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«Herrou è diventato il simbolo dei cittadini che in tutta Europa si sono mobilitati per aiutare i migranti, ma che in molti casi sono incorsi in veri e propri processi per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina». Internazionale online 6 maggio 2017 (c.m.c.)

Cédric Herrou ha 37 anni, è un contadino francese, coltiva ulivi nella val Roia, al confine tra Italia e Francia, dove negli ultimi anni sono passati migliaia di migranti. Il 10 febbraio un tribunale di Nizza ha condannato Herrou a pagare una multa di tremila euro con la condizionale per aver aiutato alcuni profughi ad attraversare il confine. Lo ha invece assolto dalle altre accuse: quella di aver occupato insieme a una cinquantina di eritrei una struttura dismessa delle ferrovie dello stato francesi e di aver favorito il movimento e la residenza di migranti irregolari in Francia.

Era accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per aver aiutato duecento migranti ad attraversare la frontiera e per aver dato da mangiare e da bere a 57 di loro. Rischiava fino a cinque anni di prigione e trentamila euro di multa per aver aiutato queste persone che non avevano regolari documenti “a entrare e a spostarsi” nel paese.
Negli ultimi mesi Herrou è diventato il simbolo dei cittadini che in tutta Europa si sono mobilitati per aiutare i migranti, ma che in molti casi sono incorsi in veri e propri processi per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Il 4 maggio a Roma l’agricoltore francese ha incontrato i volontari e i migranti della Baobab experience che hanno da poco affrontato l’ennesimo sgombero da parte delle forze dell’ordine.

Herrou ha raccontato che, nonostante i processi, i movimenti di base che aiutano i migranti tra Italia e Francia si sono rafforzati e ora rappresentano un vero e proprio argine alle violazioni del diritto d’asilo che sono sistematiche alla frontiera tra i due paesi. Herrou interverrà al festival Pensare migrante il 5-6-7 maggio alla Città dell’Altraeconomia di Roma.
«300 agenti, cani, cavalli, mezzi blindati e un elicottero = 52 migranti portati in Questura, nessuno denunciato». Questa l'incredibile prova di forza effettuata nella "capitale morale d'Italia" per far paura ai fuggitivi dagli inferni che abbiamo concorso a realizzare.

il Post, 3 maggio 2017

Nel primo pomeriggio di martedì 2 maggio la polizia ha fatto una grande operazione alla Stazione Centrale di Milano, che ha portato al trasferimento in Questura di 52 immigrati, nessuno dei quali è poi stato denunciato. All’operazione hanno partecipato 300 poliziotti, alcuni mezzi blindati, squadre cinofile, agenti a cavallo e un elicottero. Prima dell’operazione le serrande che chiudono gli ingressi in piazza Duca d’Aosta della stazione della metropolitana Centrale sono state abbassate, e anche i cancelli che consentono l’accesso all’atrio della stazione sono stati chiusi. La stazione della metropolitana è rimasta aperta con l’accesso limitato agli altri ingressi, mentre chi doveva prendere il treno è dovuto passare dagli ingressi laterali, con disagi e rallentamenti. Gli agenti si sono avvicinati alla stazione chiudendo i tre lati di piazza Duca d’Aosta per impedire alle persone di scappare.

l motivo dell’operazione è che commercianti e residenti da un po’ di tempo denunciano una situazione di degrado della Stazione Centrale: soprattutto negli ultimi mesi sono aumentati i migranti che dormono intorno alla stazione, vicino alla quale si trova anche l’hub per migranti di via Sammartini. Una decina di giorni fa un migrante aveva avuto una breve colluttazione con un militare, in piazza Duca d’Aosta: ne era nato uno scontro tra un gruppo di migranti che aveva circondato alcuni soldati, tirando loro qualche oggetto, prima che intervenissero degli altri militari a disperdere la folla.

Dei 52 immigrati portati ieri in Questura dalla polizia, però, nessuno è stato denunciato. Quattro di loro, senegalesi e gambiani, hanno anzi scoperto che la loro domanda per ottenere lo status di rifugiato era stata accolta. In piazza Duca d’Aosta c’era anche il segretario della Lega Nord Matteo Salvini, che ha fatto delle dirette su Facebook elogiando i controlli ed è stato contestato da qualche passante. L’assessore alla Sicurezza di Milano Carmela Rozza, del PD, ha detto di essere d’accordo con l’operazione: «Da tempo abbiamo chiesto a Prefettura e Questura una massiccia campagna di identificazione di coloro che stazionano in tutta l’area della Stazione Centrale e intorno all’hub di via Sammartini». Pierfrancesco Majorino, assessore al Welfare e sempre del PD, ha invece detto di non essere d’accordo e di preferire «la cultura degli interventi mirati, continuativi e condotti nel silenzio». Patrizia Bedori, consigliera comunale del M5S, ha detto: «Nel rispetto della legalità non possiamo che essere contenti del blitz. Speriamo non resti un fatto isolato».

«il manifesto, 4 maggio 2017
La destra non si accontenta: né quella radicale Lega-Fdi né quella sedicente «moderata» azzurra. Anzi, è lo stesso Silvio Berlusconi a farsi sentire per ordinare ai forzisti di votare contro la legge che modifica l’articolo 52 del codice penale sulla legittima difesa, dopo la bocciatura dell’emendamento leghista, sottoscritto da La Russa per Fdi e Gelmini per Fi, che voleva introdurre la «presunta proporzionalità» tra la risposta dell’aggredito e l’offesa dell’aggressore. Se fosse stato accolto, avrebbe reso superflue le indagini del magistrato. Sarebbe stata una licenza di uccidere. «Noi vogliamo rafforzare la legge ma senza cedere alle follie della Lega. Bisogna lasciare al giudice margini di discrezionalità», dice il relatore Armini, Pd, spiegando il no all’emendamento della destra unita.

Sfumata la possibilità di un voto unitario di maggioranza (ma senza Mdp) e destra riunificata, la maggioranza stessa si compatta grazie a una modifica proposta dai centristi di Area popolare che rende la norma ancora più rigida ma senza sostituire del tutto la legge di Lynch al codice penale. Sarà considerata legittima difesa «la reazione a un’aggressione commessa in tempo di notte, ovvero la reazione a seguito dell’introduzione nei luoghi ivi indicati con violenza alle persone o alle cose, ovvero con minaccia o con inganno». Sarà altresì legittima difesa sparare «in situazioni comportanti un pericolo attuale per la vita, l’integrità fisica, per la libertà personale o sessuale». Lo Stato inoltre, grazie a un emendamento del Pd approvato dall’aula, risarcirà le spese legali della vittima in caso di assoluzione.

Lega e Fdi si scatenano. Accusano la maggioranza di «tutelare i delinquenti e umiliare le vittime» e di «preferire i carnefici alle vittime». Forza Italia oscilla. Il capo gira il pollice: «Noi non siamo certo per la difesa “fai da te” ma di fronte al pericolo deve essere garantito il diritto alla difesa. Il testo votato dalla maggioranza delude queste aspettative, non dà risposta al tema centrale del diritto alla difesa, lascia alla discrezionalità del giudice margini eccessivi. Chi è costretto a usare un’arma per difendersi non può essere sottoposto alla lunga e umiliante trafila di un procedimento giudiziario nel quale deve giustificare le sue azioni». Però i deputati forzisti votano l’emendamento «deludente» salvo poi, a meno di improbabile sorprese, pronunciarsi contro la legge nel complesso, stamattina, nel voto finale.

La legge che Montecitorio modificherà oggi era stata varata proprio da Berlusconi e dall’allora guardasigilli Castelli. L’allargamento del diritto di sparare anche in caso di «violenza contro le cose», cioè di semplice furto senza minaccia per la vita o l’integrità della vittima, era già in quel testo. La non punibilità era però subordinata alla presenza di un’offesa «ingiusta» e soprattutto all’accertamento di una «difesa proporzionata all’offesa». Il nuovo testo dunque non lascia affatto le cose come stanno, come sostiene la destra. La nuova norma limita fortemente i margini di discrezionalità del magistrato, che riguardavano essenzialmente proprio la proporzionalità tra l’offesa e la reazione. Quel che la destra chiedeva era di cancellare del tutto il ruolo del magistrato.

La legge passerà oggi col voto del Pd e di Ap. La situazione è dunque paradossale. Un premier e un governo targati di fatto Pd, a fronte di un calo accertato della criminalità, aggravano ulteriormente una delle leggi peggiori varate dalla destra, la quale non si accontenta e lucra consensi chiedendo di più. È l’Italia del 2017, bellezza. Un bel posticino.

Nessuna persona sensata che legga con attenzione queste chiarissime informazioni può continuare a pensare che le ONG accusate dal procuratore Zuccaro abbia torto marcio, e con lui quanti si allineano alle posizioni dei grillini italiani, di Matteo Salvini e del governo renziano.

il Fatto quotidiano, 30 aprile 2017

Il 19 aprile, a Catania, ho incontrato il procuratore Carmelo Zuccaro, che rispondendo a una mia specifica domanda ha ripetuto le preoccupazioni già espresse il 22 marzo in un’audizione alla Camera, sull’attività di alcune Ong che fanno Ricerca e Salvataggio spingendosi se necessario nelle acque territoriali libiche. Preoccupazioni più prudenti erano apparse in dicembre in un rapporto dell’agenzia Frontex. Le Ong che il procuratore sospetta di collusione con i trafficanti sono sei: cinque di origine tedesca (Sos Méditerranée, Sea Watch Foundation, Sea-Eye, Lifeboat, Jugend Rettet), una spagnola (Proactiva Open Arms). Nell’audizione il procuratore ha escluso dai sospetti Medici senza frontiere e Save the Children.

Alcune premesse sono indispensabili.

– La prima riguarda il linguaggio. Quando affermo che le Ong intervengono “se necessario”, e che le operazioni includono la ricerca oltreché il salvataggio, è perché questo prescrive la legge. Soccorrere una barca a rischio naufragio è una necessità. E chi svolge tale compito deve non solo assistere la barca casualmente incrociata, ma anche mettersi in ascolto (cioè cercare) chiunque lanci Sos di soccorso, anche da lontano. I due termini sono accostati nella Convenzione Onu di Amburgo sulla Ricerca e il Soccorso in mare adottata nel 1979.

– Seconda premessa: quando incombe il naufragio non è possibile distinguere tra le motivazioni dei fuggitivi. A chi affonda non puoi chiedere se stia cercando un lavoro o se scappi da guerre o oppressioni. Non puoi salvare il richiedente asilo e lasciare affogare chi subodori non lo sia, e non solo perché non hai gli “strumenti” che facilitino la distinzione. Puoi lasciare affogare o no. La prima opzione viola la legge del mare.

– La terza premessa riguarda la Libia. C’è stata una guerra, cui l’Italia ha partecipato, che con la scusa di eliminare una dittatura ha creato violenze incontrollabili da qualsivoglia autorità interna. Risultato: esistono sufficienti prove che la Libia non è più solo un Paese di transito, ma un Paese da cui si evade in massa (penso agli ex immigrati del Bangladesh nel Paese di Gheddafi). Nei centri dove vengono rinchiusi e a volte uccisi, i fuggitivi vivono “in condizioni peggiori che nei campi di concentramento”, ha confermato a gennaio una lettera dell’ambasciatore tedesco in Niger al proprio ministero degli Esteri. Esiste poi una vasta rete di commercio di persone sequestrate, torturate, vendute come schiave, come denunciato il 9-10 aprile dall’Organizzazione internazionale per le Migrazioni (Oim), legata all’Onu.

Non le Ong ma ancora una volta l’Onu, attraverso un rapporto del 13 dicembre 2016 dall’Alto commissariato per i diritti umani, ha dichiarato che la Libia non è un Paese sicuro. Conseguenza: le persone soccorse lungo le sue coste “non devono essere sbarcate” nella terra più vicina, in Libia.

A queste premesse ne aggiungo altre due, che valgono per qualsiasi Paese abusivamente chiamato sicuro (Eritrea, Sudan, Turchia);

– Chiunque fugga da uno Stato che non garantisce gli elementari diritti della persona ha diritto a ottenere protezione internazionale sulla base di un esame personale delle proprie richieste (Convenzione di Ginevra del 1951).

– La legge internazionale contempla sia il diritto per l’imbarcazione in difficoltà a lanciare un Sos di salvataggio, sia il dovere, per le navi che ricevono il messaggio, di attivarsi soccorrendo. Oggi la chiamata avviene con i telefoni satellitari, il che estende il perimetro della ricerca e del salvataggio. La Ricerca implica per forza l’uso di telefoni sempre accesi, perché l’Sos possa essere inteso in tempo utile.

Queste realtà sono così evidenti che Frontex stesso ha precisato di non aver parlato di “collusione” fra Ong e trafficanti. Ancora più chiara la messa a punto del vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans. Ai parlamentari europei, il 26 aprile a Bruxelles, ha detto: “Non c’è alcun tipo di prova che esista una collusione fra le Ong e le reti criminali di smuggler per aiutare i migranti a entrare in Europa”. Dubito che il procuratore Zuccaro abbia prove che l’Unione e Frontex non possiedono. Nell’incontro che ho avuto a Catania, lui stesso ha ammesso di non averle: “È il motivo per cui non abbiamo aperto un fascicolo”. È molto singolare che appena una settimana dopo, il 27 aprile su Rai3, torni sulla vicenda accusando alcune Ong non solo di intrattenere rapporti con i trafficanti ma anche di destabilizzare l’economia italiana. Sono d’accordo con quanto detto da Erri De Luca il 27 aprile: simili accuse non sono che “insinuazioni”, incompatibili con il mestiere di procuratore.

Fatte queste premesse, la conclusione mi pare chiara. Se è vero che la Libia non è un Paese sicuro (così come non lo sono Eritrea o Sudan, con cui Roma ha negoziato un accordo di rimpatrio di migranti lo scorso agosto), se è vero che i migranti rischiano torture, schiavizzazione e morte nei campi libici, lo smuggler non può essere l’esclusivo avversario da contrastare, tanto più che gli scafisti sono spesso scelti tra i migranti, minorenni compresi. A partire dal momento in cui esistono fughe da condizioni esistenziali invivibili, e mancano vie legali di fuga, gli smuggler sono inevitabili. Non a caso il loro nome muta nella storia. Gli smuggler che aiutarono a fuggire antifascisti, antinazisti ed ebrei erano evidentemente pagati. Non si chiamavano trafficanti ma passeur in francese, schlepper o Helfer (aiutanti) in tedesco. Lo stesso dicasi dei boat people in fuga dal Vietnam, nel 1978-79. Nessuno in Occidente se la prese con i trafficanti: si era in Guerra fredda e ai boat people venne offerto un santuario incondizionatamente.

Nessun profugo fugge senza soffrirne, e i più muoiono nei deserti prima di arrivare in Europa. Il loro è un esilio forzato. Come tutti noi, sono marionette di “grandi giochi” geopolitici ed economici che hanno militarmente devastato o desertificato le loro terre. Da questa realtà occorre partire. Ricordo anche che il soccorso in mare è sempre più equiparato a un atto sospettabile, nelle decisioni dell’Unione: per questo fu abolito Mare Nostrum, nel 2014. Nello stesso momento in cui la Ricerca e il Salvataggio sono definiti un pull factor (un fattore di attrazione), viene volutamente oscurato l’essenziale che è il fattore che spinge alla fuga (il push factor).

Su due punti il procuratore ha ragione. Le Ong riempiono – al pari dei trafficanti – un vuoto: intervengono perché non esistono vie legali di fuga e scelte europee su Search and Rescue. E non le preture ma i politici sono i responsabili di tali storture. A una risposta, tuttavia, il procuratore non risponde: che fare, se la politica non si muove? Cosa si ripromette, screditando non solo alcune piccole Ong che vivono di donazioni private ma anche la Guardia costiera italiana che agisce coordinandosi con loro?

Invito il M5S a usare un altro vocabolario (la parola “taxi” dei migranti è fuori luogo e sbadata). Invito il procuratore a leggere Lord Jim di Joseph Conrad. Consegnare le persone al naufragio è una scelta che macchia. Il capitano Jim sa di aver perso la sua grande occasione, abbandonando la nave disastrata. Nel resto della vita dovrà trovare la sua seconda occasione, per riparare al peccato di omissione.

Carmelo Zuccaro, pretore a Catania, e Luigi Di Maio, grillino in cerca di voti, gareggiano per guidare il coro degli ipocriti e dei disinformati. Aspra tenzone.

laRepubblica, 28 aprile 2017



ZUCCARO: “DENUNCIO, NON HO PROVE
STA AI POLITICI FERMARE IL FENOMENO”
di Alessandra Ziniti

«L’intervista. Il magistrato che conduce l’inchiesta siciliana: “Ho informazioni che non possono essere usate in un processo”»

Alle sette di sera, solo nel suo ufficio al primo piano di giustizia, per nulla travolto dal coro di critiche che rischiano di far passare lui, magistrato da sempre sotto traccia, prudente e riservato, in una toga d’assalto sensibile alle lusinghe della notorietà, il procuratore Carmelo Zuccaro accetta di fare il punto con Repubblica sulla scivolosissima indagine sull’operato delle Ong.

Anche il ministro Orlando si è stupito delle sue accuse e l’ha invitata a parlare con gli atti giudiziari. Che risponde?
«È giusto che un magistrato parli con gli atti giudiziari e naturalmente lo farò quando e se sarò in grado di formulare imputazioni nei confronti di singoli. Ma adesso, da magistrato, ho il preciso do vere di denunciare un gravissimo fenomeno, criminale, per arginare il quale la politica deve intervenire tempestivamente. Se si dovessero aspettare i tempi lunghi di un’indagine che sarà complessa e per la quale ho bisogno di uomini e mezzi di cui al momento non dispongo, sarebbe troppo tardi. E a ragione, tra qualche tempo, mi si potrebbe rimproverare: ma dov’eri tu mentre succedeva tutto questo? Accadde così anche vent’anni fa quando i colleghi che si occupavano di mafia denunciarono il fenomeno delle collusioni ben prima di avere le prove su singoli soggetti ».

Ma lei le ha le prove dei comportamenti poco trasparenti di cui accusa le Ong?
«Spero di chiarire una volta per tutte. Quando io parlo di prove intendo prove giudiziarie, da poter portare in un dibattimento. Queste prove non le ho ma la certezza, che mi viene da fonti di conoscenza reale ma non utilizzabile processualmente, che alcune delle navi operano all’interno delle acque territoriali, che vi siano state delle conversazioni dirette, in lingua araba, tra soggetti che stanno sulla terraferma in Libia ed esponenti delle Ong che dichiarano di essere lì pronti a recuperare i migranti, che le navi spengono i trasponder perché non venga individuata la loro posizione, che prendano a bordo migliaia di persone ben prima che si verifichi una situazione di pericolo. E dunque fuori dalle norme di legge».

Andiamo ai soldi. Lei ha detto una cosa gravissima. Che alcune Ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti e che addirittura avrebbero come fine di destabilizzare l’economia italiana. Anche di questo ha le prove?
«È un’ipotesi di lavoro. Dimmi chi ti finanzia e ti dirò chi sei. Dai bilanci delle Ong che abbiamo acquisito è evidente che abbiano una disponibilità finanziaria enorme. Ora, se è giustificato che organizzazioni di comprovata solidità come Msf o Save the children possano contare su questa disponibilità, lo è molto di meno per altre. Stiamo lavorando per sapere chi sono questi finanziatori, se oltre quelli dichiarati ce ne sono altri e da dove provengono questi soldi. Che un’organizzazione come Moas possa spendere 400mila euro al mese è un dato che merita un approfondimento ».

“ONG PAGATE DA SCAFISTI”,
BUFERA SUL PM
di m.v. e a.z

«Sugli sbarchi i sospetti del procuratore di Catania: “Forse l’obiettivo è destabilizzare l’economia del nostro Paese” Interviene il governo. Orlando: parli con gli atti e le indagini. Minniti: basta generalizzazioni e i giudizi affrettati»

Parole che hanno indotto il ministro di Grazia e giustizia Andrea Orlando ad ammonire il magistrato: «La Procura di Catania parli attraverso le indagini e gli atti. Ricostruire la storia delle Ong come la storia di collusi con i trafficanti è una menzogna ». L’invito a «evitare generalizzazioni » arriva anche dal ministro dell’Interno Marco Minniti. E Zuccaro replica: «Nessuna generalizzazione. I soldi spesi per Ong solide come Msf o Save the children sono spesi bene. Sulle altre stiamo svolgendo accertamenti ». Che non sono in capo alla sola Procura di Catania.

Già da mesi lo Sco della Polizia di Stato è al lavoro sulle modalità delle operazioni di alcune Ong i cui bilanci presenterebbero costi eccessivamente gonfiati rispetto a spese di gestione o ad attrezzature come i droni che, ad esempio, alla Marina italiana costano la metà. Con attenzione si guarda anche alle rotte seguite da alcune di queste navi che, pur raccogliendo migliaia di migranti a poche miglia da Malta, li avrebbero sempre portati in Italia in qualche caso trasbordandoli anche su strane navi, come il mercantile turco “Tuna 1”, nel 2015 bombardato dalle milizie libiche perché sospettato di trasportare armi per altre fazioni, al quale qualche settimana fa la nave Phoenix di Moas ha affidato quasi 500 migranti da portare al porto di Palermo.

«Che qualcuno non si stia comportando bene direi che è possibile. Arrivo a dire: è probabile – dice Matteo Renzi - Ma la visione degli operatori delle Ong che sono tutti al servizio degli scafisti, come detto da qualche aspirante statista, non va bene. Se qualche Ong va a qualche miglio dalla costa credo si debba intervenire. Dopodiché vanno combattuti gli scafisti, non i volontari che salvano in acqua le mamme che rischiano di morire...».

Le nuove accuse di Zuccaro riaccendono la polemica del M5S. «Non so se è chiaro: Ong forse finanziate dagli scafisti! Gli ipocriti continuino pure ad attaccarmi, io vado fino in fondo », dice il vice presidente della Camera Luigi Di Maio. Dalle Ong si leva un coro di proteste. Regina Catambrone, fondatrice di Moas, accusa: «Questi politici stanno facendo campagna elettorale sulla morte delle persone ».

».

il manifesto 28 aprile 2017 (c.m.c.)

Le nubi nere che sovrastavano il Tribunale d’Imperia promettevano pioggia, ma le lacrime di gioia dell’anziana nonna e da quelli della mamma di Felix riportano il sole in una giornata storica. Felix Croft è stato assolto dall’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il collegio, presieduto da Donatella Aschero, ha ritenuto applicabile la «clausola umanitaria». La famiglia aiutata da Felix si trovava in uno stato di bisogno tale da rendere l’aiuto lecito.

È la prima sentenza in Italia di questo tenore. Rifacendosi all’articolo 12, comma 2, del Testo Unico sull’immigrazione, i giudici hanno pronunciato la sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato.

Libero quindi il 27enne francese che i carabinieri avevano arrestato il 22 luglio 2016 quando a bordo della sua Citroen imboccava l’autostrada che da Ventimiglia porta alla Francia. Insieme a lui una famiglia sudanese. Padre, madre incinta di sei mesi, il fratello della madre e i due figli, il maschio di 5 anni e la figlia di 2. Dormivano nella chiesa di Sant’Antonio a Ventimiglia, in condizioni disperate. Presto, per la rotazione imposta dai numeri dei migranti affollati nella città ligure, sarebbero finiti per strada.

Erano fuggiti dal Darfur, portandosi dietro nient’altro che le ferite di un genocidio che va avanti da 14 anni. Il bambino ha cicatrici sul fianco riportate nell’incendio che le truppe governative avevano appiccato alla loro casa. Lo stato di estrema frustrazione della famiglia aveva spinto Felix a fare qualcosa che non aveva mai fatto, decidere di attraversare il confine e portarli a casa sua per farli riposare e mangiare adeguatamente. In quel periodo era difficile aiutare i migranti in loco, il sindaco di Ventimiglia aveva emesso un’ordinanza che proibiva, per ragioni sanitarie, di dare cibo ai profughi.

Felix ha da subito rivendicato il suo gesto umanitario, anche di fronte alla pesante accusa. Per il Pubblico Ministero Grazia Pradella, che aveva chiesto 3 anni e 4 mesi e 50mila euro di multa, quell’atto metteva in pericolo la sicurezza dello Stato. Alla domanda, «Sapeva che portandoli in Francia commetteva un reato?», Felix aveva risposto semplicemente «Sì». Ma oggi il Tribunale gli ha dato ragione.

Il grido Hurriya, libertà in arabo, urlato anche in francese e italiano, è il coro che si sprigiona dalle bocche, fino a quel momento cucite dalla tensione, del centinaio di solidali che hanno accompagnato Croft durante il processo.

«Questa è una pietra miliare per chi si sente impotente e stritolato dalle leggi in questo periodo di immense sofferenze» – dice all’uscita dal Tribunale. «Questa sentenza dice alle persone di non avere paura della loro solidarietà. Se lo Stato è assente le persone devono agire perché la loro umanità è la base sulla quale si fondano le società». E a Ventimiglia, nell’estate 2016, né Italia né Unione europea avevano saputo trovare una soluzione per quelle migliaia di persone che premevano sul confine alla ricerca di un po’ di dignità, oltre che di un tetto e un pasto caldo.

«Sin dall’inizio non ho voluto ricorrere a scappatoie per difendermi – dice Felix – sapevo che non avevo fatto niente di male e che non dovevo avere paura della mia scelta. Mi hanno accusato di aver messo in pericolo lo Stato, credo che questo derivi dal fatto che c’è la tendenza, purtroppo molto diffusa, a fare l’equazione nero, musulmano, terrorista. Questo pensiero va combattuto col cuore e se c’è una giustizia quella prevarrà sul razzismo e sui pregiudizi».

Laura Martinelli, giovane avvocato del foro di Torino, che ha difeso Felix insieme a Ersilia Ferrante del foro d’Imperia, non nasconde la felicità: «È una grande vittoria, il collegio ha riconosciuto che la condotta di Felix non è reato. È un segnale positivo in un momento in cui molte persone e Ong impegnate nell’aiutare i migranti vengono criminalizzate, accusate di essere complici dei trafficanti di uomini. È un precedente importante».

«Ora continuerò ad aiutare chi ha bisogno, le migliaia di profughi che anche in Europa non trovano scampo dalle ingiustizie», dice il giovane francese: «Tutto quello che faccio è provvedere a piccole cose che però sono di enorme aiuto a chi si trova privato di tutto, compresa la speranza. Certo dovrò farlo in Francia, visto che ho un foglio di via dall’Italia per una manifestazione a Mentone».

Resoconto in diretta da una delle imbarcazioni delle Ong che, secondo il grillino Di Maio e la banda di xenofobi cui si è aggregato, dovrebbero essere puniti per eccesso di umanità.

il Fatto Quotidiano, 26 aprile 2017 (p.d.)

Alle 6 di mattina a 18 miglia dalla costa libica Pietro Catania, capitano della nave salvataggio Prudence di Medici Senza Frontiere, mi fa vedere sulla carta nautica tre gommoni segnalati in partenza nella notte dalle spiagge di Sabrata. Alle 6 di mattina hanno raggiunto le 8 miglia di distanza. Inizio il turno di avvistamento al binocolo. Il radar di bordo non basta a segnalare un’imbarcazione bassa, fatta di gomma e dicorpi umani. Sull’altro bordo di prua Matthias Kennes, responsabile di Msf, sorveglia il rimanente pezzo di orizzonte. Si vedono le luci della costa, l’alba è limpida. Passano le ore inutilmente.
Veniamo a sapere che i gommoni sono stati intercettati dalle motovedette libiche e costrette al rientro. Avevano raggiunto le 15 miglia, perciò fuori dal limite territoriale delle 12,che sono in terra 22 km. Potevano lasciarli stare. Sono già condannati a morte se fanno naufragio entro il limite, dove non possiamo intervenire. Li riportano a terra per chiuderli di nuovo in qualche gabbia: non tutti. Uno dei gommoni trainati si rovescia. Affogano in novantasette. Quando si tratta di vite umane, le devo scrivere con le lettere e non con le cifre. Ventisette invece sono ammesse alla lotteria della salvezza. A bordo della Prudence era tutto pronto. Restiamo con i pugni chiusi, senza poterli aprire per raccogliere. Guardo il mare stasera: disteso, pareggiato a tappeto. Non si può affondare senza onde. Bestemmia al mare è affogare quando è calmo, quando non esiste alcuna forza di natura avversa, tranne la nostra. Siamo coi pugni chiusi. Non soffro il maldimare, ho imparato da bambino a stare in equilibrio sulle onde. Non soffro il maldimare, ma stasera soffro il male, il dolore del mare, la sua pena d'inghiottire da fermo i naviganti. È creatura vivente il mare che i Latini chiamarono con affetto Nostrum, perché nessuno potesse dire: è mio. La nave in cui mi trovo vuole risparmiare al Mediterraneo altre fosse comuni. Rimaniamo al largo un giorno e un'altra notte di veglia.
Questo è oggi il trasporto delle vite sul Mediterraneo, da una parte crociere in girotondo, dall’altra parte zattere alla deriva, affidate all'arbitrio di chi intasca quattrini sia dai trafficanti che dall’Unione europea. Una pacchia per loro: perché dovrebbero rinunciare a uno dei contribuenti? Un naufragio qua e là, l'arresto di qualche gommone a casaccio, così per fingere di rispettare gli accordi. Gli accordi prevedono i naufragi? Non sia mai detto. Gli accordi ammettono effetti collaterali, colpa degli irriducibili che vogliono viaggiare per forza. Proprio così, per forza: vengono prelevati di notte dai recinti, a scaglioni di centocinquanta è costretti a salire sul gommone.Costretti: parecchi vorrebbero ritirarsi di fronte al buio e al rischio assurdo. Non possono. Chi resiste, sale sotto spinta di armi. Uno di questi, recuperato in un salvataggio precedente, aveva un proiettile nella gamba. I trafficanti li incalzano, poi affidano bussola a timone a uno del carico. Gli scafisti non ci sono più. Una delle unità veloci calate dalla Prudence per avvicinamento ai gommoni, chiede a quello che regge la barra del fuoribordo di spegnere il motore. Risponde che non lo sa fare. Gli scafisti hanno messo in moto e lui sa solo reggere la barra. L’unità veloce è costretta all'abbordaggio. Lionel, operativo di Msf, si fa tenere per i piedi e dalla prua si lancia sul motore fuoribordo del gommone per spegnerlo. Gli scafisti non esistono più.
Nel porto di Augusta in Sicilia, dove salgo a bordo della Prudence, c'è un campo di primo internamento per chi sbarca da navi soccorso. A fianco, grandi gru caricano rottami di ferro dentro stive dirette a fonderie in Asia. Viaggiano con documenti in regola pure i chiodi arrugginiti. Gli esseri umani del campo vicino sono invece carico fuorilegge in attesa di respingimento. Le ultime procedure introdotte dal nuovo malgoverno cancellano il diritto di appello del richiedente asilo, in caso di primo rigetto della sua domanda. Tolgono il diritto di appello: a chi ha perso tutto quello che poteva già perdere. Si scrivono e si approvano da noi leggi d' inciviltà feroce. Qualche svaporato nostrano dice che i gommoni partono perché ci sono le navi di soccorso al largo.
Sono venti anni che partono zattere a motore imbottite di umanità spaesata. La prima fu affondata nella Pasqua del ‘97 da una nave militare italiana che aveva l'ordine d'imporre un abusivo blocco navale in acque internazionali. Veniva dall'Albania, il suo nome era Kater i Rades. Lo Stato italiano se la cavò con dei risarcimenti alle famiglie dei circa novanta annegati.
Sono venti anni che viaggiano sul Mediterraneo zattere a motore senza alcun soccorso.Ora che finalmente esiste una comunità internazionale di pronto intervento in mare, sarebbe colpa sua se partono i gommoni. Come dire che esistono le malattie per colpa delle medicine. Se i delfini venissero in aiuto dei dispersi in mare, questi svaporati li accuserebbero di complicità coi trafficanti. In verità la loro fandonia intende accusare i soccorritori d’interrompere il regolare svolgimento del naufragio. Perché siamo e dobbiamo rimanere contemporanei incalliti del più lungo e massiccio affogamento in mare della storia umana.
Il giorno seguente all’alba torniamo a scrutare l'orizzonte dietro le lenti dei binocoli. Sappiamo che sono partiti di notte da Sabrata. Il mio compagno di cabina, Firas,di origini siriane, legge su FB messaggi in arabo dove si scambiano queste notizie. Localizziamo il primo gommone, stracarico, gli uomini stanno a cavallo dei tubolari, a prua è mezzo sgonfio. Si cala l’unità veloce che per prima cosa distribuisce giubbotti di salvataggio. Spesso la vista del soccorso produce una pericolosa agitazione a bordo del gommone. Il mare è quello piatto di ieri. Firas a prua col megafono mantiene la calma spiegando le manovre seguenti. Quando tutti hanno indossato il giubbotto, la Prudence si accosta e aggancia il gommone alla sua fiancata. Da una scaletta di corda salgono a bordo uno per volta, aiutati da braccia robuste. Alcuni non si reggono in piedi per la posizione forzata tenuta sul gommone per molte ore. Salgono donne incinte e due bambini. A ognuno viene dato subito uno zainetto con una tuta, barrette caloriche, succhi di frutta, acqua, un asciugamano. La squadra medica fa a ognuno una prima visita. Tre container sul ponte sono attrezzati a unità ospedaliera, divisa in rianimazione, pronto soccorso, isolamento per casi infettivi e una piccola sala parto. Se ne occupa Stefano Geniere Nigra, giovane medico torinese. A bordo della Prudence non si usa il termine di profughi, migranti e titoli affini. Sono chiamati ospiti. Ricevono la più urgente ospitalità, quella data a chi arriva dal deserto. Mi affaccio sul gommone svuotato, il fondo è tenuto insieme da un tavolato sconnesso. Ha portato centoventinove persone, con un motorino fuoribordo di 40 cavalli. Dalle sei di mattina fino a sera si raggiungono altri tre gommoni sparsi fuori delle 12 miglia, più un trasbordo da una nave soccorso più piccola che era a limite di carico. A sera si trovano sistemati seicentoquarantanove ospiti.
La Prudence può contenerne mille, è la più grande unità della zona. La sera si fa rotta su Reggio Calabria, destinazione assegnata dal comando di Roma. Gli ospiti finalmente al sicuro, nutriti, riscaldati, iniziano preghiere, canti e ballano insieme, popoli di terre diverse e lontane tra loro. Sono a bordo, diretti in Italia. È la sola parte del viaggio che non costa loro nulla. È il solo dono, l’unico passaggio gratis venuto loro incontro. È anche il migliore trasporto. Qui sul mare è successo il sottosopra dell'economia: il peggiore trasporto è costato loro carissimo, il migliore invece niente. Esultano per liberazione. Ho con me il passaporto. Nessuno di loro ha un documento nè un bagaglio. Il loro esilio li ha privati del nome, l' identità è che sono vivi e basta. I loro figli, i loro nipoti vorranno sapere, ritrovare le impossibili piste attraversate, l’epica leggendaria che oggi è un trafiletto in cronaca, in caso di strage.
“Ennesimo” è l'aggettivo osceno che accompagna il titolo, accanto al neutrale sostantivo di naufragio. Ennesimo: il cronista è stanco di dover tenere il conto, alzare il sopracciglio per l’ennesima volta. Sulle rive del lago Kinneret, chiamato Tiberiade dai conquistatori venuti da Roma, il giovane fondatore del cristianesimo cercò i primi compagni. Erano di mestiere pescatori. Al giovane piacevano le metafore. Secondo Matteo (4,19) disse: “Venite con me, vi farò pescatori di uomini”. Eccomi in un tempo e su una nave che applica alla lettera l'impulsiva metafora. Sto con persone che si sono messe a pescare uomini, donne, bambini. Il Mediterraneo è un lago Kinneret salato e più grande.
Chi sono questi pescatori? Per coincidenza con la vicenda precedente, a bordo sono tredici, ma senza un Iscariota in squadra. Quattro di personale medico, tre organizzatori tecnici, tre interpreti e mediatori culturali, una psicologa, una responsabile delle comunicazioni e in più il coordinatore. Ognuno ha esperienza di interventi con Msf in varie aree del mondo. Hanno scelto la professione del soccorso, ma per farla non è sufficiente la competenza. Serve una catapulta interiore pronta al lancio dove si grida aiuto. Hanno passaporti di molte nazioni, ma il loro titolo è: senza frontiere. Qui nelle acque internazionali sono nel loro ambiente. Quando la loro presenza è indispensabile, non valgono i confini. Perciò disturbano spesso la condotta dei governi coinvolti. Hanno scelto di non prendere fondi dall'Unione Europea. Perciò non piacciono alla sua agenzia Frontex, che si occupa di frontiere nel Mediterraneo e non sopporta l'impegno di organismi indipendenti, anche se salvano vite che senza di loro andrebbero perdute.
Domenica mattina di Pasqua la Prudence è in vista del porto di Reggio Calabria. Troveremo sul molo in un giorno di festa solenne il dispositivo necessario alla sbarco? Il dubbio si dilegua all'imbocco del porto: primi si vedono per numero e colore di magliette azzurre i giovani volontari cattolici che cantano cori di benvenuti. Poi il personale medico al completo, i funzionari di polizia del servizio immigrazione, i molti autobus per il trasporto degli sbarcati nelle varie destinazioni. A ognuno che scende lungo la passerella, i volontari danno un opuscolo in varie lingue che informa su diritti e procedure, a conferma di quanto già spiegato a bordo. Scendo e ricevo addirittura il saluto del sindaco venuto al molo con alcuni assessori. Non riesco a credere: è domenica di Pasqua, ma sono tutti pronti a funzionare con efficienza, cordialità, rispetto. A Reggio Calabria, mi dicono, è prassi da due anni. Matthias Kennes mi conferma che anche nel porto di Palermo hanno un simile spirito di servizio negli sbarchi. Gli uomini e le donne scendono separatamente. Una di loro si volta intorno smarrita. Una funzionaria di polizia fa chiedere a un’interprete cosa stia cercando. Si tratta del marito. La funzionaria lo va a cercare, lo trova e si assicura che la coppia viaggi insieme. Si può fare: tenere insieme procedure e senso di umanità solidale. Grazie Reggio. Il mattino dopo si è di nuovo in mare dopo un rifornimento accelerato. Si va a velocità sostenuta, c'è urgenza in zona. Sono partiti molti gommoni e sul posto la nave Phoenix del Moas è già carica, con intorno nove gommoni, cioè mille persone senza acqua nè giubbotti salvataggio. Sono tenuti insieme con qualche corda. Abbiamo davanti almeno trenta ore di navigazione e mare grosso che ci rallenta. Non potremo arrivare in tempo. Uno dei gommoni cede e nessuno può farci niente. Questo può spiegare che i trafficanti lanciano gommoni al largo senza nessun calcolo circa la presenza di soccorsi. La loro unica condizione è che il mare sia calmo, non per motivi umanitari, ma perché centocinquanta persone spinte da un motore di 40 cavalli non riescono a prendere il largo se il mare appena increspa. A bordo della Prudence queste partenze vengono chiamate lanci, perché scagliati da un lanciatore che rimane a riva. L’intensità dei lanci di aprile è dovuta alla nostra fornitura di motovedette nuove alla Guardia Costiera libica, che entreranno in servizio a maggio. I trafficanti nell’incertezza affrettano tutti i lanci consentiti dalle condizioni meteo. Il capitano Pietro Catania e il suo equipaggio sono coinvolti anima e corpo in queste operazioni, perché sono gente di mare. Non badano a turni né a orari, fanno tutt’uno con la gioventù di Msf. In rotta da Reggio Calabria la nave incontra maltempo. Veniamo a sapere che è rimasto un gommone, in attesa fuori delle 12 miglia. Siamo i meno lontani ma comunque arriveremo troppo tardi. Allora da Lampedusa, che sta parecchio più a sud di noi, la Guardia Costiera manda due motovedette veloci, che arrivano molto prima e salvano centoquarantatre persone caricandole a bordo. Ci corrono incontro e le trasferiscono da noi. I due equipaggi sono partiti così in fretta da Lampedusa, da non avere caricato neanche il cibo per loro. Sono digiuni, i marinai della Prudence li riforniscono per il loro viaggio di ritorno.
Salgono centoquarantatre persone intirizzite, una donna all'ottavo mese di gravidanza. I loro occhi hanno perduto espressione di domanda, di preghiera, di messa a fuoco. Stanno ancora fissando l'orizzonte vuoto.“Lo senti dall'odore, da quanto tempo stanno in acqua” mi dice Cristian Paluccio, comandante in seconda. Lo sento forte anch’io, è tannino, materia da conciatore di pelle, un sudore di cuoio. Ricevuto lo zainetto di primo ristoro si mettono in fila per la doccia. Si tolgono di dosso il fradicio di naufraghi. Dopo il getto di acqua dolce, per loro anche più dolce, riprendono espressione i loro occhi. Cercano i volti, cominciano a chiedere notizie, a capire chi li accoglie al sicuro. Affiorano i canti, i ritmi e il contagioso ballo. Non ho uso di tatuaggi, la mia superficie riporta solo i segni degli anni. Ma gli avvenimenti del mondo che mi hanno coinvolto fisicamente, mi hanno inciso tatuaggi dalla parte interna della pelle. Abito dentro la mia, posso percepirli e li distinguo. Ho disegni scritti sul lato che non scolorisce. Le due settimane a bordo mi hanno impresso un tatuaggio nuovo: una scala di corda che pesca nel vuoto. Dal suo ultimo gradino ho visto spuntare una per una le facce di chi risaliva dal bordo di un abisso. Stipati in una zattera, scalavano i gradini della loro salvezza. Quelle centinaia di facce: non ho la virtù di poterle trattenere. Ho avuto l’assurdo privilegio di averle viste. i loro mi resta la scala di corda che hanno scalato seminudi e scalzi su pioli di legno. Pratico alpinismo e credo di sapere di preciso cosa sia il verbo scalare. Invece non lo sapevo. Ho imparato in mare a bordo di una nave quello che nessuna cima raggiunta mi ha insegnato prima. Perciò sotto pelle si è impresso il tatuaggio di una scala di corda coi pioli di legno.

Riferimenti
Sull'argomento vedi anche, in eddyburg, gli articoli raccolti sotto il titolo È giusto sparare contro le ONG che salvano i profughi? e la relativa postilla

ù

Le Organizzazioni non governative che salvano dalla morte i profughi sono complici dei mercanti di schiavi e soccorrono per lucro? Articoli di Roberto Saviano e Marco Tarquinio,

la Repubblica, l’Avvenire, 25 aprile 2017, con postilla

la Repubblica

PERCHÉ DIFENDO
di Roberto Saviano

«Dalle leggi travisate alla parola taxi citata a sproposito: l’emergenza sfruttata a fini elettorali Eppure Msf e gli altri riempiono un vuoto umanitario lasciato dalle istituzioni europee»

PER capire bisogna prendersi del tempo. Per capire bisogna leggere le fonti e verificarle. La tristissima vicenda che riguarda la polemica del Movimento 5Stelle sulle Ong che nel Mediterraneo si occupano di soccorrere i migranti mostra come, a partire da Beppe Grillo per finire con il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, i 5Stelle parlino su questo argomento per sentito dire, riportando affermazioni senza verificarle, dandole per vere e proponendo interrogazioni parlamentari che hanno il sapore di strumento di propaganda fine a se stessa.

Di Maio dichiara: «Definire taxi le imbarcazioni delle Ong non è un mio copyright. Prima di me, e a ragione, lo ha detto l’agenzia dell’Ue Frontex nel suo rapporto “Riskanalysis 2017”».

Basterebbe leggerlo davvero il rapporto per verificare che non paragona mai, in nessun punto, le imbarcazioni delle Ong che si occupano di search and rescue nel Mediterraneo a dei taxi. Non lo fa perché sarebbe scorretto, e non lo fa perché “taxi” significa lusso, significa comodità. E comodità e lusso sono parole che con le storie di chi attraversa il Mediterraneo per raggiungere l’Europa non c’entrano nulla.

E allora, se la parola taxi non si trova nel rapporto Frontex — anche se Di Maio dice di aver letto il rapporto ed è convinto che vi sia la parola “taxi” — chi l’ha pronunciata per primo? Nemmeno il procuratore della Repubblica di Catania, Carmelo Zuccaro, che Di Maio indica come altra sua fonte. Ma vale la pena analizzarle le parole di Zuccaro, perché sono comunque la fonte primaria della comunicazione che sull’argomento hanno fatto il Movimento 5 Stelle e Luigi Di Maio. La procura di Catania viene infatti citata in un articolo pubblicato sul blog di Grillo e trattato come fosse un documento dirimente sull’argomento, quasi pietra miliare.

Dice testualmente Carmelo Zuccaro in un’intervista: «Tra il settembre e l’ottobre 2015 nascono numerose Ong. Cinque tedesche, una spagnola e una maltese, che quindi nascono dal nulla e che dimostrano di avere subito disponibilità di denari per il noleggio delle navi, per l’acquisto di droni ad alta tecnologia e per la gestione delle missioni, che sembra molto strano che possano aver acquisito senza avere un ritorno economico ». Quindi la domanda che la procura di Catania si pone è: chi paga le missioni? Il procuratore apre un fascicolo conoscitivo, senza indagati né capi di accusa, su sette Ong che, con tredici navi, salvano migranti nel Mediterraneo. Le Ong rivendicano la trasparenza dei loro bilanci che si basano su finanziamenti privati e infatti Zuccaro non ha alcuna certezza che le missioni umanitarie nel Mediterraneo siano in realtà dei “taxi per migranti” e parla di “sospetto” e ribadisce di “un mero sospetto”, se non fosse ancora abbastanza chiaro. Un mero sospetto che nelle dichiarazioni del Movimento 5 Stelle e di Di Maio diventa una quasi certezza, lanciata come sempre in pasto ai social, dove si sa, l’approfondimento non è di casa. Dove ci si affida al pensiero di terzi perché il proprio vi si adegui.

Ma quello che mi ha colpito delle dichiarazioni di Zuccaro è la riflessione sul pericolo che corre l’Italia ad accogliere migranti in maniera incontrollata. Ed è proprio qui che si collega l’articolo pubblicato sul blog di Beppe Grillo dal titolo: “Più di 8mila sbarchi in 3 giorni: l’oscuro ruolo delle Ong private”. Dove si fermano le ipotesi della procura di Catania, arrivano le certezze dei 5 Stelle, dove la procura di Catania non si inoltra per mancanza di prove, lo fanno Grillo e Di Maio: le Ong, prima di qualsiasi indagine o processo, sarebbero “colpevoli” di portare migranti in Italia.

Ma perché in Italia? Perché non nei porti fisicamente più vicini? Semplice: perché l’Italia è il porto più sicuro, perché chi fugge dalla Libia o dalla Tunisia non può tornare in Libia o in Tunisia. Intanto perché la Libia non ha ratificato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati e poi perché «nei soccorsi in mare», come riporta Annalisa Camilli in un fondamentale articolo sul tema, «viene applicata la convenzione di Amburgo del 1979». “Porto sicuro” non è infatti semplicemente un luogo che sia terraferma, ma sicuro anche e soprattutto per la garanzia dei diritti delle persone che si trovano in mare. Perché se è illegale favorire l’immigrazione clandestina è altrettanto illegale non prestare soccorso in mare.

Spesso poi si fa riferimento alla distanza tra le imbarcazioni delle Ong che effettuano salvataggi in mare e la costa, come a insinuare questo dubbio: «Perché quelle navi si trovavano così vicino alle coste? Perché a 12 miglia?». Si omette però di dire che è lecito avvicinarsi fino a 12 miglia nautiche se serve per salvare vite umane. Medici Senza Frontiere, per esempio, nel 2016 in cinque occasioni ha prestato soccorso a circa 11,5 miglia dalla costa dopo aver avuto l’ok delle autorità libiche. Le Ong agiscono dove altri non arrivano e mai senza il via libera delle autorità competenti.

Ma veniamo all’articolo che è stato la base teorica per i post di Di Maio. Se è vero, come è vero, che le prime righe di un testo contengono il messaggio che si vuole veicolare, ecco il messaggio che il blog di Beppe Grillo vuol farci arrivare: «Negli ultimi giorni l’Italia ha registrato un record di sbarchi senza precedenti. In poco più di 72 ore circa 8mila migranti sono approdati in Sicilia dopo una lunga traversata in mare». Ergo: il problema sono gli arrivi. E poi, dato che come è noto, nessuno di noi ha tempo da perdere per leggere ed approfondire, l’articolo ci rende la vita facile e mette alcune frasi chiave in evidenza cosicché quello che ci troviamo davanti è un articoletto di poche righe, che facilmente ci resteranno impresse. Eccole: «Con l’aumento degli sbarchi aumenta ovviamente anche la spesa interna dell’Italia». «È la solita solfa, con un’Europa che ci è totalmente estranea e indifferente ». «Ma c’è un nuovo capitolo che sta emergendo in queste ore e che merita attenzione ».

Qui vale la pena riportare l’intero paragrafo perché aggiunge liberamente informazioni alle dichiarazioni ipotetiche della Procura di Catania: «Parliamo di circa una dozzina di Ong tedesche, francesi, spagnole, olandesi, e molte di queste battono bandiere panamensi o altre bandiere ombra». Zuccaro parlava di sette Ong e tredici imbarcazioni attenzionate dalla Procura di Catania, ma nell’articolo sul blog di Grillo il loro numero lievita.

In un’altra intervista sullo stesso argomento, Zuccaro precisa che non tutte le Ong che recuperano migranti sono uguali: «Ci sono quelle buone e quelle cattive». Nel dubbio, però, Grillo e Di Maio hanno pensato di gettare fango su tutte: prima che ci sia un processo e che si possa accertare cosa accade, meglio disincentivare le donazioni alle Ong che salvano vite e che portano migranti in Italia.

Ora, terminato il fact checking alle dichiarazioni di Grillo e Di Maio, ci tengo a fornire una serie di strumenti utili a capire qual è la situazione. Se le navi delle Ong Proactiva open arms, Medici senza frontiere, Sos Méditerranée, Moas, Save the Children, Jugend Rettet, Sea watch, Sea eye e Life boat si trovano anche vicino alle coste libiche è perché è lì che serve la loro presenza allo scopo di salvare vite. Le Ong non si sono messe a fare un “servizio taxi” per i migranti di punto in bianco, ma riempiono un vuoto umanitario lasciato dalle istituzioni europee.

Ma Di Maio afferma ancora: «La verità è che in Italia in questi ultimi 20 anni ci sono stati due generi di sfruttamento dell’immigrazione. Il primo è quello della Lega, che ha lucrato elettoralmente sul problema, senza mai risolverlo. L’altro invece è quello del centrosinistra, che ha anche preso soldi dalle cooperative che sfruttavano il business dei migranti. Non a caso Salvatore Buzzi finanziò una cena elettorale di Matteo Renzi. Destra e sinistra hanno già fallito».

Bene, se è così, allora il M5S ha capito che vale sicuramente la pena, in questo momento, aderire alla prima strada, ovvero a quelli che la questione migranti la sfruttano per motivi elettorali. E sono i numeri a parlare: nel 2016 su 178.415 migranti salvati nel Mediterraneo, le Ong ne hanno salvati 46.796, a fronte dei 35.875 salvati dalla Guardia Costiera, dei 36.084 salvati dalla Marina Italiana, dei 13.616 salvati da Frontex (dati della Guardia Costiera Italiana). Se le Ong fossero spazzate via da diffidenza e sospetti, se si interrompesse il sostegno economico privato, calcolate quanti migranti in meno arriverebbero in Italia, e non perché ne partirebbero di meno, ma perché morirebbero in mare, seppelliti dalle acque, e noi saremmo circondati da un cimitero più cimitero di quanto non lo sia già.

E in tutto questo, come ha reagito il Partito democratico alla polemica sulle Ong? Parole vuote e di circostanza. Dichiarazioni smentite dai fatti, con il decreto Minniti che sta progressivamente criminalizzando la solidarietà. Invece di eliminare, come sarebbe ovvio, giusto e conveniente, il reato di immigrazione clandestina si sta subdolamente introducendo il reato di solidarietà.

l’Avvenire
Quella «supplenza diciviltà» in mare.
Basta fuoco sulle Ong

di Marco Tarquinio


Ci risiamo. Dopo le cooperative sociali, le organizzazioni non governative umanitarie. Mentre ancora romba sordamente la campagna anti-cooperative fondata ingenerosamente sull’infedeltà e sul malaffare di alcune (solo alcune) di esse, ha preso a stringersi, a strappi violenti e continui, la tenaglia della polemica politica – dalla Lega ai 5 Stelle, passando per pezzi dell’area di governo – e della narrazione mediatica ambigua e ostile sulle attività delle organizzazioni umanitarie. Ancora una volta il settore d’impegno e d’azione messo nel mirino è quello del soccorso e dell’accoglienza a profughi e migranti. Stavolta in mare aperto, nelle attività di ricerca e soccorso dei bambini, delle donne e degli uomini in fuga dalla guerra, dalla violenza, dalla fame e dalla schiavitù che rischiano di morire nelle traversate del braccio di mare tra il Nord Africa e l’Italia. Traversate da incubo a cui sono costretti dalla mancanza di navi e vie e voli regolari e regolati e da un sistema di norme che li “clandestinizza” (e meno male che l’Italia ha saputo capovolgere questa impostazione almeno riguardo ai bambini e ai ragazzi che arrivano da soli nel nostro Paese). Traversate che continuano vista la piccolezza dei «corridoi umanitari» – aperti, in accordo coi rispettivi Governi, solo grazie alle iniziative ecumeniche di Sant’Egidio, dei protestanti italiani e francesi e delle Conferenze episcopali d’Italia e Francia – che possono diventare la giusta e finalmente proporzionata risposta alle sofferenze e agli appelli delle vittime dei conflitti e delle persecuzioni.

Le Ong impegnate nel Canale di Sicilia sono gli occhi che rischiamo di non avere più, sono le mani che non possiamo lasciare inerti, alimentano consapevolezze e sani e tenaci rovelli nelle coscienze d’Italia e d’Europa. Per questo non si può restare neutrali e indifferenti al tentativo di lordarne l’immagine e di “espellerle” dal Mediterraneo. È un fatto: denunce, segnalazioni, dossier, pamphlet, video anti-immigrati e anti-Ong si moltiplicano. Strumentalizzano accertamenti giudiziari. Trovano spazio, eco e legittimazione sulle pagine di giornali, anche autorevoli, dove nel giro di una manciata di settimane titoli pesanti e un aspro rumore di fondo informativo hanno preso a costruire, poco a poco ma con impressionante determinazione, l’abbinamento senza senso e senza verità tra gli «affari» dei trafficanti di essere umani e le Ong umanitarie.

Eppure corre quest’ennesimo falso ritornello – falso, sì, anzi falsissimo, fino a prova contraria – e continuiamo a registrare che inquirenti di prim’ordine, come quelli della Guardia di Finanza, stanno facendo cadere le più malevoli illazioni. Eppure dà ritmo, il ritornello, alla colonna sonora e iconografica di un brutto film, tutto giocato sull’incattivimento degli sguardi e delle parole a proposito dello straniero «che sta alla porta», e importuna, come tutti i poveracci, e sporca, e costa, e ruba ai vecchi di casa nostra, ed è nullafacente… Una “colonna infame” fatta di barzellette ciniche e di immagini odiosamente congegnate, che infestano il web e i cellulari degli italiani e ostentano uno stile che ricorda e aggiorna quello mortalmente usato contro gli ebrei nel cuore più malato del XX secolo a preparare l’inimmaginabile e la criminalizzazione permanente e senza scampo degli «zingari».

Certo, è vero: ogni malefatta compiuta all’ombra di simboli umanitari – se davvero se ne compissero – peserebbe il doppio. E correttezza operativa, onestà di intenti e di mezzi, trasparenza economica e gestionale sono beni necessari, attitudini qualificanti e decisive. Ma è ancora più vero che la specifica azione nel Mediterraneo delle Ong umanitarie, svolta sempre in stretto coordinamento con la Guardia costiera e la Marina militare italiana, vale oggi almeno il quadruplo del normale. È una supplenza di civiltà. È dedizione esemplare, nella più pura applicazione della “legge del mare” e dei grandi princìpi enunciati nei Trattati Onu e nella Costituzione italiana, o semplicemente, per chi crede, è adesione al Vangelo. Un servizio di umanità che risalta ancor più di fronte all’enormità della degenerazione meramente «securitaria» del doppio dispositivo europeo Frontex ed Eunavfor Med che ha sostituito in modo insufficiente e, diciamolo pure, umanitariamente sparagnino e reticente l’operazione italiana Mare Nostrum, voluta con scelta lucida e generosa dall’allora presidente del Consiglio Enrico Letta all’indomani della sconvolgente strage di migranti causata dal naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013.

Quando finirà, insomma, questo gioco al massacro della verità? Ong – come coop – non è una parolaccia, non è una sigla malavitosa. Qualche Ong fasulla c’è stata, qualcun altra ci sarà, ma quello delle Ong è un mondo esigente e buono. La stragrande maggioranza di esse – che operi in Italia, su barche in mezzo al nostro mare o in parti del mondo che forse conosceremo solo grazie a qualche coraggioso reportage o docufilm – è un prezioso e resistente pezzo dell’umanità che non si rassegna alla disumanizzazione, a quella «cultura dello scarto» che papa Francesco non si stanca di additare alla reazione della nostra intelligenza e del nostro cuore.

postilla
Ciò che stupisce e indigna, nelle posizioni dei grillini alla De Maio, dei renziani allaMinniti e degli altri numerosi che ragionano come loro, non è solo la sostanziale inumanità che esprimono ma anche e soprattutto la più cieca ignoranza di due fatti incontestabili:
(1) l'esodo proseguirà inevitabilmente finché proseguirà lo "sviluppo" come è concepito e praticato dal Primo mondo e dalle sue espansioni asiatiche;
(2) i mercanti di profughi (chiamateli scafisti o come altro volete) rimarranno attivi finché i paesi del benessere non si saranno decisi sia a organizzare dei "canali protetti" che aiutino gli "sfrattati dallo sviluppo"a raggiungere i nostri paesi sia a realizzare nelle nostre terre le condizioni per un'accoglienza temporanea o definitiva.

Così stando le cose, non potranno alla lunga essere efficaci - oltre a essere inumani - i tentativi di emulare i nazisti e indurre dli stati di transito, come la Libia) a trasformare i oro territori giganteschi campi di concentramento.

«Questi fatti, vanno seguiti con la massima attenzione: rivelano la tendenza a ritornare a una fase pre-moderna del diritto, quando con i vagabondi e i sovversivi e gli esuli, veniva processato chi dava loro soccorso

». Articoli di Luigi Manconi,Livio Pepino e Marco Revelli.il manifesto, 25 aprile 2017 (c.m.c.)

QUANDO ESSERE UMANI
È UN REATO

di Luigi Manconi

Estate 2016. Ventimiglia, estremo occidente della costa ligure: centinaia di migranti sostano al confine tra Italia e Francia. Cercano di varcarlo, per continuare il loro viaggio, ma l’Europa ha chiuso loro quella porta. Il campo della Croce rossa italiana non riesce più ad accogliere tutti, prendono forma campi di fortuna, allestiti da organizzazioni umanitarie, dove volontari prestano aiuto e assistenza. Félix Croft, europeo di cittadinanza francese, è uno di questi. Di fronte a una simile mobilitazione il sindaco, per motivi di «igiene e decoro», emette un’ordinanza (di recente provvidenzialmente revocata) che vieta la distribuzione di cibo e bevande ai migranti.

Ora, mentre una nuova estate di sbarchi si avvicina, Félix Croft aspetta di sapere del suo futuro. Il 27 aprile sapremo se sarà condannato: la procura del Tribunale di Imperia ha chiesto per lui una pena di 3 anni e 4 mesi di reclusione per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, oltre a una multa di 50 mila euro.

Questo il suo racconto: «Il 22 luglio, parlando con alcuni profughi e volontari del campo, sono venuto a conoscenza della storia particolarmente dolorosa di una famiglia sudanese con due bimbi di 2 e 5 anni, proveniente dal Darfur; insieme ad un’amica psicologa sono andato a trovarli nella chiesa dove avevano trovato un alloggio provvisorio, per verificare i loro bisogni e le necessità più urgenti. Mi sono trovato di fronte a una situazione che mi ha colpito nel profondo: la donna, incinta di 6 mesi, era duramente provata, uno dei bambini aveva ancora su un fianco gli esiti di una profonda ustione, per non parlare del racconto tragico del loro viaggio e della distruzione del loro villaggio, dato alle fiamme. Si trovavano lì bloccati, senza vie d’uscita.

Impossibile per loro camminare lungo l’autostrada, rischiando la morte con i bambini, o peggio prendere un treno, viste le continue perquisizioni sui convogli che passavano la frontiera; non avevano denaro per pagarsi un passeur per tentare di raggiungere la Germania dove avevano dei parenti. Più volte la giovane madre mi ha chiesto aiuto, quasi implorandomi di portarli via con me. Pensavo di ospitarli da me, a Nizza, di farli riposare, per poi affidarli a un’associazione umanitaria che si sarebbe occupata di aiutarli concretamente, di trovargli una sistemazione.

Siamo stati fermati al casello autostradale di Ventimiglia, io sono stato arrestato – anche se i carabinieri hanno verificato che non avevo denaro addosso – la famiglia presa in carico dalla Caritas. Dopo tre giorni in prigione, mi è stata concessa la libertà provvisoria, in attesa di essere giudicato per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina».

Laura Martinelli, Ersilia Ferrante e Gianluca Vitale – gli avvocati che difendono Félix Croft – hanno obiettato all’impianto accusatorio chiedendo l’applicazione della clausola che consente l’eccezione alla fattispecie di reato di favoreggiamento quando esso sia stato prestato per motivi umanitari. Ne hanno chiesto pertanto l’assoluzione, essendo stato – quello dell’accusato – un gesto di solidarietà e umanità.

D’altro canto, proprio in Francia simili casi giudiziari hanno esito diverso. Cédric Herrou, agricoltore della Val Roja, è stato condannato dal Tribunale di Nizza a una multa di 3000 euro con il beneficio della condizionale (la procura nel suo caso aveva chiesto 8 mesi di carcere, sempre con la condizionale) per aver favorito l’ingresso in Francia di 200 migranti privi di documenti. E il 19 maggio conosceremo la sentenza nel caso della giovane attivista italiana Francesca Peirotti, a processo il 4 aprile sempre a Nizza. Il procuratore ha chiesto per lei una condanna a 8 mesi con la condizionale e 2 anni di interdizione dal territorio francese per «aver favorito l’ingresso irregolare di otto migranti».

Questi fatti, che sembrano rispondere a un’unica logica, vanno seguiti con la massima attenzione: rivelano la tendenza a ritornare a una fase pre-moderna del diritto, quando si perseguivano le «colpe d’autore» e diventava materia di sanzione penale la condizione esistenziale. E, con i vagabondi e i sovversivi e gli esuli, veniva processato chi dava loro soccorso.

PRIMA VITTORIA
CONTRO L'INTOLLERANZA

di Livio Pepino e Marco Revelli

L’ordinanza del sindaco di Ventimiglia che vietava di «somministrare cibo ai migranti» è stata revocata!È un primo risultato (anche) del nostro appello alla mobilitazione nella città del ponente ligure il 30 aprile. Ed è una buona ragione per moltiplicare l’impegno e la pressione.

Ventimiglia non è il luogo di maggior pressione migratoria né quello in cui si sono verificati i più gravi episodi di intolleranza. Ed è luogo in cui parte significativa dell’associazionismo laico e cattolico si sta impegnando al meglio per l’accoglienza. Ma è un simbolo di assoluta centralità. Per due motivi fondamentali.

Primo. Ventimiglia è un luogo di confine. Lì, come in altri confini d’Italia e d’Europa, emergono in modo più evidente gli egoismi e le contraddizioni del nostro sistema. I confini tornano ad essere muri. Elementi di divisione. Presìdi contro altre donne e altri uomini. E riemergono intolleranza, violenza, brutalità, rifiuto da parte delle istituzioni.

Eppure sui confini si sono mossi, negli ultimi anni, migliaia di cittadini – pensiamo all’Austria, alla Germania, alla Svizzera… – che hanno sfidato le autorità e accompagnato i migranti in un transito che si voleva impedire. Proprio sui confini, dunque, si gioca la credibilità di chi sostiene di volere un’altra Europa, senza precisare quale. Oggi il discrimine è proprio sul tema dell’accoglienza. Senza demagogie. Sapendo che i problemi ci sono. Ma sapendo anche – e dicendolo forte – che essi vanno affrontati con umanità e lungimiranza, non esorcizzati e rimossi.

Secondo. Ventimiglia è un simbolo anche sotto un altro profilo. Perché lì c’è stata una delle più esplicite tra le ordinanze sindacali che vietano la solidarietà e prescrivono il rifiuto. Oggi quella ordinanza è stata revocata ma la cultura che l’ha ispirata resta pericolosamente viva, come si vede, per esempio, con la vergognosa criminalizzazione delle organizzazioni umanitarie che cercano di salvare i naufraghi nel Mediterraneo.

Con il decreto Minniti, poi, quella cultura diventa regola. Per difendere il «decoro» urbano e tutelare la «tranquillità» dei cittadini ogni prevaricazione diventa lecita. Fino a trasformare l’antico principio che impone di dar da mangiare a chi ha fame e di dare un tetto a chi non ce l’ha nel suo contrario.

Così l’intolleranza e il rifiuto non sono più solo situazioni di fatto. Diventano regole di diritto e si scrive una nuova pagina di un crescente «diritto del nemico». Con gli sviluppi che la storia insegna e che possiamo facilmente immaginare.

C’è quanto basta per essere in molti, ancora di più, a Ventimiglia il 30 aprile e per dare alla manifestazione un ulteriore significato.

Alle ambigue accuse di "buonismo" rivolte a chi soccorre i disperati, e ne salva le vite, provenienti dai politici precocemente invecchiati che fanno l'occhiolino alla destra razzista, ecco la risposta pacata e ragionevole a chi guarda le cose per quello che sono.

la Repubblica, 24 aprile 2017 (c.m.c.)
Chi è ipocrita sulla questione dei salvataggi in mare dei migranti? Le Ong e chi le sostiene finanziariamente (ma anche la marina italiana e Frontex) perché effettuano i salvataggi pur sapendo che c’è chi lucra sui migranti sia nei luoghi di partenza che nei luoghi di arrivo, o chi fa finta di non vedere e non sapere che premono alle porte dell’Europa persone così disperate da correre rischi inenarrabili, compresa la morte, pur di sfuggire alle condizioni di vita che sono loro toccate in sorte?

Basta vedere i minori non accompagnati, le donne incinte, gli anziani che sbarcano dalle navi dopo mesi di cammino e spesso sofferenze indicibili per capire che nulla li può fermare, salvo un cambiamento radicale nelle loro condizioni di partenza. Non è che non conoscano i rischi che corrono, non solo in mare, ma lungo tutto il percorso che li ha portati su quei barconi. Li mettono in conto e considerano che il trade-off tra questi rischi e la vita che toccherebbe loro e ai loro figli se rimangono è comunque positivo, che è meglio rischiare che rimanere.

Se anche tutte le navi delle Ong sparissero dal tratto del Mediterraneo ormai diventato un cimitero, coloro che non hanno altra speranza che cercare di venire in Europa continueranno a tentare, a proprio rischio e pericolo. Ne moriranno solo un po’ di più, perché Frontex è (intenzionalmente?) sottodimensionato rispetto alla necessità.

Che si controlli pure se le Ong che effettuano i salvataggi hanno le carte in regola, se chi si occupa dell’accoglienza lo fa con coscienza e responsabilità o invece lucra sulla pelle dei migranti. Ma ci si dovrebbe anche chiedere perché è stato lasciato loro questo spazio, invece di riempirlo con una efficace iniziativa pubblica europea, come si era promesso quando fu chiusa l’operazione Mare Nostrum.

E perché è possibile che Ong di tutt’Europa possano operare in mare per portare in Italia chi salvano, mentre la redistribuzione nei diversi paesi più volte decisa rimane lettera morta. Così come, nel denunciare giustamente chi lucra sulla accoglienza, ci si dovrebbe chiedere perché si permette che si aprano strutture (o si trasformino strutture preesistenti non più lucrative) per accoglienze di massa che inevitabilmente non fanno nessuna integrazione e al contrario provocano ostilità e sospetto, invece di privilegiare esplicitamente e sistematicamente l’accoglienza diffusa.

Come mi raccontava un esponente di un consorzio di comuni piemontesi, «noi abbiamo fatto grandi sforzi per distribuire pochi migranti in ciascun comune. Poi il proprietario di un albergo chiuso da tempo lo ha riciclato in struttura di accoglienza, ha partecipato a un bando e ora ci sono più di 100 migranti tutti insieme in un comune, cui non si propone nulla e non hanno nulla da fare». Diventando, aggiungo io, facile preda di sfruttatori e malintenzionati di ogni tipo.

Un responsabile di una cooperativa del Sud mi ha detto che loro non partecipano ai bandi per accogliere persone a cento alla volta, perché con questi numeri non è possibile offrire nessuna seria attività di integrazione né avere un minimo di controllo sulle persone. Non c’è solo la malversazione esplicita, come nel caso di Mafia capitale. C’è anche l’infelice incontro tra una politica miope e una, legittima, voglia di guadagno.

Chi ci va di mezzo sono i migranti stessi, oltre le comunità in cui sono collocati. È ipocrita chi fa finta di non vedere questi rischi. Ma anche chi denuncia senza prove e senza proporre alternative, salvo forse il respingimento in mare e l’abbandono al proprio destino.

Vive in Italia, ma non è italiano, né parla come la maggior parte degli italiani. Quelli di cui parla e piange meriterebbero di sfilare anche loro per le nostre strade e piazze il 25 aprile, insieme agli altri rappresentanti della Resistenza.

Corriere della Sera, 23 aprile 2017

ROMA «Sono campi di concentramento» dice il Papa dei centri di raccolta dei profughi. Augura che la generosità del Sud possa «contagiare il Nord». Azzarda che se ogni municipio accogliesse due migranti «ci sarebbe posto per tutti». In coda a una preghiera scritta aggiunge: «A te Signore la gloria e a noi Signore la vergogna».

Con volto scuro e parole accese Francesco ha intrecciato ieri pomeriggio all’Isola Tiberina l’argomento tragico dei martiri cristiani — in particolare quelli uccisi in Paesi musulmani — all’argomento scottante dei profughi, improvvisando alcune delle affermazioni più forti che abbia formulato fino a oggi sull’accoglienza.

Il contesto era dato da una «liturgia in memoria dei nuovi martiri del XX e XXI secolo» che si teneva nella Basilica di San Bartolomeo dove la Comunità di Sant’Egidio ha realizzato un Memoriale dei cristiani d’ogni continente uccisi in odio alla fede negli ultimi decenni.

Reso omaggio ai martiri che lì sono ricordati con foto e con oggetti loro appartenuti — da Romero a Puglisi — Francesco ha così continuato a braccio: «Io vorrei, oggi, aggiungere un’icona di più, in questa chiesa. Una donna. Non so il nome. Ma lei ci guarda dal cielo. Ero a Lesbo, salutavo i rifugiati e ho trovato un uomo trentenne con tre bambini. Mi ha detto: Padre, io sono musulmano. Mia moglie era cristiana. Nel nostro Paese sono venuti i terroristi, hanno visto lei con il crocifisso, e le hanno chiesto di buttarlo per terra. Lei non lo ha fatto e l’hanno sgozzata davanti a me. Ci amavamo tanto!».

Fatto questo racconto Bergoglio ha detto la sua parola più forte in tema di immigrati: «Non so se quell’uomo è ancora a Lesbo o se è stato capace di uscire da quel campo di concentramento, perché i campi di rifugiati — tanti — sono di concentramento, per la folla di gente che è lasciata lì. E i popoli generosi che li accolgono devono portare avanti anche questo peso, perché gli accordi internazionali sembra che siano più importanti dei diritti umani».

Dopo aver incontrato un gruppo di rifugiati arrivati con i «corridoi umanitari» della Comunità di Sant’Egidio, Francesco è tornato a battere sulla «crudeltà» contro chi arriva «in barconi» e poi resta confinato «nei Paesi generosi come l’Italia e la Grecia».

Ed eccolo che pronuncia altre parole che saranno usate contro di lui nella polemica che Marine Le Pen in Francia e Matteo Salvini in Italia già hanno avviato chiamandolo in causa come uno che «invita i migranti»: «Se in Italia si accogliessero due migranti per municipio, ci sarebbe posto per tutti. E questa generosità del Sud, di Lampedusa, della Sicilia, di Lesbo, possa contagiare un po’ il Nord. È vero: noi siamo una civiltà che non fa figli, ma anche chiudiamo la porta ai migranti. Questo si chiama suicidio. Preghiamo!».

.il manifesto, 22 aprile 2017 (c.m.c.)

«Anche se compiono azione contraria alla legge, sappiano almeno compierla obbedendo a una legge del cuore».

Nel 1948 il sindaco di Bardonecchia Mauro Amprino aveva fatto affiggere manifesti nelle vie per invitare chi si offriva di accompagnare gli immigrati oltre confine a una maggiore umanità: c’era chi si faceva pagare e poi abbandonava i migranti a metà strada. Molti furono trovati morti, i corpi conservati dal gelo.

È un episodio, certo, ma basta a misurare la differenza tra una politica che agisce secondo coscienza e responsabilità e una politica che si nasconde invece dietro una legalità astratta e di convenienza, di cui lei stessa è ispiratrice.

L’ordinanza emanata l’11 agosto 2016 a Ventimiglia, in base alla quale sono stati incriminati alcuni volontari francesi, «colpevoli» di avere distribuito del cibo a migranti bisognosi, scaturisce da questa perdita di umanità e di intelligenza. Già perché non si tratta solo del tradimento di un principio elementare di umanità, di quell’etica del riconoscimento che ci consente di vederci negli altri, di metterci nei loro panni e che dalla notte dei tempi ispira le azioni più belle e i più fecondi percorsi di liberazione. Ma anche di una ristrettezza mentale e culturale, di una rimozione e manipolazione di due fatti evidenti.

Il primo è che il fenomeno migratorio è in massima parte effetto di un sistema economico che genera disuguaglianze e che perciò papa Francesco non esita a definire «ingiusto alla radice».

La seconda è che l’Occidente ha il dovere di governarne le conseguenze, da un lato con politiche di accoglienza e inclusione, dall’altro ripristinando condizioni di vita dignitose nei Paesi sfruttati e impoveriti, affinché le persone non siano costrette a partire o fuggire.

L’immigrazione deve essere una libera scelta e nessuno può essere condannato a vita dal proprio luogo di nascita.

Questa sarebbe davvero una politica che costruisce sicurezza. Impegnata a investire nella pace e non nella guerra. E fedele alle Carte scritte nel dopoguerra per scongiurare il ritorno della barbarie in qualunque forma: la Dichiarazione universale dei diritti umani, la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, la nostra Costituzione.

Tra pochi giorni ricordiamo la Liberazione. Ma è una liberazione incompiuta quella che permette che ancora tante persone siano private della loro libertà e della loro dignità. Ci si libera insieme, e lo saremo davvero scacciando la corruzione, l’indifferenza, l’ignoranza, tre grandi tiranni del nostro tempo. Anche questo segnala la manifestazione di domenica 30 aprile a Ventimiglia per la solidarietà e contro l’intolleranza.

In questi giorni numerosi interventi elogiano o criticano le perverse novità introdotte con le leggi Minniti Orlando, in materia di immigrazione e “sicurezza urbana”. un testo pubblicato recentemente da

comune.info 12 aprile 2017

L’approvazione dei Decreti Legge nn. 13 e 14 dello scorso febbraio, che portano le firme del Ministro degli Interni Marco Minniti e di quello alla Giustizia Andrea Orlando, a soli tre giorni l’uno dall’altro, sancisce un ennesimo punto di non-ritorno. Ancora una volta il centro-sinistra – i “moderati”, i “progressisti” o che dir si voglia -, non solo sceglie di inseguire le destre sul terreno securitario del “sorvegliare e punire”, ma addirittura supera e inasprisce il terreno già seminato dal Decreto Sicurezza di Maroni del 2008.

Nel 2009 il sociologo francese Loïc Wacquant pubblicava un libro dal titolo Simbiosi mortale. Neoliberalismo e politica penale dove evidenzia il sistematico nesso tra la distruzione dello “stato sociale” e il rafforzamento dello “stato penale”.

Studiando le trasformazioni del sistema carcerario statunitense, soffermando lo sguardo anche su quelle degli stati europei in ottica comparativa, Wacquant osserva come lo smantellamento progressivo del “welfare state” venga accompagnato, nonostante la retorica anti-statista e anti-welfare del neoliberismo, da un intervento sempre più massiccio dello stato nella gestione della sicurezza pubblica. In poche parole, lo stato neoliberista si sottrae dall’ottemperare ai suoi compiti nei confronti della “res publica” per liberare da lacci e lacciuoli l’indole più selvaggia del mercato, affinché sia possibile l’espandersi dei dispositivi penali per gestire le conseguenze sociali generate dalla disfunzionalità del mercato.

A partire da questa situazione, emerge una nuova moralità pubblica, riflessa nelle logiche della punizione e dell’incarcerazione, che vede i gruppi meno abbienti come soggetti falliti nei loro progetti personali, individui parassitari e pericolosi per la coesione pubblica.

Dentro questo tracciato, lo stato neoliberista esonera sé stesso dalle responsabilità di non aver saputo contenere la galoppante ineguaglianza socio-economica, poiché è la punizione dei poveri che diventa autentica “politica sociale”. Nelle prigioni si moltiplicano le “vite di scarto” escluse dal magico mondo del mercato. L’imperativo assoluto è far scomparire dagli occhi del cittadino-consumatore quelle marginalità che si potrebbero incontrare nello spazio pubblico, nelle strade e nelle piazze.

Si esalta il “decoro” delle piazze a scapito della possibilità di attraversarle socialmente; la “bonifica” delle aree degradate e delle periferie” diventano la stella polare di una visione politica “sanitaria” dello spazio urbano. Il mantra di Matteo Salvini della “ruspa” e del “fare pulizia”, in realtà, non è affatto un rigurgito verbale proto-fascista di un’intolleranza di destra, ma sempre più la cifra qualificante delle politiche di sicurezza, ormai spacciate anche per politiche “sociali”, promosse sia dalle destre che dal così detto centro-sinistra.

I ministri Orlando e Minniti sostengono che la sicurezza è a tutti gli effetti un “bene pubblico”, per questo la sua continua garanzia, per risolversi, ha necessità di alimentare un paradosso, ovvero l’espulsione dalla società di coloro che il sistema stesso non è più in grado di includere. Il Governo si preoccupa quindi di muovere guerra nei confronti dei poveri, degli ultimi e degli emarginati.
Minniti e Orlando hanno ribadito come “sicurezza” sia una parola di sinistra (sic!) e in un periodo di ripiegamenti dovuti alla morsa della crisi, di fronte alla necessità di giustizia sociale ed equità, rispondono con politiche securitarie che non trovano alcuna giustificazione se non inseguire slogan populisti e razzisti, nella costante paura di non essere più rieletti.

La parola “Sicurezza”, checché ne dicano Minniti e Orlando, nel dibattito pubblico e nella percezione individuale, richiama alla mente di tutti politiche populiste, autoritarie e di destra: dalla Turco-Napolitano, passando per la Bossi-Fini fino al pacchetto sicurezza di Roberto Maroni. Dobbiamo pertanto dire chiaramente che non ha nulla a che fare con l’inclusione, la solidarietà, l’uguaglianza e con l’estensione dei diritti, né tanto meno con la giustizia sociale.

I DECRETI MINNITI-ORLANDO

Punire i poveri

il Decreto n. 14 attacca duramente “accattoni”, “rovistatori” e i più emarginati dalla nostra società. Chi viene dai margini viene criminalizzato per la sola ragione di essere povero: pertanto chi vive fuori dal mercato del lavoro è privato di ogni diritto umano. Il neoliberismo non ammette l’appropriazione di un bene fuori dalle regole del mercato e per questo viene sanzionato l’accattonaggio, invece di immaginarsi forme di inserimento di soggetti svantaggiati in un circuito virtuoso.

Ma chi ha determinato l’aumento della povertà e quindi il moltiplicarsi di situazioni di marginalità e vulnerabilità se non appunto i governi di questi anni, di cui Minniti e Orlando hanno fatto parte? Appare qui più facile e utile eliminare dalla vista di tutti il prodotto delle loro politiche, o anche quello che potrebbe capitare ad ognuno di noi, a causa di quelle stesse politiche, perché non possa venire alla mente di voler cambiare e immaginarsi una vera e praticabile alternativa.

I sindaci sceriffi e “legibus solutus

A far rispettare i divieti ci penserà il sindaco sceriffo, una figura che viene di fatto istituzionalizzata allargandone poteri e discrezionalità in materia di ordine pubblico e sicurezza urbana, al termine di un lungo processo iniziato oltreoceano a fine degli anni ’90 con il mantra della “Tolleranza Zero” del sindaco di New York Rudolph Giuliani e subito applicato da sindaci leghisti come il trevigiano Giancarlo Gentilini o gli ex-comunisti Dominici a Firenze e Zanonato a Padova. Ci troveremo di fronte alle ordinanze “capriccio” dei fantasiosi sindaci che promulgheranno ordinanze al fine di accontentare le pulsioni più varie di parti di quello che vedono ormai solo come elettorato. Un modo solo per nascondere questioni o problematiche, senza realmente affrontarle e risolverle.

Daspo Urbano, occupazione di immobili e repressione del dissenso politico

Gli stadi sono da sempre un laboratorio di repressione che si sta allargando al resto della società, infatti il così detto Daspo metropolitano applica un dispositivo, ideato e sperimentato nelle curve di tutta Italia, a chi manifesta. Una logica che abbiamo recentemente visto all’opera lo scorso 25 marzo nella capitale, in occasione delle manifestazioni per la celebrazione del 60° anniversario dei Trattati di Roma, quando decine di manifestanti hanno ricevuto fogli di via preventivi, dal territorio romano, senza nemmeno poter arrivare in città e manifestare.

Un provvedimento che potrà essere applicato a chi viene denunciato o fermato per reati minori, ma anche per chi sostiene la lotta per il diritto all’abitare, dei lavoratori in sciopero o promuove le lotte collettive per il riuso e il riutilizzo degli spazi abbandonati. Un obiettivo chiaro è quello di punire, preventivamente, il dissenso o l’alternativa di chi cerca invece di estendere diritti e verificare quella giustizia sociale, di cui ormai l’Italia ha abbandonato il senso e l’importanza.

I richiedenti asilo

A loro è dedicato il primo dei due decreti che si occupa di accelerare i procedimenti giurisdizionali volti al riconoscimento dello status di rifugiato e di contrastare l’immigrazione clandestina.
Siamo di fronte all’azzeramento di una serie di diritti costituzionalmente garantiti, su tutti, la giurisdizionalizzazione delle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione e l’abolizione del secondo grado di giudizio.

La prima previsione contrasta con l’art. 111, secondo comma della Carta costituzionale, secondo cui ognuno ha diritto a un giudice terzo e imparziale. Le Commissioni non possono evidentemente assurgere a tale compito, trattandosi di organismi a tutti gli effetti interni alla Pubblica Amministrazione.

Quanto, poi, all’abolizione del secondo grado, basta richiamare l’art. 113 Cost., che non ammette vengano limitati in alcun caso i mezzi di impugnazione esperibili avverso i provvedimenti amministrativi.

Infatti, per i richiedenti asilo non sarà più garantita l’audizione da parte del Giudice, il quale potrà limitarsi a visionare la videoregistrazione dell’audizione in Commissione territoriale. Ciò contrasta con uno dei principi cardine del nostro ordinamento giuridico, il diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento assicurato dall’art. 24 della Costituzione ed il diritto al Contraddittorio ex art 111 Cost.. Il processo si svolgerà quindi alla stregua di una volontaria giurisdizione ai sensi dell’art. 737 c.p.c., senza udienza, senza partecipazione, senza avvocati. Una riforma così non riuscì neppure al Governo Berlusconi, il quale aveva nella Lega Nord di Bossi e Maroni il suo pugno di ferro più violento.

L’aumento dei CIE

questo criminale dispositivo d’internamento amministrativo di cui conosciamo bene le aberrazioni di cui sono stati negli anni portatori, viene rivitalizzato con la nascita dei CPR (Centri di permanenza e rimpatrio). Non è chiaro quale sia la differenza con gli attuali CIE, ma ne viene disposta la nascita di uno a regione, nei pressi o addirittura all’interno degli aeroporti. Un dispositivo che vuole mirare all’efficienza e alla celerità dei rimpatri e delle espulsioni, a discapito ovviamente delle garanzie giuridiche e dei diritti dei richiedenti asilo. Viene quindi riproposto un luogo di confinamento, internamento e repressione che non poggia su alcuna base giuridica, comminando la detenzione amministrativa.

Il lavoro gratuito e l’istituzionalizzazione per legge dello sfruttamento

il lavoro gratuito per i rifugiati diventerà legge, chi scappa dalla guerra e dalla fame, solo per citare alcune delle cause dei flussi migratori, se vuole restare se lo deve meritare, nella perversa logica di barattare i diritti con un presunto “merito”. A questo punto i diritti divengono a tutti gli effetti privilegi. La pericolosità di questo dispositivo che istituzionalizza una nuova forma di schiavitù, è evidente sia in termini di diritto del lavoro che di ricaduta sulla “percezione dei fenomeni”, a cui si dà sempre molta importanza e per cui viene da pensare che sia voluto e intenzionale inasprire la “guerra tra poveri” e instillare odio e intolleranza verso la componente migrante e richiedente asilo della cittadinanza.

Il decreto appena approvato dunque, non solo non offre nessun tipo di risposta ai problemi che si prefigge di risolvere, ma riesce a far ammettere ancora una volta ad un governo (che ha la pretesa di essere) di “sinistra” una scelta securitaria, repressiva e, su molti aspetti, anche chiaramente anticostituzionale. Non una parola in termini di welfare, di possibilità di miglioramento dell’accoglienza, sulle esperienze di integrazione buone e giuste che ci sono state e continuano ad esserci in Italia; neanche una singola parola sul malsano utilizzo del concetto di “sicurezza” che colpisce senza alcun ritegno ancora i più deboli e permette ai sindaci di poter gestire la cosa pubblica come se tutto ruotasse attorno all’ordine e alla lotta al degrado. Si lascia il problema com’è e si acuisce la rabbia, l’odio e il disprezzo, che sia questo rivolto verso un immigrato o verso una famiglia sfrattata, o verso chi continua a voler fare sentire la propria voce tramite il dissenso e azioni di autodeterminazione e di informazione.

Nessuna propositività, nessun impegno a lungo termine, ma solo un altro muro costituito da norme e un altro calcio in faccia alla nostra Costituzione.

Una legge per togliere un marchio ai più fragili. Il 4 dicembre la maggioranza degli italiani ha saputo rispondere con entusiasmo bocciando una legge che voleva privarli dei loro diretti. Sapranno essere altrettanto pronti a difendere i diritti degli altri?

il manifesto, 13 aprile 2017

Sembrava finita la stagione dei crimini attribuiti su base etnica. «Ricordate? C’erano le elezioni e sembrava ci fosse uno stupro al giorno da parte di rumeni. Poi, chiuse le urne, finiti gli stupri». Emma Bonino accenna appena a una smorfia quando l’eco triste delle parole di Luigi Di Maio la raggiungono nella sala Nassirya del Senato dove sta coordinando la presentazione della campagna culturale «Ero straniero – L’umanità che fa bene», lo strumento scelto per promuovere la legge di iniziativa popolare che supera la Bossi-Fini.

La sala è gremita, perché la campagna nazionale promossa da Radicali Italiani, Acli, Arci, Asgi, Fondazione Casa della carità, Centro Astalli, Cnca, A Buon Diritto e Cild ha già ottenuto il sostegno di almeno una sessantina di sindaci, un lungo elenco di organizzazioni che si occupano di migranti e un presidente di Regione, Enrico Rossi, il governatore della Toscana che annuncia «l’adesione e la mobilitazione di Mdp per la raccolta delle firme». Il dibattito è ricco: qui il gap tra percezione e realtà è al minimo assoluto.

«C’è una parte politica che soffia irresponsabilmente sul fuoco, e con menzogna». Bonino, che bacchetta anche i giornalisti, ricorda che «dopo la più grande sanatoria mai fatta in Italia, quella dei 700 mila del governo Berlusconi-Maroni, i crimini compiuti da stranieri calarono: più c’è integrazione, meno si delinque».

È buonismo? No, anche se qui nessuno rinnega quella parola. Don Virginio Colmegna, presidente della Casa della carità, per esempio, a Di Maio manda a dire che «accanto alle parole solidarietà e bontà sappiamo usare anche la parola indignazione». Patrizio Gonnella di Cild denuncia la «narrazione tossica» e mostra con i dati, che «mentre crescono in numero percentuale e assoluto i detenuti italiani e di altre nazionalità, i rumeni in controtendenza diminuiscono».

E Riccardo Magi, segretario di Radicali italiani, ricorda a Di Maio e a Minniti che «se l’accoglienza è soggetta ai limiti dell’integrazione, bisogna lavorare sull’integrazione, come facciamo con la nostra pdl, mentre nel decreto appena trasformato in legge si è scelto di rilanciare una fallimentare strategia securitaria. Ma i fatti hanno già dimostrato che securitario non è sinonimo di sicuro. Se quindi il M5S vuole contrastare il crimine, ci aiuti a raccogliere le firme per mandare in soffitta l’attuale legge sull’immigrazione, che ha prodotto solo lavoro nero, sfruttamento e quindi criminalità».

In linea con la tradizione Radicale si è scelto di affidare all’iniziativa popolare la pdl che si sviluppa soprattutto sul piano del lavoro, «unico ambito in cui l’Ue non stabilisce strette linee guida per i Paesi membri», come spiega l’avvocata dell’Asgi, Giulia Perin, e sui principi di «accoglienza, integrazione e diritti». Anche perché è grazie agli immigrati – «che sono il 13% della forza lavoro, hanno versato 7 miliardi di contributi e percepito lo 0,2% delle pensioni pagate dall’Inps», sottolinea lo scrittore di origini senegalesi Pap Khouma, anni di «sofferta clandestinità» alle spalle e orgoglioso esponente della società italiana – se l’Italia può sperare di sopravvivere al suo ineluttabile destino di popolazione in via d’estinzione.

«Abbiamo oggi 500 mila irregolari – fa presente Bonino – Continuo a chiamarli clandestini, perché esiste ancora un reato che si chiama di clandestinità. Ma non si può deportare, con i rimpatri, un esercito di irregolari, che aumenteranno ancora visto che le domande vengono respinte al 60% e non ci sono altri modi per entrare da regolari».

Perciò, oltre all’abolizione del reato di clandestinità, tra i punti salienti della Pdl ci sono: il permesso di soggiorno temporaneo di 12 mesi, per facilitare l’incontro tra lavoratori stranieri e datori di lavoro italiani, anche grazie a soggetti di intermediazione tra la domanda e l’offerta; la reintroduzione del sistema a chiamata diretta con lo sponsor, previsto dalla Turco-Napolitano («cancellato da un centrodestra molto aggressivo», ricorda in sala Livia Turco che ha aderito alla campagna); un permesso di soggiorno «per comprovata integrazione» che dovrebbe essere rinnovabile anche in caso di perdita del posto di lavoro, «sul modello della Germania e della Spagna, dove in questo modo si è abbattuto il numero dei clandestini», come spiega ancora l’avvocata Perin.

Ma senza diritti non c’è integrazione. Dunque: «piena equiparazione per il diritto alla salute», «uguaglianza nelle prestazioni di sicurezza sociale», «la garanzia di conservare tutti i diritti pensionistici in caso di rimpatrio volontario», e «effettiva partecipazione alla vita democratica».

Il testo della pdl che si propone come una nuova legge quadro sull’immigrazione sarà depositato oggi in Cassazione. Poi, tutti al lavoro, per raccogliere le firme. L’ex ministra degli Esteri Emma Bonino lancia un appello: «Siccome la politica è distratta, guarda dall’altra parte, chiediamo ora ai cittadini di farsi sentire».

Sempre più spietata la discriminazione verso chi è più fragile e bisognoso di aiuto, sempre più ostile e rischiosa la città per chi osa esprimere critica e dissenso. E le chiamano "sinistra" e "democrazia". Articoli di Andrea Fabozzi e Gaetano Azzariti, il manifesto, 13 aprile 2017

ASILO E SICUREZZA URBANA,
È LEGGE LA DOPPIA STRETTA
di Andrea Fabozzi

«Con il minimo dei voti e defezioni anche nel Pd la camera e il senato approvano in contemporanea i decreti Minniti-Orlando»

Il decreto Minniti-Orlando è legge. I numeri della camera all’ultimo passaggio dicono questo: l’Italia ha introdotto nel suo ordinamento un rito processuale di serie B, con meno garanzie, che sacrifica i diritti universali di una categoria particolarmente debole, i richiedenti asilo, grazie a una maggioranza molto scarsa, appena sufficiente, e garantita da un solo partito: il Pd. Neanche tutto il Pd, visto che all’appello sono mancati circa ottanta deputati del gruppo, prova tangibile dei malumori provocati dalla stretta repressiva. Alla fine i sì al decreto, dopo che martedì era passata la fiducia al governo legata al provvedimento, sono stati 240, molto al di sotto della teorica maggioranza di governo e anche della maggioranza assoluta. Se la legge non è stata fermata è stato ancora una volta per il largheggiare delle «missioni» e le assenze delle (teoriche) opposizioni, Forza Italia soprattutto con più di mezzo gruppo a spasso, ma anche Fratelli d’Italia. Conferma indiretta dell’apprezzamento di cui gode Minniti a destra.

Molti assenti (un terzo) anche nel gruppo 5 Stelle, ma i grillini ieri hanno fatto notizia più per le dichiarazioni anti rumene di Di Maio. Dei 240 sì, ben 205 appartengono al Pd, il resto è contorno centrista – e pure da quelle parti prevalevano gli assenti. Nella calda mattinata di ieri era più facile incontrare deputati in giro per la città tra bar e musei che in aula, dove è stato convertito un decreto che scardina il principio dell’uguaglianza davanti alla legge. Ma a finire sotto accusa è stato il gruppo Mdp-Articolo 1, bersaglio degli attacchi dei renziani. I deputati bersanian-dalemiani ex Pd ed ex Sel hanno votato no alla legge, come annunciato martedì quando invece si erano divisi sulla fiducia, con gli ex democratici che non se l’erano sentita di negare l’appoggio al governo. Ieri invece sono rimasti più o meno uniti, dal no della maggioranza del gruppo si è distinta una pattuglia di otto deputati che preferito la mossa più soft di non partecipare al voto.

Un attimo dopo l’approvazione, il capogruppo del Pd Rosato ha sorvolato sulle assenze dei suoi deputati ma ha attaccato Mdp, definendo «inaccettabile» il voto contrario di un partito che fa parte della maggioranza. «Se vogliono destabilizzare la legislatura lo dicano espressamente – ha detto – sono sulla strada giusta per farlo, i decreti sono un pezzo dell’azione di governo». Insomma, la colpa delle fibrillazioni attorno a Gentiloni non è della voglia di Renzi di correre alle urne, ma dei bersaniani. Che hanno risposto tentando di spiegare il differente atteggiamento tra camera e senato, dove avevano votato sì alla fiducia e dunque al decreto: «C’era l’impegno a modificarlo alla camera, ma ci è stato impedito», ha detto il capogruppo Laforgia. Un ragionamento del genere sta dietro le assenze «politiche» dei deputati Pd, anche se pochi – Bruno Bosio, Monaco – hanno reso pubblico il dissenso.

Lo hanno fatto invece al senato Manconi e Tocci, anche loro del gruppo Pd, che non hanno partecipato al voto sulla fiducia con la quale ieri, parallelamente, si è compiuto il ciclo dell’altro decreto Minniti, quello sulla sicurezza urbana, ugualmente contestato da giuristi e associazioni. Anche in questo caso nessun dibattito vero, nessuna modifica possibile e volontà del governo blindata con la fiducia. E ancora numeri molto bassi, solo 141 sì, un altro record negativo per l’esecutivo Gentiloni. Sufficiente però per andare avanti, calpestando diritti e garanzie.

CON IL DECRETO MINNITI
PIÙ TUTELE AI REATI BAGATELLARI
CHE GARANZIE AI MIGRANTI
di Gaetano Azzariti

«Diritti e Costituzione. E il governo riduce le garanzie a chi ne ha più bisogno»

La riduzione delle garanzie processuali per i richiedenti asilo contrasta con la nostra tradizione giuridica e costituzionale. Se, come si sostiene dalle parti del Governo, il decreto Minniti-Orlando è di sinistra, esso ne riflette lo stato confusionale. E mostra la difficoltà d’affrontare le questioni dell’immigrazione nel rispetto del principio della dignità delle persone.

Quel che più colpisce è che la “sinistra al governo” si fa promotrice di una normativa che nega adeguata protezione proprio ai soggetti più vulnerabili, sbilanciando ulteriormente il già iniquo sistema giudiziario. Le nuove disposizioni eliminano un grado di giudizio nei casi in cui si sia negato al richiedente il diritto d’asilo. In tal modo si pensa di accelerare i processi, senza però tener conto che l’oggetto del giudizio riguarda un diritto fondamentale tutelato dalla nostra Costituzione dall’articolo 10. Sino ad ora questi diritti richiedevano una tutela rafforzata, adesso essa si attenua. È sintomatico che la riduzione dei tempi processuali riguardi i migranti e non magari i reati bagatellari.

Ad aggravare il quadro è la riduzione delle garanzie nell’unico giudizio di merito rimasto (v’è poi solo la possibilità di ricorrere in Cassazione per violazione di legge, garantita dall’articolo 111 della Costituzione). Una delle misure previste appare assai significativa in quanto lesiva del diritto di difesa, nonché del principio del giusto processo garantiti in Costituzione dagli articoli 24 e 111. Nei processi relativi alle richieste di asilo non è infatti assicurato il contraddittorio, il giudice può decidere senza aver ascoltato l’interessato. Ciò comporta che l’unico momento in cui il migrante può esporre le sue ragioni a fondamento della richiesta d’asilo è nell’incontro con la Commissione territoriale. Un “colloquio personale” che, ovviamente, non può fornire nessuna certezza processuale: esso si svolge in assenza di ogni assistenza legale ed è da dubitare che gli interessati siano in grado di valutare correttamente la situazione e prospettare adeguatamente le complesse motivazioni a sostegno del loro diritto fondamentale.

Un esame più accorto, che solo l’udienza pubblica con l’intervento delle parti davanti ad un giudice terzo e l’assistenza di un difensore può garantire, appare necessario non solo in ragione della tutela dell’interesse del migrante, ma anche per assicurare la correttezza della decisione. Dovrebbe, in effetti, essere tenuto in maggior conto l’interesse pubblico alla certezza del giudizio da salvaguardare sempre, ma tanto più in quei casi in cui, come ci viene continuamente ripetuto, può venire in gioco persino la sicurezza dello Stato. Anche da questo punto di vista la nuova normativa risulta irragionevole. In molti casi di richiesta d’asilo l’accertamento che deve essere compiuto si rileva particolarmente complesso, immaginare che tutto si possa risolvere in un’intervista videoregistrata appare assai superficiale.

Un particolare rivela lo spirito essenzialmente securitario, nonché l’inadeguatezza del decreto. Una delle questioni più delicate delle politiche di accoglienza riguarda i Centri di identificazione ed espulsione (Cie). La Corte costituzionale ha indicato da tempo (sent. n. 105 del 2001) come il trattenimento dello straniero in simili luoghi rappresenti una misura che incide sulla libertà personale e che dunque debba essere garantito il rispetto delle garanzie dell’articolo 13 della Costituzione. Un legislatore consapevole e rispettoso dei principi costituzionali dovrebbe affrontare la questione e definire un sistema di trattenimento con – come scrive ancora la Corte – «finalità di assistenza» e che impedisca la «mortificazione della dignità dell’uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all’altrui potere».

Il decreto per ora si limita a cambiare il nome dei Cei, ma non sembra preoccuparsi della natura sostanzialmente detentiva della permanenza coatta entro queste strutture. Un modo per sfuggire alla realtà di politiche migratorie le cui soluzioni sono certamente assai complesse che devono però essere costituzionalmente orientare. Questo dovrebbe essere l’obiettivo di una sinistra di governo e non solo al governo.

«Alla camera passa con un record negativo la fiducia sul decreto che istituisce un diritto di serie B per i profughi che cercano la protezione internazionale

». il manifesto, 12 aprile 2017 (c.m.c.)

MINNITI È LEGGE DI DELLO STATO.
di Andrea Fabozzi
Il decreto Minniti-Orlando entra definitivamente nell’ordinamento giuridico italiano. In 53 giorni da quando il ministro dell’interno e quello della giustizia hanno firmato il nuovo rito processuale riservato ai richiedenti asilo, che prevede un grado di giudizio in meno e riduce le garanzie in prima istanza -, e aggiunge la riapertura e moltiplicazione dei Cie (con un altro nome) per velocizzare le espulsioni – il parlamento ha detto sì. Questa mattina l’ultimo passaggio, ormai solo formale, alla camera. Una doppia fiducia nei due rami del parlamento che ha impedito ogni dibattito su una misura che è però epocale: l’Italia accede al principio che per una categoria di persone, i migranti che chiedono la protezione internazionale, è possibile prevedere un diritto speciale. Attenuato. Se ne occuperà la Corte costituzionale.

Sono in dodici nell’aula di Montecitorio quando comincia la discussione sulla fiducia, compresi il presidente di turno dell’assemblea, una stenografa e il ministro Minniti. Il ministro se ne andrà quasi subito, sostituito da due sottosegretari a staffetta. Convintissimi solo i deputati che si pronunciano per il No. Tutti quelli a destra che avrebbero voluto misure ancora più drastiche. I 5 Stelle, secondo i quali «quando si parla di immigrazione, la verità è una sola: il nostro paese non riesce a fronteggiare questo fenomeno». E Sinistra italiana-Possibile, che giudica il decreto «uno spot che però introduce gravissimi precedenti nella nostra cultura e prassi giuridica». Assai meno convinti i sostenitori del provvedimento, almeno quelli non iscritti al Pd che parlano tutti di «fiducia sofferta», «a malincuore» e «metodo sbagliato», «confronto impossibile». Alla fine sarà la fiducia più magra alla camera del governo Gentiloni (lo stesso record negativo registrato nel passaggio al senato, due settimane fa). Appena 330 sì, quaranta voti sotto la maggioranza teorica.

Eppure non è mancato il sostegno dei bersanian-dalemiani fuoriusciti dal Pd. E per questo si è diviso il nuovo gruppo Mdp-articolo 1. Gli ex Sel (i deputati che non hanno aderito a Sinistra italiana) hanno negato la fiducia non partecipando al voto, con qualche eccezione. Gli ex Pd, con qualche eccezione anche loro, hanno deciso di non negare l’appoggio al governo, spaventati dalla propaganda renziana che li presenta come una forza di inaffidabile opposizione.

Si ritroveranno stamattina, nel giudizio sul merito del provvedimento – alla camera è previsto il doppio passaggio – dove tutti voteranno no. Salvo l’eccezione di chi non parteciperà al voto.
«C’è un oggi e c’è un domani», ha detto (ieri) il deputato di Mdp Fossati parlando a nome del gruppo. Fuori discussione l’appoggio degli ex Pd a Gentiloni, e così in una riunione convocata subito dopo Bersani ha chiesto ai nuovi compagni di sinistra di non evidenziare troppo il loro dissenso. Quindici deputati ex Sel hanno così evitato di rispondere alla chiama per la fiducia, mentre due (Duranti e Sannicandro) non hanno rinunciato al loro no. Uno invece, Kronbichler, ha votato sì, come il resto dei componenti del gruppo, gli ex Pd, salvo Epifani e Formisano che non hanno risposto. In definitiva una spaccatura a metà.

Nel frattempo Laura Boldrini, che con Pisapia anima la sinistra ponte tra Mdp e Pd, ha espresso riserve sul decreto, compatibilmente con il ruolo di presidente dell’aula. «Le associazioni temono che possa essere lesa la fruibilità del diritto di asilo – ha detto – in fase di applicazione bisognerà verificare». E poi ha aggiunto che «è giusto dire che l’accoglienza ha un limite nella capacità di integrazione, ma mancando le risorse la frase di Minniti resta un principio senza seguito coerente». Il decreto in effetti prevede la creazione di sezioni specializzate in 26 tribunali per le cause sul diritto di asilo, ma senza costi aggiuntivi per l’assunzione di nuovi magistrati o cancellieri né per la formazione. Prevede stanziamenti invece per i voli di riaccompagnamento degli espulsi e l’assunzione di altri carabinieri per le sedi diplomatiche in Africa.

I DECRETI MINNITI-ORLANDO
SONO INCOSTITUZIONALI . ECCO PERCHÈ.
di Eleonora Martini
«A rischio di incostituzionalità». Il giudizio è praticamente unanime, in Piazza Montecitorio dove decine di associazioni e formazioni politiche si sono date appuntamento per contestare i decreti legge Minniti-Orlando, mentre i deputati in Aula votavano la fiducia. Entrambi – quello sull’immigrazione, che oggi verrà convertito in legge con l’ultimo voto della Camera, e quello sulla sicurezza urbana che è passato all’analisi del Senato – violano i principi stessi su cui fonda lo Stato italiano, secondo molti militanti delle organizzazioni che hanno aderito al sit-in, tra le quali Antigone, Arci, Asgi, Acli, Cgil, Cisl, Cnca, Fondazione Migrantes, Legambiente, Libera, Lunaria, Medici senza frontiere, Radicali italiani, Rifondazione comunista, Sant’Egidio e Sinistra Italiana.

A cominciare dalla necessità e dall’urgenza che hanno motivato la forma dell’atto normativo. Ma di punti «deboli», costituzionalmente parlando, i provvedimenti di Minniti e Orlando ne hanno molti. Basti pensare al «Daspo urbano» applicato anche il 25 marzo scorso a Roma per fermare preventivamente alcuni manifestanti «per l’altra Europa» provenienti dalla Val Susa e dal Nord-est, «che viola l’art.21 sulla libertà di espressione del pensiero». O alla riforma dell’iter per il riconoscimento dello status di rifugiato, resosi necessario, secondo il legislatore, a causa dell’intasamento di alcuni tribunali, quelli su cui insiste la competenza delle commissioni che vagliano le richieste di asilo. Per intenderci, nel Lazio tutti i ricorsi degli aspiranti asylanten gravano solo su quella decina di magistrati della Prima sezione del Tribunale di Roma. «Ma il ministro Orlando, invece di cambiare le competenze e distribuire sul territorio questo carico di lavoro, ha deciso di semplificare l’iter a scapito di molti diritti costituzionali», spiega l’avvocato Stefano Greco, della Casa dei diritti sociali.

Andando nei particolari del «decreto immigrazione», il primo punto è la giurisdizionalizzazione del procedimento amministrativo davanti alle Commissioni (le cui sedute saranno d’ora in poi videoregistrate e i cui verbali saranno informatizzati) che, secondo il ministro Orlando, permette di evitare il secondo grado di giudizio nel caso di ricorso davanti a un giudice. «In questo modo, si viola l’articolo 111 secondo il quale “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo” – spiega ancora l’avv. Greco – che vuol dire contraddittorio tra le parti, parità, e un giudice terzo e imparziale. Davanti alle commissioni invece il richiedente asilo è solo, senza un avvocato e posto dinanzi ad un dipendente del Ministero dell’Interno. In sostanza, si fa confusione tra i poteri dello Stato, sostituendo in questo caso quello giudiziario».

Se c’è diniego, poi, si hanno solo 30 giorni per trovare un avvocato, preparare e depositare il ricorso. E, se in seconda istanza si vuole fare ricorso in Cassazione, per un giudizio di legittimità, il tutto va ripetuto, compresa la delega all’avvocato (norma particolare, si badi bene, applicata solo ai richiedenti asilo).

Ma come si forma il giudizio del tribunale di primo (e unico) grado? «Prima il giudizio si formava anche con l’ausilio di prove e testimonianze, la cosiddetta “cognizione piena” – ricorda Greco – poi con l’ultimo governo Berlusconi, nei cui piani c’era la semplificazione che sta portando in porto Orlando, si è passati alla “cognizione sommaria”, ossia un processo sostanzialmente documentale ma che poteva essere trasformato, al bisogno, in rito “pieno”, arricchendo il dibattimento con testimoni e prove.Con questo decreto invece si va oltre: si applica l’art. 737 del Codice di procedura civile, quello usato per le cause senza contenzioso, dove non c’è udienza, non c’è dibattimento, non c’è comparizione delle parti. Il giudice può non incontrare mai né il richiedente asilo, né il suo avvocato: visiona la registrazione della commissione e decide. Ed è la prima volta che ciò avviene in Italia in materia di diritti fondamentali della persona».

».

il manifesto, 11 aprile 2017 (c.m.c.)

Nel campo della Croce Rossa di Settimo Torinese vivono 700 persone, la metà dorme in tenda, 6 o 7 brandine in ognuna: «La tendopoli è qualcosa che non ci piace, ma negli ultimi due anni sono transitate 30mila persone e stiamo gestendo l’emergenza da un decennio», afferma il comandante della Croce Rossa Ignazio Schintu.

78 ospiti sono donne, venti incinta: «Molte sono vittime di tratta – dice Schintu – mentre gli uomini soggiornano per 1 mese, le donne rimangono anche 3 o 4 come transitanti perché i centri a loro dedicati sono pochi». In altri hub, come quelli di Udine e Brescia, la permanenza dura anche un anno.

Una ragazza col pancione di sei mesi esce dalla tenda e si avvia al container-bagno, ce n’è uno ogni 30 persone. Il comandante Schintu dirige l’hub e sa bene i rischi che corrono le donne in strutture non protette: «Arrivavano auto da tutto il nord Italia, caricavano le ragazze e le portavano via. Alcune tornavano, altre no. I carabinieri hanno identificato quindici persone».

La tratta di donne, spesso ragazze giovanissime, vede coinvolte nella maggior parte dei casi le nigeriane, vittime di un sistema collaudato che si avvia già nel Paese d’origine. Yasmine Accardo, dell’associazione LasciateCIEntrare, ha visitato numerosi centri d’accoglienza in tutta Italia: «La tratta si sta ampliando, abbiamo notizie del coinvolgimento di ivoriane, camerunensi e ghanesi, ma anche di minori, sia maschi che femmine. Le persone vengono intercettate già allo sbarco e prelevate appena arrivano nei centri di accoglienza».

Nel container-ambulatorio, una ragazza nigeriana, sui diciotto anni, aspetta di vedere il medico. Nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) di Torino e provincia risiedono 389 sue connazionali, fanno sapere dalla Prefettura, un numero destinato ad aumentare dato il raddoppio degli arrivi di nigeriane nell’ultimo anno. «Il 90% è vittima di tratta – dice una dirigente -, ma finché non si dichiarano tali non possiamo fare nulla».

Nonostante l’estensione e la gravità del problema, il programma regionale anti tratta, per la prima volta dopo 12 anni, non è stato rifinanziato per problemi burocratici. La Regione Piemonte coprirà con propri fondi, fino ad aprile, una parte del progetto. Dopo tutte le associazioni che si occupano delle ragazze dovranno interrompere la loro attività.

A Venezia solo i cattolici hanno il diritto di pregare nei loro luoghi di culto. Gli altri no. E c'e chi sostiene che Venezia è la città dell'incontro e dell'accoglienza...

La Nuova Venezia, 7 aprile 2017 con postilla propositiva

«La Polizia municipale ha consegnata alla comunità bengalese la diffida a chiudere entro tre giorni. Il presidente della comunità: "Il Comune ci dia subito una soluzione alternativa". Un fedele: "Paghiamo le tasse, pregheremo per strada"»

MESTRE. Venerdì 7 aprile è l'ultimo giorno in cui i musulmani che frequentano il centro culturale bengalese di via Fogazzaro potranno pregare. Dalla prossima settimana, invece, saranno senza una sala di preghiera perché il luogo finora utilizzato verrà chiuso all’attività di culto.

Mohamed Alì, il presidente della comunità, ha ricevuto dalle mani degli agenti di Polizia municipale la diffica a chiudere il centro entro tre giorni: giovedì era stato convocato nella sede della polizia municipale, a Venezia, dove ha incontrato assieme al portavoce Kamrul Syed, il comandante generale Marco Agostini, il quale gli ha spiegato il provvedimento di diffida.

Il presidente Alì incontrerà la sua comunità, ma chiede al Comune di fare presto: "Ci dia subito un'alternativa o sarà sciopero. La gente non capisce perché ora che abbiamo pagato tutto per questa sede, ci mandino via.

«Oggi notificheremo l’ordinanza», chiarisce Agostini, «nel frattempo stiamo pensando assieme all’ufficio di gabinetto del sindaco a una soluzione temporanea, in attesa che trovino quella definitiva».

La reazione dei fedeli non si è fatta attendere: "Siamo cittadini come gli altri, paghiamo le tasse o ci danno una nuova sede o pregheremo per strada".

Il venerdì. Il bisogno più impellente della comunità è quello di onorare il venerdì, specialmente in vista del Ramadan di fine maggio. «Oggi riusciremo a pregare tranquilli», continua Alì, «la stessa cosa ci consentiranno di fare per tre giorni, fino a domenica, poi potremo utilizzare lo spazio solo come centro culturale, per fare scuola ai bambini, per attività amministrative e di ufficio, ma non in quanto luogo di preghiera».

Alternative. Il vero problema, si presenterà nei giorni successivi. «Mercoledì», prosegue il presidente, «devono trovarci uno spazio sostitutivo finché non ne acquistiamo uno di nuovo, uno spazio di transizione dove pregare. Come faccio altrimenti con le persone che vengono qui? Io sono il più “anziano”, perché abito in Italia da molti anni, la comunità mi ascolta, ma devo offrire loro una soluzione, devono potersi fidare quando gli dirò che questo è l’ultimo venerdì di preghiera in via Fogazzaro, nello spazio che si sono acquistati con i loro risparmi. Se non do loro una risposta, si arrabbieranno e mi destituiranno. Sono un po’ deluso e preoccupato, spero che vada tutto bene, che non succeda nulla. Noi vogliamo la pace, siamo una comunità pacifica, di lavoratori, rispettiamo le regole, paghiamo le tasse. Non abbiamo nulla a che fare con droga e illegalità». Aggiunge: «E abbiamo il diritto di pregare».

L’appello. «Questo spazio ce lo siamo sudati finché non è diventato nostro a tutti gli effetti e nessuno ci ha mai contestato nulla sino ad oggi. Dopo otto anni ci dicono che non va bene, non appena avevamo terminato di pagare il mutuo». Poi rivolto al Comune: «Ci devono mettere a disposizione un sito alternativo, e speriamo che siano veloci, perché la comunità non può rimanere senza un luogo di preghiera venerdì prossimo, altrimenti io alzo le mani e poi il Comune si arrangerà».

Futuro. La comunità sta cercando un capannone o un’ex concessionaria chiusa da acquistare in zona via Torino-via Ca’ Marcello, ma ci sono difficoltà con le destinazioni d’uso. «Servono i permessi», conclude Mohamed Alì, «altrimenti cosa facciamo?». Due gli ordini di problemi da risolvere. Per il centro transitorio, il Comune si sta attrezzando; per quello definitivo la comunità ha presentato ieri al comandante Agostini quattro possibili ipotesi tutte da vagliare.

postilla

Qualche giorno fa il patriarca di Venezia, capo locale della chiesa cattolica apostolica romana, ha dichiarato che molte chiese di quella religione sarebbero state chiuse al rito e messe a disposizione della comunità. Non era chiaro se si riferisse alla comunità del suo rito o a quella, ben più larga, cui si riferisce papa Francesco. Sarebbe bello se, raccogliendo l'implicito messaggio del suo principale, mettesse qualche chiesa superflua al servizio delle altre religioni, magari con un modico canone di locazione.

«La discrasia in cui vivono le seconde generazioni tra volersi sentire uguali agli altri e avere invece minori opportunità, viene aggravata dalla mancata riforma della cittadinanza, che tratta ancora come stranieri i ragazzi che vivono nel nostro Paese».

la Repubblica, 6 aprile 2017

«Siamo una generazione al bivio. Non totalmente italiani, né pienamente marocchini o egiziani o bengalesi. Siamo alla ricerca di una nuova identità, che concili le tradizioni delle nostre famiglie con i valori del Paese in cui siamo nati e viviamo ». Nadia Bouzekri, studentessa 24enne di Reggio Emilia, prima donna presidente dei Giovani musulmani d’Italia, fotografa così la «difficoltà, o meglio la sfida » che vivono oggi i figli e ancor più le figlie di immigrati.
«Sulle seconde generazioni si gioca il futuro del nostro Paese — conferma Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Giovanni Agnelli — anche per questo è grave che la riforma della cittadinanza sia finita nel dimenticatoio parlamentare ». Oggi in Italia i ragazzi figli di immigrati sono più di un milione, e tre su quattro sono nati qui. A scuola, gli alunni stranieri sono oltre 814mila, per la metà ragazze. Ed è proprio tra i banchi che si gioca gran parte della partita per l’integrazione. Stando all’ultima indagine Istat, il 38% si sente italiano, il 33% straniero e poco più del 29% non è in grado di rispondere. Gli alunni originari dell’Asia e dell’America Latina sono quelli che più frequentemente si dicono stranieri (il 42,1% dei cinesi). All’opposto, i romeni che si sentono italiani sono il 45,8%.
«Gli studi — scrivono i ricercatori Istat — attribuiscono ai ragazzi con background migratorio una condizione di sospensione tra la cultura di origine e quella del Paese di accoglienza». Più “integrati” gli studenti stranieri, ma nati in Italia: 47,5% si sente italiano e 23,7% si considera straniero.Le performance scolastiche spesso ne risentono: il 23% degli studenti stranieri è stato bocciato (contro il 14,3% degli italiani). «Le maggiori difficoltà scolastiche sono infatti vissute dai ragazzi di prima generazione, che sono 12 volte più a rischio bocciatura dei coetanei italiani — spiega Gavosto — la loro è principalmente una difficoltà linguistica, non tanto per l’italiano parlato, che imparano mediamente in sei mesi, quanto per la scrittura e ancor più la lettura dei libri di testo.
Tra le seconde generazioni, nate in Italia, il problema non è invece la lingua, quanto la difficoltà di avere le stesse aspirazioni degli amici italiani, ma avendo alle spalle famiglie con minori strumenti culturali e mezzi materiali per garantirgli pari condizioni». E qui entrano in gioco i conflitti con le famiglie. «La fedeltà alle tradizioni familiari può entrare in contrasto con il volersi sentir parte del gruppo dei compagni di scuola — racconta Nadia Bouzekri — ma l’equilibrio sta nel capire che integrarsi non vuol dire assimilarsi o annullare i propri valori e che si può essere facilmente buoni italiani e bravi musulmani».
Le più esposte rimangono comunque le ragazze, soprattutto nelle famiglie musulmane. «In effetti, se parli con genitori marocchini o egiziani — conferma Stefano Molina, dirigente di ricerca della Fondazione Agnelli — sono loro stessi a identificare il problema delle seconde generazioni con quello delle loro figlie, alle prese coi pericoli della modernità. Ma il bivio tra famiglia e compagni di scuola non è per forza lacerante, spesso è una ricchezza perché sempre più le ragazze sanno gestire la contraddizione di un doppio registro comportamentale ».
«Il problema è che alcune famiglie, come quelle pachistane o bengalesi, cristallizzano modelli e valori del loro Paese d’origine — sostiene Mara Tognetti, docente di Politiche migratorie alla Bicocca di Milano — con casi estremi di ragazze che vengono costrette a lasciare scuola, attività sportive o ludiche, molto prima dei loro fratelli maschi. In generale, però, nei conflitti con le famiglie intervengono più fattori, come la criticità tipica dell’età adolescenziale e la presenza di genitori isolati, non preparati al ruolo, senza reti di sostegno ».
Il “passaporto italiano” è una delle sfide: «Le vecchie norme sulla cittadinanza — prosegue Tognetti — accentuano il senso di insicurezza di questi ragazzi, non dandogli orizzonti certi». Sulla stessa linea, Gavosto: «La discrasia in cui vivono le seconde generazioni tra volersi sentire uguali agli altri e avere invece minori opportunità, viene aggravata dalla mancata riforma della cittadinanza, che tratta ancora come stranieri i ragazzi che vivono nel nostro Paese».

In questi ultimi tempi i virus dell’intolleranza e del razzismo penetrano in ogni ambiente, basandosi su percezioni, pregiudizi, voci prive di verifica e ignorando i dati reali. Un appello.

La città invisibile online, 2 aprile 2017 (c.m.c)

Si respira una brutta aria in Europa, in Italia, nella nostra città (ed arrivano pessimi segnali anche da altre parti del mondo, vedi gli Stati Uniti di Trump). In diversi stati europei si erigono muri e fili spinati, reali e burocratici, per respingere chi fugge da guerre, violenze, disastri ambientali. L’Unione Europea finanzia regimi oppressivi perché non facciano arrivare i rifugiati sul suolo europeo.

In Italia, il Governo decreta d’urgenza (i decreti Minniti-Orlando su immigrazione e sicurezza) per limitare i diritti dei richiedenti asilo e per combattere i poveri e gli emarginati in nome del cosiddetto decoro urbano, mentre il Parlamento non riesce ad approvare, a distanza di mesi dalla sua presentazione, una legge – pur imperfetta – sulla cittadinanza collegata allo “jus soli”.

Dovunque sono all’opera gli “imprenditori del razzismo” per alimentare – in un contesto di grave crisi causata dalle politiche di privatizzazioni, di tagli alle spese sociali, di precarizzazione diffusa del lavoro – intolleranza, razzismo, xenofobia, facendo di rifugiati e migranti i capri espiatori della situazione esistente, e vedendo in chiunque viva in condizioni di grave disagio sociale un pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza.

Gli organi d’informazione, in generale, contribuiscono alla crescita di questo clima, con notizie allarmistiche e campagne securitarie. I virus dell’intolleranza e del razzismo penetrano in ogni ambiente, basandosi su percezioni, pregiudizi, voci prive di verifica e ignorando i dati reali.

Anche in città stiamo assistendo al progressivo diffondersi di un clima del genere. Eppure, di fronte ai comitati e alle persone che identificano il degrado con la presenza di nuovi abitanti di origine straniera e di persone in condizioni di visibile disagio, ad un’Amministrazione comunale che non contrasta i processi di esclusione sociale, ad un Sindaco che approva senza riserve il pessimo decreto sulla sicurezza, esiste un’altra Firenze che si oppone alle cause prime che hanno determinato la fuga di milioni di persone da guerre e devastazioni, e costruisce esperienze di conoscenza reciproca, accoglienza, inclusione, convivenza e che non è sotto la luce dei riflettori. Pensiamo che questa parte della città, solidale e impegnata nella tutela dei diritti, per tutti a partire dai più deboli, debba rendersi visibile

-per contrastare la pericolosa deriva in atto,
-per far conoscere maggiormente le iniziative positive presenti,
-per costruire una piattaforma rivendicativa riguardante le strutture di accoglienza, i processi di interazione, inserimento e inclusione, la casa, i necessari spazi di aggregazione, la formazione al lavoro etc.,
-per opporsi decisamente alla conversione in legge dei decreti Minniti-Orlando ed alla realizzazione in Toscana del CPR (Centro per il Rimpatrio) previsto dal decreto, nonché per esigere una sollecita approvazione della legge sulla cittadinanza basata sullo “jus soli”, l’apertura a livello istituzionale dei corridoi umanitari già sperimentati – per piccoli numeri – dalle organizzazioni senza scopo di lucro, l’abrogazione delle norme della Bossi-Fini che impediscono l’ingresso e la permanenza regolari in Italia dei migranti,
-per promuovere azioni volte allo sviluppo delle competenze interculturali.

Razzismo ed esclusione si contrastano con l’impegno a lottare concretamente contro le logiche di sfruttamento di tutte le persone in tutti i paesi, ponendosi sempre al fianco di chi questo sfruttamento lo subisce di più. Noi scegliamo di impegnarci per contrastare nazionalismi, fondamentalismi e fascismi di ogni segno e colore.
Perciò chi sottoscrive questo appello si impegna a promuovere nel mese di aprile, in maniera coordinata ed unitaria, iniziative volte all’informazione, alla sensibilizzazione, al confronto sui punti indicati in precedenza, ritenendo che il NO al razzismo ed il SI’ all’accoglienza ed alla solidarietà siano elementi essenziali per la convivenza civile e per lo svolgersi della vita democratica, secondo i principi definiti dalla Costituzione italiana.

Per una primavera di mobilitazione che, nel ricordo della vittoria della Resistenza sui nazi-fascisti il 25 aprile, dia il segno tangibile della presenza di una Firenze antirazzista e solidale!

Primi firmatari
Rete Antirazzista Fiorentina
PalazzuoloStradaAperta
Laboratorio perUnaltracittà
CO.R.P.I. – Compagnia Resistente
Coordinamento Basta Morti nel Mediterraneo
Fuori Binario
Comitato Stop Razzismo Prato
azzerocappaemme
Straniamenti
Biblioteca Riccardo Torregiani
Comitato 1°Marzo

per adesioni:
sandra.carpilapi@gmail.com
massimodamato@virgilio.it

».

il manifesto, 30 marzo 2017 (c.m.c.)

Una giustizia minore e un diritto diseguale. L’approvazione, ieri, del decreto Orlando-Minniti sancisce l’introduzione nel nostro ordinamento di una sorta di diritto «etnico» per cui ai cittadini stranieri extracomunitari è riservata una corsia giudiziaria «propria» con deroghe significative alle garanzie processuali comuni. Deroghe non giustificabili in alcun modo con le esigenze di semplificazione delle procedure di riconoscimento della protezione internazionale.

È questa la ragione principale che ha indotto me e Walter Tocci a non partecipare al voto di fiducia richiesto dal governo sulle misure di «Accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, e per il contrasto dell’immigrazione illegale». Con questo gesto abbiamo inteso esprimere il nostro giudizio fortemente negativo su un provvedimento di legge che introduce una profonda lesione nel nostro sistema di garanzie. Una normativa che, appunto, non prevede appello per il richiedente asilo che ha ricevuto un diniego alla domanda di protezione.

La possibilità di impugnare i provvedimenti adottati dalle Commissioni territoriali è limitata al primo grado e fortemente affievolita poiché, salvo casi eccezionali, non è previsto il contraddittorio: ovvero che il richiedente asilo compaia davanti al giudice e possa esercitare pienamente il suo diritto alla difesa.

Così una procedura che regola tutte le iniziative giudiziarie, comprese le liti condominiali, il furto di un chinotto in un supermercato e l’opposizione a una sanzione amministrativa, non viene applicata nel caso di un diritto fondamentale della persona, come la protezione internazionale, riconosciuta dalla nostra Costituzione.

L’alterazione di questa procedura e la sua riduzione a due gradi di giudizio ha conseguenze ha conseguenze pesanti sulla vita dei richiedenti asilo e sui diritti di cui sono titolari. Ne discende che un principio determinante per il nostro sistema di garanzie, vigente nell’intero ordinamento, viene negato proprio ai soggetti più vulnerabili. E volendo entrare ancor più nel merito della questione, quanto emerge nel corso del colloquio del richiedente asilo davanti alla Commissione territoriale, in alcuni casi e per una serie di ragioni, potrebbe non bastare per disegnare il quadro completo della vita di quella persona e far emergere gli aspetti più delicati da un punto di vista umanitario.

A questo serve l’udienza col giudice, e la presenza di un certo numero di esiti favorevoli al richiedente asilo in quella sede con il conseguente riconoscimento di una forma di protezione, nonostante la decisione della commissione territoriale, non può che confermare quanto sia indispensabile garantire quell’impianto complesso – con il contraddittorio e con i suoi tre gradi di giudizio – previsto dal nostro ordinamento.

Le esigenze di riduzione dei tempi di queste procedure, dato il contesto difficile e faticoso in cui il nostro Paese si sta muovendo e si muoverà nei prossimi anni, non vanno certo trascurate. Superare tutti i limiti evidenti emersi nella gestione del fenomeno migratorio deve essere un obiettivo per tutti perché migliorerebbe le condizioni di vita non solo dei migranti, ma anche dei territori coinvolti nell’accoglienza. Ma il risparmio del tempo nelle procedure non può corrispondere a un risparmio di garanzie e diritti.

«il manifesto

Ci sono fatti illuminanti su quello che sarà il nostro futuro se non si contrastano prassi e culture che si stanno diffondendo in modo preoccupante. Il primo fatto è accaduto a Ventimiglia, confine ligure con la Francia e, per questo, luogo di «stazionamento» di molti migranti in attesa di varcare il confine.

Ventimiglia e la zona dei «Balzi rossi» sono stati nell’estate scorsa sotto i riflettori per le proteste contro il blocco della frontiera francese poste in essere da migranti, dapprima accampati sulla spiaggia e successivamente ripiegati in città dove, peraltro, le strutture di accoglienza erano e sono insufficienti. Così molti dormono in strada e vengono sfamati dalla Caritas o da una mensa parrocchiale. Ma anche queste non bastano. Perciò ogni sera volontari francesi provenienti dalla Val Roja distribuiscono a chi ne ha bisogno panini, acqua e the.

Ma a Ventimiglia vige una ordinanza, emessa dal sindaco l’11 agosto 2016, che vieta la distribuzione di cibo ai migranti e così – incredibile ma vero – nei giorni scorsi tre volontari sono stati denunciati per il reato di «inosservanza dei provvedimenti dell’autorità» previsto all’art. 650 del codice penale.

All’altro capo dell’Italia, nel mare che divide la Sicilia dalle coste africane e in acque internazionali, si muovono da qualche tempo alcune navi di organizzazioni non governative che vigilano su eventuali naufragi e, nel caso, soccorrono i naufraghi o recuperano i corpi di chi non ce l’ha fatta.

Anche qui è accaduto che la Procura della Repubblica di Catania abbia aperto una «indagine conoscitiva» sulle organizzazioni interessate sospettate di favorire l’immigrazione clandestina se non addirittura – come sostengono alcuni commentatori – di agevolare gli scafisti.

Questa criminalizzazione della solidarietà che, paradossalmente (o forse no), colpisce chi cerca di sopperire alle lacune delle istituzioni ha dei riferimenti precisi. Essa, infatti, è ormai regola negli Stati Uniti, dove il diritto penale sempre più persegue non solo i poveri ma anche chi vuole esercitare il diritto (o il dovere morale) di aiutarli.

Il fenomeno è descritto in termini analitici, e con ampia esemplificazione, in un recente e lucido libro di Elisabetta Grande (Guai ai poveri. La faccia triste dell’America, Edizioni Gruppo Abele, 2017) da cui si apprende, tra l’altro, che in molti Stati il divieto di camping penalmente sanzionato colpisce non solo l’homeless che vi fa ricorso, ma addirittura il proprietario che consenta al senza tetto di dormire in tenda sul proprio terreno per più di cinque giorni consecutivi, o che analogo divieto si estende all’autorizzazione a parcheggiare nel proprio spazio privato l’auto utilizzata da un homeless come abitazione.

Quanto alla somministrazione di cibo ai poveri, poi, si è assistito finanche all’arresto di un novantenne, fondatore di un’organizzazione benefica, colpevole di servire pasti caldi agli homeless su una spiaggia e, come lui, di altri attivisti dalla Florida al Texas o alla richiesta di cifre altissime, come tassa per l’occupazione di suolo pubblico richiesta, in California e in South Carolina, alle organizzazioni che distribuiscono cibo nei parchi.

Il meccanismo della criminalizzazione è lo stesso adottato dal sindaco di Ventimiglia: l’adozione di ordinanze contenenti proibizioni dettate da motivazioni per lo più speciose, come quella di garantire la sicurezza dei consociati, messa in pericolo dall’assembramento dei bisognosi che si recano a mangiare, o addirittura quella di proteggere la sicurezza alimentare o la dignità degli homeless, che meriterebbero un cibo controllato e un luogo coperto in cui consumare il pasto (tacendo che cibi e luoghi siffatti in realtà non esistono).

La cosa più inquietante è che quelle ordinanze, comparse la prima volta alla fine degli anni Novanta, hanno visto di recente una notevole intensificazione, con un aumento del 47% nel solo periodo tra il 2010 e il 2014, parallelamente al crescere della povertà e del numero di soggetti esclusi anche dai buoni alimentari assistenziali.

Ci fu, nella storia, un tempo (nell’Alto Medioevo) in cui la povertà divenne fonte di diritti, tanto da far assurgere il patrimonio della Chiesa a «proprietà dei poveri», destinata a chi non era in grado di mantenersi con il proprio lavoro e non alienabile neppure dai vescovi. Ma fu eccezione: quando il diritto si è occupato dei poveri lo ha fatto, per lo più, in chiave di punizione e di difesa della società.

Ciò è stato messo in discussione, nel nostro Paese, dalla Costituzione repubblicana, che pone a tutti un dovere di solidarietà e indica l’uguaglianza sociale come obiettivo delle istituzioni.Sarebbe bene non dimenticarlo, anche da parte dei sindaci e dei procuratori della Repubblica.

«Ci sono molti esempi, anche di successo, di cui i media parlano poco, lasciando l’impressione, che la maggioranza della popolazione veda nei profughi la principale fonte del proprio disagio, che ha invece ben altre origini ». il manifesto, 28 marzo 2017 (c.m.c.)

Ci sono molti modi di gestire l’accoglienza dei profughi. I media si occupano quasi solo dei casi peggiori che comportano ruberie, isolamento e maltrattamenti delle persone ospitate, creazione che suscitano o alimentano reazioni di rigetto. Ma ci sono molti esempi, anche di successo, di cui i media parlano poco, lasciando l’impressione, che poi si alimenta con un effetto a valanga, che la maggioranza della popolazione veda nei profughi la principale fonte del proprio disagio; che ha invece ben altre origini. E’ ora di raccogliere e rendere pubbliche queste esperienze positive.

Una è quella dell’associazione Padova Accoglie, reduce da una grande manifestazione pro accoglienza – Side by Side – a Venezia il 19 marzo scorso con oltre 4000 persone, promossa con Melting Pot e Overthe fortress. Tra i fondatori e coordinatori di Padova Accoglie c’è Stefano Ferro, la cui attività operativa si svolge principalmente attraverso la cooperativa Percorsovita Onlus, nota per l’attività di strada contro la tratta svolta da don Luca Favarin.
Percorso Vita ha aperto 12 centri di accoglienza a Padova e provincia con più di 100 richiedenti protezione internazionale. Da giugno dell’anno scorso ha aperto il secondo ristorante che, insieme a quello aperto due anni fa dà lavoro complessivamente a 12-15 richiedenti asilo di cui 3 assunti con contratto a tempo indeterminato, tre in formazione professionale e gli altri con contratto a tempo determinato o pagati, finora, con voucher.

L’ultimo nato, Strada Facendo Ristorante etico, si trova in una ex casa del popolo, poi trasformata in un ristorante che non ha avuto successo e ha ceduto i locali alla cooperativa. L’altro ristorante, The last one, somministra pasti preparati nella cucina di Strada Facendo, dove è stata centralizzata la produzione. La cucina è di alto livello (Trip Advisor: 25 eccellente e 6 buono su 35 valutazioni), ma con un rapporto qualità/prezzo imbattibile. Biggy, vicecuoco della Guinea Biss, ha svolto il suo apprendistato con chef di livello come Dimitri e Ale Meo, che prestano la loro collaborazione rifiutando offerte di prestigio più vantaggiose. Il ristorante non propone una cucina etnica, ma multiregionale italiana, con prodotti di alta qualità che per questo non sono a chilometri zero né esclusivamente biologici. Chef a parte, nessuno aveva esperienza nel settore della ristorazione, partire dalla responsabile Carolina che nei giorni di chiusura del locale è a capo, con don Luca, di una unità di strada anti tratta che solo un mese fa ha portato in salvo due ragazze nigeriane di 16 anni e che ha trasformato il locale come fosse casa sua. Il successo di entrambe le iniziative è stato travolgente: i locali sono sempre affollati e Strada Facendo prevede di raggiungere del punto di pareggio quest’anno.

Accanto a queste attività, Percorso Vita ha attivato un campo di due ettari e mezzo con annesso casale in località Saccolongo, precedentemente utilizzato per coltivazioni di biomassa, bonificandolo e destinandolo, sotto la guida di Guglielmo Donadello, responsabile nazionale tecniche di agricoltura di Legambiente, ad alberi da frutta e legumi di specie che non richiedono trattamenti. E’ un esempio contagioso perché molti agricoltori vicini, di fronte a questa vistosa trasformazione della produzione, si sono dichiarati disposti a cedere alla cooperativa parti dei loro terreni, perché le coltivazioni a cui sono attualmente destinati non danno rendimenti soddisfacenti. Così Percorso Vita è in procinto di acquisire nuovi e consistenti appezzamenti che potrebbero garantire alcune decine di ulteriori posti di lavoro.

Tra gli altri progetti, un gas e un master in mediazione culturale con il dipartimento di agraria dell’Università di Padova. Il corso è partito lo scorso gennaio con 17 allievi che fanno il tirocinio al ristorante e uno dei quali è già stato assunto dalla cooperativa.

Anche l’accettazione è un esempio di successo, non solo sul posto di lavoro. Biggy, il vicecuoco, ha una casa in affitto in località Brusogone, dove a vive con due colleghi. E’ una zona abitata da anziani, non sempre in buoni rapporti nemmeno tra di loro, che quando sono arrivati quei “neri" hanno avuto una reazione di rigetto. Ma poi, vedendoli gentili, collaborativi e anche impegnati a rimettere a posto situazioni in abbandono – aiuole, ringhiere, dei locali comuni, ecc. – hanno cambiato atteggiamento e ora non solo li trattano da pari a pari (hanno anche migliorato i rapporti tra loro), ma una vicina prepara anche per loro la cena tutte le sere per pura amicizia.

Tutto bene? Neanche per sogno! A Padova la commissione territoriale per le richieste di asilo dispone il 78 per cento di dinieghi e quando sono presenti esponenti della Lega, il 90 per cento. Tutti i membri della cooperativa hanno già ricevuto il diniego sia della commissione che del giudice e sono in attesa di appello, che per molti dovrebbe svolgersi prima che entri in vigore la sua abrogazione con il decreto Minniti.

Se il giudizio di primo grado sarà confermato o quando non sarà più possibile adire l’appello, tutti i lavoratori della cooperativa dovranno venir licenziati ed entrare in clandestinità. Un modo perfetto per distruggere la vita di tante persone che dopo mille vicissitudini dolorose avevano trovato il modo per ricostruirsela; ma anche per mandare in malora un’attività economica florida e un esperimento di accoglienza da moltiplicare. Ma è’ una situazione che rischia di travolgere non solo questa impresa, ma tutto quanto di positivo è stato creato nell’ambito dell’accoglienza in tutto il paese. In balia di una legislazione feroce e incoerente la cosiddetta accoglienza dello Stato italiano si trasforma così nel suo esatto contrario. Una vicenda che richiede un’immediata mobilitazione perché non finisca così.

Tra le decine di notizie cattive in merito alla decenza degli italiani di oggi eccone due buone. A Venezia, migliaia alla Marcia per l’Umanità per chiedere un’Europa solidale. A Villanova il sindaco presenta ai residenti i 10 migranti accolti nel comune.

La Nuova Venezia, 20 marzo 2017 (m.p.r.)


CORTEO PER L'ACCOGLIENZA
«SIAMO TUTTI CITTADINI»

di Vera Mantengoli

Venezia. Il Veneto che vuole una società dove l’uguaglianza a prescindere dal colore della pelle e la parità dei diritti siano valori fondanti, si è mostrato ieri per le calli di Venezia con la Marcia per l’Umanità, al grido di «la nostra Europa non ha confini, siamo tutti cittadini». La Venezia città dei ponti, è diventata simbolo della richiesta di ponti umanitari e solidarietà sociale. La manifestazione, organizzata da Melting Pot, si inserisce nel più ampio movimento europeo #overthefrontress che monitora i percorsi dei migranti, denunciando le ingiustizie.

In migliaia (1.500 per la Questura, 4.000 per gli organizzatori) hanno sfilato dalla stazione di Santa Lucia a Campo Sant’Angelo, preceduti dall’artista Barbara Tagliapietra che, vestita da colomba della pace, ha guidato il corteo con i migranti che reggevano il manifesto «Side by Side». La marcia, pacifica, allegra e scandita da musiche ritmate, si è conclusa con il lancio di un doppio appuntamento: il 22 aprile a Pontida e il 20 giugno, per la Giornata del Rifugiato.
Durante il corteo e sul palco si sono susseguite testimonianze e discorsi (Laboratorio Sociale Morion di Venezia, don Bruno Baratto e don Luca Favarin, il coordinamento Padova accoglie, il cantautore Pierpaolo Capovilla che ha letto Home di Warshan Shire e molte altre su FB «Side by Side»). Il filo conduttore degli interventi è stato l’urgenza di un nuovo modello di accoglienza. Molti i rifugiati che hanno denunciato alcune situazioni disumane, come a Cona e a Treviso: «Finalmente adesso vado a scuola» ha detto uno dei migranti, ringraziando il Centro Sociale Django di Treviso. «Voglio diventare un insegnante di matematica, ma nella Caserma Serena ci sentiamo prigionieri, non ci sono medicine adeguate e spesso vengono usate parole offensive nei nostri confronti».
Tra gli speaker anche chi ormai è in Italia da anni («Ricordiamo che lavoriamo e paghiamo le tasse») e tra i manifestanti anche le seconde generazioni, come Arising Africa di Padova. «Si parla di migranti, ma mai con i migranti» spiegano Sara e Barbara, afrodiscendenti, «Purtroppo il colore della pelle provoca ancora razzismo. Siamo qui perché si riprenda il discorso sulla cittadinanza e sulla ius soli e per ribadire che per una nuova accoglienza serve che ci si conosca come cittadini». «Basta con le divisioni» ha detto Marco Sinotti di #overthefrontress «soprattutto tra profughi economici e di guerra, siamo tutti bisognosi l’uno dell’altro. Le persone che arrivano sono dei veri flussi di vita e noi dobbiamo riuscire a mettere insieme le comunità locali con chi arriva o transita».
I sindaci Alessandra Buzzo di S. Stefano di Cadore (Belluno) e Franco Balzi di Santorso (Vicenza) sono stati applauditi: «Un amministratore» ha detto Buzzo «ha un’enorme responsabilità non solo di asfaltare le buche, ma di insegnare la solidarietà. Il mio Comune ha sempre accolto e una di queste persone oggi è il mio quinto figlio». «Le migrazioni rappresentano la storia dell’umanità», ha detto Sergio Zulian di Adl Cobas, «Basta con la criminalizzazione paranoica del migrante e no ai Cie in ogni Regione». Si è parlato anche di leggi con l'avvocato di Padova Marco Paggi dell'Asgi. che ha criticato il decreto Minniti che prevede di togliere il secondo grado di appello: «Si dice che i migranti sono troppi, ma se guardassimo il nostro stato demografico saremmo noi a invitarli. Questo decreto porterà soltanto braccia per il caporalato e voce agli xenofobi».

I MIGRANTI SI PRESENTANO AI RESIDENTI
di Giusy Andreoli

Villanova, incontro per conoscere i dieci stranieri appena arrivati in paese

Villanova di Camposampiero. Sono stati presentati ieri mattina dal sindaco ai residenti i 10 migranti africani che hanno trovato accoglienza in due appartamenti di Murelle Vecchia affittati dai proprietari, privati cittadini, alla Cooperativa “Laris” di Torri di Quartesolo, in accordo con la Prefettura di Padova. I 10, che ieri erano alle scuole medie, provengono dall’hub di Bagnoli e sono in Italia da giugno; cinque sono cristiani e cinque musulmani. Tutti sono stati vaccinati e hanno fatto uno screening sanitario. Kone Wandan è della Costa d'Avorio, ha 25 anni e faceva il commerciante; Mballo Madou è del Senegal, ha 28 anni ed era agricoltore; Len Yamory arriva dalla Guinea, ha 20 anni, studiava e dava una mano ai genitori nei campi, anche Fofan Abdurahman è della Guinea, ha 18 anni, studiava e aiutava i genitori in campagna; Madjegue Keita è invece del Mali, ha 18 anni e lavorava in campagna; arriva dalla Nigeria Ewemad Yobo, 25 anni, elettrauto; Osaren Ikponmwosa è nigeriano e diplomato ragioniere; nigeriano è Lucky Omobude, di 27 anni, gestiva un negozio di vestiti. Gli ultimi due sono della Sierra Leone: Tajan Alhajiss, 19 anni, studente, muratore e Koemneh Vandi, 25 anni, studente.

Ha sorpreso il gesto di un anziano, Zenobio Gelasio, che è andato a stringere la mano a tutti i migranti. «Sono emozionato e orgoglioso del mio Paese perché ricordo che una ventina di anni fa arrivarono quattro albanesi e li misero nei campi sportivi di via Puotti, dormivano nelle brande messe a terra nei bagni». Il sindaco Cristian Bottaro ha ribadito che la sua amministrazione ha messo in chiaro di non voler aderire allo Sprar, il progetto di accoglienza dei migranti. «Una scelta non contro le persone», ha spiegato Bottaro, «ma non sono d’accordo con le modalità. Ho però apprezzato che la Prefettura mi abbia telefonato per informarmi, un gesto di accortezza e correttezza. La nostra comunità si impegnerà per il rispetto, ma altrettanto ci aspettiamo da loro altrimenti dovranno lasciare il nostro territorio. E posso farlo in quanto autorità di pubblica sicurezza».
Il Comune non stanzierà risorse, ma accetterà che i migranti facciano lavori socialmente utili, se addestrati. Bottaro ha spiegato anche la presentazione pubblica: «Avevo due opzioni, non interessarmi e far finta di niente oppure farveli conoscere. Perché le barricata non producono niente». I responsabili della coop, fra cui uno psicologo e un mediatore culturale, hanno spiegato il percorso di accoglienza, i tempi e le modalità di gestione. «Due andranno lunedì in Commissione prefettizia che valuta le motivazioni dell’arrivo in Italia e poi emana il relativo decreto, uno andrà nei prossimi giorni, gli altri sono stati già sentiti e sono in attesa del decreto. Se positivo, riceveranno un permesso a muoversi nel territorio che dura dai 2 ai 5 anni, se negativo potranno fare ricorso». Molte le domande dei presenti. Un cittadino ha chiesto ai migranti se vogliono andare in altri Paesi europei, tutti hanno risposto che vogliono restare in Italia, suscitando l'ironico applauso di un militante leghista.
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