[Inseriamo in chiaro la premessa e il sommario. Il testo integrale del documento è scaricabile in formato .pdf utilizzandoil collegamento in calce]
Premessa
Neppure dopo l’annunciato scoppio della bolla immobiliare che ha partecipato in modo consistente alla crisi dell’economia mondiale si sono voluti mettere in relazione: speculazione edilizia-immobiliare- finanziaria, peso dei mutui, disagio abitativo.
Prima di formulare delle proposte serie è necessaria un’analisi corretta. Questa manca da tempo, anche nella sinistra. Le proposte inefficaci fin’ora adottate sono frutto di analisi parziali e faziose. L’assenza di una lettura, tecnicamente, prima ancora che politicamente, corretta ha permesso di scegliere, senza doverne dare giustificazione, misure di contrasto all’emergenza abitativa che non hanno scalfito il problema. Gli obiettivi dichiarati non erano gli obiettivi perseguiti. La casa è diventata un’emergenza permanente di cui ci si occupa poco e male. Leggi e finanziamenti erogati negli ultimi tre decenni non hanno alleviato la grave condizione di disagio in cui versano milioni di famiglie italiane. Siamo al penultimo posto in Europa e il disagio si estende e cresce di intensità.
La Politica non ha una risposta, non ha una proposta.
Sommario
Perché la sinistra deve intervenire sul problema della CASA?
La casa fra bisogno e mercato
Un’analisi distorta una terapia inefficace
Il mercato immobiliare origine della crisi
Insediamenti abusivi - i senza tetto
Sfratti
Studenti e immigrati : il miglior business
La casa, le donne, la città
Errori di interpretazione dei fenomeni urbani
Mutui e pignoramenti
Bellezza, cultura, ambiente
Una periferia bella, sicura, inclusiva .
L’offerta degli alloggi sociali
Il Tavolo di concertazione sulle politiche abitative
Il Piano casa del governo Berlusconi
L’edilizia sociale in Europa
Carta europea dei diritti e inclusione sociale
Destra e sinistra, il coraggio della differenza.
La questione morale
Proposte
Il problema sociale dell’emergenza abitativa, pur reale e gravissimo, viene oggi utilizzato strumentalmente per portare a compimento lo smantellamento di quel poco di ruolo di indirizzo pubblico nella costruzione di un assetto sostenibile della città e del territorio sopravvissuto al trentennio di deregulation avviatosi nel 1977 con l’introduzione degli Accordi di Programma e coronatosi con l’art. 16 della L. n. 179/92 sui Programmi Integrati di intervento e con la loro dilagante diffusione nell’ultimo quindicennio.
Le vicende del Piano Nazionale di Edilizia Abitativa e l’uso che ne prospetta il Comune di Roma per mettere immediatamente in discussione un Piano Regolatore pur di per sé discutibile, ma comunque di recentissima approvazione, sono quanto mai istruttivi a proposito degli effetti di una governabilità senza progetto strategico.
Ma la strada era già stata aperta lo scorso anno con una legge della Regione Lombardia che consente ai Comuni di offrire ai privati la realizzazione di edilizia sociale convenzionata per un decennio su aree già destinate a servizi pubblici ancora inattuate.
Il principio sarebbe quello di considerare l’edilizia residenziale sociale al pari di servizi pubblici, consentendone l’attuazione ai privati per un periodo determinato, dopo di che quell’edilizia tornerebbe ad uso interamente privato.
E’ chiaro che in questo modo si incrementa il peso insediativo del fabbisogno di edilizia sociale (che dopo un certo periodo si riproporrebbe non essendo il vincolo permanente), anziché sottrarlo dalla quota di edificabilità totale sostenibile e si decurta la quantità di aree a servizi pubblici che la legislazione regionale dal 1975 ad oggi aveva consolidato attorno al parametro di 24-28 mq/abitante.
Vorrei ricordare che è stato il dilagare dell’urbanistica contrattata attraverso i Programmi Integrati di Intervento e gli Accordi di Programma per eventi eccezionali ormai divenuti ripetitivi (Colombiadi, Giubileo, Mondiali di calcio, Olimpiadi, ecc.; quella che Francesco Indovina ha icasticamente denominato “la città occasionale”) ad aver fatto sì che si potesse di fatto aggirare l’obbligo - tuttora vigente - di destinare dal 40 al 70 per cento del fabbisogno abitativo decennale ad edilizia economico popolare senza nemmeno sentire il bisogno di abrogare le leggi 167/62 e 865/71 che istituivano quell’obbligo.
E la sinistra ha talmente cancellato il senso di quell’esperienza del centro-sinistra storico, in cui si legava l’edilizia abitativa sociale ad una quota dell’edificabilità complessiva ammessa dagli strumenti urbanistici, da portarla nell’ultima campagna elettorale a rispolverare il populismo demagogico del Piano Fanfani-INA Casa degli Anni Cinquanta (non tanto dissimile dai mirabolanti orizzonti dell’housing sociale che ci vengono ammanniti oggi dai cantori del neo-liberismo urbanistico), come ultimo intervento in materia da prendere ad esempio !
A Milano, la vicenda di Expò 2015 vede Fondazione Fiera, egemonizzata da Comunione e Liberazione/Compagnia delle Opere grazie alle nomine formigoniane, offrire all’evento (che durerà un semestre) un patrimonio di 1 milione di mq di aree agricole acquisite in fregio al Nuovo Polo Fieristico di Rho-Pero, purché dal 2016 siano rese edificabili.
Quella di Fondazione Fiera non è un’operazione di pura valorizzazione immobiliare: questo va bene quando il Comune tratta con Ligresti o Cabassi sull’uso delle ultime aree agricole milanesi da questi egemonizzate o con Ferrovie dello Stato sull’uso edificatorio del milione e mezzo di metri quadri di scali ferroviari in dismissione. Lì di edilizia popolare non si parla proprio. Lì si tratta, semmai, di indurre Ferrovie dello Stato a comportarsi da coerente immobiliarista, anziché da erogatore del servizio ferroviario regionale, chiedendogli di reinvestire i proventi immobiliari a sostegno infrastrutturale (Secondo Passante Ferroviario) della densificazione edilizia nel capoluogo anziché sulla Gronda ferroviaria Novara-Malpensa-Orio al Serio o sul collegamento ferroviario di Milano al progetto elvetico TransAlp che convoglia le merci su ferro.
CL coi suoi rappresentanti in Regione, in Comune di Milano, in Fondazione Fiera ha, invece, un obiettivo ben più ambizioso di egemonia nel campo dell’housing sociale con le Cooperative di Compagnia delle Opere, cui bisognerà presentarsi genuflessi se a Milano si vorrà accedere a case a costo mediamente accessibile. Non è un caso che in Fondazione Fiera siano stati amabilmente cooptati alcuni rappresentati di CoopLombardia (Gianni Beghetto) e che fra i più strenui difensori del ruolo di Consorte nella vicenda Unipol/Banca di Lodi siano scesi in campo con ferventi articoli di stampa esponenti CL storici quali Cesana e Amicone o acquisiti dal migliorismo comunista milanese quali Ferlini e Scalpelli. Il piatto è così ricco che ci saranno contentini anche per chi si acconcia a riconoscere a CL il ruolo di maestro delle danze.
Ora, vi è un punto che vorrei sollevare. Ed è che sia nel caso delle aree per Expò 2015 che in quelle dell’Agro Romano non c’è emergenza occasionale o sociale abitativa che tenga per evitare che i Piani di intervento relativi debbano essere sottoposti per normativa europea a Valutazione Ambientale Strategica (VAS), che tra le proprie procedure ha quella di verificare di aver esperito ogni possibile soluzione per limitare il consumo di territorio, utilizzando ad esempio aree dismesse da usi edificatori pregressi. E sarà bene che qualcuno ricordi a Lor Signori che in carenza di ciò si può far ricorso alla tutela giurisdizionale dei TAR e della Corte di Giustizia Europea.
Vi è un altro aspetto che vorrei sollevare, ed è che l’asserita necessità di contrattare coi privati dove realizzare l’edilizia sociale anche in deroga ai PRG sarebbe resa inevitabile dalla carenza di risorse pubbliche. Io dico che in realtà vi è una risorsa pubblica che i Comuni colpevolmente disperdono, ed è il contributo commisurato al costo di costruzione, introdotto dalla L. 10/77 (oggi agli artt. 16-19 del DPR n. 380/2001- TU Edilizia), che ammonta mediamente al 4-6% del costo corrente di costruzione dell’edilizia residenzale e al 10% del costo reale dell’edilizia direzionale e commerciale.
La L. 10/77 prevedeva che tale contributo non fosse pagato da chi convenzionava i prezzi di affitto e vendita dell’edilizia residenziale (cosa che i privati si sono ben guardati dal fare) e che se pagato dovesse prioritariamente essere destinato al risanamento del patrimonio edilizio esistente e degradato e solo in subordine alla realizzazione di ulteriori opere di urbanizzazione. I Comuni in realtà, a loro volta, ben volentieri lo hanno incassato e tuttora incassano destinandolo – come ormai gran parte degli oneri urbanizzativi, dopo il trattamento che la Legge ha subìto nella conversione in TU dal duo Bassanini/Tremonti con la illegittima scomparsa del suo art. 12 che obbligava le Tesorerie a versarli in un conto vincolato – a spese correnti di bilancio.
Insomma, il patrimonio legislativo lasciatoci in eredità dal centro-sinistra storico degli Anni Sessanta-Settanta ci aveva consegnato un meccanismo che legava l’intervento sociale in campo abitativo alle previsioni insediative pubblicamente determinate e alle risorse economiche che esse generano. Ce lo siamo di fatto lasciato smontare pezzo a pezzo senza che neanche fosse ufficialmente abolito (le leggi che ho citato sono tuttora in vigore !), e ora ci sorprendiamo che la pressione dell’irrisolta e a lungo trascurata emergenza sociale abitativa ci venga rivolta contro per scardinare ulteriormente il controllo pubblico del territorio, in nome di un neo-liberismo che pretende di curare i difetti di regole il cui difetto è stato di non essere state più o mai adeguatamente applicate !
Di fatto stiamo tornando al periodo delle convenzioni senza Piano Regolatore complessivo che caratterizzò in modo caotico lo sviluppo urbano degli Anni Cinquanta e Sessanta e si concluse con l’evento simbolico della frana di Agrigento del 1966 e l’approvazione l’anno successivo della Legge Ponte che subordinava ogni accordo coi privati ai limiti localizzativi e quantitativi predefiniti dai Piani Regolatori.
Vi è solo da sperare che non occorra attendere una nuova frana di Agrigento (magari questa volta non più edilizia, ma ecologico-ambientale e socio-economica) per renderci conto della strada su cui siamo tornati a metterci.
Non dovrebbe, quindi, sorprendere che, in questa legislatura, a promuovere l’evoluzione dell’urbanistica in economistica - nello spirito dell’invincibile attrazione fatale tra i deputati milanesi Lupi (CL/PdL) e Mantini (PD) già estensori nelle scorse legislature di inusitate proposte bipartisan di legislazione sul territorio che smantellavano completamente quell’eredità e nuovamente eletti in Parlamento in schieramenti dai programmi politici virtualmente alternativi su tutto eccetto le regole istituzionali -, ancor più che la riproposizione convergente dei loro nuovi recenti ddl sul governo del territorio, sia il Documento Economico Programmatico Finanziario di Tremonti, approvato dal Governo per decreto-legge nel giugno scorso e i cui effetti perversi sulla questione urbanistica e abitativa abbiamo discusso stamane.
Non si tratta, tuttavia, solo di singoli episodi degenerativi: i Comuni, quasi senza più differenza tra amministrazioni di destra o di sinistra e sempre più diffusamente di fronte alle ristrettezze di bilancio, sembrano ritenere di poter ricorrere “ad libitum” alla modifica dei PRG tramite lo strumento dei PII, degli Accordi di Programma, a patto di dimostrare che una quota stabilita discrezionalmente del vantaggio economico che ne deriva al privato venga devoluta loro e che dell’utilizzo di tale quota possano poi disporre a piacimento. Il territorio è visto un supporto “corvéable à merci” rispetto alle esigenze di valorizzazione economica richieste dal mercato, visto che le ricadute negative si vengono a manifestare molto più in là nel tempo rispetto a quelli della congiuntura economica e delle scadenze politico-amministrative.
Ad esempio, i Comuni di Milano e di Sesto S.G., pur con maggioranze amministrative alternative, competono allegramente tra loro nel proporre previsioni edificatorie di 1 mq/mq di indice territoriale, con il quale è impossibile non solo attuare i 26,5 mq/abitante di spazi pubblici della gloriosa Legge Regionale del 1975 (la prima ad essere approvata dopo l’avvento delle Regioni nel 1970; tutte le altre, poi, si sono attestate su standards pubblici tra i 24 e i 28 mq/ab.), ma quasi neppure i 18 mq/abitante del DM del 1968; e, comunque, i 17,5 mq/abitante di servizi pubblici generali dei PRG si attuerebbero così a carico dei cittadini, tramite l’aumento del carico edificatorio, anziché dei promotori fondiario-immobiliari, come voleva la Legge Ponte del 1967.
Ma c’è ancora qualcuno che voglia davvero dar seguito coerente alle parole d’ordine di “città e territorio come beni comuni”, risorsa strategica da sottrarre, quindi, alla dominanza univoca del mercato ?
Il testo riproduce sostanzialmente l’intervento svolto dall’autore al convegno promosso dall'associazione Asset, che si è tenuto il 12 novembre 2008 alla Sala delle Colonne della Camera dei Deputati col titolo "Case senza gente, gente senza case".
Da Bolzano, città da primato per i servizi ai cittadini, amministrata dal centrosinistra-Svp, è partito il nuovo progetto di social housing, case sociali destinate ai giovani sino a 30 anni: alloggi fatti costruire dal Comune su un proprio terreno e che resteranno di proprietà comunale.
Gli enti che li costruiscono rientreranno dal loro investimento gestendo alloggi e affitti. «Sarà un affitto po' più di quello sociale Ipes, ma comunque meno di quello del mercato privato» dice Stefano Pagani, assessore ai Lavori pubblici che conta di vedere realizzati entro il 2012 una novantina di appartamenti in due palazzine gemelle. Saranno appartamenti mini, tagliati su misura di giovani, single o in coppia, sposati e no. Il tutto nel nuovo quartiere Casanova, alla periferia della città: 37 monolocali da 28 metri quadrati, 37 da 38 metri quadri e 17 trilocali da 48 metri quadrati. Dieci dei trilocali saranno a modulo e cioè con possibilità di collegarli ad altrettanti monolocali. Il progetto è firmato dall'architetto Bruno De Rivo.
«Gli alloggi saranno in affitto con contratti di tre anni rinnovabili per altri due. L'idea — spiega Pagani — è di far ruotare questi appartamenti a diversi affittuari. Non case per studenti ma per giovani che lavorano ». I costi per le due palazzine sono di 7,3 milioni di euro. Per il finanziamento, grazie anche alle possibilità offerte dall'ultima legge provinciale sull'edilizia — aggiunge Pagani — si pensa a un sistema misto, con il privato che si affianca al pubblico. Protagonista dell'operazione, la Lega CoopBund si è già detta disponibile: fu l'organizzazione a lanciare per prima l'idea della
cheap house, le case in affitto calmierato. Un altro ente interessato, dice ancora l'assessore Pagani, è PenspLan, il fondo regionale pensioni.
I due edifici avranno anche un centinaio di parcheggi sotterranei e spazi per un servizio di lavanderia oltre a una sala per gli hobby e una sala di proiezione. Sui costi dell'affitto l'assessore non si sbilancia: «Qualcosa in più del canone sociale degli alloggi dell'istituto provinciale di edilizia abitativa Ipes» un ente che ha 14 mila appartamenti la cui assegnazione — ripartita sulla base del bisogno ma anche tenendo conto della composizione linguistica della popolazione italiana, tedesca e ladina— sta inevitabilmente sentendo anche la forte pressione della presenza di extracomunitari che occupano il 5% degli alloggi. Comunque per gli alloggi sociali Ipes si può arrivare a pagare un massimo di affitto di 5,8 euro al metro quadrato. Per i «bamboccioni» (come Tommaso Padoa-Schioppa definì i giovani che non lasciano la casa dei genitori) l'affitto sarà qualcosa in più ma inferiore a quelli di mercato. La destra di Unitalia ha protestato: «Siamo contrari a un progetto che agevola i bamboccioni anziché le famiglie». «Si è conosciuto un problema esistente da tempo: quello di una fascia di giovani troppo ricca per entrare nelle graduatoria sociale degli alloggi provinciali Ipes, ma troppo povera per fare un mutuo o per affrontare il libero mercato», risponde Alberto Stenico, presidente della LegacoopBund dell'Alto Adige.
Postilla
Il progetto dell'amministrazione comunale di Bolzano sembra una buona risposta ad un problema, quello della casa, che investe percentuali di popolazione destinate ad accrescersi: accanto ai "bamboccioni", ad esempio, quelle fasce di immigrati che contribuiscono in maniera sempre più consistente al PIL nazionale e dovrebbero aver diritto, Maroni permettendo, a condizioni abitative dignitose. O ancora semplicemente quelle persone, singole o nuclei, che vanno ridisegnando, Ratzinger permettendo, una nuova mappa della famiglia e della socialità e che, di fronte alla recessione di questi ultimi anni, faticano a mantenere una casa decorosa, prima condizione per sopravvivere alla tempesta economica e sociale che si addensa sempre più minacciosa.
L'esempio virtuoso che segnaliamo ha, peraltro, antecedenti storici di assoluto rilievo in alcune applicazioni della legge n.167, in quei progetti di cooperazione su proprietà condivisa che alcune amministrazioni pubbliche - Emilia Romagna e Toscana su tutte - sperimentarono con successo a partire dalla seconda metà degli anni sessanta. (m.p.g.)
Una casa da 700 milioni
di Maurizio Maggi
Tanto costa il piano del governo a favore dell'edilizia sociale. E punta su società miste tra pubblico e privato. Obiettivo: 80 mila nuovi alloggi in dieci anni. Con affitti che non superino il 35 per cento del reddito degli inquilini
Per quanti avevano sperato in un piano casa di dimensioni 'fanfaniane', i 700 milioni da spendere alla svelta messi sul piatto dal governo guidato da Romano Prodi per affrontare l'emergenza immobiliare sono una parziale delusione. La sinistra radicale si lamenta perché i quattrini stanziati per risolvere le emergenze con l'articolo 21 del decreto legge collegato alla Finanziaria per il 2008 sono pochi. I fautori dell'intervento degli investitori non pubblici nel residenziale da affittare a prezzi ragionevoli, invece, non riescono a intravvedere con sufficiente chiarezza, nelle dieci righe dell'articolo 41, l'auspicata apertura ai privati per la costruzione e la gestione delle case da destinare alle fasce meno abbienti della popolazione. Il primo articolo stanzia 550 milioni che, anticipa a 'L'espresso' Anna Maria Pozzi, direttore tecnico di Federcase (la federazione degli ex Iacp, gli Istituti autonomi delle case popolari), saranno probabilmente spesi così: metà per il recupero e la manutenzione, il 30 per cento in nuove costruzioni e il 20 per cento per l'acquisto di alloggi già esistenti. "è un primo passo che darà respiro ai casi più drammatici di emergenza sociale, ma non è quello che ci aspettavamo, sulla base del fabbisogno necessario per il recupero dell'edilizia pubblica fatiscente", commenta Pozzi. I soldi destinati ad attuare l'articolo 41 sono ancora meno, 150 milioni.
Un topolino che però potrebbe partorire la montagna. Infatti non serviranno a mettere in moto il mega-piano da un milione di alloggi pubblici caldeggiato da Carlo Puri Negri, boss di Pirelli Real Estate e vicepresidente di Assoimmobiliare, però possono dare una bella scossa a un mercato, quello della realizzazione di case 'popolari', che in Italia è statico da anni. Nonostante le stime prudenziali di Federcasa dicano che ci sarebbe bisogno di almeno 600 mila abitazioni ad affitti contenuti. "Dal crollo delle quotazioni del mattone di metà anni Novanta, a lungo ci si è illusi che la casa non fosse più un problema di massa, e per di più le Fondazioni bancarie hanno dovuto cedere il patrimonio immobiliare per legge", sottolinea Sergio Urbani, direttore della Fondazione Social Housing della Cariplo. E peraltro la cronaca anche molto recente spiega chiaramente come l'inefficienza nel maneggiare l'edilizia pubblica galoppi sia quando si vende sia quando non si vende. Il sindaco di Milano, Letizia Moratti, ha avviato un'indagine per capire chi occupa il patrimonio immobiliare del Comune e il governatore del Lazio, Pietro Marrazzo, ha invitato gli istituti delle case popolari della regione a sospendere le vendite dopo aver scoperto che appartamenti di qualità erano stati ceduti a prezzi pari a anche a un decimo del loro valore di mercato.
Ma ecco come l'articolo 41 del decreto, voluto dal ministero dell'Economia e delle Finanze con il coinvolgimento dei ministeri delle Infrastrutture e della Solidarietà sociale può riavviare il motore dell'edilizia calmierata. Senza appesantire i conti pubblici. Innanzitutto, si affida all'Agenzia del demanio il compito di creare una società che promuova la formazione di "strumenti finanziari immobiliari a totale o parziale partecipazione pubblica", per comprare, recuperare, ristrutturare immobili da abitazione. A disposizione dell'iniziativa, il governo stanzia 150 milioni da investire entro fine anno. Sembra una dichiarazione di principio perché la norma dice che gli strumenti possono essere "a totale o a parziale partecipazione pubblica". Dichiara Gualtiero Tamburini, presidente di Assoimmobiliare e dell'Istituto di ricerche Nomisma: "Sul tema dell'edilizia residenziale c'è ben altro da fare: occorre creare le condizioni per il ritorno degli investitori privati, che devono poter intervenire in tutti i segmenti della casa, da quella più propriamente sociale e pubblica fino a quella libera ma convenzionata". E Carlo Ferroni, direttore generale dell'Ance, che considera le decisioni governative "un passetto", si augura che l'articolo 41 sia interpretato per in maniera decisamente 'aperturista': "Gli strumenti devono essere veramente misti, altrimenti si risolverà ben poco".
Le naturali preoccupazioni di Ferroni e Tamburini, tuttavia, potrebbero essere almeno parzialmente fugate se l'applicazione dell'articolo 41 seguirà le linee guida dello studio dell'Agenzia del demanio. Secondo quanto risulta a 'L'espresso', infatti, l'agenzia diretta da Elisabetta Spitz ha messo a punto un progetto per creare 60-80 mila alloggi nel prossimo decennio, da affittare a cifre che non superino il 35 per cento del reddito degli inquilini. Un traguardo raggiungibile solo se l'operazione verrà sostenuta almeno per metà da investimenti privati e se, una volta locati, gli immobili siano economicamente autosufficienti. Come centrare l'obiettivo? Inizialmente con una o più società di sviluppo, che dopo la realizzazione dell'immobile, possano trasformarsi in Società di investimento immobiliare quotate, le famose Siiq. Per costruire 8 mila appartamenti all'anno sono necessari circa 1,4 miliardi di euro l'anno. Trovare i soldi dai privati che si candidano a gestire i patrimoni anche con rendimenti inferiori a quelli medi di mercato (però certi) e soprattutto dagli investitori istituzionali, non dovrebbe essere difficile. Le compagnie di assicurazioni, per esempio, potrebbero tornare al mattone residenziale abbandonato qualche anno fa, e anche le fondazioni bancarie, che per statuto fanno investimenti etici. Chi sicuramente sarà della partita è la Cassa depositi e prestiti, che già si è impegnata per la valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico finanziando l'edilizia popolare dei Comuni attraverso il meccanismo della concessione lunga, ossia degli affitti a 50 anni. Ma la Cdp potrebbe anche entrare direttamente nelle società promosse dal Demanio o nelle Siiq, oltre che rivestire il ruolo di finanziatore di lunga lena.
Dal lato più o meno privato e istituzionale, dunque, il percorso immaginato con l'articolo 41 non dovrebbe trovarsi di fronte insormontabili ostacoli. Ma sul versante pubblico, da dove dovrebbero arrivare i 7 miliardi di euro (in dieci anni) necessari a coprire appunto la metà del piano? I soldi freschi, ovviamente, saranno pochini. Sempre secondo il progetto allo studio dell'Agenzia del demanio, gli enti locali e lo Stato dovrebbero entrare nelle Spa di sviluppo immobiliare apportando aree ed edifici e offrendo sgravi fiscali e riduzione di costi amministrativi. Gli 80 mila alloggi sarebbero destinati a famiglie con redditi compresi tra i 1.100 e i 1.300 euro mensili. Le abitazioni dovrebbero avere una superficie media di 70 metri quadri e l'affitto calmierato dovrebbe aggirarsi tra i 400 e i 500 euro al mese. Significherebbe pagare 60-90 euro al metro quadro all'anno, mentre l'attuale canone, nelle grandi città, si aggira intorno ai 150 euro. Infine, uno dei tasti più importanti del piano: la redditività a regime per le Siiq. Al Demanio pensano che debba essere del 5,25 - 5,75 per cento lordo. Non strepitosa, ma neanche da buttare. Per esempio, l'obiettivo atteso della Oikos è del 5 per cento lordo. Oikos è la società costituita dalla Fondazione della Cassa di risparmio di Alessandria, dal Comune e dal gruppo privato Norman per realizzare 54 appartamenti e 40 box da locare, con la formula dell'affitto-mutuo (dopo 35 anni la casa diventa di proprietà degli inquilini) per le fasce più deboli.
Il 'social housing' (e cioè l'edilizia a prezzi calmierati) richiede che anche l'operatore immobiliare abbia un approccio etico all'investimento. Tra le fondazioni più attive nel settore c'è la Cariplo, che ha costituito apposta la Fondazione Housing Sociale, ha realizzato il Villaggio Barona a Milano e promosso il primo fondo immobiliare dedicato all'edilizia sociale, Abitare Sociale 1, raccogliendo 85 milioni di euro. Lavora a tre progetti a Milano (750 alloggi) e uno a Crema (100 alloggi). In ordine sparso, da Bologna a Siena, da Torino a Padova, Rovigo e Verona, le fondazioni bancarie hanno risolto casi socialmente difficili. Ora tocca allo Stato pensare un po' più in grande. Il primo mattone è l'articolo 41.
Tra gli ultimi nella Ue
Degli oltre 214 milioni di alloggi che rappresentano lo stock residenziale dei Paesi aderenti all'Unione europea, circa 34 milioni sono riconducibili al cosiddetto 'social housing', definizione che accomuna tutti i settori residenziali che implicano doveri di interesse pubblico e affitti bassi. "L'Italia è in una situazione simile a quella di Irlanda, Belgio, Finlandia e Lussemburgo: un'alta percentuale di abitazioni è occupata dai proprietari stessi e c'è una bassa percentuale di alloggi sociali", spiega Mario Breglia, presidente di Scenari Immobiliari, "eppure lo Stato ha ridotto la dotazione finanziaria del fondo sociale per l'affitto: istituiti nel 1999, era di 500 milioni, adesso è sceso a 230 milioni". Nel convegno sull'Housing Sociale organizzato da Somedia a Milano il 4 ottobre, Breglia ha presentato uno studio sulla situazione dell'edilizia pubblica o calmierata a livello europeo. Tra i Paesi dell'Ue, la Germania (dove il limite di reddito per farsi assegnare una casa popolare è di circa 1.750 euro netti al mese) guida la classifica con 11,6 milioni di alloggi sociali, seguita da Gran Bretagna con 5,4 milioni e Francia con 5 milioni, mentre l'Italia è staccata, a quota 1,5 milioni. Paesi Bassi, Svezia e Regno Unito hanno una grossa dotazione di appartamenti a canone sociale e spendono per per le case popolari il 3 per cento del Pil. Grecia, Portogallo e Spagna sono i fanalini di coda: pochi alloggi sociali e spesa pubblica inferiore all'1 per cento del Pil.
Prezzi in discesa dal 2009
di Stefano Livadiotti
Per il mattone è in arrivo la grande frenata. Dopo otto anni di boom ininterrotto, che ha visto passare di mano 8 milioni di case (pari al 30 per cento dell'intero stock abitativo del paese), con un'impennata dei prezzi del 51 per cento (del 65 per cento nei comuni più grandi), il ciclo si è invertito. Nei primi mesi del 2007 le compravendite (che avevano chiuso il 2006 con un più 1,3 per cento) hanno fatto registrare una battuta d'arresto (meno 3,5 per cento). Che verrà seguita, tra 12-18 mesi (il tempo necessario alla riduzione delle aspettative di chi vende), da una flessione delle quotazioni. Se il mercato si sgonfia, l'offerta si adegua: gli appartamenti di nuova costruzione, che sono passati da poco meno di 193 mila nel 1999 al picco di 336 mila quest'anno (per un valore di 40,5 miliardi di euro), diminuiranno a 323 mila nel 2008, per poi scendere fino a 308 mila nel 2009.
Il rapporto Cresme-Saie sul mercato delle costruzioni, che verrà presentato il 23 ottobre a Bologna in occasione dell'apertura del Salone internazionale dell'edilizia, e che 'L'espresso' è in grado di anticipare, attribuisce lo sboom a tre principali fattori. Primo: dopo anni di progressiva riduzione, la dimensione dei nuclei familiari tende oggi ad assestarsi. Secondo: complici la scarsità di acquirenti e il rincaro dei mutui, sta calando la domanda da parte di chi è già proprietario di una casa, ma vuole sostituirla con un'altra, magari più grande. Terzo: si sta affievolendo la spinta dei figli del baby boom della seconda metà degli anni Sessanta (i 'bamboccioni' secondo la definizione del ministro Tommaso Padoa-Schioppa), che con ritardo rispetto alle generazioni precedenti hanno lasciato la casa paterna in questi anni. La fascia di popolazione con età compresa tra i 30 e i 39 anni, quella che in Italia esprime la maggiore propensione alla creazione di nuove famiglie e alla ricerca di una casa, è in diminuzione: dopo essere salita dagli 8 milioni del 1991 ai 9,5 del 2002, scenderà di nuovo a 8 milioni nel 2012 e poi a 7 quattro anni dopo.
A tirare resta così soprattutto la domanda degli immigrati, che già oggi rappresentano il 13 per cento del mercato immobiliare italiano. E che in prospettiva peseranno sempre di più: se nel 2006 le presenze straniere erano a quota 3,8 milioni (il 7 per cento della popolazione italiana) nei prossimi dieci anni arriveranno a 7 milioni. Nel 2006 solo 300 mila di loro vivevano in una casa di proprietà. Mentre 2 milioni e 200 mila pagavano un affitto.
L'idea contenuta nell'articolo 41, quello di realizzare alloggi di edilizia sociale con fondi privati non speculativi è giusta. Così, ad esempio, in Inghilterra hanno fatto fronte già dal 1998 al calo di risorse pubbliche destinate a questo scopo. I privati realizzano alloggi da destinare ad affitto calmierato "accontentandosi" di una redditività, prodotta dai canoni calmierati, che è intorno al 5%. Ma allo stesso tempo la scrittura dell'articolo lascia ampi margini di manovra a soluzioni "all'italiana". Ad esempio non si fa cenno al fatto che la gestione di questi immobili deve essere affidata a un soggetto diverso dal costruttore. Per questo bisognerebbe favorire anche in Italia la formazione di un registro di proprietari sociali di immobili, ad esempio associazioni no profit, alle quali affidare la gestione degli alloggi sociali realizzati con fondi privati non speculativi. Il rischio, diversamente, è la cosiddetta edilizia convenzionata. Ma questa l'abbiamo già conosciuta e se ne conoscono anche i mali. L'uso delle aree demaniali è una opportunità straordinaria per avviare anche in Italia il settore immobiliare intermedio tra la casa popolare e il libero mercato, contribuendo così a liberalizzare un mercato immobiliare privato la cui finanziarizzazione lo ha reso rigido e poco capace di interpretare i reali bisogni.
Un passo nella direzione giusta, bisogna solo accertarsi che anche la testa guardi nella stessa direzione. (g.c.)
ROMA - "Una vera e propria truffa" sono queste le parole con cui il segretario nazionale del Sunia, il Sindacato Unitario Nazionale Inquilini ed Assegnatari, Luigi Pallotta, definisce il decreto approvato ieri alla Camere, mentre il piano casa annunciato dal ministro Tremonti viene accusato di essere "l'ennesimo sostegno ai costruttori nostrani che per effetto della crisi vedono crollate le compravendite".
Con il decreto sostiene il Sunia, "si tolgono 550 milioni di Euro destinati nel 2007 all'emergenza abitativa, ed in particolare alle famiglie disagiate sottoposte a sfratto, per destinarli ad un fondo nazionale che dovrà finanziare un piano casa tutto da definire entro sei mesi, che dovrà successivamente essere attuato dalle Regioni e dai Comuni".
Gli alloggi poi, secondo il sindacato saranno "in proprietà, quindi, che non servono a nulla e vanno nella direzione opposta alla necessità che lo stesso governo e gli stessi costruttori hanno, sino a poche settimane fa, dichiarato: quella di costruire e recuperare alloggi in locazione a canoni sostenibili dai redditi delle famiglie in cerca di abitazione".
"O il Ministro nella fretta non si è accorto che nel testo è scomparsa la parola 'locazione' da quello che dovrà essere il futuro piano casa - continua Pallotta - oppure non conosce le esperienze europee di social housing che sono in larghissima parte per l'affitto e non per la proprietà. Nella realtà dei fatti e non delle dichiarazioni - conclude il Sunia - vengono tolti i fondi da quella che invece era una prima concreta risposta all'emergenza abitativa, fatta non solo di soldi ripartiti fra le Regioni".
"Come se non bastasse - prosegue - vengono sottratti altri 280 milioni già destinati ad alloggi in locazione a canone sostenibile, nei contratti di quartiere, a dimostrazione ulteriore di quale indirizzo il governo intende dare alla politica abitativa".
Per ben due volte Bertinotti, intervenendo in televisione come leader di Sinistra Arcobaleno, propose il ritorno ad una sorta di Piano Fanfani, ultimo episodio – a suo dire – di intervento pubblico in campo residenziale in Italia. Gli scrissi facendogli rilevare che così cancellava persino la memoria degli interventi attuati dal centro-sinistra col Piano decennale per la casa finanziato dalla Legge 865/71, fortemente voluta soprattutto dal lombardiano Michele Achilli, di cui pure per contiguità di origine politica avrebbe dovuto conservare il ricordo; che il senso politico di quel modo di intervento era radicalmente all’opposto del populismo episodico del Piano Fanfani, proponendosi invece un’edilizia popolare come quota programmata (40-70%) dell’insediamento totale previsto nei PRG.
Mi fece rispondere che avevo ragione e se ne scusava.
Vedo ora che analogo obnubilamento affligge Fuksas, già suo amico e strenuo sostenitore, ancorché oggi trasmigrato in altri lidi amicali, etico-sociali e politici, dopo averlo visto da Presidente della Camera esibire la spilla pacifista ad una parata del 2 giugno. Che volete: ognuno ha le sue suscettibilità, le sue inclinazioni, i suoi interessi da tutelare.
Mi rimane, però, un dubbio atroce: sarà stato uno dei due a condizionare l’altro in simili obnubilamenti della memoria storica e sociale ? E quale dei due sarebbe meno grave e preferibile l’avesse fatto ?
Giusto comunque preoccuparsi di cosa potrà succedere col faustiano “patto col diavolo” indotto da Expò 2015 a Milano: il nodo della questione sta proprio lì. Fondazione Fiera – egemonizzata da CL/Compagnia delle Opere – ha acquistato quasi un milione di metri quadri di aree agricole attigue al Nuovo Polo fieristico e la provvidenziale (?) occasione di sei mesi di Expò nel 2015 gliele renderà nel 2016 trasformate in aree edificabili ! Non è solo l’enorme guadagno (che pure ci sarà) a preoccuparmi, ma l’obiettivo di egemonia che con ciò CL persegue: per trovare casa a prezzi ragionevoli a Milano bisognerà passare genuflessi dalle cooperative di Compagnia delle Opere e di quanti verranno a patti con essa. Lo sanno bene i dirigenti di Coop Lombardia che hanno accolto il generoso invito a far parte del Consiglio direttivo di Fondazione Fiera; lo sanno bene gli architetti che attorno a queste occasioni di lavoro vedono svilupparsi il proprio futuro professionale !
E questo l’esito del fanfanismo del Terzo Millennio: l’assetto insediativo che ne sortirà sarà solo una variabile dipendente, quale che sia l’ecologismo e l’altermondialismo di cui si vorrà rivestirlo.
Che lo sappia bene Fuksas non mi sorprende, tutto concentrato com’è ad esaltare il suo ruolo di egocentrismo demiurgico, quale che ne sia l’occasione.
Ma la Sinistra riuscirà mai a ritrovare il senso di un proprio pensiero autonomo sul progetto della città e sul suo uso sociale?
Adesso si comprende perchè Bertinotti, a proposito di politica della casa, è rimasto così arcaico da riferirsi al Programma Ina Casa. Si comprende perchè ha mancato di riferirsi alla ben più compiuta strategia delineata, a partire dalla legge 167/1962 (quartieri integrati nell'ambito delle zone d'espansione dei PRG), con le successive leggi per la programmazione dell'edilizia abitativa pubblica, per il recupero dei quartieri e delle case degradate e sottoutilizzate, e infine per il controllo del mercato privato (equo canone). L'ignoranza, si può supporre adesso, non era sua, ma dei suoi consiglieri.
Le misure previste dal governo rafforzano e indeboliscono al tempo stesso l'edilizia pubblica. La scelta di vendere le case popolari agli assegnatari è solo apparentemente una soluzione per le difficoltà, anche finanziarie, degli Iacp. In realtà, la liquidazione del patrimonio e la convivenza forzata di proprietari e di inquilini che appartengono invece a fasce sociali problematiche finiranno per creare le premesse per l'ingovernabilità del sistema. Soprattutto nelle grandi realtà urbane, dove più acuti sono i problemi e maggiori i bisogni.
Il nostro sistema di protezione sociale ha una “prima linea” piuttosto sguarnita. Ogni intervento che vada a rafforzarla colma una lacuna e ci avvicina all’Europa.
La manovra finanziaria varata in giugno dal governo si occupa anche di edilizia pubblica, rafforzandola e indebolendola al tempo stesso. Nel saldo finale, tuttavia, sembra prevalere il segno negativo. Il giudizio non riguarda solo la quantità di alloggi a disposizione per tutelare i giovani e la fascia più debole della comunità, ma anche e soprattutto il destino finale dell’edilizia sociale. La scelta di vendere le case popolari agli inquilini rappresenta solo apparentemente una soluzione capace di risolvere le difficoltà, anche finanziarie, in cui si trovano gli istituti autonomi case popolari. In realtà, la liquidazione del patrimonio e la convivenza forzata di proprietari e di inquilini appartenenti a fasce sociali problematiche finiranno per creare le premesse per la complessiva ingovernabilità del sistema, soprattutto nelle grandi realtà urbane, dove più acuti sono i problemi e maggiori i bisogni.
L'edilizia sociale nella manovra
Il decreto legge n. 112 del 25 giugno 2008 contiene due norme sull’edilizia sociale che pure è da tempo competenza delle Regioni e non più dello Stato.
Il Piano casa, previsto dall’articolo 11, riprende interessanti modelli di carattere “sussidiario”, già adottati da alcune Regioni italiane, ad esempio la Lombardia e il Trentino, e previsti dall’ultima Legge finanziaria, all'articolo 1, comma 1154. Contiene infatti una serie di disposizioni per la realizzazione di alloggi secondo le logiche della finanza di progetto, ovvero riducendo al minimo indispensabile il ricorso a risorse gravanti sui bilanci pubblici.
La norma del decreto legge definisce nel dettaglio i potenziali beneficiari, individuandoli in un’area adiacente a quella del tradizionale disagio sociale più acuto, ovvero tra soggetti che possono sostenere canoni contenuti, ma comunque in grado di coprire i servizi del debito e gli oneri connessi alla finanza di progetto: le giovani coppie a basso reddito, i nuclei monoparentali, gli studenti, gli sfrattati. La stessa norma prevede la possibilità di utilizzare strumenti di finanziamento, come i fondi immobiliari, e il ricorso a incentivi di tipo urbanistico-edificatorio per coinvolgere i privati e ampliare l’offerta di edilizia sociale (anche l’urbanistica, per inciso, è competenza delle Regioni e non dello Stato).
Il secondo intervento, previsto all’articolo 13, riguarda invece misure per valorizzare il patrimonio residenziale pubblico delle Regioni. In particolare, l’indicazione è che si semplifichino le procedure per l’alienazione degli immobili degli istituti autonomi case popolari (Iacp), comunque denominati. Il secondo comma dello stesso articolo prevede che il valore degli immobili, da cedere agli assegnatari, sia definito con riferimento al canone di locazione pagato.
La previsione del decreto legge appare per molti aspetti problematica e contraddittoria.
Il primo aspetto riguarda il rapporto Stato-Regioni. Tutta la norma appare come una evidente invasione di campo di stampo “antifederalista”. Se il fondo previsto al comma 9 dell’articolo 11 sarà erogato alle Regioni con vincolo di destinazione, il provvedimento potrebbe risultare in conflitto rispetto ai pronunciamenti della Corte costituzionale in materia di rapporti finanziari Stato-Regioni. È poi probabile che non tutte le realtà territoriali si muoveranno con tempestività e sensibilità adeguate, soprattutto se le risorse dello Stato saranno, come sembrano, di consistenza modesta rispetto alle ambizioni del Piano casa. (1)
Il secondo aspetto riguarda l’impatto che potrà avere la combinazione delle misure previste all’articolo11 rispetto a quanto indicato nell’articolo 13.
L’articolo 11 allarga il patrimonio dell’edilizia sociale, con il ricorso a strumenti innovativi per l’esperienza italiana, ma l’articolo 13 prevede l’alienazione dell’esistente. Come già è avvenuto in passato, probabilmente si assisterà a una vendita a prezzi di favore, una svendita, da cui si ricaveranno risorse modeste. Occorrerà alienare almeno cinque alloggi per reperire le risorse necessarie a costruirne uno. E se la procedura si reiterasse nel tempo, è facile prevedere che nell’arco di qualche decennio, a forza di svendere l’esistente per finanziare il nuovo, l’edilizia sociale delle Regioni finirebbe per essere cancellata.
Una resa definitiva
Vi è poi un altro aspetto da rimarcare. La scelta di vendere sembra segnare la resa definitiva del pubblico come soggetto gestore dell’edilizia sociale. La crisi che attraversa gli istituti autonomi case popolari è nota e grave. Da anni, il patrimonio decade qualitativamente per assenza di adeguate manutenzioni. L’occupazione abusiva o in sub-affitto di alloggi è frequente. La morosità ampia. L’impunità diffusa. La responsabilità di tutto ciò va ricondotta in primo luogo a una normativa del settore concepita quando l’edilizia sociale era intesa come lo strumento in grado di garantire un alloggio ad ampie fasce di operai, artigiani e dipendenti pubblici. Per anni la “casa popolare” è stata intesa come un modo diverso per essere comunque proprietari: canoni molto contenuti, diritto alla permanenza anche con redditi abbastanza elevati, possibilità di subentro nell’alloggio da parte dei figli.
Il contesto economico-sociale è ora mutato e il modo migliore per valorizzare il patrimonio esistente dell’edilizia sociale è accrescere il turn-over degli alloggi. Oggi, i canoni sociali risultano per tutti gli inquilini estremamente modesti, e non solo per i più poveri. Un loro adeguamento è fattibile e consentirebbe di recuperare flussi consistenti di risorse da destinare a manutenzioni e nuove realizzazioni. Si potrebbe anche superare l’attuale rapporto di tipo amministrativo tra Iacp e inquilini, sostituendolo con un regolare contratto di affitto a condizioni convenzionate e di durata definita, anche se rinnovabile nel tempo se permangono le stesse condizioni economico-sociali. Agendo sulle soglie di permanenza e creando adeguati incentivi al rilascio di alloggi, soprattutto se di ampia superficie rispetto alle mutate esigenze di nuclei di vecchi occupanti, si potrebbero rendere disponibili appartamenti per nuove famiglie.
Questa strada si scontra ovviamente con interessi consolidati e ben rappresentati. Èperò in grado di dare una prospettiva a una politica sociale che rischia altrimenti di spegnersi, anche se potenzialmente e giustamente associata a una seconda componente di natura più sussidiaria, come quella implicita nel modello basato sulla finanza di progetto. Inoltre, la linea indicata dal decreto legge produrrà effetti sulla gestione stessa dell’edilizia pubblica. Difficilmente la vendita riguarderà tutte le unità di un singolo immobile. Di norma, vi saranno situazioni in cui, all’interno dello stesso edificio, convivranno proprietà pubblica e proprietà privata, inquilini abbienti che si sono comperati l’alloggio e altri che non se lo sono potuto permettere. Compariranno gli interessi di finanziatori privati che stipuleranno patti di futura vendita con assegnatari in età avanzata. Ci saranno nuclei di proprietari o persone che pagano canoni di mercato, per alloggi ormai privati, accanto a ex detenuti o tossicodipendenti, inviati dai servizi sociali. E tutto ciò sarà più accentuato nelle aree urbane, dove più necessaria è la presenza di edilizia pubblica da “prima linea”.
La compresenza di inquilini proprietari e inquilini ex-detenuti non ci sembra l’aspetto più preoccupante di queste norme. L’autore trascura invece un aspetto molto grave sotto il profilo urbanistico (e dell’equità). Le norme dell’articolo 11, commi 5 e 7 (vedi l' allegato in calce), consentono infatti agli operatori privati di realizzare alloggi usufruendo di aree e di “diritti edificatori” pubblici e di alienarli a prezzi di mercato dopo dieci anni. In parole povere: dispongo di un’area che il piano urbanistico destina all’agricoltura o a spazi pubblici (standard); mi impegno a realizzare “edilizia sociale”; il comune mi dà il “diritto edilizio”, e quindi la possibilità di costruire alloggi; li affitto per dieci anni ai prezzi stabiliti e poi ne faccio ciò che voglio. Prima dell’egemonia berlusconiana si chamava sordida speculazione immobiliare. Oggi si chiama “edilizia sociale”.
Allegato
Stralcio dal Decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, "Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione Tributaria"
Art. 11. Piano Casa
1. Al fine di superare in maniera organica e strutturale il disagio sociale e il degrado urbano derivante dai fenomeni di alta tensione abitativa, il CIPE approva un piano nazionale di edilizia abitativa, su proposta del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro per le politiche giovanili, previa intesa in sede di Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281. Il Ministero trasmette la proposta di piano alla Conferenza unificata entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto.
2. Il piano e' rivolto all'incremento del patrimonio immobiliare ad uso abitativo attraverso l'offerta di alloggi di edilizia residenziale, da realizzare nel rispetto dei criteri di efficienza energetica e di riduzione delle emissioni inquinanti, con il coinvolgimento di capitali pubblici e privati, destinati prioritariamente a prima casa per le seguenti categorie sociali svantaggiate nell'accesso al libero mercato degli alloggi in locazione:
a) nuclei familiari a basso reddito, anche monoparentali o monoreddito;
b) giovani coppie a basso reddito;
c) anziani in condizioni sociali o economiche svantaggiate;
d) studenti fuori sede;
e) soggetti sottoposti a procedure esecutive di rilascio;
f) altri soggetti in possesso dei requisiti di cui all'articolo 1 della legge n. 9 del 2007;
g) immigrati regolari.
3. Il Piano nazionale ha ad oggetto la realizzazione di misure di recupero del patrimonio abitativo esistente o di costruzione di nuovi alloggi ed e' articolato, sulla base di criteri oggettivi che tengano conto dell'effettivo disagio abitativo presente nelle diverse realtà territoriali, attraverso i seguenti interventi:
a) costituzione di fondi immobiliari destinati alla valorizzazione e all'incremento dell'offerta abitativa, ovvero alla promozione di strumenti finanziari immobiliari innovativi e con la partecipazione di altri soggetti pubblici o privati, articolati anche in un sistema integrato nazionale e locale, per l'acquisizione e la realizzazione di immobili per l'edilizia residenziale;
b) incremento del patrimonio abitativo di edilizia sociale con le risorse derivanti dalla alienazione di alloggi di edilizia pubblica in favore degli occupanti muniti di titolo legittimo;
c) promozione da parte di privati di interventi ai sensi della parte II, titolo III, del Capo III del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163;
d) agevolazioni, anche amministrative, in favore di cooperative edilizie costituite tra i soggetti destinatari degli interventi in esame, potendosi anche prevedere termini di durata predeterminati per la partecipazione di ciascun socio, in considerazione del carattere solo transitorio dell'esigenza abitativa;
e) realizzazione di programmi integrati di promozione di edilizia sociale e nei sistemi metropolitani ai sensi del comma 5.
4. L'attuazione del Piano nazionale e' realizzata con le modalità di cui alla parte II, titolo III, del Capo IV del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, ovvero, per gli interventi integrati di valorizzazione del contesto urbano e dei servizi metropolitani, ai sensi dei commi da 5 a 8.
5. Al fine di superare i fenomeni di disagio abitativo e di degrado urbano, concentrando gli interventi sulla effettiva consistenza dei fenomeni di disagio e di degrado nei singoli contesti, rapportati alla dimensione fisica e demografica del territorio di riferimento, attraverso la realizzazione di programmi integrati di promozione di edilizia sociale e nei sistemi metropolitani e di riqualificazione urbana, anche attraverso la risoluzione dei problemi di mobilità, promuovendo e valorizzando la partecipazione di soggetti pubblici e privati, con principale intervento finanziario privato, possono essere stipulati appositi accordi di programma, promossi dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, per l'attuazione di interventi destinati a garantire la messa a disposizione di una quota di alloggi, da destinare alla locazione a canone convenzionato, stabilito secondo criteri di sostenibilità economica, e all'edilizia sovvenzionata, complessivamente non inferiore al 60% degli alloggi previsti da ciascun programma, congiuntamente alla realizzazione di interventi di rinnovo e rigenerazione urbana, caratterizzati da elevati livelli di qualità in termini di vivibilità, salubrità, sicurezza e sostenibilità ambientale ed energetica. Gli interventi sono attuati, attraverso interventi di cui alla parte II, titolo III, Capo III del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, mediante le seguenti modalità:
a) trasferimento di diritti edificatori in favore dei promotori degli interventi di incremento del patrimonio abitativo destinato alla locazione a canone agevolato, con la possibilità di prevedere come corrispettivo della cessione dei diritti edificatori in tutto o in parte la realizzazione di unità abitative di proprietà pubblica da destinare alla locazione a canone agevolato, ovvero da destinare alla alienazione in favore di categorie sociali svantaggiate, di cui al comma 2;
b) incrementi premiali di diritti edificatori finalizzati alla dotazione di servizi, spazi pubblici e di miglioramento della qualità urbana;
c) provvedimenti mirati alla riduzione del prelievo fiscale di pertinenza comunale o degli oneri di costruzione e strumenti di incentivazione del mercato della locazione;
d) costituzione di fondi immobiliari di cui al comma 3, lettera a), con la possibilità di prevedere altresì il conferimento al fondo dei canoni di locazione, al netto delle spese di gestione degli immobili.
6. Ai fini della realizzazione degli interventi di cui al presente articolo l'alloggio sociale, in quanto servizio economico generale, e' identificato, ai fini dell'esenzione dell'obbligo della notifica degli aiuti di Stato, di cui agli articoli 87 e 88 del Trattato istitutivo della Comunità Europea, come parte essenziale e integrante della più complessiva offerta di edilizia residenziale sociale, che costituisce nel suo insieme servizio abitativo finalizzato al soddisfacimento di esigenze primarie.
7. In sede di attuazione dei programmi di cui al comma 5, sono appositamente disciplinate le modalità e i termini per la verifica periodica e ricorrente delle fasi di realizzazione del piano, in base al cronoprogramma approvato e alle esigenze finanziarie, potendosi conseguentemente disporre, in caso di scostamenti, la diversa allocazione delle risorse finanziarie pubbliche verso modalità di attuazione più efficienti. Gli alloggi realizzati o alienati nell'ambito delle procedure di cui al presente articolo non possono essere oggetto di successiva alienazione prima di dieci anni dall'acquisto originario.
8. Per la migliore realizzazione dei programmi, i comuni e le province possono associarsi ai sensi di quanto previsto dal testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267. I programmi integrati di cui al comma 5 sono dichiarati di interesse strategico nazionale al momento della sottoscrizione dell'accordo di cui all'accordo di cui al comma 5. Alla loro attuazione si provvede con l'applicazione dell'articolo 81 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616 e successive modificazioni ed integrazioni.
9. Per l'attuazione degli interventi previsti dal presente articolo e' istituito un Fondo nello stato di previsione del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, nel quale confluiscono le risorse finanziarie di cui all'articolo 1 comma 1154 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 nonche' di cui agli articoli 21, 21-bis e 41 del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159, convertito con modificazioni dalla legge 29 novembre 2007, n. 222. Gli eventuali provvedimenti adottati in attuazione delle disposizioni legislative citate al primo periodo del presente comma, incompatibili con il presente articolo, restano privi di effetti. A tale scopo le risorse di cui agli articoli 21, 21-bis e 41 del citato decreto-legge n. 159 del 2007, ivi comprese quelle già trasferite alla Cassa depositi e prestiti, sono versate all'entrata del bilancio dello Stato per essere iscritte sul Fondo di cui al presente comma, negli importi corrispondenti agli effetti in termini di indebitamento netto previsti per ciascun anno in sede di iscrizione in bilancio delle risorse finanziarie di cui alle indicate autorizzazioni di spesa.
Art. 12. [omissis]
Art. 13. Misure per valorizzare il patrimonio residenziale pubblico
1. Al fine di valorizzare gli immobili residenziali costituenti il patrimonio degli Istituti autonomi per le case popolari, comunque denominati, e di favorire il soddisfacimento dei fabbisogni abitativi, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto il Ministro delle infrastrutture ed il Ministro per i rapporti con le regioni promuovono, in sede di Conferenza unificata, di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, la conclusione di accordi con regioni ed enti locali aventi ad oggetto la semplificazione delle procedure di alienazione degli immobili di proprietà dei predetti Istituti.
2. Ai fini della conclusione degli accordi di cui al comma 1, si tiene conto dei seguenti criteri:
a) determinazione del prezzo di vendita delle unità immobiliari in proporzione al canone di locazione;
b) riconoscimento del diritto di opzione all'acquisto in favore dell'assegnatario unitamente al proprio coniuge, qualora risulti in regime di comunione dei beni, ovvero, in caso di rinunzia da parte dell'assegnatario, in favore del coniuge in regime di separazione dei beni, o, gradatamente, del convivente more uxorio, purche' la convivenza duri da almeno cinque anni, dei figli conviventi, dei figli non conviventi;
c) destinazione dei proventi delle alienazioni alla realizzazione di interventi volti ad alleviare il disagio abitativo.
3. Nei medesimi accordi, fermo quanto disposto dall'articolo 1, comma 6, del decreto-legge 25 settembre 2001, n. 351, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 novembre 2001, n. 410, può essere prevista la facoltà per le amministrazioni regionali e locali di stipulare convenzioni con società di settore per lo svolgimento delle attività strumentali alla vendita dei singoli beni immobili.
Il testo integrale del DL 112/2008 e raggiungibile qui
Siamo un Paese a cui ogni tanto viene somministrata dai partiti di centro destra una sbornia che viene amplificata da mass media e che poi, quando ci si sveglia, lascia dietro di sè un bel gran mal di testa. E’ il caso della sbornia delle tasse su cui c’è stata anche una battaglia elettorale vinta da Berlusconi il quale ora si trova a dover mantenere le promesse fatte, tra le quali la riduzione delle tasse su salari e stipendi e sulla prima casa e delle aliquote IRPEF (se ci saranno le condizioni economiche). Se il buon giorno si vede dal mattino, le recentissime decisioni del governo relative alla riduzione delle tasse su una quota marginale dei salari e stipendi e dell’eliminazione dell’ICI sulla prima casa fanno prevedere nubi e temporali.
Mentre con la prima manovra lo Stato rinuncia ad incassare un parte del prelievo fiscale relativo alle componenti variabili del reddito da lavoro dipendente privato, con la seconda si ridistribuisce reddito proveniente dalla fiscalità generale a favore di ceti abbienti, che possedendo case non certo popolari, potrebbero continuare a pagare anche l’ICI.
A scanso di equivoci chiariamo subito che non siamo strenui difensori di questa imposta locale visto che essa, per l’importanza che ha assunto sul gettito delle casse comunali, ha concorso a incentivare una continua crescita della cementificazione del territorio. Riteniamo infatti che non sia più prorogabile una riforma complessiva della fiscalità locale che, pur prevedendo forme importanti di prelievo dalla rendita fondiaria ed urbana, consenta di disincentivare e frenare le crescenti espansioni urbane che i comuni favoriscono per fare cassa.
Stante la situazione di status quo in atto, vogliamo qui richiamare in particolare l’attenzione sulle conseguenze che l’eliminazione dell’ICI sulla prima casa comporterà per i Comuni, anche a fronte di trasferimenti equivalenti da parte dello Stato. Anzitutto occorre evidenziare che questa decisione va in direzione esattamente contraria a quanto si va sostenendo da anni a proposito dell’autonomia finanziaria dei Comuni dato che questi si troveranno a veder dipendere ancor di più le proprie entrate dai trasferimenti dello Stato, con buona pace di chi predica contro il centralismo romano! Ma fin qui qualcuno direbbe: poco male, visto che anche la manovra sull’ICI relativa alla prima casa prevista dalla finanziaria di Prodi, va nella stessa direzione.
Tuttavia per le casse comunali la differenza tra l’intervento del centro sinistra e quello del centro destra è sostanziale ed essa sta nel fatto che se le minori entrate dei Comuni derivanti dalla soppressione dell’ICI sulla prima casa saranno compensate da una somma pari a quella incassata nel 2007, verranno penalizzati fortemente tutti quei Comuni in cui in questi anni le Amministrazioni si sono date da fare per ridurre le aliquote ICI per la prima casa! Si premieranno così i Comuni che hanno le aliquote al massimo (7 per mille) e si penalizzeranno quelli che le hanno ridotte o che hanno deciso di mantenerle ai livelli minimi. Come manovra non c’è male. In assenza di una complessiva riforma della fiscalità locale, avverrà che i Comuni penalizzati cercheranno di compensare le minori entrate aumentando l’addizionale comunale all’IRPEF, urbanizzando ulteriormente il territorio con capannoni vari, rendendo costosa la sosta delle autovetture mettendo parchimetri ovunque (come già fanno molti comuni medi e grandi) ed a sperare di ricavare somme consistenti dalle multe connesse alle infrazioni del codice della strada (vedasi l’estensione del ricorso all’autovelox).
Ora che è uscito sulla Gazzetta Ufficiale il decreto fiscale (DL. 27 maggio 2008 n 93) è possibile leggere anche le cifre ed analizzare cosa si è penalizzato. Anzitutto si evidenzia che “le modalità di rimborso ai Comuni per il taglio dell'Ici valgono solo per il 2008, e non più per l'intero triennio 2008-2010, come previsto nella prima bozza del decreto fiscale. Anche la cifra è leggermente ridimensionata: scende da 2.600 milioni a 1.700 cui vanno aggiunti però, nella nuova formulazione, 823 milioni del primo taglio ICI operato dal Governo Prodi. In tutto 2.523 milioni” (Il sole 24 ore). Poiché questa è la somma che si intende trasferire ai Comuni per il mancato gettito dell’ICI senza dover provvedere a reperire nuove entrate, il decreto Tremonti prevede di fare tagli sul versante delle spese. I soldi arrivano da fondi stanziati nella finanziaria per capitoli di spesa che non ci saranno più e che riguardano le infrastrutture del sud, il trasporto locale, l’ammodernamento della rete idrica, l’ambiente, le politiche sociali.
Ciò detto sui tagli delle spese previste, su cui ci sarebbe già molto da dire, rimane ora la questione delle entrate e, ciò, al fine di esaminare la redistribuzione del reddito che viene operata con il decreto. Per far questo occorre tener presente alcune cose importanti.
Anzitutto spendiamo due parole sull’ICI, ossia sul fatto che questa imposta locale sui patrimoni immobiliari, rappresentando una entrata per le casse comunali (fra le più importanti) basata sul valore catastale di essi, consentiva, sia attraverso l’applicazione differenziata delle aliquote che attraverso il diverso valore catastale degli immobili, di incidere sulle rendite immobiliari e di effettuare prelievi che in un certo qual modo potevano essere considerati progressivi rispetto al reddito dei loro proprietari. In altre parole si poteva in buona misura far concorrere di più alle entrate comunali (e quindi alle loro spese) coloro che abitano in case di lusso, signorili o comunque non popolari e che pertanto si presumono essere percettori di redditi medio alti ed a far pagare di meno coloro che invece abitano in case popolari o certamente non di lusso che invece percepiscono redditi modesti o bassi. Come vede si tratta di un imposta che risponde anche ad un principio di equità previsto dall’art. 53 della Costituzione che recita: “…tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.
Orbene ricordiamo che grazie alla manovra di Prodi, che agiva sul versante delle detrazioni e non delle aliquote, si era riusciti a non far più pagare l’ICI a circa il 40% di proprietari di prime case che abitano in alloggi modesti aventi un basso valore catastale e, perciò, appartenenti a persone a basso reddito (lavoratori dipendenti e pensionati). La manovra Berlusconi, con l’eliminazione delle aliquote sulla prima casa, va ora a beneficiare il rimanente 60%, ossia coloro che sono proprietari di case aventi un valore catastale medio ed alto e che pertanto si presume dispongano di redditi medio-alti. In questo modo tutti vengono messi sullo stesso piano. Certamente si obietterà che il mancato aggiornamento del catasto ha forse consentito a proprietari di alloggi per niente modesti o popolari di beneficiare della manovra di Prodi, tuttavia si deve ricordare che la recente riforma del catasto che ha permesso di trasferire ai Comuni o loro raggruppamenti, la sua gestione diretta, dà loro la possibilità di provvedere al suo aggiornamento e, quindi, di eliminare le disparità presenti.
Tolte dunque ai Comuni le risorse economiche connesse a questa imposta, rimaneva da risolvere il problema di dove reperire le risorse necessarie da trasferire ai Comuni per compensare queste minori entrate e consentire così di sostenere le spese che essi fanno.
Avendo deciso di non ricorrere all’istituzione di una nuova tassa, i soldi non potevano che provenire dalle entrate generali dello Stato che, come mostrano i dati del Ministero delle Finanze, provengono per lo più dalle entrate tributarie (che nel bilancio di previsione del 2008 rappresentano il 63% delle entrate di competenza) ed in particolare dal gettito IRPEF (che a sua volta rappresenta il 36,7% delle entrate tributarie stesse). Un gettito questo che a seguito della cronica massiccia evasione ed elusione fiscale proviene oggi in gran parte dai redditi da lavoratori dipendenti e pensionati, ossia da coloro che hanno un prelievo certo e diretto alla fonte. E’ da questi soggetti infatti che vengono i soldi che andranno a compensare i Comuni per le mancate entrate dell’ICI.
Orbene, una volta dirottate le entrate tributarie dello Stato verso i Comuni e soppresse le spese che si prevedevano di fare, i Comuni ora potranno finanziare le proprie spese non più fruendo di entrate derivanti da una imposta progressiva sul valore del patrimonio (e perciò sul reddito), in cui anche coloro che dispongono redditi superiori alla media, contribuiscono a pagarli, bensì solo grazie ai soldi che prevalentemente provengono dalle tasche di lavoratori dipendenti e pensionati.
Queste categorie di persone si troveranno così a pagare anche per conto di chi ora, grazie alla soppressione dell’ICI su case di un certo valore, non pagheranno niente.
Se questo è l’antipasto del federalismo fiscale, c’è di che stare poco allegri!
In Italia è dall´inizio degli anni ‘60 che non si pensa ad un piano per l’abitazione a basso costo. Da Fanfani in poi, dagli albori del primo centro-sinistra, si è persa la nozione di quello che saremmo divenuti, e la stupida illusione di una crescita economica all’infinito ha creato danni gravissimi all’equilibrio del pianeta. Giulio Tremonti è in grado di proporre un piano che abbia senso etico e non di mercato per risolvere il dramma della mancanza di abitazioni.
In un calcolo semplificato in Italia mancano 3 milioni di abitazioni da dare in affitto a canone controllato per una popolazione di 8 milioni circa di italiani in cerca di abitazione, e fra 4 e 5 milioni di emigranti legalmente riconosciuti o cosiddetti clandestini. I grandi temi sono abbandonati. La città, il suo modificarsi, il metabolismo naturale dei luoghi urbani, demolizioni e ricostruzioni, cambiamenti, emergenze, parchi e boschi, luoghi per vivere….. sembrano superati dalle chiacchiere di un paio di perdigiorno che si mettono, senza competenza, a dibattere sugli architetti più o meno noti.
Guardano l’architettura come panorama selvaggio in cui gli abitanti di questo paesaggio sono presi dalla smania di media o dalla droga del potere! La questione è ben altra. In Italia si è persa completamente la dimensione del progetto. Si confondono ruoli e metodi. Si pensa che un tema, un’idea siano già trasformati in realizzazioni. Come nel caso dell’Expo del 2015, meritatamente conquistata dalla città di Milano, tempi e progetti non fanno parte della cultura delle nuove classi dirigenti. Se già ci si dotasse di un gruppo di esperti (non contate sul sottoscritto per ragioni deontologiche), parte di una commissione italiana e internazionale, con la quale dialogare e costruire ipotesi, sarebbe già un bene. E poi che si dia immediatamente incarico ai rappresentanti dei poteri locali di decidere l’organizzazione e i tempi della realizzazione. Credo che se dovessi scegliere qualcuno per avere la certezza che tempi e soldi siano perfettamente congrui, sceglierei qualcuno che ha esperienza di grandi opere urbane.
In Italia non si è formata una classe di committenti pubblici capaci di imprese importanti. Nel nostro paese c’è stata sempre una grande confusione tra progetto, costruzione, sviluppo e gestione. Pochissima attenzione per la manutenzione futura delle opere. Nessun metodo che può divenire modello riproducibile di una sana amministrazione del territorio. L’occasione ha voluto che Milano diventi punto d’ascolto e osservazione per l’intera comunità nazionale. Che Milano diventi anche il luogo in cui l’effimero possa rimanere permanenza di qualità e architettura. E che l’evento si trasformi in un respiro nuovo che dia al territorio milanese la massa critica necessaria per gestire e governare la regione più ricca d’Europa.
Gli amministratori e i politici non hanno brillato in Italia negli ultimi decenni per lungimiranza. La politica sembra impietrita di fronte alle ragioni dell’insicurezza e del degrado urbano. Gli architetti hanno in molti rinunciato alla responsabilità che un progetto rappresenta in sé. Ci si è concentrati sulle tre torri di Citylife declinando in una parodia del moderno tutto l’odio che alcuni esprimono contro l’architettura contemporanea. Ma ci si dimentica ancora una volta che le abitazioni costruite intorno alle torri degli uffici sono il reale fulcro economico dell’operazione. Si ignora la bruttezza (che qualcuno ha denunciato) dell’orrore del quartiere costruito su metà dell’ex Maserati. Il disordine urbano di questo come tanti altri esempi di frettolosa e stupida riconversione delle aree industriali dismesse deve essere considerato il fondo a cui negli ultimi anni è arrivata l’architettura e l’urbanistica.
La scarsa qualità è quasi sempre genuflessa alla rapace volontà della speculazione immobiliare. La stessa che ha reso gran parte degli architetti imbelli e senza desiderio di battersi per il progetto e contro la stupefacente ignavia del potere pubblico. I critici, i sociologi, gli antropologi si facciano avanti e si battano anch’essi non con facili argomentazioni contro gli architetti migliori, ma dimostrino il loro reale impegno facendo sentire la voce degli intellettuali in difesa di un territorio saccheggiato e privato di risorse. Che attacchino la speculazione e l’assenza di etica nella gestione del territorio.
La casa d’emergenza che provocatoriamente e necessariamente rappresenta l’estremo limite a cui l’incuria dell’uomo ha consegnato gran parte del territorio del pianeta, è la risposta minima ai disastri e alla nuova condizione dell’ambiente. Ma l’obiettivo rimane sempre quello di costruire un habitat in cui ci si ritrovi. Luogo delle democrazie possibili. Superate le critiche e le guerre di religione, ci ritroveremo sempre a ricercare la dimensione possibile per vivere insieme e per far convivere persone di differenti etnie, culture ed economie. La critica non deve sconfinare nel nichilismo, ma aiutare a ridisegnare la casa dell’uomo. Se l’uomo avrà una casa, avrà anche un lavoro e avrà anche i suoi libri e la sua musica. La cultura è parte di questo progetto. La città deve ritrovare gli elementi che oggi le sono mancanti, la qualità dell’habitat, il verde e l’aspetto "ludico". La città non è soltanto luogo dove si lavora o si commercia, ma anche un luogo di cultura e di esperienza. È aperto il dibattito, sono aperte le danze.
Milano 2015 è destinata a divenire un esempio e modello per un’intera comunità? O al contrario ci ritroveremo ancora una volta nella nostalgia di un passato improbabile o nella scarna utopia?
postilla
Difficile non concordare in linea di massima con la ricognizione da alta quota di Fuksas, che anticipa il suo prossimo intervento sul tema alla Triennale di Milano, dove al momento sono in corso due iniziative sulla casa già ripetutamente riprese da questo sito. Ma il volo necessariamente alto dell’architetto romano sfuma su alcuni dettagli, che a ben vedere tali non sono, che la storia ha già ampiamente chiarito, e che anche la cronaca conferma. Innanzitutto l’evocato piano Fanfani-case e il patto col diavolo stipulato a suo tempo fra buona parte della cultura architettonico-urbanistica e lo stato: molto lavoro, in cambio della rinuncia ad alcuni principi. Primo fra tutti quello di una vera coerenza fra gli interventi per le case economiche e un ordinato assetto del territorio, ben riassunto - per chi ha voglia di rileggerselo - in un lungo saggio di Ludovico Quaroni: “Città e quartiere nell’attuale fase critica della cultura ” (La Casa, n. 3, 1956). Forse non è un caso, che Fuksas richiami un esempio tanto noto e in qualche modo celebrato, quanto arcaico nelle culture che hanno contribuito a definirlo, nella realtà e nell'immagine (non ultime le mostre e le pubblicazioni di qualche anno fa, dove si decantavano le qualità dei "villaggi" ma spariva praticamente la città circostante). Un'esperienza, quella dell'Ina-Casa, che quasi nulla aveva a che spartire, con strategie successive di molto più ampio respiro dal punto di vista sia urbanistico che sociale. E tutto in un ambiente che in linea di principio non copriva di insulti qualunque riferimento alla pianificazione territoriale. Oggi come sa chiunque, il contesto è molto diverso. Diciamo pure ostile ad approcci non settoriali.
Cosa accadrebbe, ad esempio, nella Milano dell’Expo 2015, nel contesto di un nuovo "patto col diavolo", fra architetti progettisti e pubblica amministrazione? È purtroppo abbastanza facile immaginarselo, anche se non nei particolari: un do ut des fra casa e territorio, fra diritti sociali e diritto all’ambiente, a partire ad esempio da un nuovo attacco alla pianificazione sovracomunale e alle aree verdi, presentate come “lusso insostenibile” o roba del genere. Si sa che, ripetute all’infinito dagli organi si informazione, anche le sciocchezze più madornali diventano verità indiscutibili, no?
E del resto non siamo soli. Anche il New Labour britannico sta tentando il colpo, anzi il doppio colpo: allentare i vincoli urbanistici (lì un pilastro della cultura e dell’identità nazionale) con la scusa dell’emergenza abitativa, e financo della lotta al cambiamento climatico. Un po’ come Veronesi a Milano, che danneggia ambiente e salute col suo Cerba, per fare ricerca sulla salute del futuro, i neolaburisti di Brown seppelliscono di cemento e asfalto “a misura d’uomo” la greenbelt, per andare incontro ai bisogni delle giovani coppie che non trovano casa, etichettando l’operazione come “eco-town”, e sostenendola anche attraverso una nuova legge urbanistica … studiata da una economista.
Coincidenza: anche Fuksas fa appello a Tremonti. Coincidenza? Mah: Fuksas è uomo di cultura. O no? (f.b.)
Il tema della "casa per tutti" per la sua nobiltà e per le sue urgenze (sia quelle italiane dove negli ultimi dieci anni si è costruito abitazioni per meno della metà degli altri paesi europei, sia quelle gravissime dei paesi del terzo mondo) si presenta tanto rilevante da giustificare ogni tentativo di messa in evidenza.
Nel caso della mostra alla Triennale di Milano, Casa per tutti, con l’ambizioso sottotitolo "Abitare la città globale", il tentativo ci sembra lo spostamento del punto di vista rispetto a quelli proposti dal movimento moderno, con grandi speranze ideali di uguaglianza e di liberazione collettiva, a partire dagli anni Venti e Trenta del XX secolo. Ad essi sono dedicate nei cataloghi della mostra una serie di testi di grande interesse per il loro contenuto specifico, ma anche come termine di paragone rispetto all’attuale tensione ideologica verso una "città delle differenze". Si tratta di una sfida assai difficile in una società dove l’omogeneità sembra essere l’obiettivo strutturale al momento dell’uscita dalle povertà più disperate. Invece là dove i bisogni primari, oltre alle soluzioni abitative, sono le fognature, l’acqua, l’energia ed i servizi elementari, certo nessuna soluzione molecolare può far fronte. In qualche modo la città delle differenze sembra più una speranza alimentata da una lettura delle difficili condizioni delle periferie "sprawl" delle città europee che da quelle dei terzi mondi. Forse è questa ragione strutturale il motivo del fatto che alla serietà dei propositi dei testi e delle loro sia pur discutibili tesi, fanno riscontro una serie di proposte, che certamente senza volerlo, trasformano in burla estetica la tragicità del problema.
Un piccolo caleidoscopio, che fa vedere tutta l'infamia, tutta la vera, schifosa natura degli «imprenditori politici» della paura e del razzismo, dai quali, si spera, perfino Berlusconi, sui clandestini, forse comincia a prendere le distanze: tale si rivela il blitz di ieri a Mestre di un gruppo di leghisti contro un villaggio per i sinti (che vivono da trent'anni poco lontano, in un insediamento ormai inadeguato) progettato dal Comune di Venezia. Di per sé, il blitz ha raccolto ben poco, una ventina di persone. In compenso, a favore del villaggio, sono schierate tutte le istituzioni della città, associazioni e gente di buona volontà, il Patriarca, la Caritas, mentre prefetto e questore hanno garantito che l'insediamento non ha mai dato problemi.
I 169 sinti sono tutti residenti, tutti regolari, tutti lavorano, tutti i loro bambini vanno a scuola. Il progetto, risalente al '98, era nato sulla base di finanziamenti governativi. Inaffidabili, come sempre in questi casi, i vari governi hanno poi tagliato i fondi. Così il Comune, che si era impegnato con i sinti e con la città attraverso un contratto di quartiere (che prevede nell'area dell'attuale campo un intervento di edilizia residenziale e una struttura per anziani), ha deciso di onorare l'impegno stanziando la cifra necessaria (2,8 milioni di euro).
Nel villaggio si trasferiranno 38 degli attuali nuclei, 130 persone circa, avendo 7 nuclei deciso di accettare un alloggio pubblico. L'area interessata è poco distante dal campo attuale, è più spaziosa, non a ridosso di un quartiere popoloso come è l'attuale e, perciò, rende possibile ampliare e riqualificare l'insediamento. Una soluzione razionale e civilissima, perfino economicamente vantaggiosa per il Comune, perché se tutti i sinti avessero scelto l'alloggio pubblico (a cui avrebbero diritto per cittadinanza, reddito, numero di figli e altri membri) i costi sarebbero stati ben maggiori.
Perché tutto questo livore, dunque? Perché, appunto, gli «imprenditori politici» della paura e del razzismo (la definizione è di Luigi Manconi) non hanno alcun interesse a soluzioni razionali e civili. Al contrario, vogliono alimentare un disordine rancoroso e nevrotico, che finora li ha premiati elettoralmente (Berlusconi compreso, che rischierà di misurarsi con i mostri che ha creato). Non a caso, anche a Mestre, da giorni, stanno cercando l'incidente, per enfatizzare il proprio livoroso discorso. Oggi gran parte dei media, in perfetta sintonia con l'Italia paranoica e irragionevole, ha regalato allo sparuto drappello leghista una visibilità del tutto immotivata, data la miseria non solo dei loro argomenti ma della mobilitazione stessa.
Il Comune, comunque, intende procedere e in città si sta preparando la contro mobilitazione degli anti razzisti. Resta da vedere cosa farà il resto del centro destra, anche alla luce delle differenze createsi ieri con la Lega sul reato di clandestinità. Qui, però, non ci sono «clandestini». Il nuovo insediamento è un segno della città che cresce e migliora. Nessuno potrà fermarla.
Nota. - Si confronti la prospettiva a cui ci obbligano i nostrani imprenditori della paura, con le linee guida sull’abitazione per le minoranze nomadi appena pubblicate dal ministero britannico per le aree urbane, dove la frase di apertura suona più o meno “ tutti hanno diritto a un’abitazione decorosa …” (f.b.)
Riprendendo un tema che fu oggetto nel '33 di una celebre mostra e che negli ultimi anni è stato trascurato, la Triennale di Milano presenta l'esposizione «Casa per tutti» fino al 15 settembre. Abitazioni come abiti, capanne o capsule, per esistenze nel segno del nomadismo.
Con la mostra Casa per tutti, in corso fino al 15 settembre, la Triennale rende omaggio alla sua storia riprendendo il tema affrontato dalla famosa esposizione del '33, quando i più importanti progettisti italiani si confrontarono sperimentando tipologie di alloggio differenti. Dopo anni in cui le ricerche degli architetti si erano orientate altrove, verso gli spazi del mercato, con le architetture di Koolhaas per Prada o di Toyo Ito per Tod's, va riconosciuto ai curatori - gli storici dell'architettura Fulvio Irace e Carlos Sambricio insieme a Matteo Agnoletto, Silvia Berselli, Teresa Feraboli, Federico Ferrari, Gabriele Neri, Jeffrey Schnapp - il merito di aver riportato al centro del dibattito architettonico la casa e più in generale la questione dell'abitare.
In contemporanea, infatti, il sociologo Aldo Bonomi cura nella stessa sede la mostra La Vita nuda dove trovano spazio fra l'altro il progetto di sensibilizzazione sulle comunità rom che Stalker/Osservatorio nomade conduce da un decennio, gli esperimenti di co-housing sempre più frequenti nelle nostre città e infine la ricerca di multiplicity.lab sulla rete di cascine presenti nel territorio milanese da trasformare in residenze. E nel parco della Triennale sono installate le architetture per l'emergenza di Fuksas, Kengo Kuma, Cino Zucchi, Cruz Roja Peruana + IFRC, Piero Barbanti e Luca Tontini (vincitori del concorso indetto in concomitanza con la mostra), I-Beam Design, Alejandro Aravena e Andreas Wenning/Baumraum, mentre nell'atrio è collocata la Clothes House, architettura temporanea degli olandesi MVRDV, un monovolume costruito con i vestiti riciclati che si propone come riflessione etica sulla quantità di indumenti buttati via ogni giorno nel mondo.
Gli stessi MVRDV sono presenti anche nella sezione «macro-house» con il progetto Mirador Residences che, realizzato a Madrid nel 2005, riprende il tema della macrostruttura residenziale cara ai Metabolisti giapponesi. Qui la forma è generata dall'assemblaggio di singoli parallelepipedi trattati in maniera differente nel ritmo e nella forma delle finestre, nei colori e nelle scelte dei materiali ma anche nella tipologia abitativa: un gioco a incastri unitario ed efficace.
«Macro-house» è una delle sezioni in cui si articola Casa per tutti (le altre sono «casa abito», «casa leggera», «casa mobile», «case rapide», «capsule aggregabili», «cabanon», «emergenze e quotidianità», «sezione americana», in un allestimento, firmato da Cliostraat, che rischia a tratti di essere disomogeneo e prepotente) e propone un confronto interessante tra architetti noti, come appunto MVRDV, Steven Holl e Rem Koolhaas e altri meno conosciuti in ambito internazionale, come i tre progettisti italiani invitati alla rassegna: Stefano Mirti con la casa d'emergenza per immigrati, Dogma con la Stop City (una citazione della no-stop city teorizzata dagli Archizoom nel '69) e il gruppo di architetti romani altro_studio con l'unità di abitazione verticale per vacanze Sentina.
Ma all'interno dello spazio dedicato al «macro» sono presenti anche tre «architetture-città»: le Unités d'habitation di Marsiglia e Nantes di Le Corbusier (i cui straordinari disegni aprono il percorso tematico), il Corviale di Mario Fiorentino e il quartiere Ina-Casa Forte Quezzi realizzato da Luigi Carlo Daneri a Genova, esempio di re-interpretazione del Plan Obus lecorbusieriano. Un tema che si svilupperà poi negli anni Settanta con architetti come Paolo Soleri (assente giustificato dalla mostra avendo progettato macro-città e non residenze), i metabolisti giapponesi, i radicali Archigram, Hans Hollein, Superstudio.
Ma tornare a discutere sulla casa in Italia pone in evidenza soprattutto le questioni legate ai destinatari dei progetti: i giovani, gli immigrati, i lavoratori fuori sede, gli studenti, le neo-famiglie.
L'architetto viene così sollecitato a rioccuparsi dell'abitare come istanza etica nei confronti della società. E forse - suggerisce la mostra milanese - per raggiungere questo obiettivo occorre ripartire dalle case rapide realizzate con materiali prefabbricati, veloci da costruire e dai costi contenuti, secondo l'insegnamento del fabbro-architetto Jean Prouvé, di Marco Zanuso con la sua unità abitativa di emergenza Fiat-Anic e oltreoceano di Buckminster Fuller con le case fatte di materiali riciclati. A questo proposito, Casa per tutti dedica un posto di rilievo proprio al contesto statunitense, dove sono presentate alcune tra le ricerche più interessanti sulle residenze mobili: è questo il caso di Rocio Romero che commercializza i kit di case prefabbricate in alluminio con tanto di istruzioni d'uso, e dei container ripensati in forma di abitazioni da Jennifer Siegal/Design Mobile, mentre più tradizionale appare la ricerca di Marmol-Radziner con i suoi prefabbricati modulari. La prefabbricazione è uno dei temi affrontati anche dalla ricerca di altro_studio, da un decennio all'opera su questi temi, come dimostrano i progetti in mostra a Milano, dal prototipo in scala 1:1 Absolute box (una scatola di quindici metri quadri sostenuta da cavalletti di acciaio, dotata di bagno, zona giorno, sistema fotovoltaico e recipiente per un'autonomia idrica di tre giorni e un costo pari a quello di un'auto utilitaria) al plastico del modulo infinito di chiara ispirazione fulleriana.
Lo spazio che Casa per tutti dedica a questa ricerca rappresenta un riconoscimento importante, soprattutto tenendo conto di come spesso la critica italiana sia distratta nel valorizzare l'impegno professionale di architetti che lavorano su contenuti specifici. Ma al tempo stesso è la dimostrazione che ben di più l'esposizione della Triennale avrebbe potuto fare per fornire un quadro completo e stimolante della ricerca contemporanea sul tema dell'abitare.
Sull'economia si discute, si polemizza, ci si accapiglia costantemente; e non potrebbe andare diversamente, tanto è diventata centrale quest'ultima rispetto alla politica, anzi ormai dominante essendone la funzione pubblica del tutto subordinata. Linea di comando pressoché assoluta da cui far discendere scelte e decisioni, così come modelli di civiltà e perfino emozioni e immaginario. Esito del vittorioso passaggio capitalistico di fine secolo che tutto ha globalizzato e uniformato.
Ma tra i tanti e anche inediti filamenti con cui l'economia si palesa e si sviluppa, ce n'è uno su cui incombe invece un'opaca reticenza. L'immobiliarismo. Quell'oscura palude in cui sguazzano innumerevoli gli interessi finanziari, nel passato secondari rispetto al ciclo edilizio ma oggi completamente sovrastanti. Una folla di «operatori» compete e si affanna per ritagliarsi il proprio segmento di utile nel cosiddetto mercato immobiliare, che di conseguenza dilata allo stremo i suoi costi, i suoi prezzi e soprattutto i suoi profitti. E ciò smarrendo progressivamente l'elemento originario di tanto sviluppo, il prodotto sporco, quello fatto con i mattoni: quasi un accessorio di un gorgo inestricabile di intermediazioni e stratificazioni finanziarie.
Su tutto questo poco si sa, poco si dice. E non perché tanta speculazione crei un qualche imbarazzo: il rossore non fa parte della tavolozza del sistema economico. Ma perché sui patrimoni immobiliari si regge buona parte della filiera bancaria
Non sfuggirà che quando si parla di sistema bancario si allude a un ambito assolutamente predominante, in grado di condizionare non soltanto la ritmica dell'economia ma la stessa decisione politica.
Capite bene che, di fronte a un potere così esteso e ramificato, il bisogno sociale del bene casa è un ricciolo di polvere che fastidiosamente si annida in un angoletto.
Cosa volete che contino i tanti povericristi che non hanno dove abitare, variabile del tutto secondaria perché refrattaria alla logica di un mercato inaccessibile? Milioni di persone che in questo paese soffrono e penano, accucciati nelle auto o nelle baracche o sotto i ponti; anziani che muoiono prima per paura di essere sfrattati, bambini che crescono con l'angoscia dell'ufficiale giudiziario, ogni scampanellata alla porta un batticuore, giovani donne, ragazzi con una prospettiva di vita già compromessa, famiglie dolenti con un nonno malato, con un figlio disabile. Ma ormai anche chi ha un reddito dignitoso eppure insufficiente per affittare un appartamento o accendere un mutuo.
Come si fa a nascondersi che questo è un problema grave?
E' che da noi la politica non vuol fare ciò che dovrebbe, ciò che normalmente si fa negli altri paesi: intervenire nel mercato immobiliare, per attenuarne le ferocia. Edificare case popolari, ai costi reali, per offrire un accesso sostenibile all'abitare. Cioè essere competitivi con l'ingordigia: basta poco per eliminare la bolla parassitaria che si frappone tra la domanda e l'offerta, e depurare così il sistema. Un po' di keynesismo, mica la rivoluzione.
Ps. Nella finanziaria del prossimo anno ci sono 550 milioni di euro per l'emergenza casa, e l'offerta abitativa pubblica, se tutto va bene, comincerà a rendersi disponibile nel 2009. Ma da dopodomani termina l'efficacia del blocco degli sfratti. C'è un frattempo che non torna. Qualcuno ci sta pensando?
COME UN EDITTO MEDIEVALE, ne dà lettura pubblica l’araldo di Action: «Il presidente vista la grave situazione di emergenza sociale in materia abitativa...», scandisce al megafono il responsabile dell’Agenzia dei diritti, Andrea Alzetta, detto Tarzan,
che legge una dopo l’altra le cinque pagine di ordinanza firmate dal mini-sindaco del decimo municipio Sandro Medici fino al punto finale: «Il presidente ordina con effetto immediato la requisizione degli alloggi attualmente in uso agli inquilini...». «Si tratta di un prolungamento coattivo dell’attuale contratto», spiega Medici, già assolto dalla Cassazione per le requisizioni vere e proprie a cui era già ricorso in passato. Gli inquilini continueranno a pagare affitto e penale d’occupazione. Applaude la piccola folla radunata davanti al 33 di via Statilio Ottato, traversa di via Tuscolana. Uno degli stabili dove sono scattate le 244 «requisizioni» targate Rifondazione: «Strumento estremo», dicono i presidenti del Prc, Susi Fantino, del IX municipio, e Andrea Catarci, dell’XI, che, a pochi giorni dalla scadenza del blocco degli sfratti e in assenza di nuova proroga, hanno firmato ordinanze simili a quelle di Medici, che da solo ne ha firmate 8 per un totale di 212 requisizioni. «Anche ad altri livelli potrebbero prendere in considerazione questo esempio», rilancia il segretario romano Massimiliano Smeriglio.
«Appartamenti requisiti dal presidente del X municipio», recita lo stendardo che campeggia sulla facciata di via Ottato. Una palazzina con le veneziane ai balconi e i panni stesi. Appesi qua e là cartelli che invocano il passaggio da «casa a casa», promesso dalla legge 9 del febbraio scorso (che finalmente ha rimesso in campo un piano per la casa) e poi di nuovo dal decreto fiscale del 2 ottobre che a questo scopo ha stanziato 550 milioni di euro (il piano straordinario). Ma le «garanzie» rischiano di restare lettera morta. L’ultimo stop agli sfratti deciso 8 mesi fa scade infatti il 14 ottobre e da lunedì a Roma circa 3 mila sfrattati, considerati particolarmente fragili perché anziani, disabili, con basso reddito, potrebbero ritrovarsi con l’ufficiale giudiziaro alla porta. Mentre il «piano staordinario» per dare loro un’altra casa è ancora «in itinere».
Per il Lazio ci sono 55 milioni di euro. Si tratta di fondi straordinari, da impiegare subito (o mai più) per approntare misure d’emergenza. E la Regione, che ancora non ha provveduto a farlo, dovrà indicare entro il 22 ottobre ai ministeri delle Infrastrutture e della Solidarietà sociale come intende spenderli. Oggi l’assessore Minelli farà partire una lettera in cui indicherà le priorità del Campidoglio: acquisto di case dagli enti, cambi di destinazione d’uso, centri d’assistenza. Ma i tempi sono stretti.
«C’è un solo modo per evitare che la requisizione diventi paradossalmente l’unico strumento d’intervento», spiegano gli assessori di nove città tra cui Roma. E lo stesso sindaco Walter Veltroni invoca la «proroga» in una lettera indirizzata al prefetto Mosca, a cui il sindaco chiede di «promuovere presso il Governo» un ulteriore stop agli sfratti.
In arrivo il Piano e anche gli sfratti
di Eleonora Martini
Alla Conferenza nazionale sulle politiche abitative i 12 punti del governo e i problemi per trovare le risorse. Ma rimane fuori dalla discussione la questione delle migliaia di persone che dal 14 ottobre rischiano di trovarsi per strada. Sulla quale Di Pietro non vuole la proroga
«Gli inquilini non si sentono sicuri. Forse un inquilino sicuro potrebbe essere un inquilino felice». Se non altro è un insolito sguardo sul problema della percezione generalizzata di insicurezza, la frase con la quale Gualtiero Tamburini, presidente di Nomisma, ha concluso la presentazione del rapporto curato dalla sua società che ha messo carne sul fuoco della Conferenza nazionale sulle politiche abitative organizzata ieri a Roma dal ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro. Un'insicurezza particolarmente soffocante per quelle 10-15 mila famiglie italiane sotto sfratto (ma c'è chi la considera una sottostima) e che va crescendo man mano che si avvicina la data del 14 ottobre, giorno in cui scade l'ultima proroga degli sfratti secondo la legge 9 del 2007. Anche per questo, mentre all'interno dell'aula magna della prestigiosa (e costosissima) Università Luiss si susseguivano gli interventi dei quattro ministri e di un viceministro e di altre figure istituzionali di alto profilo, fuori gli inquilini del Sunia, del Sicet e dell'Uniat avevano messo in piedi una piccola manifestazione con l'intenzione di «sollecitare il governo ad azioni concrete senza perdere altro tempo».
Per il premier Romano Prodi, però, piuttosto «le politiche tradizionali hanno troppi limiti», scrive nel suo messaggio inviato al convegno. «Dobbiamo dare prova di grande fantasia e di creatività» e «coinvolgere anche le fondazioni e il capitale privato nei nuovi progetti abitativi. Stiamo anche pensando a strumenti fiscali per aiutare le famiglie ad affrontare i costi della casa».
Un po' deludente per chi si aspettava un dibattito pubblico a tutto campo che coinvolgesse o almeno rendesse spettatori tutti i soggetti interessati, dai movimenti di base locali ai costruttori, proseguendo la discussione avviata a maggio nel Tavolo nazionale delle politiche abitative istituito dalla legge 9, la Conferenza nazionale ha affrontato soprattutto i nodi del nuovo Piano casa illustrato da Di Pietro che sarà presentato al Consiglio dei ministri del 28 settembre. Al centro della discussione anche il problema di come riuscire a trovare nella prossima Finanziaria le risorse necessarie al Piano, 1,5-1,7 miliardi di euro per il 2008. Anche se il vice ministro all'Economia Roberto Pinza ha subito messo le cose in chiaro: non c'è ancora «nessuna» indicazione sulle risorse disponibili nella manovra. Sul come ripartire le eventuali risorse, la ministra Rosi Bindi, felice perché «si è riaperto il capitolo casa da troppo tempo dimenticato», tira l'acqua al suo mulino e preme per i finanziamenti diretti alle famiglie. Ma il collega Paolo Ferrero non è d'accordo: «Trasferire risorse direttamente alle famiglie significa far crescere le rendite finanziarie. Le risorse invece vanno indirizzate verso l'offerta, non la domanda».
Il problema più urgente però, quello dell'emergenza sfratti con la prima scadenza del 14 ottobre (per i piccoli proprietari) e la seconda (per le grandi proprietà) a giugno 2008, non sembra all'ordine del giorno. È Ferrero ad accendere i riflettori: «So che Di Pietro la pensa diversamente, ma il 15 ottobre un anziano allettato non può finire in strada, non sarebbe degno di un paese civile. Si è sbagliato a non intervenire a luglio utilizzando l'extragettito ma o lo si fa ora nel bilancio 2007 oppure bisogna prorogare di nuovo il blocco degli sfratti». Occorrono infatti subito almeno 530 milioni di euro, tanto era il preventivo fatto a luglio per assicurare agli sfrattati il passaggio «casa a casa». Non che la sospensione degli sfratti sia gratuita: per 15 mila abitazioni la stima era di circa 32 miliardi di euro necessari. Ma il motivo di contrarietà di Di Pietro alla proroga non è certo questo.
Il ministro delle Infrastrutture piuttosto punta tutto sul piano articolato in dodici punti che era stato messo a punto dal Tavolo nazionale. E che prevede un programma triennale per il recupero di alloggi Erp (edilizia residenziale pubblica); l'acquisto e la locazione di alloggi per le categorie sociali più disagiate, con un diritto di prelazione per i Comuni per l'acquisto delle strutture messe in vendita dagli enti previdenziali; l'utilizzo di almeno il 20% degli stanziamenti per il rilancio di alloggi Erp nelle zone franche urbane, quelle dove spesso si concentra il degrado sociale ed economico; il recupero di aree e immobili militari dismessi; la ripresa dei finanziamenti dei «contratti di quartiere II», fermi dal 2002 e per i quali sono già disponibili 250 milioni di euro; un osservatorio nazionale sull'abusivismo edilizio e uno sulla condizione abitativa. Dal punto di vista fiscale: l'esenzione Ici per gli alloggi Iacp o di proprietà di enti locali; riduzione dell'imponibile per i proprietari che affittano a canone concordato. Un'esperienza questa del canone concordato «fallita» e che va rivista, secondo la ministra Giovanna Melandri che ha portato le istanze di quei «4,5 milioni di giovani che non riescono proprio ad avere una casa».
«Tre miliardi per l'edilizia pubblica»
M.D.C. intervista Angelo Fascetti, storico esponente del movimento di lotta per la casa a Roma
L'Asia, legata alla Cub-RdB, è una delle associazioni che si occupa del «problema della casa» aiutando le persone e le famiglie che vi restano intrappolate. Angelo Fascetti ne è uno dei rappresentanti storici, sulla piazza di Roma.
E' cambiato qualcosa con questo governo?
Ha perso un'occasione con il blocco degli sfratti e con la nomina di una commissione che poi non ha fatto nulla. Se non ci sono fondi, non si può fare una politica della casa. Qualche mese fa, per il blocco degli sfratti, furono stanziati 60 milioni, una cifra ridicola di fronte all'emergenza.
Anche allora avete posto il problema dei finanziamenti...
C'era stato un riconoscimento anche da parte del ministro Paolo Ferrero, che per parte sua si era posto l'obiettivo di strappare almeno 600 milioni. Per rilanciare l'edilizia pubblica, secondo noi, servirebbero almeno 3 miliardi.
Di Pietro, nella conferenza, ha parlato di un piano da 1 miliardo e mezzo.
Meglio che niente, se il governo si impegnasse veramente su questa cifre. Bisogna infatti recuperare tutto quello che non si è più fatto da almeno 10 anni a questa parte.
Che tipo di figure sociali vi trovate ad assistere?
Tra gli sfrattati, la maggioranza è di famiglie monoreddito. In alcuni casi anche con redditi decenti, intorno ai 2.000 euro al mese. E parecchi portatori di handicap. Ma è cambiata completamente la ragione degli sfratti. Fino a qualche tempo fa l'85% erano per finita locazione; ora al 70% sono per morosità, perché gli affitti sono altissimi. E vi si aggiungono almeno 400.000 famiglie, in Italia, che hanno problemi a pagare il mutuo.
Quanta gente sarebbe interessata a un rilancio dell'edilizia pubblica?
C'è stata una forte crescita delle famiglie monoparentali, per cui il problema è ormai un'emergenza. Si parla di almeno 500.000 nuove famiglie di questo tipo. Cui si aggiungono le separazioni, l'immigrazione, ecc. Di fronte a questa domanda, le case pubbliche sono scese al 3% del patrimonio abitativo; fino a qualche anno fa erano il 5%. Mentre la media europea è del 20 (40% in Francia e anche di più in Germania). Non c'è alternativa al mercato, anzi tante iniziative sono state prese per costringere a gente a indebitarsi per comprare casa.
Questo tracollo è storia recente?
Gravissima è stata la vendita delle case degli enti, decisa da Tremonti. Il grosso di questi appartamenti era localizzato nelle grandi città, e soprattutto a Roma. Che infatti guida la classifica dei rincari. Nel '93-94 si costruivano in Italia 32.000 appartamenti pubblici l'anno; nel 2004 erano appena 1.900. Da quando è stata abolita la Gescal sono stati chiusi i rubinetti e si è smesso di costruire. Abbiamo chiesto agli enti locali di stanziare almeno il 2% del bilancio per la casa. Ma siamo ancora al punto che la Regione Lazio, per fare un esempio, considera una «grande vittoria» l'aver stanziato 100 milioni per tutte e cinque le province. Quante case ci puoi fare?
Soldi di stato e gestori privati
di Tommaso De Berlanga
La distanza tra la capacità di fotografare la realtà e quella di formulare proposte è in genere ampia. Ma nel rapporto elaborato da Nomisma sulla «Condizione abitativa in Italia. Fattori di disagio e strategie di intervento» risulta in certi momenti vertiginosa. Certo, se fosse stato scelto un istituto di ricerca meno intimo col presidente del consiglio l'impressione di «convergenza di interessi» non avrebbe preso corpo con altrettanta evidenza.
Ma tant'è. Partiamo dunque dai dati oggettivi, decisamente attendibili. Il «disagio abitativo» nel corso di un ventennio ha cambiato configurazione, contagiando chi vive in affitto (una popolazione non maggioritaria, ma prevalentemente a basso reddito - giovani coppie, persone sole,migranti, famiglie numerose e/o monoreddito, studenti fuori sede) ma anche molti «proprietari» alle prese con mutui dalle rate crescenti per effetto della politica monetaria della Bce. Disagio è un termine generico, che copre sia la difficoltà di far fronte alle spese sia la percezione di «inadeguatezza» della casa rispetto alle proprie esigenze vitali. In generale, comunque, gli affittuari sono più poveri dei proprietari. In totale, oltre tre milioni e mezzo di famiglie.
Non mancano le notazioni curiose, come l'accenno a «chi è costretto a vivere in ricoveri di fortuna (un fenomeno nuovo per l'Italia, quello delle bidonville)»; che testimonia quantomeno della giovane età dei ricercatori addetti alla stesura del testo, all'oscuro della realtà italiana degli anni '50 e '60, immortalata anche in film come Sporchi, brutti e cattivi.
Il sogno della casa di proprietà risulta fondamentalmente legato al «bisogno di sicurezza»; il «pericolo» però è identificato nel padrone di casa, notoriamente uno che ti può buttare fuori alla fine del contratto chiedendoti - come sta accadendo in questi ultimi anni - una cifra doppia o tripla per rinnovartelo. La crescita degli affitti, parallela a quella dei prezzi delle case, è infatti avanzata a un ritmo molto superiore all'incremento dei redditi. In sintesi: «tra la fine degli anni '70 e i primi anni '80 per circa il 60% degli affittuari il peso del canone non superava il 10% del reddito». Proprio quello che predicava allora uno slogan in voga nel movimento di lotta per la casa. Ora, invece, il 45% delle famiglie attualmente in affitto sacrifica al canone più del 25%. Per chi invece cerca in questo momento casa, l'affitto può anche essere superiore al salario medio: 1.523 euro per un appartamento di 90 mq a Roma, 1.252 a Milano, e così via.
Sul fronte dei proprietari mutuatari le cose non vanno meglio: crescono le famiglie indebitate e il grado di esposizione. Nomisma commenta serafica «questo è lo scotto che si è dovuto pagare per la diffusione ulteriore della proprietà della casa», come se non fosse stata una scelta politica quella di bloccare la costruzione degli alloggi popolari e spingere la gente in direzione dell'acquisto.
Tra le conseguenze sociali viene dato il giusto peso alla permanenza forzata dei giovani all'interno del nucleo familiare: la percentuale dei «mammoni» tra i 25 e 34 anni è salita del 12% in un decennio. E altrettanta rilevanza viene attribuita al numero degli immigrati, soprattutto per il tasso di natalità che li contraddistingue (il 10,3% dei nuovi nati).
Ma quando si passa alle strategie di intervento la concretezza improvvisamente scompare. Eppure si sa che il 38% delle famiglie a rischio povertà ha comprato una casa (il subprime all'italiana parte da qui); che le politiche dell'ultimo decennio «appaiono non facilmente riconducibili a un disegno unitario». Che occorra come minimo un «flusso di risorse finanziarie aggiuntive» allo zero esistente, è abbastanza ovvio. Che «la migliore politica consista in una pluralità coordinata di azioni mirate», anche.
Tutto diventa chiaro al momento di tirare le conclusioni: viene consigliato «un modello di gestione davvero innovativo rispetto al passato», perché «in ogni caso il pubblico non può essere un gestore più efficiente dell'operatore privato». Voilà la soluzione: soldi pubblici per costruire case e un gestore privato per amministrarle guadagnandoci. Semplice e innovativo, come il partito democratico
Le nostre città sono invivibili per tre ordini di problemi. Sono preda di un inquinamento atmosferico elevatissimo causato dal traffico veicolare fuori controllo. Vivono una fase di espulsione di ceti popolari causata dal vertiginoso aumento dei valori immobiliari. Sono infine alle prese con l'impoverimento dei luoghi pubblici, dai servizi alle abitazioni. Vendute ai privati «perché si deve tagliare la spesa pubblica».
Per affrontare seriamente questi tre problemi, i sindaci delle grandi città avrebbero dovuto analizzare le cause del fallimento. Lo sforzo deve essere sembrato fuori della portata e non solo per fattori soggettivi. Analizzare l'invivibilità urbana avrebbe infatti costretto ad analizzare le cause strutturali che la producono e fare i conti con la cultura trionfante del neoliberismo. Proprio quello che la sinistra tradizionale rifiuta sistematicamente di fare. Additare i lavavetri, gli immigrati, i graffitari e i mendicanti come responsabili del malessere urbano è dunque la scelta disperata di chi ha deliberatamente scelto di non esercitare più alcuna funzione critica.
Insieme alla privatizzazione dei monopoli pubblici, dalle banche ai comparti produttivi, iniziata nella metà degli anni '90, in Italia sono state privatizzate anche le città, beni comuni per eccellenza. Passo dopo passo si è provveduto - con intese bipartisan - ad abolire le regole che presiedono alle trasformazioni urbane, con la conseguenza di lasciare le città, unico caso nell'Europa occidentale, in mano alla speculazione fondiaria.
A Milano il trasferimento della Fiera è stato impostato fissando anticipatamente il valore dell'utile da ricavare dalla valorizzazione immobiliare. Questo valore ha condizionato la gigantesca quantità di cemento che verrà realizzata con tre grattacieli. Se la città è in grado di sopportare l'aumento di funzioni che ne conseguirà non è stato valutato. Se era meglio diradare l'area e creare una zona verde per migliorare la qualità della vita (Milano è la 29ma delle trenta città più inquinate del mondo) non è stato preso in considerazione.
A Roma è accaduto un caso ancor più paradigmatico. I giornali economici denunciano nel 2005 che i bilanci della società calcistica Roma sono giunti ad un livello di indebitamento prossimo al fallimento. Su un'area periferica di sua proprietà, la società propone allora all'amministrazione comunale di poter realizzare un grande quartiere residenziale così da recuperare, lo si afferma esplicitamente nella trattativa, una parte del disavanzo. All'approvazione del progetto, è l'autorevole settimanale Il Mondo ad informarci, la Roma fissa nel proprio bilancio il nuovo valore dei terreni portandolo dagli originari 5 a 65 milioni di euro. 60 milioni di euro guadagnati sulle spalle dei cittadini che vedranno aggravarsi le condizioni del traffico.
I destini urbani si decidono oggi volta per volta, sulla base di una contrattazione economica con la proprietà. Non c'è più alcuno spazio per il tema della vivibilità, per i servizi alle persone, per il verde pubblico. Ma per i neofiti dell'adorazione del mercato doveva ancora venire il colpo di grazia.
Nell'estate 2006 il governo Prodi sembrava orientarsi verso l'inasprimento del carico fiscale sul comparto edilizio. Le prime indiscrezioni dei media parlavano di un decreto legge che conteneva aggravi sui trasferimenti di proprietà e altro. Nel fuoco di sbarramento non si sono distinte soltanto le associazioni della proprietà edilizia, Confedilizia e Assoimmobiliare, Sole 24 0re e Confindustria.
In soccorso del potere economico è scesa una delle principali agenzie del rating internazionale, Standard & Poor's, che affermò «che il decreto sugli immobili potrebbe incrementare i costi delle transazioni e impattare negativamente sul mercato». Il decreto fiscale venne approvato senza il capitolo che riguardava le rendite immobiliari. Il parere di Standard & Poor's fu decisivo: si tratta dei severi custodi del «mercato».
Nell'estate 2007 i mercati finanziari mondiali sono scossi dallo scandalo dei mutui subprime statunitensi. Si scopre che un'immensa operazione di sostegno finanziario al settore delle costruzioni era stata finanziata senza alcuna reale copertura. I mutui concessi alle famiglie americane non erano legati ad alcun reale valore, erano cartolarizzati, volatili come le società che li producevano. Alcune di queste società protagoniste della grande truffa erano state classificate proprio da Standard & Poor's nella fascia di più elevata solvibilità, la ambita tripla «A».
Con il neoliberismo siamo dunque passati da una fase storica in cui i destini delle città venivano decisi dai cittadini ad una nuova fase dominata capitale finanziario internazionale e da società di comodo che vengono dipinte come severi e imparziali arbitri. Nelle nostre città si costruisce tanto non sulla base di una domanda interna, la popolazione italiana come noto non cresce, ma perché esiste una liquidità gigantesca che deve essere investita: solo i mutui subprime hanno creato 640 miliardi di dollari.
E mentre le città si sviluppano in modo incontrollato senza alcuna regola, gli stessi sindaci impegnati nella contrattazione con la proprietà immobiliare fingono di avere una grave amnesia e invocano il rispetto delle «regole», ma soltanto per i lavavetri e i marginali.
Titolo originale: When's a home not a home? When it's a live/work space – scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Si chiamano alloggi abitazione/lavoro, e sono spuntati in tutti i centri urbani del Regno Unito. Sono rivolti ai pionieri del lavoro direttamente da casa, e spesso offrono una progettazione architettonica d’avanguardia.
Ma ora centinaia di acquirenti che li usano solo per abitare rischiano lo sgombero, a seguito di un’azione degli uffici urbanistici comunali.
La circoscrizione londinese di Hackney ha già spedito 600 “avvisi di contravvenzione urbanistica”, e altre amministrazioni nel paese stanno esaminando da vicino la situazione.
Due settimane fa, i 75 proprietari di Union Wharf, complesso dall’aspetto molto trendy a un tiro di sasso da Hoxton, N1, hanno sobbalzato aprendo una lettera dall’aria innocua della circoscrizione di Hackney.
Era firmata da un funzionario, e comunicava che stavano contravvenendo alle norme urbanistiche: dovevano lasciare le proprie abitazioni, oppure fare richiesta per un’autorizzazione a uso residenziale entro 28 giorni.
“Ricevere questa lettera è stato un autentico choc” spiega il ventinovenne Nichola Waterfall, mentre sfoglia le pagine con un’aria disorientata. “In teoria, pare che l’amministrazione possa ordinare che noi non si possa più abitare qui”.
Il problema, secondo la circoscrizione di Hackney, è che gli abitanti di Union Wharf usano i propri spazi solo per abitarci, anziché come ambienti da cui svolgere un’attività: quindi contravvengono all’autorizzazione urbanistica.
A Hackney – una delle prime municipalità di Londra ad aver consentito la realizzazione di spazi a categoria ibrida – la questione sta iniziando a raggiungere proporzioni epiche.
E si prevede che altre amministrazioni seguiranno a breve, se questi avvisi di contravvenzione avranno effetto.
Dopo che ampi tratti delle aree produttive della municipalità erano state trasformate in appartamenti trendy, l’amministrazione di Hackney ha tirato i freni e nel 2003 ha revocato le norme urbanistiche supplementari che incoraggiavano spazi abitazione/lavoro.
A partire da allora, ha spedito 600 avvisi di contravvenzione ai proprietari degli appartamenti così classificati, e quest’anno ha istituito un ufficio espressamente dedicato alla questione.
“Dobbiamo tutelare gli spazi per attività economiche sui margini della City” spiega Mary Anna Wright, capo ufficio stampa di Hackney. “Gli spazi abitazione lavoro avrebbero dovuto essere ceduti come tali, quindi se chi li utilizza non lo sapeva ora deve rivolgersi a chi glie li ha venduti”.
Ai sensi della Sezione 172 del Town and Country Planning Act 1990, le amministrazioni possono anche “rimediare” tramite deroghe alle norme urbanistiche. Ma, visto che si tratta di un fenomeno tanto nuovo, le norme sugli spazi abitazione/lavoro sono particolarmente vaghe.
L’amministrazione afferma che chiunque occupa un appartamento di questo tipo deve pagare le imposte per le attività economiche, oltre che quelle municipali. Agli spazi si applica anche la tassa sui capital gain quando viene ceduta la parte dell’attività.
Gli abitanti lamentano che l’amministrazione li sta trattando in modo troppo severo. Quattordici degli appartamenti di Union Wharf sono stati comprati dalla Notting Hill Housing Association, che poi li ha rivenduti a lavoratori dei servizi essenziali in “ shared equity”, con l’accordo che fossero utilizzati esclusivamente ad uso residenziale.
Oltre che prendere di sorpresa gli inquilini, questa azione sembra aver confuso anche l’associazione. “Stiamo cercando di capire meglio i problemi connessi” spiega Rachel Bhageerutty, dell’ufficio stampa della Notting Hill.
Nella crisi innescata dai mutui subprime statunitensi vengono a galla - tra gli altri - due movimenti di lungo periodo decisamente contraddittori: la diminuzione del potere d'acquisto dei salari e l'incremento forsennato del numero dei proprietari della casa d'abitazione. Movimenti tanto più contraddittori se innestati - com'è avvenuto - con la (quasi) continua rivalutazione di prezzo delle case e il diffondersi della precarietà lavorativa (incompatibile, a prima vista, con l'indebitamento di lungo periodo proprio di un mutuo).
Sull'impoverimento relativo dei lavoratori dipendenti nel mondo occidentale - a far data quantomeno dal 1989 - basti pensare al fatto che ancora negli anni '70 la famiglia standard riusciva a vivere anche se monoreddito, mentre ora gli stessi livelli di vita sono possibili solo se i redditi sono almeno due. Eppure sempre più famiglie sono state «costrette» a diventare «proprietarie». In Italia sono ormai l'80%, mentre negli Stati uniti raggiungono il 70 (ma solo il 50% nel caso di famiglie nere o ispaniche). E proprio gli Usa forniscono l'esempio più chiaro. Due terzi di questi «proprietari» sono alle prese con un mutuo ipotecario. Proprietari precari, insomma.
Nel corso degli anni molto è cambiato. Fino agli anni '90 la concessione di mutui era quasi un'esclusiva delle tre agenzie controllate dal ministero del tesoro (Fannie Mae, Freddie Mac, Ginnie Mae), che avevano adottato criteri assai restrittivi per l'erogazione (garanzie, tetto massimo di 417.000 dollari, documentazione). Poi questo «mercato» è stato aperto ai privati, che hanno immediatamente «liberalizzato» i criteri per la concessione (garanzie zero, continuità di reddito improbabile, abolizione del tetto massimo, ecc), avviando una furibonda concorrenza sia con le agenzie «pubbliche» che tra di loro (piani di ammortamento squinternati con rate basse all'inizio per invogliare i clienti, documentazione zero). Naturalmente queste società finanziarie non erano costituite da novelli Robin Hood che dispensavano soldi a vanvera, ma da prudenti speculatori che «cartolarizzavano» ogni credito in modo da garantirsi da qualsiasi insolvenza altrui. I soloni del capitalismo di casa nostra chiamano questa pratica «ripartizione del rischio» e ne lodano «l'efficenza». In teoria non avrebbero torto. Ma dimenticano di tenere nel giusto conto l'elemento «quantità», che pure - in economia, soprattutto! - appare decisivo. Se un soggetto di mercato «ripartisce» altrove un debito, non succede nulla. Se lo fanno alcuni milioni, ci ritroviamo tutti indebitati. Tanto più se, com'è avvenuto, la via della cartolarizzazione è la strada obbligata di ogni fusione-acquisizione societaria è il leverage buyout: letteralmente, «acquisizione con capitale di prestito». Ossia a debito.
In Europa siamo leggermente in ritardo, ma non troppo (avete presente le nuove formule per «un mutuo anche se sei precario»?). Ma soprattutto abbiamo dovuto abolire (non ancora in Francia o Germania, però) l'edilizia pubblica, in modo da creare coattivamente una domanda supplementare di case che potesse da un lato far esplodere i prezzi e dall'altro obbligare gli aspiranti proprietari ad entrare in banca per indebitarsi (condizione che prima era vissuta addirittura come «una vergogna», in questo paese ad alto tasso di risparmio). Tanto, mal che vada, si «cartolarizza». Ossia: si socializzano le perdite. Il problema irrisolto è che, nonostante questa «socializzazione», alla fine i debiti ci mettono in crisi lo stesso. Con molta «efficienza».
Due ricerche autorevoli e recenti di Bankitalia e del Cresme ci consegnano una nitida fotografia del disagio abitativo nel nostro Paese. Un quinto della popolazione residente destinerebbe oggi all'alloggio oltre il 30% del suo reddito (una cifra oltre la quale, generalmente, gli istituti di credito sono restii a concedere finanziamenti) e tale condizione non sarebbe per nulla destinata a migliorare nel breve periodo. Al contrario, per la prima volta, il disagio abitativo non sarebbe più esclusivo appannaggio di chi vive in affitto, cominciando a riguardare anche chi, negli scorsi anni, attratto da mutui che coprivano tutto l'investimento necessario, ha acquistato la casa che occupa. Inoltre, il trend demografico del nostro Paese esporrebbe alla minaccia del disagio abitativo anche ulteriori quote di popolazione, a partire dai cosiddetti nuclei uni personali per i quali le spese di alloggio raggiungono addirittura l'insostenibile limite del 40% del reddito.
Occorrerebbero nuove politiche attive sulla casa. Però, dopo che il Tavolo di concertazione sulle politiche abitative del maggio scorso aveva fatto sperare su un rinnovato impegno del Governo, il recente Dpef pare lasciare tutto inalterato. Eppure è la stessa Bankitalia a ricordare che a fronte di una spesa sociale tendenzialmente allineata a quella europea, il capitolo destinato alla casa è solo dello 0,1% contro il 2,1 dell'U.E.
E' da metà degli anni '80 che il campo abitativo è stato consegnato al solo mercato privato. Da allora gli unici interventi svolti si sono per lo più limitati a sostenere e incentivare l'acquisto. E' accaduto tanto per i buoni casa, quanto per la detassazione delle transazioni immobiliari; interventi incapaci di calmierare il valore immobiliare (non a caso salito nel periodo 85-2005 da 5,6 annualità consecutive di retribuzione a 9,1) e che hanno drenato la quota messa a risparmio interamente dentro la rendita immobiliare. Lo stesso, per lo più, è accaduto nelle politiche di sostegno alla locazione e sarebbe bene ricordarsene quando - di questi tempi- troppe volte la proprietà edilizia suggerisce di stimolare il merca
L’enorme patrimonio (pubblico) di centinaia di immobili militari inutilizzati passa dalla Difesa nelle mani del Demanio e dei Comuni. Spetta a loro decidere se utilizzarli per attività sociali o farne parcheggi e centri commerciali privati per battere cassa
La caserma “Staveco” occupa un intero isolato lungo la circonvallazione di Bologna, da Porta Castiglione a Porta San Mamolo. 37.500 metri quadrati subito fuori dal centro storico. Dentro c’è un parcheggio, gestito dal Comune, la sede di un Centro ricreativo dei dipendenti della Difesa e decine di capannoni, vuoti e abbandonati da almeno trent’anni (la Staveco -foto in basso- era un deposito per mezzi pesanti). Entro breve potrebbe diventare un parco pubblico, ma anche un enorme parcheggio sotterraneo o appartamenti di pregio: il governo italiano ha deciso di valorizzare gli immobili militari inutilizzati, un’eredità del XX secolo che la fine della leva obbligatoria, l’obiezione di coscienza e il calo demografico -ma soprattutto il cambiamento avvenuto nel modello di guerra e di presidio del territorio- hanno reso inutili. La Finanziaria 2007 stabilisce che nell’arco di due anni 804 immobili in tutta Italia passino dal ministero della Difesa all’Agenzia del demanio, nata nel 1999 e responsabile della gestione e valorizzazione del patrimonio immobiliare dello Stato.
Si tratta di caserme dismesse, depositi di armi abbandonati, vecchi arsenali militari -le fabbriche di armi- ed ex campi di addestramento per un valore complessivo di 4 miliardi di euro.
Sempre con l’ultima Finanziaria il governo ha creato uno strumento ad hoc per la gestione degli ex immobili della Difesa (e non solo, vedi il box nella pagina a fianco): si tratta di una “concessione di valorizzazione” di 50 anni, detta per questo concessione “lunga”. In pratica, un investitore privato presenta al Demanio un progetto imprenditoriale, dimostra la sostenibilità economica e finanziaria dell’azione e assicura per mezzo secolo un affitto al Demanio (cioè alla casse dello Stato).
Gli imprenditori edili hanno subito drizzato le antenne: erano in tanti al workshop organizzato a fine maggio a Milano dall’Agenzia del demanio per presentare la “concessione lunga” alla fiera Eire (Expo Italia Real Estate) di Milano.
Il “la” ufficiale al progetto, che il Demanio ha chiamato “Valore Paese”, è arrivato con un decreto del 28 febbraio scorso. Sono stati trasferiti i primi 201 immobili (36 in Veneto, 28 in Emilia Romagna, 26 in Piemonte, 25 in Lombardia: la mappa completa è nella pagina a fianco), la maggior parte dei quali sono nei quartieri centrali delle principali città italiane. La seconda tranche è prevista a luglio.
Il 5 maggio, a Bologna, l’Agenzia e il Comune hanno firmato un protocollo d’intesa per avviare la “valorizzazione” dei primi 12 beni del pacchetto “Valore Paese”, 600 mila metri quadrati in zone di pregio (“Erano immobili. Oggi vi vengono incontro” lo slogan scelto del Demanio). Il protocollo crea un tavolo tecnico tra Demanio e Comune, per scegliere la destinazione degli immobili. Il ruolo degli enti locali è fondamentale: tocca a loro, infatti, modificare la destinazione d’uso degli immobili e decidere gli “indici edificatori”, ossia se e in che percentuale può essere aumentata la cubatura.
A Bologna la firma del protocollo coincide con il dibattito sul nuovo Piano strutturale comunale, che dovrebbe essere approvato entro il febbraio 2008. Il Comune può scegliere di destinare un parte degli immobili a usi pubblici e sociali. E sembra intenzionato a farlo, almeno in parte: della ex Staveco, ad esempio, che confina con i Giardini Margherita, il più grande parco pubblico di Bologna, il Comune vorrebbe fare una porta d’ingresso alla collina (subito dietro sorge la chiesa di San Michele in Bosco). L’assemblea del quartiere Porto - che si è riunita con l’assessore all’urbanistica Virginio Merola per scegliere la destinazione del bene - vorrebbe realizzare degli impianti sportivi, il Comune pensa anche a parcheggi sotterranei.
Un’altra delle aree trasferita dalla Difesa è quella dei Prati di Caprara, 27 ettari di verde usati per l’addestramento dei militari e molto poco edificati. L’assessore Merola spiega il meccanismo della valorizzazione: al margine del parco ci sarà una zona residenziale, e nell’intenzione del Comune chi costruirà le abitazioni realizzerà anche il recupero del parco, a costo zero per le casse comunali. Solo per recuperare la ex Staveco la spesa stimata è di 40 milioni di euro. Il Demanio, a inizio giugno, ha raggiunto un accordo con la Cassa depositi e prestiti, che si è impegnata a garantire finanziamenti agevolati a 50 anni agli Enti locali per la valorizzazione gli immobili pubblici, ma il comune di Bologna non sembra intenzionata a chiedere un prestito.
Intanto il Collegio dei costruttori edili incalza: vorrebbe almeno il 40% degli spazi lasciati alla libera iniziativa privata. Durante un dibattito radio con Merola, il direttore del Collegio, Carmine Preziosi, ha affermato che “la differenza tra costi e ricavi deve essere almeno del 30 per cento”. Altrimenti i privati potrebbero scegliere di non partecipare. E a Bologna -spiega Valerio Monteventi, consigliere comunale e presidente della quinta Commissione “Politiche abitative e della casa” - “il governo della città non è autonomo dalla esigenza dei signori del mattone”, che hanno appena mandato deserta una gara per costruire appartamenti a prezzi calmierati nell’area dell’ex mercato Fioravanti (vedi box a pagina 19).
Il meccanismo della “valorizzazione” è ancora più semplice per come ce lo racconta l’ingegner Mario Venturini, assessore all’Urbanistica del comune di Brescia, che insieme a quelli di Ferrara e Fano è stato protagonista della firma del secondo protocollo d’intesa con l’Agenzia del demanio, a inizio giugno: “L’accordo in sé è elementare. Da un lato il Comune è disponibile ad acquistare il controllo dei due spazi aperti, Campo di Marte e la Polveriera di Mompiano, che saranno destinati a parchi naturali attrezzati. Dall’altra il Demanio ci chiede che due immobili presenti in città possano avere un cambio di destinazione urbanistica”.
In particolare, in gioco c’è il futuro della caserma “Gnutti” (nella pagina precedente), che interessa molto costruttori e immobiliaristi. “É senz’altro l’elemento più interessante, in pieno centro storico - riprende Venturini-. Era destinata agli ufficiali, ed è vuota da parecchi anni”. Per il futuro della Gnutti l’assessore pensa a una destinazione residenziale o a un terziario direzionale di qualità, uffici di rappresentanza. D’altronde è un edificio di pregio: era il comando, la sede del circolo ufficiali.
Come si “valorizza”
La concessione di valorizzazione o “concessione lunga” è un nuovo strumento introdotto dalla Finanziaria 2007 (al comma 259) e consente l’affitto fino a 50 anni a soggetti privati di un immobile di proprietà dello Stato, che resta titolare del bene.
L’Agenzia del demanio l’applicherà a tutti quei beni (circa 11.500) che potrebbero garantire un reddito allo Stato in caso di gestione economica da parte di investitori privati compresi gli ex immobili militari trasferiti del ministero della Difesa nell’ambito del progetto “Valore Paese”.
Il primo bando di gara, promosso a fine giugno, riguarda la Villa Tolomei, a Firenze. Si tratta di una concessione non gratuita, e rivolta unicamente a soggetti privati: chi presenta un progetto di “valorizzazione” deve garantire di svolgere un’attività economica e dimostrarne la sostenibilità economica, assicurando che i costi per la riconversione dell’immobile non superino i ricavi derivanti dall’attività e di essere in grado di pagare all’Agenzia del demanio un affitto (determinato sulla base del valore del bene e del suo rendimento).
La riqualificazione e riconversione del bene nell’ambito di una concessione di valorizzazione prevede la modifica della destinazione d’uso dell’immobile e anche la possibilità di costruire nuovi edifici.
Un’operazione da 4 miliardi
Il comma 263 della Finanziaria 2007 trasferisce dalla Difesa al Demanio 804 beni immobili non più necessari per usi militari, il cui valore complessivo stimato è di 4 miliardi di euro. Il piano di cessione prevede quattro tranche. Il decreto per la prima, che contiene l’elenco di 201 immobili in tutte le Regioni italiane nona Statuto speciale (vedi mappa), è stato firmato il 28 febbraio scorso. L’elenco dei beni è su www.agenziadeldemanio.com
Illy: meglio i negozi
Anche il Friuli Venezia Giulia potrà “valorizzare” le sue ex caserme. A differenza del resto del Paese, però, la Regione autonoma acquista la piena titolarità sui 36 immobili elencati in un Decreto legislativo del 2 marzo di quest’anno.
In virtù dello Statuto speciale si tratta di una cessione gratuita, che il governo regionale intende far fruttare. L’ufficio stampa spiega che la Regione, una volta entrata in possesso dei beni (il trasferimento non si è ancora perfezionato), ne cederà la titolarità ai comuni. Però il presidente Riccardo Illy (nella foto) è stato chiaro: se in un periodo tra i due e i quattro anni i Comuni non riusciranno ad avviare progetti di “valorizzazione”, le cessioni saranno revocate.
Per valorizzare Illy intende che prima si cambia la destinazione d’uso dell’immobile, e solo dopo si mette in vendita il bene. L’obiettivo è di avere complessi residenziali e negozi nelle ex caserme, e in cambio un po’ di soldi nelle casse regionali.
L’edilizia sociale non paga
L’affitto non paga. Nonostante condizioni favorevoli -un’area di 22 mila metri quadrati di proprietà comunale messa a disposizione a un euro al metro quadro- a fine maggio nessun costruttore ha partecipato alla gara d’appalto indetta dal Comune di Bologna per la realizzazione di 300 alloggi nell’ex mercato ortofrutticolo di via Fioravanti, nel popolare quartiere Navile. Il piano di utilizzo degli spazi è stato elaborato dal Comune nell’ambito di un laboratorio di ri-progettazione partecipata (“Laboratorio mercato”), che per due anni ha coinvolto nelle sue attività i cittadini del quartiere, che hanno chiesto -tra l’altro- case in affitto a “canone concordato”. Secondo Carmine Preziosi, direttore del Collegio dei costruttori, alla condizioni del bando non c’erano margini di profitto: solo il 30% degli alloggi, infatti, poteva essere venduto; per gli altri, il bando di gara prevedeva l’affitto a canone concordato per 40 anni (a 350 euro per i piccoli appartamenti da 40-50 metri quadrati e 5-600 euro per quelli di 90 metri).
L’edilizia sociale è un problema per Bologna, città che ospita 60 mila lavoratori e 40 mila studenti fuori sede (questi hanno a disposizione 1.500 posti letto tra ostelli e studentati). In città ci sono anche 600 alloggi Erp (Edilizia residenziale pubblica) che attendono la ristrutturazione per essere poi assegnati. Tutte le info sul laboratorio di quartiere su: www.comune.bologna.it/laboratoriomercato (sopra una riproduzione dell’area “com’è stata immaginata”).
Titolo originale: Developmentalism in the Big Apple – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Trent’anni fa, si poteva trovare facilmente un monolocale in un quartiere di ceto medio di New York City a 150 dollari al mese. Oggi, ne costa oltre 1.500: più di quanto il giocatore degli Yankees Reggie Jackson, all’epoca il più pagato nel baseball, guadagnasse nel 1977. Il suo appartamento sulla Fifth Avenue con terrazza affacciata su Central Park costa 1.466 dollari al mese. Mentre la paga minima non è certo salita a 27,82 dollari l’ora.
Come siamo arrivati a questo punto, è l’argomento del libro di Kim Moody, From Welfare State to Real Estate: Regime Change in New York City, 1974 to the Present (The New Press). Moody analizza il modo in cui il ceto affaristico di New York ha sfruttato la crisi fiscale degli anni ’70 per distruggere la “politica socialdemocratica” della città e imporre il programma neoliberale che detta “tagli alla spesa sociale, privatizzazioni, deregulation, e cosa più importante il riaffermarsi di un potere di classe da parte dei capitalisti”.
Ne risulta una città dove la disuguaglianza è cresciuta sino a livelli estremi, ben oltre quelli di altre zone del paese, in cui un piccolo ma in crescita gruppi di cospiratori, costituito dagli incredibilmente ricchi, usa l’amministrazione come macchina per far soldi, esercitando un potere assoluto su uno svuotato ceto medio e su milioni di lavoratori dei servizi, spesso immigrati, e con paghe minime. Moody, che è co-fondatore di Labor Notes, espone tutto questo con lucidità e chiarezza. Per chi ama New York, la lettura di questo libro è un momento di comprensione e rabbia, come davanti alla storia di un delitto di cui si conosceva personalmente la vittima.
É convinzione diffusa, che la crisi fiscale del 1975 sia stata causata da politiche riformiste fuori controllo: l’estensione dei servizi sociali negli anni ’60, o i costi di gestione della più ampia rete di servizi di qualunque città americana, con 22 ospedali pubblici, un sistema universitario gratuito e la più capillare metropolitana del mondo. Moody indica come le spese in quella direzione avessero fortemente rallentato già dagli anni ‘60, mentre lievitavano per la città i costi degli interessi sul debito. Postula che l’eliminazione delle forti riduzioni fiscali per le imprese costruttrici avrebbe potuto far molto per evitare la crisi. Una spiegazione che appare un po’ fragile: la causa strutturale profonda era la massiccia deindustrializzazione della città. Moody nota come New York abbia perduto la sconvolgente quantità di 600.000 posti di lavoro industriali, fra il 1968 e il 1977. Fu eliminata così la ricchezza dei ceti lavoratori che era la base politica ed economica a sostegno del sistema di infrastrutture pubbliche. Sparì anche la fonte tradizionale di reddito legale dei quartieri più poveri della città.
Spaventati da quanto avrebbe potuto succedere in caso di bancarotta del sistema, i sindacati locali collaborarono al programma delle élite, di tagli dei posti di lavoro e dei servizi. La trasformazione verso un’economia dominata dalla finanza ripristinò in assoluto la ricchezza della città, ma la sua distribuzione ne risultò fortemente diseguale. E visto che il mondo del lavoro aveva tacitamente acconsentito a questa evoluzione delle cose, la politica della città nei 25 anni successivi sarebbe stata dominata da orientamenti razziali. Gli elettori bianchi votarono Ed Koch o Rudy Giuliani, con la sua campagna e le politiche orientate da slogan di basso profilo per legge-e-ordine. David Dinkins, unico sindaco nero (1990-93), evoca più una diversità simbolica che non una vera messa in discussione del programma delle élite. Moody nota come il sindacato insegnanti rifiutò di sostenerne la rielezione: il motivo, perché Dinkins aveva promesso loro un aumento di stipendio, promessa poi non mantenuta dopo l’opposizione dell’ establishment.
L’attuale sindaco Michael Bloomberg è spesso definito un liberal – un’epoca senza valori, questa, quando il solo fatto di non essere fanatico rispetto alla vita sessuale altrui basta a qualificare in qualche modo come progressista — ma è in realtà un devoto plutocrate. Non aggressivo come Giuliani (anche se simile a lui nel disprezzo per le libertà civili), ma il suo ruolo richiede tratti caratteriali diversi. Obiettivo di Giuliani era di mettere ordine nelle questioni razziali “ingovernabili”; quello di Bloomberg di consentire ai ricchi di accumulare altri mucchi di soldi. Moody definisce la filosofia del sindaco “immobiliarismo”: affollare lo skyline di torri ad appartamenti di lusso, regalando più di 3 miliardi di dollari l’anno di tagli fiscali a imprese e abitazioni per ricchi, mentre una quantità crescente di lavoratori residenti a New York spende oltre la metà di quanto guadagna per l’affitto. Nel corso di questo boom immobiliare, nota Moody, non solo il prelievo dai ceti operai — redditi e tasse commerciali — ha sorpassato le imposte sugli immobili come base di introiti per la città, ma lo stesso sistema delle tasse sugli immobili è così distorto che il proprietario di una casa bifamiliare di un quartiere nero a redditi medio-bassi vicino all’aeroporto Kennedy Airport paga quasi tre volte la percentuale sul valore di mercato di dodici stanze affacciate sulla Park Avenue.
Bloomberg ha fatto alcune promesse altisonanti, sulla costruzione di case economiche, ma Moody analizza le formule utilizzate per definire cosa venga considerato “economico”. Sulla base del reddito medio nell’area metropolitana, gli appartamenti che si affittano fino a 1.800 dollari al mese vengono classificati “medi”, come quelli nel progetto sportivo/residenziale per le Atlantic Yards a Brooklyn. E sia il sindaco che il Governatore Eliot Spitzer, un Democratico, si oppongono al ripristino del potere della città di controllare gli affitti. Moody non approfondisce molto la questione, ma la legge statale del 1971 che proibì alla città di contenere gli affitti in misura superiore a quanto accadeva nel resto dello stato, fu un annuncio dell’epoca neoliberale. Metteva di fatto il potere nelle mani dei Repubblicani delle zone suburbane ed esterne, i cui legami principali con la città sono i soldi che ricevono dai proprietari. Quando eliminarono tutte le norme di controllo degli affitti nel 1997, e poi quando l’ex Governatore George Pataki in pratica eliminò qualunque forma di repressione riguardo a canoni illegalmente elevati, l’amministrazione cittadina non fu in grado di far nulla per fermarli.
Contro tutto questo, Moody auspica la possibilità che emerga qualche nuova spinta sociale, dal milione di iscritti cittadini ai sindacati, o da organizzazioni di base come la Make the Road By Walking di Brooklyn, o da gruppi di quartiere e per la casa o anti- gentrification, per lottare contro il neoliberalismo. É una speranza debole per ora, ma essenziale.
Una recente, promettente tendenza, è la crescita delle organizzazioni contro il “razzismo ambientale”, ovvero la pratica di collocare inceneritori nei quartieri operai poveri latini e neri, già inquinati. Come mi ha detto un amministratore nei primi anni ’90 quando seguivo la campagna contro un impianto da 55 strati nella zona dei cantieri navali di Brooklyn: “Dove altro dovremmo metterlo? Sulla Quinta Strada?”
Un libro di Julie Sze, Noxious New York: The Racial Politics of Urban Health and Environmental Justice (MIT Press) analizza il modo in cui gli attivisti in questi quartieri presi di mira uniscono le questioni ambientali a quelle di classe e razza. Si sviluppano anche nuove tattiche com ele cosiddette “Squadre Terra”, adolescenti che collaborano con la Columbia School of Public Health per rilevare fuliggine e inquinamento da particolato in quattro incroci nella zona del deposito autobus di West Harlem; i militanti hanno usato i dati raccolti per convincere l’amministrazione a cambiare gli autobus, a veicoli ibridi.
Dal movimento emergono due principi. Uno è il focalizzarsi sugli effetti cumulativi dell’inquinamento nel quartiere. Nel South Bronx, dove in alcune scuole aveva l’asma il 40% degli alunni, gli attivisti hanno osservato che un proposto inceneritore di rifiuti sanitari avrebbe solo peggiorato le cose. Quando Giuliani ha chiuso la leggendaria puzzolente discarica di Fresh Kills a Staten Island nel 1996, e progettava di privatizzare lo smaltimento dei rifiuti e trasportarli via camion verso altri stati, una delle critiche principali al piano è stata che si sarebbero rovesciati gli scarichi dei motori diesel nell’aria di Williamsburg e del South Bronx, che ospitano gran parte dei punti di smistamento dei rifiuti della città. L’altro principio emerso è quello di “precauzione”, ovvero che sono i potenziali inquinatori a dover dimostrare che le loro operazioni si svolgeranno in modo non dannoso, e non le comunità a dover provare danni diretti.
La Sze intreccia in modo affascinante alcune storie nel suo libro, come quando sottolinea che all’inizio del XX secolo, l’80% delle città degli USA prescrivevano di riciclare i rifiuti organici e le ceneri di carbone. Ma si tratta di una scrittura che spesso cade nell’ovvio. Quando descrive il volantino delle organizzazioni ambientaliste che propone il Governatore Pataki insieme a un ragazzino nero con inalatore per l’asma, la Sze scrive, “ Un contrasto visivo, quello fra il politico più potente dello stato e il bambino di colore con l’asma, che rappresenta in modo letterale le politiche di base [dei gruppi] e il sistema delle convinzioni”. Visto che sono stati incrociati i documenti delle varie campagne per la giustizia ambientale, il libro avrebbe potuto anche avvantaggiarsi di diverse testimonianze dei protagonisti e delle comunità, valutando quali strategie paghino, e quali no: cosa che non è stata fatta e di cui c’è gran bisogno.
Abbiamo disperatamente bisogno di saggezza organizzativa, in particolare di fronte a quello che dimostrano chiaramente questi due libri, ovvero che il neoliberalismo è una miscela velenosa di oppressione economica e devastazione ambientale.
Un flop il bando di gara sulla costruzione di alloggi in affitto all´ex mercato di via Fioravanti. Doveva essere l´inizio di una nuova era, quella della costruzione di case in affitto, dopo un decennio di chiacchiere inutili. I primi trecento alloggi a prezzo accessibile dei tremila che il Comune vuole realizzare in città. E invece ora si rischia persino di perdere i 6 milioni di euro stanziati dalla Regione.
Non si è presentato nessuno. Non un´impresa privata, né una cooperativa delle tante che dicevano di voler costruire case a poco prezzo. Ora i costruttori accusano: «E´ stato un dialogo tra sordi, non ci sono margini di profitto per le imprese private». Ma il Comune risponde: abbiamo dato tutto quello che ci avete chiesto, di più sarebbe un intollerabile spreco di risorse, meglio cambiare la legge e affidare all´Acer o altre istituzioni il compito di fare case in affitto.
In un modo o nell´altro sarà uno spartiacque la gara dell´ex mercato, dove il Comune aveva messo a bando un´area di 22 mila metri quadrati, valore di mercato 25 milioni, per un solo euro al metro. Terreno gratis, insomma, come chiedevano coop e costruttori. In più c´erano 6 mila euro di contributo regionale. Chi voleva poteva costruire fino a 300 alloggi. Solo il 30% però poteva essere venduto, gli altri in affitto per 40 anni.
Niente da fare. Non si è presentato nessuno. Eccetto un´impresa piccola che all´ultimo momento ha chiesto una proroga. Troppo tardi. Proroghe ne erano state date fin troppe dal Comune. Decine gli incontri con le imprese e i costruttori. Carmine Preziosi del collegio costruttori oggi accusa: «Non ci sono margini di profitto, servono più sostegni pubblici». Di parere opposto è l´assessore alla Casa Virginio Merola. «Più di così non potevamo fare - dice - aumentare i finanziamenti pubblici o il numero di case private da costruire su terreni pubblici sarebbe uno spreco di risorse inaccettabile». L´alternativa? «Rivedere la legge - risponde l´assessore - nessuno può chiedere ai privati o alle coop di rinunciare al profitto, allora bisogna che le case in affitto le costruisca qualcun altro: l´Acer o altri soggetti che oggi per legge non possono partecipare». E mentre chiede un cambiamento della legge («a questo punto ci riteniamo liberi dai vincoli del bando regionale») Merola si prende pochi giorni e per decidere in tempi brevi come rispondere.
Costruire case a costo accessibile é la risposta alla crescita spropositata dei valori immobiliari che, a seguito della finanziarizzazione, ha ormai connotati sempre più speculativi. La Francia con la legge Borloo, case a 100 mila euro, e soprattutto l’Inghilterra con la riforma del social housing avviata nel 1997 dai laburisti sono due esempi di come paesi a noi vicini si muovono in questa direzione.
I requisiti di fondo per la costruzione di case a costo accessibile sia per la vendita che per l’affitto sono tre:
- utilizzare suolo di proprietà pubblica o nella disponibilità di un soggetto pubblico per abbattere i costi di costruzione;
- utilizzare risorse economiche non speculative raccolte sul mercato dei capitali per integrare il contributo pubblico;
- coinvolgere soggetti gestori del processo a carattere non speculativo che si occupano della riscossione dei canoni, della manutenzione degli immobili e di tutti servizi complementari contribuendo alla costruzione di un più forte senso di comunità.
In Italia sono in corso dei tentativi soprattutto nelle città del nord, quello di Milano avviato dalla Fondazione Cariplo attraverso la “Fondazione housing sociale” é il più avanzato. Altri tentativi sono in corso a Torino con la fondazione San Paolo, e ad Alessandria. A Roma l’Università Roma Tre ha presentato al comune un progetto di housing sociale per 1000 alloggi destinati solo all’affitto da costruire su aree pubbliche.
Manca però una volontà politica forte che vada in questa direzione e che comprenda soprattutto che non esistono vie italiane a questo modello. La scelta non può che essere l’avvio di un mercato intermedio tra quello sociale e quello speculativo del libero mercato. Per fare questo occorrono le tre condizioni di cui sopra, altri tentativi che vogliono tenere insieme le cose rischiano di naufragare, come quello di Bologna, o dall’altra parte rischiano di far passare per housing sociale interventi speculativi o di svendita a privati del patrimonio pubblico.
Il caso di Bologna insegna che non basta fare un bando e sperare che le imprese immobiliari si accontentino del 5% di redditività degli investimenti. Perché dovrebbero accettare questa limitazione? Perché stupirsi che il bando é andato deserto? Perché stupirsi che l’Associazione costruttori cavalcando l’insuccesso si proponga come l’interlocutore unico per risolvere il problema casa?
L’errore é aver puntato sulle imprese di costruzione invece di coinvolgere soggetti no profit. (Giovanni Caudo)
l'Unità
45mila sfratti l’anno, un’odissea chiamata casa
di Mariagrazia Gerina
In Francia nel 2005 si sono costruite 300 mila case, di queste 120 mila erano alloggi sociali. In Italia nello stesso periodo si sono costruite più abitazioni, 350 mila in tutto, e solo 1.500 alloggi popolari. Le case, in Italia, ci sono. Anzi, a fronte di 22,8 milioni di famiglie, sono 28,3 milioni. Eppure il disagio abitativo è in aumento. Un dato, fornito dal ministero dell’Interno lo racconta meglio di altri: in un anno (il 2005), ci sono stati 33.200 sfratti per morosità. In gran parte si tratta di persone che a fine mese non hanno abbastanza soldi per pagare il canone. Come suggerisce un altro dato decisamente significativo: su 4,3 milioni di famiglie che si rivolgono al mercato dell’affitto, il 75% vive con meno di 20 mila euro l’anno. Più o meno il reddito richiesto per accedere alle graduatorie per l’assegnazione di alloggi popolari, che però sono appena il 6% del patrimonio abitativo nazionale, in Europa la media è del 16%.
È in questi numeri, prodotti soprattutto nel grandi aree metropolitane del paese, la ragione dell’allarme sollevato dal sindaco di Roma Walter Veltroni con una lettera che, inviata mercoledì scorso, fa appello a nove ministri per lanciare il «patto sulle questioni sociali». La casa, prima di tutto. Perché l'«aumento del bisogno alloggiativo che si registra a Roma e nelle altre aree metropolitane» chiede risposte immediate. E perché la maggior parte del reddito familiare se ne va per la casa.
La metà delle famiglie italiane vive con meno di 1800 euro al mese. Mentre, secondo i dati Anci Cresme, nelle grandi città gli affitti sono aumentati negli ultimi anni dell’85%. A Roma i nuovi contratti impongono un canone medio di 1400 euro al mese, a Napoli a 1100, a Milano a 1600. Il 40% dei giovani compresi tra i 25 e i 34 anni fatica ad andarsene di casa. La spesa media per l’affitto nel 2006, secondo un’indagine Censis-Sunia-Cgil, ha raggiunto in Italia i 440 euro al mese (contro i 387 del 2003), che salgono a 600 nelle aree metropolitane.
Su 131 mila domande presentate in un anno per ottenere un alloggio popolare - dati Anci-Cresme -, solo 10.457 sono state soddisfatte dai Comuni. In totale, in Italia gli alloggi popolari sono poco più di 800 mila. Gli altri sono costretti a stare al passo con il mercato. Ma spesso non ce la fanno.
In tutto, nel 2005, sono state emesse 44.988 sentenze di sfratto, di queste 10.953 per finita locazione, solo 835 per necessità del locatore, il resto per morosità. Sono appunto le 33.200 famiglie sfrattate perché non pagano l’affitto. Sempre nel 2005, gli sfratti eseguiti dalla forza pubblica sono stati 25.369, mentre le richieste di esecuzione di sfratto sono state 104.940, con un aumento del 35.32% rispetto all'anno precedente. Di queste, 10.225 a Roma, 37.883 a Milano, 6.643 a Napoli. Numeri che, sommati, nel quinquennio 2001-5 fanno: 210.437 sentenze di sfratto, 455.878 richieste di esecuzione, 114.554 sfratti eseguiti.
Analizziamo un altro dato, che riduce l’enfasi sulle famiglie (l’80%) proprietarie di una casa. L’indebitamento di quanti si sono rivolte a istituti di credito per contrarre un mutuo è stimato in 240 miliardi di euro solo nel 2006 (fonti Cresme ed Eurispes).
Lo Stato invece spende molto poco per le politiche abitative. Dal 1978 al 1998, i prelievi sulla busta paga dei lavoratori dipendenti garantivano un finanziamento di 3-4 miliardi di vecchie lire l’anno per i piani di edilizia residenziale. Chiuse quelle entrate nel 1998, una fonte alternativa non è stata individuata. Secondo l’Eurispes la spesa sociale per la casa ammonta appena a 3,3 euro pro capite contro i 53,5 euro della Germania e i 214 euro della Francia. I trasferimenti per le Regioni nel 2004 non superavano lo 0,10% del Pil. I contributi per l’affitto, in particolare, non superano lo 0,07% del Pil, mentre in Francia arrivano all’1,9%. Investimenti gravemente insufficienti secondo il Tavolo di concertazione sulle politiche abitative, che ha appena consegnato al governo alcune indicazioni per varare entro luglio dovranno tradursi un nuovo piano casa nazionale. «Ne discuteremo già nel prossimo Consiglio dei ministri», ha annunciato ieri Romano Prodi. Obiettivo, rilanciare un piano di nuova edilizia popolare per contenere la precarietà abitativa. Fondi necessari, secondo il tavolo: 1,5 miliardi l’anno, più 500 milioni di euro da spendere in contributi all’affitto. Mentre per incidere sul mercato degli affitti, la via indicata è quella degli sgravi Ici e delle detrazioni fiscali che incentivino i contratti a canone concordato e diano impulso anche ai Fondi immobiliari etici. Contemporaneamente, si ipotizzano oneri concessori ridotti per spingere anche le grandi aziende a promuovere nuovi piani edilizi per i dipendenti. Altra risorsa individuata dal tavolo sono le caserme e in generale il demanio. Oltre al patrimonio abitativo degli enti previdenziali, che i Comuni chiedono di censire per poter acquistare gli appartamenti non occupati con le stesse agevolazioni previste per gli inquilini.
Infine, nel caso in cui il governo dovesse decidere di cancellare l’Ici per la prima casa, il tavolo e l’Anci chiedono di individuare nuove fonti di finanziamento per i Comuni.
la Repubblica
Due miliardi per aiutare chi è in affitto
di Luisa Grion
ROMA - Meno tasse e sconti sull´Ici per chi decide di affittare la propria casa a canone agevolato; un miliardo e mezzo di euro l´anno - almeno - a vantaggio dell´edilizia sociale; un fondo di 500 milioni ai comuni per aiutare gli inquilini più poveri. L´emergenza casa arriva al Consiglio dei ministri: mercoledì prossimo il governo discuterà del piano elaborato da ministro delle Infrastrutture Di Pietro con le parti sociali. L´obiettivo è quello di inserire nel prossimo Dpef un capitolo di rilancio della politica abitativa, questione fondamentale visto che - nel paese delle case di proprietà - ci sono pur sempre oltre 4 milioni di famiglie che vivono in affitto.
«Si parte da un rifinanziamento della politica edilizia sociale che rimetta sul piatto almeno il miliardo e mezzo di euro che veniva garantito dal canale degli ex fondi Gescal - dice il ministro - e dal fondo di 500 milioni da destinare agli aiuti per gli affitti. Ma il piano si basa soprattutto su agevolazioni fiscali e soluzioni per affrontare l´emergenza».
Fra queste c´è la mappatura del patrimonio pubblico disponibile e la ristrutturazione di 20 mila appartamenti oggi in disuso. C´è l´idea di concedere detrazioni fiscali alle aziende che mettono in atto piani abitativi per i dipendenti e quella di riedificare le ex aree militari.
Per quanto riguarda l´aspetto fiscale, invece, vi è soprattutto il piano di agevolazioni previsto per chi affetterà la propria casa a canone agevolato. La possibilità è prevista già oggi, ma a metterla in pratica sono pochissimi. Ora per invogliare i proprietari ad utilizzarla, il piano nato dal tavolo aperto dal governo con le parti sociali (una ottantina di soggetti fra associazioni, sindacati ed enti locali) prevede un innalzamento dal 30 al 50 per cento le detrazioni aggiuntive sul reddito dei proprietari più l´azzeramento, e l´azzeramento o la forte riduzione dell´Ici.
Accanto a questo progetto che si appresta a portare in dote 2 miliardi a favore di chi non ha casa e vive in affitto, va affiancata la partita destinata ad agevolare chi invece vive in una abitazione di proprietà. Anche qui si parla di tagli all´Ici. L´idea - sulla quale ci sarebbe un accordo dell´Ulivo - è quella di esentare il pagamento sulla prima casa per una quota che potrebbe oscillare fra i 200 e i 500 milioni. Misura che potrebbe essere attivata per il 2008 e inserita - attraverso un emendamento - al disegno di legge sulle rendite finanziarie in discussione alla Camera. Ma il fatto che lo stesso Prodi abbia annunciato di voler parlare sia dell´Ici che delle proposte sulla revisione del catasto, ha in qualche modo fatto sì che si riapra uno spiraglio per chi vorrebbe intervenire subito. Magari sul saldo Ici che si versa a dicembre. Vincenzo Visco, viceministro delle Finanze, frena: «Le proposte saranno valutate in base alle risorse», ma certo - ha ammesso - «bisogna tener conto che l´80 per cento degli italiani ha una casa d´abitazione e un intervento sull´Ici ha un impatto redistributivo di qualche rilevanza».
Tempestiva la proposta di Romano Prodi alla “ scoperta” di Walter Veltroni. Positivo il segnale dato dal riferimento all’utilizzo delle caserme. Qualche perplessità sul fatto che si continua a dimenticare il peso della rendita fondiaria sul costo dell’abitazione, e sul fatto che le politiche seguite negkli ultimi anni (dai governi nazionali, dai cmuni e dalle banche) hanno contribuito poderosamente ad aumentarne l’incidenza e a pagarle sia con l’indebitamento delle famiglie sia con le agevolazioni pubbliche.
In Italia, il mercato dell’affitto riguarda il 20% degli alloggi occupati, valore tra i più bassi in Europa, al di sotto del quale troviamo solamente quelli riferiti all’Irlanda, alla Grecia e alla Spagna . L’esigua percentuale stimata denota e conferma un carattere consolidato nella storia italiana ovvero la generale tendenza a privilegiare la proprietà della casa anche come bene di investimento familiare. Negli ultimi trenta anni (censimento 1971-2001) lo stock di abitazioni in affitto si è più che dimezzato passando dal 44,2% al 20,0% sul totale delle abitazioni occupate. Per contro, l’80% delle famiglie vive in case di proprietà.
Questi dati sembrano rafforzare la convinzione di una progressiva marginalità del mercato dell’affitto testimoniata anche dalla scarsa rilevanza delle politiche a sostegno delle locazioni emanate negli anni dalle stesse Istituzioni. La debolezza del mercato degli affitti è legata ad aspetti quantitativi ed aspetti qualitativi. Innanzi tutto, bisogna sottolineare la progressiva riduzione dell’offerta pubblica di abitazioni in affitto dovuta, da una parte, alla dismissione del patrimonio pubblico e dall’altra, alla sensibile riduzione dell’intervento diretto ovvero delle nuove costruzioni di edilizia pubblica. Alla riduzione dell’offerta pubblica di alloggi in locazione si aggiunge quella dell’offerta da parte degli Enti previdenziali che hanno, dal 1998, avviato un processo di cartolarizzazione del loro patrimonio immobiliare assecondando la generale convinzione di cui sopra, ovvero della necessità del possesso del bene casa.
Altro aspetto quantitativo determinante la debolezza dell’offerta locativa è, come detto, la crescente insostenibilità dei canoni di affitto per le famiglie a reddito medio-basso come conseguenza dei processi di finanziarizzazione che caratterizzano il mercato immobiliare. A tutto ciò, vanno aggiunti altri fattori, questa volta qualitativi, che sono rappresentati dalla frammentazione della domanda prodotta da differenti trasformazioni di carattere socio-economico. In primis, l’aumento del numero delle famiglie (soprattutto di quelle monopersonali), le trasformazioni intervenute nel mondo del lavoro (aumento della mobilità e della flessibilità) ed, ancora, l’aumento del numero degli immigrati (crescita dei ricongiungimenti familiari). Da non trascurare, infine, soprattutto per le metropoli come Roma e Milano, la domanda di alloggi in locazione temporanea ad uso turistico.
Il caso Roma. A Roma, l’offerta di alloggi in locazione avviene quasi totalmente sul mercato libero (il 76% degli alloggi in affitto è di proprietà di persone fisiche). L’offerta di alloggi a canone sociale, quella delle case popolari, è in realtà una non-offerta per una duplice ragione: per il progressivo processo di dismissione del patrimonio e per l’assoluta rigidità nel suo uso. Oltre il 60% dei contratti di affitto che durano da più di 16 anni è costituito da canoni pubblici. Il doppio canale di offerta, pubblico e privato, è dunque solo teorico. L’unica possibilità concreta risulta essere l’affitto a prezzi di mercato. A ciò si aggiunge la rigidità nella distribuzione territoriale. Ad esempio, nelle aree centrali di Roma solo 2 alloggi su 10 in affitto sono pubblici: un dato che, con le recenti dismissioni, è già sceso ed è destinato a scendere ulteriormente. Ne consegue che, nel centro storico, l’affitto è solo in regime di libero mercato. Per comprendere l’impossibilità di accesso all’abitazione in questa area, basta ricordare che lì il rapporto tra il canone medio ed un reddito, ad esempio di 30 mila euro/anno, è pari al 70%. Pertanto, la sola soluzione per abitarvi è l’attivazione di forme di coabitazione, alle quali ricorrono sempre più spesso i non residenti. In Italia le case per i non residenti - studenti e lavoratori in trasferta - limitatamente ai grandi comuni, ammontano a 441 mila, circa il 10,7% dello stock residenziale. A Roma, secondo l’Istat, sono 136 mila le unità abitative occupate dai non residenti. Un dato già ampio ma che quasi sicuramente risulta inferiore a quello reale.
La domanda di case che proviene dai non residenti è una domanda di città e di integrazione con essa, è una domanda che si soddisfa sempre più attraverso forme di abitare che devono contemperare il bisogno di città e l’incidenza del canone di affitto sul reddito. Infine, si tratta di una domanda d’uso del bene casa destinata ad aumentare per la crescente mobilità nel mondo del lavoro. Una domanda che, come si è detto, risulta però disattesa e che rischia di diventare un punto debole per Roma nella competizione con le altre metropoli poiché manca il mercato dell’affitto rivolto a chi considera la casa alla stregua di un bene d’uso.
L’abitare temporaneo. Alla domanda tradizionale di alloggi in locazione si é aggiunta negli ultimi anni la domanda espressa dai non residenti che per motivi diversi abitano a Roma per periodi medio-lunghi. Sono coloro che per la crescente mobilità richiesta dal mondo del lavoro si trovano costretti a spostarsi, preferibilmente nelle grandi metropoli: sono i lavoratori precari e in trasferta, i giovani interessati ad esperienze di formazione e di lavoro che si muovono nel circuito delle città globali portando esperienze e valore aggiunto nella produzione e nei lavori; sono gli artisti, quelli impegnati nelle professioni di frontiera collegate ai centri di ricerca o alla sperimentazione di nuove tecnologie, al mondo del volontariato e, ancora, a tutte quelle professioni che oggi non hanno un nome ma che stanno nascendo attorno alla frammentazione del welfare urbano. L’uso del bene casa, e quindi l’alloggio in locazione, risponde al crescente dinamismo della vita sociale e lavorativa odierna.
“Scegliere” di comprare casa. La riforma degli affitti, introdotta con la legge 431 nel 1998 non ha prodotto effetti virtuosi e di calmieramento del mercato ma l’esatto opposto: una crescita incontrollata dei valori dei canoni. Da una indagine del Sunia risulta che una famiglia con un reddito di 30 mila euro/anno non può permettersi un affitto in una zona centrale della città di Roma dove l’incidenza del canone sul reddito supera il 70%, ma neanche in semiperiferia dove l’incidenza scende ma è ancora del 46% ed è invece al 37% per una casa in periferia. Un incremento che ha comportato l’avvicinamento del valore del canone di affitto con la rata del mutuo inducendo le famiglie ad indebitarsi per l’acquisto della casa. Nel 2002 a Roma i mutui erogati per importi compresi tra 150-200 mila euro erano l’8,4% del totale nel 2005 rappresentavano il 19%. I mutui superiori a 200 mila euro sono passati dal 2,5% all’11,3%. Per contro, i mutui compresi tra 50 e 100 mila euro sono scesi dal 46,8% al 28,5%. In sostanza, le famiglie “proprietarie” di case si sono indebitate per cifre maggiori e per un tempo più lungo. Infatti, i mutui di durata di 25 anni sono passati dal 2,6% al 13,6% e quelli compresi tra 30 e 40 anni dal 2,2% al 23,8%. Quasi il 66% dei mutui sono stati contratti con tassi variabili, leggermente più bassi di quelli a tasso fisso ma soggetti a fluttuazioni. Il 6% delle famiglie che ha contratto un mutuo (il dato è solo nazionale) dichiara di avere degli arretrati nel pagamento delle rate.