22 febbraio 2019. Per ricordare e riscoprire una figura fondamentale per comprendere la necessaria unitarietà dei progetti di trasformazione dello spazio superando l'antinomia tra architettura e urbanistica. (i.b.) Qui il link all'articolo.
il manifesto, 15 dicembre 2017. E' andato via un amico, un compagno. Lo piangiamo con quanti lo conobbero, lo amarono, lottarono le sue battaglie, condivisero le sue speranze
Corriere del Mezzogiorno, 29 novembre 2017. Alessandro Leogrande è andato via. Un suo ricordo, si Massimiliano Virgilio e un articolo di Leogrande su Rocco Scotellaro
È una doppia commemorazione quella che presentiamo oggi: due giovani scomparsi anzitempo (Rocco Scotellaro, a 30 anni, Alessandro Leogrande, a 40 anni) entrambi speranze di un Mezzogiorno d'Italia sempre più impoverito e disgregato. Si tratta di un articolo che li unisce: un articolo di Alessandro su Rocco. Ci piacerebbe servissero a riaprire un ragionamento sulla disperazione che c'è nella nostra stessa Penisola, e su come rovesciarla in speranza
Corriere della sera
ALESSANDRO LEOGRANDE
di Massimiliano Virgilio
La notizia arriva di mattina presto, rimbalza con messaggi sul telefonino, sui social ed è una di quelle da spezzare il fiato. Alessandro Leogrande (in foto ) è morto. A soli quarant’anni anni. Non ho il tempo di sperare che si tratti di un brutto scherzo, purtroppo una valanga di messaggi seppellisce anche l’ultima speranza. Purtroppo è vero: di colpo realizzo che Alessandro non c’è più. Inutile sprecare parole sulla caducità dell’esistenza, sul fatto che siamo tutti foglie nel vento, fragili, fragilissime. Alessandro se ne è andato. Se posso scrivere qualcosa di sensato adesso, sull’assurdità di un evento che spezza una vita a soli quarant’anni, posso soltanto scrivere la verità, e cioè che Alessandro è stato un grande scrittore e un ottimo giornalista, ma soprattutto è stato un attivista, che ha praticato a lungo il volontariato e l’impegno sociale, che ha combattuto per cause importanti e ha scritto di questioni altrettanto importanti, affrontando alcuni nodi critici del nostro presente. Un tempo si sarebbe detto di lui che era un intellettuale engagé . Naturalmente è stato anche quello, ma Alessandro è stato soprattutto una persona gentile, capace di letture anticonformiste del nostro presente, un uomo colto, un ragazzo del Sud.
il manifesto, 23 novembre 2017. A 76 anni è scomparso Massimo Quaini. E' sempre stato in prima fila nel tentativo, assai problematico, di dare alla geografia in Italia il peso culturale che meriterebbe
Ci ha lasciati un grande geografo, un grande amico e un eccezionale compagno delle nostre pratiche di conricerca, Massimo Quaini. Quando nel 1999 cominciammo a pensare alla fondazione della Società dei territorialisti, uno dei primi che consultammo fu proprio lui. Aderì con slancio al progetto e fu fra i garanti fondatori, attento com’era fin dai tempi della rivista Herodote-Italia, negli anni 70, a contaminare saperi disciplinari per un progetto culturale di rinnovamento del pensiero marxista. Così, dalla sua fondazione fino a ieri, Quaini è stato una delle colonne portanti del Comitato scientifico dell’associazione, dei suoi convegni, dei suoi scritti, delle sue iniziative.
Alla nostra generazione di geografi ha dato un contributo paragonabile a quello di Lucio Gambi alla generazione precedente e va richiamata la sua capacità di dialogare con le altre figure impegnate nelle discipline del territorio: gli storici, prima di tutto, gli urbanisti, gli archeologi, gli ecologisti e le altre discipline implicate nel progetto comune di scienza del territorio.
Come geografo storico, Massimo Quaini è stato in prima fila nel tentativo, assai problematico, di dare alla geografia in Italia il peso culturale che meriterebbe: a questo erano dedicati i suoi lavori degli anni ’70 (il più noto fu Marxismo e geografia, del 1974, uscito per La Nuova Italia).
I suoi contributi alla storia della cartografia sono sempre stati fra i più originali. Ma già con Dopo la geografia del 1978, indicava nuove strade per le generazioni di geografi a venire, che poi si sono tradotte nella partecipazione di Quaini alla fondazione delle Società dedicate rispettivamente agli studi storico-geografici (1992) e alle Scienze del territorio (2010): una partecipazione sempre attiva, stimolante, critica.
Né va dimenticato l’impegno per la tutela del paesaggio nella «sua» Liguria. In un’intervista del primo agosto sulla cronaca genovese di Repubblica auspicava di «partire dall’analisi delle parole, usate spesso in senso positivo per nascondere interventi di tutt’altro genere con indicazioni molto sfuggenti. C’è il grande ombrellone del ’contenere il consumo del suolo’ ma qui in Liguria, per esempio c’è stata anche la legge Crescita del 2016 che prevede semplificazioni per le procedure edilizie e piani urbanistici».
Proprio su questo tema, «partire dalle parole», aveva recentemente avanzato il progetto di un «dizionario territorialista»: il suo saggio uscirà fra breve sulla rivista Scienze del territorio, nel numero monografico dedicato alla «Storia del territorio». A partire da un’analisi dell’esperienza dei dizionari francesi, Quaini propone che la Società dei territorialisti si faccia capofila di questo progetto, aperto a tutte le discipline che operano nella Società stessa.
Per noi, questo progetto è un grande testamento culturale che, speriamo, saremo capaci di onorare.
«Sono cresciuto in una strada malfamata, tra gente che viveva pericolosamente. Era povera ma bella. Oggi invece le città sono sempre più degradate e noi sempre più stressati». la Repubblica Robinson, 6 agosto 2017 (c.m.c)
«Ah, le prostitute e i ladri di una volta! Vogliamo mettere? » . Ecco un modo un po’ stravagante di iniziare una conversazione lunga e proficua con Pier Luigi Cervellati, architetto, urbanista che ha dato la prima grande sterzata in Italia, blindando e recuperando nei primi anni Settanta il centro storico di Bologna. Le prostitute e i ladri si diceva: « Beh più che nella fantasia entrano nei ricordi di un bambino che abitava in via Fondazza, strada frequentata da gente che viveva pericolosamente».
Oggi, a ottant’anni compiuti, Cervellati abita in una casa studio, non distante, nel centro di Bologna. Colpisce la presenza di alcuni manichini: « Li colleziono da anni e ho appena allestito una mostra». Guardo la loro attonita malinconia, che si spegne nella rigidità ortopedica di certe forme. È come se l’assenza di anima sia compensata da una necessità metafisica di stare al mondo. Non è questo in fondo che cercava de Chirico? Cervellati sorride e mi indica una bambola dalle fattezze graziose e naturali: «Vede quella lì, con l’aria distante e seducente? Serviva all’equipaggio della nave quando stava a lungo in mare e non c’erano né porti né donne».
È curioso che la nostra conversazione sia iniziata proprio su ladri, prostitute e bambole di servizio.
«Ma sa, perfino Lucio Dalla, che qui è ormai un mito santificato, parlava “di ladri e di puttane”».
E poi Bologna ha avuto sempre larghe vedute in fatto di erotismo. Come lo spiega?
«Non ho una spiegazione, se non che dopo Roma era la città con più chiese e conventi. L’eros forse richiede una certa dose di pentimento, non trova?».
Non sapevo di questo dispiegamento religioso.
«Bologna è stata una fabbrica di preti. Di ordini religiosi: benedettini, francescani, domenicani. I loro conventi erano la seconda cinta della città. Se ne contavano all’incirca centoventi. Vero baluardo, a nord, dello Stato pontificio».
Che fine hanno fatto quei conventi?
«La gran parte di essi, dopo l’arrivo di Napoleone e dei suoi generali, fu alienata. Nel tempo ci sono state lottizzazioni, o destinazioni amministrative: tribunali, scuole, caserme. È buffo».
Cosa è buffo?
«In piena controriforma, che qui fu particolarmente incisiva, Bologna sviluppò grande interesse per le scienze anatomiche. In quale altro posto il corpo umano era oggetto di una visione al tempo stesso profondamente sacra e profana?».
Lei ha respirato più il sacro o il profano?
«Non sono un uomo dalle spiccate tendenze religiose. Rimasi colpito che il mio maestro Leonardo Benevolo fosse intriso di una certa spiritualità cattolica. Era chiaramente una percezione diversa rispetto alla mia formazione».
Nata come?
«Nata da un padre, operaio delle ferrovie, saldamente ancorato alle traversine dell’esistenza. Non l’ho mai visto dubitare dei binari su cui aveva messo la sua vita. Aveva fatto la prima guerra per finire prigioniero degli austriaci; fuggì poco prima dell’armistizio. A quanto pare fu una fuga rocambolesca, ma non ne volle mai parlare. Nel 1938 si iscrisse al Partito Comunista d’Italia e per tutta la vita ha letto l’Unità e, finché c’era, il Calendario del popolo. Ricordo che negli anni Cinquanta compravo Il Mondo e lui si incazzava, non voleva che in casa circolasse la stampa borghese».
Tosto e ortodosso.
«Tostissimo. La prima Coca-Cola l’ho bevuta a cinquant’anni. Anche lì niet. Sapevo che alcune cose in casa non potevano entrare».
Ed è sempre stato così conflittuale il rapporto?
«Non fu mai una relazione temperata. Però è curioso: somigliando fisicamente a mia madre, una mattina, allo specchio vidi due rughe a parentesi che chiudevano il volto. Con stupore mi accorsi di avere la stessa faccia di mio padre».
Come reagì?
«Avevo passato metà della mia vita a detestarlo silenziosamente. Ma quella somiglianza disinnescava la bomba d’odio. Cominciai non dico ad amarlo, ma a comprenderlo. Perfino quella sua fedeltà assoluta al Partito comunista, che mai vacillò, mi sembrò innocente».
Lei è stato comunista?
«Non avrei potuto con quell’esempio in casa. D’altronde a Bologna il comunismo, più che un’ideologia, fu uno stile di vita. E per questo da indipendente l’ho appoggiato. Soprattutto quando ho fatto l’assessore».
Proviene da studi di architettura.
«Ho studiato a Firenze, entrai all’università nel 1956. Allora non tutte le università avevano la facoltà di architettura. Vi insegnava Ludovico Quaroni. Non era particolarmente simpatico, ma indubbiamente conosceva la materia. Ero abbastanza digiuno di cultura. Avevo scelto architettura dopo aver letto Storia dell’architettura moderna, di Bruno Zevi. Il libro era uscito nel 1950 e per me fu una rivelazione. O meglio all’inizio fu un testo importante».
Si è poi ricreduto?
«A suo modo resta un classico, anche se col tempo presi le distanze da quella impostazione. In fondo Zevi fu il fautore di una modernità che non risparmiava la città storica. Ricordo la sua frase ricorrente: quello che oggi è moderno domani sarà storico! Tanta baldanza mi dava fastidio. I suoi papillon, le pipe ostentate, le giacche di tweed divennero la divisa di ordinanza tra gli architetti. Una volta, durante un confronto pubblico, gli diedi del trombone».
E lui?
«Si offese mortalmente. Capitava che ci si incrociasse ai convegni: se c’è quello stronzo di Cervellati io non parlo! Esclamava veemente».
Cosa non andava nella concezione moderna di Zevi?
«Un fatto semplicissimo: per me la città storica va considerata come un unico monumento e come tale difeso. Arrivai a questa conclusione soprattutto grazie all’insegnamento di Benevolo. Il nostro rapporto ebbe inizio nei primissimi anni Sessanta ed è andato avanti fin quasi alla sua morte».
Cosa ha appreso da lui?
«Fondamentalmente l’idea che l’architettura è una costruzione sociale. Credo che l’avesse ereditata dal pensiero di Walter Gropius. E già con questa premessa si poteva misurare tutta la distanza da coloro che, come Zevi, interpretavano il mestiere dell’architetto alla stregua dell’artista o del creativo. Il passo perché questa figura diventasse l’odierna archistar fu brevissimo».
Con quali conseguenze?
«La parte individuale ha soffocato interamente la dimensione collettiva. Non ho motivo di credere che certi progetti siano frutto della malafede o dell’ignoranza, o del mero egocentrismo, ma ho il sospetto che si sia tenuto in poco conto il valore storico e l’evoluzione di una città. E la conseguenza più vistosa è il passaggio dalla città storica a un aggregato urbano senza alcun senso, che si disperde nella campagna».
« Non credo di avere un’idea antiquariale della città. Conservare non vuol dire opporsi alle spinte evolutive del tessuto urbano; significa però avere la consapevolezza che in Italia il bene culturale va tutelato perché parla della nostra identità».
Tutto parla della nostra identità, anche le cose peggiori, i misfatti urbanistici non fanno eccezione.
«So bene che antropologicamente siamo un misto di cose orrende ed eccelse; mi limiterei in questo caso a osservare che l’architettura non può lasciarsi andare all’insensato, alla mera prevaricazione speculativa. Guardi cosa è accaduto con il “centro storico”».
Cosa è accaduto?
«Si è scambiata la città storica con il centro storico. Si è privilegiato quest’ultimo ma a forza di chiamarlo “centro” lo si è esposto a tutte le mode e deturpazioni possibili e impossibili».
Quando dice città storica cosa intende?
«Il primo a dare una definizione accettabile fu Tommaseo: un insieme funzionale e comunitario soggetto alle medesime leggi e sottratto all’anarchia del caso o dell’individuo. La città dell’ancien régime ha le sue leggi, funzioni, identità. Ed era appunto una città non un centro storico».
Cosa pensa dell’architettura fascista?
«Non ho alcun pregiudizio verso quell’esperienza che ha avuto in Giuseppe Terragni l’espressione più geniale. Egli fu uno dei figli del razionalismo europeo e in particolare dell’elaborazione di Le Corbusier».
Fu anche uno dei “figli” del regime.
«Non c’è dubbio che il fascismo seppe fregiarsi di una certa modernità, quando questa gli servì. Ma città come Latina o Sabaudia le demolisci solo perché sei antifascista? Tra le molte cose che ho appreso da Benevolo c’è anche quella di andare oltre il furore ideologico che non è mai un buon criterio estetico».
Lei separa nettamente la politica dall’estetica?
«Mi capita di affermare che Ezra Pound è il più grande poeta del Novecento».
Aggiunga fascista e antisemita.
«Ho presente le sue disavventure politiche per le quali finì in quella specie di Guantanamo che fu la gabbia in cui venne rinchiuso dagli americani non lontano da Pisa. Nondimeno resta un grande della letteratura e continuo a leggere con infinito piacere La terra desolata di Eliot che lui rivide a fondo».
Quindi cultura e fascismo non necessariamente si escludono?
«Non la metterei su questo piano. Marcello Piacentini passò per una specie di genio dell’architettura e dell’urbanistica. Mentre l’ho sempre considerato retorico, trionfalistico, inutilmente monumentale. O, per fare un esempio in campo filosofico, Giovanni Gentile fu indiscutibilmente fascista e lo fu fino in fondo. Ma la condanna politica implica automaticamente la condanna del suo pensiero?».
Se potesse sentirla suo padre.
«Già, chissà cosa direbbe. Però penso che alla fine lui abbia non dico accettato ma capito la mia contrapposizione a tutte le ortodossie. Anche se ero io tra i due a sentirmi più stupido».
Più stupido?
«Non avendo attraversato la temperie delle due guerre, non percepivo in me l’intelligenza che nasce dalla coerenza, ma anche dal rischio e dalla sopravvivenza. In fondo pur non condividendo nulla del suo comportamento, alla fine è cresciuto il mio affetto per lui».
Ci torna mai in via Fondazza?
«È qui a un passo. A parte il luogo della mia infanzia con il comune abbiamo realizzato una serie di case popolari per gli abitanti. Non c’era luce né i gabinetti; c’era, come le dicevo, la prostituzione. Confesso che un po’ mi vergognavo di abitare in via Fondazza, preferivo dire che la mia casa era di fronte allo studio di Giorgio Morandi. Ricordo nei primi anni Sessanta le passeggiate che con Francesco Arcangeli facevamo soprattutto il sabato».
Lo storico dell’arte?
«Sì, l’allievo di Roberto Longhi. Con lui aderii a Italia Nostra e conobbi Antonio Cederna. Antonio era una delle ragioni per cui compravo Il Mondo e fu comprensibile l’emozione che avvertii davanti a quest’uomo integerrimo, i cui articoli in difesa del paesaggio italiano mi riempivano di ammirazione. Lo invitammo con Arcangeli a spendersi per la difesa della chiesa di San Giorgio, che il cardinal Lercaro voleva trasformare in un albergo. Furono due uomini straordinari, che dovettero subire la ferocia dissipativa del loro tempo».
A cosa pensa?
«Beh, Antonio non faceva che ripetere quanto la sua voce fosse rimasta inascoltata. Di Arcangeli ricordo il trauma che gli provocò Morandi quando, leggendo in bozze il libro su di lui, non vi si riconobbe per niente. E Arcangeli non si diede mai pace per quel giudizio così duro. D’altronde, sotto l’apparente bonomia, Morandi aveva il cuore ricamato con il fil di ferro. Per non parlare infine delle delusioni di Benevolo».
Provocate da cosa?
«Penso alla sua vicenda universitaria e al fatto che per tre volte fu respinto al concorso a Roma. Al quarto tentativo riuscì ad andare a Firenze. E poi a Venezia dove venne chiamato da Giuseppe Samonà, rettore allo Iuav. Noi assistenti lo seguimmo. Credo si sentisse fuori luogo, soprattutto dopo l’arrivo di Manfredo Tafuri. Quando, qualche tempo dopo, Benevolo passò all’università di Palermo, Tafuri ci fece trovare tutte le nostre cose sul pianerottolo. Fu un gesto piuttosto brutale, ma credo che alla fine rappresentasse i reali rapporti di forza. Tafuri, con una barba da profeta, interpretava perfettamente lo spirito del tempo. Benevolo per volontà e stile ne era immune».
E il suo tempo?
«Se guardo a ciò che ho fatto e a quello che è rimasto, ho l’impressione di far parte di una foto ormai ingiallita. Sono stato fortunato di essere cresciuto nella bellezza di una strada, anche se malfamata. Ma l’ho capito tardi. A volte mi chiedo se sia stato testimone e artefice di qualcosa di importante. Vedo le cinquanta sfumature di nulla: il turismo sempre più di rapina, le città sempre più degradate, gli uomini sempre più stressati e non ho la certezza che il mio mestiere di urbanista sia servito per chiarire o per difenderci da tutto questo. Però devi continuare a credere in quello che hai fatto. E se la vita ti ha dato troppo o troppo poco fallo dire agli altri. Oggi ammazzo il tempo prima che il tempo ammazzi me. Ho una sola preoccupazione, meglio una speranza: che i neuroni non si ritirino come le basse maree. Prego. Signore, allontana da me questo calice di stupidità».
libertàegiustizia, 4 luglio 2017 (c.m.c.)
«E poiché sei venuto al mondo, sei stato allevato ed educato, come puoi dire di non essere, prima di tutto, creatura nostra, in tutto obbligato a noi, tu e i tuoi avi?». Questo dicono le leggi a Socrate, secondo un celeberrimo passo del platonico Critone. Più che padre e madre sono per Socrate le leggi, senza le quali non esiste Città dove ragione si oppone a ragione, ma solo la ragione del più forte, la guerra o il dispotismo. Perciò Socrate accetta la morte e non fugge, pur sapendo che la condanna è ingiusta. Antigone, nella più celebre tragedia di Sofocle, disobbedisce invece alla legge di Tebe e di Creonte – “fuorilegge, devota” a una legge non scritta, “misteriosamente eterna”, che a quella positiva si oppone.
Nelle figure di Socrate e di Antigone si incarnano le figure dell’obbedienza e della disobbedienza in quanto – entrambe – modi della libertà. Perché c’è obbedienza e obbedienza. Obbedire a una legge cui si consente – e non a un uomo che si pone al di sopra di essa – è esercizio di libertà come auto-nomia, sovranità su se stessi. E don Milani si rivolge ai ragazzi della sua scuola come ai “sovrani di domani”. Come ai cittadini che saranno, il cui esercizio di libertà è anche esprimere la volontà di leggi più giuste, e dunque anche obiettare, accettando socraticamente le conseguenze penali, a quelle ingiuste. Invece l’obbedienza che “non è più una virtù”, se mai lo è stata, non è un modo della libertà, ma del suo contrario – dell’asservimento, prigionia della mente e servitù del cuore. Può essere l’obbedienza a un uomo e non a una norma legittima, o può essere l’obbedienza cieca, o indifferente. Servitù – è il vero nome di quell’obbedienza che non è virtù. Questo è il cuore del pensiero di don Lorenzo Milani, cittadino e cristiano, quale si esprime in questi testi pubblicati nel 1965 in difesa dei primi obiettori di coscienza alla coscrizione militare, e in risposta all’accusa di apologia di reato, per la quale don Milani subì un processo.
L’orrore della servitù volontaria: è il punto di fusione – al calor bianco – fra il demone di Socrate, che libera con la critica dalla prigionia della mente, e la divinità nell’uomo di Cristo, figlio e non servo, che libera dalla sudditanza del cuore. Don Milani lo sa: lo dice nella Lettera ai giudici – la sua fiammante, socratica Apologia, che ogni ragazzo dovrebbe leggere appena si sveglia al dubbio e all’esistenza. Il Critone e l’Apologia di Socrate, insieme con i quattro Vangeli: ecco le prime due fonti di quella “tecnica di amore costruttivo per la legge” di cui il maestro di Barbiana si fa apprendista, insieme con i suoi ragazzi.
Si dovrebbe notare la delicatezza e insieme la densità di questa espressione, “tecnica di amore costruttivo”. Tecnica – perché l’amore per la cosa pubblica si esplica nella virtù del cittadino, che è innanzitutto rispetto per il valore della legalità, e quindi per i suoi delicati meccanismi, fra cui le leggi e le sanzioni. Non si esercita la virtù civile solo con lo slancio del cuore. Si esercita, ad esempio, nel “violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede”. I giovani che accettano la prigione conoscono quanto Socrate il valore della legalità. Amore costruttivo – perché “chi paga di persona testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la legge più degli altri”.
La legge: la legge civile, la legge della Città terrena, sia ben chiaro. E non conosco fra gli eredi di Agostino (se non forse per certe pagine di Rosmini) altro esempio altrettanto limpido e intenso di riconoscimento del valore autonomo, tutto umano, della legalità in quanto tecnica di autolimitazione del potere. Don Milani è evidentemente estraneo al pensiero (di radice agostiniana) che identifica la Città terrena con la civitas diaboli, e consente ai rappresentanti umani della Città celeste, dispersa e confusa nel peccato del mondo, ogni compromesso o addirittura compromissione con quel volto diabolico della politica che pure nell’intimo disprezza. Non conosco in epoca recente altra così grande eccezione al sottinteso disprezzo cattolico per la cosa pubblica e le virtù della cittadinanza, che ha forgiato nei secoli la nostra minorità civile e la nostra indifferenza all’etica pubblica.
E’ importante capirlo: non è la “legge divina” che suggerisce a don Milani il suo “costruttivo amore” per la legalità repubblicana, o se lo è, lo è solo in quanto questa legge divina non decreta affatto il primato, sulla legge dello Stato, di un’altra Sovranità, di una Chiesa, di un Libro o di una Dottrina, ma solo il primato della coscienza individuale – e con questa limpida affermazione, come nella difesa di quei testimoni solitari che erano gli obiettori, sfugge anche alla banalizzazione di chi lo classifica come catto-comunista. “La dottrina del primato della coscienza sulla legge dello Stato” è certamente, scrive con candore don Milani, “dottrina di tutta la Chiesa”. Era il 1965. E quello fu anche l’anno della Dignitatis Humanae, che in coda al Concilio Vaticano Secondo dichiarava: « Gli imperativi della legge divina l’uomo li coglie e li riconosce attraverso la sua coscienza, che è tenuto a seguire fedelmente… Non si deve quindi costringerlo ad agire contro la sua coscienza ». Ecco: quell’anno fu pensata fino in fondo, e dimostrata possibile, la radicale laicità di un cattolicesimo che veramente avesse voluto rinnovarsi al fuoco dello spirito – o meglio, del Vangelo. Se questo pensiero avesse vinto, la storia del nostro Paese sarebbe stata diversa, e – per l’influenza della Chiesa – anche la storia del mondo. Per questo è importante capire fino in fondo questo pensiero, che fu invece sconfitto, e poi calunniato, e poi sepolto.
Che la legge divina consista qui nel liberare da ogni nome di Dio la legge terrena, quella che istituisce e protegge il pubblico confronto delle volontà e delle ragioni; che la legge divina stessa induca il sacerdote a ritirarsi, in primo luogo, per lasciar posto al maestro, che deve risvegliare la libertà e la coscienza critica dei futuri cittadini: perché questo è tanto importante? Perché porta alla luce il cuore dell’intuizione cristiana della vita, quel cuore che – se davvero ancora pulsasse – riscatterebbe la religione dalla sua vergogna, la vergogna di avere nei secoli legato la libertà e reso infante la coscienza. La riscatterebbe, mostrando che Cristo libera l’anima da questa religio. Le chiede di svegliarsi alla verifica personale dei valori e delle loro relazioni delicate, di superiorità e inferiorità. Thalita kumi: “svegliati, ragazza”. Dietrich Bonhoeffer l’aveva capito, ma quanto più arduo sarà stato capirlo per un sacerdote cattolico, quale don Milani voleva essere?
Questo pensiero nutre quella radicalità anti-idolatrica, o anti-ideologica, per la quale la coscienza parla, certamente, di fronte all’assoluto – ma non in nome dell’assoluto. Questo è il modo in cui lo esprime una delle più limpidi pensatrici del secolo scorso, e lo chiarisce così: “rimuovere dall’essere in sé le prese temerarie della mente; allontanarlo da ogni illusione possessiva, perché lo si tocchi meno e lo si veda meglio. Conoscere Dio come ignoto. Noli me tangere.”[1] E’ il pensiero che fu anche di Simone Weil nelle sue Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione (1937): « tutte le civiltà veramente creatrici hanno saputo….creare un posto vuoto riservato al soprannaturale puro…tutto il resto era orientato verso questo vuoto »[2]. Così scrive quella stessa Weil che annoverava l’obbedienza fra i “bisogni dell’anima umana”, specificando immediatamente che l’obbedienza è di due specie: “a delle regole stabilite” e “a degli esseri umani considerati come delle guide”, e che anche in quest’ultimo caso “presuppone un consenso, non a ciascuno degli ordini ricevuti, ma un consenso accordato una volta per tutte, con la sola riserva, all’occasione, delle esigenze della coscienza”[3].
Non in nome di Dio dunque don Milani difende la disobbedienza alla legge umana, benché indubbiamente lo faccia al cospetto del suo Dio. Ecco perché a differenza di quanto abbiamo fatto noi, per introdurre le due grandi figure della coscienza in relazione alle quali comprendiamo l’obbedire e il disobbedire come modi della libertà, don Milani non parla di Antigone. Che pure sarebbe la figura che rappresenta la legge divina. No, tutto socratico resta il suo ragionare, anche quando cita Gandhi o altri. Certo, il passaggio potrebbe essere anche più immediato: non può servire un uomo chi serve un dio, e la legge di questo dio, non scritta, vale più di quella scritta da un re. Ma non è il passaggio che fa don Milani. Perché non è in nome di un particolare ethos, fosse pure quello della propria fede, che si può volere una legge dello Stato.
Una legge dello Stato, che vincola tutti, è giusta soltanto se la coscienza di chiunque – o almeno di chiunque riconosca la pari dignità di ciascun essere umano – può consentirvi indipendentemente dalla fede che ha, e che obbliga solo chi ce l’ha. Ecco perché l’ulteriore ragionamento di Don Milani è tutto fatto di ragione umana: parla della Costituzione, del suo articolo 11: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli»; delle guerre di aggressione fatte e subite in passato, dei gerarchi nazisti che si giustificarono con “la virtù dell’obbedienza”. Parla di doveri e diritti, che stanno alla libertà dei cittadini come la sudditanza al potere illimitato sta alla libertà dei servi. L’opposizione è la stessa che corre fra “I care” e “me ne frego”, scrive il sacerdote.
E in questo senso don Milani è più avanti di Howard Zinn, cantore americano della disobbedienza civile, che non perdonava a Socrate il suo atto di obbedienza alla legge ingiusta. Don Milani ci consente di distinguere fra obbedienza e servitù. Anche se è dai tempi dell’Umanesimo e del Discorso sulla servitù volontaria (1548) di Etienne La Boétie che lo sappiamo: un tiranno non ha altra forza che quella che gli conferiscono i suoi sudditi, perché non c’è altra fonte di sovranità che il libero volere degli individui. E’ questa coscienza, infine, che ha permesso di intendere non solo la disobbedienza, ma anche l’obbedienza come un modo della libertà: l’obbedienza, s’intende, alla legge e non al capo. L’ auto-obbligazione responsabile dei cittadini, che ha dunque come ultima fonte di legittimità nient’altro che il rispetto della pari dignità di ognuno. In questa autolimitazione del potere che ci fa, governanti e governati, uguali di fronte alla legge, è il valore della legalità e il senso delle istituzioni democratiche, come la divisione e la relativa autonomia dei poteri.
Oggi, se rivolgiamo di nuovo lo sguardo al presente italiano, un dubbio ci prende che le categorie filosofiche dell’obbedienza e della disobbedienza, sulle quali si fonda in definitiva quanto di meglio abbiamo saputo dire sui fondamenti del potere politico nella coscienza delle persone, possano servirci ancora. In questa Italia, “terra di nefandezze, abiure, genuflessioni e pulcinellate”. In questo nostro Paese che “attraverso Machiavelli, ha mostrato al mondo il volto demoniaco del potere; che ha inventato il fascismo”; dove “la politica si è definitivamente trasformata in crimine, ricatto, delazione, scandalo, imbroglio”. Parole vigorose, come si vede. Sono di Ermanno Rea, nel suo recente libro, La fabbrica dell’obbedienza[4]. Questa fabbrica, è l’Italia.
Anche Ermanno Rea attraversa la questione morale, passando per i i nostri classici, l’Unità tradita, il fascismo, il dopoguerra democristiano, la svolta degli anni Ottanta, fino al presente di “un regime così corrotto e maleodorante che non si sa più con quale aggettivo bollarlo”. Ma questo libro ha una domanda, semplice e per così dire spettacolare, la stessa dei saggi su Rinascimento Riforma e Controriforma di Bertrando Spaventa, e dagli studi del filosofo napoletano trae ispirazione e respiro. Noi siamo stati i primi. Abbiamo inventato il cittadino responsabile – “molti secoli fa, tra il Trecento e il Cinquecento, con l’Umanesimo e il Rinascimento”. Come è successo che a questi centocinquant’anni di splendore sia seguita la nostra lunga servitù civile e morale, con il suo corredo di arti della sudditanza, della menzogna, dell’opportunismo e del cinismo che ritroviamo tanto ben descritte nella pagine dei nostri classici, da Guicciardini a Leopardi? Come ha potuto succedere che questa storia si sia inesorabilmente ripetuta dopo grandi, in qualche modo miracolose accensioni di speranza? Il Risorgimento finì di morire nel fascismo, la Costituzione nata dalla Resistenza si vede oggi che fine rischi di fare.
La risposta è nota. Colpa della Controriforma. O meglio di ciò che ne seguì, secondo l’analisi spietata, riproposta da Rea, di come si fabbrica la servitù del cuore e la prigionia della mente, che sono l’esatto contrario di tutte le figure di una coscienza della legge, antiche e moderne. Delle figure, cioè, dell’obbedienza e della disobbedienza. Del dovere e del diritto. Che stanno alla libertà dei cittadini come la sudditanza al potere illimitato sta alla libertà dei servi. A differenza della legge, il potere è “alla ricerca di un’obbedienza sempre contingente e perciò da rinnovare continuamente, senza mai esigere… una responsabilità totale, prolungata nel tempo”.
Che sia ottenuta attraverso la dipendenza spirituale, la tecnica della confessione e del perdono, o la dipendenza materiale e le tecniche del condono, del favore e del ricatto, la distruzione dello “spirito delle leggi” è una cosa sola con la polverizzazione dell’impegno personale: la riduzione della necessità del dovere alla contingenza della soggezione, del valore della promessa al prezzo dello scambio – in una parola, la demolizione della responsabilità personale, che obbedienza e disobbedienza autentiche presuppongono. Ricordiamoci che quel monaco agostiniano divenne Lutero in seguito al mercato romano delle indulgenze. Il cielo, erano arrivati a vendersi.
Ecco: don Milani, e la Dichiarazione sopra citata sulla libertà di coscienza della Dignitatis Humanae, hanno segnato l’ultima grande occasione di confutare, se non la risposta di Bertrando Spaventa e di Ermanno Rea, almeno la disperata convinzione dell’immutabilità della condizione di questa nostra “nazione cattolica”. Vale la pena, allora, di ripensarla sempre di nuovo, quell’ultima possibilità – che ancora potrebbe esserci offerta, se il vento del rinnovamento morale e spirituale ricominciasse a soffiare.
Oggi, quando a svuotare di sostanza la nostra democrazia non è certamente l’eccesso di obbedienza, ma il disprezzo della legalità, delle istituzioni, dello Stato da parte di coloro che dovrebbero esserne i “servitori”. E a sostenerli al potere è l’onda maleodorante della nostra foia, fatta di milioni e milioni di abusi condoni favori tangenti impunità indulgenze soprusi e perdoni. È la palude stigia che abbiamo fatto della nostra anima, con un sì dopo l’altro alla ventennale svendita della legalità in cambio di consenso. E’ l’ultimo capitolo della storia di minorità morale e cinismo che ancora affligge l’Italia – non fabbrica dell’obbedienza, ma della libertà dei servi. Con il beneplacito di quella Chiesa oggi politicamente impegnata sul fronte della disciplina di fine vita, e impegnata a fare in modo che una legge dello Stato italiano costringa anche chi disobbedire non può più a subire un trattamento fisico che ripugnava alla sua coscienza, quando era desta. Una legge capace di violare in un colpo solo il senso divino e quello umano del “noli me tangere”: il sottrarsi di Dio all’uso e abuso che ne fanno gli uomini, e l’habeas corpus.
E’ davvero tempo di rileggere don Milani.
Interazionale online, 19 giugno 2017 (c.m.c)
«Io ero nella stanza accanto a fare scuola. Arrivò un ragazzino con una paginetta che diceva ‘Cara professoressa, lei è una poco di buono’ o cose simili. Io mi alzai e andai da don Lorenzo e gli dissi: ‘È una porcheria! È il foglio di un ragazzo arrabbiato!’. Il priore mi domandò: ‘La vuoi più bella? E noi la faremo più bella!’. Parlava sorridendo come uno a cui è venuta un’idea geniale; l’idea lo divertiva».
Così Adele Corradi racconta la scintilla che diede vita alla lettera più famosa della storia della pedagogia, scaturita dalla rabbia di un ragazzo che il suo maestro colse al volo, trasformandola nel cuore pulsante del suo laboratorio educativo per nove mesi, nel suo ultimo anno di vita.
Verso la fine di Lettera a una professoressa troviamo scritto: «Così abbiamo capito cos’è un’opera d’arte. È voler male a qualcuno o a qualcosa. Ripensarci sopra a lungo. Farsi aiutare dagli amici in un paziente lavoro di squadra. Pian piano viene fuori quello che di vero c’è sotto l’odio. Nasce l’opera d’arte: una mano tesa al nemico perché cambi”. Per Pier Paolo Pasolini è “una delle più straordinarie definizioni di quello che deve essere la poesia».
Non si può certo dire che il cinquantesimo anniversario della morte di don Lorenzo Milani e dell’uscita di Lettera a una professoressa sia passato sotto silenzio. La meritoria pubblicazione delle opere complete – insieme a celebrazioni, articoli, polemiche talvolta pretestuose e perfino un pellegrinaggio riparatore di papa Francesco – ci ricorda che la figura del priore di Barbiana ancora brucia, nonostante i numerosi tentativi di neutralizzare gli spigoli più aspri e contundenti della sua testimonianza.
Provo a elencare cinque ragioni per cui tornare a quella esperienza è necessario a chi insegna e può aiutare a ragionare sui compiti dell’educare oggi.
Oltre l’individualismo
Spesso la pedagogia, per assumere la portata radicale della sua funzione sociale, ha bisogno di sguardi che vengano da altri mondi. È stato così con Maria Montessori, Ovide Decroly e Janus Korczak, tre medici che l’hanno profondamente messa in discussione all’inizio del novecento, mentre nell’Italia del dopoguerra c’è voluta la sensibilità e la determinazione di un prete per denunciare la feroce selezione di classe a danno dei figli degli operai e dei contadini. In questo caso, tuttavia, quella denuncia circostanziata non fu la presa di posizione di un singolo ma l’opera di una comunità e qui sta il primo aspetto straordinariamente attuale dell’esperienza educativa promossa da don Milani.
Lettera a una professoressa fu il frutto di una scrittura collettiva e rappresenta ancora oggi, a mezzo secolo di distanza, una delle espressioni più alte di una pratica purtroppo assai rara nella scuola, luogo privilegiato di incontro, in cui maestro e allievi si mettono in gioco insieme creando cultura. La scrittura collettiva ha una lunga storia e Milani ebbe modo d’incrociarla nell’estate del 1963 grazie a Mario Lodi, che salì a trovarlo a Barbiana e condivise con lui la ricerca condotta da anni nel Movimento di cooperazione educativa, non solo in Italia.
«La ringrazio d’averci proposto quest’idea perché me ne son trovato bene», scrive Milani a Lodi nell’autunno successivo. «È successo un fenomeno curioso che non avevo previsto, ma che dopo il fatto mi spiego molto bene: la collaborazione e il lungo ripensamento hanno prodotto una lettera che pur essendo assolutamente opera di questi ragazzi e nemmeno più dei maggiori che dei minori è risultata alla fine d’una maturità che è molto superiore a quella di ognuno dei singoli autori. Spiego la cosa così: ogni ragazzo ha un numero molto limitato di vocaboli che usa e un numero vasto di vocaboli che intende molto bene e di cui sa valutare i pregi, ma che non gli verrebbero alla bocca facilmente. Quando si leggono ad alta voce le venticinque proposte dei singoli ragazzi accade sempre che o l’uno o l’altro (e non è detto che sia dei più grandi) ha per caso azzeccato un vocabolo o un giro di frase particolarmente preciso o felice. Tutti i presenti (che pure non l’avevano saputo trovare nel momento in cui scrivevano) capiscono a colpo che il vocabolo è il migliore e vogliono che sia adottato nel testo unificato. Ecco perché il testo ha acquistato quell’andatura e quel rigore da adulto (direi anzi da adulto che misura le parole! animale purtroppo molto raro)».
Ho insegnato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica
La lettera di cui scrive Milani è quella che i ragazzi di Barbiana scrissero nel novembre 1963 ai bambini di Piadena, riportata in un prezioso libro appena uscito: L’arte dello scrivere, curato da Francesco Tonucci e Cosetta Lodi.
Quell’incontro fu così significativo che Adele Corradi, nel ricostruire il metodo seguito per la stesura di Lettera a una professoressa quattro anni dopo, scrive: «Lo stile mi pare proprio che glielo abbiano dato i ragazzi. Ma certo nessuno di loro avrebbe saputo scrivere in quel modo senza l’aiuto degli altri. E anche a don Lorenzo non gli sarebbero certo nate in testa tante idee senza parlare con i ragazzi, senza ascoltarli, senza confessarli, senza discutere con loro (…). Per questo è giusto che di quegli otto che per nove mesi, tutte le mattine, hanno lavorato a quel libro, non si sappiano i nomi».
Quel metodo rese possibile, nell’Italia del boom economico, un incontro tra due culture che nulla avevano in comune: la millenaria cultura materiale dei contadini di montagna, in quegli anni già in via d’estinzione, e la vasta cultura borghese e cosmopolita, di radice ebraica, incarnata da Lorenzo Milani, figlio di un ricco possidente fiorentino.
Quell’incontro tra figli di analfabeti e un cultore quasi maniacale della parola precisa, capace di indagare e denunciare i mali del mondo, ha portato alla scrittura di un testo straordinariamente efficace che diventò, dal 1968 in poi, il più letto e discusso manifesto contro la scuola di classe in diversi paesi europei. Ciò che stava più a cuore al priore di Barbiana, nelle sei settimane che separarono l’uscita della Lettera dalla sua morte, fu che fosse riconosciuta come un’opera collettiva perché, in questo caso, il mezzo era davvero il messaggio. O, meglio, il modo in cui era stato forgiato il mezzo era il messaggio.
È importante ribadire con forza tutto ciò, in un tempo in cui ogni esperienza collettiva è guardata con sospetto e supponenza, mentre non c’è azione educativa degna di questo nome che non contempli il sincero e autentico tentativo di realizzare una impresa condivisa e plurale, capace di dare senso e sostanza a una comunità. A maggior ragione nelle scuole di oggi, in cui ogni comunità è sempre più, necessariamente, multiculturale.
Non è lecito parlare di Lorenzo Milani senza ricordare la tenacia e la coerenza con cui, per tutta la vita, ha costruito comunità per dare voce a chi non l’aveva e far sì che, a denunciare le malefatte di una scuola fatta su misura per i borghesi, fossero i figli dei contadini. «Dopo che si è fatta tutta questa fatica, seguendo regole che valgono per tutti, si trova sempre l’intellettuale cretino che sentenzia: ‘Questa lettera ha uno stile personalissimo’».
Contro la scuola di classe
Sulla montagna in cui il cardinale Florit provò a isolare e mettere a tacere il prete scomodo, si creò un gruppo di ricerca sociale capace di elaborare una denuncia circostanziata e stringente sul tradimento della costituzione, costituito dalla sistematica cacciata dei poveri dalla scuola: su dieci figli di operai, cinque venivano bocciati; su dieci figli di contadini, ne venivano bocciati otto!
Per raccogliere i dati che compaiono nelle ultime venti pagine della Lettera, i ragazzi guidati dal priore non esitarono a chiedere informazioni al ministero della pubblica istruzione, all’Istat, ai direttori didattici della zona e a chiunque potesse fornirgli conferme attendibili per circostanziare la loro denuncia.
Ora che abbiamo a disposizione Tutte le opere, è appassionante seguire, attraverso le lettere spedite da Barbiana, ogni dettaglio di quella lunga fatica, fino al bigliettino spedito ad Adele: «Venga a godersi lo spettacolo di Tranquillo che si mangia gli statistici come panini». Tranquillo era uno dei ragazzi che abitava quel microcosmo in cui stava avvenendo quella singolare rivoluzione culturale. Per una volta, infatti, gli esclusi dalla scuola non solo prendevano la parola, ma acquisivano gli elementi necessari per denunciare uno dei fondamenti dell’ingiustizia di classe, che consiste nel negare ai più deboli gli strumenti basilari della loro emancipazione.
E così, mentre alcuni ragazzi lavoravano con righe e squadre per rendere leggibili dati complessi, tutti insieme, ogni giorno, s’impegnavano a trovare parole all’altezza del compito. Un paziente lavoro di cesello che portò alla formulazione di frasi lapidarie indimenticabili, come quella che definisce la scuola come «un ospedale che cura i sani e respinge i malati».
«Lavoriamo sodo alla lettera», scrive l’8 dicembre Milani a sua madre. «La facciamo anche leggere a tutti quelli che vengono, specialmente a gente di poca istruzione per controllare se capiscono tutto. (…) Si accettano i loro consigli purché siano per la chiarezza. Si rifiutano i consigli di prudenza”. E, poche righe dopo, con efficace semplicità, nella Lettera si afferma che “l’arte è il contrario della pigrizia».
Il tempo della scuola e quello della vita
La battaglia contro ogni pigrizia fu uno dei cardini di quella scuola. Con precisione puntigliosa, insieme ai suoi ragazzi Milani calcolò che, se si considerano tutti i giorni dell’anno, lo stato offre appena due ore di scuola al giorno. Troppe poche per colmare un divario linguistico antico e stratificato, perché i ricchi la lingua erudita la praticano altre 14 ore al giorno e così non sarà mai possibile raggiungerli.
Ad Alexander Langer, che salì più volte a Barbiana e tradurrà poi la Lettera in tedesco, Milani disse:«Dovete abbandonare l’università! Voi non fate altro che aumentare la distanza che c’è tra voi e la grande massa della gente non istruita. Fate piuttosto qualcosa per colmare quella distanza. Portate gli altri al livello in cui voi vi trovate oggi, e poi tutti insieme si farà un passo in avanti, e poi un altro ancora e così via. Altrimenti sarete al servizio solo del vostro privilegio».
«Non lasciammo l’università», racconta Langer in un articolo ora raccolto nel libro Il viaggiatore leggero, «ma demmo inizio ad un doposcuola a Vingone, presso Scandicci, basato sul volontariato di parecchi universitari, e frequentato prevalentemente da figli di immigrati meridionali».
A Barbiana la scuola funzionava dieci ore al giorno, 365 giorni all’anno. Il priore poteva pretendere una scuola senza feste né ricreazioni, perché l’alternativa per i ragazzi montanari era badare tutto il tempo agli animali e come disse Lucio, che aveva 36 mucche nella stalla, «la scuola sarà sempre meglio della merda». Nel 1963 si era finalmente arrivati in Italia alla scuola media unica aperta a tutti, ma il tempo limitato e le troppe bocciature compromisero la piena realizzazione di quella riforma, che pure permise un notevole miglioramento dell’istruzione di base nel nostro paese.
Molte cose sono cambiate da allora e le bocciature nella scuola elementare e media sono drasticamente diminuite. Rimangono tuttavia fortissime le disparità e le espulsioni, ora chiamate dispersione scolastica. Sopravvive, soprattutto, una forma più sottile ma non meno infame di emarginazione e discriminazione, che consiste nella creazione, in quasi la metà delle scuole del nostro paese, di sezioni ghetto in cui sono messi “a pascolare” – come s’usa dire a Napoli – i ragazzi che la scuola dà per persi prima ancora di accoglierli. Quei ragazzi sono separati dai più ricchi e privilegiati e spesso affidati a insegnanti di passaggio, precari, che cambiano in continuazione.
Si è dovuto attendere il 1971 perché fosse istituito il tempo pieno previsto dalla fondazione della scuola media unica, ma ancora oggi resiste l’assurda disparità per cui, tra i 917mila studenti che usufruiscono di questo necessario prolungamento del tempo a scuola, il 58 per cento frequenta scuole del nord, il 26 per cento quelle dell’Italia centrale e solo il 15 per cento quelle del sud e delle isole, cioè le regioni in cui ci sarebbe maggiore bisogno d’istruzione.
Una disuguaglianza che chiunque nomini Lorenzo Milani dovrebbe denunciare e contribuire a sanare, a partire dalla ministra dell’istruzione Valeria Fedeli, che ha dedicato una giornata al prete di Barbiana. In verità, la questione del tempo evocata da Milani non riguardava solo il tempo di studio, ma un’idea della vita che gli fece affermare, nella Lettera, «ho insegnato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia».
Educazione, lavoro, viaggi
Personalmente m’inquieta l’idea di un maestro presente in ogni frangente della vita dei suoi allievi e che arriva anche a confessarli. Una sorta di “monarca assoluto” – per usare una sua espressione – che guarda con apprensione al tempo della crescita: «Le mode gli hanno detto che i 12-21 anni sono l’età dei giochi sportivi e sessuali, dell’odio per lo studio. Gli hanno nascosto che i 12-15 anni sono l’età adatta per impadronirsi della parola. I 15-21 per usarla nei sindacati e nei partiti. A 21 si avvicina l’età dei pensieri privati: fidanzamento, matrimonio, figlioli, benessere. Allora non avrà più il tempo per le riunioni, avrà paura di esporsi, non potrà certo donarsi tutto».
Questo passaggio della Lettera mette in luce un tema molto delicato, presente in ogni atto della vita del priore. Donarsi tutto era il suo imperativo. Ma poiché Lorenzo Milani teneva sempre tutto insieme, diventò necessariamente anche il suo credo pedagogico. La sua personale ricerca di assoluto diventò necessariamente anche pressante richiesta di assoluto proposta ai suoi allievi, e questo gli provocò inevitabilmente forti delusioni.
Ora, mentre credo sia necessario per chi insegna essere consapevole di quanto il corpo, il comportamento e l’esempio educhino assai di più delle parole, pensare di essere depositari di verità assolute pone non poche questioni.
Lorenzo Milani non esitò a vietare ai ragazzi di guardare la televisione quando tornavano a casa la sera, si offese quando scoprì che alcuni di loro andavano a ballare il sabato e arrivò a scrivere una lettera che rivendicava senza remore il diritto del maestro di comandare fin nell’intimo l’allievo. A Francuccio, a cui aveva dato l’opportunità di andare a lavorare in Algeria, scrisse infatti:
«Io non cambio stile per i ragazzi che sono fuori di casa, nel senso che qui comando io e fuori lascio comandare loro. Il problema è solo di informazione. È evidente che comando anche a Algeri, solo incarico i due occhi e le due orecchie che ho a Algeri (cioè le tue) di informare il cervello che ho a Algeri (cioè il tuo) perché prenda delle decisioni per me».
Come spesso succede, tuttavia, le cose sono più complesse di come appaiono. Così, quando ho espresso a Edoardo Martinelli, uno degli otto ragazzi che parteciparono alla redazione della Lettera, i miei dubbi sugli integralismi e gli eccessi di controllo del priore sulla loro vita, si è messo a ridere e mi ha raccontato che per lui, partire per Londra a 15 anni avendo l’occasione di lavorare, ma anche di conoscere Bertrand Russell, andare ai concerti e incontrare ragazze, fu un’esperienza chiave.
A Barbiana non ci fu mai contrapposizione tra lavoro manuale e intellettuale. I ragazzi realizzarono da sé i banchi su cui studiare e un astrolabio di precisione, e contribuirono alla costruzione di un ponte che rendeva più agevole l’accesso alla canonica di un ragazzo. Questa particolarissima educazione al lavoro, offerta dal prete ai ragazzi del Mugello, che passava anche attraverso viaggi in Inghilterra, Francia, Germania e perfino nell’Algeria appena liberata dal colonialismo, fu un’esperienza formativa fondamentale a cui è utile tornare.
Mi ha fatto pensare a iniziative simili proposte a Napoli ai ragazzi del progetto Chance. Pratiche di didattica itinerante, necessarie per uscire dalla gabbia antropologica di un’emarginazione capace solo di moltiplicare la violenza, ben raccontate da Carla Melazzini in Insegnare al principe di Danimarca. Per Andrea Canevaro, il più sensibile ricercatore nel campo della disabilità, l’eredità più attuale dell’esperienza di Barbiana va rintracciata proprio nella relazione tra scuola e lavoro, di cui si torna a discutere oggi e a cui andrebbe dedicata una riflessione più attenta e radicale.
Educare alla disobbedienza
L’ultimo punto, forse il più necessario e dimenticato, riguarda il rapporto con la legge e dunque con la storia. Sulla necessità di educare alla disobbedienza, Milani usa parole inequivocabili nella Lettera ai giudici:
«Non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate. (…) E quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede».
Lorenzo Milani fu accusato e condannato e per arrivare alla legge che permise l’obiezione di coscienza al servizio militare ci vollero anni. Ma quella conquista la dobbiamo a lui e a testimoni convinti come lui. È figlia di un maestro capace d’insegnare con l’esempio ad avere coraggio, persuaso che i ragazzi «bisogna che si sentano ognuno responsabile di tutto».
Sentirsi responsabili di tutto è l’eredità di Barbiana più difficile da raccogliere. In un tempo in cui è venuta meno l’adesione a grandi organizzazioni collettive, torna con forza la necessità di educare alla responsabilità, sapendo compiere scelte coerenti per il futuro del pianeta e per la convivenza tra gli esseri umani. C’è una grande quantità di leggi ingiuste che perpetuano disuguaglianze e discriminazioni. Per dare spazio a un futuro più aperto, abbiamo bisogno del coraggio di testimoni che con le loro scelte e azioni diano corpo all’affermazione di Albert Camus: «Mi ribello, dunque siamo».
Giustizia in occasione della ricorrenza dell’uccisione dei Rosselli, il 9 giugno all’Archivio di Stato di Firenze». Libertà e Giustizia online, 11 giugno 2017 (c.m.c.)
«Di fronte al progressivo consolidarsi del fascismo, la nostra sistematica opposizione corrisponde ad un regolamento di conti fuori dalla storia: forse non avrà apparentemente nessuna positiva efficacia; ma io sento che abbiamo da assolvere una grande funzione, dando esempi di carattere e di forza morale alla generazione che viene dopo di noi, e sulla quale e per la quale dobbiamo lavorare».
È tutta racchiusa in queste parole – scritte da Carlo in Antifascismo perché, 12 gennaio 1925 – l’attualità della lezione dei fratelli Rosselli.
La loro testarda volontà di stare «fuori dalla storia», cioè di non pensare che – usiamo le parole di Gramsci – tutto ciò che esiste è naturale che esista.
In Italia l’apologia della necessità dello stato attuale delle cose ha una lunga e solida tradizione. In un passo struggente dei Diari (siamo nel 1939), Piero Calamandrei non si dà pace che i «giovani» (il figlio Franco e i suoi amici) pensino che «la storia è composta di fatti e non idee, e se Mussolini è riuscito a diventar dittatore, vuol dire che Mussolini è una realtà e che le idee impotenti degli oppositori sono un’irrealtà: per ora, finché c’è questa realtà, il migliore regime è questo, perché si regge. Rinunciano dunque a giudicarlo, a darne una valutazione morale: se noi non facciamo nulla per rovesciarlo, vuol dire che storicamente esso corrisponde alle necessità del presente che ce lo fa accettare».
Ebbene, Carlo e Nello Rosselli prima ancora che antifascisti sono anticonformisti: esercitano una critica radicale del reale che affonda le radici nell’essenza stessa della cultura umanistica, e segnatamente in quella storica.
È per questo che la giornata di oggi ha un doppio significato. Perché il ritorno a Firenze dell’Archivio Rosselli significa la possibilità di accedere non solo ad un fondamentale strumento storiografico, ma anche ad uno strumento di costruzione della coscienza civile. La voce dei Rosselli non torna a parlare solo agli studiosi, ma ad una comunità che ha un vitale bisogno degli anticorpi di una critica radicale.
La cultura come resistenza.
La cultura come mezzo per comprendere perché la maggioranza degli italiani non reagisse contro la minoranza fascista.
La cultura: è questo il senso profondo della radice fiorentina dell’esperienza dei Rosselli. «Prima di agire – ha scritto Calamandrei – bisognava capire. Per questo, come primo atto di serietà e responsabilità, essi promossero quelle riunioni di amici tormentati dalle stesse domande e assetati anch’essi di capire, che dettero origine al Circolo di Cultura … ci riunivamo in quella sala a leggere e a discutere: temi di politica, di economia, di letteratura, di morale. Una breve introduzione di un relatore preparato che poneva il tema, poi una discussione animatissima, che spesso si protraeva per ore. In ogni riunione le idee si chiarivano, i propositi si rafforzavano. A rileggere ora, a distanza di venti anni, i programmi di quelle riunioni, vi si ritrovavano tra i relatori nomi di uomini che poi, nel ventennio successivo hanno portato la stessa chiarezza di idee, la stessa fermezza di propositi negli esili, nelle carceri, nel sacrificio della vita». Finché il 31 dicembre del 1924 «una squadra di fascisti invase le sale e le devastò: dalle finestre che davano in piazza santa Trinità furono gettati di sotto tutti i mobili, i libri e le riviste, e ai piedi della Colonna che porta in cima la statua della Giustizia fu fatto d’essi un gran rogo».
Dieci anni più tardi, mentre Carlo è in Spagna, Nello fa parte di un altro circolo, informale ma straordinariamente importante: «negli anni pesanti e grigi nei quali si sentiva avvicinarsi la catastrofe – racconta ancora Calamandrei – facevo parte di un gruppo di amici che, non potendo sopportare l’afa morale delle città piene di falso tripudio e di funebri adunate coatte, fuggivamo ogni domenica a respirare su per i monti l’aria della libertà, e consolarci tra noi coll’amicizia, a ricercare in questi profili di orizzonti familiari il vero volto della patria». In questo gruppo che, tra il 1935 e lo scoppio della guerra, lasciava ogni domenica la Firenze fascista per cercare nel paesaggio e nei monumenti dell’Italia centrale un nuovo Risorgimento c’erano – oltre a Nello Rosselli e a Calamdrei – Luigi Russo, Pietro Pancrazi, Alessandro Levi, Guido Calogero, Attilio Momigliano, Ugo Enrico Paoli, talvolta Benedetto Croce, Adolfo Omodeo e in qualche occasione Leone Ginzburg.
Era il vertice della cultura italiana: il meglio dell’Italia antifascista. Fu un’esperienza profondissima, e profondamente politica: «Io pensavo – scriveva Calamandrei a Pancrazi – che qualcosa di eterno ci deve essere, se noi prendiamo tanto gusto ed affezione a queste nostre gite: nelle quali circola nel nostro pensiero una parola che non diciamo, per pudore, ma che pure, a ripensarla così di paese in paese, torna nuova, e pura: “patria!”».
E quando Calamandrei apprese la notizia dell’assassinio scrisse questa lettera alla vedova di Nello, la signoria Maria Todesco: «Gentile Signora, non ho saputo trovare altro modo più eloquente per esprimerLe il mio dolore, che questo: di mandarLe qualche immagine del nostro Nello, tratta dalle fotografie delle indimenticabili passeggiate domenicali. Che erano, alla fine di ogni settimana, come un’attesa evasione dalla prigionia; e che ora, nel ricordo, sono una ragione per riempire di tristezza tutte le nostre giornate e per non poter posare gli occhi su paesi e su monti senza pensare a lui con un nodo alla gola».
È anche in questa particolarissima immersione nel paesaggio e nell’arte che affonda le sue radici quello che diventerà l’articolo 9 della Costituzione. Un articolo che, al primo comma, mette alla base della Repubblica nascente proprio quello «sviluppo della cultura» che il circolo dei Rosselli aveva eletto a strumento fondamentale della lotta al fascismo.
Nel 1944 un altro intellettuale europeo, lo storico francese Marc Bloch, scriveva, nella sua Apologia della storia: «Nella nostra epoca, più che mai esposta alle tossine della menzogna e della falsa diceria che vergogna che il metodo critico della storia non figuri sia pure nel più piccolo cantuccio dei programmi d’insegnamento».
Di fronte al nazismo e all’Olocausto il metodo critico della cultura umanistica sembrava ancora più necessario: Bloch – fucilato dalla Gestapo perché membro della Resistenza – la definisce «una nuova via verso il vero e, perciò, verso il giusto». Quel libro si apre con la domanda di un figlio a un padre: «Papà, spiegami allora a cosa serve la storia». Bloch risponde così: «L’oggetto della storia è, per natura, l’uomo … dietro i tratti concreti del paesaggio, dietro gli scritti, dietro le istituzioni, sono gli uomini che la storia vuol afferrare. Colui che non si spinge fin qui, non sarà mai altro, nel migliore dei casi, che un manovale dell’erudizione. Il bravo storico, invece, somiglia all’orco della favola. Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda».
È il metodo critico che ci permette di esercitare davvero la nostra sovranità di cittadini, che riesce ad attuare l’articolo 1 della nostra Costituzione. «La sovranità appartiene al popolo»: non si esercita, questa sovranità, senza consapevolezza culturale. È su questo fondamento che, nel dopoguerra, sono state ricostruite le democrazie europee. Ed è appunto per questo che la nostra Costituzione impone alla Repubblica di promuovere «lo sviluppo della cultura e la ricerca».
E trovo straordinariamente felice che nella casa fiorentina dei Rosselli, in Via Giuseppe Giusti 1938, abbia oggi sede il Kunsthistorishces Institut, l’Istituto Germanico di Storia dell’arte, una delle più importanti istituzioni di ricerca della storia dell’arte a livello mondiale. Un luogo di produzione della conoscenza, un istituto tedesco in Italia, un pezzo dell’Europa della conoscenza che aiuta a vedere che non esiste solo l’Europa delle banche. Su quella facciata di Via Giusti fu sempre Calamandrei a dettare questa iscrizione, che è forse la migliore conclusione di questa giornata:
Da questa casa
ove nel 1925
il primo foglio clandestino antifascista
dette alla resistenza la parola d’ordine
NON MOLLARE
fedeli a questa consegna
col pensiero e coll’azione
CARLO e NELLO ROSSELLI
soffrendo confini carceri esili
in Italia in Francia in Spagna
mossero consapevoli per diverse vie
incontro all’agguato fascista
che li ricongiunse nel sacrificio
il 9 giugno 1937
a Bagnoles de L’Orne
ma invano si illusero gli oppressori
di aver fatto la notte su quelle due fronti
quando spuntò l’alba
si videro in armi
su ogni vetta d’Italia
mille e mille col loro stesso volto
volontari delle brigate Rosselli
che sulla fiamma recavano impresso
grido lanciato da un popolo all’avvenire
GIUSTIZIA E LIBERTA’.
La storia del futuro di Tangentopoli, analisi spietata e coraggiosa non solo sul sistema corruttivo dei lavori pubblici ma anche sul coinvolgimento del suo mondo di provenienza, le coop emiliane, e sui rapporti tra imprese e criminalità organizzata». il Fatto Quotidiano Blog 20 febbraio 2017.
L’espressione retorica “vuoto incolmabile” trova dolorosa concretezza nella scomparsa di Ivan Cicconi, morto ieri nella sua Fermo. A maggio avrebbe compiuto 70 anni. A fianco della sua famiglia e dei nipotini che – la sua ultima sfida professionale, il mestiere di nonno intrapreso con entusiasmo giustappunto infantile – rimangono smarriti giornalisti, attivisti, politici, dirigenti pubblici e privati, magistrati talvolta, tutti quelli insomma che non sapranno più a chi telefonare per sciogliere un dubbio nella complicatissima palude degli appalti.
Ricorderemo Cicconi come ingegnere comunista, le due cose sempre insieme. Quando ti spiegava una cosa c’era sempre la passione del militante a temperare il cinismo del tecnico, e mai l’analisi professionale si concludeva senza un giudizio politico. Sempre lo slancio militante (una vita nel Pci e poi dopo la Bolognina il passaggio a Rifondazione comunista) restava aggrappato al necessario rigore delle conoscenze tecniche su cui fondare l’iniziativa politica. Ciò che gli consentiva di accompagnare la spiegazione documentata e stringente con il giudizio morale, che non mancava mai alla fine del discorso, espresso con eleganza e abbassando la voce, per rimarcare l’importanza e la dignità del punto di vista etico, così demodè per tanti sedicenti uomini di mondo.
Laureato in Ingegneria a Bologna, dove è rimasto per decenni, ha fatto a lungo il dirigente nel mondo delle coop rosse delle costruzioni, poi la sua dimensione è diventata quella del consulente e dell’analista indipendente. Ha raggiunto notorietà nazionale nel 1998 con La storia del futuro di Tangentopoli, analisi spietata e coraggiosa non solo sul sistema corruttivo dei lavori pubblici ma anche sul coinvolgimento del suo mondo di provenienza, le coop emiliane, e sui rapporti tra imprese e criminalità organizzata. Quel libro contiene una profezia sull’esito dell’operazione Alta velocità, la grande opera passata indenne attraverso l’inchiesta Mani pulite e destinata a costare allo Stato sei volte il preventivo. Nel 2011 Cicconi ha pubblicato a puntate su ilfattoquotidiano.it Il libro nero dell’Alta velocità, il suo terrificante consuntivo dell’operazione.
Nel 2000 aveva fatto il capo della segretaria tecnica di Nerio Nesi, ministro dei Lavori pubblici nel governo Amato. Con Nesi cercarono di fermare lo scandalo Mose, ma furono sconfitti dalle resistenze del Parlamento e di Palazzo Chigi. Nel tempo era diventato il punto di riferimento dei movimenti NoTav e degli ambientalisti che in ogni angolo d’Italia si battono contro gli imbrogli di cemento. A tutti forniva generosamente le munizioni tecniche per combattere battaglie sensate.
Ho un ricordo personale che fissa il valore di una persona straordinaria. Qualche anno fa mi telefonò e mi propose di accompagnarlo a Nuoro a tenere una conferenza sull’incredibile caso dell’ospedale costruito in project financing che stava costando tre o quattro volte il necessario. Gli risposi che sarei andato di corsa, perché c’era di mezzo la Sardegna e perché me lo chiedeva lui. Poi gli chiesi: «Ma tu piuttosto, con tutto quello che hai da fare, dove la trovi la voglia di andare fino a Nuoro?». Rimase un istante in silenzio, poi borbottò: «Be’, sai com’è, quei ragazzi me l’hanno chiesto». Tanto bastava, al generoso maestro, per correre al più vicino aeroporto.
il manifesto, 13 gennaio 2017
il manifesto, 7 gennaio 2017 (c.m.c.)
Nella sua ultima lunga intervista rilasciata nel 2011 a Francesco Erbani, Leonardo Benevolo racconta di essere approdato alla scelta di diventare architetto attraverso la curiosità e l’attrazione per il paesaggio. Quando giunge a Roma nel 1941 da Novara lo affascina la geometria descrittiva, la sola disciplina in grado, attraverso il calcolo matematico, di impossessarsi dello spazio tridimensionale.
Questo profondo interesse per la scienza unito alla passione per la storia sono i due poli entro i quali graviterà nel corso degli anni l’impegno professionale di Benevolo, non solo quello di storico, ma anche quello di progettista di architetture e urbanista. Come rappresentante di quella figura ormai desueta di architetto-storico, ma più in generale di architetto-intellettuale, egli è stato tra i primi, nel 1960 – quattro anni dopo l’ottenimento della sua docenza a Roma (1956) – a scrivere una Storia dell’architettura moderna che non fosse «avversa» – come riconobbe Bruno Zevi – al Movimento Moderno.
Lo storico Giovanni Klaus Koening scrisse che la Storia di Benevolo – per lui in assoluto «la più letta al mondo» – fu «un enorme sforzo di documentare con foto di prima mano delle architetture conosciute solo sulle riviste» scoprendo, per esempio, nelle sue «esplorazioni» il cattivo stato di conservazione del Bauhaus a Dessau di Gropius. La sua passione e impegno nell’attività di storico e di insegnante non gli impediscono di svolgere la sua attività professionale. In sodalizio con Carlo Melograni e Tommaso Giura Longo progetta la nuova sede della Fiera di Bologna (1964-1965), ma pochi anni dopo dà alle stampe Storia del Rinascimento (1968) e a distanza di un po’ di tempo, ma con progressione, Storia della città (1975) e Storia della città orientale (1988) tutte edite dall’editore Laterza.
Alla fine degli anni Cinquanta Benevolo si avvicina sempre più ai temi della tutela e conservazione del patrimonio culturale e ambientale aderendo alle iniziative provenienti dai gruppi più vicini al movimento moderno. Aderisce all’Associazione dell’Architettura Organica (Apao) e attraverso l’esperienza del programma del Cepas e Unrra-Casas per l’Abruzzo – l’agenzia promossa dalle Nazioni Unite e dagli americani per la ricostruzione delle zone bombardate durante la guerra – ha l’opportunità di conoscere il mondo di Adriano Olivetti: stringe amicizia con Paolo Volponi, Attilio Bertolucci e Pasolini, lavora al fianco di Angela Zucconi e Manlio Rossi-Doria.
È in quel contesto di umili genti alle prese con la costruzione di una scuola e le infrastrutture necessarie a uno sviluppare iniziative turistiche a supporto della modesta produzione agricola che Benevolo matura la convinzione «che l’architettura non dovesse nascere da altra architettura. Né per conformarsi né per contrastarla. E che invece dovesse formarsi in una realtà esterna, oggettivamente considerata».
In questa comprensione di ciò che si sarebbe dovuto chiamare «realismo», l’impegno (politico) di Benevolo proseguirà con le sue ricerche per il Progetto 80 e sullo «spreco edilizio» insiemi ad altri architetti e urbanisti «compagni di strada»: da Quaroni a Campos Venuti, da Giancarlo De Carlo a Italo Insolera, da Francesco Indovina a Giovanni Astengo. Il lavoro di Benevolo, sempre più segnato dall’impegno sociale, si muove nel non perdere un momento per denunciare la cattiva gestione del territorio. Lo stesso che sul piano giornalistico farà Antonio Cederna o su quello politico Fiorentino Sullo.
Negli anni dell’insegnamento romano che durerà fino al 1976, anno delle sue polemiche dimissioni poco più che cinquantenne, si dedicherà molto ai problemi urbanistici ed edilizi della capitale. In un numero memorabile di Urbanistica, insieme ad altri (Insolera, Tafuri, Manieri Elia, ecc.) cerca di raccontare il nuovo piano regolatore di Roma, il primo dopo quello piacentiniano del 1931.
Un piano che firmato da Piccinato e Quaroni doveva configurarsi «funzionale e moderno» ma che Benevolo riconobbe di recente «una cantonata» perché al momento della sua attuazione il piano restò inapplicato nelle sue linee-guida di crescita verso est, per salvaguardare il centro storico «attrezzando» infrastrutture e servizi nella periferia orientale della capitale. In questa riconosciuta inadeguatezza a occuparsi degli aspetti sia amministrativi sia economici dell’attuazione delle procedure di pianificazione Benevolo, forse, ci ha lasciato una profetica avvertenza dei rischi che oggi come ieri corriamo nel pensare il futuro di Roma.
La presenza dell’economia finanziaria, oggi più scaltra dei proprietari fondiari di un tempo, con le sue numerose società immobiliari che si contendono ogni ettaro di suolo della capitale, è ancora lì a decidere la forma urbis romae. Benevolo ha sempre creduto nel pensiero olivettiano sull’urbanistica che veniva concepita «come una disciplina essenziale per le sorti di una democrazia».
Quando nel 1970 Luigi Bazoli (Dc) lo incarica per Brescia di redigere la variante generale al piano regolatore dimostra cosa significa interpretare in termini complessi un territorio, intrecciando dati fisici, sociali ed economici, sullo sfondo di una «comunità» di cittadini che vive e lavora. A Brescia Benevolo mette in atto una pianificazione che permette a Bazoli di «spezzare l’alleanza dei costruttori con gli utenti, emarginando i proprietari terrieri» complici dei costruttori.
L’esperimento riuscì permettendo di salvaguardare il territorio comunale dallo scempio visto in altri città di un’edificazione senza controllo rispetto ai fabbisogni reali di crescita. È degli anni Settanta la realizzazione del Quartiere residenziale S. Polo (1973-1975): purtroppo solo in parte realizzato secondo le previsioni mancando il parco urbano. Tuttavia negli stessi anni si avvia anche il recupero di circa ottocento alloggi del centro storico ritornati dopo il restauro a essere occupati dalle famiglie che li possedevano senza produrre alcun effetto di gentrificazione.
Per concludere non possiamo ricordare la figura e l’insegnamento di Benevolo senza menzionare, forse, il progetto che più l’ha tenuto impegnato fino ad oggi insieme al piano particolareggiato per il centro storico di Palermo (con Pier Luigi Cervellati e Insolera): la sistemazione dell’area archeologica centrale di Roma, altrimenti detto «progetto Fori» (1985-88).
È probabile che quella sfida, della stessa natura di «groviglio inestricabile» del quale è fatta ogni pagina dell’urbanistica romana, restata aperta per mille questioni, perde oggi il suo principale protagonista. Se vorremo in un prossimo futuro ancora interessarci a come superare «l’incompatibilità fisica» tra l’antico e il moderno a Roma non si potrà che ritornare al lavoro di Leonardo Benevolo, ai suoi scritti e ai suoi disegni.
In un suo pamphlet del 1996, L’Italia da costruire, un programma per il territorio riferendosi alle «poche speranze» che il dibattito faceva presagire comunque esortava a non rinunciare, citando uno dei suoi maestri De Menasce, a «proposte utopistiche tecnicamente fondate». Quell’esortazione non può cadere nel vuoto.
La Repubblica online, 6 gennaio 2017 (p.d.)
Storico dell’architettura, architetto, urbanista, una sterminata bibliografia che ha formato generazioni di studiosi e di professionisti, Leonardo Benevolo era soprattutto un uomo grandemente colto, capace di raccogliere in poche espressioni argomenti e progetti complessi e di dare con un numero assai esiguo di parole l’essenza di un’epoca, di uno stile, di un personaggio, di un mondo. Benevolo si è spento a 93 anni nella sua Cellatica, vicino a Brescia, diventata sua dopo che, nato a Orta in provincia di Novara nel 1923, e vissuto a Roma dai primi anni Quaranta, dalla capitale se n’era andato sbattendo la porta nel 1976, quando con altrettanto sdegno lasciò l’insegnamento all’università. Sua era diventata anche Brescia, che in quello scorcio di anni Settanta, gli anni della solidarietà nazionale, diventò il luogo per sperimentare una pratica urbanistica e politica che andava sostenendo da tempo e che gli consentì di portare ad effetto le proprie convinzioni. Brescia la poteva guardare dal giardino della casa che si era disegnato da sé, spingendosi fino al bordo di un grande prato che sembra una terrazza e che termina con una dolce scarpata.
A Brescia l’aveva chiamato Luigi Bazoli, assessore all’urbanistica in giunte democristiane che guardavano a sinistra. Il padre di Bazoli, avvocato, era stato socio di studio del fratello di papa Montini. Cattolicesimo democratico, solidarismo, don Primo Mazzolari: gli stessi riferimenti di Benevolo. Il quale per alcuni decenni realizzò importanti operazioni urbanistiche, ma non solo: ridusse a un decimo le previsioni edificatorie di un vecchio piano regolatore, fece comprare dal Comune i terreni sui quali si intendeva far crescere la città, li dotò delle infrastrutture e vendette ai costruttori il diritto a edificarvi concordando un prezzo che garantiva il pareggio dell’operazione. In questo modo tagliò le unghie a chi speculava sul valore delle aree e calmierò i prezzi. Le aree pubbliche vennero edificate con la regia del Comune, quelle private molto meno. Una rivoluzione: Benevolo realizzò nei fatti quel che la riforma del ministro Fiorentino Sullo proponeva per via legislativa - ma quella riforma fu fatta fallire prima di essere varata.
«Io non faccio letteratura urbanistica», diceva. Benevolo si dava come traguardo solo quello che era realizzabile, senza mai piegarsi, però, a un riformismo esangue, fatto di pragmatismo spiccio, amministrazione dell’esistente e piccoli compromessi con gli interessi privati. Guardava alle esperienze europee, la sua città doveva crescere pensata e pianificata, come un sistema in cui tutto si tiene, affidata al controllo pubblico e non alla speculazione. Fu il protagonista e il teorico di operazioni che in quegli anni si praticarono anche altrove, a Bologna, a Modena, a Bergamo e che fecero pensare a una svolta nella sorte già compromessa delle città italiane. Quelle operazioni restarono eccezioni: e anche a Brescia la Dc, pressata da interessi privati, liquidò Bazoli e annacquò l’iniziativa di Benevolo. Che però, misurando vittorie e sconfitte, non si è mai fatto prendere dallo scoramento: «Ho lavorato, come dice Le Corbusier, per il mio fratello uomo e il poco che ho fatto sopravvive nella vita di qualcun altro, che pure non mi conosce».
Le esperienze di cui Benevolo è stato protagonista formano una corona che abbraccia l’intera seconda metà del Novecento. I suoi libri sulla storia della città, sulla città europea, sulla storia dell’urbanistica e dell’architettura dal Rinascimento all’età contemporanea, sul concetto di infinito (editi da Laterza) sono un vademecum indispensabile per chi si occupa di queste discipline. «Il mio mestiere è l’architettura», diceva, aggiungendo che l’architettura si fa in vari modi, progettando edifici, disegnando piani regolatori, insegnando, collaborando alla redazione di leggi, scrivendo libri. «Non ho potuto scegliere di fare una sola di queste cose, perché lo scopo che questa disciplina si pone, vale a dire migliorare anche solo di poco l’ambiente fisico in cui vive la gente, è troppo importante e difficile per tentare di raggiungerlo in un unico modo».
Benevolo s’impegnò anche in avventure apparentemente lontane dall’architettura. Negli anni Cinquanta insegnò al Cepas, la scuola per assistenti sociali fondata da Guido e Maria Calogero. E lì conobbe Paolo Volponi, Anna Maria Levi, la sorella di Primo, Angela Zucconi. Con la Zucconi e Manlio Rossi-Doria, partecipò al Progetto Abruzzo, un’iniziativa olivettiana in paesi distrutti dai bombardamenti. Il programma faceva riferimento al community development, lo sviluppo della comunità. Si organizzava la scuola per i bambini o si immaginavano forme alternative di turismo.
I suoi maestri, Luigi Piccinato, Ludovico Quaroni e Giovanni Astengo gli raccontavano, disse una volta, «quasi solo sconfitte e fallimenti». L’Italia vedeva sparire paesaggi, le città crescevano senza regole, anzi con le regole dettate dalla proprietà fondiaria, la riforma del regime dei suoli veniva osteggiata fino a mettere in pericolo la democrazia. E lui era terrorizzato al pensiero di dover fare, da vecchio, un bilancio altrettanto disastroso. Ma il senso del concreto gli offriva un appiglio: «Si può essere rassegnati che molti tentativi, diciamo pure la maggior parte, vadano male, ma bisogna che qualcuno vada bene, per poter fare dei paragoni e perché le sconfitte medesime diventino istruttive».
Nel suo studio a Cellatica aveva appeso un disegno di Le Corbusier, in cui erano illustrati i tre doveri di un architetto. «Il faut se battre contre des moulins. Il faut renverser Troie. Il faut être cheval de fiacre, tous le jours». Questi ammonimenti lo hanno accompagnato nel lavoro, con Quaroni e Piccinato, al piano regolatore di Roma negli anni Sessanta (che poi sarebbe diventata altra cosa rispetto alle premesse), nella pianificazione di Venezia, del centro storico di Urbino e di Palermo (nella città siciliana insieme a Italo Insolera e Pierluigi Cervellati). Per tutti gli anni Settanta e anche oltre Benevolo è impegnato sul Progetto Fori, la ricomposizione dell’area archeologica centrale di Roma, da Piazza Venezia fino all’Appia Antica, con l’eliminazione della via dei Fori imperiali. Un imponente disegno, la creazione «di un sublime spazio pubblico». In quel progetto, redatto insieme a Vittorio Gregotti, ebbe come compagni il soprintendente Adriano La Regina, Insolera, il sindaco Luigi Petroselli e soprattutto Antonio Cederna, amico di tutta una vita. Il tema era, ed è, ambizioso come pochi: l’archeologia vissuta come parte essenziale della città, non più sfondo scenografico-monumentale, ma elemento quotidiano, che, nel suo contesto di paesaggio, connette il centro della capitale con le periferie del sud est metropolitano, finalmente affacciate su un’area verde e densa di storia. Una gigantesca opera di valorizzazione culturale, la creazione di un parco archeologico fra i più attraenti al mondo, e anche un intervento urbanistico che avrebbe cambiato il volto della città, rimescolato le gerarchie.
Non se ne fece nulla. «Il nostro progetto era troppo bello», disse forzando oltremisura la sua modestia. «Occorre essere pazienti», diceva ancora Benevolo, citando di nuovo Le Corbusier e rivolgendosi ai suoi colleghi più giovani, quei «protagonisti impazienti della scena attuale che arrivano al successo e si sentono prematuramente soddisfatti». «L’architettura», insisteva, «non è un’attività che si realizza producendo cose dall’oggi al domani».
Animatore infaticabile nella battaglia contro la devastante Autostrada della Maremma: oltre vent’anni di rigoroso impegno con osservazioni, iniziative pubbliche, denunce, contestazione dei tracciati. E con azioni per coinvolgere i cittadini e convincere le istituzioni e la politica ad opporsi ad un progetto sbagliato». Con postilla
Ci ha lasciato Valentino Podestà, scomparso il 1 dicembre 2016 a 78 anni, dopo una breve e devastante malattia. La sua morte ci riempie di tristezza perché se ne è andato un amico, una bella persona sensibile, generosa, competente ed anche un compagno tenace di battaglie comuni per la tutela dell’ambiente, del territorio e del paesaggio della Maremma. Da sempre animatore infaticabile nella battaglia contro la devastante Autostrada della Maremma: oltre vent’anni di rigoroso impegno con osservazioni, iniziative pubbliche, denunce, contestazione dei tracciati e dei loro impatti. E con azioni sul territorio capalbiese e grossetano per coinvolgere i cittadini e convincere le istituzioni e la politica ad opporsi ad un progetto sbagliato.
Nato a Milano, architetto ed urbanista, dalla fine degli anni 80 aveva scelto insieme alla compagna Corinna ed al figlio Beniamino di vivere in Maremma, mettendo in piedi un’azienda agricola biologica dal nome profetico “Il cerchio” ispirato dalla loro passione per la cultura degli indiani nativi d’America. E’ il cerchio sacro della natura in cui l’uomo è racchiuso e che non dovrebbe essere spezzato, come illustra anche il logo della loro azienda agricola.
Era diventato un maremmano a tutti gli effetti ma sempre aperto al mondo, alle sue novità ed alla politica ambientale, con la sua militanza dentro Italia Nostra e poi nella Rete dei Comitati di Asor Rosa. E’ stato molto impegnato a pianificare uno sviluppo basato sulla tutela del paesaggio e dei beni naturali, anche nella sua esperienza di Assessore all’Ambiente del Comune di Grosseto dal 1993 al 1997. Si opponeva con forza e coraggio alle ipotesi di guasti e aggressioni pericolose, dalle cementificazioni del territorio, alle assurde scelte infrastrutturali come l’autostrada. Sempre attento, meticoloso e puntuale a studiare documenti, tracciati e carte per poter rispondere in modo appropriato e pertinente, mettendo a frutto le sue competenze di urbanista, con un impegno volontario ed una visione ambientalista a tutto tondo.
La battaglia che abbiamo fatto insieme per oltre vent’anni lo ha visto protagonista insieme alla sua compagna Corinna, in stretta collaborazione con le principali associazioni ambientaliste come Italia Nostra, Legambiente, WWF, Comitato per la bellezza, Terra di Maremma, Verdi e Comitati di cittadini. Numerosi gli incontri pubblici, le riunioni e le serate dove insieme abbiamo affermato l’importanza di adeguare e mettere in sicurezza l’Aurelia, piuttosto che sventrare la Maremma con le varie ipotesi autostradali. Una lunga storia a puntate che non è ancora terminata. Proprio il giorno della sua morte, infatti, per uno strano scherzo del destino, ha avuto inizio il nuovo procedimento di Valutazione di Impatto Ambientale con l’ultima ipotesi di tracciato nel tratto Grosseto-Capalbio. E noi insieme a Valentino ed al Comune di Capalbio (da sempre in prima fila contro l’autostrada) avevamo già avuto un confronto su questo nuovo progetto ed il suo contributo era stato come al solito lucido, competente e pronto anche questa volta a scrivere e sottoscrivere i tanti punti critici del progetto.
Ci mancherai tanto Valentino e questa volta dovremo scrivere da soli le osservazioni, senza le tue analisi e i tuoi suggerimenti, la tua meticolosa capacità di entrare nel dettaglio, con la tua determinazione e le tue lunghe e articolate riflessioni. Ma proprio per questo ed anche per questo, continueremo le battaglie e le speranze che abbiamo vissuto insieme per difendere e amare la tua Maremma. Un pensiero commosso ed un abbraccio va alla compagna Corinna ed al figlio Beniamino, che insieme a te hanno condiviso la vita ed i suoi bellissimi sogni.
Ciao Valentino.
postilla
Non ricordo che anno era quando Valentino mi scrisse per informarmi che, con Corinna, avevano deciso di cambiare vita. Purtroppo non trovo la sua lettera, annidata tra le mie carte vagabonde di molti traslochi. Ero ancora presidente nazionale dell’INU (di un INU abissalmente lontano da quello di adesso), quindi doveva essere nella seconda metà degli anni Ottanta. Erano gli anni della polemica accesa contro quella che avevamo definita “urbanistica contrattata”.
Nella sua lettera Valentino mi spiegava le ragioni della loro difficile decisione: fare l’urbanista era diventato impossibile in una realtà nella quale, se rifiutavi di allinearti sotto le bandiere di una cordata al cui termine c’era un interesse immobiliare, non lavoravi.
Non sono molti, di questi tempi, i professionisti che si dimettono da un incarico per un conflitto tra gli interessi del loro committente e l’etica della loro professione, meno ancora quelli che hanno il coraggio di abbandonare la propria professione e la propria terra.
Ma Valentino non ha smesso, nella campagna maremmana, a fare l’urbanista. Lo ha fatto in un altro modo, compiendo tutte quelle feconde azioni da “urbanista militante” nella società e nel contesto in cui vive che Anna Donati ricorda. Facendo Politica come dovrebbe farlo il cittadino di una città “normale”: portando cioè il contributo del suo specifico sapere al servizio degli altri, di tutti gli altri. Perciò ha difeso il territorio dove era venuto a vivere utilizzando con generosità la sua capacità di leggere e comprendere il territorio, le sue qualità e le sue fragilità, e le conseguenze di scelte sbagliate, per metterlo invece al servizio della società di oggi e quella di domani. Grazie, indimenticabile Valentino. (e.s.)
Paolo Leon aveva, come economista, una solida formazione teorica acquisita anche a Cambridge negli anni di Kaldor, Joan Robinson e Piero Sraffa. A differenza di altri, non aveva dimenticato i risultati consolidati raggiunti nel dibattito in quel periodo e i loro collegamenti con il marxismo e il keynesismo. Ma di questo prezioso bagaglio, arricchito da una costante attenzione agli sviluppi della letteratura analitica ed empirica che trasmetteva in primo luogo ai suoi studenti, non ne faceva solo uno strumento di critica al mainstream.
Nei trascorsi decenni, conformismo, saggezza convenzionale e accettazione amorfa hanno accompagnato il tentativo incongruo – tanto potente e diffuso quanto stupidamente presuntuoso – di stravolgere il senso stesso dell’economia da disciplina sociale in scienza naturale. La crisi globale che stiamo attraversando è anche responsabilità di queste pretese controproducenti della teoria economica dominante. In questi anni, Paolo, con coerenza, acutezza, pragmatismo e ironia, ha sempre applicato positivamente la sua formazione, verificandola e aggiornandola, ma senza cadere nel coro dei vecchi luoghi comuni riproposti con sofisticati tecnicismi che ammantano di pretesa scientificità sia la spiegazione di relazioni sociali presentate come «naturali», sia la difesa di interessi parziali.
Il suo bagaglio teorico era arricchito da una ingente mole di ricerche empiriche nelle quali, all’analisi del concreto funzionamento di specifici comparti della realtà economica accompagnava concrete proposte per migliorare il loro funzionamento e le connesse condizioni di vita.
Paolo aveva anche una solida formazione politica socialista che, unitamente a quella economica, alla sua onestà intellettuale e all’ancoraggio del suo pensiero alle necessità di ottenere anche nel breve periodo miglioramenti dello stato di cose presenti, lo hanno messo al riparo dalle crisi d’identità, dalle trasformazioni opportunistiche e dal minoritarismo velleitario che hanno pervaso la Sinistra negli ultimi decenni.
Ho avuto il piacere di lavorare con Paolo anche in circostanze istituzionali. Le sue posizioni, sempre aperte al confronto, non calavano mai dall’alto, le trasmetteva sui binari della semplicità che solo chi ha sedimentato bene i concetti può percorrere, erano sempre accompagnate da una umanità e un senso della vita mai banali, ma derivanti dalla sua esperienza che, comunque, non faceva pesare.
C’era un solido retroterra dietro la simpatia di Paolo e la sua capacità di accompagnare con un sorriso anche il senso di tristezza e d’insofferenza che le situazioni potevano suscitare.
L’insegnamento di Leon è dirimente per i nostri giorni: «Nessuno può negare che esista una relazione tra fattori della produzione e prodotto al livello dell’economia; ma che forma questa funzione, in che modo agiscano su di essa le variazioni dei salari e dei profitti ed il progresso tecnico, è impossibile stabilire a priori con il modello marginalista»(P. Leon, 1965). Altro che crescita equi-proporzionale dei diversi settori. Infatti, Paolo prefigura uno Stato grande nelle idee: «Le scelte, in termini di investimenti, delle imprese pubbliche e, in quanto controllabili, di quelle private, non possono essere condotte sulla base di un saggio generale del profitto (o dell’interesse, o sulla base di un determinato costo-opportunità del capitale) stabilito a priori senza la giustificazione di un completo modello disaggregato di lungo periodo»(P. Leon, 1965).
Lo scopo «è di far risaltare la necessità della domanda effettiva come determinate dell’offerta…. Così chi crede che l’investimento sia l’elemento autonomo per eccellenza, è poi spinto a cercare i fattori che lo determinano… ritrovando per altra via la legge di Say» (P. Leon, 1981).
L’esistenza stessa di «leggi macroeconomiche, non riconducibili alla decisione dei singoli, è un segnale che lo Stato è autonomo rispetto al mercato». In altri termini, «una legge macroeconomica generale, come quella del moltiplicatore, non può rientrare nell’ambito della conoscenza individuale: solo lo Stato è in grado di servirsene»(P. Leon, 2003).
Un tratto ben presente nella sua penultima fatica (P. Leon, 2014), quando si domanda: è l’inizio della fine di un paradigma, più precisamente del paradigma reaganiano-thatcheriano che ha costruito un particolare equilibrio tra stato e capitale? Leon discute le nuove istituzioni del capitale, consapevole che qualcosa di quello caduto in disgrazia rimarrà per sempre. Tutto ciò ci riporta al ruolo dello Stato nel capitalismo post-liberista e del modello di governo in una economia globale. Un rapporto capitale-Stato da ricostruire. Infatti, «il capitalismo… è un modo di essere delle società che non si distrugge nelle crisi, ma evidentemente si trasforma e, una volta trasformato, dà luogo a una nuova cultura capitalistica e a nuovi rapporti tra i capitalisti e lo Stato e tra gli stessi capitalisti».
Al convegno organizzato in onore di Giorgio Nebbia il 10 maggio a Roma, nella Biblioteca del Senato dalla Fondazione Luigi Micheletti, partecipa un nutrito gruppo di ambientalisti e di amici di Nebbia, riuniti per ringraziarlo del suo contributo alla comprensione della questione ambientale e al sostegno delle lotte dei movimenti contro lo sfruttamento della natura e del lavoro. Giorgio Nebbia è infatti il più importante ecologo italiano, il padre nobile del movimento ambientalista italiano e internazionale, assertore convinto dell’ecologia politica intesa come progetto di trasformazione della società.
E’ stato professore di Merceologia presso la Facoltà di Economia e Commercio dell’università di Bari (dal 1959 al 1995), di Ecologia nella stessa facoltà (1972 -1994). Ha ricevuto due Lauree honoris causa, in Discipline economiche e sociali dall’università del Molise (1997) e in Economia e Commercio dall’università di Bari (1998).
Deputato prima e poi senatore per la Sinistra Indipendente (1983–1992), Nebbia è autore di numerose pubblicazioni scientifiche e di innumerevoli saggi e articoli divulgativi sulla trasformazione delle risorse naturali in merci, sull’acqua e sulla dissalazione dell’acqua, sull’energia solare e su quella nucleare, sulla cementificazione dei suoli, sull’inquinamento in agricoltura e nelle fabbriche, sul metabolismo della città, sullo smaltimento dei rifiuti, e su molti altri temi. Scrive oggi su Altronovecento, rivista della Fondazione Micheletti; su Cns-Ecologia Politica, sulla Gazzetta del Mezzogiorno e su molte altre testate e siti.
Giorgio Nebbia è uno scienziato che ha cuore e intelligenza. Sa parlare a persone di ogni età ed estrazione sociale, descrivendo fatti e persone con un linguaggio apparentemente semplice, che coniuga sempre il rigore scientifico e il buonsenso con la leggerezza della prosa. Racconta storie di inquinamenti, di mala salute, di scoperte scientifiche, ma anche di merci oscene come le armi e il nucleare, o della vita e del pensiero dei grandi protagonisti dell’ecologia, della politica, della scienza e della storia come Georgescu Roegen, Lewis Mumford e Alfred Marshall. Va al cuore dei problemi, alla loro essenza, e riesce a farlo perché ha una visione complessiva degli aspetti teorici e pratici dei temi che affronta. Contestualizza il racconto rispetto alle conoscenze che il lettore già possiede, che arricchisce con informazioni specifiche al tema che sta trattando, derivanti dal cinema e dalla letteratura. Soprattutto, racconta ogni aspetto della sostenibilità ambientale alla luce delle grandi questioni ecologiche, prima tra tutte quella che regola il “funzionamento” della vita, e cioè la circolazione di materia e di energia dai corpi naturali (aria, acqua e suolo) agli esseri viventi (vegetali e animali).
Con la formula M-N-M (merci-natura-merci), Giorgio Nebbia sintetizza la causa centrale della questione ecologica, consistente nel fatto che la produzione di merci non avviene a mezzo di denaro né di altre merci, ma a mezzo di natura e di risorse naturali, che sono abbondanti ma non illimitate.
eddyburg al nostro opinionista: Giorgio, avanti cosí!
Nella lunga conversazione con Luigi Piccioni Nebbia narra le sue radici, le sue vicende familiari, la sua formazione, l’avventuroso percorso all’interno dell’università, la genesi e l’evoluzione del suo profilo intellettuale e politico, la nascita dell’ambientalismo in Italia negli anni Sessanta, le principali figure del movimento, l’esperienza giornalistica e quella parlamentare, i libri che lo hanno maggiormente influenzato.
Un lungo viaggio lungo oltre ottanta anni di vita personale e italiana ricostruito con brio, lucidità, ironia e autoironia.
L’intervista, prodotta in collaborazione con la Fondazione Luigi Micheletti, è consultabile e scaricabile da YouTube (cliccare i link) tanto nella VERSIONE INTEGRALE di 2 ore e 45 minuti quanto in quindici segmenti più brevi, ciascuno dedicato a un tema specifico:
2. A BOTTEGA
(Dall’officina al laboratorio – Il mestiere s’impara a bottega)
3. NEL MONDO DELL’UNIVERSITA’
(Le liturgie accademiche – Pagato dallo Stato)
4. BIBLIOGRAFIE
(Conoscere il mondo attraverso le bibliografie – Ricostruire il cammino intellettuale di un’idea – Arrivano gli americani)
5. LA MERCEOLOGIA
(Una scienza che racconta le cose – Le merci e la storia)
6. PROFESSORE
(In cattedra – Via il giuramento)
7. GALATEI, LICENZE, GERARCHIE
(Invenzioni e divulgazione: pratiche disdicevoli – Gerarchie accademiche: io e Ciusa)
8. VERSO L’ECOLOGIA
(Dall’acqua all’ecologia – 1970, l’anno della svolta)
9. I TEMPI NUOVI E I LORO SEGNI
(Essere cristiani col Concilio – Arrivano le tematiche ecologiche – Nasce l’ambientalismo organizzato)
10. IL BUEN RETIRO
(Una casa a Poveromo)
11. RACCONTI, DISCUSSIONI, MOBILITAZIONI, RACCONTI
(Impegno e visibilità crescenti – Dai preti ai comunisti, un unico discorso)
12. UN AMBIENTALISMO ITALIANO
(L’approccio tecnico-scientifico – Le figure marcanti)
13. AL PARLAMENTO
(Deputato e poi senatore – Il drappello ambientalista – Trasferiti a Roma)
14. CARTA STAMPATA
(Il giornalismo: divulgazione scientifica e intervento politico – Il gran rifiuto al Corriere della Sera)
15. DEI LIBRI VERAMENTE IMPORTANTI
(Lewis Mumford, Anton Zischka, Umberto D’Ancona – E poi: Barry Commoner, Nicholas Georgescu-Roegen)
Nell’ottobre del 2014 la Fondazione Luigi Micheletti e la rivista “altronovecento” hanno messo a disposizione un’ampia antologia di scritti storici di Giorgio Nebbia curata da Luigi Piccioni nei formati .pdf ed .epub comprendente un’intervista di Pier Paolo Poggio a Nebbia e diversi articoli di testimonianza su personaggi e vicende della vita scientifica, giornalistica e politica italiana del Novecento. Il volume è liberamente scaricabile qui.
Testo tratto da: https://nebbiaracconta.wordpress.com/
Millenniourbano.it, 5 maggio 2016 (m.p.r.)
La ricorrenza dei cento anni dalla nascita a Scranton (Pennsylvania) di Jane Jacobs è una buona occasione per domandarci come le sue critiche dell’urbanistica novecentesca abbiano cambiato lo sguardo sulla città contemporanea. Esse hanno sicuramente esercitato una grande influenza non solo a New York, dove, da abitante del Greenwich Village, Jacobs si è battuta instancabilmente contro i progetti di rinnovamento urbano Robert Moses. La sua battaglia contro la Lower Manhattan Expressway che, se realizzata, avrebbe espulso migliaia di persone e sconvolto la vita di un intero quartiere, ha indicato - ovunque nel mondo alle comunità di persone spesso minacciate da simili progetti - che ogni abitante della città ha le competenze per esprimere la sua opinione in merito a come essa viene trasformata.
Da giornalista e madre di famiglia - non certo da urbanista - nel 1961, Jane Jacobs pubblicava Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane, una lettura della città contemporanea in cui veniva utilizzata l’esperienza quotidiana, fatta di vita di quartiere e di spostamenti con mezzi pubblici, a piedi o in bicicletta, in contrapposizione all’idea di città-macchina di Robert Moses, il deus ex machina dei lavori pubblici di New York.
Nella narrazione di Jane Jacobs la città è al contrario un sistema complesso che si auto-regola e di questa capacità di autoregolazione i suoi abitanti, a differenza di molti urbanisti, sono perfettamente consapevoli. Jane Jacobs ha sottolineato più di mezzo secolo fa come l’opera dell’erede newyorchese del Barone Haussmann (Moses amava riferirsi al prefetto della Senna che a metà Ottocento trasformò radicalmente Parigi), con il suo disprezzo per la gente che anima lo spazio urbano, è stata la rappresentazione più significativa della incapacità dell’urbanistica moderna di comprendere la vita delle città. Purtroppo non mancano le occasioni di constatare quanto sia viva ed operante l’eredità del pensiero di Moses, se qualcuno si sente in dovere di pubblicare un libro che, in maniera paradigmatica, s’intitola Contro l’urbanistica.
Saskia Sassen, che sui cambiamenti impressi alle città dai processi economici della globalizzazione scrive da qualche decennio, ha ricordato sulle colonne del Guardian il suo incontro con una anziana signora che agli inizi degli anni 90, durante una conferenza a Toronto, intervenne per criticare il suo modo di analizzare la città nel modo più acuto che avesse mai sentito. Ribaltando la visione di Sassen, Jane Jacobs (che a Toronto si era trasferita in opposizione all’intervento militare degli Stati Uniti in Vietnam) metteva al centro la questione del luogo, invitandola così a passare dalla scala macro delle grandi metropoli globali a quella micro dei quartieri, le cui specificità, a partire dalle esperienze dei residenti locali, vengono progressivamente cancellate. Questo differente sguardo sulla città ha condotto Sassen a rivedere il fatto che gli aspetti che rendono tale una metropoli - l’enorme diversità dei lavoratori, i loro spazi di vita e di lavoro, le molteplici sub-economie coinvolte - siano tutt’altro che irrilevanti, quasi appartenessero ad un’altra epoca, nello studio delle città globali.
Perché - si domanda Sassen - è così importante recuperare il senso del luogo nelle analisi dell’economia globale letta attraverso le grandi città? Perché ciò ci consente di vedere che nelle economie regionali, nazionali e globali sono incorporate le diversità economiche tipiche dello spazio urbano e viceversa che lo spazio urbano è il componente fondamentale di queste economie. Jacobs ha capito che la città è molto più della somma dei suoi residenti, dei suoi edifici e delle aziende: essa è la trama nella quale le sub-economie si intrecciano variamente, nei differenti quartieri, con la vita delle persone. Il modo in cui queste differenze economiche e spaziali reagiscono ad esempio alla massiccia gentrification della città contemporanea è qualcosa che andrebbe indagato attraverso l’approccio complesso con il quale Jane Jacobs ci ha insegnato a guardare la città. Non importa quanto esse possano diventare smart e globali, ciò che non bisogna smettere di fare è rimettere al centro dell’analisi urbana la dimensione del luogo, solitamente negletta da chi si occupa di economia delle città. D’altra parte già nel 1969, in apertura del suo L’economia delle città, Jacobs si chiedeva: «perché alcune città crescono mentre alte ristagnano e poi decadono?» Perché l’efficienza economica delle imprese non coincide con il successo delle città che le ospitano? E’ la diversificazione del tessuto produttivo delle città ciò che consente loro di prosperare ma questa diversità è un tipico prodotto urbano, qualcosa, appunto, che non si deve smettere di indagare.
Trenta giorni sono passati dalla scomparsa di Vincenzo (Cenzi) Cabianca: un urbanista che non ha mai avuto i riconoscimenti che oggi si attribuiscano alle “star”, ma che ha svolto un ruolo di assoluta avanguardia per un aspetto del governo del territorio che oggi ci sembra più che mai decisivo: il rapporto tra organizzazione dello spazio della vita delle persone e preesistenze storiche e naturali. Cabianca ha insegnato ai suoi numerosi studenti che i beni culturali, dal paesaggio ai lasciti della storia più antica, , non sono come isolati da proteggere in una bacheca (né tanto meno spazi residui di un oceano di cemento e asfalto da completare, ma devono essere adoperati come lematrici di un nuovo modo di organizzare l’habitat dell’uomo.
Questo impegno culturale non è stato per Cabianca solo l’espressione di una teoria - di un pensiero - ma la premessa di un’azione da sviluppare e rendere concreta adoperando il mestiere dell’urbanista: un mestiere che ha esercitato non solo negli ambiti delle aule universitarie e degli studi professionali, ma anche nel campo politico e sociale della battaglia culturale. Cabianca è stato infatti vicepresidente dell’Istituto nazionale di urbanistica (INU) in anni decisivi della storia dell’istituto e della politica italiana: nel cuore di quel ventennio della speranza che separa gli anni della ricostruzione postbellica da quelli dell’avvio e dell’affermazione, in Italia e nel mondo, del neoliberismo.
Per ricordare Vincenzo Cabianca pubblichiamo di seguito due testi, che lo ricordano in due significativi momenti del suo contributo: il piano regolatore di Siracusa e la ricostruzione dell’Inu dopo la sua crisi del 1969. L’uno e l’altro sono tratti dai materiali di un convegno organizzato dall’associazione Fratelli Rosselli, di cui alleghiamo la locandina. Per una più completa conoscenza rinviamo al volume Vincenzo Cabianca, Documenti su vent'anni di utopia urbanistica a Siracusa. Tra neoilluminismo e neoromanticismo, curato da Giuseppe Palermo e pubblicato da La casa del nespolo, Roma 2013: qui di potete leggere, su questo sito, l'introduzione di Cabianca al suo libro.
VINCENZO CABIANCA E IL PIANO DI SIRACUSA
di Umberto De Martino
Stralci dalla relazione introduttiva all’incontro organizzato dal Circolo Fratelli Rosselli, Roma
Il Circolo Fratelli Rosselli di Roma ha avviato quest’anno un ciclo di incontri, unificati dal titolo “Dal pensiero all’azione”. […] Oggi abbiamo preso a campione il lavoro di un urbanista, Vincenzo Cabianca, mettendo a confronto il suo pensiero, che gli deriva dalla sua formazione culturale, ed il risultato raggiunto su un particolare campione dove ha operato per decenni, la città di Siracusa e il suo Piano Regolatore.
Va premesso che, se è vero che il prodotto che si ottiene come applicazione di un pensiero originale viene via via modificato dall’operare in un contesto esterno, con altri interlocutori dialoganti e con l’influenza che ne deriva, ciò è ancor più evidente nel caso dell’urbanistica dove il risultato finale, in questo caso l’assetto e lo sviluppo di una città, è frutto della concorrenza di soggetti che in modo più o meno palese interloquiscono intensamente con il progettista: operatori economici, cittadini, politici, e così via.
I nostri “tre eroi”, invece, avevano culturalmente ben assimilato le novità più importanti in campo urbanistico, novità tra le quali primeggiava l’esperienza della pianificazione olandese, e di Amsterdam in particolare, diffusa in Italia da Astengo attraverso la rivista “Urbanistica” (e i cui principi erano stati, peraltro, anche trasferiti nello spirito della legge urbanistica italiana del 1942, poi purtroppo del tutto travisati): piani non più planovolumetrici ma di destinazione d’uso dei suoli, rinvio della realizzazione dei quartieri di espansione a piani esecutivi di iniziativa pubblica da progettare di volta in volta a seconda della necessità, dotazione programmata di servizi pubblici e di aree verdi sia a livello urbano che di quartiere.
Ma, e questo è il particolare più importante, i progettisti si sono trovati ad operare su un territorio di straordinario valore storico-archeologico, valore che l’opinione degli “addetti ai lavori” (proprietari terrieri, tecnici anche pubblici, operatori economici, perfino gran parte dei cittadini) riteneva un intralcio alla modernità dello sviluppo urbano e non una risorsa da esaltare e mettere a frutto. (Peraltro questa è stata una carenza della cultura italiana ancora per molti anni, dove nei piani regolatori – come quello di Roma del 1962 – ci si limitava a coprire i centri storici con una coloritura unitaria, rinviando a successive, ma anche astratte, pianificazioni specifiche: come se i centri storici non fossero parte integrante della città complessiva. Anche qui dovremo aspettare l’esempio progettuale di Astengo per Assisi e le teorizzazioni dell’ANCSA).
Ciò non è stato nel caso del Piano di Siracusa, dove all’assetto dell’espansione si è accompagnato simultaneamente quello della valorizzazione dei beni archeologici e dell’ambiente. Il piano del 1952-’56 nasce così da una cultura moderna, europea di governo dell’assetto urbano e da una specifica sensibilità dei progettisti, e di Cabianca in particolare; sensibilità che lo ha caratterizzato come “tra i primi che hanno dato vita ai Piani Urbanistici basati sul primato dei beni Culturali, sulla salvaguardia e valorizzazione dei Centri Storici, e sull’armatura culturale del territorio”.
Proverò ad illustrare sinteticamente i punti salienti di questo Piano, peraltro ampiamente descritto nel n. 20 (settembre 1956) della rivista Urbanistica.
Espansione di progetto articolata in quartieri da realizzare per iniziativa pubblica, dotati di servizi e circondati dal verde.
Per le zone di espansione veniva decisamente superato il metodo della previsione astrattamente precostituita per singoli lotti edificabili minuziosamente disegnati, utilizzato nella precedente pianificazione. Veniva invece previsto un sistema di aree a destinazione d’uso residenziale con integrato un mix di edilizia sovvenzionata, dimensionate in modo conforme rispetto alla dotazione di servizi necessari per i singoli quartieri, circondato da un sistema di aree verdi, dotato altresì di aree per attrezzature generali e servito tangenzialmente dalla grande viabilità di attraversamento e connessione sovra comunale. Di tali quartieri non veniva prefigurato il sistema edilizio e la loro progettazione attuativa veniva rinviata all’insorgere delle necessità insediative. Oltre alla corretta previsione delle zone di nuova espansione, nel Piano veniva particolarmente curata l’integrazione e la razionalizzazione delle zone residenziali già esistenti al di là dell’Ortigia.
Viabilità comunale di progetto, allontanata dalla costa per salvaguardarne le caratteristiche e ”di margine” rispetto all’Epipoli.
Area industriale unitaria e protesa verso il polo petrolchimico di Augusta.
Salvaguardia delle zone archeologiche (Neapolis, latomie, castello di Eurialo, mura dionigiane); piano della Neapolis non isolato dalla città ma strettamente integrato con la pianificazione della città stessa.
L’intervento progettuale più importante, che ha rappresentato una vera novità in campo urbanistico, è stato mosso da un atteggiamento culturale del tutto innovativo rispetto ai beni archeologici e alle qualità ambientali. Il sistema storico-ambientale, singolarmente rappresentato da elementi di inestimabile valore (Neapolis, Latomie, Castello di Eurialo, Teatro greco, Mura dionigiane, ecc.) è stato affrontato non come salvaguardia di singoli elementi ma come un tutt’uno da affrontare e valorizzare nella sua unità storica. Inoltre la progettazione dei vari elementi componenti il sistema non è stata rinviata a un ipotetico futuro ma è stata ideata e proposta insieme al progetto di Piano Generale come parte integrante se non addirittura principale del Piano urbanistico complessivo.[…]
VINCENZO CABIANCA E L'INU
di Vezio De Lucia
Il XII congresso dell’INU, dedicato a L’iniziativa urbanistica delle regioni, doveva svolgersi a Napoli, nel teatro della mostra d’Oltremare, il 14 e 15 novembre del 1968. L’INU era allora un’associazione molto accademica, che operava come importante snodo fra l’università, le professioni e la pubblica amministrazione, in particolare con la direzione generale dell’Urbanistica del ministero dei Lavori pubblici. Si tenga conto che ancora non erano state istituite le regioni (lo furono nel 1970) e l’urbanistica di tutti i comuni d’Italia faceva capo a Roma.
Il congresso cominciò regolarmente alla presenza delle autorità – ministro, sindaco, vescovo e prefetto – ma fu subito interrotto dalla contestazione, perfettamente organizzata, di studenti di architettura che ricoprirono le pareti con tazebao, poi iniziarono il lancio di rotoli di carta igienica, mentre le autorità cominciavano a svignarsela. Invano Giuseppe Campos Venuti, balzato sul palco, urlando al microfono, cercava di fermare la polizia intervenuta a sgomberare la sala. Si chiuse così una fase della vita dell’Inu, quella caratterizzata dalla prevalenza dei grandi interessi accademici e professionali e dai rapporti sostanzialmente subalterni alle politiche di governo. Ma, al tempo stesso, l’INU godeva allora, nel mondo politico e sulla stampa, di un prestigio indiscusso e mai più recuperato.
I reduci di Napoli s’incontrarono alla fine di maggio dell’anno dopo ad Arezzo, dove si confrontarono due schieramenti: chi, come Bruno Zevi, proponeva di restare legati alla tradizione fondamentalmente culturale dell’Inu e chi, invece, auspicava un ruolo pienamente politico, cercando nuovi interlocutori. Prevalse a maggioranza questa seconda posizione, rappresentata da Vincenzo Cabianca, Edoardo Detti, Marco Romano e Alessandro Tutino che avviarono la costruzione di una proposta politica e culturale radicalmente nuova, spostando l’interesse verso le organizzazione sociali, a cominciare dai sindacati, che proprio in quegli anni erano attivamente presenti nella vita pubblica.
Ad Arezzo fu eletto presidente l’insigne costituzionalista Paolo Barile, vicepresidente Cabianca, che ressero l’istituto per un anno, avviandone la ripresa dopo la contestazione di Napoli. Qualche protagonista della precedente gestione lasciò l’istituto, fra questi Bruno Zevi, che ne era stato prestigioso segretario generale.
L’apertura ufficiale della nuova fase dell’INU fu il convegno di Bologna del 1970. Il tema era Il controllo pubblico del territorio per una politica della casa e dei servizi. Edoardo Detti sostituì alla presidenza Paolo Barile, Cabianca fu confermato alla vicepresidenza fino al congresso di Ariccia del 1972.
Mi limito qui a ricordare soltanto il ruolo da protagonista che Cenzi Cabianca svolse nei primi anni della svolta, nella nuova fase della vita dell’INU di affiancamento ai movimenti di lotta e alle organizzazioni sindacali, in particolare sul problema della casa. L’istituto assunse allora come obiettivo prioritario quello dell’“opposizione culturale”. In un documento del consiglio direttivo nazionale del 1972 si legge che l’INU “rinuncia definitivamente a caratterizzarsi come gruppo di «specialisti in urbanistica» che in quanto tali scelgono di far politica; tende invece e soprattutto a divenire un punto di raccolta di informazione e di attivazione per forze politiche, sindacali e di base (nell’intero arco della sinistra) che intendano dedicarsi ai problemi della città e del territorio e che ricerchino nell’istituto i necessari supporti tecnici e culturali”. Prendemmo le distanze dal mondo accademico e professionale, sostenemmo con puntiglio l’obiettivo che la formazione degli strumenti urbanistici dovesse essere condotta direttamente dagli enti locali, utilizzando le risorse professionali interne, adeguatamente preparate.
Ricordo gli incontri con i sindacalisti che ascoltavano affascinati – non sto esagerando – il parlare colto e forbito di Cenzi. E il suo entusiasmo nell’impadronirsi dei temi giuridici, avendo stabilito un’intesa particolare con Guido Cervati, che abbinava a un’indiscussa competenza in materia di diritto urbanistico, un’insuperata sensibilità sociale che lo induceva a orientare sapientemente le interpretazioni delle norme a favore degli interessi popolari (diritto evolutivo).
Cabianca restò nel CDN fino al 1990 – per ventuno anni – quando per l’INU ebbe inizio l’interminata stagione del revisionismo e del trasformismo con l’abbandono della linea dell’intransigenza e dell’autonomia che Cabianca aveva sempre difeso con determinazione.
Prima di finire, ancora un minuto per denunciare un documento recentemente adottato dalla Giunta Comunale di Siracusa e da sottoporre al Consiglio per la revisione del PRG del 2007. Devo la segnalazione a Giuseppe Palermo, il benemerito studioso che ha curato la pubblicazione del volume su Cabianca che presentiamo oggi.
Si tratta di un testo che ripresenta pedissequamente e integralmente la filosofia, e la nomenclatura dell’urbanistica contrattata di rito ambrosiano e, peggio ancora, del “modello Roma”. Non manca nulla:
· perequazione e compensazione
· nuove centralità
· appositi meccanismi premiali per incentivare l’edilizia sostenibile
· espansioni a bassa densità con il pretesto del turismo e dell’agriturismo
· social housing come cavallo di Troia per nuove edificazioni
· ammissibilità imprecisata di modificazione delle destinazioni d’uso
· sviluppo indiscriminato della viabilità.
Penso che verremmo meno alle ragioni che ci hanno indotto oggi a rendere omaggio all’impegno urbanistico di Cenzi Cabianca per Siracusa se ci astenessimo dalle necessarie azioni di vigilanza, di denuncia e di mobilitazione per evitare che, ancora una volta, a Siracusa prevalgano gli energumeni del cemento armato.
Molti anni dopo Corte del fòntego editore propose a Sandro Roggio e a me di comporre un libro sull’esperienza del piano paesaggistico della Giunta di Renato Soru (Lezione di piano, Venezia, 2013).Nel documentare attraverso una molteplicità di voci il piano e il suo contesto ci sembrava indispensabile inserire una testimonianza di Luigi. Era malato, e ci fu impossibile raggiungerlo se non per telefono. Inserimmo allora nel libro una sua intervista, rilasciata a Filippo Peretti e pubblicata da La Nuova Sardegna il 18 novembre 2002.
La ripresento oggi, perché mi sembra che non solo esprima compiutamente la qualità e le ragioni dell’impegno di Cogodi, ma rechi testimonianza di una persona (un “politico”) e un’epoca che non devono essere dimenticati. (e.s.)
Il manifesto, 28 gennaio 2015
La prima edizione del saggio di Lefebvre è del 1970, ma fu presto archiviato perché ritenuto un manoscritto incompleto. Da alcuni anni, però, il geografo David Harvey ha attinto a Il diritto alla città come una miniera di suggestioni per analizzare il ruolo della metropoli come un hub delle dinamiche economiche e sociali della contemporaneità. Ha dunque fatto bene la casa editrice ombre corte a ripubblicarlo, corredandolo di una utile prefazione di Anna Casaglia, che inquadra storicamente il saggio del filosofo francese (Il diritto alla città, pp. 138, euro 14).
I monumenti del potere
Il funzionalismo rappresentava per Lefebvre un macigno che impediva un’adeguata analisi della città, anche se invitava comunque a prendere ciò che di buono avevano prodotto gli emuli europei di Parson: l’idea cioè che la città è la forma del vivere associato che meglio di altre consente a definire il luogo, meglio i luoghi della produzione della ricchezza. È su questo crinale che Lefebvre usa una famosa frase di Marx laddove scriveva che se il mulino sta al capitalismo mercantile, la macchina al vapore sta al capitalismo industriale. Lefebvre la evoca per sintetizzare la successione delle diverse forme di città che hanno accompagnato lo sviluppo economico. Così la città orientale è connaturata al modo di produzione asiatico, mentre la città antica è funzionale all’economia schiavistica, così come la città medievale ha potuto imporsi solo in presenza del feudalesimo.
Al di là di questa tassonomia, tanto la città orientale che quella medievale erano i luoghi dove re, imperatori, aristocratici e mercanti ostentavano il loro potere e status. La città è immaginata come un’opera che rispecchi una concezione dominante delle relazioni e gerarchie sociali. Ma in quanto «opera», non può rimanere indifferente al divenire storico e sociale. Deve cioè mutare. La città, dopo il Rinanscimento, diventa così il luogo dove il reale deve manifestare una intima coerenza, un’armonia monumentale che occulti la dimensione sociale, conflittuale che è insita a questa forma del vivere. Una coerenza del reale che non verrà mai raggiunta. I monumenti, le opere architettoniche, i dipinti e disegni rinascimentali sono cioè da considerare la rappresentazione iconografica di una città ideale che non è mai esistita, né che esisterà mai.
Nel diritto alla città ci sono pagine piene di sarcastica critica di tutte le metafore «naturalistiche» della città (il tessuto urbano, l’habitat urbano), segnalando che la nostalgia per un passato mitico sulla città rappresenta l’incapacità del potere costituito di prospettare una riconciliazione della società urbana con il territorio. E se per la maggioranza della popolazione diviene è al tempo stesso il luogo di un possibile riscatto da una condizione di indigenza e povertà e lo spazio dove i legami sociali primari - la famiglia, la parentela, persino le corporazioni - sono stravolti dallo ormai inarrestabile sviluppo capitalistico, per gli urbanisti è lo spazio dove immaginare una riconciliazione tra l’«ordine prossimo» (le relazioni sociali determinate dal regime della proprietà privata) e l’«ordine remoto» (lo stato). Per questo, secondo Lefebvre, gli urbanisti sono gli ideologi per eccellenza del capitalismo, perché con i loro progetti e interventi fanno sì che la città diventi la «mediazione delle mediazioni», cioè lo spazio dove il potere costituito ha la sua legittimazione.
L’impossibile sintesi
Non sembri però una nota stonata che in questo piccolo, ma denso saggio non compaiano mai riferimenti ai filosofi, sociologi che tra gli anni Venti e Quaranta del Novecento hanno scritto pagine importantissime sulla città. Georg Simmel è infatti ignorato, così come il Walter Benjamin della Parigi capitale del XX secolo. E nulla viene detto sulle riflessioni di un modernista convinto come lo statunitense Lewis Munford. Un solo passaggio liquidatorio è dedicato a Le Courbusier, ritenuto un funzionalista che ambisce a diventare l’«uomo di sintesi» di quella che viene ironicamente chiamata la società urbana. L’obiettivo di Lefebvre, infatti, non attiene allo svelamento di come si è formata la metropoli, bensì di registrare un’altra «grande trasformazione» in corso tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta del Novecento. Il progetto razionalista di riportare ordine nelle metropoli è stato sconfitto da un’alleanza tra urbanisti, amministratori e immobiliaristi tesa a trasformare la città in una «infrastruttura» del governo politico della società e della produzione di merci. La metropoli non è cioè un luogo passivo che riflette ciò che avviene nel mondo della produzione, ma è il contesto dove l’urbano interviene direttamente nella produzione.
Il diritto alla città auspicato da Lefebvre è così un antidoto a una totalità dove produzione, consumo e circolazione della merci sono ormai tre momenti non distinti, ma complementari l’uno all’altro nel tempo e nello spazio. Per questo la città diventa a tutti gli effetti il luogo del desiderio, dei bisogni sociali, della dimensione ludica, trasgressiva inerente i rapporti sociali, ma anche lo spazio dove il potere punta ad esercitare una funzione di controllo a distanza attraverso incentivi alla produzione di segni che rispecchino sì la dimensione multiforme dei rapporti sociali, ma per piegarla alla riproduzione dei rapporti sociali.
Può sembrare un’ironia della storia, ma Lefebvre scrive del conflitto sempre più evidente tra un 99 per cento della popolazione e un 1 per cento che si appropria di tutta la ricchezza prodotta. Lo scrive due anni dopo che nel quartiere latino di Parigi oltre a bruciare le automobili è stato archiviato il sogno razionalista di una città ordinata e facilmente controllabile attraverso le forze preposte all’ordine pubblico. Ma all’orizzonte non c’era nessun Occupy Wall Street, né movimento sociale teso alla riappropriazione dello spazio urbano trasformato in un atelier produttivo. Lefebvre annota solamente che la totalità costituita dalla città ha bisogno di strumenti sofisticati per essere destrutturata. La filosofia e la sociologia, certo, ma anche la linguistica, l’antropologia, la teoria dell’informazione. Le ultime pagine del libro indicano solo un programma di lavoro che Lefebvre continuò a svolgere, intersecandolo con altri libri anche’essi assenti da molti anni nelle librerie, come la monumentale critica della vita quotidiana e l’altrettanto ambizioso studio sullo Stato.
Le comunità recintate
Il diritto alla città potrebbe essere dunque considerato un libro anticipatore di quanto sarebbe accaduto una manciata di anni dopo la sua pubblicazione. Da allora molto cemento è passato sotto i ponti. Le metropoli sono diventate un atelier produttivo che ingloba il territorio all’interno di un processo che vede la compresenza di finanza, produzione e cooperazione sociale, dove la città deve continuare ad essere la mediazione delle mediazioni.
I nuovi comunardi
Si deve però a David Harvey la ripresa delle tesi di Henri Lefebvre. Anzi si può dire che il filosofo francese ha funzionato come un invisibile filo rosso che tiene insieme l’analisi critica del capitalismo svolta da Harvey sul capitalismo del nuovo millennio, laddove individua nella città il luogo dove l’intreccio ormai inestricabile tra finanza e produzione sono funzionali a un uso capitalistico del territorio.
eddyburg riprendo un intervento che scrissi per un'iniziativa dell'Università di Reggio Calabria, e fu pubblicato sul numero monografico della rivista trimestrale del Laboratorio Cinema-Città dedicato a Francesco Rosi. In calce una scheda e l’audio della scena principale del film. |
E’ facile dire che Le mani sulla città è una lezione di urbanistica. Lo è in modo così evidente!
Certo, non è una lezione sulla tecnica dell’urbanistica, non spiega la cultura del piano regolatore né il procedimento della sua formazione, non affronta il tema delle analisi né quello del disegno del piano, non svela gli arcani della disciplina. E’ una lezione che molti professori d’oggi criticherebbero senza perdere troppo tempo nelle argomentazioni.
Ma è una lezione essenziale: perché racconta la sostanza del piano. Svela “di che lagrime grondi e di che sangue” il tentativo, che nella pianificazione perennemente si compie, di “temprare lo scettro ai reggitori”, di ridurre il peso dei padroni della città, di far sì che la città non sia una macchina per accumulare ricchezze private di un pugno di proprietari immobiliari, ma la casa di una società di uomini, donne, bambini.
E dimostra come il piano urbanistico sia il risultato di una scelta politica. Non a caso, il protagonista del film, l’antagonista dello speculatore Nottola (splendidamente interpretato da Rod Steiger), è il consigliere comunale comunista che, esprimendo i bisogni e gli interessi, magari inconsapevoli, dei cittadini si oppone all’intreccio, sempre perverso, tra la proprietà immobiliare e i governanti servizievoli verso i poteri economici forti.
È una lezione anche per oggi. E fa riflettere il fatto che il protagonista, l’eroe positivo del film, Rosi lo abbia potuto scegliere in una persona che ha svolto nella realtà il medesimo ruolo che svolge sullo schermo. Era un comunista del PCI, Carlo Fermariello. È stato facile allora, per Rosi, scegliere come attore un uomo che poteva essere assunto a simbolo: non solo per la sua persona, ma per la forza politica che rappresentava. E ripensare al film di Rosi fa nascere il desiderio di ricordare e ringraziare, per la realtà che quel film esprime, il Partito comunista italiano di quegli anni.
Molti anni sono passati. Grazie anche agli uomini e ai partiti che allora combattevano contro chi metteva “le mani sulla città” oggi le cose sono un po’ migliori. Ma è segno dei tempi che oggi non ci siano forze politiche come quelle che allora si adoperavano per un’urbanistica riformata e, nel frattempo, là dove potevano amministrare, applicavano le regole del buongoverno.
Venezia, 8 novembre 2003
Appendice
dal sito www.filosofia.unina.it
La questione meridionale è un argomento che affonda le sue radici nella storia del paese, ma è anche una materia profondamente attuale dal cui nucleo continuano a sorgere nuove e vecchie problematiche. Per il progetto è stato selezionato uno spezzone audio tratto da "le mani sulla città", come esempio cinematografico in cui la realtà del meridione viene rappresentata nella sua integrità, senza mistificazioni.
"I personaggi e i fatti sono immaginari, autentica è invece la realtà che li produce". Con questa didascalia (che accompagna le immagini iniziali del film) la sapiente regia di F.Rosi ci introduce nella Napoli della fine degli anni '50 descrivendo, sullo sfondo di una città da ricostruire, le vicende immaginarie ma verosimili di un consigliere comunale di ideologia comunista (De Vita) e di uno spietato impresario edile (Nottola), in lizza per diventare assessore e bramoso di grandi speculazioni.
L'ambientazione riproduce il clima di quegli anni, le tensioni e le lotte politiche tra una classe dirigente, irrimediabilmente compromessa con il potere economico, i cui interessi sono in contrasto con il bene pubblico, e l'opposizione, animata da passione politica e civile, la quale denuncia i crimini compiuti ai danni della collettività.
Nello spezzone selezionato abbiamo l'incontro-scontro tra le due figure centrali del film, il cui pensiero e la cui individualità vengono obiettivamente colte dalla camera. Da una parte, abbiamo il costruttore Nottola che, sullo sfondo di una città ridotta in macerie, vanta l'ambizione di un ammodernamento della città e dice che costruire nuovi palazzi porterà una speranza alle persone che vivono in condizioni di indigenza e miseria, ma in realtà nasconde solo la brama di successo e ricchezza personali. Dall'altra, abbiamo la figura del consigliere De Vita che si staglia nella sua purezza, sullo sfondo di una candida parete bianca e lancia il suo grido di condanna contro l'ipocrisia di Nottola e di chi come lui rappresenta la parte marcia della politica e auspica l'avvento di un cambiamento rigeneratore per le sorti della città.
Audio
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Scheda tecnica del film:
Francesco Rosi "Le mani sulla città" (Italia, 1963, b/n - 105')
Sceneggiatura: F. Rosi, R. La Capria, Enzo Provenzale, ed E. Forcella.
Con Rod Steiger, Salvo Randone, Guido Alberti, Angelo d'Alessandro, Carlo Fermariello, Marcello Cannavale
Tratto da http://www.filosofia.unina.it/corsoperf/corsoperf01/qmfad/QPol_eco/lemani.html
Il manifesto, 30 marzo 2014
I compleanni di Pietro Ingrao sono sempre occasione di riflessione sulla sua biografia e sul suo pensiero politico. Quest’anno, compleanno numero 99 il 30 marzo, si è deciso di promuovere alcune iniziative nei luoghi della formazione del giovane Pietro: Lenola, città nativa; Formia, dove frequentò il Liceo classico Vitruvio e scoprì l’antifascismo degli insegnanti Gioacchino Gesmundo e Pilo Arbetelli uccisi alle Fosse Ardeatine; Fondi (i primi rapporti con alcuni intellettuali); Roccagorga (si occupò della costruzione di una Casa del popolo negli anni cinquanta); Gaeta (le vacanze al mare, i ricordi di gioventù). Su questi luoghi molto amati dal festeggiato scrive lo stesso Ingrao nei primi capitoli dell’autobiografia (Volevo la luna, Einaudi, 2006) ricordando radici mai recise.
In qualche occasione l’ex presidente della Camera, schernendosi, ci ha tenuto a sottolineare la sua formazione “provinciale” indicandola come un limite. In effetti, è arduo dire cosa sia l’«ingraismo» e a quali riferimenti culturali faccia riferimento (i convegni di queste settimane potrebbero aggiungere elementi utili a capire).
L’Ingrao politico è stato spesso definito utopista e visionario perché la politica resta per lui tensione morale e progetto, oltre che comunicazione con gli altri e un po’ profezia del tempo futuro: non solo tecnica o amministrazione dell’esistente. Queste peculiarità ingraiane non piacevano ai suoi «nemici» nel partito, a iniziare da Giorgio Amendola fino ai «miglioristi» della corrente di Giorgio Napolitano. Resta tuttavia un mistero spiegarsi le origini del pensare l’agire politico così particolare da parte di un intellettuale di Lenola, profonda provincia italiana, con scarsa conoscenza della realtà internazionale, che in gioventù aveva una forte vocazione per cinema e poesia.
Dopo la morte di Palmiro Togliatti nel 1964, Ingrao inizia a parlare insieme ad altri di «nuovo modello di sviluppo» per superare l’orizzonte della «democrazia progressiva» che non poteva portare il Pci al governo causa conventio ad excludendum. A spingerlo in quella direzione può essere stata la profonda conoscenza della società agricola (tornano le radici di Lenola e dintorni) che si andava trasformando in realtà marginale nell’Italia che diventava società prevalentemente industriale. Il nome di Ingrao – innovatore per eccellenza, conservatore solo quando si trattò di sciogliere il Pci – è spesso legato all’analisi puntuale delle trasformazioni del capitalismo italiano, alla sollecitazione della democrazia partecipativa, allo studio sistematico del potere decentrato degli enti locali, alla riforma delle istituzioni e – negli anni Ottanta – alla crisi degli stati nazione e all’affacciarsi sulla scena dell’Europa politica come ipotesi (Masse e potere del 1977, la conversazione con Romano Ledda Crisi e terza via del 1978, Tradizione e progetto del 1982 sono libri che tracciano un percorso). Il Crs da lui presieduto prima e dopo l’incarico di presidente della camera (1976–1979) è stato inoltre fucina di discussioni, ricerche e formazione di varie generazioni di studiosi.
Chi ha amato da giovane cinema e poesia prima di diventare uno dei massimi dirigenti del Pci, deve aver guardato al fare politica in modo totalizzante come un limite, pur accentandone la disciplina (la «ragione di partito»). E deve aver conservato la curiosità intellettuale per altre forme di pensiero e di linguaggi che non fossero la politica. Nonostante la laurea in giurisprudenza, che gli tornerà utile quando dirigerà il Centro riforma dello Stato (Crs) a iniziare dal 1975 e si occuperà di decentramento e forme della democrazia, nel pensiero di Ingrao è più il progetto che la norma la principale preoccupazione.
Con la forza delle idee, ha lasciato un’impronta sulle discussioni più vitali degli ultimi cinquant’anni della sinistra italiana. Forse è stata la formazione culturale fatta di approcci plurali e non ortodossamente marxista a favorire la ricerca imperniata sul monitoraggio di culture – compresa quella cattolica – e movimenti che chiedevano al Pci di rinnovarsi e di stare al passo coi tempi. È stato ad esempio proprio Ingrao, con il Crs, a promuovere i primi convegni sulla sinistra europea e il possibile destino dell’Europa. Ne sono la riprova gli Annali di politica europea pubblicati dal Crs dal 1988 al 1993 insieme al convegno sul «caso svedese» promosso addirittura nel 1983 in cui si discusse delle conquiste socialdemocratiche del welfare di Stoccolma.
L’Ingrao studioso e innovatore non può quindi essere separato dall’Ingrao dirigente di primo piano del Pci. Quello che ha diretto l’Unità per dieci anni (1947–1957), che nel 1966, all’XI Congresso del Pci (il primo dopo la morte di Togliatti), pose il problema del pluralismo interno e della liceità del dissenso legandolo a un’altra lettura delle modernizzazioni che attraversavano l’Italia (il suo applauditissimo intervento è passato alla storia per quel «non mi avete convinto», contiene però una vera e propria analisi alternativa a quella imperante in quegli anni nel partito e andrebbe riletto in quella chiave). È stato presidente del Gruppo del Pci per due legislature (1964–1972), prima di salire sullo scranno più alto di Montecitorio.
Nacquero a iniziare dagli anni Sessanta varie generazioni di «ingraiani», alcuni della prima diedero vita a il manifesto e si separarono dall’antico maestro rimasto fedele al partito (il «gorgo», dirà oltre trent’anni dopo in un seminario ad Arco della sinistra comunista interna ed esterna al Pci che si poneva il problema di cosa fare dopo la «svolta» di Achille Occhetto). Una fedeltà ribadita al partito fino al 1993, quando decise di abbandonare il Pds. Prima ancora c’era stato il rifiuto a ripetere l’esperienza di presidente della camera (Ingrao disse no alla proposta fattagli da Enrico Berlinguer) perché aveva voglia di tornare a studiare immergendosi nell’attività di ricerca del Crs. I limiti dell’Ingrao politico sono l’altra faccia delle specificità dell’Ingrao intellettuale che abbiamo ricordato fin qui. Non è mai stato un politico puro, forse ha perso alcune occasioni per rendere più incisiva la sua azione nel Pci.
Negli anni Novanta ha provato a ricongiungersi con il manifesto, partecipando prima all’esperienza del Cerchio quadrato (inserto settimanale curato da Ida Dominijanni) e poi alla seconda serie della rivista mensile diretta da Lucio Magri. Del resto, tra le sue autocritiche c’è sempre stata quella di non essersi opposto nel 1969 alle radiazioni dal Pci di Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Aldo Natoli, Luciana Castellina, Valentino Parlato, Lucio Magri, Eliseo Milani, Filippo Maone e tanti altri. Con Rossanda ha scritto nel 1995 il libro Appuntamenti di fine secolo segnalando la quantità di problemi irrisolti che il Novecento consegnava al secolo nuovo.
C’è un dolore in queste giornate di festa per il compleanno numero 99. È l’assenza di Laura Lombardo Radice (quest’anno avrebbe compiuto 101 anni), la sua amata compagna, che un libro curato da Chiara Ingrao (Soltanto una vita, 2005) ci ha restituito nella sua complessità biografica. A fare compagnia a Pietro ci sono i figli Chiara, Renata, Guido, Bruna e Celeste, i nipoti e i pronipoti. E ci sono i tanti che vogliono bene a Ingrao e provano a ispirarsi a quel singolare metodo del pensare e fare che è l’«ingraismo».
eddyburg il 13 ottobre 2008
Carla Ravaioli, Ambiente e pace una sola rivoluzione. Disarmare l’Europa per salvare il futuro. Edizioni Punto Rosso, Milano 2008, p. 192, € 12
Forse è il momento, questo il titolo di un capitolo nell’ultima parte (la quinta) del libro (pp.170-172). Che è uscito a maggio, dunque è stato scritto nei mesi precedenti l’incontenibile crisi strutturale e non solo finanziaria in cui sarebbe precipitato il “sistema mondiale dell’economia moderna” (per dirla col titolo di un famoso testo di Immanuel Wallerstein di oltre trent’anni fa), ossia il capitalismo liberistico duro e irragionevole, il whirl capitalismstrangolatore del mondo. Sembrava già allora il momento “più propizio a un mutamento della politica mondiale” quando “a parlare di crisi… sono oramai i giornali di tutto il mondo” (p. 170).
La premonizione era presente da molti anni nel pensiero e nell’attività di Carla Ravaioli e degli studiosi che con lei guidano scientificamente e politicamente l’analisi critica del capitalismo individuando i punti d’attacco per ragionare di avvio a un possibile cambiamento. In un articolo dell’aprile 2005, Il giocattolo rotto (denominazione anche di un capitolo del saggio) Ravaioli smuoveva l’aria ferma e inquinata della politica riproponendo il wallersteiniano “bisogno di esplorare possibilità alternative” al mondo attuale. Non ci si può accontentare di aggiustare il giocattolo, invece si può credere, con Walden Bello, che una nuova economia mondiale deglobalizzata possa costituire il punto di partenza verso una trasformazione del mondo, una – pensavo e penso dinnanzi alla continuità della crisi e al fallimento del libero mercato – pura e semplice rivoluzione. Addirittura del 1966 è questa stupefacente intuizione di Kenneth Boulding (altro riferimento costante di Carla): “chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un pazzo oppure un economista”. C’è come un filo rosso che unisce i critici dello sviluppismo, una concezione cui soggiace anche il centrosinistra in Italia condividendo lo stupido ossimoro sviluppo sostenibile. Il biologo fisiologo biogeografo Jared Diamond avvisava che il nostro habitat è minacciato di distruzione ravvicinata, che stiamo perdendo irreversibilmente le nostre limitate risorse, che noi abitanti dei paesi ricchi siamo diventati sconsiderati e ignoranti consumatori, devastatori di beni. Nel suo libro dal titolo ben chiaro, Collasso. Come le società scelgono di morire o di vivere (orig. 2004), mostrava che è la decrescita a essere sostenibile, non lo sviluppo economico capitalistico visto in chiave di Pil, prodotto interno lordo onnicomprensivo, tra l’altro pena di morte per i popoli vittime dello scambio ineguale. E in un’intervista Diamond, al consueto avvertimento di economisti e politici d’ogni specie di non cadere nell’effetto Cassandra rivolgendosi alla gente, sbottava “ma vedete, in primo luogo Cassandra aveva ragione…”.
Il famoso rapporto di trentasei anni fa del System Dynamic Group MIT per il Club di Roma, ci ricorda Carla Ravaioli, con la titolazione italiana “I limiti dello sviluppo”, infedele traduzione probabilmente in… buona fede di “Limits to Growth” (crescita), avrebbe generato nel corso del tempo l’identificazione del termine “sviluppo”, originariamente pensato di certo come rafforzativo, con “crescita” e la “naturale interscambiabilità dei due vocaboli” (p.116). “Crescita” riguarda merci e reddito, “sviluppo” invece deve concernere beni sociali, diritti civili, alta scolarità e buona salute, libera informazione, parità dei sessi, rispetto e conservazione dell’ambiente naturale e antropico storico, insomma tutto quanto provvede a una vita personale e sociale volta alla umanizzazione delle risorse e, perché non dirlo, alla felicità. Nel lontano 1996 l’Onu stessa, attraverso l’Human Development Report si scagliava contro l’aberrazione del Pil calcolato mediante la crescita di prodotti insensati come l’inquinamento e i congegni per mitigarlo, la criminalità e la polizia per combatterla, gli incidenti d’auto e le relative riparazioni e nuovi acquisti, gli armamenti e, aggiungo con Carla, le relative guerre, lo scambio ineguale e la ricchezza come reddito dei già ricchi (cfr. p.117). Di qui la rivendicazione della decrescita da parte di numerosi studiosi fra i quali Ravaioli è protagonista della lotta culturale guidata da Serge Latouche, l’economista filosofo antropologo francese avversario dell’occidentalizzazione del pianeta e fautore della “decrescita conviviale”, che, non coincidente semplicemente con crescita negativa, vorrebbe chiamarsi a-crescita, anzi acrescita, ugualmente a come si definisce ateismo la scelta di chi è libero totalmente da fedi religiose. Così, diciamo, è vero e proprio teismo oscurantista il culto del dio Pil intriso di fanatismo, il calcolo falsificato del prodotto da accrescere ad ogni costo oltre i limiti della sopportabilità per la terra, la natura e noi stessi che apparteniamo a due storie interrelate, storia naturale e storia sociale.
Ecco, tutto il libro è percorso da una straordinaria tensione politica e morale che da una parte rende assai efficace il sentimento di “ rifiuto della società così come l’abbiamo fabbricata” (p.13), da un’altra parte, proponendo fonti cristalline anche da altri autori oltre quelli citati (Karl Polanyi, Marcel Maus, Ivan Illich…) costruisce una potente macchina da battaglia contro il neoliberismo e i suoi feticci, vorrei dire tout court contro il modello capitalistico mondiale, storico e attuale, distruttore della natura e dell’uomo stesso in mille maniere, per prima quella di promuovere ad arte contrapposizioni insanabili e infine le guerre come folle metodo risolutore. Di qui l’”idea shock”, enunciata all’inizio del libro e argomentata a fondo nell’ultima parte: collegare la necessità di fermare la crescita, di cominciare a ridurre il Pil mondiale (giacché “sviluppo” è da convertire in esclusivi termini sociali) alla smilitarizzazione unilaterale dell’Unione europea siccome la produzione di armi è una componente rilevante del prodotto.
Per rispondere alla domanda “da dove cominciare” per istituire un nuovo modello economico sociale pacifista e, dinnanzi alla rovina naturale e artificiale della terra, ambientalista, all’idea della smilitarizzazione si deve associare l’affermazione di una politica ecologica effettiva. Bisogna, per Carla Ravaioli, riconoscere due verità: la prima, la crisi ecologica è connessa alla forma-capitale, la seconda, la guerra è inseparabile dall’obbligo di crescita produttiva. Lo “sviluppo sostenibile” è fallito, idem il preteso ordine mondiale fondato sulla diseguaglianza e sulla guerra. In definitiva, “fallimento del capitalismo tutto intero, macchine e idee”.
Ambiente e pace una sola rivoluzione, non poteva essere più chiaro il titolo. Un futuro felice dell’uomo nega la forma capitalistica perché responsabile della devastazione del pianeta e della violenza che lo sovrasta. Allora, “la dimensione potenzialmente eversiva della crisi ecologica non potrebbe non emergere e farsi attiva quando fosse avviata, mediante una scelta di disarmo, un’opzione di non violenza: a indicare la necessità non solo di un diverso ordine economico-sociale, ma di un ethos culturale e morale diverso” (cfr. pp. 179-171).
manifesto del 4 febbraio 2007 e ivi ripubblicato il 18 gennaio 2014. con postilla
Carla e Valentino, un’ecologista e un economista, hanno disputato per anni sui problemi centrali della vita. Discutendo anche molto animatamente, come dimostra anche questo articolo. Dal quale emerge che è possibile agire, evitando di produrre merci inutili, tanto per cominciare. Poi scegliendo un piano che sappia unire gli sforzi di economia ed ecologia salvando forse così l’ambiente.
[..]Valentino.. D’accordo, avete ragione. Però tra voi ambientalisti c’è una componente di fondamentalismo, che nuoce.
Carla. Con quello che sta succedendo, ti sembra il caso di parlare di fondamentalismo?
V. Mi riferisco a quelli che mi annunciano di continuo la fine del mondo. E se domando quando accadrà, mi rispondono: tra 5.000 anni. E io dico: chi se ne frega.
C. Oggi nessuno ti dirà nulla del genere. Il Wwf ha parlato del 2050, data da cui cominceremo a consumare il Pianeta, non più i suoi frutti. La Commissione Europea pone i prossimi cinquant’anni come lo spazio entro cui dovremo darci molto da fare per contenere l’effetto serra, se no saranno guai tremendi…
V. Ma voglio insistere sui lati deboli dell’ecologismo. Anche tu, in un libro, scrivi di una mercificazione dell’ecologia, attraverso la pubblicità o che altro…
C. Ma non vedo come questo possa apparire un lato debole dell’ecologismo. E’ invece la denuncia di un fenomeno tipico dello stesso sistema che, facendo merce di ogni cosa, e moltiplicandone all’infinito la produzione, crea lo squilibrio ecologico.
V. Cioè, l’economia capitalistica riesce a integrare, a trasformare in merce anche le vostre posizioni?
C. Accade, sì. Pensa al business verde che oggi tutti inseguono furiosamente… ti pare un fatto positivo? Che riduca il rischio ambientale?
V. No.
C. Appunto. Io cito questo fatto per sottolineare la pervasività, l’onnipresenza, la capacità di raggiungere ogni espressione della realtà che sono tipiche del neoliberismo. Il consumismo, una delle cause prime della crisi ecologica, nasce così, con una manipolazione continua dei cervelli.
V. Avete un atteggiamento strano. Lo trovo anche scorrendo i tuoi scritti… L’economia, che era la radice del progresso e del benessere, è diventata cattiva.
C. L’economia capitalistica…
V. Voi enfatizzate in modo fondamentalistico l’ idea che la distruzione dell’ambiente dipende dal capitalismo, dai meccanismi di accumulazione.
C. Non c’è proprio bisogno di enfatizzare. E’ l’accumulazione in sé che contraddice la realtà naturale. Insomma, se vogliamo farci capire da chi ci legge, devi lasciarmi ribadire i punti fondamentali del problema. 1) Il nostro pianeta è una quantità finita e non dilatabile, incapace quindi di alimentare un’economia in continua crescita (ricordando che tutto quanto si produce è «fatto» di natura, minerale, vegetale, animale); 2) Analogamente, il pianeta non è in grado di assorbire, metabolizzare e neutralizzare i rifiuti, solidi, liquidi, gassosi, derivanti da ogni tipo di produzione. I quali inquinano terra, acque, aria, causando lo squilibrio dell’ecosfera.
V. Rifiuti che diventano un’altra base di speculazione capitalistica…
C. Sì, ma è un aspetto minore, un «danno collaterale».
V. Sei tu che ne parli.
C. Certo, ma ne parlo in poche righe su un intero libro, neanche tanto piccolo. A me pare che tu, da sempre notoriamente in posizione di drastico rifiuto verso l’ambientalismo, oggi che è ormai impossibile negare l’esistenza del problema, tendi a cogliere gli aspetti più discutibili della militanza verde. Che esistono, come no, ma che inseriti innanzitutto nel discorso generale acquistano un altro valore… Non è così che potrai negare o sminuire la gravità della crisi ecologica.
V. Secondo me l’ambientalismo attuale è romantico. Se dite che i guasti dell’ambiente sono causati dal capitalismo, dovete dire di conseguenza: il nemico principale da abbattere è il capitalismo.
C. Io lo dico. Anche in questi pochi scritti miei che hai scorso. Ma non solo io. Gran parte degli autori più qualificati che si occupano della materia, da Gorz a Daly, a Martinez-Allier, a Giovenale, a Passet, a Foster, a Beck, a Cini, (per limitarmi a pochi nomi) accusano il capitalismo. Ma anche chi non lo nomina direttamente, lo dice quando indica la crescita illimitata come responsabile del dissesto ecologico. Certo, c’è anche un bel po’ di ambientalisti che evitano con cura di accusare il capitalismo.
V. Io sono un veterocomunista, e quindi penso che per bloccare il disastro del mondo ci vuole un potere.
C. Faccio fatica a seguirti su questa strada…
V. Insomma come lo blocchi il disastro del mondo?
C. Io credo che occorra una rottura culturale, una discontinuità storica. Il mondo cambia senza sosta. Le vecchie rivoluzioni non servono più. Oggi bisognerebbe liberare i cervelli: il consumismo è una delle peggiori forme di corruzione mentale, anzi esistenziale, oltre che una delle prime cause del guasto ecologico.
V. Il consumismo non è colpa dei consumatori, ma dei produttori che spingono i consumatori a consumare.
C. Ma è quello che ho appena detto. E lo dico da una vita.
V. Allora, siccome i produttori sono forti, come ne abbatti il potere?
C. Prima di dare le risposte (che io ovviamente non ho, che credo nessuno oggi abbia) forse si dovrebbe cercare di porre le domande giuste. Temo che quella che tu poni non lo sia. Il fatto è che fa riferimento ai modelli storici delle sinistre, che non servono più. La storia è una lunga serie di fatti che prima non c’erano stati. La Rivoluzione Francese, la Rivoluzione Sovietica, sono stati eventi mai accaduti prima. E se oggi l’intera comunità scientifica mondiale chiede il taglio del 60% dei gas serra, questa è una rivoluzione.
V. Allora anche Kyoto è stata una rivoluzione …
C. Avrebbe potuto esserlo, ma la timidezza delle proposte, e soprattutto l’ostilità dei grandi potentati economici, e la mancata firma di numerosi stati, Usa in testa, l’hanno di fatto vanificata. E’ rimasta però un preciso antefatto per tutte le direttive a seguire. Ma, permettimi, provo a girare a te la domanda. Tu chi attaccheresti? Dato e non concesso che in difesa dell’ambiente tu voglia abbattere questo potere, da dove cominceresti?
V. Comincerei dagli oppressi. Un’organizzazione forte e anche violenta degli oppressi, tale da imporre il suo potere. Perché combattere il consumismo, significa fronteggiare interessi fortissimi, e ci vuole un forza enorme per vincerli.
C. Quali oppressi? Ce n’è di tanti tipi… Io proverei a fare un altro discorso. Tra le sinistre e l’ambientalismo, non’ c’è mai stato un feeling positivo. Credo che sia stato un grave errore, delle sinistre innanzitutto, ma anche dei Verdi. Quando si litiga ognuno dà il peggio di sé. L’errore delle sinistre è innanzitutto aver trascurato il fatto che a pagare più pesantemente i danni ambientali sono sempre i poveri. Sono gli operai che lavorano su processi tossici e cancerogeni. I morti della Montedison, di Seveso, di Bohpal, te li ricordi? Sono quelli che non riescono a salvarsi dalle alluvioni, i ricchi se le cavano sempre in qualche modo… E i profughi da terre desertificate, da laghi e fiumi senza più pesce, da paesi sommersi nella costruzione di centrali idroelettriche… Oggi si calcolano sui 50 milioni i profughi ambientali. Tu parli di oppressi: non sono degli oppressi tutti questi?
V. Ma voi questo aspetto sociale lo mettete poco in rilievo…
C. Io l’ho sempre detto. E scritto, anche sul manifesto. Ma le sinistre sono rimaste ferme a una miope difesa della fabbrica, anche inquinante, in nome dell’occupazione. Che è un problema reale, chi lo nega, ma non cancella la gravità del problema ecologico, anche in rapporto al benessere dei lavoratori.
V. E i verdi non hanno saputo fare altro che ridurre il discorso alle scempiaggini di un antindustrialismo indiscriminato. Gli ambientalisti seri devono darsi da fare per superare queste posizioni.
C. E le sinistre devono capire che la crescita da loro invocata ogni tre parole non solo distrugge l’ambiente, ma non risolve nulla sul piano sociale. Negli ultimi decenni il prodotto ha continuato a salire, ma sono aumentate, e fortemente, anche le disuguaglianze. Lo dicono tutti, persone al di là di ogni sospetto di estremismo, come Stiglitz, Fitoussi, e Soros, perfino Lutwak… Allora perché proprio le sinistre debbono intestardirsi su questa strada?
V. Ma insomma per i poveri Cristi, che si fa? Chávez, ad esempio, è socialista, per prima cosa vuol dar da mangiare agli affamati, e che fa, aumenta lo sfruttamento del petrolio, cerca di venderlo bene… E’ un circolo vizioso.
C. Usa gli strumenti disponbili. Che altro può fare? Oggi tutti i massimi problemi hanno assunto una dimensione sovranazionale, che però condiziona anche i singoli paesi. Sono problemi che soltanto a livello sovranazionale si potranno risolvere, forse. E non dimentichiamo un altro fatto: La Fao, che non è un organismo antisistema, afferma che la produzione mondiale di cibo basterebbe a sfamare tutti. Ma circa il 40% del cibo prodotto in Occidente viene distrutto. Per tenere alti i dazi, per difendere varie categorie di produttori, ecc. Non si tratta dunque di produrre di più, ma di distribuire in modo meno iniquo.
V. I verdi di distribuzione non parlano. Inoltre la distribuzione avviene in questo modo perché ci sono poteri forti interessati a questo. come fare senza abbattere quei poteri? Tra voi ambientalisti, l’idea di abbattere un potere non c’è. Vogliamo costruire un potere contrapposto, vogliamo che insieme al problema dello sfruttamento proletario, tema fondamentale di tutti i vecchi socialismi, anche la distruzione dell’ambiente diventi fondamentale per le sinistre d’oggi. Quello che ci vorrebbe è un nuovo comunismo. Resta però il fatto che se oggi, rebus sic stantibus, riduciamo la produzione, noi facciamo solo disoccupazione e morti di fame.
C. Con tutti i nostri enormi progressi, scientifici e tecnologici, oggi saremmo in condizione di sconfiggere la povertà, di dare benessere a tutti, di vivere a lungo tutti in buona salute. Invece nel sud del mondo ci sono 850 milioni di persone affamate, mentre in Occidente l’obesità da sovralimentazione è diventata una malattia sociale: una sorta di tremenda metafora della società attuale. Saremmo in grado di produrre il necessario e anche non poco superfluo per l’intera popolazione del globo, lavorando tutti un tempo molto limitato. E invece abbiamo masse di disoccupati e di precari, gente soggetta a sfruttamenti da protocapitalismo, costretta a orari pesantissimi e a straordinari di fatto obbligati. Il tutto per produrre quantitativi crescenti di merci inutili, di durata sempre più breve, per lo più destinate nel giro di poche settimane a finire in discarica. E si torna all’inquinamento del mondo: tutto si tiene. Queste sono le tue res. Per esempio, riprendere l’idea della riduzione degli orari di lavoro, riprenderla seriamente, non sarebbe un buon inizio per smuoverle?
V. La riduzione degli orari non mi pare al centro del discorso ecologista…
C. Certo che no. Ma in fondo l’ambientalismo è un movimento, compito dei movimenti è porre una questione. La sintesi politica è compito delle forze politiche. E d’altronde l’ambientalismo indica soluzioni…
V. Sì, la decrescita. La decrescita, scusami, è una scemenza totale.
C. Non sono d’accordo. Certo, la decrescita non è un programma. Però indica inequivocabilmente quella che è la causa principale della crisi ecologica, cioè l’accumulazione capitalistica. E in un mondo che sa dire solo crescita crescita, gridare decrescita significa mettere la crescita, il Pil, la produttività, la competitività, tutti i totem dell’economia neoliberista, in rapporto con il disagio e le paure che lo squilibrio ecologico ha ormai creato tra la gente. Il movimento della decrescita riflette su un tipo di vita che non continui a mettere a rischio l’ecosistema e la nostra stessa sopravvivenza. Perché questo bisogna fare: ripensare radicalmente il nostro vivere.
V. No, contro tutto questo o il movimento ecologista diventa comunista o non si farà un passo avanti.
C. Secondo me, sono le sinistre che debbono diventare ambientaliste, facendo proprio tutto il positivo che l’ambientalismo ha detto, e devono saperlo usare per trarne una politica completamente diversa da quella attuale. E diversa anche da quella storica, che pur combattendo e spesso vincendo grosse battaglie a favore del lavoro, di fatto non ha mai messo in discussione l’ordine dato. Tu vorresti che i verdi diventassero comunisti… Ma quanti sono i comunisti oggi?
V. Pochi. Assai pochi.
C. Tu prima avevi ragione parlando di un nuovo comunismo. Ma le sinistre, nel loro non facile rapporto con i Verdi, non si sono accorte della dimensione eversiva che l’ambientalismo contiene. Che consiste appunto nella critica dell’accumulazione, che nessun comunismo, da Lenin a D’Alema, ha mai messo in discussione. Ma, il mondo è cambiato e diventa sempre più piccolo. Come dice Wallerstein, non ci sono nuovi spazi da occupare e utilizzare per la produzione di plusvalore, mentre la crescita, oltre ad essere ecologicamente distruttiva, dal punto di vista sociale oggi non dà risultati apprezzabili. Sarebbe necessario rileggere in questa chiave i problemi del mondo per tentare di mettere a fuoco un nuovo comunismo.
V. Fino a che voi Verdi non vi metterete in testa che occorre qualcuno che comandi, sarete solo dei predicatori inutili. Non basta dire cose giuste. Attorno agli obiettivi giusti bisogna organizzare una forza. Senza forza non si fa niente.
C. Tu sei ancora fermo alla rivoluzione armata, insomma…
V. Non penso alle armi, ma a un partito, a una forza sociale e anche politica e di cultura.
C. Io alla necessità della forza non ci credo, non ci voglio credere. La forza, anche usata per i fini migliori, finisce per imporre all’operazione un’impronta negativa, un’ipoteca che la snatura. E però, sono d’accordo, sarebbe necessario un soggetto forte che si facesse carico del problema. Io da tempo penso all’Europa. L’Europa con la sua storia, la sua cultura… L’Europa certo colpevole di orrendi misfatti, dal colonialismo alla shoah, ma anche patria dell’illuminismo, del socialismo, dei diritti del cittadino, dello stato sociale… potrebbe forse essere il moderno sovrano, capace di orientare il mondo, o quanto meno di sollecitarlo a farsi carico di un problema sempre più urgente. Certo, con questi industriali che non capiscono che stanno distruggendo la base stessa della loro attività.…Se il mare cresce, il deserti avanzano, i cicloni si moltiplicano…
V. Tra quanti anni questo accadrà?
C. Sta già accadendo. E un domani che pareva lontano è ormai qui.
V. Ma anche le energie rinnovabili… Se fai andare lo stesso meccanismo col sole o col vento invece che col petrolio, le cose non cambiano. E i Verdi puntano solo su questo…
C. Con energie rinnovabili attive su vasta scala i gas serra diminuirebbero, e questo non è trascurabile. Ma, sono d’accordo, è necessaria una strategia molto più complessa. I Verdi propongono anche molte altre cose, ma un compito di questa portata, come arrestare la catastrofe ecologica, cioè necessariamente cambiare il modello di produzione, distribuzione e consumo, non è cosa che possano fare i Verdi. Questo è un compito che tocca alle sinistre.
V. Sono d’accordo. Il difficile è il come…
C. Se ci fosse una precisa, consapevole, volontà politica delle sinistre, sarebbe una buona base di partenza. E ci sono anche cose che si potrebbero fare subito. Ad esempio, riscaldamento e refrigerazione: invece di soffrire il caldo d’inverno e il freddo d’estate, come accade oggi, regolare le temperature sui 20–21° d’inverno e 28–29° d’estate, in case uffici negozi di tutto il mondo: sarebbe un risparmio energetico niente male, eh?
V. Hai detto che si possono fare più cose…
C. Sì. Fabbricare merci destinate a durare di più, come accadeva una volta, e non programmare automobili, frigoriferi, lavatrici, da sostituire nel giro di quattro-cinque anni. E’ una cosa che non richiederebbe riconversioni industriali, solo volontà politica.
V. Con caduta dei consumi…
C. Appunto. Si parlava di rivoluzione, no? Ma si potrebbe pensare a una cosa che proponevo nel mio ultimo libro. Oggi le amministrazioni di sinistra, centrali e locali, non sono poche nel mondo. Se ognuna di esse confrontasse le proprie scelte economiche con una serie di norme da osservare, domandandosi ogni volta se si tratti di cosa necessaria, se non esistano più urgenti priorità, quali siano le ricadute dell’opera sul piano ambientale, sociale, sanitario, ecc. In Sicilia, ad esempio, non sarebbe il caso di risanare ferrovie vetuste o addirittura abbandonate, di riparare acquedotti che perdono quantitativi enormi di un liquido sempre più prezioso, o magari di fornire cancelleria ai tribunali, lenzuola agli ospedali, ecc. prima di ostinarsi sul ponte di Messina? Certo, se le sinistre fossero vere sinistre… O ancora: se il mondo decidesse di non fabbricare più armi. Lasciamo per un attimo tutte le ragioni pacifiste o semplicemente umane. Pensiamo solo a quanto inquina la produzione di quantitativi sempre crescenti di armi, il loro trasporto, e il loro «consumo». Ma, se mi consenti, vorrei finire con un’altra cosa, a cui penso da tempo. Io credo che il manifesto in tutto ciò potrebbe avere una funzione non trascurabile. Perché il manifesto è un giornale, ma è anche un soggetto politico. Ecco, perché il manifesto non fa propria la battaglia ambientalista, con dibattiti anche duri, magari con sedute di autocoscienza, ma anche con pubblici confronti con le sinistre istituzionali? Sono convinta che la cosa potrebbe risultare utile. Anche alla diffusione del giornale. Perché no?
Postilla
Singolare come non si accorgano che fanno lo stesso ragionamento. Non si modifica il rapporto tra produzione e consumo, se non si abbatte la preminenza del valore di scambio sul valore d'uso, la riduzione del lavorio a merce, se cioè non si supera il sistema economico capitalistico, se non esiste una blocco sociale capace di esercitare il potere, con il dominio o con l'egemonia. Ma ciò è impossibile finchè non si costituisce un blocco sociale alternativo a quello oggi egemone. D'altra parte questo non è possibile se nn si fa maturare nelle coscienze la consapevolezza dei problemi reali di oggi, tra i quali quello del disastro ecologico (e del disagio provocato dal paradigma della crescita indefinita della produzione di merci) non è certo irrilevante. Assumere come direzione di marcia l'uscita dal capitalismo (sia esso di Stato o privato) è la base di ogni politica capace di condurre l'umanità attuale e futura (anche il futuro dell'umanità deve preoccuparci) è inbdispensabile (e.s.)