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Avvenire, 9 maggio 2018. Inguaribilmente prigioniero d'una parossistica passione per la violenza bellica, capace di mentire spudoratamente più ancora dei suoi più bugiardi predecessori, Trump agita verso il mondo il manganello della guerra nucleare.

Il Piano d'azione congiunto globale (in inglese Joint Comprehensive Plan of Action, acronimo JCPOA) è un accordo quadro tra l’Iran da un lato, e dall’altro lato i 5 paesi del Consiglio di sicurezza dell’Onu, cioè Cina, i, Russia, Regno unito, Stati uniti, più la Germania e l’Unione europea, riguardanti i limiti e le condizioni accuratamente stabiliti entro i quali l’Iran deve contenere e i suoi programmi di utilizzazione dell’energia nucleare. Per monitorare e verificare il rispetto dell'accordo da parte dell'Iran, l'Agenzia internazionale per l'energia atomica (AIEA) avrebbe avuto regolare accesso a tutti gli impianti nucleari iraniani. In cambio del rispetto dei suoi impegni, l’Iran avrebbe ottenuto la cessazione delle sanzioni economiche precedentemente stabilite.
L'accordo è stato finora rispettato da tutti i contraenti. Il gesto folle dell’attuale presidente degli Usa di uscire unilateramente dall’accordo significa che, mentre il resto del mondo rimane vincolato a quell’accordo, solo l’Impero statunitense può agitare il manganello della guerra nucleare e utilizzarne i mortiferi strumenti. (e.s.)

Di seguito l'articolo di Riccardo Redaelli, da Avvenire del 9 maggio 2018, che abbiamo scelto tra i diversi commenti apparsi oggi sulla stampa italiana

E quindi se ne vanno. Come ampiamente previsto e temuto, Donald J. Trump ha annunciato che gli Stati Uniti si ritirano dal Jcpoa, il compromesso sul nucleare iraniano faticosamente siglato nel 2015 dall’allora presidente Barack Obama sotto l’egida delle Nazioni Unite con l’lran. Non sono bastasti gli appelli dell’Europa e dell’Onu, e neppure le dichiarazioni dell’Agenzia atomica internazionale che attestano come Teheran non stia violando i termini dell’accordo. Neppure l’ultimo tentativo di Londra di convincere Washington è servito, a dimostrazione di quanto si sia deteriorato – con questa amministrazione – anche lo storico "legame speciale" tra quelle due capitali.

Da tempo è già partita la grancassa retorica per giustificare la rottura: l’accordo (che, invece, era e rimane un compromesso ragionevole) è un disastro, non ha fermato i programmi missilistici né l’attivismo regionale iraniani. Discorsi strumentali, dato che il tema delle trattative da sempre era concentrato sulla questione nucleare, non su altro. In verità, sono diverse le ragioni di questo nuovo strappo con il sistema internazionale: le pressioni saudite e israeliane, l’ostilità contro Teheran che la destra statunitense ha sempre dimostrato, la forza persuasiva della lobby anti-iraniana che è fortissima nei palazzi del potere di Washington. Ma non va sottovalutata la fanatica determinazione con cui i falchi attorno al presidente sembrano voler smantellare ogni eredità degli otto anni della presidenza Obama, un uomo e un politico verso cui nutrono un’ostilità irriducibile.

E neppure la debolezza del Dipartimento di Stato, umiliato da pesantissimi tagli finanziari, privo da più di un anno di molti vertici tecnici mai nominati dal nuovo presidente, e con a capo un politico ruvido come Mike Pompeo, distante anni luce dallo stile e dal linguaggio della diplomazia internazionale.

Non si può non guardare con preoccupazione al crescendo di mosse unilaterali di Trump, il quale sembra voler sfuggire al crescente gossip "pornografico" interno, alle inchieste del Fbi, alla frustrazione di dover eternamente negoziare con un mondo istituzionale che fatica ad accettarlo, lanciando in continuazione il guanto di sfida alla comunità internazionale. Prima la denuncia dell’accordo sul clima, poi i dazi commerciali minacciati e a volte applicati per difendere «i posti di lavoro americani», a cui la Cina ha già risposto con perfida efficacia annullando contratti di acquisto di beni agricoli per miliardi di dollari, colpendo duramente proprio quegli stati del Midwest che hanno garantito la vittoria elettorale di "The Donald". Ora il nucleare iraniano.

In realtà, si vedrà solo nelle prossime settimane la reale portata di questo annuncio. Perché come sempre, al di là dei roboanti proclami, contano i dettagli tecnici. Di fatto, già Obama aveva disatteso nella sostanza, se non nella forma, alcune parti dell’accordo, non eliminando una serie di sanzioni finanziarie e commerciali. Tanto che qualcuno ha ironizzato dicendo che Trump uccide un accordo mai entrato veramente in funzione. Vedremo quanto gli americani vorranno giocare pesante con l’Iran e quanto saranno disposti a irritare gli europei re-imponendo nuove sanzioni contro chi commercia con il Paese degli ayatollah. È comunque indubbio che l’Unione Europea non possa rimanere in silenzio o piegarsi supinamente alle decisioni statunitensi. Già nel mondo noi europei siamo ormai considerati sostanzialmente irrilevanti nelle questioni politiche che contano. Se non reagiremo ai ventilati dazi commerciali e alle nuove sanzioni contro Teheran certificheremo una nullità politica.

Ma fondamentale sarà capire come reagirà l’Iran. Per il presidente moderato Rohani e per i riformisti iraniani, maggioritari nel paese ma marginalizzati politicamente dal regime, si tratta di una umiliazione che li indebolisce.

Per i conservatori, gli ultra-radicali e i pasdaran, che avevano digerito a fatica questo accordo, il ritiro statunitense è un aiuto insperato. Serve a loro per dimostrare che ogni intesa con l’Occidente è tempo e fatica sprecata, perché l’obiettivo non è accordarsi con la Repubblica islamica ma distruggerla. E che i moderati che vogliono negoziare, dal nucleare alle politiche regionali, sono o degli 'utili idioti' o dei traditori dei valori rivoluzionari. La speranza europea è che a Teheran ci si accontenti di qualche dichiarazione roboante, mantenendo intatta la sostanza dell’accordo. In ogni caso, un nuova pessima decisione presa Oltreatlantico, che allarga ancora la distanza fra le due sponde di questo oceano, che è stato per decenni un ponte saldo e protettivo fra le diverse anime dell’Occidente.

Avvenire, 2

Come fugge il tempo. Noi guardiamo avanti, mentre i molti che sono rimasti indietro appartengono già all'eternità. È il primo maggio del 2003, esattamente quindici anni fa. George Walker Bush, 43° presidente degli Stati Uniti d'America, figlio del 41° presidente americano, George Herbert Walker Bush (famiglia di petrolieri), dalla portaerei "Uss Abraham Lincoln", annuncia all'America che «la missione è compiuta». Certo, non conclusa. «La fase principale dei combattimenti» della Seconda guerra del Golfo, durata 42 giorni, alla ricerca delle «armi di distruzione di massa», e per deporre il presidente iracheno Saddam Hussein, «è terminata».
Bush senior, nel 1991, aveva comandato la Prima guerra del Golfo, "Tempesta nel deserto", per "punire" Saddam, perché nell'agosto del 1990 aveva fatto il passo più lungo della gamba, appropriandosi, invadendolo, del piccolo emirato dei "petrodollari" del Kuwait. Saddam sosteneva che quel pezzo di sabbia impregnato di petrolio apparteneva all'Iraq e, soprattutto, non voleva rifondere l'enorme debito contratto per la guerra contro l'Iran, fatta per conto e con il sostegno di Usa e monarchie del Golfo.
Torniamo nel 2003. Dopo le parole lasciate a cannoni e missili, «per la causa della libertà e della pace nel mondo», parole sempre di Bush junior, quel primo maggio doveva segnare la data d'inizio di una nuova era di ricostruzione e democrazia.Il tiranno era stato sconfitto, l'Iraq liberato, e «la nostra nazione – aggiungeva Bush junior – è più sicura».
Diciannove mesi prima c'era stato l'11 settembre, con l'attacco di al-Qaeda alle Torri Gemelle di New York e come risposta l'invasione americana dell'Afghanistan dei taleban, in cui era ospite la "mente" del terrore, Osama Benladen. Bush e i suoi generali ritenevano che Osama fosse anche in combutta con il regime iracheno. Versione, questa, come quella delle armi chimiche, rimasta sempre a secco di riscontri ufficiali. La "mente", tra l'altro, era sempre quell'Osama, a capo di una "legione musulmana" che gli americani, negli anni Ottanta, con i presidenti numero 39, Jimmy Carter, e 40, Ronald Reagan, avevano armato, con la connivenza del regime militare pachistano, contro i sovietici che occupavano l'Afghanistan. Che giri di valzer conosce la storia.
Sono passati quindici anni. Le conseguenze di quella guerra ancora si trascinano in una ragnatela di crisi e conflitti mediorientali, di jihadismo islamista suicida, a opera di una continua moltiplicazione di gruppi e gruppetti di fondamentalisti e di lupi solitari fioriti qua e là. Ma nati soprattutto nei centri di detenzione americani in Iraq, come Abu Ghraib e Camp Bucca. La libertà dell'Iraq, pagata con quattro milioni di sfollati, l'esodo di buona parte dei cristiani e centinaia di migliaia, se non un milione di vittime – e ancora, in Iraq, si continua a morire di attentati suicidi, di mine, di vendette –, doveva essere, ahimè, la "crociata" contro tirannia e terrore.
Papa Giovanni Paolo II lo profetizzò nel 1991, all'alba della Prima guerra del Golfo, in un messaggio colmo di preoccupazioni per le sorti dell'umanità: se sarà la guerra, «sarà un'avventura senza ritorno». La notte del 20 marzo 2003, il lamento funebre delle sirene dell'allarme aereo che attraversavano il cielo dell'Iraq, da Baghdad a Bassora, annunciava l'inizio della Seconda guerra...

NENAnews,

Martedì 17 aprile si è celebrata in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza l’annuale giornata di sostegno ai palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Alcune migliaia di manifestanti hanno sfilato a Gaza fino ad arrivare davanti alla sede della Croce Rossa dove numerose bambine mostravano le foto dei principali detenuti, diventati simboli della resistenza all’occupazione.

Stesse immagini, anche se in tono minore, in Cisgiordania dove le manifestazioni maggiori si sono tenute a Betlemme e Ramallah. Al contrario dello scorso anno non si sono registrati scontri con le forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese, spesso accusate dalla popolazione di essere complici dei numerosi arresti di questi ultimi anni.

Dopo le dichiarazioni di Trump, riguardo alla città di Gerusalemme come capitale dello stato ebraico, e la reazione da parte del presidente Abu Mazen nei confronti degli ormai defunti “accordi di Oslo”, gli apparati di sicurezza palestinesi hanno, almeno temporaneamente, sospeso molte attività di collaborazione con i militari di Tel Aviv.

Secondo Addameer, ong palestinese per i diritti dei detenuti palestinesi, sono circa 6.500 i prigionieri nelle carceri israeliane, di cui circa 350 minorenni, 62 donne e 26 giornalisti. Tra i detenuti una cinquantina hanno passato oltre 30 anni in prigione e circa 700 necessitano di cure mediche urgenti, negate dalle autorità carcerarie di Tel Aviv. L’ultimo dato riportato da Addameer riguarda gli oltre 500 prigionieri palestinesi incarcerati in regime di detenzione amministrativa.

Secondo il diritto internazionale, la detenzione amministrativa può essere usata solo per “ragioni imperative di sicurezza” in una situazione di emergenza, decidendo caso per caso. L’utilizzo della detenzione amministrativa da parte di Israele, al contrario, è spesso una pratica di massa, ordinaria, come alternativa al tribunale militare soprattutto quando i palestinesi arrestati rifiutano di confessare durante l’interrogatorio. In un recente comunicato il segretario generale del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (sinistra radicale), Ahmed Sa’adat, incarcerato da oltre 12 anni, ha affermato che “Israele si professa uno stato di diritto, anche se continua a uccidere civili indifesi nei Territori Occupati e all’interno delle sue prigioni si è incarcerati, senza un’accusa precisa, e si può rimanere in detenzione per anni senza un processo, visto che la detenzione amministrativa è utilizzata come forma illegale di repressione politica contro la resistenza”.

Tra le foto dei detenuti portate in corteo spiccavano numerosi simboli della lotta contro l’occupazione e la violenta repressione sionista. Quella di Ahed Tamimi, ragazzina 17enne di Nabih Saleh, arrestata per aver schiaffeggiato due militari israeliani davanti alla sua abitazione. Ahed è diventata, infatti, il simbolo della rivolta nei Territori Occupati e della determinazione palestinese a resistere anche per il coraggio dimostrato durante i feroci interrogatori – resi visibili recentemente – alla quale è stata sottoposta dalle autorità di Tel Aviv.

Per quanto riguarda gli esponenti politici primeggiavano, invece, le immagini di Marwan Barghouti, l’esponente di Fatah incarcerato durante la Seconda Intifada e leader della protesta dello scorso anno contro i soprusi israeliani nei confronti dei prigionieri politici. Quella di Khalida Jarrar, esponente politica del Fplp in detenzione amministrativa, senza una precisa accusa, dallo scorso luglio o quella di Salah Hamouri, attivista e militante franco-palestinese del Fplp, arrestato dalle forze israeliane ad agosto.

Il caso di Hamouri ha avuto una maggiore eco in Francia, con numerose proteste da parte di esponenti politici della sinistra d’oltralpe, visto che il giovane avvocato è stato fermato per il semplice fatto di aver contestato il governo Netanyahu per l’utilizzo indiscriminato della detenzione amministrativa e per la negazione dei fondamentali diritti civili nei confronti dei prigionieri politici palestinesi.

Numerose sono le manifestazioni di sostegno in tutta Europa e in diverse città italiane per tutta la settimana. Lo scorso sabato, ad esempio, si è tenuto a Roma un convegno sui prigionieri politici con esponenti palestinesi, giuristi ed associazioni solidali alla causa palestinese. Un incontro organizzato per “rivendicare l’assoluta illegalità portata avanti da Israele” e per manifestare la solidarietà al popolo palestinese in un momento di lotta come quello della “Marcia del Ritorno” a Gaza con una trentina di civili uccisi e oltre 4mila feriti durante le proteste pacifiche di questo mese.

Senza risposta, da parte del governo israeliano, le accuse di Amnesty International e della sua responsabile per il Medio Oriente, Magdalena Mughrabi, che ha affermato come “la detenzione arbitraria di esponenti politici e attivisti sia un vergognoso esempio dell’abuso da parte delle autorità israeliane della detenzione amministrativa per incarcerare sospetti indefinitamente senza accusa né processo, in uno stato che, dal 1948, ha imprigionato circa un milione di palestinesi”.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

il manifesto, 1organizzata

«Penisola arabica. Esposto di Rete disarmo e altre ong per l’export di bombe sarde all’Arabia saudita»
L’Italia è colpevole di crimini di guerra in Yemen, in combutta con la fabbrica di Rwm Italia Spa di Domusnovas in Sardegna, di proprietà del gruppo industriale Rheinmetall, con sede a Dussendorf in Germania. In estrema sintesi è questa la tesi con cui la Rete Disarmo, insieme ad altre organizzazioni che si battono per la fine di uno dei conflitti più ignorati e insieme più mortiferi del mondo arabo, ha sferrato la sua battaglia legale contro le ipocrisie e le opacità dell’export di sistemi d’arma in Italia.

L’esposto è stato depositato alla procura della Repubblica di Roma e presentato ieri con una conferenza stampa internazionale. «Si tratta di una denuncia penale molto ben documentata», ha spiegato Francesca Cancellaro dello studio Gamberini incaricato di seguire l’azione legale intentata contro i vertici la Rwm Italia e dell’Uama, l’Unità per le autorizzazioni dei materiali d’armamento, cioè il comitato che indirizza per conto di Palazzo Chigi l’attività parlamentare di verifica e concessione delle autorizzazioni all’esportazione di armi in base alla legge 185.

Anche se il direttore dell’Uama, il ministro Francesco Azzarello, ha fatto sapere a stretto giro di essere «sereno» e «a completa disposizione della magistratura», la vicenda di cui dovrà rispondere, se la magistratura italiana aprirà un fascicolo, non sarà né semplice né generica.

Nel dossier presentato in procura si fa riferimento, con foto e testimonianze, alla morte di sei persone, incluso una donna incinta e quattro bambini, nel villaggio yemenita di Deir Al Hajari, situato in una zona di nessuna rilevanza strategica, senza insediamenti militari, un villaggio popolato solo di civili inermi.

I sei morti identificati furono provocati da un raid aereo della coalizione militare a guida saudita l’8 ottobre 2016. Successivamente nel cratere dell’esplosione sono stati rinvenuti i resti delle bombe incluso un anello di sospensione che, fatti analizzare da una società specializzata , si possono far risalire alla produzione dello stabilimento sardo della Rwm di fine 2016 cioè dopo la deflagrazione del conflitto armato in Yemen.

I legali dicono che a quel punto, dopo le denunce dell’Onu, essendo «notorio» che in Yemen si stavano consumando violazioni dei diritti umani, autorizzare l’export di questo secondo lotto di bombe verso l’Arabia saudita è stato «grave», «con un profilo di colpevolezza da verificare» e ipotizzano per il governo il reato di abuso d’ufficio in violazione della legge 185, che vieta l’export verso paesi belligeranti, e della normativa sovranazionale, sia come Posizione comune europea del 2008 sia del trattato sul commercio di armi firmato dall’Italia nel 2013.

Riferimenti

La produzione di armi sempre più letali in Italia è stata spesso denunciata su queste pagine. L'alibi dell'occupazione è sempre stato sollevato come pretesto per contraddire l'imperativo morale e il dettato costituzionale di non contribuire a fomentare le guerre con la produzione di armamenti. Delle bombe prodotte dall'azienda tedesca in Sardegna ci siamo occupati in particolare con i due articoli

Vedi su eddyburg gli articoli Viaggioa Domusnova la città della fabbrica d'armi, LaRWM: pronti a testare la bomba in Sardegna, ripresi da Avvenimenti e da Altreconomia

Nigrizia,

È giunta ormai al suo ottavo anno la guerra imposta ai siriani. L’insurrezione armata scoppiata nel marzo 2011 ha devastato la Siria, uno dei pochi paesi laici e culturalmente avanzati del mondo arabo. Pur con le sue contraddizioni e i suoi limiti in termini di libertà e di democrazia, il regime era riuscito a garantire una discreta stabilità politica e sociale e un invidiabile equilibrio religioso ed etnico/tribale in una regione dove il fattore religioso e quello tribale sono corde sensibili, facilmente manipolabili (all’occorrenza) per innescare conflitti politici e sociali che portano a interminabili e sanguinose guerre civili.

Ricordiamo il caso dell’Iraq, dove lo scontro interconfessionale tra sunniti e sciiti ha causato a oggi centinaia di migliaia di morti, e quello della Libia, dove è in atto una guerra tra clan ed etnie per la spartizione del paese. I regimi di Saddam Hussein e Gheddafi riuscivano a neutralizzare i due fattori di cui sopra, garantendo per decenni una certa stabilità e coesione sociale. Finché le potenze atlantiste, guidate dagli Usa, scatenarono la guerra contro Libia (2011) e Iraq (2013), perché erano guidati da due regimi – dittatoriali – non allineati, che ostacolavano i loro interessi neocoloniali. La manipolazione, da parte degli Usa e dei loro alleati europei, dell’appartenenza religiosa e tribale è stata determinante nella distruzione dei due paesi.

La stessa strategia è stata usata in Siria con diversi tentativi. Il primo. In principio i governi occidentali avevano cercato di innescare lo scontro tra la maggioranza sunnita e la minoranza alawita (sciita) al potere di cui al-Assad fa parte. L’operazione non ebbe successo. La maggioranza dei siriani è sunnita e, sin dall’inizio dell’insurrezione, ha sostenuto Damasco, come del resto ha fatto anche l’esercito.

Il secondo. Poi sono entrati in gioco i gruppi jihadisti salafiti di al-Nusra e, soprattutto, il gruppo Stato islamico il cui compito era quello di eliminare al-Assad e creare un regime di tipo confessionale. E anche questo piano fallì per l’intervento di Russia e Iran, determinanti nella disfatta del gruppo Stato islamico

Il terzo. Quando Washington e i suoi alleati si sono accorti che la carta gruppo Stato islamico era destinata a fallire, hanno giocato quella curda. Hanno sostenuto le milizie curde nella conquista della città di Raqqa e nel creare una enclave curda nella provincia siriana di Afrin, al confine con la Turchia. Ma hanno fatto i conti senza Erdogan. Il 18 marzo scorso, dopo due mesi di assedio, l’esercito turco ha occupato Afrin e cacciato i combattenti curdi.

Infine, la vicenda di Ghota est nei pressi di Damasco, occupata dai jihadisti, è stata il colpo di coda degli americani per evitare il proprio ko in Siria. Ma pure questo tentativo non ha funzionato, nonostante la pressione diplomatica e la propaganda mediatica contro il governo, accusato di «massacrare il suo popolo» a Ghota, anche con l’uso di armi chimiche.

Sette anni di continui tentativi di regime change hanno provocato oltre 300mila morti e 11 milioni tra sfollati e profughi. Un crimine contro l’umanità perpetrato dalle “democrazie” occidentali ai danni del popolo siriano.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

il manifesto, miamo "guerra diffusa"

Un centinaio di missili sulla Siria fanno rumore. Tutti i giornali e le tv del globo li hanno mostrati, descritti, analizzati. Eppure ogni giorno esplodono altre centinaia di bombe in un altrove che rumore, non ne fa. Sono le bombe silenziose di guerre «secondarie», di stragi che non bucano il video, di conflitti apparentemente dormienti e ormai derubricati a non notizie.

Eppure i numeri sono importanti. E gli effetti nefasti così come nulli sono i risultati sul piano militare. Molte bombe, molte vittime e un’unica vittoria: quella di chi le fabbrica e le vende, più o meno apertamente.
Lo Yemen e l’Afghanistan sono un utile esercizio. Ci sono dati ufficiali o desunti, operazioni segrete (come per i droni), conti fatti da organismi indipendenti e da chi, è il caso dell’Us Air Force, ne fa un titolo di merito. Cento bombe si sganciano in Afghanistan in meno di dieci giorni. In Yemen il conto è quasi impossibile ma dal marzo 2015 al marzo 2018, in tre anni, il Paese è stato attraversato da 16.749 raid aerei con una media di 15 al giorno. In silenzio. Tranne per chi ci sta sotto.

Stabilire quante bombe ha sganciato al coalizione a guida saudita (una decina di nazioni musulmane sostenute da diversi Paesi, dagli Stati Uniti alla Turchia) è assai complesso anche se il numero di raid non lascia molti dubbi. Quel che interessa notare è che questo conflitto (che produce una «catastrofe umanitaria» secondo l’Onu, che ha bollato i raid come una «violazione del diritto internazionale») viene foraggiato indirettamente anche dall’Italia: Giorgio Beretta (che ne ha già scritto su il manifesto) ricorda che da Roma, nel 2016, «sono state autorizzate esportazioni di armamenti all’Arabia Saudita per 427 milioni di euro, la maggior parte delle quali, e cioè più di 411 milioni di euro, era costituita da bombe aeree del tipo MK82, MK83 e MK84 prodotte dalla Rwm Italia. Le stesse bombe i cui reperti sono stati ritrovati dalla commissione di esperti dell’Onu nelle aree civili bombardate dalla Royal Saudi Air Force in Yemen. Stiamo parlando di 19.900 bombe, la più grande esportazione fatta dall’Italia».

E gli effetti? Il Legal Center for Rights and Development (Lcrd), un’organizzazione della società civile locale con sede a Sana’a, stimava a oltre 12.500 le vittime civili nei primi 800 giorni della guerra. Secondo Yemen Data Project – un progetto indipendente e no profit di monitoraggio del conflitto – la coalizione a guida Saud (ottimo alleato di Trump, Macron e May) ha colpito obiettivi per quasi un terzo non militari: 456 raid aerei hanno bombardato aziende agricole, 195 mercati, 110 siti di erogazione di acqua ed elettricità, 70 strutture sanitarie, 63 luoghi di stoccaggio del cibo.

La profondità del monitoraggio dà luogo anche ad altri dati impressionanti. Il Lcrd ha documentato negli obiettivi colpiti: 593 mercati e quasi 700 negozi alimentari, 245 aziende avicole e 300 industrie, oltre a 300 centri medici e 827 scuole… Una lista infinita. Tutta civile.

Se cento bombe in Siria vi sembran tante, lo stesso numero di ordigni viene lanciato dal cielo in meno di dieci giorni in Afghanistan. Secondo i dati diffusi dall’United States Air Force, nel 2017 sono state sganciate in Afghanistan 4.300 bombe, con un ritmo di una dozzina al giorno, il triplo che in passato.

I risultati di questa nuova strategia di Trump sono sotto gli occhi di tutti: la guerra va avanti, gli attentati non diminuiscono, le vittime civili aumentano.

Quanto agli afgani, secondo il ministero della Difesa di Kabul, ogni giorno l’aviazione nazionale conduce una quindicina di raid ma non è dato sapere quanti ordigni hanno sganciato i piloti addestrati da Stati Uniti e dalla missione Nato, di cui l’Italia rappresenta il secondo contingente nel Paese.

Se si obiettasse che la potenza degli ordigni è mediamente assai minore rispetto a quella di un missile tomahawk, si può però ricordare che, proprio nell’aprile dello scorso anno, gli americani hanno sganciato in Afghanistan la «madre delle bombe», un ordigno con la potenza di 11 tonnellate di esplosivo (GBU-43/B Massive Ordnance Air Blast o Moab), in grado di disintegrare tutto fino a 300 metri di profondità e con un raggio d’azione di oltre un chilometro e mezzo. Doveva tramortire lo Stato islamico, sempre però molto attivo nel Paese.

Le vittime civili in Afghanistan sono in costante aumento (3.438 morti e 7.015 feriti l’anno scorso secondo la missione Onu a Kabul). Anche se sono in gran parte da attribuire ad attentati e scontri di terra, il rapporto di Unama (la missione Onu in Afghanistan) osserva un aumento delle vittime dovute a raid aerei (295 morti e 336 feriti nel 2017), il numero più alto in un singolo anno dal lontano 2009.

Internazionale,

L’attaccomissilistico anglo-franco-americano lanciato in Siria perpunire il governo e dissuaderlo dall’uso di armi chimiche dovrebbe fermare perun breve periodo questo barbaro strumento di guerra, come già successo inpassato. Tuttavia, nel contesto del tradizionale e prolungato militarismoamericano ed europeo in Medio Oriente, l’operazione genera sensazionicontrastanti perché restano forti dubbi in merito alla sua efficacia,legittimità, credibilità e comprensione del contesto siriano. L’operazione sembra essere un’azione politica che non tieneconto delle dinamiche locali e regionali, concepita unicamente per direall’opinione pubblica occidentale che le tre potenze coinvolte rispettano lavita umana e il diritto internazionale più dei governi in Siria e in Russia.Una tesi abbastanza discutibile se consideriamo il numero di vittime provocatoda Stati Uniti, Francia e Regno Unito nella regione per decenni. Probabilmentele conseguenze dell’operazione non fermeranno il caos e le nuove forme diviolenza che affliggono la regione, come succede ogni volta con questo tipo diazioni militari esterne.
Un problema di efficacia
I bombardamenti lanciati tra il 14 e il 15 aprile nonsembrano particolarmente efficaci. Vent’anni di attacchi continui degli StatiUniti e di altre potenze contro i gruppi terroristici e i governi radicali, acominciare dai missili lanciati nel 1998 contro Al Qaeda in Sudan eAfghanistan, non hanno fermato Al Qaeda o altri gruppi simili, che al contrariostanno prosperando e che si affermano solo in zone devastate da attacchimilitari stranieri o interni, come la Somalia, lo Yemen, l’Iraq, l’Afghanistane la Siria. Il numero di governi e forze radicali che si oppongono agliStati Uniti e ad altre potenze straniere è aumentato costantemente negli ultimianni. Non c’è da stupirsi se di recente l’influenza di Iran, Russia, Hezbollahe Turchia in Siria e in altri territori arabi sia aumentata, soprattutto graziealle conseguenze del militarismo continuo degli Stati Uniti e di altre potenzestraniere e arabe, un militarismo il cui scopo era proprio quelli di “ridurre”questa influenza. L’ambasciatrice statunitense all’Onu Nikki Haley e i suoiamici saranno anche “pronti e carichi”, come lei ha dichiarato, ma resta ilfatto che dal 1998 gli americani si sono sparati più volte sui piedi con leloro operazioni militari in Medio Oriente lanciate per sconfiggere ilterrorismo e ridurre l’influenza dell’Iran. In definitiva Washington harafforzato quelli che voleva indebolire.

Un problema di legittimità
Gli attacchi non sembrano nemmeno legittimi, perché leNazioni Unite e altre istituzioni autorizzate a verificare le responsabilitàdell’attacco chimico non hanno svolto il loro lavoro sul campo – che sarebbedovuto cominciare il 15 aprile – prima di stabilire qualsiasi misura punitiva.Le tre potenze responsabili dell’attacco non possono sostenere di aver agitoper legittima difesa, perché non erano sotto la minaccia di un attaccoimminente e non sono state attaccate, diversamente da quanto accaduto con l’11settembre. Le potenze occidentali che sostengono di rispettare il diritto internazionalee nel frattempo lo infrangono o lo ignorano hanno chiaramente un problema dilegittimità.

Un problema di credibilità
Inoltre gli attacchi non sono particolarmente credibili. Lepreoccupazioni dell’occidente per i morti causati dalle armi chimiche perdonopeso, per due motivi. Il governo siriano e le forze di opposizione hanno uccisocentinaia di migliaia di civili, spesso con metodi disumani come i barili bombao gli assedi che miravano ad affamare il nemico, e questo non sembra averprodotto grandi azioni da parte delle potenze che hanno attaccato, anche se leconseguenze sono state ben peggiori. Il loro sdegno morale davanti alla mortedi civili innocenti è inoltre messo in discussione dal fatto che Stati Uniti,Regno Unito e Francia sono direttamente responsabili per la morte di centinaiadi migliaia di civili in Medio Oriente nel corso di decenni di interventimilitari e azioni politiche dirette, inclusi quelli attuali in Yemen.

I risultati a brevetermine di operazioni militari come questa tendono a svanire per la mancanza diuna politica più ampia
Ironia della sorte, il Regno Unito è la potenza che haintrodotto l’uso di armi chimiche nella regione durante la prima guerramondiale, armi che i britannici avrebbero voluto usare per reprimere unarivolta anticoloniale in Iraq (anche se alla fine non lo hanno fatto).L’impegno degli occidentali per evitare la morte di altri innocenti in modocrudele sarebbe più credibile se, per esempio, gli Stati Uniti e il Regno Unitosmettessero di assistere l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti nella loro guerra contro loYemen, dove decine di migliaia di persone sono malate di colera emigliaia sono morte per malattia, malnutrizione e altre conseguenze delleguerra. Tutte le morti causate dalla guerra sono ripugnanti e vannofermate con azioni collettive da parte di tutti i paesi che rispettano la vitaumana. Non si può procedere con le azioni sparse di un pugno di governi chesembrano parecchio selettivi nel loro sdegno per le sofferenze umane, maalquanto episodici nel loro rispetto del diritto internazionale.

Un problema di contesto
Gli attacchi, infine, non hanno tenuto conto del contestogenerale della guerra in Siria e dei suoi diversi collegamenti regionali eglobali. Nello specifico, i risultati a breve termine di operazioni militaricome questa – o come l’attacco angloamericano in Iraq del 2003 o anche larecente guerra contro il gruppo Stato islamico – tendono a svanire per mancanzadi una politica più ampia che affronti e cerchi di risolvere i problemi chehanno generato la guerra. È necessario un approccio più comprensivo erealistico per fermare i combattimenti, stabilizzare la Siria e gestire altretensioni che in questo momento circondano il paese, a cominciare dagliinteressi curdi, iraniani, israeliani, turchi e russi.

Questi attacchi portano avanti la tradizione occidentale diguerra senza fine nella regione araba cominciata da Napoleone più di due secolifa, un’attività che oggi sembra solo intensificarsi con l’utilizzo di droni,missili Cruise, strumenti di guerra elettronici e combattenti a contratto.Anche i risultati non variano: resistenza da parte delle potenze locali,distruzione delle società mediorientali e nascita di forze e governi radicaliche sfidano l’aggressore straniero. Questa dinamica è tanto più pericolosa oggise teniamo conto dell’intervento militare diretto in Siria di potenze nonoccidentali e regionali come l’Iran, la Russia, la Turchia, Israele eHezbollah. Solo una soluzione politica, sociale ed economica aldeterioramento delle condizioni di vita negli stati arabi metterà fine allaviolenza, liberandoci dai nostri dittatori e vietando l’uso di armi didistruzione di massa. Solo così troveremo la pace, diritti uguali per tutti eprosperità per il martoriato popolo di questa regione.

La Repubblica, (a.b.)

Papa Francesco lancia un appello, l’ennesimo, a «tutti i responsabili politici» perché in Siria prevalgano «la giustizia e la pace». Invita «le persone di buona volontà» a pregare. Lo faranno di certo, ciascuno nel dialogo intimo con il divino. Però non sono più un movimento, non sono più massa critica. Da tempo ormai sono vistosamente scomparse dallo spazio pubblico le bandiere arcobaleno, le piazze sono orfane di chi sfilava contro la guerra con lo slogan assoluto “senza se e senza ma”. Anche nell’ultimo caso mediorientale, come in molti recenti, i se e i ma invece abbondano. Stare contro Donald Trump e implicitamente difendere il dittatore Assad accusato di usare i gas? Stare contro Assad e favorire quella frangia di ribelli attestata su posizioni jihadiste? E chi davvero ha usato le armi chimiche?

Gli interrogativi, tutti legittimi, sono peraltro la foglia di fico di un impegno cessato molto prima. Il pacifismo era già moribondo, soffocato dalla propria impotenza a causa di una serie di sconfitte storiche che hanno provocato frustrazione e disincanto. Nella sua versione più intransigente rifiutava qualunque tipo di intervento, compreso quello auspicato da un altro Papa, Giovanni Paolo II, quando si batteva (era il 1992) per il diritto-dovere di ingerenza umanitaria in Bosnia. Tre anni dopo, il bombardamento durato pochi giorni delle postazioni serbe nei dintorni di Sarajevo provocò la fine del conflitto e l’inizio di un ripensamento tra chi circondava le base di Aviano per cercare di impedire il decollo degli aerei americani. La prova più evidente che non esiste una formula adatta a tutte le circostanze. E in occasioni fatali come le guerre è sempre il caso di rimboccarsi le maniche e valutare con pazienza se un intervento è destinato ad alzare o abbassare il livello di violenza. Nei Balcani, lo abbassò. Al contrario, otto anni dopo, dell’invasione dell’Iraq da parte di George Bush il figlio, la cui eredità sono i conflitti ancora aperti. Per fermare quello sciagurato tentativo di “esportare la democrazia” scesero per strada, nel mondo, cento milioni di persone (un milione in Italia). Non servì a nulla: il pacifismo toccò l’apice dell’espansione e l’inizio della disillusione. Si è protestato, dal Vietnam in poi, per le guerre degli altri.
Testimonianze, opposizioni di principio astratte come la lontananza. Dopo le Torri Gemelle, l’Iraq e il conseguente terrorismo globale, è risultato sempre più complicato essere pacifisti, a causa della sensazione di avere la guerra in casa. La neutralità è diventata un lusso.
Vincono le posizioni nette. Col nemico alle porte, il pacifismo è finito in fuorigioco.
Un peccato davvero, persino per chi lo osteggiava. Perché è proprio la sua mancanza, oggi, che impedisce lo sviluppo della dialettica attorno a un tema così cruciale. Le baruffe, anche furibonde, degli anni ‘90 e degli anni ‘10 di questo secolo tra interventisti e non avevano il valore prezioso di instillare il dubbio, nei campi contrapposti. Il cittadino-elettore aveva la sensazione di poter incidere sul processo politico più drammatico, la scelta tra la pace e la guerra. Oggi il campo è sgombro.
Trump, come un dottor Stranamore, “punisce” la Siria, sgancia la superbomba in Afghanistan, minaccia la Corea del Nord, senza che si veda all’orizzonte un corteo. Senza che ci sia un contrappeso al suo bellicismo incontinente. Se era deleterio un eccesso di pacifismo, è ugualmente nefasta la sua totale assenza.

Internazionale,

Il giudice per le indagini preliminari (gip) di Ragusa, Giovanni Giampiccolo, ha disposto il dissequestro della nave dell’ong spagnola Proactiva Open Arms, che era ferma nel porto di Pozzallo dal 18 marzo dopo aver soccorso 218 migranti in due diverse operazioni al largo della Libia. La nave – attiva nel soccorso di migranti nel Mediterraneo centrale – era stata sequestrata su ordine della procura di Catania, guidata da Carmelo Zuccaro, nell’ambito di un’inchiesta per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e associazione a delinquere.

Il 27 marzo il gip di Catania Nunzio Sarpietro aveva confermato il sequestro della nave, ma si era dichiarato non competente al livello territoriale per i reati contestati e aveva passato il fascicolo al gip di Ragusa. Sarpietro infatti aveva fatto cadere l’accusa di associazione a delinquere contro il capitano Marc Creus Reig e la coordinatrice dei soccorsi Ana Isabel Montes Mier, lasciando in piedi invece l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Questo elemento aveva fatto decadere la competenza territoriale del tribunale di Catania che ha una specifica autorità per i reati associativi.

La ricostruzione del giudice


Nel decreto di dissequestro il giudice di Ragusa ha ricostruito la cronologia dei soccorsi avvenuti il 15 marzo 2018 al largo delle coste libiche, basandosi sulle testimonianze degli imputati e sulle loro memorie difensive, sul rapporto del Comando generale delle capitanerie di porto italiane e sulla nota del comandante della nave Alpino della marina militare italiana, attiva nell’ambito della missione Mare sicuro.

Dalla ricostruzione degli eventi fatta dal gip emergono tre elementi importanti: il giudice conferma che gli spagnoli non si sono coordinati con la guardia costiera libica compiendo un atto di disobbedienza, riconosce la legittimità di una zona di ricerca e soccorso (Sar) libica, ma sostiene anche che i soccorritori si sono trovati in “uno stato di necessità”, perché i soccorsi finiscono solo con lo sbarco in un posto sicuro e i migranti non potevano di fatto essere riportati in Libia. Il giudice ha riconosciuto che la Libia è “un luogo in cui avvengono gravi violazioni dei diritti umani (con persone trattenute in strutture di detenzione in condizioni di sovraffollamento, senza accesso a cure mediche e a un’adeguata alimentazione, e sottoposte a maltrattamenti e stupri e lavori forzati)”.

Marc Creus Reig e Ana Isabel Montes Mier rimangono indagati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, perché è riconosciuta una condotta di “disobbedienza alle direttive impartite” da chi coordinava i soccorsi, ma il sequestro della nave non è convalidato, perché il gip sostiene che i soccorritori abbiano agito in uno “stato di necessità”. Questa condizione fa decadere il reato di favoreggiamento, come previsto dall’articolo 54 del codice penale italiano che stabilisce l’impunità per chi ha commesso un reato “costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave”.

La cronologia
Il gip di Ragusa nel suo decreto di dissequestro ha ricostruito i fatti: un drone della missione militare europea EunavforMed, attivo nel Mediterraneo nell’ambito dell’operazione Sophia, alle 4.21 del 15 marzo ha avvistato un gommone in difficoltà con diversi migranti a bordo a 40 miglia nautiche dalla coste libiche. La Centrale operativa della squadra navale italiana ha avvisato la nave Capri della marina militare italiana ormeggiata nel porto di Tripoli che a sua volta ha avvertito la guardia costiera libica.

Alle 4.35 dello stesso giorno la Centrale operativa della guardia costiera italiana ha chiamato la nave umanitaria Open Arms chiedendole d’intervenire. Alle 5.37, circa un’ora dopo, la marina militare italiana ha comunicato alla guardia costiera italiana che la motovedetta libica Gaminez stava per salpare dal porto di Al Khums per intervenire in soccorso del gommone avvistato. Alle 6.45 la guardia costiera libica comunicava alla centrale operativa di Roma di aver assunto il coordinamento dell’operazione, ma non dichiarava un tempo stimato di arrivo della motovedetta libica nella zona d’intervento.

Alle 6.49 e alle 7 la guardia costiera italiana comunicava alla Open Arms che la guardia costiera libica stava intervenendo e che non voleva interferenze dalle altre navi. Alle 9.13 la Open Arms comunicava a Roma che aveva avvistato un gommone con dei migranti a bordo che imbarcava acqua e che quindi sarebbe intervenuta. Roma chiedeva agli spagnoli d’informare i libici.

Un rapporto del comandante della nave Alpino della marina militare italiana non conferma la versione degli spagnoli

Alle 11 si concludeva il primo soccorso di 117 persone e la nave spagnola contattava la centrale operativa della guardia costiera italiana dicendo di voler intervenire in soccorso di altre due imbarcazioni in difficoltà. Alle 14 la Open Arms diceva alla guardia costiera italiana che due lance spagnole si erano messe in mare per raggiungere l’imbarcazione in difficoltà e 18 minuti dopo in una nuova chiamata Roma era informata che gli spagnoli avevano raggiunto il gommone e avevano cominciato a distribuire dei giubbotti di salvataggio. Nel frattempo sopraggiungeva una motovedetta libica a tutta velocità, la Ras Al Jaddar, che si era accostata all’imbarcazione di migranti e stava minacciando gli spagnoli.

Un rapporto del comandante della nave Alpino della marina militare italiana non conferma la versione degli spagnoli, e dice che i libici avevano chiesto via radio agli spagnoli di non avvicinarsi al gommone con i migranti. Nella relazione della guardia costiera italiana acquisita dal giudice invece è riportata una conversazione captata via radio dall’elicottero della nave Alpino che riferiva la minaccia dell’uso delle armi da parte dei libici verso gli spagnoli. Secondo il giudice, però i filmati non confermerebbero queste minacce.

Nella seconda parte del suo decreto, Giampiccolo ricostruisce cosa è accaduto dopo che la tensione con i libici è stata superata e i soccorsi della seconda imbarcazione di migranti sono terminati. Alle 18.35 la Open Arms con a bordo 218 migranti ha chiesto alla guardia costiera italiana un porto di sbarco sicuro. “Roma rispondeva che la ong, non avendo operato il soccorso sotto il suo coordinamento, avrebbe dovuto richiedere istruzioni allo stato di bandiera ossia alla Spagna che avrebbe dovuto valutare se chiedere un porto di sbarco alle autorità italiane”, è scritto nel decreto. Il giorno successivo, il 16 marzo, la Open Arms segnalava alle autorità italiane la presenza a bordo di gravi situazioni sanitarie.

Alle 13.50 Malta dava disponibilità allo sbarco dei casi medici più gravi. Dalle 14.01 la centrale operativa della guardia costiera italiana chiedeva agli spagnoli di fare richiesta di sbarco a Malta. Alle 15.41, infine, interviene la Centrale operativa della guardia costiera spagnola che contatta la Open Arms e le suggerisce di sbarcare a Malta. A questa richiesta il comandante della Open Arms risponde dicendo di non aver mai sbarcato a Malta e che è sicuro che i maltesi gli negheranno l’approdo. Alle 16.45 Open Arms chiede ancora una volta a Roma di avere un porto di sbarco assegnato. La nave sbarca infine a Pozzallo, in provincia di Ragusa, la mattina del 17 marzo.

Le reazioni


Riccardo Gatti, portavoce della ong spagnola, ha espresso soddisfazione per la decisione del giudice e ha dichiarato che Proactiva Open Arms continuerà le attività di soccorso in mare con la nave Astral partita il 16 aprile dalla Spagna. “Per il momento la Open Arms sarà portata in un cantiere per fare un po’ di manutenzione e nel frattempo stiamo cercando un’altra nave più grande da prendere in affitto per i soccorsi”, afferma Gatti.

Rimane tuttavia la preoccupazione per Marc Creus Reig e Ana Isabel Montes Mier che sono sotto inchiesta sia a Catania sia a Ragusa per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. “È molto importante che il giudice abbia riconosciuto lo stato di necessità, che è quello che noi sosteniamo da sempre. La Libia non è un posto sicuro in cui portare i migranti”, afferma Gatti che però si dice preoccupato per il riconoscimento della zona di ricerca e soccorso coordinata dai libici da parte delle autorità italiane. “Dal provvedimento del giudice emerge il riconoscimento di una zona Sar affidata ai libici che secondo noi non rispetta le norme internazionali”, afferma Gatti.

Non esiste un porto libico che può essere considerato sicuro ai sensi delle normative internazionali

Dello stesso tono i commenti dell’avvocata della difesa Rosa Emanuela Lo Faro: “Il giudice si è reso conto che il comandante ha agito in uno stato di necessità, perché la Libia non ha un porto e posto di sbarco sicuro. Non c’è assolutamente fumus commissi delicti e cioè la probabilità effettiva del reato, proprio perché è accertato lo stato di necessità nel quale si è agito”. Questo è un punto molto importante, secondo l’avvocata, che rappresenta anche un precedente per future accuse di questo tipo. Secondo Lo Faro, inoltre, “il giudice ha riconosciuto che il fatto di non aver chiesto di sbarcare a Malta non rappresenta la violazione di una norma ma solo di un accordo amministrativo, che non ha precetto normativo”.

Per Gianfranco Schiavone dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) l’importanza di questa sentenza è nell’analisi giuridica condotta dal gip di Trapani: “L’ong ha operato in uno stato di necessità, che giustamente è stato ricondotto non tanto all’immediatezza dei soccorsi quanto alla situazione in Libia. Cioè il soccorso dei libici avrebbe comportato che le persone salvate sarebbero state portate in un paese in cui non è possibile garantire loro sicurezza e nessun diritto sicuro. Non esiste un porto libico che può essere considerato sicuro ai sensi delle normative internazionali”. Questo provvedimento, per Schiavone, dovrebbe orientare i successivi passi di tutta l’indagine. Per l’Asgi inoltre il ragionamento del giudice contiene una contraddizione perché: “Se in Libia non esiste un porto sicuro in cui sbarcare i migranti salvati, allora non sarebbe di fatto operativa una zona di ricerca e soccorso coordinata dai libici, anche se dovesse essere legittimata dalle autorità internazionali”.

Il deputato di Più Europa Riccardo Magi ha commentato: “Ancora non sappiamo perché le autorità italiane abbiano ceduto alla guardia costiera libica la gestione di operazioni di salvataggio in acque internazionali, dal momento che nessuna zona Sar libica è riconosciuta. Ancora nessuna risposta sulle minacce rivolte dai militari libici ai volontari di Open Arms per tentare di prendersi a bordo i naufraghi salvati dalla ong e ricondurli in Libia, né sulla sorte dei naufraghi recuperati lo stesso giorno da una motovedetta libica e riportati in Libia nel corso di un’altra operazione per cui la centrale operativa di Roma aveva in origine allertato la nave di Open Arms. E resta dunque il dubbio che il nostro paese possa essersi reso complice di respingimenti illegali, visto che nessun porto libico al momento può essere considerato un luogo sicuro”.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

il manifesto, 15 aprile 2018

Per scatenare una guerra non serve più nemmeno la «pistola fumante» dei tempi di Bush. Ricordate la sceneggiata di Colin Powell con le fialette di antrace , per convincere il Consiglio di sicurezza dell’Onu ad avallare la guerra contro Saddam Hussein. Una guerra basata su una «fake news», come ce ne sono state molte nella storia, poco importa se si è distrutto un paese che non aveva le armi di distruzione di massa. Quindici anni dopo chi se lo ricorda?

La disinformazione serve anche a disorientare l’opinione pubblica che difficilmente riesce a leggere il contesto siriano e soprattutto a reagire sia al presunto uso di gas che ai bombardamenti. Nell’era della post-verità, ma sarebbe meglio dire della disinformazione, non servono prove.

Basta un’«autocertificazione» di Macron o di Trump: «Abbiamo le prove» che Damasco ha usato i gas a Duma e lanciano i missili. Damasco ha superato quella che Obama aveva definito la «linea rossa» (l’uso di armi chimiche). E proprio nel giorno in cui gli esperti dell’Opac (Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche) dovevano iniziare le loro indagini per verificare l’uso o meno dei gas, scatta l’intervento occidentale preventivo. Non servono le prove, soprattutto se rischiano di non assecondare la follia di Trump e dei suoi seguaci. Per ora, si dice, si è trattato di un atto dimostrativo, forse un test per verificare la reazione di Mosca (informata preventivamente). Vista l’efficienza dimostrata dai sistemi antimissilistici siriani (informati dai russi), che avrebbero abbattuto la maggior parte dei 110 missili lanciati, non sarà il caso di sottoporli a una prova più pesante? Il rischio di un’escalation non è da escludere. Del resto Trump sta cercando il modo meno «disonorevole» per uscire da una guerra che ha perso: Assad è ancora al potere e, anzi, ieri dopo l’attacco la popolazione nelle piazze di Damasco ha inneggiato ad Assad. I curdi siriani, aiutati dagli Usa per sconfiggere l’Isis, sono stati abbandonati sotto le bombe del sultano Erdogan.

Tra gli obiettivi attaccati dall’operazione unilaterale di Trump (Macron e May), secondo la Cnn, che cita fonti della difesa Usa, vi sarebbero anche due siti di stoccaggio di armi chimiche nell’area di Homs. O i siti erano vuoti (gli stessi americani nel 2014 avevano annunciato che i siriani avevano consegnato tutte le armi chimiche) oppure si tratta di un gesto folle che avrebbe potuto provocare la dispersione nell’ambiente delle famigerate armi con conseguenze letali sulla popolazione. Ma forse per gli Usa non è così importante: in Iraq, nel 2003, l’avanzata americana aveva fatto fuggire i guardiani che controllavano i depositi di Yellow cake, poi saccheggiati dalla popolazione che, ritenendolo un fertilizzante, lo aveva utilizzato provocando l’inquinamento delle acque e dei terreni.

Ora si aspetteranno i risultati dell’indagine condotta dagli esperti dell’Opac? E i risultati saranno chiari e definitivi? Ma anche se troveranno tracce di gas, chi li avrà usati? Il pensiero torna all’Iraq quando il rapporto presentato dagli ispettori dell’Unmovic (Blix) e dell’Aiea (el Baradei) al Consiglio di sicurezza dell’Onu il 14 febbraio 2003 (il giorno dopo lo show di Powell) non interessava a nessuno. Anzi, «ho avuto l’impressione, subito prima che prendessero la decisione di dare il via all’attacco, che il nostro lavoro li irritasse», aveva detto Hans Blix in una intervista al giornale tedesco Welt am Sonntag.

C’è da supporre che anche l’indagine dell’Opac, qualsiasi siano le conclusioni, non scalfirà le convinzioni di Trump, Macron e May, che con questa attacco militare possono distrarre l’opinione pubblica dai problemi interni. Merkel e Gentiloni non hanno partecipato ma hanno approvato «l’azione necessaria» senza chiedere prove. Con questa nuova battuta militare si rafforza l’asse britannico-americano, indispensabile dopo la Brexit, ma Trump è riuscito anche a riallineare il leader turco Erdogan, che ha approvato l’azione, dopo le sue intemperanze che avevano portato un paese della Nato (la Turchia) a trattare con la Russia e l’Iran. Il presidente Usa ha anche rassicurato Israele proprio mentre continua il massacro dei palestinesi. Trump sta scherzando con il fuoco e forse non ha tenuto conto che sul terreno siriano oltre alla Russia c’è anche l’Iran.

il manifesto, 15 aprile 2018.

«Vaticano. Il papa parla oggi. Il vescovo di Aleppo: non logico che Assad usi armi chimiche adesso»

Una «rappresaglia» contro Bashar Al Assad da parte di Stati Uniti, Regno Unito e Francia. È netto il giudizio del Vaticano sui bombardamenti in Siria della scorsa notte, affidato all’articolo di apertura dell’Osservatore Romano di oggi. «Il presidente degli Stati Uniti ha sciolto le riserve e, a una settimana dal presunto attacco chimico alla città siriana di Douma, ha ordinato la rappresaglia in stretto coordinamento con Londra e Parigi», si legge nell’apertura del quotidiano della Santa sede che titola a tutta pagina «Missili sulla Siria».

Nessuna parola da parte di papa Francesco, ma molto probabilmente le dirà oggi, durante il Regina coeli da piazza San Pietro. Del resto in passato Bergoglio, oltre a denunciare le guerre in corso («una terza guerra mondiale a pezzi») e il proliferare delle armi, è spesso intervenuto sulla Siria, per condannare la repressione e la guerra ma anche per scongiurare un attacco militare contro Damasco.
L’ultima volta domenica scorsa, da piazza San Pietro, all’indomani della strage di Douma: «Giungono dalla Siria notizie terribili di bombardamenti con decine di vittime, di cui molte sono donne e bambini, di tante persone colpite dagli effetti di sostanze chimiche contenute nelle bombe. Non c’è una guerra buona e una cattiva, e niente, niente può giustificare l’uso di tali strumenti di sterminio contro persone e popolazioni inermi. Preghiamo perché i responsabili politici e militari scelgano l’altra via, quella del negoziato, la sola che può portare a una pace che non sia quella della morte e della distruzione».
La prima cinque anni fa, quando sembrava imminente un intervento armato occidentale contro la Siria: in estate scrisse ai leader del G20 riuniti a San Pietroburgo per chiedere ai “grandi” di «abbandonare ogni vana pretesa di una soluzione militare» in Siria; poi promosse una giornata di digiuno e una veglia di preghiera per la pace in piazza san Pietro (7 settembre 2013) in particolare per la Siria. Allora i bombardieri non decollarono. Questa notte invece i missili sono partiti.
Se il papa per ora tace, parlano invece i vescovi siriani. «È sorprendente che l’attacco sia avvenuto proprio mentre stava per iniziare la missione degli ispettori dell’Onu chiamati ad indagare sull’uso delle armi chimiche attribuito al regime di Damasco», ha detto ai microfoni di Radio Vaticana e Tv2000 monsignor Antoine Audo, vescovo caldeo di Aleppo. I Paesi occidentali, che alimentano «il commercio delle armi», «attaccano per dimostrare che la forza e il potere sono nelle loro mani». Secondo il vescovo di Aleppo, la Siria sta pagando «gli effetti del conflitto fra Stati Uniti e Russia» e, a livello regionale, «della guerra a distanza tra Arabia Saudita e Iran». Monsignor Audo nutre forti dubbi sul fatto che l’attacco chimico a Duma sia opera del regime siriano: «Come è possibile che Assad – si chiede – abbia usato armi chimiche mentre il suo esercito ha riconquistato la regione di Ghouta? Non è logico». Spera «che sia fatta luce su tutto ed emerga la verità, non come hanno fatto con l’Iraq in cui hanno distrutto il Paese dicendo che c’erano le armi chimiche». E si augura che Usa e Russia «raggiungano un accordo per una vera pace».
Durissimo il vicario apostolico di Aleppo dei Latini, monsignor Georges Abou Khazen: «Con questi missili hanno gettato la maschera. Prima era una guerra per procura. Ora a combattere sono gli attori principali. Sono sette anni, è iniziato l’ottavo, che si combatte sul suolo siriano, e ora che gli attori minori sono stati sconfitti, in campo sono scesi i veri protagonisti del conflitto». Gli esperti dovranno indagare «sul presunto attacco chimico a Douma, ma dopo questi raid sarà tutto più difficile», constata monsignor Abou Khazen. «Intanto cresce la sofferenza della popolazione che chiede pace e in cambio ottiene bombe e missili. La gente si aspettava qualcosa di simile e purtroppo è avvenuto».
L’auspicio del vicario apostolico di Aleppo è che «questi attacchi non si allarghino anche in altri luoghi della regione, perché sarebbe davvero pericoloso e tutto potrebbe sfuggire di mano. Serve una soluzione condivisa da raggiungere senza menzogne».

Huffington Post

«L'Unesco sfida ancora Israele, che replica: "decisione delirante" Per Ramallah è "un voto storico, un successo della nostra battaglia diplomatica". Netanyahu taglia 1 milioni di dollari all'Onu»
L'Unesco ha riconosciuto la Tomba dei Patriarchi ad Hebron, in Cisgiordania, "sito palestinese" del Patrimonio Mondiale. A favore della Risoluzione - presentata dai palestinesi e fortemente contestata da Israele - si sono espressi 12 Stati membri, con 3 contrari e 6 astenuti. In base alla decisione, la Città Vecchia di Hebron e la Tomba dei Patriarchi diventano siti "palestinesi" e si sottolinea il "loro essere in pericolo".

La Tomba dei Patriarchi, secondo luogo santo dell'ebraismo, è il sepolcro di Abramo, Isacco e Giacobbe. La Tomba è posto di devozione anche per i musulmani che lo chiamano 'Santuario di Abramo' o 'Moschea di Abramo'. Israele - che ha sempre rivendicato le millenarie connessioni dell'ebraismo con la Tomba dei Patriarchi dove accorrono numerosi i fedeli ebrei - aveva chiesto il voto segreto sulla Risoluzione, ma questo non è stato attuato.

Il ministro palestinese della cultura Rula Maaya da definito "evento storico" la decisione del Comitato del Patrimonio dell'Unesco. "Un evento - ha aggiunto - che conferma l'identità dei Patriarchi e che conferma che il campus appartiene al patrimonio e alla storia del popolo palestinese". Anche il governo di Ramallah ha elogiato la decisione dell'Unesco. Il ministro degli esteri Riyad al-Maliki, ha lodato la scelta dell'Unesco, dicendo che "questo voto è un successo nella battaglia diplomatica che la Palestina sta combattendo su tutti i fronti".

"La decisione dell'Unesco è una macchia morale. Questa irrilevante organizzazione promuove falsa storia. Vergogna!". Lo ha scritto su Twitter Emmanuel Nahshon, portavoce del ministero degli esteri di Israele, secondo cui "la gloriosa storia del popolo ebraico è cominciata ad Hebron. Nessuna bugia dell'Unesco e falsa storia può cambiarla. La verità è eterna". Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, parla di "altra decisione delirante" e aggiunge: Israele "continuerà a custodire la Tomba dei patriarchi, per assicurare la libertà religiosa di tutti e...salvaguardare la verità. Solo dove Israele è presente, come a Hebron, la libertà di culto è garantita per tutti. In Medioriente moschee, chiese e sinagoghe vengono fatte saltare in aria - posti in cui Israele non è presente". Anche il ministro della difesa Avidgor Lieberman ha bollato su twitter il voto definendo l'Unesco "un'organizzazione politica, imbarazzante e antisemita". Stessa condanna da parte del ministro dell'educazione Naftlai Bennett secondo cui "è sconfortante e vergognoso che l'Unesco neghi la storia e distorca la realtà, servendo coloro che cercano di cancellare lo stato ebraico. Israele non riprenderà la sua collaborazione con l'Unesco - ha aggiunto - finché questa organizzazione resta uno strumento politico invece che professionale".

La prima contromossa di Netanyahu è l'annuncio del taglio di un altro milione di dollari dalle spese che Israele paga come membro dell'Onu. La mossa prevede anche che con quella somma sia costruito un Museo dell'eredità ebraica a a Kiryat Arba e a Hebron e ad altri progetti nella città. Già in precedenza dopo altre decisioni dell'Unesco, come quella su Gerusalemme, il premier aveva tagliato i fondi all'Onu

postilla
È un pesante segno dei tempi che due popoli debbano lottare tra loro disconoscendo una realtà che la storia dovrebbe aver insegnato a tutti: che le radici dei popoli sono fittamente intrecciate tra loro, e che a essere la condizione profonda di ciascuno di noi. è il meticciato, e non la superba arroganza di essere parte di un "popolo eletto".
Ma la storia dell'Europa capitalista, che all'inizio del secolo scorso ha voluto utilizzare, con il Balfour agreement, l'immissione forzosa del nuovo stato (Israele) tutto ferreamente monoetnico, come avversario e dominatore di un altro popolo (il palestinese) ha provocato, tra gli innumerevoli danni all'umanità, anche quello di riattizzare un odio tra mondo giudaico-cristiano e mondo islamico, che si spoteva sperare fosse superato

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Huffington Post, governo ribadisce l'accordo con Trump, ma i laburisti di Corbyn rifiutano e accusano Theresa May di prendere ordini da Trump


È scontro in Gran Bretagna sull'intervento in Siria. La premier Theresa May l'ha definito un intervento "giusto e legittimo", non per "disarcionare" il presidente siriano, Bashar al-Assad, ma per dare un messaggio chiaro che le armi chimiche non devono essere usate, nè a Damasco e neppure nelle strade britanniche.

"Le armi chimiche non possono essere utilizzate e questo vale non solo per la Siria, ma anche per le strade britanniche", ha aggiunto la premier, con chiaro riferimento all'avvelenamento con il gas nervino, a Salisbury, dell'ex spia russa, Serghei Skripal, e della figlia Yulia. "Non si è trattato di un cambio di regime", ha aggiunto. "E' stato un attacco limitato, mirato ed efficace con chiari confini" per "degradare la capacità di ricercare, sviluppare e distribuire armi chimiche da parte del regime". La May ha aggiunto di avere in mano le prove che il governo di Damasco a Duma abbia utilizzato gas tossici: "Sappiamo con certezza che è stato il regime siriano". "Non vi posso dire tutto", ha osservato, ma ha citato "informazioni di intelligence". "Questa azione collettiva - ha proseguito nella conferenza stampa, organizzata a metà mattina, a Londra- invia un chiaro messaggio che la comunità internazionale non si tira indietro e non tollererà l'uso di armi chimiche".

La premier ha aggiunto che avrebbe voluto seguire "un'altra strada", quella diplomatica, ma che non è stato possibile; e ha ricordato le 6 volte in cui, solo nel 2017, la Russia si è opposta a risoluzioni sul dossier siriano, al Consiglio di Sicurezza dell'Onu; e il veto posto da Mosca solo qualche giorno fa, al Palazzo di Vetro, su una risoluzione che avrebbe autorizzato un'inchiesta indipendente sull'attacco a Duma.

La premier si è difesa anche dall'accusa di non aver consultato il Parlamento: ha detto che lunedì farà una comunicazione a Westminster ma ha difeso la sua decisione.

Poco prima, il leader dell'opposizione britannica, il laburista Jeremy Corbyn, l'aveva pesantemente chiamata in causa: per Corbyn, l'attacco è "discutibile da un punto di vista legale" e renderà più difficile che un giorno il regime di Assad sarà ritenuto responsabile di crimini di guerra. Corbyn ha criticato apertamente la premier perchè prende "istruzioni da Washington" e ha aggiunto che, invece di "stare alle ruote di Trump", May avrebbe dovuto ottenere il sostegno del Parlamento prima di sferrare l'attacco. "Credo che sia stato giusto prendere l'iniziativa", gli ha replicato May.

Quanto alla mancanza di consenso nell'opinione pubblica britannica, la premier ha rimarcato: "Il mio messaggio alla gente è che si tratta dell'uso di armi chimiche. C'è una posizione accettata nella comunità internazionale: le armi chimiche sono illegali, sono vietate. E abbiamo visto che questa norma internazionale si è erosa. E' nell'interesse di tutti che ripristiniamo questa norma internazionale sul divieto delle armi chimiche".

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

Avvenire,

La portavoce del ministro degli Esteri russo ha evocato Colin Powell, la polverina bianca e la fialetta brandita all’Onu prima dell’attacco di Bush all’Iraq. Poi ha insinuato l’elemento di attualità, quella che per il Cremlino da tempo è equiparata a quella polverina: la post-verità. L’appoggio dei media occidentali alle accuse Usa e francesi sull’impiego delle armi chimiche a Douma il 7 aprile.

Condivisibile o meno, è solo una delle tante tessere che costituiscono il mosaico dell’ottavo anno di guerra in Siria. Una guerra, o almeno quattro facce della stessa guerra (dall’insurrezione popolare all’intervento turco ad Afrin delle scorse settimane), in cui la vittima collaterale (ma non troppo) è stata principalmente la verità. Da tutti i fronti: quello dell’Osservatorio siriano sui diritti umani, con base a Londra, accusato più volte di gonfiare o sgonfiare la realtà, quello della propaganda di regime di Assad, russa o iraniana. Quella di racconti a loro volta basati su altri racconti di entità, come la Ghouta Orientale, dove chi entrava era solo parte del conflitto e non terzo.

L’attacco della notte scorsa, a un anno e sette giorni dal primo messo in atto da Donald Trump contro Assad, (a Borse chiuse, dopo i tonfi dei giorni scorsi, e annunciato ore prima da febbrili telefonate ai russi da parte di Casa Bianca, Eliseo e Downing Street) non può però anche essere disgiunto dal vertice di dieci giorni fa ad Ankara, tra Russia, Iran e Turchia. La Yalta dei giorni nostri, il vertice dei vincitori, della spartizione della Siria. Dove francesi, inglesi e americani hanno potuto solo sbirciare dalla finestra. Se può esserci però un senso ai massacri finali nella Ghouta prima della caduta definitiva di Douma, ai Tomahawk della notte a alle successive manifestazioni di consenso al regime mandate in scena nelle strade di Damasco, va proprio cercato nelle conclusioni del vertice del 4 aprile nella capitale turca.

missili della notte, paradossalmente, hanno sancito la debolezza e non la forza dell’Occidente in Siria. E probabilmente l’impunità totale (almeno per ora) dei crimini dei quali si è macchiato negli ultimi otto anni il dittatore Bashar el-Assad. E non cambierà nulla al tavolo dei “padroni” della nuova Siria.

Perché Trump non vede l’ora di lasciare il terreno, dopo aver abbandonato anche gli alleati curdi nelle mani dei turchi. Perché la Dgse francese sta smobilitando i propri agenti come le forze speciali da un’area tradizionalmente “di interesse”, perché la Gran Bretagna ha ormai deciso che il jihadismo del Daesh non lo si combatte più all’origine, ma all’arrivo in patria.

Ecco perché in Siria si tornerà a morire

Così in Siria, dopo il clamore dei prossimi giorni, le condanne e le inconcludenti (perché paralizzate) riunioni del Consiglio di sicurezza Onu e l’improbabile replica dei raid da parte di Trump e alleati, si tornerà a morire. Resta la ridotta di Idlib dove si è concentra la “feccia” del jihadismo (di ogni parte e colore, compreso quello alimentato dai sauditi spettatori interessati dei recenti sviluppi in chiave anti-iraniana con Israele). Lì si combatterà ancora e ognuno cercherà di salvare i salvabili. Allungando ancora la guerra più lunga del Medio Oriente.Bisognerà capire anche come si comporteranno i tre attori, quelli occidentali: che hanno parte in commedia, ma anche grandi necessità a casa loro. Inutile ricordare quello che si è detto in questi giorni dei guai e scandali di Donald Trump in America e della necessità di “distogliere” da essi l’”attenzione”.

O dell’altrettanta scomoda situazione di Theresa May, che con i russi ha già in corso il braccio di ferro su nervino e spie e una Brexit che rischia di farla cadere dal trono. Macron invece avrebbe da “guadagnarci” solo una repentina salita nei sondaggi, che in queste settimane hanno portato alla luce un progressivo disamore dei francesi nei suoi confronti? Forse no, perché l’allontanamento “militare” dall’Eliseo da parte di Angela Merkel, tradizionale alleato europeo, dice anche un’altra cosa. Macron sembra pronto a ricoprire nella Ue a 27, cioè tra un anno dopo l’addio di Londra, il ruolo di partner della Casa Bianca. E, da sempre, le alleanze si consolidano in guerra e non in pace.

il manifesto,

La disfatta elettorale subita dalla sinistra il 4 marzo può avere una sua qualche utilità nella periodizzazione storica della vita politica italiana e nella chiarezza comunicativa. Con il responso delle urne si chiude un’esperienza, quella del centro-sinistra, con un bilancio di incontestabile verità: essa ha provato, con la verifica dei fatti, il fallimento di una strategia politica, che chiude il suo bilancio con la distruzione della sinistra riformatrice italiana. Ciò che è rimasto e rimane programmaticamente all’esterno di quel campo, forze radicali di opposizione, caratterizzate da vari percorsi e indirizzi sono definibili sinistra. Forze frantumate e disperse certamente, ma queste forze, che non cercano alcun centro con cui “moderarsi”, sono oggi, realisticamente, la sinistra in Italia.

Assistiamo in queste ore a una ennesima riprova del fallimento di quella esperienza politica. Mentre continua la guerra infinita in Medio Oriente, con episodi che ci sconvolgono quotidianamente, noi siamo ancora dentro la Nato e le nostre basi militari sono a disposizione delle forze aree americane per colpire città e territori nel bacino del Mediterraneo. Non voglio rievocare episodi che hanno segnato una svolta nella storia delle relazioni internazionali dell’Italia repubblicana, come il bombardamento della Serbia. E neppure rammentare più di tanto la decisione del secondo governo Prodi di concedere il raddoppio della base americana di Vicenza all’amministrazione Bush. L’amministrazione che aveva appena invaso uno stato sovrano, aprendo una pagina di conflitti fra i più sanguinosi della storia mondiale recente.

Parliamo dell’oggi. A che serve la Nato, ora che da tempo non esiste il Patto di Varsavia, la “ cortina di ferro” è crollata, il comunismo è dissolto? Non sono evidenti le ragioni di tale permanenza? Gli Usa hanno drammatico bisogno di un nemico, per tenere unito il paese, dare consenso ai gruppi dirigenti, in una fase in cui la sua supremazia economica volge al declino. E in parte ci sono riusciti, circondando la Russia di basi missilistiche e offrendo a Putin ragioni schiaccianti di affermazione in un Paese allarmato e chiamato a difendersi. Ma la Nato serve agli Usa per due altre ragioni: vendere e utilizzare gli armamenti dell’industria militare e al tempo stesso, anche montando lo spauracchio dell’”orso russo”, tenere agganciata e dipendente l’Europa.

L’interesse dell’Italia in questa alleanza, dominata oggi da un uomo come Trump, sono gli oltre 50 milioni al giorno sottratti al bilancio delle stato per spedizioni in paesi lontani; sono le basi militari ex-lege, sparsi nel nostro paese, di cui il cittadino non sa nulla?

Sono le servitù imposte a tante splendide coste della nostra Sardegna, penalizzate nelle proprie economie e vocazioni. Servitù che tengono lontane le popolazioni dai propri territori, chiuse a ogni controllo democratico, portatrici di contaminazioni di terre e acque e di malattie mortali. Non possiamo aspettarci iniziative di autonomia e indipendenza da parte dei governanti europei. Occorrerebbero degli statisti e noi abbiamo oggi a Bruxelles solo feroci contabili, incapaci di una parola di sdegno per i tanti morti innocenti. D’altra parte non c’è davvero di che stupirsi. Il vangelo dominante dice che a governare devono essere i mercati, e lo Stato deve limitarsi a servirli. Come si può pretendere che esso cerchi di governare i conflitti, avendo di mira la pace tra i popoli?

L’Europa no, ma l’Italia, si. L’Italia potrebbe, almeno per due ragioni. Nel linguaggio geopolitico-militare siamo una portaerei nel Mediterraneo, abbiamo una posizione che offre poteri contrattuali straordinari con gli altri partners. L’Italia può giocare un ruolo di pace e anche di sviluppo economico dei paesi del fronte Sud di vasta portata strategica. Può riacquistare la centralità posseduta nei secoli d’oro del suo primato economico mediterraneo. E potrebbe trattare con ben altra forza con i governi nordeuropei. Ma deve porsi fuori dai giochi delle potenze imperiali. E, infine, a proposito di vangelo, ha un’altra carta. Siede in Roma Francesco, il papa dell’evo moderno, coraggioso fautore della pace nel mondo.

Che cosa aspetta la sinistra frantumata e dispersa, ma sempre viva di idee e passioni, di ricercare un’alleanza fondativa con le forze democratiche del mondo cattolico, con i tanti giovani che affollano le adunanze del Papa in ogni angolo d’Italia e del mondo?

Avvenire, 9 aprile 2018. F

«Mamma, non ce la faccio più. Fammi morire». Fahima ha 45 anni. Aveva un marito e quattro figli. Scappavano dalla Siria senza speranza e dalla Turchia senza futuro. Il 29 marzo lo scafista turco, salpato in piena notte da Bodrum per sfuggire ai controlli sulla rotta verso le isole greche, temendo di essere stato intercettato ha spinto al massimo finendo per ribaltarsi. L’unica superstite è Fahima. Sperava di strappare all’abisso almeno quel figlio di 4 anni. L’unico rimasto aggrappato a lei. Ma il mare è stato più forte. La guerra siriana uccide anche lontano da casa. E adesso a preoccupare le autorità turche, temporaneamente sfamate dal nuovo assegno di tre miliardi staccato da Bruxelles che ha appaltato ad Ankara la gestione dei profughi, c’è anche un altro confine lontano.

L’unico, con quello bulgaro, dal quale non si ascoltano echi di guerra. Dall’Iran, infatti, stanno partendo carovane sempre più numerose di profughi afghani, stanchi di attendere un ritorno in patria al riparo dai talebani. Spinti da diciassette anni di inutile attesa, tentano anch’essi la rotta terrestre verso l’Europa. L’allarme è suonato di nuovo pochi giorni fa lungo l’autostrada che risale il deserto anatolico. Da un groviglio di lamiere bollenti hanno estratto 17 cadaveri e 36 feriti gravi. Erano tutti stipati in un minibus con 14 posti a sedere. Mentre ricomponevano i corpi, gli uomini della Jandarma turca sapevano che il minivan carico di profughi irregolari non era che uno dei molti sfuggiti alla porosa frontiera con l’Iran.

Gli autisti sfrecciano a tutto gas alternando i tratti autostradali a vie secondarie, secondo le indicazioni di una capillare rete di staffette che informa i contrabbandieri sui movimenti della polizia. Le autorità di Teheran confermano che sono oltre 3 milioni gli afghani tracimati in terra persiana dal 2001, quando gli Usa e i loro alleati scatenarono la ritorsione dopo gli attacchi alle Torri Gemelle. Rientrare nelle regioni afghane ancora sotto il tallone dei talebani è fuori discussione.

In tasca non hanno più un soldo e gli unici a fargli credito sono i trafficanti. L’ultima carta da giocare. In Turchia sin dalla guerra siriana è fiorita un’economia di guerra che mette allo stesso tavolo contrabbandieri e nuovi schiavisti. Chi non ha denaro per pagare il passeur si sdebiterà lavorando sotto un padrone turco che rifonderà il trafficante.

Migranti e profughi fermati alle frontiere (Ansa)


Ottenere dati ufficiali è impossibile, ma diverse fonti locali sostengono che meno dell’1% dei siriani fuggiti in Turchia ha presentato domanda di lavoro nonostante sulla carta esista una norma che ne favorisca l’integrazione occupazionale. Succede perché «da una parte viene richiesto ai profughi un lasso di tempo minimo di sei mesi – spiegano gli attivisti di Meltin Pot – dal momento in cui viene ottenuto il documento d’identità turco a quello in cui è possibile iniziare a lavorare».
E nessun capofamiglia può permettersi di restare con le mani in mano per sei mesi, tenuto conto che la vita nei campi profughi, specie d’inverno, è al limite dell’umano. «Dall’altra perché i datori di lavoro, su cui grava l’onere di presentare la domanda per il lavoratore siriano che intendono assumere non hanno con tutta evidenza alcun interesse nel farlo». Mettere sotto contratto un fuggiasco vuol dire pagargli, in linea con la legge, almeno i minimi salariali, oltre all’assicurazione e la previdenza sociale. Inoltre la manodopera straniera non può superare la quota del 10% del totale dei dipendenti. Un limite valicabile solo dimostrando che nessun turco abbia risposto all’offerta di lavoro. I sistemi di controllo del lavoro illegale, specie nelle province lontane, sono pressoché inesistenti.

Perciò per 5 euro al giorno si possono arruolare orde di nuovi schiavi, per lavori che un turco non farebbe per meno del quadruplo. Nelle campagne, nell’edilizia, nei laboratori tessili che producono capi per mezza Europa, i migranti bisognosi sono benvenuti. Sette giorni su sette, dall’alba a sera. «Tre milioni di rifugiati stanno cercando di venire in Turchia. La maggior parte di loro sono afghani, provenienti dall’est dell’Iran» ha dichiarato un alto funzionario dell’amministrazione Erdogan, fresca di accordo trilaterale con Mosca e Teheran sulla Siria. Con toni calcolati, gli uomini del sultano precisano: «Non stiamo dicendo che il governo iraniano li stia aiutando a trasferirsi in Turchia, ma lo sta permettendo». Cnn Türk, recentemente passata di mano per finire nel paniere mediatico dichiaratamente filogovernativo, trasmette servizi sulle carovane che giungono nella provincia orientale di Erzurum.

Intere famiglie che a piedi hanno attraversato valichi innevati e deserti rocciosi per arrivare in Turchia. La reazione dei turchi sul posto ha però sorpreso chi non conosce la generosità di un popolo che all’occorrenza sa moltiplicare i posti a tavola. Latte per i bambini, pasti caldi per gli adulti, coperte, vestiti. Una gara di solidarietà che le autorità osservano con un misto di tolleranza e agitazione. L’importante è che se ne vadano in fretta. A fare gli schiavi o a tentare la sorte più a Nord. A due anni dall’accordo, stima l’Acnur, la Turchia ospita oltre 3,5 milioni di rifugiati siriani, più di ogni altro Paese al mondo.

Solo a Istanbul, ce ne sono ufficialmente 540mila. In realtà molti di più, considerato che le autorità hanno sospeso la registrazione dei profughi 'nuovi residenti', forse temendo le ripercussioni politiche di una concentrazione tale da mettere in crisi l’immagine del governo di Erdogan. In una metropoli da quasi 20 milioni di abitanti, la presenza dei siriani non passa più inosservata quando dapprima interi isolati e poi interi quartieri sono diventati delle 'Little Siria'. Negozi, caffè, bancarelle di cianfrusaglia recano cartelli in arabo tanto nelle aree storiche come Fatih, a ridosso delle moschee più visitate, quanto a Basaksehir o Esenyurt, le periferie dove la città va tracimando sulla costa europea che si getta nel Mar di Marmara. Le frontiere terrestri, dunque, tornano ad essere la maggiore fonte di preoccupazione per il governo del presidente Erdogan.

Gli incidenti si ripetono ma le notizie vengono filtrate per non suscitare allarme. Secondo funzionari del ministero dell’Interno di Ankara, quasi 7mila migranti privi di documenti sono stati fermati e arrestati nel solo mese di marzo, 600 solo negli ultimi due giorni. Tra gli stranieri irregolari detenuti nel 2017, la maggior parte proveniva dal Pakistan (circa 15.000) seguiti dagli afghani (circa 12.000). Un aumento del 60 per cento rispetto al 2016.

Nello stesso periodo, precisano però dalla polizia, sono stati catturati 100 presunti trafficanti di esseri umani. «Dopo il completamento delle procedure di espulsione per i migranti illegali nelle nostre province, i rimpatri – spiega una nota nell’Interno – accelereranno e continueranno ancora nei prossimi giorni». La maggior parte, in realtà, verrà riportata alla frontiera iraniana dove avevano già ottenuto lo status di profughi. Un ping pong tra le frontiere che sta risollevando le casse dei contrabbandieri.

domenica 8 aprile 2018

Balfour agreement la condanna a morte pronunciata da un gruppo di criminali, ciò che accade nella striscia di Gaza è ancora peggio. Con postilla
Nella Striscia di Gaza Israele mostra il peggio di sé. Questa affermazione non intende in nessun modo sminuire la ferocia, sia deliberata che accidentale, che caratterizza la sua politica verso gli altri palestinesi – in Israele e in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est. Né ridimensiona gli orrori dei suoi attacchi di rappresaglia (alias operazioni militari) in Cisgiordania prima del 1967 o le sue aggressioni a civili in Libano.

Tuttavia a Gaza Israele va oltre la sua abituale crudeltà. In particolare là spinge i soldati, i comandanti, i funzionari pubblici ed i civili a mostrare comportamenti e tratti del loro carattere che in ogni altro contesto verrebbero considerati sadici e criminali, o quanto meno non degni di una società avanzata.

C’è spazio solo per quattro riferimenti. I due massacri perpetrati dai soldati israeliani contro la popolazione di Gaza durante la guerra del Sinai del 1956 [l’aggressione di Fancia, Gran Bretagna ed Israele contro l’Egitto in seguito alla nazionalizzazione del Canale di Suez, ndt.] sono sfuggiti alle nostre coscienze come se non fossero mai accaduti, nonostante i fatti documentati.

Secondo un rapporto del capo dell’UNRWA [agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, ndt.] consegnato alle Nazioni Unite nel gennaio 1957, il 3 novembre [1956], durante la conquista di Khan Yunis (e nel corso di un’operazione volta a requisire armi e a radunare centinaia di uomini per scoprire soldati egiziani e combattenti palestinesi) i soldati israeliani uccisero 275 palestinesi – 140 rifugiati e 135 abitanti del luogo. Il 12 novembre (dopo la fine degli scontri) i soldati israeliani a Rafah uccisero 103 rifugiati, sette abitanti del luogo ed un egiziano.

I ricordi dei sopravvissuti sono stati documentati in una grafic novel dal giornalista e ricercatore Joe Sacco: corpi disseminati nelle strade, gente messa contro un muro ed uccisa, persone in fuga con le mani alzate mentre i soldati dietro di loro puntavano li tenevano sotto tiro con i fucili, teste che esplodevano. Nel 1982 il giornalista Mark Gefen, del quotidiano in ebraico ormai chiuso Al Hamishmar, ricordò il suo servizio militare nel 1956, comprese quelle teste colpite e quei corpi disseminati a Khan Yunis (Haaretz edizione in ebraico, 5 febbraio 2010).

Pochi mesi dopo l’occupazione della Striscia di Gaza nel 1967, il ricercatore indipendente Yizhar Be’er scrisse: “Abbiamo fatto passi concreti per sfoltire la popolazione di Gaza. Nel febbraio 1968 il primo ministro [israeliano] Levi Eshkol ha deciso di nominare Ada Sereni a capo del progetto di emigrazione. Il suo compito consiste nel reperire Paesi di destinazione ed incoraggiare la gente ad andarvi, senza che fosse evidente il coinvolgimento del governo israeliano.”

“Sereni è stata scelta per l’incarico per i suoi rapporti con l’Italia e la sua esperienza nell’organizzare la ha’ apala dei sopravvissuti all’Olocausto dopo la seconda guerra mondiale”, ha aggiunto, usando il termine che si riferiva all’immigrazione clandestina verso il futuro Stato di Israele durante il mandato britannico.

“In uno dei loro incontri, Eshkol ha chiesto preoccupato a Sereni: "Quanti arabi hai già mandato via?’“, scrisse Be’er. Sereni disse ad Eshkol che vi erano 40.000 famiglie di rifugiati a Gaza. “‘Se voi stanziate 1.000 sterline per ogni famiglia sarà possibile risolvere il problema. Siete d’accordo a risolvere il problema di Gaza con quattro milioni di sterline?’ chiese lei, e si rispose da sola: ‘Secondo me è un prezzo molto ragionevole’” (sito web “Parot Kedoshot”, 26 giugno 2017).

Nel 1991 Israele iniziò ad imprigionare di fatto tutti gli abitanti di Gaza. Nel settembre 2007 il governo di Ehud Olmert decise un blocco totale, che includeva limitazioni all’importazione di alimenti e materie prime e il divieto di esportazione.

I funzionari dell’ufficio del Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori [ente israeliano che governa nei territori occupati, ndt.], coadiuvati dal ministero della Sanità, calcolarono la quantità di calorie quotidiane necessarie perché i prigionieri del più grande carcere al mondo non raggiungessero la linea rossa della malnutrizione. I carcerieri – cioè i funzionari pubblici e gli ufficiali dell’esercito – consideravano le proprie azioni come un gesto umanitario.

Negli attacchi a Gaza a partire dal 2008, i criteri israeliani per uccidere in modo lecito e proporzionato in base ai principi etici ebraici divennero più chiari. Un combattente della Jihad islamica che stesse dormendo è un obiettivo ammissibile. Le famiglie dei militanti di Hamas, compresi i bambini, meritavano anch’esse di essere uccise. Lo stesso valeva per i loro vicini. E anche per chiunque facesse bollire l’acqua su un fuoco all’aperto. E per chiunque suonasse nell’orchestra della polizia.

In altri termini, gli israeliani hanno gradualmente intrapreso un processo di immunizzazione dai riferimenti storici. Perciò non meraviglia il fatto che possano sinceramente giustificare il fuoco omicida su dimostranti disarmati e che i genitori siano orgogliosi dei loro figli soldati che hanno sparato alla schiena su manifestanti in fuga.

(Traduzione di Cristiana Cavagna pubblicata originariamente su zeitun.info)


Il territorio della Palestina (che non era stata ancora colonizzata dalla Gran Bretagna ma era ancora parte dell'impero ottomano) al nuovo bellicoso stato di Israele, fu concesso grazie all'illegittimo accordo Balfour del 1917. Quel regalo di roba altrui fu il prezzo che Gran Bretagna, Francia e Germania pagarono ai magnati di Wall Street per ottenere che gli Usa partecipassero alla guerra contro la Russia. Si può affermare che da quell'episodio nacquero due eventi che insanguinano ancora il mondo: l'aggressione a parte di Israele ai palestinesi e il conflitto mondiale tra civiltà giudaico-cristiana e civiltà islamica.

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Sbilanciamoci,

Quanto costano i respingimenti dei migranti? In 15 anni almeno 17 miliardi. Mentre droni e satelliti militari drenano risorse per l’innovazione civile. Lo scopo: la forza lavoro deve filtrare attraverso le frontiere in condizioni di bisogno e precarietà. E la difesa comune europea (PeSco) darà impulso ad un ulteriore riarmo bellico.

A Bruxelles, e tra i governi liberali e conservatori da Parigi a Berlino, va di moda attaccare chi parla esplicitamente di muri e esibisce la propria forza. Nel frattempo l’Europa, che è la seconda potenza al mondo per spesa in armamenti, avvia un grande piano di investimenti nel settore bellico e finanzia la Turchia, che ha appena costruito un muro lungo il suo confine con la Siria per difendersi meglio dai profughi che contribuisce a creare. Oltre ai 3 miliardi appena consegnati dall’Europa a Erdogan al fine di esternalizzare le frontiere e rendere invisibile[1 ]la violenza necessaria a tal scopo, l’Europa finanzia anche le tecnologie e le armi di cui la Turchia ha bisogno per i suoi obiettivi di potenza regionale.

L’attuale gestione delle frontiere interne ed esterne, rispondendo al paradigma neoliberale del migration management, necessita di un forte dispiegamento di risorse in quello che potrebbe esser definito il “business della xenofobia” fatto di droni, satelliti, videocamere, recinzioni, filo spinato e agenzie di sorveglianza. Secondo il report Money Trails, in quindici anni sono stati spesi 11,3 miliardi di euro per deportare i migranti nei paesi d’origine, circa 1 miliardo per le agenzie europee come Frontex e Eurosur, 230 milioni nella ricerca e 77 milioni per le fortificazioni. La forza lavoro deve filtrare attraverso le frontiere e, affinché chi riesce a superarle sia in condizioni di bisogno e precarietà, il loro attraversamento va reso difficile e rischioso. Nella fortezza Europa, allo stesso scopo si spendono più risorse per il respingimento che per l’accoglienza. Le migrazioni, oltre che scaturire dalle dinamiche dell’economia globalizzata, dipendono dal collasso dell’ordine internazionale, scosso da guerre, dittature, crisi climatiche e crescenti disuguaglianze.

Davanti all’insicurezza globale del neoliberismo, l’Unione Europea per affrontare questi “fattori di instabilità”, nel 2016 ha deciso di adottare una nuova politica estera, la UE Global Strategy (EUGS), al cui interno spicca il progetto di costruire una difesa comune europea. Nonostante l’analisi retrostante la strategia lasciasse spazio ad alcune positive possibilità politiche, di fatto l’Unione Europea riproduce il paradigma “realista” della difesa, costituendo un modello militaresco e nazionalista che replica i tradizionali meccanismi statali di potenza su scala più ampia.

Primo passo in tal senso è PeSCo (Permanent Structured Cooperation), l’iniziativa di cooperazione rafforzata approvata da 25 paesi membri nel dicembre 2017 all’interno del Consiglio Europeo. Coerentemente con la sostituzione della sicurezza sociale con la sicurezza poliziesca e militare, PeSCo, nei documenti di presentazione, è spacciata come la risposta alla crescente domanda di sicurezza. Oltre all’autonomizzazione della politica di difesa rispetto agli umori di Trump e dopo Brexit, tra gli obiettivi di PeSCo c’è il risparmio ottenibile con la cooperazione tra forze militari di diversi paesi e la razionalizzazione dei costi degli eserciti nazionali, valutato tra i 25 e 100 miliardi di euro. Allo stesso tempo, però, nell’ultimo anno la spesa è aumentata del 3,7%, e con PeSCo si stabilisce che ogni paese debba incrementare ulteriormente la spesa bellica, come indicato dalla NATO e da Trump. In realtà, con la scusa del risparmio, si finirà per spendere di più.

PeSCo e il Fondo Europeo per la Difesa: politica industriale, profitti e lobby
Mentre l’anemica crescita europea continua a ricordarci che l’austerity ci ha fatto perdere irrimediabilmente un decennio, dal 2020 dovrebbero esser spesi 5,5 miliardi di fondi europei e nazionali l’anno per acquisti di armi e nella ricerca bellica. Con PeSCo, i paesi dell’Unione si sono detti pronti a collaborare prevalentemente in tre ambiti: gli investimenti nella difesa, lo sviluppo di nuove capacità e la preparazione all’intervento congiunto nelle operazioni militari.

A tal fine, PeSCo si è dotata due strumenti: la Revisione coordinata annuale della Difesa (CARD), che serve a monitorare e valutare l’efficienza delle spese militari nazionali, e il Fondo Europeo per la Difesa, che dovrebbe promuovere investimenti nella ricerca e nella produzione bellica. Il Fondo Europeo per la Difesa sarà dedicato alla ricerca, con il Preparatory Action on Defence Research (PADR) e alla razionalizzazione della spesa e allo sviluppo di nuove tecnologie, con il Programma Europeo di Sviluppo Industriale nel settore della Difesa (EDIDP, European Defence Industrial Development Plan).

La prima riunione dei ministri della Difesa in formato PeSCo sulla programmazione dei progetti futuri è avvenuta il 6 marzo di quest’anno[2], ma l’ultimo atto del processo verso la difesa comune è stata l’approvazione del Parlamento Europeo del Regolamento dell’EDIDP. Contro hanno votato la sinistra radicale europea e i verdi, con l’ astensione della vicepresidente della commissione competente – la ITRE, Industry, Research and Energy – Patrizia Toia dei Socialisti e Democratici europei. Ma anche se nell’Europarlamento alcune forze politiche provano a bloccare e far divergere il progetto bellico europeo, la lobby industriale militare, nella stessa istituzione, può comunque contare su un ottimo referente. Infatti, l’anno scorso, l’elezione a presidente dell’Europarlamento di Antonio Tajani, già Commissario Europeo all’Industria assai gradito al mondo imprenditoriale e militare, ha contribuito a rilanciare il progetto di difesa europeo[3]. Del resto poi le imprese non necessitano più di tanto di queste entrature, perché possono direttamente influenzare le decisioni di investimento all’interno dei Group of Personalities, consessi ove, oltre a militari, politici e ricercatori, trovano spazio varie imprese belliche europee, come Thales, Airbus e Leonardo (ex Finmeccanica) [4].

Lo stesso sistema – per lo più con le stesse aziende – funziona anche nell’industria del controllo delle frontiere e dei respingimenti dei migranti, cuore [5] del regime delle frontiere europeo. Governi, funzionari e imprese del settore – aiutati dai media – alimentano la psicosi dell’invasione individuando come priorità politica l’espulsione dei migranti e la difesa dei confini. Di fatto, in assenza di una politica industriale europea,l’industria militare e della sicurezza crea la propria domanda e si garantisce i propri flussi di finanziamento: il Fondo europeo per la Difesa sembra esser una declinazione dello stato innovatore di Mariana Mazzucato circoscritto alla sola industria bellica e della sicurezza. E, come se non bastasse, i diritti intellettuali di proprietà resteranno alle aziende coinvolte. Nonostante il finanziamento della spesa per ricerca e sviluppo ricada sulle tasche dei cittadini europei.

Anche la base normativa suggerisce la direzione del progetto PeSCo. Infatti, dato che l’articolo 41 del TUE vieta di usare fondi europei per la sicurezza e il settore militare, PeSCo si fonda, oltre che sugli articoli 42 e 46 del TUE, sull’articolo 173 TFUE sulla competitività dell’industria. Infine, mentre le attuali regole fiscali europee prevedono che gli investimenti pubblici siano conteggiati nel deficit, l’unica deroga che le istituzioni comunitarie sembrano disposte a fornire è sul piano dell’industria militare, con lo scorporo dal disavanzo della spesa pubblica (la c.d. golden rule) per la difesa.

Insomma, ciò che è assolutamente vietato per gli investimenti volti a favorire il benessere della popolazione residente in Europa, vale per rilanciare i profitti di pochi e per aumentare l’insicurezza e la violenza globale (si pensi, da ultimo, alla vendita di armi italiane all’Arabia Saudita usate per compiere stragi in Yemen).

Spesa militare, stato europeo e democrazia

“L’obiettivo è di trasformare la collaborazione politico-militare in un volano economico-industriale” scrivono Beda Romano e Carlo Marroni sul Sole 24 Ore [6]. Per quanto Macron tenti di inserire la difesa comune nel rilancio dello spirito europeista, è difficile negare che i passi verso uno stato europeo, dotato oltre che di una moneta comune di un esercito, sono indirizzati anzitutto verso il potenziamento del complesso industriale-militare e degli attuali equilibri di potere. Altrettanto difficile è che PeSCo possa effettivamente permettere di raggiungere una maggiore integrazione dell’Unione Europea.

In effetti, per come PeSCo è strutturata – secondo l’IMI (Informationsstelle Militarisierung centre), centro studi vicino al partito Die Linke – a rafforzarsi saranno i paesi che già dominano la politica dell’Unione. L’obiettivo è un altro: rilanciare la spesa militare. Spesa che, oltre a distorcere il cambiamento tecnologico, sottrae risorse alla spesa pubblica orientata sui bisogni della società e alimenta la corsa agli armamenti favorendo l’instabilità internazionale. Come è facile immaginare, questo tipo di spesa genera distruzioni, devastazioni e inquinamento – a cui bisogna poi far fronte sostenendo notevoli costi di soccorso e di ricostruzione.

Da un punto di vista economico, per Roland Kulke della Rosa Luxemburg Stiftung, l’iniziativa non è spiegabile neanche con il consueto ricorso al keynesismo militare. Infatti, il moltiplicatore della spesa militare è più basso di quello per servizi pubblici come trasporti, sanità o educazione. Inoltre, in assenza di una coerente politica estera comune, e di una riforma della governance europea che ne colmi le lacune, un esercito europeo potrebbe diventare un pericolo: “La distinzione più importante tra un esercito e una banda di ladri è che un esercito è controllato politicamente”, scrivono gli attivisti Bram Vranken (Vredesactie) e Laëtitia Sédou (European Network Against Arms Trade) [7].

È probabile che il prossimo bilancio europeo per il periodo 2021-2027 salga almeno all’1,2% del PIL dall’1% attuale (circa 1.000 miliardi). Invece di istituire un modello di sicurezza improntato alla human security, fondato su giustizia sociale e mediazione politica, e di finanziare la transizione dall’attuale, insostenibile, sistema ad un’economia più giusta [8], molte delle risorse del budget europeo andranno a nutrire il complesso militare industriale, celando il trasferimento di ricchezza pubblica con la retorica dell’integrazione europea. Contro l’attuale configurazione neoliberale europea e la sua finta alternativa nazionalista e xenofoba, la battaglia contro la militarizzazione della sicurezza e dei confini e per la riconversione della produzione di armi ad attività civili[9] diventa quindi un terreno cruciale per costruire un’Europa diversa.


Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

Internazionale, democrazia repressiva o fascismo democratico»

La storia è andata in mille pezzi, ma continuiamo a parlarne come se tutto andasse bene. Continuiamo a parlare della diffusione della democrazia in occidente, del progresso della modernità, della libertà americana, dell’ospitalità francese, della solidarietà del nord nei confronti del sud. Democrazia di merda. Modernità di merda. Libertà di merda. Ospitalità di merda.

La storia è in frantumi: l’identità nazionale, l’ordine sociale, la sicurezza, la famiglia eterosessuale e la frontiera costituiscono la realtà che l’Europa sta costruendo. Non succede da un’altra parte, non arriva da lontano, non riguarda gli altri. È quello che facciamo qui, ora, dentro le frontiere, riguarda noi.

La storia è stata distrutta e il terrore è tornato in superficie. Attorno a noi ci sono le condizioni istituzionali che permettono l’affermazione di quella che potremmo chiamare democrazia repressiva o fascismo democratico.

Dal fascismo al libero mercato

In Polonia gli ultranazionalisti sfilano a migliaia per chiedere la rifondazione di un’Europa cattolica, celebrando la giornata dell’indipendenza. In Italia l’estrema destra arriva al potere attraverso un’elezione democratica. E intanto, ovunque, il neoliberismo agisce come un bulldozer sociale, aprendo la strada e accelerando lo smantellamento istituzionale. Nei paesi che hanno superato i regimi totalitari a metà degli anni settanta – Spagna, Grecia, Portogallo – il processo è ancora più semplice, più diretto, perché questi paesi non sono passati dal fascismo alla democrazia, ma dal fascismo al libero mercato.

In Grecia, la madre e l’avvocato di Pavlos Fyssas, rapper assassinato dai neonazisti di Alba dorata, sono il bersaglio di attacchi verbali e fisici senza che né la polizia né la magistratura intervengano per proteggerli. In Spagna Jordi Sánchez, Jordi Cuixart, Quim Forn e Oriol Junqueras sono in prigione, accusati di indipendentismo secessionista e ribellione. Decine di persone sono accusate di difendere idee politiche contrarie alla corona spagnola. Il 21 febbraio l’inaugurazione di Arco, la fiera d’arte di Madrid, è stata segnata dal sequestro di numerose foto dell’artista Santiago Sierra, che aveva presentato i ritratti di Jordi Sánchez e Jordi Cuixart definendoli “prigionieri politici”. Il muro che era stato riservato alle fotografie nella galleria Helga de Alvear a Madrid è rimasto vuoto.

La storia viene distrutta. Ma non smettiamo di ripetere che tutto va bene. Mentre i ritratti di Sierra vengono messi da parte, nella vostra Spagna ignorata e vicina, i dodici rapper del collettivo La Insurgencia sono stati condannati a due anni di carcere per “incitazione al terrorismo”.

Il cuore del mondo occidentale è rotto. Ma abbiamo deciso di continuare a vantarci dei nostri successi

“Sono un romantico della lotta armata, amico, te lo dico, per me è rivoluzione o niente”. “Ho il diritto alla ribellione, me ne fotto se non è legale. Questa costituzione non lo prevede. Che il tribunale mi processi e mi chiuda in carcere, come farebbe l’inquisizione, come se fossi un eretico. Resistere significa vincere, l’ho imparato dal Partito comunista spagnolo”. Sono queste le parole che secondo l’ufficio del procuratore generale meritano la condanna al carcere. Poco dopo, il rapper Valtònyc è stato condannato a due anni e sei mesi di prigione per vilipendio della corona spagnola e incitamento al terrorismo.

Il cuore del mondo occidentale è rotto. Secoli di espulsioni, epurazioni e stermini delle minoranze ebree e musulmane, delle minoranze sessuali, somatiche, operaie. Secoli di umiliazione e saccheggio, di espropriazioni e oltraggi hanno distrutto il cuore dell’occidente. Ma abbiamo deciso di continuare a pavoneggiarci e vantarci dei nostri successi. Il desiderio di consumo, la paura, la frustrazione e l’odio sono i sentimenti che guidano chi governa le popolazioni del nostro amato occidente.

Il linguaggio spezzato

Da dove viene la nostra frustrazione? Dalla nostra avidità? Cosa odiamo quando odiamo “l’altro”, se non una nostra invenzione? Suely Rolnik, psicoterapeuta e collaboratrice brasiliana di Félix Guattari, sostiene che “capitalismo coloniale” è il nome della patologia collettiva contemporanea. Il nostro inconscio è malato di capitale, malato di sfruttamento razziale e sessuale. Malato d’identità. Le catene collettive del linguaggio sono state spezzate. Ma abbiamo deciso di continuare a produrre discorsi su noi stessi come se il problema fosse la soluzione.

Il pianeta Terra è a pezzi. La biosfera sta morendo. Ma ci vuole più disciplina a scuola, il servizio militare obbligatorio dev’essere reintrodotto per gestire la coesione sociale e abbiamo bisogno di più armi. La violenza di genere e l’aggressione sessuale si regolano criminalizzando gli aggressori, costruendo nuove prigioni e allungando le condanne. E noi abbiamo deciso di continuare a produrre quella che chiamiamo ricchezza, come se tutto andasse bene. Ogni giorno apriamo nuove miniere dove fino a ieri avevamo cercato di proteggere il territorio. La ricchezza è il capitale morto. Il capitale morto è la ruggine che corrode la vita. Ci siamo rifiutati di parlare con i nostri avi morti. È il nostro ultimo millennio. Parleremo alle macchine, i nostri unici figli. Chissà come la nostra progenie meccanica racconterà la fine della nostra storia.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Huffington post,

«Proseguono le violenze ancora feriti. Parole di fuoco fra Erdogan e Netanyahu. "Terrorista e occupante" ... "Non accettiamo lezioni da chi bombarda i civili»"
La tensione a Gaza resta altissima e si continua a sparare. Israele continua a mostrare i muscoli anche dinanzi alla comunità internazionale e, grazie alla sponda di Washington, esclude che verrà avviata quella indagine "indipendente e trasparente" invocata dal segretario generale dell'Onu Antonio Guterres e anche dal rappresentante dell'Ue per la politica estera Federica Mogherini, per accertare quanto realmente accaduto in occasione dei fatti di sangue di venerdì costati la vita ad almeno 16 palestinesi, con oltre 2 mila feriti.

Al confine fra Israele e Striscia di Gaza nelle ultime ore tre palestinesi sono rimasti feriti da proiettili veri esplosi dalle forze di sicurezza israeliane. Secondo fonti mediche, citate dall'agenzia di stampa palestinese Wafa, due giovani sono stati raggiunti da spari alla gamba negli scontri vicino alla città di Jabalia, nella zona nord della Striscia; mentre un terzo giovane è stato raggiunto da spari a est di Gaza City, vicino al quartiere di al-Zaytoon. Diverse altre persone, inoltre, avrebbero riportato sintomi di soffocamento a causa dell'inalazione di gas lacrimogeni lanciati dai soldati israeliani.

A livello diplomatico, l'Onu è in pieno stallo. "Non ci sarà alcuna commissione di inchiesta" ha assicurato il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, alla radio militare, definendo "ipocriti" gli appelli per una commissione d'inchiesta. "Devono capire che non ci sarà nulla di simile". Il Kuwait, che rappresenta in Consiglio Onu i Paesi arabi, aveva proposto la dichiarazione con la richiesta di avvio di un'indagine indipendente, ma la bozza di documento esprimeva anche "grave preoccupazione per la situazione al confine" e riaffermava "il diritto alla protesta pacifica" e il dolore del Consiglio "per la perdita di vite di palestinesi innocenti". Gli Usa hanno sollevato obiezioni bloccandola.

Si mantiene saldo l'asse Trump-Netanyahu, sempre più forte dopo il riconoscimento, a dicembre scorso, di Gerusalemme come capitale di Israele e prossima sede dell'Ambasciata americana. Un trasferimento che è previsto per il 14 maggio, giorno della dichiarazione di indipendenza di Israele e data cerchiata di rosso sui calendari per il rischio che sia l'appuntamento per nuove imponenti proteste palestinesi. Il 15 maggio è invece fissato l'inizio del Ramadan, mese sacro per i musulmani, che spesso coincide con l'inasprimento degli attacchi sul fronte palestinese. Negli Usa l'ex candidato alla Casa Bianca, Bernie Sanders, parla di "reazione eccessiva" di Israele e del "diritto di ogni popolo di poter manifestare per un futuro migliore, senza subire una reazione violenta". Da Donald Trump nessuna parola, solo un segnale forte: l'Onu non può mettere occhi (e bocca) sui fatti di Gaza.

L'Autorità nazionale palestinese ha ribadito la necessità di una protezione internazionale e ha chiesto una riunione urgente della Lega araba a livello di rappresentanti permanenti per discutere di quelli che denuncia come crimini di Israele contro i palestinesi. Lo riferisce Diab al-Louh, ambasciatore palestinese al Cairo e rappresentante permanente della Palestina presso la Lega araba, spiegando che l'incontro è stato chiesto dal presidente palestinese Abu Mazen e dal ministro degli Esteri palestinese Riyad Malki a seguito della grave violazione del diritto umanitario internazionale.

Si accendono nel frattempo i toni fra Israele e Turchia. Parole di fuoco che arrivano da Ankara e rimbalzano da Gerusalemme con ancora maggior vigore. Recep Tayyip Erdogan aveva definito "un attacco disumano" la repressione israeliana delle manifestazioni palestinesi. Dopo l'elogio pubblico del lavoro svolto dall'esercito israeliano, torna a parlare Benjamin Netanyahu, replicando al presidente turco. "L'esercito più morale del mondo non accetterà lezioni da qualcuno che per anni ha bombardato indiscriminatamente popolazioni civili" ha affermato il premier israeliano. "A quanto pare, così ad Ankara celebrano il primo aprile". Israele colpisce civili innocenti, Benyamin Netanyahu "è un terrorista e un occupante", è la replica di Erdogan. "Non serve che dica al mondo quanto sia crudele l'esercito israeliano. Possiamo capire cosa fa questo Stato terrorista guardando la situazione a Gaza e a Gerusalemme", ha detto parlando al congresso del suo partito Akp nella provincia meridionale di Adana. "Hey Netanyahu! Sei un occupante. Ed è come occupante che sei su quelle terre. Al tempo stesso, sei un terrorista".

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Perché è stanco signor Levy?

«Perché non vedo alcun cambiamento in vista nell’atteggiamento di Israele nei confronti dei palestinesi sotto occupazione. Anzi, con Trump, Israele ormai si sente protetto qualsiasi cosa voglia fare. E stanco perché l’Onu, come ha dimostrato la sua debole e vigliacca reazione al massacro perpetrato l’altro ieri dall’esercito israeliano contro i civili di Gaza, ormai è definitivamente nelle mani degli Stati Uniti, ossia della cricca razzista e integralista installatasi nella Casa Bianca al seguito di Trump e del suo genero Jared, ebreo americano, esponente della potente famiglia Kushner, da sempre finanziatrice delle colonie illegali nei Territori palestinesi».

La destra ebraica e i religiosi che formano l’attuale governo non temono una nuova Intifada?
«È un rischio che non ha problemi a correre perché l’unico obiettivo di questo governo è rimanere al potere. E per rimanerci sa che deve solleticare gli istinti più bassi e alimentare le paure più irrazionali della società israeliana sempre più oltranzista e xenofoba anche a causa del lavaggio del cervello mediatico. La paura principale è il terrorismo che viene facilmente sovrapposto ad Hamas. Che, pur avendo dimostrato di non essere in grado di minacciare davvero l’esistenza di Israele, viene additata come il demonio; ma, ciò che è più grave, è che tutti gli abitanti di Gaza vengono ormai considerati dalla maggior parte degli israeliani come terroristi a priori. Molti si scordano che a Gaza ci sono anche palestinesi di religione cristiana. Per quanto riguarda una terza intifada, non credo ci sarà. I palestinesi sono stanchi di combattere e sono troppo indeboliti dal gioco sporco delle grandi potenze e dei paesi arabi che hanno contribuito a dividerli al proprio interno, rendendoli ancora più deboli.

Ma i responsabili di Hamas manipolano la popolazione che governano nella Striscia e usano i civili come carne da macello. Non ultima la bimba di 7 anni mandata nella zona cuscinetto lungo il confine tra Gaza e Israele, come ha denunciato proprio il suo giornale, per provocare i soldati israeliani.
«Ciò che di sbagliato e criminale fa Hamas va ovviamente riportato, come tutte le altre notizie di interesse pubblico. Resta il fatto che l’esercito israeliano non ha scusanti per il massacro, da scrivere a caratteri maiuscoli, che ha perpetrato lungo la zona di sicurezza voluta da Israele per umiliare e provocare la gente che ha, anzi aveva, i campi con cui si sostenta proprio in quella fascia di territorio».

Questa volta le Forze di Sicurezza Israeliane (IDF) non si sono fatte scrupolo di reprimere nel modo più violento la manifestazione voluta da Hamas per ricordare il ‘diritto al ritorno’ promesso loro già nel 1948 dall’Onu?
«Da anni Israele e le nostre forze di sicurezza violano apertamente i diritti dei palestinesi, ribadisco vittime innocenti della più lunga occupazione della storia contemporanea, nell’indifferenza o falsi strali della comunità internazionale. Israele si è sempre fatto beffa delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Purtroppo non c’è nulla di nuovo sotto il sole».

Israele ha commesso un crimine di guerra a Gaza questa volta?
«Lo ha fatto anche prima, e più volte. Ma non lo definirei un crimine di guerra , semplicemente perché a Gaza non vi è guerra, c’è solo sopruso e ingiustizia. L’esercito israeliano è uno dei più forti e potenti al mondo e continua a spacciarsi per quello anche più etico quando invece, nella realtà, fa il tiro al piccione contro persone imprigionate da decenni e private di tutto proprio dallo stesso Stato israeliano. L’esercito più potente ed etico che ammazza dei disperati perché gli tirano addosso delle pietre. Vergognoso».

Crede che sia finita qui?
«No, purtroppo. Da qui al 15 maggio, anniversario della fondazione di Israele, ci saranno probabilmente, altri massacri ad armi impari. Se non scoppierà la Terza Intifada penso che tutto finirà come sempre. Ossia con l’assoluzione di Israele da parte di un mondo cinico e indifferente».

Sull'argomento vedi il recente articolo Palestina e Israele 101 anni dopo

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Non tutti ricordano come e perché lo stato d’Israele nacque, proprio su quelle terre, sulle quali oggi i palestinesi soccombono, uccisi o feriti dalle armi di Israele. La vicenda è interessante in relazione sia al presente immediato (ciò che accade nella striscia di Gaza), sia in relazione alla guerre diffusa e ormai globale tra mondo giudaico-cristiano e mondo musulmano. I giovani non sanno (nelle scuole questa storia non è mai stata raccontata), gli adulti e i vecchi, se mai l’hanno saputa, l’hanno dimenticata. Del resto i media, nella loro sistematica banalizzazione e semplificazione dei fatti, fanno d’ogni erba un fascio e presentano il conflitto israelo-palestinese come una rissa da cortile.

Ricordiamo dunque i fatti, riprendendoli da un articolo del giornalista israeliano Gideon Levy, collaboratore del quotidiano di Tel Aviv Haaretz, che abbiamo a suo tempo pubblicato su eddyburg (Il peccato originario dello stato israeliano).

La nascita di Israele avvenne, di diritto e di fatto, il 2 novembre 1917, quando la Gran Bretagna, sottoscrivendo il “Balfour agreement [1]” s’impegnò a facilitare la nascita di uno stato per il popolo ebraico in Palestina. La Palestina apparteneva allora all’impero ottomano, solo più tardi divenne colonia dell’impero britannico; ma con l’impegno a realizzare l’accordo Balfour, la Gran Bretagna avrebbe ottenuto, come ottenne, l’appoggio della potente lobby ebrea dell’America del Nord per la partecipazione degli USA alla prima guerra mondiale.

Dopo la dichiarazione Balfour, molti ebrei emigrarono in Palestina. Da subito - osserva Gideon Levy - si comportarono come padroni e il loro atteggiamento nei confronti degli abitanti non ebrei non è cambiato. Non fu un caso che un piccolo gruppo di ebrei sefarditi che abitavano in Palestina si oppose a Balfour e difese l’uguaglianza con gli arabi. E non fu un caso che furono messi a tacere.

La dichiarazione Balfour permise alla minoranza ebrea di controllare il paese, ignorando i diritti nazionali di un altro popolo. Cinquant’anni dopo la pubblicazione del documento, Israele conquistò la Cisgiordania e Gaza. Le invase con lo stesso piglio colonialista. E ancora oggi prosegue la sua occupazione, trascurando i diritti degli altri abitanti.

Se si guarda alle vicende della politica quando è diventata storia si scoprono le ragioni delle tragedie che affliggono oggi l’umanità, Si riesce a comprendere la tragedia delle migrazioni di oggi se si è compreso che lo sfruttamento dell’Africa compiuto dal colonialismo europeo fu un errore, del quale oggi paghiamo il prezzo. Così, l’immissione forzosa di un aggressivo corpo estraneo nei territori dei palestinesi è stato la causa (o la più importante delle cause) che ha scatenato il conflitto, tra il mondo giudaico-cristiano e il mondo musulmano.

[1] Questo è il testo originale della lettera con cui il ministro degli esteri dell’UK Balfour comunica al governo USA l’accordo raggiunto

«Foreign Office
November 2nd, 1917
Dear Lord Rothschild,
I have much pleasure in conveying to you, on behalf of His Majesty's Government, the following declaration of sympathy with Jewish Zionist aspirations which has been submitted to, and approved by, the Cabinet.
"His Majesty's Government view with favour the establishment in Palestine of a national home for the Jewish people, and will use their best endeavours to facilitate the achievement of this object, it being clearly understood that nothing shall be done which may prejudice the civil and religious rights of existing non-Jewish communities in Palestine, or the rights and political status enjoyed by Jews in any other country."
I should be grateful if you would bring this declaration to the knowledge of the Zionist Federation.
Yours sincerely,
Arthur James Balfour»

ENA news, 30 marzo 2018. Continua lo lotta pacifica del popolo palestinese contro l'occupazionw arbitraria della loro terra da parte del nuovo stato, (israele) inventato dall'Eropa per scrollarsi di dosso la responsabilità del nazismo.

Non sappiamo che cosa succederà in questa giornata, non sappiamo se rivedremo le nostre ragazze per fare i workshop e, anche se sta spuntando l’alba, la giornata si annuncia drammatica” scrive la cooperante italiana Meri Calvelli»

Gaza, 30 marzo 2018, Nena News – Piove questa mattina in Palestina, è la giornata della terra e centinaia di migliaia di palestinesi si preparano alla marcia del 42° anniversario, che segna uno dei tanti capitoli neri verso questo popolo; il 30 marzo del 1976, la polizia israeliana represse proteste di cittadini palestinesi contro la confisca di terre in Galilea destinate alla costruzione di insediamenti ebraici. Nove manifestanti vennero uccisi e centinaia furono feriti e arrestati. Da allora, ogni anno è commemorata tale data come “Giornata della Terra palestinese”.

Qui a Gaza la sicurezza locale, ha chiesto di non muoverci, di non andare alle frontiere, di evitare ogni situazione di eventuali caos. Siamo a Gaza per un progetto di Scambio e Formazione, che svolgiamo 2 volte l’anno, sul territorio di Gaza; un territorio sotto assedio, chiuso sigillato come un carcere di massima sicurezza senza fine pena per 2 milioni di persone. Il progetto incontrerà decine e decine di giovani ragazzi e ragazze di bambini e adulti, che per non morire di depressione si attivano ogni giorno creando i diversivi di divertimento e attività’ che nessuno gli concede; si attivano per creare le basi di una resilienza quotidiana necessaria ad affrontare una vita che non presenta nessun futuro da molto tempo; una aspettativa di vita che prevede forse per loro solo la morte in diretta di decine di persone che ogni giorno tentano di fuggire da questa gabbia, o che comunque costretti a morire perché impossibilitati ad uscire anche se sono malati.

Una vita fatta di mancanza di luce, di acqua, e anche se trovano il cibo sufficiente per mangiare ogni giorno, non trovano la bellezza di poter pensare che potrebbero andare a lavorare o a fare il giro del mondo. Solo pochi ce la fanno, se aiutati adeguatamente ad uscire di qui. Oggi la marcia, nel suo ennesimo anniversario vorrebbe ribadire la necessità di uscire e di ritornare anche solo a vedere, quella che era la loro terra di Palestina, magari a visitare i propri vecchi cari dall’altra parte dei territori occupati, magari di poter incontrare amici diversi e lontani che la gabbia di Gaza ha escluso.

La marcia, che è stata organizzata pacificamente da molte centinaia di migliaia di palestinesi, incontrerà sul campo barriere, droni, spari e gas. Non si prevedono buoni propositi dall’altra parte, i tanti cecchini piazzati lungo tutto il confino, terranno d’occhio uno ad uno i tanti che si riverseranno verso le barriere, con l’ordine di sparare su ognuno di loro. Le ragazze con le quali avremo i workshop nei prossimi giorni ci hanno detto che parteciperanno alla manifestazione, in modo pacifico con le mani alzate, senza sassi e senza fuochi, ma che saranno pronte ad andare verso un confine aperto anche a costo di morire. Non sappiamo che cosa succederà in questa giornata, non sappiamo se rivedremo le nostre ragazze per fare i workshop e anche se sta spuntando l’alba, la giornata si annuncia drammatica.

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bocchescucite.org, 25 marzo 2018. Un grido di dolore. Un'invettiva che non si può non condividere. Un gesto d'amore che dovrebbe suscitare un moto di rabbia e un coro di ribellione che non coinvolgesse solo gli Happy Few

Sono indignato per quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi verso i migranti, nell’indifferenza generale. Stiamo assistendo a gesti e a situazioni inaccettabili sia a livello giuridico, etico ed umano.

E’ bestiale che Destinity, donna nigeriana incinta, sia stata respinta dalla gendarmeria francese. Lasciata alla stazione di Bardonecchia, nella notte, nonostante il pancione di sei mesi e nonostante non riuscisse quasi a respirare perché affetta da linfoma. E’ morta in ospedale dopo aver partorito il bimbo: un raggio di luce di appena 700 grammi!

E’ inammissibile che la Procura di Ragusa abbia messo sotto sequestro la nave spagnola Open Arms per aver soccorso dei migranti in acque internazionali, rifiutandosi di consegnarli ai libici che li avrebbero riportati nell’inferno della Libia.

E’ disumano vedere arrivare a Pozzallo sempre sulla nave Open Arms Resen, un eritreo di 22 anni che pesava 35 kg, ridotto alla fame in Libia, morto poche ore dopo in ospedale. Il sindaco che lo ha accolto fra le sue braccia, inorridito ha detto :”Erano tutti pelle e ossa, sembravano usciti dai campi di concentramento nazisti”.

E’ criminale quello che sta avvenendo in Libia, dove sono rimasti quasi un milione di rifugiati che sono sottoposti - secondo il il Rapporto del segretario generale dell’ONU , A. Guterres- a “detenzione arbitraria e torture, tra cui stupri e altre forme di violenza sessuale, a lavori forzati e uccisioni illegali.” E nel Rapporto si condanna anche ”la condotta spregiudicata e violenta da parte della Guardia Costiera libica nei salvataggi e intercettazioni in mare.”

E’ scellerato, in questo contesto, l’accordo fatto dal governo italiano con l’uomo forte di Tripoli, El- Serraj (non c’è nessun governo in Libia!) per bloccare l’arrivo dei migranti in Europa.

E’ illegale l’invio dei soldati italiani in Niger deciso dal Parlamento italiano, senza che il governo del Niger ne sapesse nulla e che ora protesta.

E’ immorale anche l’accordo della UE con la Turchia di Erdogan con la promessa di sei miliardi di euro, per bloccare soprattutto l’arrivo in Europa dei rifugiati siriani, mentre assistiamo a sempre nuovi naufragi anche nell’Egeo: l’ultimo ha visto la morte di sette bambini!

E’ disumanizzante la condizione dei migranti nei campi profughi delle isole della Grecia. “Chi vede gli occhi dei bambini che incontriamo nei campi profughi- ha detto l’arcivescovo Hyeronymous di Grecia a Lesbos- è in grado di riconoscere immediatamente, nella sua interezza la “bancarotta dell’umanità.”

E’ vergognoso che una guida alpina sia stata denunciata dalle autorità francesi e rischi cinque anni di carcere per aver aiutato una donna nigeriana in preda alle doglie insieme al marito e agli altri due figli, trovati a 1.800 m , nella neve.

Ed è incredibile che un’Europa che ha fatto una guerra per abbattere il nazi-fascismo stia ora generando nel suo seno tanti partiti xenofobi, razzisti o fascisti.

“Europa , cosa ti è successo?”, ha chiesto ai leader della UE Papa Francesco. E’ questo anche il mio grido di dolore.

Purtroppo non naufragano solo i migranti nel Mediterraneo, sta naufragando anche l’Europa come “patria dei diritti”.

Ho paura che, in un prossimo futuro, i popoli del Sud del mondo diranno di noi quello che noi diciamo dei nazisti.

Per questo mi meraviglio del silenzio dei nostri vescovi che mi ferisce come cristiano, ma soprattutto come missionario che ha sentito sulla sua pelle cosa significa vivere dodici anni da baraccato con i baraccati di Korogocho a Nairobi (Kenya).

Ma mi ferisce ancora di più il quasi silenzio degli Istituti missionari e delle Curie degli Ordini religiosi che operano in Africa.

Per me è in ballo il Vangelo di quel povero Gesù di Nazareth:”Ero affamato, assetato, forestiero…” E’ quel Gesù crocifisso, torturato e sfigurato che noi cristiani veneriamo in questi giorni nelle nostre chiese, ma che ci rifiutiamo di riconoscere nella carne martoriata dei nostri fratelli e sorelle migranti. E’ questa la carne viva di Cristo oggi.

Napoli, 24 marzo 2018

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