ordine di apparizione) su Eddyburg del rapporto ciccia/sprawl (fb).

Il territorio del Canavese si ripensa. In due modi opposti

Gli enormi spazi lasciati vuoti dalla crisi al centro di una mega-speculazione. Ma c'è chi non dimentica il modello olivettiano e si batte contro la sua cancellazione



Via Jervis rappresenta l'asse su cui si è sviluppato l'impero informatico Olivetti. Il palazzo originale, in mattoni rossi, oggi ospita uffici, soprattutto dell'Azienda sanitaria locale. A fianco c'è l'edificio a specchi voluto da Olivetti negli anni Cinquanta. In forte contrasto con quello in mattoni, a segnare la nuova filosofia dell'imprenditore piemontese che voleva la fabbrica dentro la città. Gli specchi rappresentavano la possibilità per lo stabilimento di guardare fuori e di essere guardata dall'esterno, in una nuova relazione osmotica con la città. Di fronte al nuovo edificio (oggi anche questo affittato a diverse ditte, da Vodafone a Wind) ci sono le costruzioni che ospitavano i servizi per i dipendenti, dalla biblioteca, all'infermeria, all'asilo. L'impero Olivetti oggi non c'è più. Inesorabile è stato il declino di quello che doveva essere il polo informatico italiano, fiore all'occhiello di un'industria nazionale che non era solo Fiat. Per molti versi, la crisi Olivetti ha anticipato quel che oggi sta accadendo alla Fiat. Anche a Ivrea rimangono i corpi delle vecchie fabbriche che sono stati riempiti da uffici d'altra natura, soprattutto pubblici.

Scarmagno addio

Nel 1996, Carlo De Benedetti, che aveva assunto il controllo dell'Olivetti nel 1978, ne deve gestire la messa in liquidazione. Per Ivrea e l'intero territorio del Canavese si tratta di un colpo durissimo. Migliaia di persone vengono licenziate utilizzando prepensionamenti e mobilità, altre migliaia, tecnici e dirigenti, trovano altrove una nuova collocazione. E' la scomparsa di una comunità di lavoratori, competenze, saperi che oggi sembra vivere le sue convulsioni finali. Per ironia della sorte, a Scarmagno (in quello che fu lo stabilimento modello della Olivetti) i pochi computer che si continuano ad assemblare hanno il marchio dei taiwanesi della Acer, ma la fabbrica è sull'orlo della chiusura. Percorrendo via Jervis, dunque, si attraversa la storia di questo polo industriale ormai scomparso. Nevio Perna, dipendente in mobilità della Getronics, ci fa da cicerone e racconta una città, un territorio che continuano a cercare di risollevarsi dalla crisi. Ma, dice, l'idea di città e di sviluppo possibile a cui lavorano le amministrazioni comunale, provinciale e regionale è assai diversa da quella che hanno in mente lavoratori, movimenti, associazioni. Il vuoto lasciato dalla grande industria, come nel caso di Torino, sembra popolarsi di speculazioni immobiliari, di opere infrastrutturali per velocizzare i trasporti, di paradisi artificiali dei consumi. E' emblematico che la Multiservice, società di proprietà della Pirelli che gestisce il patrimonio immobiliare della ex-Olivetti, sia coinvolta in due delle operazioni economiche più significative: la trasformazione dell'area ex-Montefibre in una zona residenziale cinicamente battezzata «il quarto quartiere olivettiano» e il progetto di Millenium Park, ovvero un parco a tema che dovrebbe sorgere su un'area poco lontana (7 chilometri) da Ivrea, ad Albiano (paese di 1.700 abitanti). Si tratta di un'area vastissima, 600mila metri quadrati. Una zona agricola lungo la bretella che raccorda l'autostrada Milano-Torino con quella per la Valle d'Aosta, in cui domina l'anfiteatro morenico della Serra. Un'area omogenea e regolare, campi, filari, canali, cascine isolate, centri abitati presidiati dai loro castelli (Masino, Albiano, Bollengo). Un'area, chiarisce Agostino Petruzzelli di Legambiente, che però è una zona di ricarica delle falde ed area di esondazione del fiume Dora Baltea. Difficile edificare dunque.

La proprietà dei terreni è per 500 dei 600mila metri quadrati di estensione, della Olivetti Multiservice. Che l'ha ceduta in cambio del 10% del progetto Millenium, alla società Mediapolis spa, nata a Torino nel 1991 come società di servizi qualificati nel campo della progettazione. Due nuove società saranno create da Mediapolis, in partnership con operatori dei due settori, per la gestione delle due aree a conduzione diretta di Mediapolis: il parco a tema e l'e-business. Le altre aree (centro commerciale, albergo, cinema multisala) saranno cedute a operatori dei tre settori specifici e gli investimenti relativi saranno a loro carico. Dal 1998 il presidente di Mediapolis è Gianni Zandano, ex presidente dell'Istituto Bancario S. Paolo di Torino. Il progetto Millenium è assai vago. Il parco a tema ha assunto negli anni varie forme. Parco della comunicazione, dello sport, delle nuove tecnologie fino all'ultima idea, quella di un museo del rock & roll. La vaghezza del progetto non sembra preoccupare le amministrazioni pubbliche locali e la regione che continuano a sostenere l'idea e soprattutto, non scandalizza il fatto che per la messa in sicurezza del sito serviranno ben 26 milioni di euro, tutti soldi pubblici.

Secondo le associazioni ambientaliste (che hanno presentato ricorso al Tar contro l'avvio dei lavori di costruzione, visto che il terreno è esondabile), il Social forum di Ivrea, la Fiom, pezzi di Ds, i consiglieri regionali di Rifondazione, Verdi e Comunisti italiani, il parco a tema serve da copertura per la costruzione dell'ennesimo centro commerciale . Un centro commerciale da 60.000 metri quadrati che molti vorrebbero diventasse l'unico (non)luogo di aggregazione possibile per milioni di persone (11 all'anno, si dice). Dove la gente si sfiora, forse si guarda, di certo non comunica, ma altrettanto certamente finisce con il consumare. I centri commerciali sono patria di negozi, cinema, ristoranti, bar. Diffusi negli Stati uniti e in Gran Bretagna, stanno prendendo piede (con alterne fortune) anche in Italia. Il parco a tema è una variante dello shopping centre secco (consumare divertendosi, la filosofia che lo sottende). Quello di Ivrea dovrebbe costare 170 milioni di euro. Per le due aree sviluppate e gestite direttamente da Mediapolis, l'investimento previsto è di 75 milioni di euro, coperti, oltre che dal capitale proprio, dalla cessione delle altre aree di attività (albergo, cinema, centri commerciali), da contributi e finanziamenti pubblici (Ue e Bei.) e da finanziamenti bancari. «Il progetto - dice Nevio Perna - è stato ammesso a un contributo di circa 6 milioni di euro a fondo perduto dal Patto territoriale del Canavese». Anche i dati relativi all'occupazione sono estremamente vaghi: si parla di circa 1000 posti di lavoro. In realtà, gli unici dati documentati indicano un massimo annuale nel mese di luglio di 350 occupati a bassa qualificazione nel parco a tema, con possibilità di lavoro offerta «agli studenti universitari per guadagnare qualcosa». I lavoratori qualificati sarebbero invece una quindicina.

Scegliere la qualità

Quella parte di territorio che non ci sta a un futuro di domeniche da trascorrere al centro commerciale non si limita a criticare il progetto ma propone alternative concrete. «Il sindacato - dice Federico Bellono della Fiom - non fa altro che rincorrere le molte aziende in crisi che provengono dal mondo dell'informatica. Ma non si potrà evitare la perdita delle uniche medie imprese del Canavese se non si rilanciano politiche industriali forti che tengano conto del patrimonio di conoscenze ancora esistenti sul territorio». La prima necessità è quella di arrestare lo svuotamento industriale e lo spostamento di attività verso Milano (ultima di una lunga serie è la richiesta della Wind). Cioè, cercare di fermare questo svuotamento del territorio di lavoro qualificato lasciando i call center. Sindacati e associazioni non pensano certo al metalmezzadro olivettiano, quanto a un rilancio per esempio, del settore agricolo nel canavese. «Puntare sull'agricoltura rinnovata - dice Perna, che fa anche parte di un Gruppo di Acquisto Solidale - per una produzione di qualità, magari partendo dal biologico. Capace di arrestare il dissesto del territorio e quindi di valorizzare le risorse naturali di un'area, quella dell'anfiteatro morenico della Serra, che costituiscono un patrimonio unico di biodiversità, oggi in grave pericolo. Pensare al futuro oggi significa innanzitutto ricucire il rapporto tra economia, ambiente e società a partire dai luoghi. Occorre un'inversione dello sguardo proprio a partire dal territorio, dall'ambiente e dalle persone». La strada è tutta in salita, ma al traguardo c'è il futuro del territorio. E non tutti sono disposti a rinunciare a dire la loro su come si potrà vivere nei prossimi anni.

Nota: qui il pezzo di Eddyburg sul parco a tema Mediapolis, e relativi links (fb)

Recensione a: The Drive-In, the Supermarket, and the Transformation of Commercial Space in Los Angeles 1914-1941, MIT Press, Cambridge, Mass., London 1999 – traduzione di Fabrizio Bottini

”L’architettura commerciale americana” osservava Richard Longstreth più di dieci anni fa “sta solo cominciando ad essere compresa”. Se oggi ne cogliamo i contorni con qualcosa in più di una nascente profondità, è certamente in gran parte merito dello stesso Longstreth. In particolare, il suo ultimo lavoro su Los Angeles merita speciale attenzione, perché rappresenta uno sforzo maturo e imponente per capire l’ambiente costruito entro il quale gli americani hanno comprato e venduto beni e servizi. L’altro lavoro di Longstreth, Dal centro città al centro commerciale regionale: l’architettura, l’automobile e il commercio a Los Angeles, 1920-1950, fu pubblicato due anni fa, e ora è seguito da questo Il Drive-In, il Supermarket, e la trasformazione dello spazio commerciale a Los Angeles, 1914-1941. Come il volume precedente, anche questo è enciclopedico per quanto riguarda la ricerca, e acuto nel distillare i risultati di questa ricerca: un lavoro indispensabile, un grande contributo alla storia dell’architettura, da considerarsi come una aggiunta alla storia delle città e dei suoi suburbi d’America.

Il Drive-In esplora come il fare la spesa arrivò, negli anni Cinquanta, ad essere strutturato precisamente, coordinato secondo due tipi di esperienza spaziale: quella dello spazio esterno di un parcheggio, e quella dello spazio interno di un’area commerciale, esse stesse via via definite nel corso di circa quarant’anni, a partire dagli anni Dieci, e solo dopo la Seconda Guerra Mondiale pienamente riconciliate, con l’avvento dello shopping center. Lo studio di Longstreth è, ed è importante sottolinearlo, contemporaneamente tipologico e genealogico; identifica tre forme di architettura commerciale alle quali lo shopping center deve qualcosa, e le considera separatamente, dedicando un capitolo a ciascuna, e procedendo più o meno cronologicamente con ciascuna nuova forma architettonica.

Il libro comincia con una considerazione di quanto denominato negli anni Venti “ super service station”. Il suo predecessore, il comune distributore di benzina, rappresentava già un “lavoro rivoluzionario” perché alterava lo “schema a saturazione del lotto, orientato alla strada, che definiva chiaramente il confine fra spazio pubblico e privato, verso un altro in cui lo spazio era continuo, la separazione fra i due ambiti minimamente percepibile, e l’edifico vero e proprio un oggetto nel mezzo dello spazio, ad occupare solo una frazione dell’insieme” (p. 8). Là dove la stazione di rifornimento trafficava solo in benzina e olio, la super service station offriva una varietà di servizi automobilistici, comprese “ auto-lavanderie”. Per dirla con Longstreth, “Il servizio all’automobile entrava così nel campo del commercio moderno come attività integrata” (p. 10).

Entro la metà degli anni Trenta, le grandi compagnie di carburanti e pneumatici avevano costretto la super service station, di solito proprietà di un operatore indipendente, ad una versione condensata di sé stessa, ma nondimeno essa aveva stabilito un precedente, nell’incorporare l’automobile nel progetto di una struttura commerciale. Il secondo capitolo di Longstreth continua il racconto con un’analisi di quello che verso la fine degli anni Venti inizia ad essere chiamato il “ drive-in market”. Con un piazzale anteriore dove gli automobilisti parcheggiano, e un edificio a forma di “L” sul fondo, dove i clienti possono scegliere fra vari negozi alimentari, il drive-in market spesso si localizza ad un angolo tra due strade, per avere una certa visibilità. Se nel caso della super service station il piazzale costituiva lo spazio “principale” sperimentato dai clienti, quello del drive-in forma “una zona intermedia, il luogo da cui la gente può entrare nell’edificio da molti punti” (pp. 46-47). Una volta superato il lungo fronte aperto, ed entrati nell’edificio, dove i punti vendita si fondono l’uno con l’altro, i clienti sono portati a sentirsi più liberi che se stessero facendo acquisti negli spazi “cavernosi e limitati” di un tradizionale grocery store (p. 45).

Questo senso di libertà raggiunge la propria penultima espressione nel terzo tipo di architettura commerciale trattato da Longstreth: il supermarket. In questo caso la Ralph Grocery Company emerge come pietra di paragone. Con il suo negozio su Wilshire Boulevard, aperto nel 1928, Ralph “crea un nuovo tipo di spazio alto, imponente, ma non gerarchico e che induce al passeggio, consentendo ai consumatori di scegliersi il proprio percorso di spostamento, e i propri acquisti. In nessun caso, prima, uno spazio commerciale tanto vasto era sembrato percettivamente così aperto e liberatorio” (p. 92). Nella quantità dei suoi reparti, nella natura dei suoi modi di vendita (centrati sui grandi volumi, i generi a basso prezzo e il self-service), nel progetto dei suoi parcheggi e negozi, Ralph era davvero notevole. Ma forse, Ralph fornisce solo l’esempio più visibile di un impulso, un impulso che cerca di farsi strada lungo tutto il racconto di Longstreth: presentare Los Angeles come eccezionale, rivendicandone il ruolo di vivaio di una costellazione di prototipi per l’America del Ventesimo secolo. Naturalmente, LA si è davvero dimostrata particolarmente influente in molti modi, durante questo secolo, e Longstreth ne ha convincentemente illuminata una non piccola frazione. In più, ha magnificamente contenuto l’impulso all’eccezionalismo che molti, se non tutti, i losangelini provano di tanto in tanto. Ma l’impulso non è stato contenuto del tutto. All’inizio del capitolo su supermarket, si afferma che questa forma di spazio commerciale ha ricevuto “un maggiore contributo nell’area metropolitana di Los Angeles, che in ogni altra parte del paese”, riconoscendo allo stesso tempo come “strutture che saranno prototipi chiave per il supermarket emergono in modo indipendente in parecchie città durante gli anni Venti” (p.79). Alla fine del capitolo, Longstreth propone una formula leggermente diversa: “I precedenti della California meridionale sono probabilmente i più importanti per la definizione del tipo, mentre si avvicinava alla maturità nei primi anni Quaranta. Comunque, gli eventi catalizzatori che spingono il supermarket sotto i riflettori dell’attenzione pubblica in tutto il paese, non hanno luogo né a Los Angeles, né a Houston, dove esisteva il più importante prototipo, ma nell’area metropolitana di New York, dove non si conosceva niente del genere prima della Depressione” (p. 121). Le linee delle influenze tracciate dal Longstreth possono certo essere contestate, ma qui vorrei contestare semplicemente i modi di questa influenza: ovvero, il linguaggio a base di superlativi che ha saturato lo scrivere su Los Angeles. Se un linguaggio di questo tipo sembra preoccupare molto meno – o in effetti, distrarre – gli storici di altri luoghi, sembra però ostacolare una maggior comprensione di Los Angeles.

Il Drive-In

Né i pensieri e le sensazioni degli americani riguardo ai luoghi e spazi che abitano non saranno più gli stessi. Ma, per quanto la divisione fra interno ed esterno scorra lungo tutto lo studio di Longstreth, il mondo interiore di idee e valori che hanno imbevuto di senso le esperienze degli americani negli edifici commerciali, non riceve molta attenzione. Occasionalmente Longstreth si infila in queste idee a valori, a volte in modo suggestivo, come quando cita le conclusioni di un losangelino, secondo cui “Sta diventando una cosa tanto gradevole, andare al mercato, che molte donne che non sono mai state entusiaste dei lavori di casa dovranno tra non molto cedere all’incantesimo” (p. 93). Nel capitolo finale del libro, comunque, potemmo chiederci se Longstreth abbandona la natura fluida del senso storico, a favore della sua tipologia preferita, visto che sembra insistere sulla distinzione fra il drive-in e lo shopping center pur ammettendo che “la distinzione tra i due non sembra grande, secondo molti osservatori. Carl Feiss, architetto e urbanista, allora professore alla Columbia, non era probabilmente l’unico a descrivere i complessi di mercato drive-in a Washington, D.C., come tipi di shopping centers” (p. 159).

Comunque, Il Drive-In troverà certamente uno spazio sugli scaffali dello storico dell’architettura e, più in generale, degli storici delle città e suburbi d’America. Insieme a City Center to Regional Mall, ci si presenta come niente di meno che una grande opera.

Nota: per un confronto, si veda ad esempio un'altra recensione riportata su Eddyburg, molto più attenta agli aspetti di uso sociale degli stessi spazi, "consumati dallo shopping". (fb)

L’urbanistica è di destra o di sinistra? Sembra una domanda mal posta, se non decisamente stupida, ma in un modo o nell’altro è stata ed è uno dei punti focali del dibattito sull’idea di città e sull’uso del territorio nel nostro paese. E bene ha fatto un attento osservatore come Edoardo Salzano a mettere in rilievo la grande evidenza che assume l’urbanistica nel programma elettorale della Lega Nord per le prossime amministrative, alla pari con altri più noti “pilastri”, quali l’immigrazione e il federalismo. Ma qual’è l’idea di urbanistica, di città, di territorio, che ha in mente la Lega? Una domanda certo difficile, forse anche più di quelle (tuttora aperte) sul recente passato: è mai esistita, ad esempio, una identificabile urbanistica democristiana, o una comunista, socialista, e così via?

È però possibile cercare una risposta, sicuramente parziale, alla domanda sull’idea di urbanistica della Lega scorrendo gli articoli sull’argomento pubblicati dal suo organo ufficiale, La Padania, tentando di trarne qualche spunto di riflessione. I potenti mezzi messici a disposizione dalla tecnologia moderna, per una volta si rivelano davvero tali, dato che sul sito on-line del giornale, inserendo la parola chiave “urbanistica”, si ottengono centinaia di riferimenti: ricchi, contraddittori, che però è possibile ricondurre ad alcune identificabili “famiglie”.



Contro il degrado. Un primo gruppo di articoli, si inserisce nel ricco filone dell’annoso dibattito sullo “sfascio del territorio”. Degrado delle città, dei centri storici così come delle periferie, aggrediti da nemici vecchi e nuovi: in prima linea gli immigrati clandestini, con le occupazioni di immobili in disuso, o le richieste per luoghi di culto e socialità come le moschee. Soprattutto in questi ultimi casi, ragioni e strumenti della battaglia leghista sono quasi sempre di tipo urbanistico, come la mancanza di requisiti tecnici (parcheggi, immobili adatti, accessibilità). Di segno meno evidentemente reazionario, le posizioni per esempio sul dissesto idrogeologico, dove non mancano nemmeno espliciti richiami agli errori di una recente modernizzazione e infrastrutturazione forzata e senza regole. La rassegna, da questo punto di vista, può partire da una immagine assolutamente classica dell’immaginario leghista: l’eroico sindaco di una comunità valligiana, che guida la sua amministrazione contro tutti gli ostacoli del centralismo e dell’inefficienza, a rinascere dopo una grave alluvione, nel segno di una politica urbanistica trasparente e attenta agli investimenti prioritari in servizi per il cittadino e l’impresa (14.2.98, p. 6, Samolaco sempre in prima linea). Non può mancare, come non manca, la sottolineatura delle caratteristiche tragiche assunte dal degrado territoriale, quando questo si manifesta nel già cupo e alieno contesto del Sud, regno del lassismo, dell’abusivismo, della criminalità organizzata e del colpevole laissez-faire del notabilato locale. Luoghi dove basta guardarsi attorno per scoprire «le inconfutabili prove dell’impotenza e dell’inefficienza delle amministrazioni locali, le prove del disprezzo delle leggi urbanistiche, la conferma della continua violazione dei vincoli paesaggistici» (14.4.98, p. 14, Nessuno punisce lo scempio). Conclusione: «Niente male, vero? Verrebbe da essere d’accordo: Forza Vesuvio, cancella tutta ‘sta munnezza!». Una forza devastatrice a fare pulizia, per esempio, dell’abusivismo edilizio, giustificato per anni da politici di maggioranza e opposizione, inclini a presentarlo come peccato veniale, di “necessità”, e non a considerarlo nella giusta luce di arma a doppio tagli per le popolazioni locali: da un lato lasciate apparentemente libere di “arrangiarsi”, dall’altro lasciate invece in balia delle mafie edilizie e del dissesto ambientale, con risultati anche fatali come le alluvioni o le frane, che il rispetto delle norme urbanistiche avrebbe invece probabilmente evitato, o comunque contenuto. Insomma, «nelle aree non protette del Mezzogiorno, le costruzioni abusive vengono su come la gramigna e (l’arcinoto caso delle Vele napoletane insegna) come la gramigna, son difficili da far sparire» (15.4.98, p. 7, Parchi e aree protette coperti dal cemento fuorilegge, di Paolo Parenti). L’abusivismo, il degrado, il pericolo per le comunità e lo sviluppo, non sono comunque monopolio delle regioni meridionali: anche il Nord paga la sua tassa di disastri appena qualche goccia di pioggia in più mette in crisi la rete di infrastrutture vecchie, o mal progettate, o gli insediamenti cresciuti a caso là dove c’erano campagne, colline, alvei di fiumi e torrenti. Stavolta però non si invoca la forza purificatrice del vulcano, ma un più prosaico adeguamento degli strumenti urbanistici, che dovranno comprendere obbligatoriamente uno studio geologico, visto che apparentemente il ligio settentrionale non realizza vere e proprie costruzioni abusive, «ma sicuramente opere ampliate o sovraelevate in modo non del tutto rispondenti alle leggi urbanistiche» (18.11.99, p. 17, Savona, scatta l’allarme, di G.D.). Si potrebbe continuare a lungo, presentando varie sfumature, posizioni, possibili linee interpretative sul ricco filone del pensiero leghista riguardo al degrado territoriale, ma forse è il caso di concludere riassumendo le posizioni ufficiali del partito così come riferite sul giornale da Davide Boni, Coordinatore della Segreteria Politica federale, e dall’architetto Alessandra Tabacco, responsabile del settore territorio (21.4.2000, p. 22, Abusivismo edilizio: così non va, a cura di Claudio Gobbi). Innanzitutto, l’abusivismo effettivamente nasce da un bisogno reale, indotto dalle profonde trasformazioni sociali più o meno legate ai processi di globalizzazione, deindustrializzazione, riassesto socio-territoriale, a cui i pubblici poteri non hanno saputo dare risposte adeguate, salvo inseguire la «delegittimazione degli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica a favore di singoli progetti», e soprattutto tentando con lo strumento del condono un’azione tardiva, inefficace, controproducente. Il Sud, per le sue particolarità in termini di rapporto fra forme della rappresentanza, ambito della decisione, sviluppo locale, è negativamente all’avanguardia in questo senso. La soluzione può essere trovata in un ripensamento del rapporto fra interesse pubblico e privato, tenendo conto che «lo scopo di un piano o di una legge urbanistica non può basarsi sull’assunto che la pubblica amministrazione debba controllare pedissequamente ogni azione o espressione del privato, ma debba controllare che il “bene pubblico e sociale” della vita collettiva di una città o di un territorio siano garantiti appieno sia nella tutela della forma fisica e dell’ambiente dei luoghi sia nella dotazione di servizi, opere e strutture realmente fruibili da tutti. Di conseguenza il problema dell’abusivismo verrebbe posto nell’ottica che gli è propria: l’eccezione e non la regola».



Un approccio propositivo. Non a caso, si è conclusa la rassegna sul problema del degrado e dell’abusivismo (iniziata con le fosche immagini dei comitati contro le moschee) con una dichiarazione “riformista” e condivisibile. Il fatto è che, come era abbastanza logico aspettarsi, da un lato non è possibile (come già detto nel passato per la DC, il PCI, il PSI ecc.) identificare univocamente una linea politica in materia urbanistica, e soprattutto una rigida coerenza fra indicazioni programmatiche generali e casi locali; d’altra parte, sarebbe sciocco e schematico identificare un’idea urbanistica di destra con la semplice deregulation, o con la realtà tangibile della “villettopoli” con annessi nani da giardino, che forse brulica di elettori della Lega Nord, ma sicuramente non ne esaurisce, oltre la facile caricatura, l’immagine di città ideale. La seconda parte del nostro percorso vuole così snodarsi proprio fra le regole, o la ricerca di regole, per una buona gestione del territorio, così come emergono dalla lettura delle pagine de La Padania, anche oltre il pur positivo ma ovvio ruolo di “alfabetizzazione” di quadri e militanti, che si traduce in un costante flusso informativo sulla giurisprudenza, le esperienze di pianificazione locali, la produzione libraria di settore e i convegni. Emblematicamente, apriamo questa rassegna con un piccolo episodio locale lombardo, che vede la Lega Nord difendere le regole di una corretta programmazione urbanistica dai tentativi di deroga introdotti dalla Regione, stavolta su un tema in cui la Lega non teme confronti: il rapporto fra territorio, ordine pubblico, sicurezza. L’idea dell’assessore regionale (del Polo, allora non ancora alleato di governo) è di dare ai Comuni la possibilità di introdurre varianti urbanistiche allo scopo di insediare forze di polizia, con il risultato di enfatizzare strumentalmente questioni di sicurezza, al punto che paradossalmente per favorire il «recupero delle aree degradate, ora basterà insediare qualche albanese in un edificio fatiscente per abbatterlo sulla base di una semplice dichiarazione del sindaco e favorire così gli interessi dei gruppi immobiliari, che avranno mano libera sulle aree a dispetto del Piano regolatore» (18.11.99, p. 16, Il Pirellone si fa palazzinaro, di Andrea Accorsi). Ma, oltre le polemiche puntuali, le nuove regole dell’urbanistica dovranno in linea di massima essere improntate all’esatto opposto di quanto ha prodotto sinora lentezze, totale discrezionalità nelle scelte, approccio cavilloso, scarsa trasparenza. Tra le innovazioni che almeno parzialmente imboccano un percorso in questo senso, si individuano come di particolare rilievo la facilitata partecipazione di cittadini ed enti alla formazione dei piani, un ruolo più elastico ma rafforzato della pianificazione sovracomunale di coordinamento, maggiore snellezza nelle procedure di approvazione. Il tutto a superare un’urbanistica «centralista, che soprattutto nei decenni passati ha determinato una quasi totale compromissione dei nostri luoghi, non solo in aree fortemente urbanizzate ma anche in zone ambientalmente e paesisticamente apprezzabili» (29.3.00, p. 13, Basta con tutti i cavilli che ci legano le mani). Pianificazione di area vasta, si specifica in altro articolo, non deve essere intesa come progetto puntuale dell’assetto territoriale esteso a vaste zone (un sospetto che aveva letteralmente terrorizzato il pubblico di quadri democristiani ai congressi Istituto Nazionale di Urbanistica negli anni Cinquanta), ma quadro di riferimento all’interno del quale possano trovare la migliore soluzione, questa sì specificata nei dettagli, i problemi dei singoli centri, in particolare di quelli minori i cui nuclei storici e l’ambiente naturale e agricolo sono aggrediti dallo sviluppo delle attività economiche e/o delle infrastrutture. Per dirla con l’estensore dell’articolo la pianificazione di scala comunale e attuativa si applica laddove «emerge la necessità di creare un sistema isolato, di estrapolarlo dalla realtà al fine di creare un modello ideale, e di calarlo poi nella realtà apportandovi le modifiche opportune» (29.3.00, p. 14, Un progetto che accomuni i piccoli paesi). Ancora si potrebbe continuare a lungo, visto che l’idea di “regole”, più o meno esplicita e declinata, permea molti contributi sul tema del territorio. Ma come nel caso precedente dell’approccio negativo al degrado del territorio, è utile concludere con una posizione ufficiale, che qui prende la forma del punto sulle battaglie politiche del partito proprio in materia di urbanistica e piani regolatori (29.3.2000, p. 14, La riforma del piano regolatore). Il deputato Francesco Formenti, ripercorrendo i contributi politici della Lega al dibattito, sintetizza alcuni principi base a suo parere irrinunciabili e consolidati, a partire dalla “area omogenea”, i cui confini non sono determinati dal caso, ma dalla possibilità di costruire un piano regolatore razionale. A questo principio (il sogno, irrealizzato e forse irrealizzabile, di qualche generazione di urbanisti europei) se ne affiancano altri, come quello ambientalista secondo cui «il territorio non è un bene inesauribile, e pertanto il suo utilizzo deve basarsi sui principi della massima conservazione delle risorse e di azzeramento degli sprechi», per finire con l’attenzione alle tradizioni locali, nonché alle questioni culturali ed etniche nella delimitazione delle nuove aree amministrative. Il quadro in cui si collocherebbe, questa ambiziosissima riforma è, manco a dirlo, quello della Padania indipendente.



Spazio e identità. Terzo e ultimo punto di vista, per quanto riguarda queste note, è quello forse più significativo, che riguarda il rapporto fra luoghi, comunità, culture, su cui si innesta buona parte della ragion d’essere della Lega Nord. È il tema dello spazio locale, di quanto è soggettivamente e quotidianamente percepibile, di quanto si ritiene a torto o a ragione maggiormente sensibile agli attacchi dall’esterno, che assumono via via il volto dell’immigrato, dei grandi centri commerciali, dell’impresa slegata dagli interessi locali, e infine (ma non certo in ordine di importanza) di una cultura architettonica e urbanistica international style, i cui segni sono con sempre maggiore fastidio percepiti come estranei, dirigisti, comunisteggianti o piattamente stupidi, comunque privi della caratteristica indispensabile del radicamento locale. In questo senso assumono particolare valore le declinazioni locali, per quanto limitate e contraddittorie, delle regole e principi generali che abbiamo ripreso in precedenza: la tutela delle tradizioni e l’incentivo allo sviluppo, la protezione dell’ambiente e quella del portafoglio, trovano in una generale, incredibile affezione agli spazi del centro storico, un particolare punto di equilibrio. Un buon esempio di questo è la descrizione del programma elettorale della Lega per Monselice, nella bassa padovana, dove fulcro delle proposte è un nuovo piano regolatore che sappia tutelare il nucleo interno tradizionale rilanciandone in primo luogo le attività, a partire da quelle commerciali. Là dove, invece, il centro sinistra avrebbe « imposto un nuovo piano urbanistico che intrappola il centro in un circuito assurdo di sensi unici, senza risolvere il problema ed anzi aggravandolo» (23.5.99, p. 6, La rinascita di Monselice passa per il piano regolatore, di Michela Danieli). Poco importa se, guardando meglio, si riesce a immaginare che in pratica si tratti, più o meno, della solita protesta di bottegai contro le pedonalizzazioni. Qui quello che conta è l’idea di spazio tradizionale come entità “autogestita”, funzionalmente, socialmente, e non solo esteticamente alternativa ai centri commerciali plastificati lungo le superstrade. E non è certo un caso se la responsabile federale territorio e urbanistica, Alessandra Tabacco, si concede a tempo perso alcune digressioni proprio sul tema del rapporto fra giovani, immaginario, spazio reale, tradizionale, artificiale, passeggiando virtualmente «nei ghetti e nei confini territoriali imposti da qualsivoglia autorità autoreferenziale che poco hanno a che fare con il “sentire comune” della gente e dei popoli e con il loro bisogno di autodeterminarsi in spazi, situazioni ed emozioni che riescono a dare sicurezza perché derivano da una “storia locale”» (14.6.00, p. 2, I giovani del 2000 e la città). Sono luoghi concreti o immaginati, popolati da “cubiste” che si muovono in luoghi cui non appartengono, e che abbandonano senza averli né modificati, né resi in qualche modo propri. Il loro sradicamento non è scelta, ma imposizione eterodiretta, assenza di alternative, di spazi così come degli «ideali politici e civili in cui noi Padani crediamo, non solo per trasmetterli a loro volta, ma anche per cambiare ove possibile quelle tracce e quei segni “foresti” dei nostri luoghi e della nostra memoria». È una conseguenza quasi automatica di queste premesse, l’autentico disgusto per l’intero blocco della cultura architettonica e urbanistica che discende, più o meno direttamente, dal Movimento Moderno, ovvero dal tentativo pur contraddittorio di misurarsi, in un modo o nell’altro, coi temi della macchina, dell’alienazione, dello sradicamento, appunto. Il disprezzo per Le Corbusier, Gropius, e via via tutti i loro esegeti, figli e nipoti che abbiano lascito traccia visibile sul territorio italiano, appare netto, inequivocabile, e soprattutto abbastanza motivato oltre i toni sboccati. L’accusa, per Le Corbusier e per tutto quanto si assimila al suo pensiero, è quella di essersi «accanito contro l’architettura e l’urbanistica tradizionale e popolare con furia calvinista e con un odio che merita l’interesse di psicanalisti e psichiatri» (25.3.01, p. 12, Magia elettrica e tricolore, di Gilberto Oneto). Tutto questo sforzo distruttore, poi, si sarebbe dispiegato con uno scopo ben meschino, come può verificare qualunque visitatore eventualmente ansioso di respirare l’aria «che si respira in tanti quartieri ispirati a queste cavolate, dal Gratosoglio a Porto Marghera». E a poco varrebbe, forse, tentare di controbattere con l’idea dell’urbanistica come processo, come partecipazione, come confronto quotidiano (con vincitori e vinti da entrambe le parti) fra tradizione e innovazione. Qualunque argomento possa evocare, anche indirettamente, l’architetto-demiurgo in papillon dell’immaginario popolare, è assoluto tabù: «le mura (fisiche o simboliche) sono nel nostro Dna comunale, lo scarso amore per l’inurbamento è uno dei nostri più duraturi cromosomi celti e longobardi, la voglia di bello e di identità è una costante di 3.000 anni di storia padana» (18.2.01, p. 12, Territorio e libertà, di Gilberto Oneto). E oltre l’intemperanza verbale c’è sicuramente qualcosa di vero e giusto nel disprezzo per tutte le “astronavi”, concettuali o meno concettuali, che calate dall’alto nei piccoli centri padani in epoche recenti stanno ancora lì a simboleggiare il degrado, l’incultura, l’impunità. Come a Consonno sulle colline lecchesi, dove un intero centro agricolo venne sgomberato negli anni Sessanta per realizzare una Disneyland in sedicesimo, subito affondata nel fango. O nel caso più noto di Zingonia, nella pianura bergamasca, con cinque comunità letteralmente inghiottite nei progetti esecutivi di una immobiliare dalle strategie confuse, ma dalle solide aderenze politiche.

Di tutto questo, e di molto altro, gli articoli de La Padania sulle questioni del territorio danno, a loro modo, conto. Non sono ovviamente bastati, i brevi estratti proposti, a dare un’idea dell’idea di urbanistica – ufficiale o ufficiosa – della Lega Nord, ma forse a indicare un possibile percorso di riflessione. Se è vero, come è vero, che la vulgata leghista esprime benissimo il disagio, anche se raramente ne individua percorsi risolutivi, anche per la pianificazione territoriale si può dire la medesima cosa, ovvero che dagli attacchi e proposte qui passati in rassegna emergono “sintomi”, di una malattia della crescita, che devono essere colti. Come già hanno fatto alcuni studiosi, focalizzandosi proprio sui temi del progetto locale, e come ci si augura faranno in futuro molti, moltissimi altri. Per non lasciare che la domanda «l’urbanistica è di destra o di sinistra»? resti in sospeso, sostituita come in altri tempi dalla risposta apparentemente ragionevole: «l’urbanistica di sinistra è quella che praticano i partiti della sinistra». Una interpretazione piuttosto diffusa e corrente, che ha provocato (e presumibilmente provocherà) un sacco di guai.

Ma questa è un’altra storia.

Sugli stessi temi, la recensione del "manifesto urbanistico" della Lega Nord, del 1994

Vorrei solo, a brevissima premessa, riportare una citazione dall’ultima parte di questo articolo, che mi infastidisce: “La maggior parte degli elementi di sicurezza correnti sono semplicemente inappropriati per un ambiente urbano. Sono stati sviluppati per paesi stranieri, ambasciate, il Terzo Mondo, ecc.”. Certo non riassume né le culture del new urbanism, né il contenuto del testo, ma c’è e sarebbe sbagliato non prenderne atto. Ai lettori di Eddyburg, ovviamente, il giudizio. (fb)

Titolo originale:Three years after 9/11, security mindset threatens civic design – traduzione di Fabrizio Bottini

Dopo che quasi 3.000 persone hanno perso la vita al World Trade Center tre anni fa, nessuno dubita che ci siano gravi rischi in terra americana, e che le agenzie governative debbano fare qualcosa a proposito. Ma alcuni progettisti credono che le soluzioni raccomandate dagli esperti – e adottate da governo federale – rischino di danneggiare l’ambito pubblico isolando inutilmente gli edifici collettivi.

Si sta iniziando a sviluppare una reazione, a questi eccessi del regime di sicurezza federale. Uno dei suoi principali esponenti è David Dixon, responsabile per l’urbanistica e la progettazione urbana dello studio Goody, Clancy & Associates di Boston. “La guerra al terrorismo rischia di diventare guerra alla vivibilità delle città americane” afferma Dixon. “Nella fretta di rispondere alla minaccia dei terroristi, un diffuso gruppo di funzionari, architetti, costruttori, ingegneri, avvocati, urbanisti, consulenti per la sicurezza, e altri in grado di influenzare le regole urbanistiche e edilizie, sta creando una nuova generazione di norme e regolamenti di progetto”.

La preoccupazione degli urbanisti si concentra su istruzioni come quelle riportate di seguito, che sono state applicate a edifici come i tribunali:

Da quando un camion-bomba ha distrutto i nove piani dell’Alfred P. Murrah Federal Building a Oklahoma City nel 1995, uccidendo 167 persone, le risposte federali sono state di rendere gli edifici più difficili da attaccare. A prima vista si trattava di una strategia indiscutibile. Gli occupa edifici federali ha diritto alla protezione contro gli estremisti antigovernativi come Timothy McVeigh. Ma dopo che Al Qaeda ha distrutto il World Trade Center e danneggiato il Pentagono, è diventato chiaro che il programma di sicurezza sarebbe stato molto più esteso. Qualunque edificio o spazio dotato di valore simbolico, ora può essere considerato un potenziale obiettivo del terrorismo. Gli scopi di sicurezza possono modificare non solo le caratteristiche degli edifici federali, ma anche di quelli statali, dei municipi, università, musei, monumenti storici, chiese: la lista è infinita.

Una consapevolezza crescente

Alcuni specialisti della sicurezza stanno maturando l’idea che gli edifici, o almeno il sistema di barriere sul loro perimetro, debba evitare di creare un’impressione di durezza. Michael Chipley, program manager per la sicurezza interna e i problemi geospaziali per lo studio di ingengeria civile PBS&J, afferma che nell’ultimo anno e mezzo un certo numero di funzionari e professionisti, pianificatori urbani, paesaggisti, ingegneri, architetti, personale di polizia, hanno iniziato a “cercare di eliminare la mentalità delle orrende barriere New-Jersey”. Chipley, co-autore del manuale Federal Emergency Management Agency Report 426, per l’attenuazione degli effetti dei potenziali attacchi terroristici agli edifici, dice che “Si sta verificando un notevole cambiamento di filosofia”

Questo cambiamento trova riflesso in un sistema di barriere anti intrusione di veicoli a “kit componibile” della General Services Administration. Una volta installato, crea un margine stradale più gradevole e “definisce più chiaramente i percorsi destinati ai pedoni”. Così scrivono Caroline R. Alderson, della General Services Administration, e Sharon C. Park, del servizio Heritage Preservation, in Building Security, un nuovo libro curato da Barbara A. Nadel. Alderson e Park prevedono che il “kit” produrrà un “confortevole senso di protezione dei percorsi” e un sollievo rispetto alla larghezza della strada.

Ma progettisti come Dixon – le cui critiche all’urbanistica della sicurezza federale sono contenute in First to Arrive: The State and Local Responses to Terrorism, pubblicato dalla MIT Press a cura di Juliette N. Kayyem e Robyn L. Pangi – restano perplessi dai requisiti di localizzazione degli edfici governativi, dall’obbligo di relegare i parcheggi su piazzali all’aperto o sopraelevati, alla difficoltà di incorporare attività commerciali e altri usi negli spazi perimetrali del pianterreno. L’edificio Joseph Moakley che ospita il tribunale, inaugurato nel 1998 a Boston sul waterfront, secondo la linea di pensiero post-Oklahoma City, “fiancheggia le principali connessioni pedonali dal centro al nuovo distrettto Seaport, con 120 metri di pareti cieche” sottolinea Dixon. Se il tribunale fosse stato progettato dopo l’11 settembre il risultato – dice – avrebbe potuto anche essere peggiore: “Una barriera fra il centro città e Seaport”.

Gli studi professionali che aderiscono al new urbanism, si stanno sforzando di adeguarsi agli obiettivi di sicurezza, mantenendo tuttavia un ambiente confortevole per i pedoni. Quando è stato proibito allo studio Robert A.M. Stern Architects di far occupare a un tribunale federale di Richmond, Virginia, la maggior parte del lotto, si è arrivati a un compromesso. I due lati principali dell’edificio saranno lunghe curve, in modo da adeguarsi al richiesto arretramento di 15 metri da bordo stradale. Ma due pareti terminali saranno comunque arretrate di soli 6 metri dal bordo, adattandosi alla griglia stradale del quartiere. Le parti dell’edificio situate a meno di 15 metri dalla strada conterranno “elementi strutturali ridondanti” in grado di assorbire l’urto di una bomba senza collassare, secondo il parere Grant Marani, socio responsabile del progetto per lo studio Stern.

Anche le parti pubbliche saranno progettate per sopportare esplosioni. “Le vetrate fino a 5 metri dal suolo saranno garantite sia balisticamente che per esplosioni” secondo i responsabili dello studio. Una parete-barriera mascherata a verde si estenderà tutto attorno alla zona, come deterrente ai veicoli. Anche con tutte queste precauzioni, il parcheggio lungo la strada, che è sia una comodità per i visitatori che un elemento di separazione dalla via per i pedoni sul marciapiede, sarà eliminato su tutti i lati dell’edificio. La completa realizzazione progetto, a cui partecipa la HLM Design di Bethesda, Maryland, è prevista per il 2006. Ma nel frattempo, forse è lecito chiedersi: qual’è la probabilità che Al Qaeda o un estremista di casa nostra attacchi un tribunale di Richmond? Privatamente, alcuni funzionari federali si chiedono se abbia senso spendere tanti soldi per fortificare gli edifici, quando il rischio è tanto difficile da calcolare.

Michael Chipley, dello studio PBS&J, dice che al momento c’è una tendenza verso metodi secondo cui cliente e progettista identificano le potenziali vulnerabilità di un edificio, e successivamente scelgono il livello adeguato di protezione. Teoricamente, questo incoraggia un approccio flessibile. “Il problema” riconosce Chipley “è che tutti prospettano lo scenario peggiore. Quindi si massimizzano le distanze”.

La cautela burocratica ha aggravato la tendenza a decisioni anti-urbane. Christine Saum, direttore per la progettazione urbana e la revisione dei piani alla National Capital Planning Commission (NCPC), che esercita parziale autorità sui progetti di edifici federali nella regione di Washington, nota che non esistono regolamenti specifici a proibire attività commerciali al pianterreno degli edifici pubblici. Certo, quando si propone questo tipo di uso, “spesso il personale del Federal Protective Service [Sicurezza Interna] non è a suo agio”. Gli usi misti non sono formalmente esclusi, “A loro, semplicemente, non piacciono”. L’aspetto positivo, il portavoce della NCPC Denise Liebowitz sottolinea che le risposte federali non sono fisse e immutabili. “Questi regolamenti e standards sono ancora in fase evolutiva, in risposta alle valutazioni di rischio”.

Gli effetti sull’attività dei privati

È inevitabile che i requisiti di sicurezza interesseranno anche strutture diverse da quelle degli edifici governativi. La General Service Administration, oltre a possedere 1.700 edifici per 18 milioni di metri quadrati, utilizza in affitto altri 15 milioni di metri quadri in 6.200 edifici di proprietà privata. Quando arriva il momento di rinnovare i contratti, a molti di questi edifici viene richiesto di adeguarsi agli arretramenti, o di “rafforzare” il grado di protezione dalle esplosioni. Un rafforzamento che può comprendere nuovi sistemi di finestre e alte modifiche, e che è costoso.

“È quasi sempre più economico trovare un nuovo spazio e costruire un altro edificio”, continua Anderson. “C’era una concreta preoccupazione che le attività governative abbandonassero le città”. L’esodo non è avvenuto. Ma progetti come quello per un nuovo edificio privato al Southeast Federal Center di Washington, da affittare al Dipartimento dei Trasporti, non promettono molto bene, con gli arretramenti di 15 metri, e la scarsità di usi diversi al pianterreno. “Si creano molti spazi morti” ci dice Elizabeth Miller, coordinatrice per l’urbanistica e la progettazione alla NCPC. In alcuni casi gli arretramenti possono avere qualche buon aspetto visivo, come accaduto per due secoli e oltre con le piazze dei tribunali americani. L’idea della sicurezza “può far tornare gli edifici governativi verso l’immagine del monumento sulla collina: una costruzione dall’aspetto imponente”. Rob Goodill, socio dello studio Torti Gallas & Partners di Silver Spring, Maryland, ha proposto di sviluppare portici, piazze, pareti di recinzione, giardini, e altri elementi che consentano agli edifici di distanziarsi dalla strada e contemporaneamente occupare lo spazio in modo armonioso.

Rob Rogers, socio alla Rogers Marvel Architects di New York, propone uno standard per giudicare un sistema di sicurezza: non è valido “a meno che non aggiunga bellezza, o accessibilità, o altri benefici” oltre a provvedere alla protezione. “Spendere tanti soldi a non avere altro che qualche spartitraffico è una cosa da sciocchi” dice Rogers. “La maggior parte degli elementi di sicurezza correnti sono semplicemente inappropriati per un ambiente urbano. Sono stati sviluppati per paesi stranieri, ambasciate, il Terzo Mondo, ecc.”.

Rogers aggiunge che sono necessari approcci più fantasiosi. Invece di barriere convenzionali, il suo studio sta progettando quello che descrive come “una panca luminosa di vetro, che accende un percorso pedonale dal molo del traghetto sull’Hudson al sito del World Trade Center”. Offrirà un sedile, una lieve e pervasiva illuminazione, e presumibilmente qualche godimento estetico, il tutto tenendo a distanza le insidie dei veicoli. Sarà più bassa delle classiche barriere, perché di fronte al sedile sta un materiale di riempimento che sostiene i pedoni, ma farebbe sprofondare un automezzo. Innovazioni del genere sono piuttosto rare.

David Dixon ritiene che l’attuale approccio dominante alla sicurezza sia mal orientato. “La cosa più curiosa a questo proposito” continua Dixon “è che negli ultimi decenni si sia tolta tanta parte dell’ambiente urbano dalla sensazione di paura (rendendo più sicure le città e la società) creando consapevolmente edifici più aperti, diluendo la separazione fra spazio pubblico e privato, promuovendo le attività collettive e riportando la gente nelle strade e piazze. Il solo e unico scopo della difesa dal terrorismo minaccia tutte queste sudate conquiste”.

Nota: qui il link alla rivista New Urban News (fb)

L’articolo che segue, non descrive mai la forma dello spazio, e la lascia all’immaginazione, agli automatismi, alla conoscenza diretta del lettore. Credo che questa sia la sua forza. Non si tratta di un testo particolare, visto che racconta, in una città simile a tante altre, piccole storie familiari legate a un grande progetto urbanistico e sociale, gestito da una altrettanto grande agenzia pubblica per l’edilizia popolare. Siamo a Chicago, e potremmo essere – come si capisce da subito – anche a Londra, Parigi, Milano, ecc.

Ma la cosa più importante mi pare, appunto, il fatto che la forma dello spazio scivoli in secondo piano: sia skipped , per usare il termine con cui gli operatori sociali chiamano i soggetti usciti dalla visibilità. Non perché questa forma non sia importante, anzi a volte importantissima e vero caposaldo per la qualità generale della vita urbana, ma perché essa è solo una parte (e anche a volte, solo a volte, non importantissima) di questa vita.

Come ci raccontano le vive testimonianze delle solite madri-single -inquiline, c’è un’infinità di cose a costruire il neighborhood . Un’infinità di cose che non stanno (e perché dovrebbero starci?) nei disegni dei progettisti. Progettisti che, di conseguenza, hanno più o meno “fallito” non quando i loro luminosi corridoi puzzano di piscio e si incrostano di goffi graffiti, ma quando schizzi e prospettive nascono su tavoli distanti ed estranei – e magari non per propria colpa – alla domanda sociale su cui si sostengono. (fb)

Titolo originale Mixed tale for former residents of demolished CHA buildings – Estratti e traduzione di Fabrizio Bottini

Magari di recente stavate guidando lungo la Dan Ryan, avete guardato in su verso le torri che si allineavano sul lato orientale della superstrada, e vi siete accorti che non c’erano più, a parte tre.

O può darsi che foste diretti a sud sulla Lake, vicino a Damen, quando avete notato linde casette dall’aria suburbana, dove una volta c’erano le famigerate Henry Horner Homes.

Oppure, ancora, stavate girando fra la Quarantunesima e Prairie, e avete visto che quell’edificio di sedici piani non esiste più.

Dopo aver assimilato il nuovo panorama urbano, sorge una domanda: dove è finita tutta la gente?

La risposta è una complicata miscela di cifre, persone, e politiche di abitazioni pubbliche. Ognuna delle circa 6.000 famiglie che hanno lasciato le case popolari da 1999 ha la sua particolare storia.

Alcune stanno ancora cercandola propria strada, mentre altre hanno trovato la felicità in altri quartieri. E anche se può sembrare una sorpresa a chi ha sentito solo storie di orrori sulla vita nelle case popolari, molti degli ex abitanti ancora rimpiangono le loro case multipiano.

Cifre

Nell’ottobre 1999, c’erano 16.428 famiglie che vivevano nelle case della Chicago Housing Authority con regolare contratto, secondo i registri dell’agenzia. Fra allora e l’ottobre 2003, 6.372 famiglie hanno lasciato la CHA. Molte di queste, 2.434, hanno accettato gli Housing Choice Vouchers (buoni casa, n.d.t.) a finanziamento federale, secondo il programma già chiamato “Sezione 8”, e hanno cercato fortuna nel mercato privato. La maggioranza spera di ritornare in alloggi CHA nei quartieri a tipologie per redditi misti, in corso di costruzione o allo stadio di progetto.

Le rimanenti 3.938 famiglie sono uscite dalle graduatorie delle abitazioni pubbliche per molte ragioni, tra cui morte o sfratto. Ma la maggioranza della popolazione che non ha optato per i vouchers e che è uscita dalle graduatorie, è “scivolata via”, ovvero non ha dato alla CHA alcuna spiegazione per andarsene, o ha informato l’agenzia che se ne stava andando verso varie destinazioni, compresa la coabitazione presso familiari o conoscenti.

Le circa 2.000 famiglie che sono “scivolate via” o se ne sono andate, sono quelle che preoccupano di più gli operatori delle case popolari e per i senzatetto. È perché si tratta delle frange più vulnerabili, che possono aver rinunciato a navigare attraverso la confusa burocrazia CHA, specialmente nei primi anni del piano di trasformazione.

Se i funzionari della CHA affermano di poter ricostruire la condizione di tutte le famiglie, escluse 300, che hanno lasciato le case, dichiarano anche di non essere responsabili per il mancato servizio a chi non ha partecipato alle assemblee, firmato le richieste, seguito le procedure. “Offriamo servizi a moltissime persone” ci dice Meghan Harte, direttore dei servizi generali per gli inquilini “Sono servizi volontari, e dunque se vogliono trarne vantaggio, possono; se non vogliono, non vogliono”.

Ma gli impegnati nel settore, come Katherine Waltz, avvocato del Sargent Shriver National Center on Poverty Law, dicono che la CHA si sta lavando le mani delle persone vittime della determinazione dell’agenzia nel demolire le abitazioni multipiano senza attivare un’adeguata pianificazione e informazione.

”Le famiglie sono state trascinate in questa corsa alla rilocalizzazione e non hanno potuto muoversi in tempo ... o contrattare il proprio percorso dentro a questo processo” ci dice Waltz” Se ne sono andate e hanno rinunciato”.

L’avvocato Richard Wheelock, che rappresenta gli inquilini CHA, ci dice “per un gran numero di queste famiglie, credo che la CHA abbia l’obbligo di seguirle perché se ne sono andate a causa delle condizioni di degrado degli alloggi”.

Che ha studiato il piano, come l’osservatore indipendente della CHA, Thomas Sullivan, ha criticato l’agenzia per non aver attivato adeguati servizi in loco nei primi anni del piano. Nel suo ultimi rapporto Sullivan afferma che ci sono ancora problemi, ma nota significativi miglioramenti nell’informazione e negli investimenti.

Meghan Harte afferma che il nuovo sistema computerizzato di monitoraggio – che aiuterà l’agenzia a ricostruire i movimenti degli inquilini dentro e fuori i quartieri – sarà completato e attivato entro la prossima settimana.

Il gruppo di lavoro CHA ha in programma di far visita anche a tutte le famiglie che hanno approfittato dei vouchers – oltre ai servizi offerti da appositi consulenti – e ha raggiunto la meta con circa il cinquanta per cento dei nuclei, secondo Harte.

Ci può essere bisogno di più di un trasloco per le famiglie voucher, nel trovare l’abitazione più adatta. Harte riconosce che il primo spostamento può essere verso zone non lontane dal proprio quartiere.

”La gente deve muoversi in zone dove ha amici, dove frequenta la chiesa e ha relazioni”.

Persone

* Frances Savage sta davanti all’edificio ad appartamenti al civico 4000 di South Calumet, nervosa perché deve traslocare per la terza volta da quando è stata costretta a lasciare la sua casa alle Washington Park Homes nel 2001, dopo ventisette anni.

Si guarda attorno, al prato pieno di immondizia che, dice, è in parte causa dei topi nell’edificio, e scuote la testa. Non è come doveva essere. Le avevano detto che la vita sarebbe stata migliore, una volta lasciato l’appartamento.

Come altri inquilini CHA, Savage ha avuto la scelta fra trasferirsi in un altro quartiere dell’istituto, oppure cercare la sorte nel mercato con un voucher. Spaventata dalla prospettiva di trascinare i suoi quattro figli – due dei quali adolescenti – nei territori sconosciuti di un altro quartiere popolare, Savage è scesa in campo col suo voucher.

Nonostante la CHA dicesse di voler aiutare la gente a trovare un nuovo appartamento, Savage afferma che il sostegno dell’agenzia ha lasciato molto a desiderare. “Cacciavano la gente in posti orribili”, dice.

Trovò un appartamento all’isolato 5600 della South Michigan. Come la maggior parte degli inquilini CHA Savage, 37 anni, trova casa in zone dove scuole e occasioni di lavoro non sono molto migliori di quelle che ha lasciato. Nel 2003, solo il 3 per cento degli inquilini voucher si sono trasferiti in “zone di opportunità” con migliori scuole e ambiente.

All’inizio il nuovo posto sembrava “OK”, ricorda Savage, “ma le bande in zona stavano cominciando a reclutare membri”. Così in agosto si trasferì nell’appartamento fra la Quarantesima e Calumet, in parte anche perché le mancava il vecchio quartiere. Era tornata in territori familiari, ma scoprì subito cha la casa era infestata dai topi. Dice che si lamentò con l’amministratore, senza risultati.

Savage, che ha una invalidità per lesioni alla spina dorsale, aveva anche problemi economici. Le bollette del gas da 200 dollari al mese pesavano. Così quest’estate ha fatto i bagagli e si è spostata di nuovo.

In aggiunta agli altri problemi, alla signora Savage manca il senso comunitario delle vecchia casa multipiano, dove i vicini potevano tener d’occhio l’appartamento quando lei era fuori.

”In questi isolati la gente non guarda in faccia a nessuno” ci dice “Qui ho paura a uscire di casa”.

** Secondo Denise Campbell, ex inquilina delle Stateway Gardens, l’esperienza da quando ha lasciato il quartiere dove viveva dall’età di 11 anni, è stata “un vero inferno”.

Campbell, di 43 anni, è stata una delle ultime persone a lasciare l’edificio al 3737 di South Federal, nelle Stateway Gardens, e si ricorda ancora benissimo la sera dell’ottobre 2000 in cui i funzionari le hanno detto che insieme ai suoi quattro ragazzi avrebbe dovuto uscire immediatamente. “Arrivarono quel lunedì con un camion da traslochi e dissero: Signora Campbell, lei deve andarsene”. “Mettono semplicemente la gente fuori, senza che sappia cosa l’aspetta”.

I funzionari CHA riconoscono che ci sono stati problemi nei primi tempi delle demolizioni. Dopo una costante raffica di critiche e minacce di causa, molti riconoscono che il comportamento dell’agenzia è migliorato.

La prima destinazione della signora Campbell è stata la casa di sua madre, all’isolato 5900 di South Wabash. Aveva paura, perché sua madre aveva altri problemi, e lei non voleva interferire. Restò lì fino al dicembre 2000, quando trovarono un appartamento in un edificio di pietra a tre piani fra la Sessantatreesima e Drexel.

Le cose stavano migliorando nel nuovo posto, pensò Campbell. “Mi piaceva” dice. “Poi nell’aprile 2001 scoprii che l’edificio era in fase di sgombero”.

Nel dicembre 2002 “vennero qui e misero tutti fuori sul marciapiede. Le cose furono rubate”.

Il suo nuovo spostamento fu a Roseland, fra la 117° e la State, dove vive ora.

”È un quartiere abbastanza dignitoso. L’unica cosa è che i trasporti sono scarsi e i negozi chiudono presto” dice. Anche la signora Campbell ha in programma di traslocare di nuovo quest’estate. Il figlio di 19 anni si è trasferito, e lei ora non ha più diritto a un’abitazione a quattro stanze. Dovrà trovarsene una da tre.

*** Nonostante il travaglio dell’affrontare il mercato privato della casa per la prima volta, c’è felicità fuori dai quartieri popolari. Provate a chiederlo a Donna Wade.

Wade, che ora ha 37 anni, era una bambina alle Stateway. Anche se ha dei bei ricordi dei suoi primi giorni nel quartiere, negli ultimi tempi l’edificio era diventato sempre più pericoloso per via degli occupanti abusivi e degli spacciatori. Wade iniziò a preparare il trasloco mesi prima che i camion arrivassero a portarla in un edifico a due piani all’isolato 6100 della Drexel. Compilò i moduli necessari e si presentò agli incontri con i consulenti, ma per la maggior parte si organizzò da sola la strategia di caccia alla casa.

Anche se lo spazio era abbastanza per lei e la figlia adolescente, l’intraprendente Wade guardava avanti. Circa quattro mesi fa, si è trasferita in una casa singola fra la 117° e Yale.

”Amo la mia casa” ci dice, “Ho sempre desiderato un giardino, una sala da pranzo e una cantina”.

VARESE -Cunicoli, bunker. Nei boschi bucano per chilometri le Prealpi che dominano i sette laghi della provincia di Varese. Sono le fortificazioni militari della linea Cadorna, fatta costruire dal generale della prima guerra mondiale per timore che gli imperi centrali invadessero l'Italia passando dalla Svizzera. Monte Orsa, sopra Besano. Notte di luna piena che fa capolino tra i rami scuri dei pini, a nord le Alpi sempre innevate, a valle lo sguardo si perde verso la pianura padana illuminata dai lampioni dell'enorme città sparpagliata, sono mille paesini che senza soluzione di continuità arrivano fino a Milano. Un fuoco acceso, dove c'erano i cannoni o dentro una casamatta, proietta le ombre sui muri segnati negli anni da scritte e figure. Fuori il verso dei gufi, dentro l'eco delle voci rimbomba con il sibilare dei pipistrelli, animaletti che a Varese sono oggetto di ricerche universitarie.

Ecco un posto ideale per giocare alla messa nera. E' solo uno dei tanti luoghi che costellano il varesotto, tra cattedrali deserte di archeologia industriale, ville liberty abbandonate, chiesette sconsacrate. La natura incontaminata si mischia con territori devastati per oltre un secolo dai primi insediamenti industriali d'Italia, basta perdersi per una strada sterrata per evadere come per incanto da una delle aree più densamente abitate del mondo e ritrovare luoghi che sembrano abbandonati da dio e dagli uomini.

E invece non è così. Tutti li conoscono da queste parti, magari solo per farci una passeggiata la domenica o andare a funghi e funghetti. Per i ragazzi sono posti dove passare una serata senza spendere e senza troppe rotture. Lavoro ce n'è ma occasioni per divertirsi pochissime. Iniziative culturali, zero. E allora si va per boschi. E' questo lo scenario in cui da una ventina d'anni è cresciuto quel gusto per fantasy e revival medievaleggiante, cavalieri e folletti celtici. Si riconosce nei testi delle canzoni epic metal o progressive rock apolitico e ribelle, ma riaffiora anche in certe iconografie leghiste e in associazioni fascistoidi; mischiando sacro e profano, cattolicesimo da crociata e paganesimo, voglia di evadere dall'aridità e dalla noia della religione del profitto verso un misticismo naturalista di ispirazione nordeuropea. Alberto da Giussano e Riccardo Cuor di Leone, Merlino e Morgana ma anche Belzebù, Odino e Wotan.

Il cosiddetto satanismo varesotto di cui tanto si parla dopo gli omicidi di Somma Lombardo è solo un riferimento maldestro a questo variegato mondo. E' stupido non distinguere alcuni terribili fatti di cronaca da suggestioni che sono diffuse tra migliaia di persone che, naturalmente, nulla hanno a che fare con quei delitti. Si vaneggia di pratiche occulte quando spesso si tratta di passioni adolescenziali molto poco meditate, grezze, fascinazioni che passano con l'età. Anche chi vuole rimanere fedele alla sua vena «magica», col tempo cambia. Quando aveva venti anni, Monica faceva la panettiera a Tradate e ascoltava death metal: adesso è buddista e sta in Thailandia. Simona accendeva candele nere, ora è intrippata con l'India.

Solo più in profondità, e in età più matura, gli sviluppi coltivati nell'humus paraceltico da baraccone prendono identità specifiche; e allora, se chiedi ai diretti interessati, tra satanismo, paganesimo celtico e ultracattolicesimo c'è un abisso. La maggior parte però «rientra». Jack era un «metallozzo puro», adesso fa il ragioniere. «Quando avevo 15 anni preferivo andare in un bosco che in discoteca, ogni due o tre anni sparano cazzate su satanismo e musica del diavolo, non se ne può più. Metal e satanismo non sono affatto sinonimi così come è assurdo pensare che satanisto lo sia di assassino. Invasati ne ho conosciuti, metallari e non. C'era chi si faceva le foto nei boschi con asce e facce pitturate di bianco, qualcuno si tatuava stelle a cinque punte ma più che messe nere erano messe in scena. La storia che nei boschi di Somma Lombardo si facevano riti la sento da quando ero piccolo, dicevano di aver visto un corvo crocefisso e che arrivavano macchinoni con targhe di fuori, c'era anche chi diceva che si facevano messe nere in una ex scuola di agraria».

Ognuno ha la sua leggenda metropolitana. Alcune sono panzane, altre hanno un fondo di verità. Orgie in alcune grotte nelle montagne moreniche della Valganna, buchi poco profondi in una valle stretta e fredda alle porte di Varese. Chiesette sconsacrate nella vicina Val Ceresio, per non parlare dei «riti» che si consumerebbero in uno dei luoghi cult di tutta la provincia: l'ex-cartiera. Un enorme e inquietante stabilimento di inizio secolo abbandonato sulle rive dell'Olona, stanzoni giganteschi, vecchi macchinari, tubazioni e antri bui. Si favoleggia di messe nere anche nei bunker della Siai Marchetti, la prima industria aeronautica d'Italia, vicino a Sesto Calende, a pochi chilometri da Somma Lombardo. E poi ci sono i cimiteri, come quello del santuario di santa Maria delle Ghiande, a Mezzana, frazione di Somma, proprio dove il 28 maggio scorso sono stati ritrovati i corpi di Chiara Marini e Fabio Tollis, i due giovani uccisi da quattro «satanisti».

L'elemento «satanico» scatena i media ma per il paese è un aspetto secondario. Il signor Augusto ha un canile. Lo hanno chiamato i carabinieri per prendersi cura del cane di uno degli accusati, dopo che il 23 gennaio il padrone è stato arrestato per l'omicidio dell'ex fidanzata Mariangela Pezzotta. Lei era di Somma: quello in paese è l'omicidio importante, il ritrovamento nel boschetto degli altri due ragazzi milanesi, ai suoi occhi è meno rilevante. Il signor Augusto dà una chiave di lettura più terra terra: «Erano i balordi del paese, li conoscevamo. La ragazza l'hanno ammazzata per questioni di gelosia, gli altri due per faccende di soldi e droga».

Non la pensa molto diversamente, Luca, uno dei ragazzi del Riff Raff di Gallarate, il più famoso negozio di dischi metal di tutta la provincia. «Quello che hanno arrestato a Somma anni fa si vedeva al Nautilus (l'unica vera discoteca dove è cresciuta mezza provincia, ndr) - ricorda Luca - era uno sfigato che stava sempre da solo, incasinato con droghe varie». Luca sembra un vichingo, alto, barba e capelli biondi e lunghi, borchie, pantaloni e maglietta nera con scritte gotiche. Mite e un po' timido, sta chattando con amici tedeschi, alle spalle i poster degli Iron Maiden, davanti un teschio a forma di posacenere (gadget) e un libro di William Scott. E' addolorato. «Mi stanno scrivendo che è morto il mio mito Quorthon, l'inventore del black metal». E' il leader del gruppo svedese Bathory (dal nome di una principessa assassina ungherese). Quorthon nei suoi testi non parla, non parlava, di Satana, perché Lucifero fa parte della terminologia cristiana, meglio allora riprendere l'epica scandinava degli dei del nord, rileggendo Wagner. «A me piacciono i vichinghi, ma non vado certo in giro con le corna e la spada», dice Luca. Poi aggiunge: «Migliaia di ragazzi ascoltano la nostra musica, se il metal o qualunque tipo di musica c'entrasse con quei delitti allora ci sarebbe un'ecatombe al giorno. Se il criterio per individuare un assassino fosse quello di sottolinearne l'ambiente di provenienza, allora tutte le categorie potrebbero essere bollate come assassine».

Sulla porta c'è il manifesto dell' Iron Fest, carrellata di gruppi metal che tra pochi giorni va in scena a Tradate, con «star» americane. Entra Matteo, bassista metal: «Sai il ragazzo che si è impiccato? Dicono che è stato un suicidio indotto, ma vai a sapere perché uno si ammazza...». Matteo lo ha visto. Era sull'ambulanza che ha portato via il cadavere. Faceva il volontario in croce rossa dopo un anno di servizio civile.

Dopo la presentazione dei due disegni di legge (Lupi e Mantini) per una nuova legislazione in materia di governo del territorio, sembrava che l’interesse sul tema fosse notevolmente scemato: la terza proposta (Sandri) è sembrata piuttosto un’affrettata ricomposizione di testi regionali fatta per partecipare alla discussione parlamentare, e non ha trovato particolare favore neanche tra i DS.

Recentemente si sono invece tenuti due convegni promossi dai gruppi parlamentari della Margherita (29 gennaio) e dei Verdi (3 febbraio), che danno il segno di una rinnovata attenzione politica, in parte inaspettata se la si confronta al disinteresse che ha caratterizzato negli ultimi anni il dibattito sui temi del governo del territorio. Un disinteresse che risale alla fine della passata legislatura e che coincise allora con il passaggio dalla presidenza della VIII Commissione dalla Lorenzetti (chiamata a governare l’Umbria) a Turroni.

Di questo rinnovato interesse noi urbanisti dovremmo essere felici: meno male si sono svegliati!

Purtroppo non è così, lo svegliarino è quello solito, preelettorale, per far vedere che ci sono: la confusione regna sovrana per lo meno nel centro sinistra.

Il convegno della Margherita, pur tra alcune defezioni, ha registrato la volontà di pervenire ad una conclusione dell’iter parlamentare, anche in una interlocuzione critica con il testo unificato da Lupi ed oggi in discussione in VIII Commissione.

Al convegno dei Verdi non mi è sembrato invece che ci fosse volontà di utilizzare il testo Mantini, né tantomeno quello Sandri per la costruzione di una linea emendativa del testo Lupi.

Si preferisce, da parte di alcuni, piuttosto non fare la legge, o al massimo come vedremo fare “leggi proclama”.

Sul governo del territorio non si può scherzare; le “leggi proclama” non hanno senso; il popolo non va indottrinato con proclami.

La questione di una sostanziale e divergente “anarchia” cui tendono i diversi sistemi di pianificazione regionale e quelli separati dallo stato non appare agli occhi di questi sostenitori delle leggi proclama una questione rilevante per lo sviluppo del paese.

L’intervento centrale al convegno dei Verdi è stato comunque quello del noto imbonitore Vezio De Lucia, che, con in mano fogli e foglietti di citazioni (il piano Solo – il tintinnar di manette, l’inquinamento urbanistico) recitate con sussiego per deliziare l’auditorio piuttosto che restare al tema (che era quello di una nuova normativa urbanistica nazionale), ha preferito come al solito demonizzare un avversario, in questo caso l’Istituto Nazionale di Urbanistica, che lo ospita troppo generosamente nelle sue riviste, per concludere appunto che servono “leggi proclama”, come se i problemi delle città e del territorio si potessero risolvere con dei proclami per imbonire il popolo. Il contenuto della bottiglia, elisir di lunga vita, o lozione per i capelli, è sempre lo stesso: tutela, tutela, tutela! Con inasprimento delle pene ed esproprio generalizzato, altro che perequazione e progetti di sviluppo pubblico-privati; ma mentre nel West i venditori di elisir venivano regolarmente impeciati ed impiumati, il nostro, cambiando di volta in volta cappello, gira ancora per le piazze, invero sempre più piccole e sempre meno affollate, ma qualche dollaro (incarico) ancora lo rimedia comunque, soprattutto nelle zone della sinistra d’annata, dura, pura e ricca.

Attaccare l’INU, rientra nei soliti artifici retorici di Vezio De Lucia che, per sostenere i 16 punti della “legge proclama” dei Verdi (tutela, pene, vincoli urbanistici decennali, acquisizione forzosa da parte dei comuni allo scadere dei dieci anni di vincolo) deve per forza scatenare l’uditorio contro un “avversario” responsabile di tutti i guasti del territorio, che solo la sua pozione riuscirà ad eliminare.

L’Istituto Nazionale di Urbanistica è stato additato (suppongo, per consolidare ed estendere il tavolo del centro sinistra) come un covo di riformisti (ovvio la vera riforma è la sua, quella che non si deve fare mai), dediti ad inciuciare nei Programmi complessi, noti luoghi di malaffare gestiti dall’oste di via Nomentana, che consentono incontri senza burqa, tra mano pubblica e soggetti privati. Ma non solo controriformisti, molto e molto di più, traditori passati al nemico che, come tutti i rinnegati, sono diventati i più accaniti sostenitori di Berlusconi, di Milano 2 e quindi del Ddl Lupi e della rendita di posizione. A questo punto e con il rincrescimento di dover comunque contribuire ad una sceneggiata sono dovuto intervenire per precisare:

1 – che l’INU ha ritenuto di dover formulare nelle sedi a ciò deputate (Audizioni parlamentari) numerose e specifiche osservazioni ai Ddl presentati;

2 – che in particolare a quello Lupi ha contestato:

- la sovrabbondanza di principi generici e relativa assenza di specifici compiti dello Stato (prestazioni minime, etc.)

- la limitazione del campo di interesse (solo urbanistico) e di contro la eccessiva definizione dei contenuti degli strumenti comunali

- la indeterminatezza dei soggetti

- la concezione superata degli standard

- la contraddizione tra principio di conformità e conseguente sovraordinamento degli enti ed il nuovo titolo V della costituzione

- la pericolosa introduzione del tema “territorio non urbanizzato” e in particolare delle “Aree per ulteriori urbanizzazioni”

3 – che tutto questo non ci impedisce di considerare Lupi, Sandri e Mantini come parlamentari della Repubblica che stanno utilmente dandosi da fare per costruire una legge di riforma del governo del territorio che serva se non altro per superare una concezione solo prescrittiva dell’urbanistica, vecchia di oltre 60 anni e variamente smembrata e contraddetta dalle leggi regionali e dalle attività urbanistiche dei Comuni.

Non si può continuare così, a ruota libera e a motore imballato, pensando che, tutela di tutto e sviluppo, istituzioni e noglobal, siano la stessa cosa.

Sono comprensibili i tentativi di Vigni (DS) di ricomporre, per i partecipanti al convegno, un quadro ecumenico in cui tutto questo possa coesistere; ma il grande PCI non esiste più, è quindi inutile, ma soprattutto crea confusione affermare in sequenza che:

1 – non ci sono le condizioni per interagire con il Ddl Lupi

2 – si deve costruire una proposta organica (diversa da quella Sandri)

3 – si deve valutare la possibilità di presentare emendamenti al Ddl Lupi che affrontano per lo meno tre nodi: dimensione territoriale; rapporto pubblico/privato; condono e abusivismo.

Si rischia di essere travolti dai sorpassi a destra (in tutti i sensi) di De Lucia e di mettersi poi a remare per una “legge proclama” (mi devono ancora spiegare cosa è giuridicamente).

L’ultima timida proposta di Vigni di mettere a fuoco, in un appuntamento nazionale il “punto di vista della sinistra” sul governo del territorio, rischia di arrivare in ritardo; come al solito consentendo agli imbonitori del Far West di continuare a vendere il loro elisir di lunga vita in assenza di una indispensabile riforma urbanistica che se affidata alle sole leggi regionali rischia di produrre più problemi e più anarchia istituzionale di quanta già ce ne sia.

alcuni brani scelti e illustrati, da questo testo (a cura di fabrizio bottini)

Titolo originale: Rural Retreat - Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Appena oltre il confine dell’Illinois, East Troy, Wisconsin, è diventata sede di varie iniziative di sviluppo sostenibile, agricoltura biologica, per le energie alternative, di un nuovo eco-villaggio

Guidando verso nord sulla Route 120 verso East Troy, Wisconsin, si entra in un paesaggio rurale verdeggiante, con fienili, cavalli, mucche. Le geografia è mossa, definita dal sistema morenico del Wisconsin, e riflette la vicinanza di Alpine Valley Resort, Music Theater, della Kettle Moraine State Forest.

East Troy (3.800 abitanti), appena a nord del confine Wisconsin/Illinois, ha il fascino del piccolo centro, con una piazza da villaggio con gazebo, un museo ferroviario e un ristorante drive-through. “È il tipo di posto dove lasci che i bambini vadano in giro in bicicletta, senza preoccuparti” dice Tricia Riley, responsabile della Nokomis Bakery.

Ma quello che passando da East Troy può anche non saltare all’occhio, è la profusione di imprese legate allo sviluppo sostenibile che hanno trovato casa in questa cittadina. E che comprendono il Michael Fields Agricultural Institute con la sua fattoria di coltivazioni biologiche; la Nokomis Organic Bakery and Grocery; LifeWays, un programma per la prima infanzia ispirato al metodo Waldorf; e la Uriel Pharmacy, che produce cure naturali ad orientamento antroposofico.

“East Troy è una dei segreti meglio mantenuti del Wisconsin sudorientale. È soprendente vedere la quantità di coltivazioni biologiche e a base familiare in questa zona” continua Riley.

L’ultimo arrivato nella comunità sostenibile di East Troy è un eco-villaggio, Fields Neighborhood. Le prime case di questo insediamento hanno avuto il massimo riconoscimento mai concesso da Green Built Home, progetto ambientalista del Wisconsin. È richiesto un minimo punteggio di 50 per essere riconosciuti come Green Built Home: questo progetto nel ha ricevuti 107.

Fields Neighborhood si affaccia sullo Honey Creek e su una zona boscosa tutelata di 80 ettari, con percorsi pedonali. Anche se è circondato su due lati da spazi aperti, è abbastanza vicino al centro da poter andare a scuola a piedi.

L’aspetto più inusuale del villaggio, è il fatto di essere progettato con un sistema a run-off zero dell’acqua: “Tutta l’acqua piovana viene filtrata dal terreno fino alla water table” spiega Peter Scherrer, responsabile della costruzione del villaggio. Il sito è concepito per massimizzare l’assorbimento delle acque, e comprende orti per la loro raccolta con piante da zone umide. Per minimizzare il runoff, le strade sono strette, e fatte di cemento, più “ambientalmente responsabile” dell’asfalto, e che crea meno calore.

Le prime abitazioni doppie sono state messe sul mercato in agosto. Lo studio responsabile della progettazione è la Design Coalition di Madison, Wisconsin. Gli edifici di mattoni e legno sono stati realizzati con parecchie caratteristiche energy-saving e hanno fatto guadagnare a queste case un punteggio di 88 dal Wisconsin Energy Star, il che significa un richiesta corrente di energia inferiore dell’88% a quella delle abitazioni convenzionali. Lucernari nei soggiorni e orientamento a sud provvedono un riscaldamento solare passivo, e la casa è pronta per quello solare attivo. Finestre ad alta efficienza e isolamento, aumentano ancora la conservazione energetica.

Le case fanno uso di materiali rinnovabili, che creano un ambiente interno ipoallergenico, ci racconta Joel Jacobsen, l’agente che sta vendendo le abitazioni. In quelle completate, il corridoio e disimpegni del primo piano hanno pavimenti in linoleum, più ambientalmente amichevole di altre superfici. Le moquettes sono di lana, e i colori per le pareti sono a componente volatile organica. Le finiture di legno sono quercia di alta qualità del Wisconsin, che richiede anche meno consumo di carburante per il trasporto.

Oltre a una stanza comune e a un bagno, il livello interrato comprende una stanza a cantina e uno studio/laboratorio. La cantina root-cellar è destinata ai prodotti degli orti comuni previsti. Il garage adiacente è dotato di uno scarico con ventola che si aziona automaticamente aprendo la saracinesca, e che succhia all’esterno il monossido di carbonio.

Una delle caratteristiche più interessanti del piano terra delle abitazioni proposte con tutte le finiture è il pavimento di bambù, molto attraente visto che sembra legno massiccio, ma rinnovabile. La stanza principale/soggiorno ha alti soffitti e finestre affacciate su una vista dello Honey Creek e spazi aperti. Si può accedere a un portico da questa stanza principale, così come dalla camera da letto secondaria.

Le due case proposte con tutte le finiture hanno un prezzo di 318.900 dollari; quelle da completare di 228.900, ed è necessario che l’acquirente aggiunga pavimenti, finiture bagno, tubazioni e impianto elettrico. Quando il villaggio sarà completo, consisterà di 72 unità, compresi edifici condominiali con sei appartamenti e abitazioni doppie su un solo piano.

Christopher Mann, costruttore di Fields Neighborhood, ha realizzato anche un eco-villaggio in Sussex. “Pensavo a un luogo dove le persone potessero vivere insieme, interagire socialmente e sul lavoro, dove i bambini potessero crescere in modo equilibrato” raccontava Mann della comunità in Sussex, in un’intervista del dicembre 2000 alla rivista della Rudolf Steiner Foundation. Per l’insediamento di East Troy, spera di creare un paesaggio che sia l’ambiente culturale di una nuova etica sociale. Mann (che era all’estero mentre si svolgeva la ricerca per questo articolo) notava in quell’intervista come fosse particolarmente stimolante realizzare una comunità immersa nel verde con contenuti economici alternativi. “Creare qualcosa per i redditi medi è molto difficile. È facile scivolare verso le fasce alte di mercato facendo cose troppo costose, in particolare se si vuole edilizia ecologica, un’etica ambientalista, sviluppare un insediamento a zero run-off”.

Per questo motivo, il responsabile di costruzione Scherrer dice che anche se tutti gli edifici di Fields Neighborhood avranno qualche caratteristica ecologica, alcuni potranno non essere meno “verdi” di altri, per consentire di rendere disponibili abitazioni a varie fasce diverse di reddito.

Mann è inglese, cresciuto in una famiglia di cultura Waldorf. Da giovane emigrò in Canada, dove scoprì l’antroposofia: la scienza spirituale formulata da Rudolf Steiner (1861-1925), filosofo e studioso austriaco. L’antroposofia è alla base di nmerose iniziative olistiche nel campo della medicina, delle terapie, delle arti, dell’economia, agricoltura, istruzione. Nonostante le scuole di metodo Waldorf facciano riferimento all’antroposofia, questa non è insegnata agli studenti. Dunque quando Mann divenne interessato alla materia da adulto, tornè in Inghilterra per una specifica formazione da insegnante. Sua moglie, Martina, aveva ereditato una fortuna sufficiente a consentirgli una vita di filantropia.

I coniugi Mann sono stati attratti a East Troy dal fatto che era sede della più antica fattoria biodinamica degli Stati Uniti, la Zinniker Dairy Farm, inaugurata negli anni ‘40.

“La zona di East Troy aveva l’aspetto e l’atmosfera delle valli d’Europa, e se ne innamorarono” ci dice Ron Doetch, direttore esecutivo del Michael Fields Agricultural Institute.

I Mann, con Ruth Zinniker, nel 1984 fondano il Michael Fields Agricultural Institute, struttura non-profit pensata per sviluppare ricerche agricole e formare agricoltori ai sistemi sostenibili, biologici, biodinamici. L’agricoltura biodinamica va oltre quella biologica, e guarda all’intera azienda come a un organismo vivente. Riconosce l’importanza del suolo per la salute della fattoria e guarda all’azienda, agli animali, al raccolto e all’ecosistema come interconnessione, con l’obiettivo di condurre ad equilibrio e salute l’insieme.

L’Istituto negli ultimi dodici anni ha raccolto coltivatori e consumatori alla Urban Rural Food System Conference che si tiene ogni novembre.

Lo stimolo maggiore per il Michael Fields è quello di cambiare il modo in cui gli agricoltori conservano risorse, e mantenere in vita l’azienda familiare. Il direttore Doetch sottolinea come i programmi aperti siano destinato al coltivatori con metodi convenzionali, dato che insegnar loro a ridurre almeno di un terzo l’uso di fertilizzanti chimici, continuando a guadagnare, può avere impatti significativi.

L’istituto Michael Fields lavora per aumentare i finanziamenti federali alla ricerca e alla formazione verso una agricoltura sostenibile. Ora, meno dello 0,5% dei fondi di ricerca del Dipartimento dell’Agricoltura va a quella sostenibile.

Doetch crede che oggi sia un buon momento per il Michael Fields, dato che i prodotti biologici sono entrati nella mainstream. “Con asma, diabete e diffocltà di apprendimento in crescita, la gente ha iniziato a capire che la dieta dei nostri bambini è sbagliata” dice. “Si inizia a capire che siamo ciò che mangiamo”. Doetch afferma che la consapevolezza del cibo è stata risvegliata da minacce come gli alimenti geneticamente modificati o il morbo della Mucca Pazza.

“È bello fare la cosa giusta per il motivo giusto e al momento giusto”.

Col sostegno finanziario e morale dei Mann, parecchie iniziative hanno trovato casa a East Troy.

La prima è la Nokomis Bakery, iniziata nel 1984 da Martina Mann, per produrre pane utilizzando grano delle coltivazioni locali, in un forno d’argilla collocato in un capanno. La gente poteva andare al capanno e comprarsi un pane genuino. “Era parte della visione [dei Mann] sul conservare le aziende a gricole familiari che stavano scomparendo” ci dice la signora Riley, direttore generale del forno. Suo marito Jamie, è il fornaio.

Oggi la Nokomis sforna ogni settimana da 2.000 a 3.000 forme fatte a mano, da farina integrale macinata a pietra, vendute in negozi specializzati in cibi di qualità da Madison, a Milwaukee, a Chicago.

Riley ci racconta che i suoi nonni materni e paterni erano contadini. È cresciuta a Lake Geneva ed è entrata nel campo dell’alimentazione naturale quanto si è sentita insoddisfatta del lavoro in un’impresa.

“Trovo soddisfacente stringere la mano a un agricoltore, o camminare nei campi di grano prima che sia portato qui per la lavorazione”.

La Nokomis Bakery, che ha la porta accanto all’istituto Michael Fields, gestisce anche un negozio di cibi naturali aperto sette giorni su sette. Offre latte biologico in bottiglie di vetro, formaggi locali, granaglie biologiche all’ingrosso, altri prodotti biologici, polli del Wisconsin, miele locale, dolci di burro e zucchero.

Altra iniziativa di East Troy è quella intrapresa da una ex insegnate di scuola Waldorf, Bente Goldstein, sposata a Walter Goldstein, direttore per le ricerche sul grano al Michael Fields. Bente Goldstein dirige “Una settimana alla Fattoria”, un programma pensato per responsabilizzare i bambini sui compiti quotidiani della vita agricola. “Un tempo i bambini sarebbero andati dai nonni per questa esperienza, per imparare da dive viene il cibo; ai bambini moderni è negata questa esperienza di base ... Una fattoria è il luogo perfetto per costruire un carattere” ci dice la signora Goldstein.

LifeWays, pure vicina al Michael Fields, è stata iniziata da Cynthia Aldinger, insegnante Waldorf interessata alla spersonalizzazione nella cura dei bambini più piccoli. LifeWays Center, di ispirazione Waldorf, è aperto dal 1998 per bambini dai tre mesi ai sei anni. È strutturato su tre ambienti che simulano una casa e progettato per offrire solide e durature relazioni collocando i bambini in una situazione multi-età, come quella di una grande famiglia.

“I bambini sono all’aperto per la maggior parte della giornata. Stanno in un orto biologico, raccolgono verdure, aiutano a lavarle e prepararle. Questa è anche una meravigliosa zona per camminare e tenersi in contatto con l’ambiente naturale” ci dice la direttrice di Lifeways, Jodi Fitzgerald.

L’idea si è diffusa, e ora ci sono centri LifeWays anche a Milwaukee e a Sedona, Arizona. Si prevede l’apertura di un altro al Rudolf Steiner College di Fair Oaks, California.

La signora Fitzgerald ci dice che la comunità sostenibile è solo una parte del microcosmo formato dalla comunità allargata di East Troy. Inizialmente ha incontrato qualche resistenza, ma ora ha iniziato ad essere accettata.

“Tutte le iniziative si fondono insieme a formare uno stile di vita. Uno stile di vita che è rispetto per ciascuna persona. È come se restituissimo all’ambiente quello che gli abbiamo preso”.

Nota: di seguito alcuni links (fb):

Il testo originale al sito di Conscious Choice

Le scuole Waldorf

il Michael Fields Agricultural Institute

Un blocco di cemento di 1.070 metri cubi: è questa la «dote» portata alla provincia di Vicenza, una delle più industrializzate d'Italia, da ogni abitante in più degli anni Novanta. Crescita demografica: più 52 mila abitanti, pari al 3%. Crescita edilizia: più 56 milioni di metri cubi, pari a un capannone largo dieci metri, alto dieci e lungo 560 chilometri. Ne valeva la pena? Valeva la pena di costruire oltre il quadruplo delle case necessarie rispetto all'incremento di cittadini e di insultare ciò che restava delle campagne care a Meneghello con giganteschi scheletri di calcestruzzo tirati su spesso solo per fare un investimento e tappezzati di cartelli «affittasi»? Se lo chiedono in tanti, finalmente. Se lo chiedono gli imprenditori più avveduti, che hanno chiarissima l'idea che far concorrenza alla Cina costruendo più capannoni e assumendo più cinesi anziché puntare su innovazione e ricerca è un suicidio. Se lo chiedono un pezzo della sinistra e della destra, a partire dalla Lega che ha denunciato in un allarmato seminario per bocca del presidente provinciale Manuela Dal Lago come negli anni '90 l'agricoltura abbia perso 18 mila ettari contro i 10 mila perduti nel decennio precedente. Se lo chiedono gli studiosi, come quelli coinvolti in un convegno convocato oggi a a Montecchio dall'Accademia Olimpica il cui presidente Fernando Bandini riassume la situazione così: «E' stato un saccheggio». Intendiamoci: di « schei » ne sono piovuti tanti. La provincia è la prima in Italia nel rapporto tra export e Pil, vanta una partita Iva ogni 10 abitanti, un'impresa manifatturiera ogni 31 (media italiana: una ogni 75), una disoccupazione ridicola (2,6%), un fatturato industriale di 41 miliardi di euro, un reddito pro capite oltre 25 mila. Il prezzo pagato all'ambiente, però, è stato elevatissimo. E fa del Vicentino, felicemente stravolto dall'industrializzazione e dal benessere dopo secoli di povertà ed emigrazione («L'altissimo de sora ne manda 'a tempesta / l'altissimo de soto ne magna quel che resta / e in mezo a sti do altissimi / restemo povarissimi») un caso emblematico del Nord Est. Che può insegnare a tutti.

Nel bene e nel male. Spiega ad esempio una tabella elaborata dall'ingegner Natalino Sottani, relatore al convegno di oggi, che la popolazione provinciale (608 mila abitanti nel 1950 saliti oggi a 807 mila), ha avuto un incremento in mezzo secolo del 32%. Una crescita netta, ma abissalmente lontana da quella della superficie urbanizzata, passata da 8.674 ettari a 28.137. Con un'impennata del 324%: il decuplo.

E accompagnata, ovviamente, da un parallelo crollo dei terreni destinati all'agricoltura: erano 182 mila ettari nel 1950, sono 114 mila adesso. Al punto che, stando all'«impronta ecologica» e cioè all'indice che attraverso una miscela di calcoli assai complessi misura qual è il livello dei nostri consumi, ogni vicentino consuma oggi per 39 mila metri quadri disponendone invece di 3.370: oltre undici volte di meno.

Un consumo del territorio abnorme, disordinato, sprecone, indifferente a tutti i rischi. Così ubriaco di auto-compiacimento per lo stupore del mondo davanti ai successi all'incredibile accelerazione degli ex poareti da esaltare il disordine amministrativo e il «laissez faire» come fucina di creatività. Col risultato che oggi i 121 comuni berici, stando al rapporto allarmato della Provincia, hanno «oltre 500 aree industriali». Le quali, in realtà, assediano quasi esclusivamente i comuni di pianura che sono una sessantina e detengono dunque una decina di «zone produttive» a testa. Un delirio. Del quale fanno oggi le spese non solo i cittadini intrappolati ogni giorno in una delle più intasate reti stradali del pianeta ma gli stessi protagonisti del miracolo, quegli imprenditori che si dannano l'anima per guadagnare sei decimi di secondo nella produzione di un pezzo e poi vedono i camion bloccarsi nella fossa larga sei metri di via Mazzini, sulla strada che porta da Bassano a Padova e che sega in due il paese di Rosà, una strettoia dove ogni giorno si strusciano l'uno l'altro 40 mila camion e 30 mila auto. E agognano la costruzione di una bretella, un ponte o una pedemontana che non si possono fare senza buttar giù una miriade di case e stabilimenti.

«Basta capannoni», disse nella primavera 2003 il presidente regionale Giancarlo Galan. I nudi numeri spiegavano infatti che negli ultimi 5 anni erano state costruiti nel Veneto edifici industriali pari a un capannone alto 10 metri, largo 28 e lungo 200 chilometri e passa. Tanto che a Orgiano, un paese vicentino sotto i colli Berici, la gente aveva raccolto 1.500 firme (una enormità in un paese di 2.700 abitanti) per dire basta: «perché dovremmo aprire nuove fabbriche se non c'è disoccupazione» e «deturpare una delle rare aree incontaminate con strade, cave, discariche e industrie»? Il coro di consensi fu vasto. Gli stessi industriali, o almeno i più attenti, plaudirono. Un anno e mezzo dopo, però, Galan pare aver cambiato idea. E qualche giorno fa, a Cortina, ha spiegato che «il Veneto di domani avrà bisogno di più capannoni, non di meno. E Forza Italia ha il dovere di dirlo. Il problema è come farli».

«Con i gerani, i salici e i sette nani nel giardino?», hanno ironizzato i verdi. In realtà, lo sanno tutti, stanno arrivando al pettine quei nodi che troppo a lungo sono stati rinviati. Riassumibili, se vogliamo, in un nodo solo: su quale modello di sviluppo deve puntare un'area come il Nordest che ha scommesso forse troppo sulla dedizione alla fatica dei «polentoni», sul lavoro dei grandi artigiani come quelli dell'occhialeria (oggi in crisi), sul perfezionamento di prodotti a volte vecchiotti fino a far dire a Federico Faggin, il vicentino inventore del micro-processore, che «è un posto buono per fare sedie e maglioni ma non tecnologia d'avanguardia»? Ciò che appare certo a vedere il caso di Vicenza, dove l'opposizione denunciava ieri nuovi progetti cementizi per un altro milione di metri cubi nei prossimi anni nella sola città capoluogo, è che urge un ripensamento. I dati, infatti, sono lì, sotto gli occhi di tutti. Ogni miliardo di euro di crescita reale è costato un consumo di mille ettari di campagna. E dei 52.150 mila abitanti che risultano essersi aggiunti nel censimento del 2001 a quelli del 1991, addirittura 37.140 sono stranieri. Il che vuol dire che per ogni vicentino in più arrivato nel decennio sono stati tirati su 3.718 metri cubi di calcestruzzo. Pari a un capannone dieci per dieci lungo 37 metri. Può essere questo, lo sviluppo di domani? Gian Antonio Stella

Un décret publié fin mars permet désormais des "aménagements limités" dans les espaces jusque-là protégés. "Un terrible coup de canif", s'indignent les écologistes. Mais l'épisode révèle les tensions nouvelles créées par la poussée démographique observée le long des côtes.

"Ce décret est une catastrophe !" Jean-François Burth, président de l'association Défense de l'environnement bigouden, ne décolère pas. "On peut maintenant abroger la loi littoral par décrets ! Ce texte ouvre la porte à des parkings, à des pistes cyclables, à des paillotes se transformant en restaurants, à des postes de secours permanents. C'est un coup de canif terrible porté à la préservation des côtes françaises !"

L'objet du courroux de cet environnementaliste du Finistère est un décret d'application de la loi littoral paru au Journal officiel du 30 mars. Ce décret no 2004-310 permet l'installation d'"aménagements légers" dans les espaces naturels, mais aussi "l'extension limitée des bâtiments et installations nécessaires à l'exercice d'activités économiques" dans ces espaces, normalement protégés de toute construction par la loi littoral.

Publié dans les derniers jours du ministère de Roselyne Bachelot, le décret ouvre la porte à toutes sortes de dérives, selon M. Burth. "Par exemple, explique-t-il, nous avons engagé une procédure juridique contre une petite crêperie qui s'est transformée en grand restaurant avec terrasse dans un site magnifique. Avec ce décret, nous aurions perdu."Au secrétariat d'Etat à la mer, on tempère le propos : "Le terme d'"extension limitée" est assez clair, et, en cas d'exagération, il y aura contentieux et le juge tranchera."

La vive inquiétude des environnementalistes à l'égard de la moindre modification de la loi littoral reflète un problème réel : malgré ce frein, posé en 1986, à l'urbanisation des côtes, la pression urbaine et économique sur les côtes françaises semble irrépressible. Une étude publiée en 2000 par l'IFEN (Institut français de l'environnement) montrait que "la construction suit depuis 1980 le même rythme que celui observé sur l'ensemble du territoire, sans changement quantitatif significatif depuis le vote de la loi littoral". La tendance n'aurait subi aucune inflexion depuis 2000. "La pression foncière est colossale, note Bruno Toison, au Conservatoire du littoral. Par exemple, sur l'île de Ré, on compte plus de 400 nouvelles maisons chaque année, malgré toutes les protections existantes."

Mais ce n'est pas l'insuffisance de la réglementation qui fait peser des menaces sur les espaces encore non construits des 550 000 km de côtes françaises. "La loi littoral ne fonctionne pas si mal. Aujourd'hui, l'urbanisation se produit par épaississement des taches existantes plutôt que par nouveau mitage",note un expert, qui requiert l'anonymat "pour ne pas avoir de problème avec les élus".

Ce qui est surtout en cause, c'est l'attrait qu'exerce la mer sur les populations. Selon une fiche de préparation du Comité interministériel d'aménagement et de développement du territoire (CIADT), qui doit se réunir en septembre, "les zones côtières sont aujourd'hui les lieux les plus dynamiques de la planète". La France participe à ce "mouvement général", et c'est ainsi que "près de 3,5 millions d'habitants supplémentaires sont attendus dans les départements littoraux à l'horizon 2030".

PROCÉDURES DE CONCERTATION

Cette poussée démographique se traduit par une soif inextinguible de construction qui entraîne une progression continue de l'urbanisation sur tout le littoral. Mais, sur place, les habitants et les élus sont souvent demandeurs d'assouplissements : "Dans ma commune de Plounévez-Lochrist, explique Jacques Le Guen, député (UMP) du Finistère et rapporteur de la mission parlementaire sur la loi littoral qui doit rendre son rapport prochainement, il y a une bande vide entre deux groupes de maisons, on ne peut construire alors qu'il y a continuité du bâti. Ou encore, à côté, à Plouider, la loi littoral impose des règles de construction même dans la partie de la commune, qui se trouve à plus de 2 km de la mer."

Les activités économiques demandent, elles, des assouplissements : "On connaît de nombreux cas de jeunes agriculteurs qui ne peuvent s'installer en serres maraîchères dans les communes littorales à cause des contraintes de la loi", indique-t-on à la chambre d'agriculture du Finistère. Or 35 % des exploitations agricoles de ce département se situent dans des zones littorales. Ailleurs, ce sont les conchyliculteurs qui se plaignent des contraintes, ou les ports de plaisance, qui disent souffrir d'engorgement et demandent l'agrandissement des ports existants, ou la création de ports à sec pour stocker les bateaux.

La pression est donc plus forte que jamais sur cette loi qui a permis de freiner une urbanisation incontrôlée. Il est probable que l'on s'oriente vers de nouveaux modes de gestion, basés sur la concertation de tous les acteurs plutôt que sur l'application de règles par l'administration et par les tribunaux. "Il s'agit d'une nouvelle gouvernance", explique-t-on au secrétariat d'Etat à la mer : "Au lieu d'imposer, on essaie d'obtenir une concertation sur des objectifs définis en commun."

La baie de Somme, l'étang de Thau (Hérault), la baie de Bourneuf (Vendée) expérimentent ces procédures de concertation qui tentent de concilier des objectifs conflictuels : le développement économique et le respect de l'environnement.

Pas d'exception pour la Corse

La loi littoral s'applique en Corse comme ailleurs. A l'époque des discussions sur le nouveau statut de l'île préparé par Lionel Jospin, l'article 12 du projet de loi concrétisant la première étape de ce processus prévoyait la possibilité pour les élus d'"adapter" la loi de 1986. Cet article, qui, au départ, suscitait un relatif consensus, a ensuite déclenché de vives oppositions en Corse et sur le continent. Il a été retiré en deuxième lecture à l'Assemblée nationale, en novembre 2001. Aujourd'hui, les défenseurs de l'environnement affirment que certains élus corses tentent de nouveau d'obtenir la possibilité d'adapter la loi. L'hebdomadaire autonomiste Arriti du 19 mai estime qu'"une modification éventuelle (...) ne pourrait se faire que dans un sens plus protecteur et après un large

Titolo originale Empty Boxes. As Kmart’s signature blue lights fade, what will happen to vacant big-box stores? – traduzione di Fabrizio Bottini

Il gigante del commercio Kmart si è appellato all’articolo 11 sulla tutela dal fallimento alla fine di gennaio, e la scorsa settimana la compagnia con base a Troy, Michigan, ha annunciato che avrebbe chiuso i battenti di 284 dei suoi 2.000 negozi. L’anno scorso, Montgomery Ward e Service Merchandise sono pure andate in bancarotta; nel 1999 i negozi discount Caldor hanno chiuso. Ci saranno decine, o anche centinaia, di questi negozi big-box – alcuni dei quali coprono più di 10.000 metri quadrati – abbandonati vuoti, come chiazze di assi inchiodate nel paesaggio?

James Howard Kunstler, autore nel 1999 del libro The Geography of Nowhere, afferma che gli affanni di Kmart sono sintomatici di una scossa sismica nel commercio americano. “Il commercio delle catene nazionali entrerà in un periodo di difficoltà, e piuttosto presto” dice Kunstler. “Queste compagnie godono di economie possibili solo con un’offerta senza fine di petrolio e manodopera a buon mercato dall’altra parte del mondo. Solleciterei il pubblico a pensare al commercio big-box come ad una anomalia storica, piuttosto che una cosa normale”.

Kunstler non è ottimista riguardo alle prospettive di utilizzazione futura dei negozi. “Spesso questi edifici stanno lì senza essere riutilizzati dieci anni” dice. “Per allora, le coperture piatte hanno iniziato a fare infiltrazioni, e gli edifici finiscono per essere degradati. Oppure qualche volta sono occupati da attività marginali, come i mercatini delle pulci in sede fissa”.

Alcuni residenti si preoccupano perché proprio questi tipi di attività si possono installare nel loro ex megastore, altri perché non si riuscirà ad attirarne nessuna, di attività: Caesar Carrino, sindaco di Wadsworth, Ohio, una città di 21.000 abitanti cinquanta chilometri a sud est di Cleveland, ci dice che se il Kmart di Wadsworth chiude, i clienti del posto lo rimpiangeranno parecchio, e la città avrà molti problemi per trovare un altro occupante di quegli spazi. “È troppo grande per un negozio Kohl’s. È troppo piccolo per un Wal-Mart. Target non ha sinora rapporti con Wadsworth. E nessun sembra intenzionato a muoversi, per via delle condizioni economiche”.

Il problema non è limitato alle città piccole. Charlotte, North Carolina, ha circa duecentomila metri quadrati di spazio commerciale vuoto, e i residenti stanno diventando sempre più preoccupati. “La gente è diventata improvvisamente molto interessata all’argomento” dice Mary Hopper, presidente della Charlotte-Mecklemburg Planning Commission. “Emerge tantissimo nelle assemblee pubbliche”. Le zone con maggiori problemi a Charlotte, continua, sono le strisce commerciali stradali nei corridoi delle zone centrali, dove c’è poca o nessuna crescita.

Per cercare una soluzione, recentemente Hopper ha scritto un rapporto sul riuso dei siti big-box. Ha studiato alcune delle misure predisposte in altre città, e ora progetta di lanciare alcuni progetti di riuso pilota a Charlotte. “Dovremmo solo ripulire alcuni dei siti” dice Hopper. “Ma se si può riusare un edificio, va trovato il modo efficiente di farlo dal punto di vista dei costi. In molti dei casi, il nuovo uso non sarà commerciale”.

Nel 1998 la Calthorpe & Associates, uno studio di architettura e progettazione urbana di Berkley, California, ha trasformato con successo uno strip mall in difficoltà a Mountain View, California, in un quartiere ad uso misto, orientato alla mobilità pedonale. Il centro commerciale è stato completamente demolito e riciclato come fondamenta per nuove case e spazi verdi.

Classe Prima, Quinto Scaffale

Uno Kmart di Charlotte le cui insegne al neon si sono spente è diventato una scuola privata, gestita dalla Mosaica Education Inc. Secondo il Direttore Michael Connelly, la k-7 Sugar Creek Charter School non è l’unica della Mosaica che sta in un big-box: la George Washington Carver Academy a Highland Park, Michigan, prima era un supermarket, e la Kalamazoo Advantage Academy un J.C. Penney.

Ma convertire negozi big-box in scuole moderne pone alcuni problemi, continua Connelly. Le scuole hanno bisogni diversi di riscaldamento e circolazione d’aria, e ci vogliono più bagni e lavandini, e dunque di solito è necessaria una grossa revisione degli impianti. La Mosaica ha anche inserito dei lucernari, per dare alle aule una illuminazione naturale.

Cheryl Ellis, direttore di Sugar Creek, non potrebbe essere più soddisfatta della sede insolita della sua scuola “È magnifica” dice. “Abbiamo aule ampie e finestre affacciate sull’atrio. Funziona alla grande”. La scuola, dopo due anni, sta crescendo, e fortunatamente ha spazio in abbondanza in cui espandersi. “Ora stiamo usando probabilmente un terzo dell’edificio” stima Ellis “potremmo aggiungere altre 15 o 20 aule”. Ma aleggia ancora la vecchia atmosfera Kmart? Definitivamente no, dice Ellis: “Quando passi la porta, questa è la scuola. Non c’è dubbio in proposito”.

Ellis afferma che i commercianti locali e i residenti sono “eccitati” dal fatto che la scuola si è trasferita lì. Ma l’analista immobiliare Tom Dwier di Reis.com, una compagnia che studia le tendenze del mercato, sottolinea come non sia ideale usare spazio commerciale per farci una scuola: nonostante una scuola possa sostenere alcune attività vicine – venditori di generi alimentari, per esempio – e impedire che i valori degli immobili precipitino, non genera certo reddito o traffico pedonale come un grosso insediamento commerciale.

In più, Dwyer dubita che molti dei defunti Kmart rimangano vuoti a lungo. “Alcuni [negozi Kmart] saranno acchiappati immediatamente, perché si tratta di ottime localizzazioni perfettamente adatte ai clienti di qualcun altro; Home Depot e Lowe’s saranno i candidati principali” dice. “Gli altri negozi invece saranno quelli difficili. Potranno rimanere lì per anni”.

Dwyer fa un parallelo fra le catene Kmart e Montgomery Ward. “Circa il 60 per cento dei negozi Montgomery Ward sono stati presi piuttosto in fretta, e non ce ne sono molti vuoti ora”. Richard Longstreth, direttore della laurea specialistica in conservazione alla George Washiongton University di Washington, D.C., ne ha pure una visione ottimistica. “Il commercio di grandi dimensioni non finirà. Anche durante la Depressione, ci fu una crescita delle grandi catene” dice. “Le strade di grande comunicazione dove stanno questi negozi si rinnovano continuamente. È solo parte del mondo fluttuante del commercio”.

Nota: è certo meno fosca del solito, la conclusione di questo articolo dal National Trust. Va comunque ricordato che lo studioso citato per ultimo, Richard Longstreth, anche nei suoi studi più noti e approfonditi sembra sempre sposare il punto di vista del commercio, piuttosto che quello del rapporto sviluppo locale/territorio/attività economiche, che forse sarebbe più completo. Almeno questa è la mia modesta e discutibilissima opinione. Qui sotto il link al sito della rivista del National Trust dove si trova la versione originale del saggio. (fb)

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