I criteri surrettiziamente introdotti sono quelli dell’età (i minorenni soli, ma non quelli che hanno un fratello a bordo), del genere (le donne, specialmente se incinte o accompagnate da bambini in tenera età), o appunto delle condizioni di salute (ma con riserve, soprattutto quando il problema riguarda la sfera psichica, e non è quindi facilmente diagnosticabile).
Uno scivolamento analogo si constata nel ricorso ad altri due argomenti anti-accoglienza abbondantemente utilizzati dalla rumorosa propaganda nazional-populista, di fronte ai quali i difensori dei diritti umani mostrano spesso un certo imbarazzo. Uno è il preteso benessere dei richiedenti asilo, dotati –si dice– di cellulari ultramoderni, catenine d’oro e monili vari. Anche in questo caso, i rifugiati dovrebbero far compassione per essere accolti, recitare la parte dei miserabili privi di tutto per suscitare la nostra pietà. Altrimenti non sarebbero meritevoli di accoglienza.
Riecheggia la perniciosa idea che la causa delle migrazioni in generale sia la povertà assoluta, la fame, l’incapacità di provvedere a se stessi, ma l’idea è ancora più sbagliata quando si tratta dell’asilo: un tempo i rifugiati in Europa erano soprattutto persone colte, intellettuali, artisti o voci dissenzienti che appartenevano alle élite dei Paesi di origine.
L’asilo, e a maggior ragione il soccorso in mare, non è motivato dalla povertà e neppure dalle condizioni di salute, ma è un diritto umano motivato dalla vulnerabilità delle persone interessate, dai rischi che correrebbero se non venissero prima soccorse e poi almeno provvisoriamente accolte. L’altro deprecabile ma insistente argomento polemico indirizzato contro chi si espone a favore dell’accoglienza, specie quando si tratta di persone note al grande pubblico, chiama in causa il loro impegno diretto nei confronti dei rifugiati: “Quanti ne accogli a casa tua?”.
L’ultimo bersaglio in ordine di tempo è stata l’attrice Luciana Littizzetto, che ha peraltro saputo rintuzzare l’attacco sulla base di un encomiabile curriculum di impegno sociale. Di nuovo però, la logica sottostante rivela la sostituzione della compassione ai diritti umani: se ti fanno tanta pena, accoglili tu, con i tuoi beni e sopportandone il presunto disagio. È come se, di fronte a chi chiede più attenzione ai malati o alle persone con disabilità, si rispondesse di provvedere a loro con le proprie sostanze. Surrettiziamente si abbandona la logica dello Stato sociale, chiamato a rispondere alle varie necessità – incluse quelle umanitarie – redistribuendo le risorse raccolte con il prelievo fiscale, per tornare a forme di carità discrezionale.
Di fronte a questo deterioramento della cultura civile oltre che giuridica – che su queste pagine si è continuato per un verso a denunciare e sottolineare e per l’altro a contraddire di speranza e buon diritto indicando esempi positivi e buone pratiche– sorge spontanea una richiesta: se davvero si formerà un nuovo Governo, improntato a una visione politica ben diversa dal Governo precedente, ponga tra i suoi primissimi atti un ripristino dell’impegno del nostro Stato nella tutela dei diritti umani.
shoa diventi la specificità intollerabile di questi tempi orribili. (m.c.g)
19 febbraio 2019. Il governo italiano da mesi commette il crimine di omissione di soccorso nei confronti di naufraghi in pericolo e di sabotaggio dei soccorritori volontari che salvano vite umane nel Mediterraneo, negando loro approdo in porti sicuri. Complici del crimine tutti i partiti di destra, da M5s, alla Lega, Forza Italia, FdI e Autonomie, che hanno votato a favore dell'impunità di Salvini nella Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato. (e.s.)
lacittàfutura.it, 8 dic 2018. Qui, ulteriori riflessioni sul pacchetto sicurezza, che non solo attacca ai diritti elementari dei migranti ma anche quelli di tutti noi. Sulla paura e la repressione promosse da questa legge si legga inoltre un articolo di eddyburg. (i.b.)
Numerosi consigli comunali hanno già votato mozioni che chiedono la sospensione immediata del Decreto: Lecco, Bologna, Firenze, Mantova, Merano, Milano, Palermo, Torino, Senigallia, Ancona… Continueremo ad aggiornare l’elenco ricordando a tutti la frase di Hanna Harendt: “Il diritto ad avere diritti, o il diritto di ogni individuo all’umanità, dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa”. (m.c.g.)
n manuale nazista di come respingere, spossessare dei diritti, segregare e opprimere le vittime dello sfruttamento capitalistico, del capitalismo di ieri e di oggi. Qui una raccolta di articoli per comprendere i rischi che pone alle nostre libertà. (i.b.)
Dopo il via libera del Consiglio dei ministri (24 settembre) e del Senato (7 novembre), la Camera ha approvato il cosi detto "Decreto Sicurezza", una legge che è un attacco frontale ai diritti e al sistema di protezione dei migranti, dei senza tetto, dei movimenti sociali e di tutti coloro che non si arrendono al sistema di privilegi, sfruttamento e limitazioni delle libertà.
L'idea che sottrarre diritti e reprimere i gruppi più fragili della nostra società possa risolvere i problemi del nostro paese rivela quanto l'attuale governo non sia per niente interessato a prendersi cura degli abitanti e dei problemi che gravano sulla società, ma semplicemente di protrarre un sistema di privilegi e fomentare uno stato di paura che non farà che aumentare le discriminazioni e diminuire le nostre libertà.
Per comprendere la gravità dei provvedimenti contenuti nel decreto, sia in termini di misure per l’accoglienza che di sicurezza si legga l’articolo “Decreto Salvini: come trasformare più di 100mila persone in clandestine” di Thomas Maerten del 25 settembre 2018. In questo articolo si spiega come la vita di migliaia di "rifugiati" saranno rovinate, in quanto a loro sarà precluso l'ottenimento del permesso di soggiorno e quindi l'opportunità di raggiungere un'autonomia economica e abitativa. Impedendo a queste persone di intraprendere un percorso di "regolarizzazione" per sopravvivere non potranno che lavorare in nero e vivere clandestinamente, favoreggiando le reti di sfruttamento e abuso e facendo arricchire imprenditori che ne faranno uso, la mafia e altri business illegali.
Occorre peraltro rendersi conto di come questo decreto sia debitore di tanti provvedimenti già attuati dal Decreto Minniti-Orlando sulla Sicurezza Urbana e sull’immigrazione, stato convertito in legge dal Parlamento il 12 aprile 2017. Si legga quindi "Un’analisi del decreto Minniti/Orlando: non vogliamo repressione, ma casa, lavoro, scuola e sanità" scritto dalla redazione perUnaltracittà.
perUnaltracittà ha redatto un utilissimo numero speciale "Sicurezza e repressione" da dove sono tratti alcuni degli articoli sopra suggeriti. Qui il link. (i.b.)
frontierenews.it
Negli ultimi due o tre anni, il tema delle esigenze nell’ambito dell’accoglienza ai migranti aveva finalmente iniziato a fare presa e a mostrare i primi risultati a macchia di leopardo, segno di una lenta eppure percettibile volontà di cercare soluzioni nuove che restituissero autonomia, prima di tutto economica ma non solo, agli ospiti delle strutture di accoglienza.
Attacco all’accoglienza
La politica migratoria italiana, specialmente da un anno e più a questa parte, mira al cuore e spezza le gambe a chi cerca di percorrere la già accidentata strada verso l’autonomia. L’inganno è sottile, ma l’obiettivo che si persegue è molto chiaro: nell’impossibilità di precludere totalmente l’accoglienza, in virtù degli obblighi legislativi e costituzionali e dei trattati europei e internazionali, “sono costretto ad accoglierti. Tuttavia, ti nego ogni possibilità. Ti tengo qui, per un tempo infinito, finché non ti sfinisco. Se prendi un’iniziativa, rendo tutto così complicato da farti mollare la presa, da scoraggiarti finché non smetterai di provarci.” Per i più caparbi e intraprendenti, c’è sempre la tagliola della risposta alla domanda di asilo: rischiano di non avere alcun permesso, se non appartengono alla famigerata lista di paesi di veri rifugiati. Dove non arrivano a fermare gli scarsi strumenti di integrazione economica e lavorativa, ci pensa, perciò, la burocrazia. È come se saltassero le maglie di quella sottile collana che dovrebbe legare insieme ogni elemento del percorso migratorio: documenti, accesso ai servizi di base, formazione scolastica e professionale, ricerca lavoro e dell’autonomia abitativa. Ogni maglia fatica a raccordarsi con la successiva; ogni processo è scollato, e quando viene anche un solo passaggio, la persona rischia di rimanervi impigliata per anni. In questo aspettare a nervi scoperti, paralizzante, si può immaginare quanto sia complesso trovare un proprio equilibrio e tenere alto il morale: c’è chi si deprime, chi si arrabbia; qualcuno perde la pazienza e la calma, assorbito dai pensieri che si accalcano nell’attesa; altri ancora, mollano la presa, e si alzano dal letto con sempre più fatica.
Finora è stato così. Adesso, ci penserà il nuovo decreto sull’immigrazione, al vaglio in questi giorni, a stringere ancor più violentemente la presa. Il nuovo piano immigrazione limiterà i servizi relativi all’inclusione e all’integrazione ai soli titolari di protezione internazionale. I tempi di attesa per i richiedenti asilo saranno, a quanto pare, più brevi, ma la loro permanenza all’interno delle strutture di accoglienza diventerà ancor più inutile, e immobile. Per loro, il decreto prevede anche il restringimento all’accesso ai servizi comunalie l’impossibilità di accedere nello SPRAR, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Tutto questo renderà il percorso dei migranti ancora più difficile ed esasperante, aumenterà la pressione sul vivere quotidiano, sulle piccole cose che peseranno e si faranno più complicate. Per molti non ci sarà altra via, una volta preclusa la formazione linguistica, l’orientamento lavorativo e ogni strumento necessario all’integrazione, che finire in strada, ai semafori e ai parcheggi dei supermercati, come già avviene.
Il tempo dell’accoglienza
Un piccolo passo indietro è, dunque, necessario per inquadrare cos’è quel tempo dell’accoglienza che si è voluto andare a colpire con la direttiva del 23 luglio e il nuovo decreto “Salvini”. Un tempo che, come abbiamo indicato, si è sempre faticato a considerare con la dovuta attenzione, sia dal punto di vista quantitativo ma, soprattutto, qualitativo. La situazione italiana prevede percorsi di istruzione e formazione che non di rado hanno inizio in fasi avanzate dell’accoglienza; non sempre riescono a svolgersi in maniera strutturata, ed il numero di coloro che vi hanno accesso non copre affatto tutta l’utenza. Non mancano ovviamente le buone pratiche e il lavoro onesto di tantissimi che operano nel settore, ma si tratta ancora di una situazione, specialmente nei CAS, dove si naviga -seppure con cuore e professionalità- a vista. La capacità di uscire indenni dal circuito dell’accoglienza ed essere autonomi rimane, di fatto, ancora in larga parte affidata alla particolare intraprendenza dei singoli ospiti, secondo le diverse situazioni di partenza e le differenti risorse interne di ciascuno. Tra lo sbarco e l’arrivo dei documenti possono trascorrere anche due anni: un pezzo di vita che si trasforma, per una parte dei migranti, in un’attesa esclusiva, nel senso di escludere ogni altro aspetto del vivere quotidiano. Diventa normalità l’assenza (o la forte riduzione) di quella parte di vita fatta di interessi personali e rapporti umani che è parte integrante del ben-essere di ciascuno; come se fosse pensabile vivere di soli bisogni senza perdere, aspettando che la burocrazia faccia il suo corso, qualcosa di sé. Si dissipano in questo tempo le energie, gli slanci, le aspirazioni che accompagnano le persone al loro arrivo: si abbatte quella capacità di reagire [1] così preziosa, che rappresenta il motore di una vita in perenne ricerca di una realtà in cui riconoscersi e ritrovarsi.
In questo contesto, è l’attenzione alle esigenze di cui parla lo psichiatra Fagioli, ossia a tutti gli aspetti legati a quel mondo personale ed altro fatto di affetti e interesse senza il quale la possibilità di raggiungere un ben-essere reale non sono pensabili, a determinare una visione diversa dell’accoglienza [2]. Sulla stessa traiettoria si colloca, tra le diverse proposte che potrebbero raccogliere la sfida di un’accoglienza che guarda alle esigenze, l’idea di un percorso di sensibilizzazione mirato ad una maggiore conoscenza della realtà sociale e culturale del nostro paese attraverso l’arte, da parte di migranti giovani e meno giovani. Un’iniziativa che risponde all’esigenza di un tempo diverso, quello per le cose apparentemente inutili o comunque non strettamente necessarie, eppure così vitali al fine di mantenere svegli, di alimentare l’interesse verso una realtà circostante non più percepita come immutabile. Le cose inutili dunque, come l’arte, il cui linguaggio universale riporta tutti, inesorabilmente, verso un’uguaglianza di nascita che non è mai abbastanza stare a ribadire. Il percorso di sensibilizzazione artistica mette sotto gli occhi dei partecipanti le cose belle, quelle che vengono fuori quando le persone stanno bene, contando sull’immediatezza delle impressioni che le opere d’arte suscitano per accorciare le distanze con una realtà a volte percepita troppo lontana. Così facendo, si restituisce una conoscenza del territorio e del suo tessuto umano e sociale oltre i luoghi del bisogno.
Le iniziative culturali sono pensate per essere uno spazio che mette momentaneamente tra parentesi le incombenze e i problemi del quotidiano, i pensieri ricorrenti in cui tante persone, durante il loro percorso nell’accoglienza, a volte si incastrano. Dicono che gli fa male la testa, altre volte il braccio, o la pancia, ma il motivo non si trova, e piano piano si fanno più assenti. Proporre l’arte può andare a rompere qualcosa, a smuovere le acque attraverso la proposizione di stimoli intelligenti e mirati. Non basta però, la semplice fruizione, bisogna sapere quali sollecitazioni offrire se si vuole far leva sulla sensibilità delle persone, quali contenuti e significati si vogliono evidenziare. Alla base, c’è il riconoscimento dell’intelligenza di ciascuno, sempre, anche quando il pensiero sembra viaggiare su due binari diversi, per esperienze di vita particolarmente lontane, o per l’assenza di un percorso scolastico – pensiamo ai migranti analfabeti – che ha reso la mente più concreta, meno abituata ad astrarre e ad esprimersi con lunghi discorsi. L’arte, tuttavia, prima ancora di rivolgersi al pensiero parlato sollecita, invece, la sensibilità, quel sentire che deriva dalla forza delle cose, dalle esperienze di vita che contraddistinguono le storie personali. “Un essere umano entra in rapporto con il mondo attraverso la pelle” dice la scrittrice marocchina Fatima Mernissi [3]. Questa intelligenza di pelle, immediata, è quella su cui fa leva l’arte, capace di dare stimoli intelligenti e provocare risposte altrettanto intelligenti. Saranno poi questi pensieri a tornare nella quotidianità di tutti i giorni, ad offrire una resistenza in più; a sostenere il diritto-speranza ad una vita dignitosa alla quale ciascuno, in cuor suo, vuole aspirare.
Qualcuno forse ritrova, mentre guarda un film, un pezzettino di sé; qualcun altro sta bene senza un perché: forse è il posto pieno di colore, forse la musica, forse la poltrona del cinema nel calmo buio della sala. Qualcuno pensa: “Questo è successo anche a me”. E forse si sente un po’ meno solo. Le storie di tutti, in fondo, hanno sempre qualcosa in comune. Gramsci lo chiamava il “valore aggiunto della socializzazione dell’opera artistica, del suo rivivere in altre persone” [4].
Note
[1] Profondamente legata, nella nascita umana, alla vitalità, secondo la definizione di M. Fagioli. Cfr. Massimo Fagioli, Left 2011, Roma: L’Asino D’Oro, 2014, pp. 231-236
[2] Cfr. Massimo Fagioli, Bambino Donna e Trasformazione dell’Uomo, Roma, L’Asino D’Oro, 2013, pp. 122-123
[3] Fatema Mernissi, La Terrazza Proibita, Firenze: Giunti, 1996, p.220
[4] Giuseppe Benedetti e Donatella Coccoli, Gramsci per la Scuola. Conoscere è Vivere, Roma: L’Asino D’Oro, 2018, p.54
Sara Forcella è arabista e mediatrice culturale. Laureata alla Facoltà di Studi Orientali dell’Università La Sapienza di Roma (oggi ISO), dopo varie esperienze di studio all’estero nel 2012 ha iniziato a lavorare come mediatrice culturale all’interno dei centri di accoglienza per richiedenti asilo, durante l’Emergenza Nord Africa. Si occupa di mediazione linguistica e culturale in ambito legale e medico, di alfabetizzazione in italiano L2, e di attività per l’integrazione e la “sensibilizzazione culturale” attraverso l’arte. Attualmente è dottoranda presso L’Istituto Italiano di Studi Orientali di Roma (ISO).
il manifesto,
Per chi ha conosciuto Domenico Lucano fin dal 1998, ha visto gli sforzi fatti da lui e dai giovani volontari dell’associazione “Città futura”, ha toccato con mano la sua grande umanità, la sua totale dedizione alla causa, la sua trasparenza e onestà. Non si può accettare che nella Locride dove impera la borghesia criminale una persona come il sindaco di Riace possa finire agli arresti domiciliari per aver promosso matrimoni tra italiani e stranieri o per aver affidato a una cooperativa sociale la raccolta differenziata con il mulo!
Per chi ha visto un paese abitato da pochi anziani, senza una scuola, un bar, un luogo dove riunirsi, un paese triste e moribondo, rinascere passo dopo passo anche grazie alla solidarietà di tante associazioni, singoli cittadini, gruppi di volontariato, non può accettare la fine di questo sogno divenuto realtà. Perché Riace è ormai un simbolo vivente di come si possa rovesciare l’approccio al fenomeno migratorio, di come sia possibile non solo la convivenza pacifica (in vent’anni non c’è stato un reato rilevante o un conflitto tra la popolazione locale e i rifugiati), ma la resurrezione di un paese moribondo grazie al lavoro, all’energia e la volontà dei giovani migranti.
Al di là del valore umano di Domenico Lucano, della sua opera instancabile, del suo carisma, Riace rappresenta un miracolo sociale: dalla iniziale sinergia tra una Ong (il Cric) , Banca Etica, la comunità anarchica di Longo Mai, al commercio equo, all’associazione per la pace, al turismo solidale praticato da tanti, italiani e stranieri, all’opera determinante di collante nazionale svolta da ReCoSol (la Rete dei Comuni Solidali), ad artisti e giornalisti, in tanti hanno dato un contributo convinto perché hanno visto che “un altro mondo è concretamente possibile”. L’ha visto un grande regista come Wim Wenders che nel ventennale della caduta del muro di Berlino ha dichiarato di fronte a dieci Nobel per la pace che “la civiltà e il futuro dell’umanità passano da luoghi come Riace, in Calabria”.
L’hanno imitato in tanti il modello Riace: da Sant’Alessio in Aspromonte a Acquaformosa, da Calanna a Gioiosa Jonica, ci sono decine di sindaci e amministrazioni locali, non solo in Calabria, che in questi anni hanno seguito l’esempio di Riace e hanno visto progressivamente rinascere i loro Comuni abbandonati.
Ed è questa la strada che bisogna seguire per la rinascita del nostro paese. Quasi tutto l’Appennino è ormai in via di desertificazione, di abbandono di terre e un grande patrimonio abitativo che va in malora, un abbandono che si traduce in frane, incendi, alluvioni, proprio nel tempo in cui c’è bisogno sempre più di terre coltivabili, non inquinate, per una produzione alimentare di qualità. Per questo abbiamo assoluto bisogno dei migranti, e dovremmo ringraziarli se ancora abbiamo una pastorizia, o produciamo il famoso parmigiano reggiano o il prosciutto di Parma. Ma, dobbiamo lottare e impegnarci per toglierli dalla condizione di semischiavitù in cui versano nella piana di Rosarno come a Foggia, per restituirgli quella dignità di essere umani che non ci faccia vergognare di essere italiani.
Per tutto questo l’attuale governo, senza se e senza ma (ma i 5S…) che punta a chiudere gli Sprar, a mandare a casa 40.000 giovani italiani che lavoravano a fianco dei migranti nei centri di seconda accoglienza, che mira a trasformare in clandestini e marginali la maggioranza di coloro che sono arrivati in Italia negli ultimi anni, deve essere combattuto senza paura. La reazione, forte e convinta, di una moltitudine all’arresto del sindaco di Riace ci dice che c’è ancora una parte del nostro paese che non si è arresa alla disumanità, che non è caduta nella globalizzazione dell’indifferenza, come l’ha definita il “compagno” Francesco.
the submarine
Attraversare il mar Mediterraneo non è mai stato così mortale: in questa giornata istituita dallo Stato, è fondamentale ricordare che questa situazione non è normale — e la colpa è del nostro paese.
Due anni dopo l’istituzione della Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione — che cade il 3 ottobre, il giorno della strage di Lampedusa nel 2013 — il mar Mediterraneo non è mai stato così pericoloso.
I dati di UNHCR descrivono le condizioni dell’attraversamento del Mediterraneo il 30,6% più mortali della media, mentre un rapporto dell’ISPI pubblicato pochi giorni fa documenta un record del numero dei morti a settembre e negli ultimi quattro mesi — il 20% di chi è partito dalle coste della Libia o della Tunisia per raggiungere il nostro paese risulta morto o disperso.
È questa la realtà che si nasconde dietro lo sbandierato “calo degli sbarchi” — diminuiti circa dell’80% in un anno, senza che questo sia servito a neutralizzare la retorica dell’invasione — ed è una realtà molto parziale: non solo perché l’assenza delle navi delle Ong nel Mediterraneo centrale significa che non ci sono osservatori indipendenti e imparziali che possano documentare cosa succede in quel tratto di mare, ma anche perché la linea adottata dai governi europei per arginare il flusso migratorio — esternalizzare la frontiera in Africa — si traduce in altre violenze e in altre morti (nei lager libici o nel deserto) lontane dai nostri occhi e dalle nostre statistiche.
Cosa sia successo lo sappiamo: i governi centristi di Germania, Francia e Italia, che avevano cercato di mantenere politiche nell’ambito della decenza nella gestione del fenomeno migratorio dal 2014 al 2015 — anche se sempre in un’ottica emergenziale e insostenibile sul lungo periodo — hanno ceduto alle pressioni interne che li hanno portati a sdoganare politiche retrograde precedentemente relegate ai partiti di estrema destra. In un effetto valanga, il Partito socialista francese si è estinto, il Partito democratico italiano è in corso di estinzione, Merkel mantiene la leadership del CDU quasi per coincidenza.
L’Italia è passata dal senso di colpa — e dell’orrore — costruttivo che aveva portato all’istituzione della giornata del 3 ottobre, al paese che si è preso carico di ripulire il mar Mediterraneo dalle navi delle Ong, e, indirettamente, di aumentare la probabilità di morte in mare per le persone che ricordiamo oggi.
O che dovremmo ricordare: oggi a Lampedusa, dove si terrà una marcia di commemorazione, non sarà presente nessun rappresentante delle istituzioni. E non ci saranno nemmeno gli studenti che hanno partecipato al progetto “Porte d’Europa,” perché il Ministero dell’Istruzione ha tolto il proprio sostegno all’iniziativa.
“In questo momento non c’è nessuna operazione civile di salvataggio attiva nel Mediterraneo,” ci spiega al telefono Ruben Neugebauer dell’Ong tedesca Sea Watch. La nave di cui fa parte — Sea Watch 3 — è bloccata a Malta, e attualmente la Ong riesce a sorvegliare il mare solo con la propria missione aerea.
“Anche le navi delle flotte europee e la Guardia costiera italiana latitano: rimangono operative nelle acque solo le milizie libiche, che non possono essere considerate responsabili di azioni di salvataggio,” continua Neugebauer. “Sempre più navi mercantili rifiutano di aiutare barche in difficoltà. La missione aerea di Sea–Watch ha osservato più volte casi di navi mercantili che, dopo aver ricevuto da parte loro segnalazioni di barche in difficoltà o chiamate di soccorso, hanno preferito ignorarle e cambiare direzione. Temono che a seguito del loro intervento si ripropongano situazioni come quella della Diciotti, dove prima di avere i permessi per lo sbarco delle persone raccolte si è trascinato per giorni e giorni. In questo momento far sbarcare i naufraghi è diventata un’operazione complicata ed incerta, e i capitani delle navi mercantili non considerano più loro compito gestire la situazione.”
Paradossalmente, la stretta contro le navi umanitarie ha riportato la rotta migratoria più pericolosa del mondo allo status precedente all’istituzione di Mare nostrum, cioè allo status che ha reso possibile la strage di Lampedusa del 2013: in assenza delle Ong, i migranti cercano di raggiungere direttamente le nostre coste, affrontando un viaggio più lungo e pericoloso a bordo di imbarcazioni fatiscenti.
“Qualsiasi miglioramento non sarà all’orizzonte, a meno che i governi europei non decriminalizzino il salvataggio in mare, uno scenario in questo momento completamente slegato dalla realtà politica del continente” — che anzi, dalla Francia di Cédric Herrou all’Italia di Mimmo Lucano, sta andando verso una progressiva istituzionalizzazione del “reato di solidarietà” non solo in mezzo al mare, ma anche sulla terraferma. “Ciononostante, le persone non smetteranno mai di provare a intraprendere questo viaggio: la situazione in Libia sta peggiorando e le persone continueranno a scappare da violenza e combattimenti,” conclude Neugebauer.
È importante ripeterlo: la presenza di navi umanitarie per salvare i migranti nel Mediterraneo non è una situazione auspicabile — è l’extrema ratio per sopperire a una grave mancanza politica e arginare, perlomeno, lo sterminio in atto. La situazione auspicabile, che tutte le sinistre europee dovrebbero chiedere a gran voce, è la presenza di vie legali e sicure per i migranti africani, che non dovrebbero essere costretti a rischiare la vita — con o senza le Ong o le missioni militari — per raggiungere l’Europa. Rivendicare “accoglienza” è una battaglia di retroguardia: bisogna rivendicare libertà di movimento e diritti per tutti, a prescindere dal colore della pelle e dal paese di provenienza.
(Erica Farina ha contribuito alla stesura di questo articolo)
Ora che il Niger viene indicato come la prossima frontiera esterna dell’Unione europea, non passa mese che un leader o un sotto-leader europeo non si rechi nella caldo-umida Niamey o al più nell’infuocata Agadez: l’ultimo in ordine di tempo è il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, appena rientrato dal viaggio con al seguito una trentina di imprenditori europei. E anche Tajani ha voluto visitare Agadez oltre alla capitale.
L’antico caravanserraglio schiavistico, poi avamposto coloniale francese ai bordi del Sahara, da dove provenivano fino a due anni fa il 90 per cento dei migranti subsahariani diretti in Libia e da lì in Europa, è oggi una città caotica – nei racconti di chi la vive – e strapiena di presenze occidentali, anche di militari – in particolare provenienti dalla vicina base di droni americana costata secondo il New York Times 110 milioni di dollari, che ospita oltre 800 «berretti verdi» e da cui partono i comandi dei raid aerei anti-Isis in Libia.
Ma soprattutto è piena di ambasciate, rappresentanze di agenzie dell’Onu e della Ue. E sono in fase di ultimazione i lavori per la costruzione di due nuovi compound per le sedi diplomatiche di Arabia Saudita e Stati Uniti grandi come interi isolati e sormontate da alte mura con garitte alla maniera di quelle di Kabul o Baghdad.
Tajani naturalmente ha incontrato e stretto la mano al presidente del Niger, l’intramontabile Mahamadou Issaufou – siede alla presidenza dal 2011 ma in precedenza è stato primo ministro dal 1993, presidente del Parlamento e capo dell’opposizione in un periodo di frequenti colpi di Stato – che per l’occasione si è fatto trovare in patria. Pare che non sia così frequente, che preferisca soggiornare all’estero, tanto che il soprannome che gli viene appioppato è «Rimbo», dal nome della più famosa compagnia nigerina di autobus transfrontalieri, per altro di proprietà del suo amico personale e politico Mohamed Rhissa Ali, segnalato nei Panama Papers per aver investito gran parte della sua fortuna alle Seychelles, il più vicino paradiso fiscale.
Il Niger totalizza un certo numero di record: è uno dei paesi più poveri al mondo, una persona su dieci è affetta da malnutrizione grave secondo il Programma alimentare mondiale: 2,3 milioni di persone bisognose di aiuti Pam, con un aumento del 21% rispetto al 2017 e il governo calcola che altri 1,4 milioni di nigerini saranno colpiti da insicurezza alimentare nel corso della carestia attualmente in atto. I vertiginosi rincari di riso e zucchero hanno già provocato manifestazioni e tumulti questa primavera, dopo i quali gran parte dei leader della società civile sono stati arrestati.
Contemporaneamente è uno dei paesi con più corruzione al mondo: è al 112 posto nella lista di 180 paesi in base agli indici dell’ong Trasparency international. E infine, più di recente, è diventato il Paese destinatario della maggior percentuale di aiuti della Ue pro capite al mondo. Il fondo europeo di sviluppo ha stanziato per il ciclo 2014-2020 731 milioni di dollari per il Niger, ai quali se ne sono aggiunti prima altri 108 milioni, poi altri 30 per l’assistenza ai profughi nella regione del Diffa e altri ancora sono stati promessi nei giorni scorsi da Tajani, anche se per il momento il presidente del Parlamento di Strasburgo ha preferito non evocare cifre esatte, quanto piuttosto affari.
Tajani ha parlato espressamente della collaborazione con le autorità nigerine come di «un modello che dobbiamo estendere ad altri paesi del Sahel seguendo l’esempio della Turchia dove abbiamo impegnato 6 miliardi di euro per chiudere la rotta balcanica». E si è portato in delegazione, oltre ai trenta «uomini d’affari interessati ad investire in Niger» attraverso una «partnership vantaggiosa», anche i dirigenti della Banca europea per gli investimenti.
Il presidente Issoufou ha annunciato che entro l’anno convocherà una conferenza sugli investimenti prioritari pubblici e privati in favore della forza, anche armata, del G5 Sahel – che oltre al Niger comprende Mali, Mauritania, Ciad e Burkina Faso – cioè il cartello di Stati del Sahel a cooperazione rafforzata che hanno appena ricevuto quasi mezzo miliardo di dollari (414 milioni) di donazioni internazionali – tra Usa, Ue, Canada e Giappone – per finanziare addestramento e forniture militari alla nascente forza militare regionale che dovrebbe stabilizzare l’area. È a sostegno di questa forza del G5 Sahel che l’ex governo Gentiloni ha voluto inviare 479 soldati italiani di cui grazie ad un rocambolesco scaricabarile delle autorità di Niamey si sono quasi perse le tracce. Da notare che a fianco degli eserciti del G5 Sahel ci sono già i 4 mila soldati francesi dell’operazione Barkhane.
Antonio Tajani, arrivato con il compito di «rafforzare la cooperazione strategica», anche «per il ruolo chiave che il Niger sta avendo nel ridurre drasticamente i flussi di migranti irregolari verso la Libia e l’Europa», ha tratteggiato la possibilità di investimenti e trasferimenti tecnologici in vari settori, dall’agricoltura alle energie rinnovabili, ma soprattutto traffico aereo e controllo delle frontiere, attraverso l’impiego dei sistemi satellitari Galileo e Copernicus.
Quanto al «modello Niger » tanto decantato da Tajani, oltre che sulle due basi occidentali di droni, fa leva sulla legge nigerina numero 36 che ha reso illegale ai cittadini stranieri viaggiare a nord di Agadez verso il deserto, cioè lungo le piste più battute perché costellate di pozzi e oasi. Non sono molti i migranti che le guardie nigerine intercettano, solo 7 mila rimandati indietro nel 2017, mentre nel frattempo la corruzione per far chiudere un occhio ai gendarmi ha fatto lievitare i costi dei viaggi verso la Libia e reso la traversata del deserto molto più pericolosa, spesso mortale, come denuncia il reportage apparso su Africa Report di Daniel Howden e Giacomo Zandonini.
I costi proibitivi e i rischi di morte hanno contribuito a far passare quest’anno da 300 mila a soli 10 mila i migranti in transito da Agadez. Ma altri varchi esistono per i passeurs Touareg e Tebu, come ad Arlit al confine con il Marocco e a Seguedine, dove si sono verificate recentemente le maggiori stragi nel deserto.
Le strategie di respingimento europee hanno fatto già triplicare negli ultimi tre mesi i migranti chiusi nei centri di detenzione libici, da 5 mila a 9.300, secondo l’ultima stima dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni e hanno portato le morti in mare a un migrante ogni sette imbarcati. Ma ciò che conta è che le commesse militari, per il monitoraggio delle frontiere e per le agenzie al servizio di questa politica, continuano a maglie sempre più larghe.
Marco Travaglio ha dedicato ben tre editoriali del Fatto, quasi consecutivi, alla difesa della politica del governo in tema di migranti (porti chiusi); il terzo, scritto insieme a Stefano Feltri. Le molte inesattezze e illazioni che costellano questi testi sono già state segnalate e confutate da numerosi articoli. Cito per tutti: Che c’è di vero nell’articolo di Marco Travaglio sulle ong di Annalisa Camilli su Internazionale.
Qui cercherò invece di mostrare come si sviluppa il pensiero di Travaglio – e di quanti lo condividono – per portarlo a sostenere politiche micidiali in campo migratorio come quelle in atto da tempo.
Scelta o racket?
Il principio informatore di tutto il suo discorso – che è quello di tutti i governi europei – è questo: la lotta in corso non è contro i migranti ma contro “i trafficanti di esseri umani. Quelli che prelevano i disperati nei villaggi dell’Africa nera (sic! Nera perché? Per il colore della pelle o per le tenebre che ne avvolgono le culture e le società?) e subsahariana, spesso convincendoli a partire con false promesse, li maltrattano durante il viaggio nel deserto, li depredano dei pochi averi o addirittura li costringono a indebitare le proprie famiglie e gli scafisti che rilevano le carovane in Libia per organizzare le traversate…dopo aver spogliato i migranti degli ultimi spiccioli”. “Parliamo – aggiunge Travaglio – di organizzazioni malavitose gigantesche, potentissime, ricchissime e attrezzatissime, che fanno, disfanno e ricattano i governi locali, dispongono di milizie armate…Sono loro i responsabili del traffico, degli imbarchi e dei naufragi”.
Qui Travaglio evita di dire tre cose. Primo: che se si esclude la tratta delle donne destinate alla prostituzione, spesso schiavizzate già alla partenza, quel termine, “prelevano”, tratta i migranti come burattini e ne sopprime completamente la libera scelta. Ma si tratta di persone dotate di una propria capacità di decidere, anche se spesso mal informate dei rischi a cui vanno incontro mettendosi in viaggi; ma non sempre, perché in qualche modo hanno ormai quasi tutte accesso a internet. Se scelgono di affrontare quei rischi – certamente sperando che a loro vada meglio – è perché considerano peggiore, per loro e per le loro famiglie e le loro comunità (che spesso ne finanziano il viaggio, aspettandosene un ritorno sul lungo periodo) la prospettiva di restare. Certo non vengono “prelevati” coloro che scappano da una guerra o da un conflitto armato; ed è comprovato che molti giovani relegati in un villaggio sperduto o in un ghetto urbano, ma comunque inseriti nel villaggio globale di internet, vivono con frenesia il desiderio di allontanarsene.
Chi fa esistere i trafficanti?
Secondo: che con un decimo di quello che spendono in un viaggio spesso mortale quei migranti potrebbero arrivare in Europa in aereo, se la cosa fosse loro permessa; e anche fare ritorno, se non trovano quello che cercavano – o dopo pochi o molti anni, se lo hanno trovato – sempreché quelle comunità, in cui la maggioranza dei migranti odierni (non parlo dei profughi di guerra in senso stretto) lasciano donne e famiglie a prendersi cura di quel che resta, non siano nel frattempo scomparse. In queste condizioni i trafficanti di uomini, i loro profitti, il loro potere, scomparirebbero d’incanto, come insegna la storia di ogni altra forma di proibizionismo. Il timore di Travaglio e di chi la pensa come lui è ovviamente che l’intera Africa, e magari tutto il Bangladesh o l’Afghanistan, si riversino da un giorno all’altro in Europa. Su questo punto tornerò, ma è noto che la maggior parte dei profughi, sia di guerra che ambientali, si fermano in paesi o territori vicini a quelli da cui sono fuggiti, e che a puntare sull’Europa è solo una ristretta minoranza. E se poi venissero istituite delle quote annuali, molti di quelli decisi a partire, prima di affrontare un viaggio così pericoloso, sarebbero probabilmente disposti ad aspettare un secondo o un terzo turno. D’altronde fino al 2008, prima della stretta economica chiamata austerità, arrivava in Europa almeno un milione e mezzo di “migranti economici” all’anno, ed erano i benvenuti, anche se poi venivano per lo più relegati ai margini della società; e anche ora governi di paesi che rifiutano migranti – “neri”, per usare la lingua di Travaglio – da Africa ed Asia, come Cechia e Ungheria, stanno programmando l’arrivo di diverse centinaia di migliaia di nuovi lavoratori stranieri dall’Est europeo, purché “bianchi” e “cristiani”. E’ una situazione in cui tutta l’Europa si troverà di qui a qualche anno (e in parte si trova già adesso) per motivi demografici.
Chi governa in quei paesi?
Terzo: che quei trafficanti pieni di soldi sottratti a comunità tra le più povere del mondo sono tanto potenti, come spiega Travaglio, da “fare, disfare e ricattare i governi locali”. Ma questi sono proprio i governi a cui l’Europa vorrebbe affidare il compito di combatterli e di fermarli. Il risultato di queste politiche lo vediamo già oggi con chiarezza in Libia: quelli che con la divisa della guardia costiera e le navi fornite dall’Italia riportano a terra i profughi dei gommoni che riescono a catturare sono gli stessi che, sotto forma di milizie armate, li reimbarcano dopo qualche mese, dopo averli imprigionati, affamati, massacrati e torturati per estorcere alle loro famiglie nuovo denaro. Perché sono loro a tenere sotto ricatto il governo libico, che non ha alcuna autonomia nei loro confronti. E sono loro, le organizzazioni criminali a cui noi permettiamo di arricchirsi in questo modo, che già oggi possono tenere sotto ricatto anche i governi dell’Italia o degli altri paesi europei rivieraschi, meta obbligata degli sbarchi che loro stessi organizzano. Come già sta facendo il governo turco, a cui l’Unione europea “perdona” tutto, senza nemmeno protestare, per paura che apra le dighe e riversi, prima sulla Grecia, poi sui Balcani, e poi in tutta Europa, i tre milioni di profughi che tiene in ostaggio con il beneplacito dell’Unione Europea.
Travaglio ha poi un’idea singolare della sovranità territoriale. Dopo averci informato che il naufragio del 2 luglio scorso, che ha registrato 114 dispersi, “è avvenuto a 6 km dalla costa, cioè dentro le acque territoriali della Libia, dove le navi delle Ong non sono mai potute entrare”, aggiunge che “se lo hanno fatto hanno violato il diritto internazionale”. Il che è falso: di fronte a un naufragio, su cui evidentemente la guardia costiera libica non ha saputo o non ha voluto intervenire, anche l’ingresso in acque territoriali straniere non solo è legittimo, ma anche doveroso. Ovviamente, se la gestione è stata assunta da un ente nazionale di coordinamento, questo dovrà chiederne l’autorizzazione. Per Travaglio invece quelle acque sono inviolabili, al punto da considerare inevitabile – “purtroppo esistono anche le tragedie inevitabili” – un naufragio sotto costa a cui nessuno dovrebbe prestare soccorso per non violare la territorialità delle acque. Farlo sarebbe un sopruso, tanto che Travaglio ne ricava un commento come questo: “O vogliamo ritornare alle colonie e ai protettorati di ‘Tripoli bel suol d’amore?’”. Qui c’è la completa inversione delle parti che rivela il modus operandi – per usare un’altra espressione a lui cara – di tutto il ragionamento. Quelli che vanno a salvare, anche a rischio della loro vita (le navi di alcune Ong sono state prese a mitragliate dalla guardia costiera libica), persone altrimenti destinate a morte certa sarebbero i nuovi colonialisti. Mentre governi, come quello italiano, che hanno trasformato in propri ascari le bande di trafficanti che controllano il finto governo di Al Serraj e le “sue” guardie costiere non avrebbero niente a che fare con una pratica vecchia e sperimentata propria dell’epoca coloniale.
Ma la questione del controllo delle acque è molto più generale: Travaglio evita accuratamente di chiedersi che interesse può avere un governo come quello di Al Serraj, che non controlla che una minima porzione del suo territorio, se mai lo controlla veramente, a rivendicare il diritto esclusivo di intervenire in una zona sar(ricerca e salvataggio) di sua competenza, che si estende ben al di là della porzione di coste su cui pretende di governare; e senza avere i mezzi per farlo, tanto da appoggiarsi interamente sugli strumenti e le indicazioni messi a disposizione dalla Guardia costiera italiana. Riportando poi in Libia quei naufraghi “salvati”, o meglio, catturati, ad aggiungersi ai 700mila o al milione migranti che già vi sono intrappolati, sottoposti a ogni sorta di maltrattamenti. Si tratta – e Travaglio lo sa, ma non lo dice – di una forma mascherata di respingimento, pratica vietata dalla convenzione di Ginevra, che il governo libico si presta a realizzare per conto dell’Italia in cambio di finanziamenti di cui non è dato di conoscere né l’entità né la destinazione. Se non è colonialismo questo…
Ma Travaglio confonde facilmente le acque territoriali della Libia con quelle della sua presunta zona sar: “fermo restando – scrive – che tutte le navi (Ong incluse) che trovano profughi su barconi li possono e anzi li devono salvare e tutte le navi militari (in missione per l’UE o per l’Italia) che contrastano i trafficanti salvano pure i migranti nelle acque di rispettiva competenza (dunque non in quelle libiche)”. Dunque, la zona sar della Libia viene tout court assimilata alle acque libiche, dove le navi non libiche non devono intervenire, perché “non di loro competenza”.
E veniamo ora alla questione centrale: pull o push? Le Ong, sostiene Travaglio, contraddicendo persino i principali esponenti, attuali e passati, della Guardia costiera italiana, sono un potente fattore di attrazione che induce i trafficanti a usare gommoni invece di barconi, contando che qualcuno – le Ong – vengano a raccoglierne il “carico umano” al limite delle acque territoriali libiche che i gommoni non sono in grado di oltrepassare di molto. Ma senza Ong il fattore di attrazione, se c’è, non viene certo meno, tanto è vero che non appena sparite le loro navi, abbiamo visto ricomparire i barconi, che certo costano di più (sono anch’essi mezzi a perdere destinati alla distruzione), ma trasportano in un viaggio solo da quattro a sette-ottocento profughi, tanto che affondando ne portano a morire da tre a cinque volte di più di un singolo gommone. D’altra parte si è visto che i gommoni non sono affatto scomparsi. Arrivano fino a 80 miglia dalla costa, invece delle 12 di prima, e magari anche oltre prima di entrare in panne. E nessuno saprà mai quanti ne sono già affondati, e con quante persone a bordo, perchè è stato imposto di non segnalarne la presenza.
Per avvalorare la tesi pull, fattore di attrazione delle Ong, Travaglio si inventa una partenza sincronizzata tra navi delle Ong e imbarcazioni degli scafisti: “Navi di Ong salpavano all’improvviso dai porti europei (soprattutto italiani) e facevano rotta verso un punto X in simultanea, o addirittura in anticipo sulla partenza di un barcone carico di migranti dalla costa libica che, guarda caso, puntava diritto verso X”. Certamente le navi delle Ong sono più veloci dei gommoni degli scafisti, ma l’idea che partendo dall’Italia le une e dalla Libia gli altri, entrambi raggiungano simultaneamente i limiti delle acque territoriali libiche, il famoso punto X, è pura fantasia; che Travaglio sostiene confermata da intercettazioni, rilievi satellitari e filmati “che tutti possono vedere”, perché sono in mano alla Procura di Catania, che peraltro non ha ancora concluso le sue indagini. E così arriva a sostenere che Annalisa Camilli, la sua critica, “si arrampica sugli specchi”, perché cita una ricerca del gruppo di geografia forense della Goldsmiths Institute che dimostra esattamente il contrario; mentre quella che non è altro che la personale interpretazione che Travaglio dà del materiale acquisito dalla Procura di Catania – che avrebbe “acclarato”, anche se non “accertato” (sic!) le responsabilità delle Ong – sarebbero fatti, “più forti di qualunque gruppo di oceanografia”. Per questo quelli effettuati dalle Ong non sono salvataggi, bensì “consegne”. E per documentarlo Travaglio non trova di meglio che chiamare a testimoniare l’odiato quotidiano Repubblica, ben sapendo che è stato anch’esso un indefesso difensore delle politiche del ministro Minniti: quello che non ha fatto che aprire la strada a quelle di Salvini, che Travaglio esecra, cioè del governo Conte, che Travaglio sostiene invece con tutte le sue forze.
In realtà l’unica vera sincronizzazione di cui si ha notizia è quella che il 24 giugno scorso, ha preceduto, la visita di Salvini in Libia: circa mille migranti partiti tutti insieme dallo stesso punto della costa e alla stessa ora su una decina di gommoni – fatto mai prima verificatosi – in perfetto sincronismo con la partenza delle vedette libiche che li hanno prontamente intercettati. Una dimostrazione pubblica di efficienza, programmata a beneficio del nostro ministro degli interni, che è costata almeno 100 morti annegati, e che dimostra, questa sì, l’intesa perfetta tra trafficanti e Guardia costiera libica: un evento su cui nessuno, dopo la denuncia del comandante di Open Arms Oscar Camps, ha più voluto indagare.
Ma la questione fondamentale su cui i sostenitori del fattore pull soprassiedono è la presenza del fattore push. Perché mai i migranti, quando vedono una vedetta della guardia costiera libica, si buttano in mare e preferiscono annegare piuttosto che venir “salvati”? Che cosa li spinge a fuggire e a non voler ritornare in Libia, costi quel che costi? Perché sanno benissimo che una volta “salvati” ritorneranno in mano a chi li ha massacrati, violate, torturati, venduti come schiavi, rapinato loro e le loro famiglie per mesi e a volte per anni: cioè in quei porti che Salvini vorrebbe venissero dichiarati “sicuri”. Nessuno di loro vuole tornare in quell’inferno; e il fatto stesso di venire dalla Libia fa di ognuno di loro un profugo meritevole di protezione internazionale, qualsiasi sia il suo paese di origine. Così, di fronte alla drastica riduzione del numero degli sbarchi nessuno, e meno che mai Travaglio, si è chiesto o si chiede che cosa ne sia di coloro che non arrivano più, che non partono più, o che vengono intercettati, catturati e riportati dalla guardia costiera libica là da dove stavano fuggendo. Ma è chiaro che in queste condizione quello che gioca è indubitabilmente il fattore push…
Travaglio sostiene inoltre che andando a raccogliere il loro “carico umano” a ridosso delle acque territoriali libiche (il che peraltro non sempre è vero) le Ong proteggono di fatto gli scafisti da un possibile arresto, impedendo di fatto alle Procure italiane, come ha denunciato il procuratore di Catania Zuccaro, di portare avanti le loro indagini che, come è noto, languono. Ma è noto che gli scafisti non salgono né sui gommoni né sui barconi, alla cui guida mettono sempre qualche migrante a cui fanno lo sconto e che magari non ha mai visto il mare prima, tanto che la maggior parte delle persone arrestate come scafisti sono in realtà dei disperati che non hanno nemmeno i soldi per pagarsi il viaggio. Se le indagini devono partire da loro invece che da chi sta al vertice della cupola dove trafficanti e uomini del governo libico si incontrano – e va riconosciuto che l’impresa è tutt’altro che facile – difficilmente si arriverà mai a mettere le mani su qualche organizzazione di trafficanti.
Meglio allora prendersela con le Ong. Mettendole fuori gioco, molte più vite che si potevano salvare andranno perdute, ma si ridurranno anche gli sbarchi. Meno sbarchi; anzi, meno partenze, meno morti, dice Salvini, e con lui Travaglio. In termini relativi, rispetto cioè a quelli che partono, è vero il contrario: i morti sono molti di più; in numero assoluto, rispetto a quando le partenze erano dell’85 per cento di più, è certamente vero. Ma, ancora una volta, che ne è di quelli che non sono partiti o che vengono riacciuffati dalla guardia costiera libica? Si stima che i morti durante il viaggio di terra, che comprende per lo più una lunga permanenza in Libia, siano almeno il doppio di quelli periti in mare, che sono ormai – quelli accertati – più di 35mila. E quanti di quei 70mila sono morti in Libia, là dove li vuole ricacciare la politica italiana ed europea dei respingimenti mascherati?
Per questa strada Travaglio approda disinvoltamente a rivalutare la politica di Berlusconi che aveva stretto con Tripoli un patto che equivaleva a un vero e proprio respingimento, e per il quale l’Italia ha già subito una condanna dalla CEDU, relativamente a un singolo episodio. Quel patto, secondo Travaglio, “era vergognoso col tiranno Gheddafi, ma potrebbe essere proficuo col governo al-Serraj”; cioè, quello che era vergognoso con Berlusconi potrebbe essere proficuo con Conte…; anche se quello che veniva fatto ai migranti sotto Gheddafi impallidisce di fronte a quello che viene permesso, ma anche promosso e finanziato, sotto il governo Al Serraj.
Non resta che affrontare l’argomento principe di tutti i nemici dei migranti, che Travaglio riassume così: “L’Italia non può accogliere 700mila o un milione di nuovi migranti, e nemmeno un quinto di essi, pena conseguenze sociali e politiche che potrebbero addirittura farci rimpiangere Salvini”. L’Italia forse no, ma l’Europa sicuramente sì, se invece di accanirsi sulla protezione dei confini esterni ci si impegnasse finalmente a legare il futuro e l’esistenza stessa dell’Unione Europea all’abbattimento delle barriere interne, quelle tra Stato e Stato, con un permesso di soggiorno europeo. Ma va anche ricordato che tra la fine del secolo scorso e il 2008 l’Italia ha accolto, e di fatto regolarizzato con una sfilza di sanatorie, molte delle quali decise dal partito di Salvini, allora al governo, quasi cinque milioni di migranti, in alcuni periodi al ritmo di 300mila all’anno. Poi è cambiata, in Italia e in Europa, la politica economica, avvitandosi sempre di più in misure di austerità le cui conseguenze si vedono, ben prima che sulla stretta sui migranti, sul peggioramento delle condizioni di vita di tutti coloro che non vivono sullo sfruttamento di altri.
Così chi oggi riesce a raggiungere l’Italia per arrivare in Europa trova ad accoglierlo un sistema che lo stesso Travaglio non esita a deplorare: è “il destino di quei disperati tra le gabbie dei Cie, le grinfie dei ladroni della solidarietà (finta) che intascano 35 euro a migrante in cambio da pasti da fame, le spire della criminalità più o meno organizzata e le zanne dei nuovi schiavisti tipo Rosarno” (dove ci sono peraltro anche aziende che rispettano i diritti di chi lavora per, e con, loro). Sembra che quel trattamento sia un destino ineludibile, mentre è una politica cinica, stupida e spietata, che non basta comunque a scoraggiare gli arrivi, ma che concorre a spaventare la gente, a far odiare o disprezzare i migranti, a impedire il loro inserimento sociale, a cacciare per strada coloro a cui non viene concesso alcuna forma di protezione – internazionale, sussidiaria o umanitaria – a trasformare la nostra agricoltura in tanti Lager, a fornire manodopera alla criminalità organizzata e carne umana allo sfruttamento della prostituzione. Ma, soprattutto, a impedire a chi è già arrivato di fare ritorno o di fare visita alle comunità e ai territori che ha lasciato, perché una volta usciti dall’Italia non vi si rientra più. Così si trasforma in una condanna a vita alla marginalità e alla “clandestinità” quello che potrebbe essere un legame tra paesi, comunità e culture diverse; e si riduce alla disperazione una umanità che potrebbe invece essere enormemente valorizzata, perché coloro che affrontano un viaggio rischioso come quello a cui devono sottoporsi i migranti di oggi sono la parte migliore, più intraprendente e spesso anche più istruita di quello che un paese dell’Africa o del Medioriente può offrire e che un paese dell’Europa può sperare di accogliere. Se fosse più umano…
il manifesto, 11 luglio 2018. Se una causa è giusta, se comporta la vita o la morte di milioni di persone, , non basta manifestare solidarietà alle vittime, occorre mettere in gioco se stessi.
Se si vuole manifes7are davvero la solidarietà da chi cerca rifugio, se si pensa che non basta firmare o promuovere appelli, bisogna dimostrare che si è capaci di pagare un prezzo per una causa sacrosanta come è quella di lasciare aperti i porti e tendere le proprie mano per accogliere chi è costretto a fuggire. È ciò che ha deciso un gruppo di religiosi e religiose protestando davanti al Parlamento con un presidio permanente e tre giorno consecutivi di digiuno a rotazione. Ne informa Luca Kocci qui di sguitoAnche eddyburg sta valutando le modalità della sua partecipazione all’iniziativa(e.s.)
Il manifesto, 11 luglio 2018
“Digiuno di giustizia” in marcia a Roma
«Disobbedienza civile, basta tacere»
di Luca Kocci
Non possiamo accettare in silenzio queste politiche contro i migranti che sono un insulto alla civiltà e all’umanità. Ecco perché siamo qui». Così il missionario comboniano Alex Zanotelli spiega il senso del «Digiuno di giustizia in solidarietà con i migranti», promosso insieme all’ex vescovo di Caserta Raffaele Nogaro, a don Alessandro Santoro della Comunità delle Piagge di Firenze, a suor Rita Giaretta delle orsoline di Casa Ruth di Caserta (che lavorano con le donne vittime di tratta e di sfruttamento sessuale) e al sacramentino Giorgio Ghezzi di Castel Volturno.
Alle sue spalle c’è il cupolone e piazza San Pietro, attraversata dai turisti incuriositi da quello che sta succedendo. Una cinquantina di persone fra cui diversi religiose e religiosi – non tantissime, ma non erano attesi i grandi numeri – in cerchio oltre le transenne che delimitano il colonnato del Bernini (ordine della polizia) attorno ad una lampada accesa inviata dai francescani di Assisi, assenti ma aderenti all’iniziativa.
Arrivano gli scout di Caserta che aprono lo striscione («Digiuno di giustizia»). «Digiuniamo perché il digiuno è uno degli strumenti della resistenza nonviolenta», aggiunge Zanotelli, «contestiamo gli slogan “America first” o “Prima gli italiani”, c’è spazio per tutti». «È un tentativo di risvegliare le coscienze dei cristiani, e non solo», spiega Santoro, «c’è un silenzio che spaventa, invece ci vorrebbe un tuono che lo spezzi e denunci queste politiche».
Il piccolo corteo si muove lungo via della Conciliazione, “scortato” da qualche agente in borghese: non si sa mai ci sia qualche pericoloso sovversivo infiltrato! Ci sono diverse suore (comboniane, orsoline, di santa Giovanna Antida Thouret), alcuni religiosi, aderenti alla Comunità di base di San Paolo (che in questi giorni ricorda Giovanni Franzoni ad un anno dalla morte) e alla Rete Radié Resch, c’è Vauro. «Nel Mediterraneo e nel Sahara si sta consumando un olocausto, fra l’indifferenza, la complicità e a volte anche il consenso di molti – ci dice Vauro – un crimine contro l’umanità che bisogna denunciare e combattere, cattolici e uomini e donne di sinistra insieme, mettendo da parte differenze e distinzioni».
Si supera il Tevere, si cammina – sul marciapiede – lungo corso Vittorio Emanuele, fino a piazza Navona. Di fronte a Palazzo Madama gli scout provano ad aprire lo striscione, subito fermati dai solerti rappresentanti delle forze dell’ordine: «Non si può, è vietato!». Si arriva a piazza Montecitorio dove si forma il piccolo presidio, questo autorizzato. Don Santoro legge l’appello: «Sono oltre 34mila le vittime accertate perite nel Mediterraneo per le politiche restrittive della Fortezza Europa», «è il naufragio dei migranti, dei poveri, dei disperati, ma è anche il naufragio dell’Europa che rifiuta chi bussa alla sua porta» e dell’Italia che «decide di non accogliere, di chiudere i porti», «è il sangue degli impoveriti, degli ultimi che interpella tutti noi, in particolare noi cristiani che saremo giudicati su: ero straniero e non mi avete accolto».
Suor Gabiella Bottani, comboniana, coordinatrice della rete mondiale delle religiose contro la tratta: «La chiusura delle frontiere è motivata con l’obiettivo di combattere la tratta. Invece la alimenta, perché lasciando donne e uomini nell’irregolarità si favoriscono le organizzazioni criminali che li sfruttano». Il presidente di Pax Christi, monsignor Giovanni Ricchiuti, telefona e comunica l’adesione di Pax Christi. Uno dei promotori, monsignor Nogaro (assente per ragioni di salute) spiega al manifesto: «Abbandonare i migranti in mare è un abuso di umanità che questo governo sta compiendo, bisogna organizzare una disobbedienza civile, non si può più tacere».
In serata il presidio si scioglie. Oggi si riprende con il digiuno a staffetta, a cui hanno aderito in molti. «I rappresentanti del governo – dice Santoro – hanno giurato sulla Costituzione della Repubblica ma il giorno dopo, con i respingimenti, hanno violato quel giuramento. Sarebbe bello se il ministro Salvini venisse qui in piazza a confrontarsi con noi». Salvini, però, non si è fatto vedere.
Alla fine è stato autorizzato lo sbarco degli ultimi migranti recuperati in mare. Permesso dato solo perchè l'equipaggio della Von Thalassa che li aveva salvati sembra sia stato messo in pericolo di vita. Rimane intatta la posizione del governo: porti chiusi! (a.b.)
Huffington postpriva di prospettive che non siano quelle delle più feroci tirannidi, che caratterizzano ormai una UE alla quale sempre più vergognarsi di appartenere (e.s.)
Alla fine Giuseppe Conte ha trovato d’accordo tutti. A spese dell’Italia. E, ovviamente, dei profughi. Il documento finale del vertice di Bruxelles è praticamente vuoto, ma mette in chiaro che le differenze in seno all’Unione europea non sono poi così profonde, anche se tra non molto la porteranno allo sfascio.
Destre e sinistre sono infatti unite dall’assunto che il nemico dell’Europa, quello da cui dobbiamo difenderci e contro cui occorre erigere barriere sempre più alte, sono i profughi: gli esseri più miseri e disgraziati della Terra. Ma le unisce anche il fatto che Salvini, sul sentiero già tracciato da Minniti - benché con toni decisamente meno educati - sta lavorando, e continuerà a lavorare, “per il bene” di tutti gli Stati membri. Grazie anche a lui, infatti, il regolamento di Dublino è stato blindato: avrebbe potuto, forse, essere cambiato a maggioranza; adesso ci vuole l’unanimità. Resterà com’è. Poi sono stati previsti dei “centri di controllo” (veri e propri campi di concentramento) che però nessuno vuole; se mai si faranno, sarà solo, come dice Macron, nei paesi di arrivo: Grecia, Italia e Spagna.
Certo, arriverà, forse, anche qualche soldo in più (500 milioni, sottratti ai fondi di cooperazione allo sviluppo) da spendere in opere di difesa: che vuol dire pagare le bande che controllano sia il traffico di esseri umani che il loro “salvataggio” (per riportarli da dove cercavano di scappare), come ben si evince dalle circostanze rilevate da Oscar Camps, dell’Ong Proactiva Open Arms, che ha segnalato la partenza di dieci gommoni carichi di circa mille profughi, tutti dallo stesso punto e alla stessa ora, contemporaneamente alla partenza delle vedette libiche che dovevano dimostrare la loro capacità di salvarli mentre tutte le navi delle Ong erano state bloccate con le motivazioni più varie; il tutto alla vigilia della visita di Salvini in Libia: una dimostrazione di efficienza costata almeno cento morti, ma forse molti di più. In cambio di quei 500 milioni Conte ha accettato di contribuire ai 6 miliardi da devolvere alla Turchia perchè continui a trattenere sul suo territorio i profughi siriani e irakeni che vorrebbero raggiungere l’Europa, lasciando a Erdogan la libertà di fare quello che vuole tanto ai “suoi” profughi che ai “suoi” sudditi, sia kurdi che turchi “dissidenti”, cioè democratici.
Così l’Unione europea gli ha messo in mano la possibilità di tenerla sotto un ricatto permanente. E ora si cerca di istituire lo steso meccanismo con la Libia, che però non è uno Stato; sia perché il governo di Al Serraj non controlla che una parte del paese, sia perché in realtà è lui a essere controllato dalle bande che gestiscono i flussi dei migranti: sia in uscita, nella veste di smuggler, che nel riportarli a terra, indossando le divise della guardia costiera. Così si consegnano anche a loro le chiavi degli equilibri europei: ma con una valvola di sicurezza. Se le bande libiche non staranno ai patti, o vorranno qualcosa di più, ci sarà una seconda linea di difesa della Fortezza Europa: e sarà l’Italia. Dove dovranno sbarcare i profughi sfuggiti alla - o imbarcati dalla - rete libica o all’annegamento, una volta raccolti da una nave commerciale o della istituenda Guardia costiera europea; perché, e su questo l’accordo è stato pieno, le navi delle Ong non dovranno più sbarcare, né rifornirsi, né navigare e, meno che mai salvare qualcuno nel Mediterraneo. E anche di questo si farà carico Salvini. Ma, come ha detto Macron, il porto di sbarco non potrà che essere italiano (e in effetti ha poco senso far navigare una nave dal canale di Sicilia fino a Marsiglia o a Valencia).
Poi, dopo la selezione negli hotspot già in essere, o nei centri di controllo che nessuno vuole e che per questo non si faranno, i “veri profughi” prenderanno la strada dei paesi che “volontariamente” se li spartiranno. Ma siccome, quando la spartizione era obbligatoria, non li ha presi quasi nessuno, da ora in poi i paesi disposti ad accoglierli saranno ancor meno e i più resteranno in Italia. E gli altri? I cosiddetti “migranti economici”? Quelli verranno rimpatriati tutti, come ha promesso, tuonando, Capitan Fracassa in campagna elettorale (in questo preceduto, per la verità, da Berlusconi), pronti entrambi a imbarcare per destinazioni ignote i 500mila “clandestini” presenti in Italia. Con i soldi dell’UE, che non li ha stanziati e non li stanzierà. E con gli accordi con i paesi di provenienza (se identificati), che non ne vogliono assolutamente sapere, se non per mettere in scena qualche volo dimostrativo. E allora?
Allora, dopo aver riempito qualche Cie, ai “migranti economici” verrà consegnato, come è stato fatto finora, un foglio di via con l’ingiunzione di abbandonare il paese entro 7 giorni. Ovviamente non se ne andranno: non saprebbero né dove né come. Entreranno ufficialmente nella categoria giuridica dei “clandestini” e si trascineranno da un campo di pomodori a uno di frutta (a due euro all’ora); da una baraccopoli all’altra; da un marciapiede all’altro, se donne; e da un sottopasso all’altro se saranno ancora una famiglia; con la certezza di incappare prima o dopo in un progrom o nella malavita.
È questo abbandono, accoppiato con un sistema di accoglienza truffaldino messo in capo ai Prefetti (nessuno dei quali è ancora finito in galera, nonostante le malversazioni gigantesche perpetrate senza alcun controllo da molti dei loro affidatari) ad aver screditato anche i tanti operatori onesti impegnati nell’accoglienza fino allo spasimo. Ma anche ad aver creato allarme sociale e rancore da entrambe le parti. Sono questi due meccanismi, e non il numero degli arrivi, a permettere a Salvini&Co di presentare i profughi come un’invasione, riscuotendone un dividendo elettorale crescente. Fino a quando le forze sparse impegnate nei salvataggi e nell’accoglienza non si uniranno per mettere a punto un’alternativa per mettere a punto un’alternativa alle politiche dell’Unione europea più umana, più costruttiva, più realistica,
.
Adn Kronos, 17 giugno 2018. I nostri governanti non si segnalano solo per mancanza di umanità, ma anche per l'ipocrita arroganza con la quale capovolgono la realtà. Ma c'è chi, dall'Italia, ristabilisce la verità. Con commento (e.s.)
Il nostro ministro degli interni Matteo Salvini ha fatto e sta facendo fuoco e fiamme per chiudere i porti, perseguitare le Ong che salvano i fuggiaschi migranti, ricacciare questi ultimi nei paesi che l'Europa ha distrutto e dai quali tentano di fuggire. La presidente di Medici senza Frontiere Italia dichiara che «il governo italiano e altri governi europei hanno vergognosamente fallito nelle loro responsabilità umanitarie e anteposto la politica alla vita di persone vulnerabili». Eppure il nostro Salvini ha l'incredibile faccia tosta da trasformarsi - per il grosso pubblico, - da orco quale è in fatina azzurra (e.s)
ADN Kronos, 17 giugno 2018 Medici senza frontiere: «Salvini, non c'è proprio nulla da festeggiare»
«Mentre la Lega e i 5Stelle esultano, su Adn Kronos il comunicato di MsF Italia: Msf Italia: "Non c'è niente da festeggiare"»
Anche se siamo sollevati per la fine di questo inutile viaggio, oggi non c'è proprio niente da festeggiare. Ci auguriamo che sia la prima e ultima volta che persone soccorse in mare, sopravvissute all’attraversamento del deserto e ad orribili violenze in Libia, si trasformino in moneta di scambio per un gioco politico tra stati europei”. A dichiararlo Claudia Lodesani, presidente di Medici Senza Frontiere Italia.
Inoltre per Karline Kleijer, responsabile per le emergenze di Msf, “gli uomini, le donne e i bambini a bordo dell'Aquarius sono fuggiti da conflitti e povertà e sono sopravvissuti ad orribili abusi in Libia. Sono stati trasferiti da una barca all'altra come merci e hanno dovuto sopportare un inutile e lungo viaggio in mare”. Ecco perché, aggiunge, "siamo grati alla Spagna per essere intervenuta, anche se il governo italiano e altri governi europei hanno vergognosamente fallito nelle loro responsabilità umanitarie e anteposto la politica alla vita di persone vulnerabili”
Avvenire, 15 giugno 2018. Mentre i disperati sfuggono dall'inferno
(e.s.)
La realtà della cronaca quotidiana supera le analisi più crude e veritiere del comportamento dell'Europa e dei suoi governanti, ma non sembra provocare nessun soprassalto nell'atteggiamento dalla maggioranza dei media, nè in quella dei cittadini. Un manto d'ipocrisia e un furbesco capovolgimento dei fatti tentano di celare l'abisso nel quale la "nostra" parte del mondo è caduta. La denuncia pubblicata dal giornale dei vescovi italiani è un efficace contrappunto di quello di Franco Berardi Bifo, L'effetto Italia e la fine dell'Occidente, che abbiamo ripreso ieri(e.s.)
Avvenire, 15 giugno 2018 L'avvilente «ruota della fortuna». La sofferenza di chi migra e le realtà capovolte
di Angelo Scelzo
L’ultimo affronto al popolo dei naufraghi è ormai questo. Anche i “salvagenti” possono servire a poco, se insieme non si pesca il jolly della combinazione giusta, un avvilente e angoscioso “filotto” che, tra caso e fortuna, schiera la serie degli elementi in gioco: l’imbarcazione di soccorso – se “privata” o “militare” – il Paese d’origine e soprattutto il porto d’approdo, nel quale il via libera è regolato dal semaforo impazzito di governi che, da un giorno all’altro, cambiano di segno, se non proprio di natura. Ai migranti dell’Aquarius saranno forse sfuggiti gli sviluppi delle situazioni politiche in Italia e in Spagna, e neppure avranno prestato molta attenzione al repentino cambio di scena avvenuto sui due rispettivi fronti, con i porti italiani già divenuti poco a poco più lontani improvvisamente chiusi e quelli iberici diventati a un tratto più accoglienti.
E per sovrappiù ci sono i francesi: erano arrivati a respingere in malo modo donne incinte alle frontiere e ora si sono riscoperti polemicamente solleciti e solidali... Una realtà capovolta, e nel giro di poche settimane. Non solo parole, ma regole cambiate sul campo, nel giro di poche ore. Come quella della netta differenziazione tra salvataggi operati da Guardia costiera italiana e altri navi militari e quelli effettuati, in lealissima e legalissima collaborazione con la stessa Guardia costiera, da imbarcazioni di Organizzazioni non governative (di tredici che erano, ora ne è rimasta una sola nelle vaste acque del Canale di Sicilia, e messa in condizione di non soccorrere). Queste ultime confinate senza scampo nell’orbita dei sospetti.
È probabile che anche di questa diffidenza, chi viene a trovarsi nella disperata ricerca di salvezza, non sia al corrente, e finisca per non riflettere sul fatto che una nave non vale l’altra, come pure un Paese non vale l’altro, e infine - quel che più conta - un porto può essere alla fine non uguale all’altro. La differenza può risultare infatti fondamentale: si può trattare - e d’ora in poi, in Italia sarà così - di un porto chiuso, quasi un ossimoro pensando al senso dell’approdo.
È difficile aggiungere anche solo un’oncia di oltraggio, all’odissea di chi, per mare o per terra, va in cerca di salvezza o di patria in un mondo scosso dalle ondate telluriche di un caotico cambio d’epoca. Ma l’indecenza di questa sorta di “ruota della fortuna” da “giocarsi” in mezzo al mare, è grande. Grande e insopportabile, perché è certo la peggiore e la più odiosa delle derive di una tragedia di fronte alla quale sarebbero le “politiche” a doversi inchinare, evitando l’incongruo rifugio nell’ipocrisia e nella meschinità delle regole cieche e sorde.
Come può sfuggire l’enormità del divario tra le tragedie in atto e la pochezza delle regole vigenti? Prima delle regole viene infatti una scelta di campo; più forte e più efficace delle norme è l’attitudine, l’atteggiamento, un «sì» o un «no» all’accoglienza del povero e del perseguitato, alla capacità di vedere, finanche nelle visioni offuscate del momento, i lineamenti di un mondo come casa comune della famiglia umana.
Quello a cui si assiste è per il momento solo un gigantesco e misero spot all’industria dello scarto, più volte evocata da papa Francesco. Per la natura e gli elementi in campo, siamo anzi di fronte alla sua massima rappresentazione: lo sprezzo e la noncuranza della vita umana, trattata come la variabile indipendente di un 'fenomeno' da contrastare e sconfiggere con ogni mezzo. La fortuna o il caso potranno assistere perfino l’una o l’altra imbarcazione con il carico di persone – uomini, donne, bambini a bordo. Si potrà essere salvati dall’equipaggio sbagliato. E nel posto sbagliato.
All’Aquarius, finita anche in mezzo alla bufera politica e alle tempeste marine nel lungo tratto tra Italia e Spagna, è toccata una sorte inedita: accompagnata e scortata fino al porto di Valencia da due navi della Marina italiana. Come dire: ponti d’oro ai fuggitivi. E salva, così, la politica della fermezza, la “voce alzata” che “paga”. Passano i giorni, ma ancora non paga il senso di scoramento e di sconfitta che si accompagna a tutto questo.
Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile
Qui il link al testo integrale del discorso di papa Francesco
la Nuova Venezia,
LA BATTAGLIA DI GHOLAM NAJAFI
«VENIAMO DALLA POVERTÀ PIÙ ASSOLUTA, SENZA UNA IDENTITÀ»
di Vera Mantengoli
Lettera al capo dello Stato per la cittadinanza
«Veniamo da villaggi e città poverissime e non abbiamo una identità. Io come afghano, quando vado in Ambasciata per un semplice rinnovo del passaporto, mi sento chiedere i documenti dei miei genitori. Ma i miei genitori sono morti senza alcun documento». Gholam Najafi è arrivato al porto di Venezia nel 2007, all'età di 16 anni, dopo un viaggio della "speranza", in fuga dall'Afghanistan in guerra, iniziato a 10 anni. Era un minore non accompagnato, senza certezze sulla data di nascita, senza istruzione di base. Aiutato dai servizi sociali e affidato ad una coppia muranese che è la sua famiglia, Najafi oggi fa il portiere di notte; ha conseguito il diploma di scuola media superiore poi ha preso una laurea triennale e infine quella magistrale a Ca' Foscari. Porta la sua storia, raccontata nel libro Il mio Afghanista nelle scuole per parlare di immigrazione, guerre e migranti con i ragazzi.
Alla notizia del connazionale, morto sul camion in A57 mercoledì, Gholam si rattrista. Per uno che ce la fa, come lui, tanti vivono tragedie, legate al rimpatrio. «Molti si suicidano per non essere rimpatriati, perché siamo tutti consapevoli di ciò che avviene nei nostri paesi. E nessuno ne parla. Nessuno vorrebbe lasciare il proprio villaggio e i propri parenti ma cerca una illusione di vita vera lontano». Per Gholam il rimpatrio è disperazione. «Oggi i nostri paesi sono indeboliti, non siamo ancora in grado di viaggiare con un documento in regola ma siamo costretti a salvarci dalla guerra», racconta. Altro che "pacchia", per dirla alla Salvini. Per Najafi le storie di molti clandestini sono ben più complicate di quanto la politica pensi. I documenti, a volte, neanche esistono. Come nel suo caso. Per questo Najafi ha scritto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Non riesce ad ottenere la cittadinanza per l'assenza di documenti originali nel suo paese. «Mi rivolgo a Lei nella speranza che ciò che le Ambasciate, italiana e afghana, e la Prefettura di Venezia non possono fare per la particolarità del mio caso, possa essere affrontato e reso più facile con la serenità di giudizio del Presidente di quello che considero il mio Paese», è il passo finale della sua lettera. Con cui chiede di avere una identità, finora negata.
AMADI: «MODIFICARE IL TRATTATO DI DUBLINO»
di Vera Mantengoli
«L'ideatore dell'Orient Experience: “La politica deve creare luoghi di condivisione, non dividere”»
Ha ancora davanti agli occhi le immagini di Zaher Rezai e nelle orecchie i versi intensi delle poesie del giovane afghano, morto schiacciato da un Tir nel 2008, cercando di sfuggire ai controlli di frontiera del Porto. Hamed Amadi, imprenditore afghano ormai venezianizzato di 38 anni, ideatore dell'Oriente e African Exprience, a quel tempo faceva da interprete per le forze dell'ordine. Fu lui a chiamare i genitori di Zaher e comunicare l'orrenda realtà: «Le pagine erano piene di piantine di immobili e all'inizio si pensava che potesse essere la bozza di un piano» ricorda Hamed Amadi. «Quando iniziai a tradurre i versi, capii che scriveva poesie nel quaderno che usava probabilmente come falegname in Afghanistan e mi misi a piangere. Erano piantine di case afghane, con appunti degli interventi da fare».
Amadi è arrivato in Italia nel 2006, a 25 anni, come regista. Doveva essere un viaggio di piacere alla Mostra del Cinema al Lido, ma dopo la proiezione del suo film Maama, iniziò a ricevere minacce di morte dai talebani e chiese asilo in Italia. Iniziò come interprete e al Forte Rossariol, dove vivevano i rifugiati minori, inventò le cene in cui ognuno preparava un piatto del proprio Paese. Il successo che ebbero è quello che oggi lo ha portato a gestire cinque locali e 75 dipendenti con una sola ricetta: mescolare le culture. «Pur essendo coinvolto in tante tragedie» ricorda «quello che mi è sempre rimasto dentro è stato vedere il coraggio e i sogni di chi intraprendeva un viaggio di quel tipo. Parliamo di persone che lasciano tutto pur di inseguire una speranza ed è questo coraggio che lo Stato dovrebbe cogliere perché chi mette in gioco la propria vita per il sogno di una vita migliore, ha tantissimo da dare, ma bisogna metterlo nelle condizioni di farlo».
Secondo Amadi «la pacchia» di cui ha parlato il neoministro dell'interno Matteo Salvini è il risultato di una precisa scelta politica: «Il governo attuale sta facendo un autogol se non modificherà il Trattato di Dublino, l'origine di tante tragedie. Non serve militarizzare le frontiere perché chi vuole scappare troverà sempre un modo di farlo. Sono per la fotosegnalazione, ma non per bloccare le persone in uno Stato dove magari non vogliono nemmeno stare. Inoltre quella che chiama pacchia Salvini è la conseguenza dei tempi lunghissimi di attesa che uccidono ogni speranza. Chi attende non può lavorare, non può fare nulla». Hamadi è per la creazioni di spazi in cui le culture si possono conoscere: «La politica dovrebbe fare questo, trovare dei luoghi di condivisione» spiega «Quando le persone si conoscono da vicino le distanze culturali spariscono e si capisce che siamo un'unica grande famiglia.
MORTO NEL TIR
ERA IN FUGA DALL'AFGANISTAN
di Carlo Mion
«Il giovane di circa trent'anni si era nascosto nel vano portaoggetti al porto di Patrasso. La procura ha disposto l'autopsia»
Gli inquirenti sono convinti che l'uomo trovato morto all'interno del porta oggetti del rimorchio del Tir fermato lungo l'A57 mercoledì dalla polizia stradale, sia afghano. Il camion greco, sbarcato al porto di Venezia, era partito da Patrasso dove ancora oggi migranti afghani cercano di salire sui mezzi diretti in Italia per raggiungere l'Europa. Anche se in maniera decisamente minore rispetto al passato quando almeno tre compagnie di traghetti garantivano i collegamenti tra i porti della Grecia e quelli italiani sull'Adriatico.Le indagini. Ad occuparsi della sua morte sono gli agenti della Squadra Mobile di Treviso e la procura del capoluogo della Marca. Infatti il camion al momento del controllo è stato fermato dalla polizia stradale all'altezza di Venezia Est, ma in provincia di Treviso.
Il pubblico ministero di turno ha disposto l'autopsia per stabilire le cause della morte e il rilievo delle impronte per risalire alla possibile identità. Morto da giorni. I poliziotti della stradale si sono accorti della presenza del morto perché, durante il controllo, avvicinandosi al vano porta oggetti che si trova sotto al rimorchio, hanno sentito un forte odore. Fatto aprire il vano la tragica scoperta. Secondo il medico intervenuto sul posto, il corpo in avanzato stato di decomposizione era lì da diversi giorni anche se va sottolineato che le temperature elevate di questi giorni sia in Grecia che da noi, hanno accelerato il processo di decomposizione. Questo è avvenuto ancora di più mentre il camion imbarcato a Patrasso è rimasto nella stiva del traghetto, dove si toccano temperature anche oltre i 35 gradi.
Quasi sicuramente si tratta di una morte da malore causato da alte temperature. Il porto dove è avvenuto l'imbarco, il sistema usato per nascondersi e la destinazione, fanno pensare che si tratti di un afghano che voleva raggiungere l'Europa. L'autopsia consentirò di controllare se in quel che resta degli abiti avesse dei pezzi di carta o qualche cosa per risalire all'identità. Per gli inquirenti, fino a questo momento, non ci sono elementi per dire che il camionista era a conoscenza che nel suo camion si era nascosto un clandestino. L'unica cosa strana è che dal momento in cui è andato a prendere il camion in stiva non abbia mai sentito il cattivo odore che usciva dal vano oggetti. La rotta abbandonata. Da quando colpa la crisi, delle tre compagnie di traghetti greche che collegavano i porti di quel paese con quelli italiani, ne è rimasta una sola che garantisce pochi collegamenti settimanali con Venezia, questa rotta è stata abbandonata dai clandestini afghani per raggiungere l'Europa centrale e la Scandinavia.
L'Aquarius con 629 migranti a bordo attende nel Mediterraneo. Salvini chiude i porti e pretende che sia Malta ad accoglierli, che rifiuta. Tanti esultano del braccio di ferro, ma alcuni comuni del sud, da Reggio C. a Taranto, Napoli e Palermo sono pronti a disobbedire al governo, facendo l'unica cosa possibile: accoglierli.
il manifesto,
In un’intervista del ministro Salvini a Repubblica.tv, diventata virale sui social, il leader della Lega invitato dall’intervistatore a mandare un messaggio al sindaco di Riace “Lucano” ha testualmente risposto: «Al sindaco di Riace non dedico neanche mezzo pensiero. Zero. È lo zero».
Questa risposta si commenta da sé e il ministro dovrà risponderne di fronte ai calabresi, ai meridionali e a tutti le italiane e gli italiani che in questi venti anni son venuti a Riace per tirare una boccata di ossigeno, per scoprire come si possa convivere tra tante etnie e culture diverse, per vedere con i propri occhi quello che un grande regista tedesco ha dichiarato di fronte a dieci premi Nobel per la pace: «A Riace, un paesino della Calabria, ho scoperto la vera civiltà e quale potrebbe essere il nostro futuro». È successo nel 2009, nella ricorrenza del ventesimo anniversario della caduta del muro di Berlino, quando Wim Wenders, dopo aver girato un docufilm su Badolato e Riace, ha così esordito stupendo la stampa di mezzo mondo.
Chi come chi scrive ha vissuto l’esperienza di Riace fin dall’inizio, ha visto rinascere un paese completamente abbandonato, ha esultato come calabrese e meridionale nel vedere Riace citato dai mass media di tutto il mondo, che normalmente della Calabria se ne sono occupati solo per la ‘ndrangheta. Finalmente agli onori della cronaca come segno di civiltà. Un paese di meno di 1.200 abitanti, di cui oltre ottocento stanno nella marina, ha ospitato fino a quattrocento migranti senza che ci fosse in vent’anni un solo reato, un solo conflitto interetnico, in un clima di fratellanza e amicizia con tutti gli esseri umani da qualunque parte provengano.
Ho conosciuto nell’ottobre del 1998 Domenico Lucano e gli amici dell’associazione “Città futura” (nomen omen) che si presentarono a Badolato dopo la prima esperienza italiana di accoglienza di profughi curdi in un paese semi-abbandonato, quando la popolazione locale e il sindaco Gerardo Mannello accolsero a braccia aperte e sistemarono nelle case vuote di Badolato superiore più di ottocento curdi. Erano venuti a vedere questa esperienza di accoglienza, sostenuta economicamente e fattivamente dal Cric, allora una delle Ong più attive in questo campo, che volevano replicare nel loro paesino. In meno di un anno, grazie anche al sostegno della Banca etica di Padova, della comunità anarchica di Longo Mai in Provenza, di Cornelius Cock, uno straordinario prete svizzero che sosteneva il diritto alla vita dei migranti clandestini, alla rete italiana del fair trade, Riace divenne il punto di riferimento della solidarietà ai profughi che attraversano il Mediterraneo rischiando la vita.
Cinque anni dopo Domenico Lucano venne eletto sindaco e intensificò il suo impegno per l’accoglienza dei migranti e per la rinascita del paese che in pochi anni vide riaprire le scuole, i servizi , bar, ristoranti, sistemare e abbellire le piazze, le stradine, costruire un anfiteatro dedicato alla pace, colorare il paese grazie ad artisti e turisti solidali provenienti da tutta l’Italia, e non solo. Grazie al costante e straordinario impegno di Recosol (Rete Comuni Solidali), questo piccolo paesino calabrese è diventato un punto di riferimento per tanti Comuni italiani e europei, un luogo di incontri, di cultura, di festa.
Oggi a Riace lavorano nei progetti di accoglienza circa quaranta giovani locali, e grande è l’indotto che le attività legate ai migranti hanno prodotto nell’economia locale, anche grazie all’introduzione di una “moneta locale” che Lucano ha immesso nel 2010 per contrastare i ritardi nei pagamenti statali. Un esempio virtuoso che dovrebbe essere moltiplicato e applicato su grande scala. È proprio dalle aree interne, da quello che Manlio Rossi Doria chiamava l’osso del Mezzogiorno, che potrebbe rinascere il Sud e di riflesso il nostro paese. Ed invece, prima dell’arrivo al potere del ministro Salvini, la burocrazia della Prefettura di Reggio Calabria si è messa di traverso, come il sindaco Lucano ha più volte raccontato. Inutilmente il sindaco di Riace ha chiesto la relazione dei funzionari che sono stati a Riace nello scorso ottobre, e solo dopo l’intervento della magistratura sono stati aperti i cassetti che custodivano questo report. Il motivo? Semplice: era una relazione estremamente positiva che smentiva le accuse rivolte all’amministrazione di Riace sulla gestione dell’accoglienza dei migranti. Risultato: sono due anni che il Comune deve ricevere fondi che gli spettano, rischiando il dissesto secondo quello che sembra un piano preordinato.
cronachediordinariorazzismo.org,
La situazione è sotto gli occhi di tutti da anni. Eppure la si nota sempre all’ultimo minuto, quando è già troppo tardi per organizzare una degna accoglienza. Oltre 50 baracche di legno e lamiera senza acqua corrente né energia elettrica e in pessime condizioni igienico-sanitarie. Insediamenti abusivi su terreni di proprietà privata. Non è una novità: è la puntuale “emergenza braccianti” che si ripropone ogni anno, nello stesso periodo, in una delle zone del Siracusano più esposta al fenomeno del caporalato. Dopo la scoperta da parte delle forze dell’ordine e il sopralluogo fatto anche con l’assessorato alle Politiche ambientali, la baraccopoli è rimasta ancora dov’era. E le soluzioni alternative tardano ad arrivare. Così, da molti anni quella resta l’unica soluzione abitativa possibile per i migranti stagionali, che portano avanti gran parte del sistema della raccolta agricola nei campi. E mentre fra Comune di Siracusa, prefettura, diverse forze dell’ordine, Azienda provinciale sanitaria, ispettorato del lavoro, si gioca a scaricabarile, la situazione resta immobile.
Come ogni anno, da aprile a giugno, in occasione della raccolta delle patate, ai circa 5.000 residenti a Cassibile si aggiungono numerose centinaia di migranti, per lo più di origine marocchina e sudanese; questi giungono nella frazione siracusana, dopo aver terminato altre raccolte in Italia: una vera transumanza del lavoro migrante nelle campagne.
Perché non si controllano a monte le aziende che beneficiano del “servizio” svolto per loro conto dai caporali? Perché ci si accanisce contro i migranti, criminalizzandoli, quando invece ci sono non poche ditte locali e non solo, che evadono i contributi ed ingrassano i caporali? Le istituzioni preposte sanno intervenire solo in senso repressivo contro i migranti?
Purtroppo oramai il senso delle parole è capovolto, si criminalizzano le vittime e non i carnefici e le forze apertamente razziste fanno il pieno di voti, la Solidarietà (vedi Ong delle navi umanitarie) viene considerata oramai un reato . Facciamo appello a tutto l’associazionismo antirazzista ed al sindacalismo conflittuale siracusano e regionale a non rimuovere questa drammatica realtà. E’ drammatico che ciò si ripeta in una terra dove proprio 50 anni fa ci furono eroiche lotte bracciantili ( che costarono la vita ad Angelo Sigona ed a Giuseppe Scibilia) che riuscirono a debellare a livello nazionale le piaghe delle gabbie salariali e del caporalato.
La storia siciliana ce l’ha insegnato Emigrare non è reato. Solidarietà con gli immigrati, Unità di tutti gli sfruttati!