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Siamo un gruppo di capalbiesi, residenti stabili, molti tra noi giovani, operatori di aziende agricole, turistiche, ricettive, e con noi anche abituali frequentatori, alcuni presenti da decenni, persone che amano pensare a Capalbio come qualcosa di non effimero o soltanto vacanziero. Capalbio è un piccolo borgo della Maremma Toscana, con un’economia che si regge sull’agricoltura di qualità e sul turismo naturalistico. Innanzitutto, per favore, basta con “Capalbio regno dei VIP”! E’ uno stereotipo riproposto da chi non ha alcun interesse alla vera informazione.

Se una cinquantina di profughi viene ospitata in un “condominio residenziale di lusso finemente arredato” pensiamo si tratti di un significativo avvenimento storico, un piccolo segno dei tempi, contraddittorio e attualissimo, non una catastrofe lesiva “dell’appeal di Capalbio”.
Crediamo sia mortificante porre come uno dei problemi principali quello del tracollo dei valori immobiliari. Certamente i problemi esistono: i rapporti inevitabili e per alcuni versi auspicabili con la popolazione locale, le possibilità/opportunità di lavoro, il tempo di permanenza di questi cittadini stranieri, la loro composizione famigliare (chi è solo ha forse ancora più bisogno di accoglienza), ecc. Tuttavia giustificare con simili problemi reali un rifiuto, una paura preventiva, è atteggiamento che sfiora il razzismo.

Guardiamo invece a quei modelli positivi, di cui alcuni organi di informazione hanno giustamente dato conto, comuni dove sono state messe in atto modalità di accoglienza che, partendo dal concetto che ogni diversità è una ricchezza, hanno prodotto uno scambio culturale, sociale, e persino di lavoro, esempi di vera e profonda Civiltà, e la maiuscola non è usata a caso!
Il problema dell’emergenza profughi, lo spostamento di intere comunità, è un fatto epocale che deve essere gestito dalle pubbliche amministrazioni e dalle popolazioni locali con disponibilità, solidarietà e buon senso.

Ricordiamo che in passato milioni di italiani sono stati costretti a migrare verso altri paesi. Ricordiamo che la Maremma è sempre stata terra di immigrazione, terra che ha accolto nel corso dei secoli braccia che cercavano lavoro, donne e uomini che cercavano un futuro migliore per sé e per i propri figli.

Non vogliamo dimenticare questa nostra storia e tradizione di accoglienza prestandoci a strumentali ipocrisie e rifiuti.

Agata Liotta, Angela Crispolti, Anna Maria Bianchi, Beniamino Podestà, Corinna Vicenzi, Dimitri Angelini, Elena Liotta, Elisa Munton, Enrico Barile, Esterino Montino, Fabio Cianchi, Federico Mantini, Flavio Barile, Francesca Crispolti, Francesco Saverio Bezzi, Giovanni Santachiara, Giuseppe Miranda, Ilaria Calvano, Irene Silvestri, Loredana Lucentini, Marco Caracciolo, Maria Floriana Calvano, Martina Felci, Matthieu Taunay, Moira Barili Meocci, Monica Cirinnà, Paolo Piccolotti, Roberto Calvano, Roberto Faenza, Sara Brazzi, Sara Lilli, Sara Nasti, Sebastiano Bianca, Silvia Marchetto, Simone Mauro, Stefano Denci, Valentino Podestà, Valeria Cerilli, Veronica Rossi, Viola Morri, Viviana Calvisi, Giulio Breglia, Andrea Giacomo Minichini, Marta Cardarelli, Chiara Valentini, Aldo Tortorella, Alessandro Gassmann, Elena Guerrini, Furio Colombo, Paolo Messina, Laura Messina

Riferimenti
Vedi l'esperienza e l'azione dei "comuni virtuosi, del Comune di Rivalta e della rete Co.Co.Pa, nell'intervento di Gianna De Masi; sulla questione più generale vedi anche elazione di Ilaria Boniburini, Paolo Dignatici ed Edoardo Salzano, nonchè numerosi scritti nella cartella Esodo XXI secolo.

«Germania. La disobbedienza civile di alcuni comandanti di Lufthansa, Air Berlin e Germanwings. Sono oltre 330 le deportazioni fallite nel 2016 perché il personale di volo ha preferito seguire le regole sulla libertà del "passeggero"».

Il manifesto, 21 agosto 2016 (c.m.c.)

Resistenza alla deportazione. Piccola cronaca della disobbedienza civile di chi si oppone al rimpatrio forzato dei migranti. Oltre 600 casi di obiezione fisica e di coscienza inceppano il piano di espulsioni del governo Merkel, con buona pace della campagna elettorale come della «Dichiarazione di Berlino» sulla sicurezza presentata giovedì dai ministri cristiano-democratici.

È la «politica della porta aperta» che consente di uscire dall’aereo all’ultimo minuto; il «Ce la facciamo» opposto a Mutti delle associazioni pro-asilo che cominciano a spiegare ai profughi i trucchi per aggirare i rimpatri. La prova che, come sempre, in Germania non tutti sono disposti a obbedire fino in fondo agli ordini delle autorità. A partire dai piloti dell’aviazione.

Sul sito Deutsche Welle (Dw) sono di pubblico dominio le “spigolature” della resistenza alla macchina delle espulsioni guidata dal ministro dell’interno Thomas De Maizière (Cdu). Nel primo semestre 2016, nonostante gli annunci del giro di vite sulle espulsioni (100 mila entro dicembre è la tabella di marcia del governo) i rimpatri di migranti si sono limitati a 35 mila casi certificati e non tutti andati a buon fine.

Di questi spiccano seicento «abbandonati» perché la polizia non è riuscita a completare la procedura, più che sintomatici dell’inceppo etico-legale alle deportazioni.

La situazione tipica è riassunta nella partenza dell’ultimo volo di ritorno per i profughi pronto all’allineamento sulla pista dell’aeroporto di Lipsia-Halle. «Il passeggero viene scortato da due agenti di polizia a bordo dell’aereo. Qualche minuto prima del decollo insieme ad altri rifugiati si rifiuta di partire, quindi inizia a urlare che non vuole allacciare le cinture di sicurezza. Infine spiega ai piloti che non sta viaggiando sotto la propria volontà» riporta Dw puntualmente, e ufficialmente visto che si tratta di un organo di informazione controllato dal governo. A quel punto il comandante comunica all’ufficiale di polizia che si rifiuta di decollare.

Oltre 330 deportazioni nel 2016 sono fallite perché il personale di volo ha preferito seguire le regole sulla libertà del «passeggero» che il foglio di via al migrante espulso della polizia federale. In 160 casi è intervenuto personalmente il comandante a spiegare che «non avrebbe preso a bordo nessuno se non dopo la conferma della volontà dei passeggeri di far ritorno nel “Paese sicuro” di destinazione».

Spicca il nein di 46 piloti della compagnia di bandiera Lufthansa ma anche di 23 di Air Berlin e di 20 in servizio a Germanwings. Per ben 108 volte sono riusciti a far abortire il take-off dell’aereo affittato dal governo accogliendo il rifiuto “last-minute” dei profughi al rimpatrio.

In maggioranza chi resiste è iracheno, siriano, afghano o somalo ma c’è anche chi ha il passaporto di Eritrea, Gambia, Camerun. A loro il sito w2eu fornisce le dritte per opporsi alla deportazione, una serie di «independent information for refugees» fondamentali per orientarsi nella trincea delle espulsioni: «Di solito basta un sonoro “No” quando si viene fatti sedere nell’aereo. Se non funziona, è utile iniziare gridare, buttarsi sul pavimento dell’aereo o praticare altre forme di disobbedienza passiva».

Succede così a Lipsia come a Francoforte, altro hub da cui partono i voli di ritorno dei profughi, e si può fare anche perché sulla polizia “pesa” il caso di un migrante che nel 1999 morì durante la deportazione. Da allora in Germania le forze dell’ordine hanno l’ordine scritto di «rendere il processo trasparente e in linea con i Diritti umani».

Per questo il numero di rimpatri non segue l’«accelerazione delle espulsioni» chiesta dal governo quanto dall’opposizione di Alternative für Deutschland. Come se non bastasse, in 37 dei casi abbandonati dalla polizia la deportazione non è riuscita perché «il Paese di origine ha rifiutato l’ingresso al connazionale» riporta sempre Dw.

Briciole comunque nel mare di respingimenti che non si ferma. Nonostante i relativamente pochi casi eseguiti, i rimpatri aumentano. Da gennaio a giugno in Germania si è registrato il 50% di “partenze” in più rispetto all’intero 2015. Ai confini della Baviera la polizia di frontiera ha bloccato 13.324 migranti contro gli 8.913 di 12 mesi fa.

«». Il manifesto,

Eccoli qui, gli «angeli dell’immigrazione». Cittadini comuni come Alessandra e Patrizia, di giorno avvocati e la sera a ramazzare nei bagni della mensa di Sant’Eusebio. Come Laura, studentessa al quinto anno di medicina che ha messo in piedi uno staff di dottori e infermieri per assistere le centinaia di rifugiati accampati nei giardini e all’interno della stazione Como San Giovanni, in attesa che si apra un varco verso la Svizzera, al momento una delle frontiere meno permeabili e allo stesso tempo più calde d’Europa. O come Rafael, eritreo in Italia dal 2006 con moglie e figli, che ora si trova dall’altra parte della barricata e ricambia facendo da mediatore e interprete.

Si sono mobilitati in pochi giorni, nella seconda metà di luglio. Quando gli svizzeri hanno cominciato a rispedire indietro chi tentava di passare il confine di Chiasso e Como si è ritrovata improvvisamente a fare i conti con un fenomeno fino ad allora semisconosciuto, un volontario della Caritas locale, Flavio Bogani, ha lanciato un appello alla solidarietà attraverso il web. In poche ore alla mailing list si sono iscritte più di 300 persone «delle più diverse provenienze sociali e culturali», spiega il direttore della Caritas Roberto Bernasconi: cattolici e non, di sinistra e non, da sempre impegnati in attività sociali e non, uomini e donne in egual misura, senza distinzioni d’età.

La mobilitazione spontanea ha prodotto un piccolo miracolo estivo. Oltre alla mensa autogestita, tre chiese hanno aperto le loro porte per ospitare i profughi, due in città più quella storica di Rebbio guidata da don Giusto della Valle, da anni impegnata sul fronte dei migranti. Lo stesso ha fatto l’Opera Don Guanella e la Croce Rossa ha allestito un tendone. Una scuola privata ha messo a disposizione le docce, negozi e farmacie hanno donato i loro prodotti, ma soprattutto la catena della solidarietà privata ha fatto sì che ai rifugiati non mancasse nulla: generi di prima necessità, vestiti e coperte per la notte, tende, cure mediche.

La mensa
Per rendersene conto basta farsi un giro alla mensa di Sant’Eusebio, nel salotto buono di Como, a un passo dal Duomo e dal lungolago affollati di turisti. Ogni sera, all’ora consacrata dalle ultime mode all’apericena, il sacrestano Luciano apre le porte del teatro parrocchiale provvisoriamente trasformato in ristorante alle centinaia di africani ordinatamente in fila per un tavolo e un piatto caldo. È un uomo mingherlino e dal tono di voce basso, e mai si sarebbe immaginato che un giorno i drammi dell’Africa avrebbero bussato alla sua porta. «Ero abituato a raccogliere i vestiti donati alla Caritas e agli incontri della terza età», ma un mese a questa parte la sua vita ha avuto un guizzo improvviso.

Racconta Luca, un milanese che vive in un comune della provincia, tra i primi a rispondere all’appello per i volontari: «Quando abbiamo aperto la mensa era un lunedì e avevamo cibo solo fino al mercoledì, non sapevamo se saremmo riusciti ad andare avanti. Invece da allora non abbiamo saltato un solo pasto» e il deposito dei generi alimentari non langue. A oggi, oltre 500 persone si sono messe a disposizione senza chiedere nulla in cambio: fior di professionisti addetti alle pulizie senza battere ciglio, una batteria di volontari a servire le pietanze da far invidia al migliore dei catering e pensionati ai fornelli. Un’enormità per un luogo più avvezzo ad accogliere i facoltosi turisti nordeuropei che un pugno di africani in fuga dalle guerre. «Questo dimostra che l’arrivo di così tante persone bisognose di aiuto ha scosso le coscienze e che c’è ancora una città viva in grado di prendersi carico degli altri e in grado di autogovernarsi», dice Bernasconi.

A dirigere gli ingressi ci sono, insieme al sacrestano, un aitante sessantacinquenne e un ragazzo, presenze superflue perché alla mensa di Sant’Eusebio finora non si è mai verificato il pur minimo incidente. I commensali provengono quasi tutti dal Corno d’Africa: Sudan, Eritrea, Somalia, «in particolare stanno arrivando molti oromo in fuga dalla repressione governativa in Etiopia», spiega Rafael. Ci sono famiglie intere, tanti giovanissimi, maschi e donne, e quasi la metà sono minori non accompagnati, a volte meno che adolescenti. Il loro obiettivo è in particolare la Svizzera: sperano che prima o poi rientreranno nelle quote di rifugiati previste dal paese elvetico.

Altri vogliono andare in Germania per ricongiungersi ai familiari o perché nel passaparola migrante la nuova meta è la patria di Angela Merkel. In Italia non vuole rimanere nessuno: non la ritengono un posto in cui possono costruirsi un futuro. «Quando chiediamo loro se vogliono andare in un centro d’accoglienza, di solito ci rispondono di no e, se accettano, dopo un po’ scappano per tornare alla stazione», dice Bernasconi. Per questo sta suscitando perplessità la decisione del Viminale di allestire un campo container in un ex deposito di auto: c’è chi pensa che nascerà un ghetto e chi invece teme che buona parte degli africani vi rimarrà ben poco. «Io voglio andare a Ginevra e prima o poi ci riuscirò», afferma un migrante con convinzione.

La frontiera è blindata

In Svizzera al momento è però praticamente impossibile entrare senza essere scoperti e rimandati indietro, non senza prima aver subito perquisizioni corporali e qualche ulteriore umiliazione dal chiaro intento dissuasivo. Hanno fatto il giro del mondo le immagini dei tre africani nascosti sotto i sedili di un Eurocity diretto a Basilea, ma si tratta di un’eccezione. I varchi sono controllati anche con i droni e al massimo qualcuno è riuscito ad arrivare fino a Bellinzona per essere poi respinto. Per chi dovesse essere accolto, la prospettiva è di finire nel previsto centro d’accoglienza di Rancate, in Ticino. Pure al di là del confine si è messa in moto una catena di solidarietà: ogni mattina i volontari dell’associazione Firdaus varcano il confine per portare vestiti e assicurare il pranzo ai profughi. Transfrontalieri al contrario, per solidarietà.

Il Fatto Quotidiano, 11 agosto 2016 (p.d.)

Non è un’emergenza. Se soltanto ci fosse una politica di diffusione, di distribuzione degli arrivi, la situazione sarebbe risolvibile.
Don Virginio Colmegna, lei è presidente della fondazione Casa della Carità ed è un simbolo dell’accoglienza milanese. La sua città, però, sta soffrendo...

I numeri del ministero dell’Interno che anche voi riportate lo dimostrano: non c’è stato un boom improvviso e inaspettato degli sbarchi. Anzi, sono un pochino meno dell’anno scorso. Questo non vuol dire che a Milano non ci siano problemi da risolvere. Il guaio è che gli arrivi si concentrano nelle città di passaggio obbligato. E che qui li ritroviamo nei luoghi chiave, come le stazioni.

Lei che ha dedicato tutta la vita all’accoglienza che soluzioni suggerirebbe?

Certo, c’è la questione dell’Unione Europea, degli stati che chiudono i confini. Ma la politica deve e può trovare soluzioni, preparare programmi in anticipo. Soprattutto senza farsi prendere dagli annunci. Bisogna fare. E la prima cosa, appunto, è distribuire le persone sul territorio. Così Milano e il Comune che si sono assunti delle responsabilità non saranno lasciati soli.

Crede che ci sia qualcuno che vuole speculare politicamente su questa crisi?

Sì, purtroppo. Ma chi dice di rispedire questa povera gente a casa sa benissimo che non è possibile. Come si potrebbero rispedire nei loro paesi delle madri con bambini piccoli, dei ragazzi che morivano di fame. Chi se la prende con loro lo fa per il consenso. E così incancrenisce la paura. Per le speculazioni politiche c’è tempo, ora rimbocchiamoci le maniche che c’è altro cui pensare.

In molti puntano il dito sul rischio del terrorismo...

Le paure degli altri non vanno mai sottovalutate. È vero, magari, che chi arriva avendo negli occhi tanti dolori subiti durante il viaggio, tanti maltrattamenti, può maturare risentimento. Ma se noi li accoglieremo bene, questo sentimento svanirà. Io ne sono certo, gli immigrati portano con sé una ricchezza anche per noi.

Cosa fare, quindi?

Serve pianificazione. Bisogna valorizzare il grande patrimonio di accoglienza degli italiani. Non è questione di Chiesa, ma di cittadinanza. E non costa nulla allo Stato. Penso alla straordinaria esperienza che la Casa della Carità ha fatto a Bruzzano nel milanese. Abbiamo accolto 239 persone, coinvolgendo oltre cento volontari. Senza far spendere lo Stato. Vedete, si può. E fa bene a tutti, fidatevi.
Cronaca un po' reazionaria del conflitto tra esuli in cerca di rifugio e strumenti della repressione europea. Articoli di Andrea Di Blasio e Giulia Distefanis.

La Repubblica, 7 agosto 2016, tre domande nella postilla

SCONTRI A VENTIMIGLIA,
MUORE UN AGENTE
di Andrea Di Blasio

«Il poliziotto colpito da infarto durante i tafferugli con gli antagonisti. Tensione dopo la fuga degli immigrati in Francia La Questura: “Tutto organizzato dagli attivisti”. Toti: “Ora basta, intervenga il governo”. Oggi nuova manifestazione»

La tensione era nell’aria e ieri sera è sfociata in tafferugli tra forze dell’ordine e attivisti No Borders. Un agente si è improvvisamente accasciato a terra, chiedendo l’aiuto dei colleghi: «Sto male» è riuscito a dire. I soccorsi sono scattati subito, ma il poliziotto, 50 anni, assistente capo del Reparto mobile di Genova, è morto dopo l’arrivo all’ospedale di Sanremo. Lo scenario: il Parco Roja, che si trova in una zona periferica di Ventimiglia. Qui, da poco meno di un mese, vengono ospitati i migranti che si trovano nella città con la speranza, un giorno, di poter varcare il confine con la Francia.

Gli scontri tra No Borders e i reparti antisommossa di carabinieri e polizia sono iniziati intorno alle 20 fuori dal parco, dove già dalla sera prima gli attivisti avevano preso posizione in attesa della manifestazione in programma oggi alle 15 nel centro cittadino di Ventimiglia. Il tutto segue la “fuga” di venerdì di 140 migranti che hanno forzato il blocco per raggiungere la Francia. Ieri sono stati rispediti in Italia. E la Questura di Imperia ha attaccato: «Era tutto organizzato dai No Borders».

Durante i tafferugli di ieri l’agente ha all’improvviso avuto un malore: è stato caricato dai colleghi in un ambulanza e portato in codice rosso all’ospedale di Sanremo. Purtroppo non c’è l’ha fatta. Quasi sicuramente, è stato ucciso da un infarto mentre stava svolgendo il suo compito di sorveglianza e controllo dei migranti. Ha fatto in tempo solo a scendere dalla camionetta quando si è sentito male. «Non c’è stato contatto fisico con i dimostranti», confermano fonti della polizia.

Nel tardo pomeriggio di ieri si era svolta una operazione di controllo coordinata dalla Questura di Imperia con polizia e carabinieri a Camporosso, presso i locali dell’associazione Free Spot, dove i No Borders sono soliti ritrovarsi. Le forze dell’ordine erano alla ricerca di armi bianche: bastoni, coltelli. I controlli si sono intensificati in questi giorni in vista della manifestazione, non autorizzata, di oggi pomeriggio, con partenza in pieno centro, dalla piazza Costituente di Ventimiglia.

I No Borders avrebbero il loro “campeggio”, assai pubblicizzato in questi giorni tramite il tam tam sui social network, in località Ciaixe nel Comune di Camporosso. Fino a notte, dopo gli scontri e la tragedia, le strade che portano al Parco Roja sono rimaste chiuse e presidiate dalla polizia. Ventimiglia è ora una città blindata. Anche perché si teme che l’accaduto possa far crescere la tensione in vista della manifestazione in programma oggi alle 15.

«A Ventimiglia serve il pugno duro con chi ostacola le forze dell’ordine, serve che tutti i migranti vengano identificati e, chi non ha titolo, fermato ed espulso ». Lo ha scritto il governatore Giovanni Toti su Facebook. «Basta ipocrisie, basta perdere tempo. Il governo intervenga in forze ».

NO BORDERS E MIGRANTI
COSÌ IL CONFINE PIÙ CALDO
DIVENTA UNA POLVERIERA
di Giulia Distefanis

Giovani, provenienti da associazioni e centri sociali di Liguria, Piemonte e Lombardia, ma anche indipendenti. Determinati, irriverenti. La polveriera Ventimiglia ha loro come attori, accanto ai migranti che giungono qui da tutta Italia per provare a raggiungere la Francia, e alle istituzioni che a fatica gestiscono il flusso: gli attivisti No Borders. Nei giorni scorsi sono tornati ad alimentare la tensione con le forze dell’ordine, culminata ieri con la morte di un poliziotto, che però — ribadiscono — «è stata accidentale, era a distanza dagli scontri».

E neanche ora hanno intenzione di fermare le loro proteste in favore della libera circolazione dei migranti: anzi proprio in questi giorni si stanno riorganizzando chiamando a raccolta i volontari in un «campeggio di lotta contro i confini» messo su appena fuori dalla città. Oggi si riuniranno invece alle 15 ne centro di Ventimiglia, per una manifestazione che partirà da piazza della Costituente.

L’obiettivo? Sempre lo stesso: «Chiedere l’apertura delle frontiere e rivendicare il significato politico della presenza dei migranti qui, ascoltando le loro richieste». Una lotta che però lo sesso sindaco di Ventimiglia Enrico Ioculano giudica «più degli attivisti che dei migranti: non capiscono che fomentandoli, spingendoli a contestare il sistema di accoglienza e a fare proteste plateali come quella dell’altro giorno agli scogli dei Balzi Rossi, li danneggiano soltanto. Bisogna rispettare le regole per l’interesse di tutti».

La polveriera Ventimiglia, che per gli attivisti è un laboratorio d’Europa e per le istituzioni un problema in più da gestire, nasce con la protesta dei migranti: l’11 giugno 2015, sugli scogli dei Balzi Rossi al confine di Ponte San Ludovico. Dopo le prime settimane in cui i migranti dormivano soli sugli scogli, assistiti dalla Croce Rossa, un gruppo di autonomi aveva iniziato ad aggregarsi via Facebook, facendo collette e organizzandosi per portare viveri al confine. Nel giro di un mese ne era nato il Presidio permanente No Borders: migranti e volontari si erano spostati sotto “la pinetina” creando un vero e proprio campo profughi autogestito, con tende, cucina, bagni. Tutto su suolo occupato abusivamente. Una piccola Calais: tollerata a fatica da abitanti e istituzioni. Anche perché ogni giorno si organizzavano — proprio come il movimento sta tornando a fare ora — proteste contro il confine e le forze dell’ordine, con cori e urla. Sfociati spesso in scontri grandi e piccoli. Fino alla resa dei conti di fine settembre, quando il campo è stato sgomberato.

E poi? Poi le denunce, l’allontanamento di tanti attivisti dalla città tramite “fogli E poi? Poi le denunce, l’allontanamento di tanti attivisti dalla città tramite “fogli di via”, la speranza che il movimento con l’inverno si fosse sfilacciato. Ma nella primavera era tornato a dar vita a un’altra piccola Calais, lungo le sponde del Fiume Roja. E ora, che la soluzione sembrava trovata con il centro di accoglienza, o meglio di transito, voluto dalla prefettura, sono tornati per contestarne la gestione. «Non possiamo essere una città in ostaggio dei No Borders — ribadisce il sindaco —, chi sbaglia deve essere allontanato. Se si vuole discutere della gestione del centro, si può fare. Ma civilmente. Quei modi non possiamo accettarli». Ieri invece l’ennesimo corteo, gli ennesimi scontri. «Non facevamo nulla di grave — raccontano ancora gli attivisti, che preferiscono non essere citati per nome — volevamo solo raggiungere i migranti al centro e intonare con loro qualche coro di solidarietà. La polizia ci ha bloccati». E i toni si sono subito alzati, il conflitto è ripreso.

postilla
Tre domande. 1. Se nei secoli scorsi non ci fossero state proteste dure in piazza oggi godremmo dei diritti e del welfare? 2. Senza proteste gli uomini e le donne cacciati dalle loro terre dalla miseria e dalle guerre otterrebbero i loro diritti? 3. Perché legare, nel titolo e nel sommario dell’articolo, alle proteste la morte accidentale di un poliziotto?

«Ci sono villeggianti diversi, nell’estate del Mugello, oltre a quelli in cerca di fresco, silenzio e sagre del tortello. Sono i profughi del mondo, gli scampati a povertà e violenze che ascoltano musica afro nelle canoniche di chiesette sperdute».

La Repubblica, ed. Firenze, 6 agosto 2016 (c.m.c.)
Quando Moussa è arrivato a Faltona, a 4 chilometri da Borgo San Lorenzo, era quasi buio e aveva ancora addosso il salmastro della traversata. «Ma dove siamo? In una foresta?» si è detto scendendo nell’aia del casolare insieme agli altri ventiquattro compagni, scalzi e con addosso solo magliette strappate e pantaloni stretti con gli spaghi. Non è facile passare dal mare aperto a un bosco di castagni nel giro di dodici ore di pullman.

E quando non vedi né una casa, né un’auto, e l’unico rumore è un lontano borbottio di trattore, «ti chiedi dove sei finito »: non ci sono città, in Italia? Non era un paese pieno di vita, occasioni, cose da fare? Ci sono villeggianti diversi, nell’estate del Mugello, oltre a quelli in cerca di fresco, silenzio e sagre del tortello.
Sono i profughi del mondo, gli scampati a povertà e violenze che ascoltano musica afro nelle canoniche di chiesette sperdute, cucinano cus cus speziati a pochi metri dai barbecue dei turisti, e, di notte, corrono nel buio pesto della provinciale con addosso i giubbotti catarifrangenti. Sono oltre 400 (ad oggi) distribuiti su 9 Comuni, accolti senza clamorosi casi di rigetto, a parte Firenzuola (governato dal centro destra), o il quartiere di Borgo San Lorenzo intorno alla palazzina della stazione, dove però sono piombati in 50 mentre tutti gli altri sono piccoli gruppi, in gran parte sparsi nelle campagne, nuovi abitanti delle coloniche abbandonate.
È l’ibridazione del paesaggio di Giotto, uno scarto antropologico che spiazza non solo i mugellani, ma anche i loro ospiti del Ghana e del Senegel, del Burkina e della Costa D’avorio, della Nigeria e del Bangladesh, impauriti dalle bisce dei campi «perché da noi i serpenti sono tutti velenosi», spiega Barry, uno dei ragazzi di Faltona, o convinti di poter cacciare lepri e fagiani di notte con le trappole.
Un po’ per nostalgia, un po’ per rivalsa, piantano negli orti zucchine e pomodori ma anche zenzero e peperoncino, «anche noi abbiamo una tradizione» spiega Patrick, nigeriano, mentre adesso bisogna impararne un’altra, e in fretta, perché, come si sentono dire tutti i giorni, «vi servirà per vivere».
Ripartire «dalle mani, dai piedi, che quelli nessuno te li toglie», è il mantra degli operatori della Cooperativa il Cenacolo, che hanno ripulito la colonica ora diventata una casa, molto spartana ma dove, di sicuro, «non cadono bombe », come qualcuno temeva appena arrivato.
Nei Cas (i centri di accoglienza straordinaria) e negli Sprar (per i richiedenti asilo) mugellani i ragazzi studiano l’italiano, seguono laboratori di falegnameria, cucinano, tengono l’orto, giocano a calcio nei campi, fanno il bagno nella Sieve accanto alle famiglie di Borgo, che all’inizio si scansavano e adesso invece li invitano ai pic nic, e nelle ore libere, o la sera, possono uscire. Ma per andare dove, e soprattutto: come? È il volto più arduo dell’accoglienza bucolica, Borgo e Firenze sono a portata di Sita, ma la Sita la sera non c’è, e a una certa ora bisogna tornare sennò parte la segnalazione alla prefettura.

Ci sono le bici, ma con 35 gradi nemmeno a vent’anni è facile pedalare per trenta chilometri.Yassin, sudanese 34 enne operatore dell’Associazione Progetto Accoglienza, con 25 ragazzi nella canonica di Mucciano, lo ripete: «Preferireste pigiarvi in un appartamento a Firenze, dove se si sposta una sedia i condomini scrivono al prefetto?». Ma vai a spiegarlo a ragazzi già scampati alla morte cento volte, e che adesso cercano di scampare ai loro pensieri, ai loro incubi notturni: altro che silenziose notti mugellane, «in città ci si distrae, si fanno conoscenze, si pensa ad altro» spiega Mavis, nigeriano, e magari «si trova lavoro».

Yassin insiste, in città i lavori facili sarebbero proprio quelli da evitare, spaccio, furti, «meglio reggere l’impatto col nuovo mondo in un territorio protetto, che scontrarsi subito col suo volto peggiore». I ragazzi mugugnano, ma intanto hanno fatto amicizia coi vicini, che li chiamano per qualche lavoretto e poi gli offrono il dolce, mentre le aziende agricole li cercano per i lavori nei campi e li pagano con i voucher, sia pure con un tetto massimo, sennò si deve lasciare il Cas, «una assurdità della burocrazia», dice Yassin. Un’altra è che a Mucciano la Asl ha fatto smontare un pollaio già pronto perché non rispettava la distanza dalla casa, mentre è vietato mandare i ragazzi nei boschi a tagliare la legna.
Insomma, sì: scaraventare il mondo in Mugello è stata una scommessa. Ma che forse è valsa la pena, per gli uni e per gli altri: «Qui nessuno è leghista» dice un anziano di Borgo seduto in piazza Dante, «è solo questione di abitudine, dateci il tempo». Qualcuno ogni tanto protesta, sì, per i “neri” che chiedono l’elemosina nei bar, «ma finisce lì», e insomma quando Matteo Salvini ha provato a puntare su queste parti si è ritrovato contro una folla di incazzati. Eleonora Moscardi è la responsabile per i migranti di Associazione Insieme, che si occupa dei 31 ospiti della canonica di San Gavino, a dieci minuti in bici dal centro di Scarperia: «I paesi piccoli sono più diffidenti all’inizio, perché non sono abituati alle novità», spiega, «ma siccome c’è più coesione sociale, alla fine sono i meno impauriti».
Così, nel giro di dieci mesi Abel e Ambrose, Razu e Faruk sono diventati di casa nei bar e nell’ambulatorio del medico, e portano i loro piatti etnici alle feste della scuola. C’è chi si è dato del cretino quando, dopo aver pensato che «tutti questi musulmani avrebbero riempito il Mugello di moschee», la domenica li ha trovati a messa, perché metà di quelli di San Gavino sono africani, sì, e però cattolici. E se proprio si vuol parlare di religione, il vero sgarbo non è semmai di aver messo degli islamici dentro le canoniche? Meglio rifletterci su. Magari con i nuovi arrivati, insieme sotto l’ombra dei castagni.

«».Il Fatto Quotidiano online blog di Centro studi Unimed, 5 agosto

In Italia ben 5.627 comuni hanno meno di 5.000 abitanti, vale a dire il 69,9% del totale, e di questi, secondo una recentissima ricerca di Lega ambiente e Anci, ben 2.430 soffrono un forte disagio demografico ed economico. Negli ultimi 25 anni in questi territori un abitante su sette se ne è andato. Le case vuote, conseguenza di questo esodo che ha coinvolto soprattutto giovani, sono 1.991.557, cioè un terzo del totale. Questi comuni, abitati in prevalenza da anziani, non hanno prospettive per il futuro e, inoltre, si trovano in aree marginalizzate, lontane dalle principali vie di comunicazione.

In Italia esiste, però, un paese, Riace, in provincia di Reggio Calabria, situato a 300 metri sopra il livello del mare, che si è ribellato al lento spopolamento e ha reagito trasformandosi gradualmente in un paese modello di integrazione di rifugiati. Riace, oggi, conta 1.726 abitanti di cui 400 sono extracomunitari. Il sindaco Domenico Lucano, a cui si deve questa trasformazione, è stato nominato dalla rivista americana Fortune come una delle 50 persone più influenti al mondo, per essere riuscito a fare di Riace un modello di accoglienza.

Esempi come quello di Riace non sono isolati e anche altri comuni hanno avviato lo stesso percorso, tra questi Acquaformosa, Gioiosa Jonica e molti altri dimostrando, invece, che le migrazioni possono essere gestite in un altro modo, aiutando chi fugge dalle guerre e dalle persecuzioni ma, anche, le comunità locali che praticano l’accoglienza. In Italia la Rete dei comuni solidali, (Re.co.sol.), conta 800 comuni coinvolti nella rete Sistema di protezione dei richiedenti asilo e dei rifugiati (Sprar). Di questi circa la metà sono realtà di piccole e medie dimensioni con potenzialità simili a Riace.

Come di recente ha dichiarato Giovanni Manoccio, sindaco di Acquaformosa e responsabile per le politiche di migrazione della regione Calabria,«i nostri progetti si svolgono tutti nei centri urbani, dando la possibilità ai migranti di integrarsi nella nostra comunità che è un modo per rispondere alla scommessa che riguarda tutto il meridione: lo spopolamento». Con i 35 euro giornalieri previsti per ogni migrante dal Ministero degli Interni, è possibile finanziare progetti mirati a una reale integrazione piuttosto che pagare alberghi o residenze nelle quali parcheggiare i migranti a tempo indefinito. Accoglierli nei paesi significa recupero di vecchi mestieri, collaborazione per la cura del territorio e riapertura delle scuole quando ci sono bambini.

Gli effetti positivi di questo tipo di accoglienza consentono la rinascita dei territori destinati a un sicuro declino. Di fronte all’arrivo massiccio dei richiedenti asilo che, nella prima parte dell’anno, ha già superato il tetto di 120mila immigrati a cui vanno aggiunti 13mila minori non accompagnati, questa strada alternativa va costruita, e l’aiuto dell’Europa può fare la differenza.

L’Italia può svolgere un ruolo decisivo in questa direzione valorizzando un modello di inserimento dei migranti più solidale ed inclusivo. L’integrazione, soprattutto di famiglie, in piccole comunità rappresenta, infatti, un’alternativa che ha grandi potenzialità e che può dare un futuro a quella parte dell’Italia destinata altrimenti a sparire.

Riferimenti

Sull'argomento vedi in questo sito, tra l'altro, l'
Eddytoriale n. 169, l'intervento di Gianna De Masi, la relazione di Ilaria Boniburini, Paolo Dignatici ed Edoardo Salzano, nonchè numerosi scritti nella cartella Esodo XXI secolo

L’ITALIA sta cambiando pelle. Per la prima volta in novant’anni, nel 2015 la popolazione residente è diminuita (-130.061 unità), malgrado il leggero aumento degli stranieri (+11.716). Al 31 dicembre scorso eravamo 60.665.551 residenti, di cui oltre 5 milioni non italiani (8,3% su scala nazionale, 10,3% nel Centro- Nord), anzitutto romeni (22,5%) e albanesi (9,3%). Il saldo migratorio positivo è stato di 133 mila persone. Continuiamo peraltro a invecchiare, con un’età mediana di 44,7 anni. Seguendo le tendenze attuali, compresa un’immigrazione netta intorno alle 100 mila unità annue, nel 2050 ci ridurremo a circa 57 milioni. Senza immigrazione — ipotesi di pura scuola — perderemmo 8 milioni di abitanti, calando a 52 milioni. Come gran parte dei Paesi europei, Germania in testa, gli italiani del futuro prossimo saranno di meno, più vecchi e culturalmente più diversi. Ad allargare la forbice con la sponda Sud del Mediterraneo, dove gli abitanti crescono e sono giovani, dunque mobili e più disponibili a lasciare le loro case (o ciò che ne resta) per puntare alla riva Nord.

Immaginare che mutamenti tanto profondi possano impattare sull’Italia senza produrvi strappi, a tessuto sociale e politico- istituzionale costante, implica l’uso di sostanze stupefacenti. Eppure, proprio questa sembra la postura della nostra “classe dirigente”. Refrattari a riconoscere il mutamento quando affrontarlo produrrebbe costi politici e di immagine, i governi italiani, a prescindere dal colore, procedono per inerzia, aggiustamenti, reazione retorica alle emergenze. Rimuovono la cogenza della demografia, declassano le ondate immigratorie a fenomeni estivi — mentre nel pubblico si diffonde la sindrome dell’”invasione” — rinviano alla Chiesa, al volontariato e agli enti locali i compiti di accoglienza, rifiutano ogni scelta sul modello di inclusione di chi sbarca in Italia per restarvi.

Certo non possiamo invertire a comando il movimento naturale della popolazione, nemmeno se fossimo una dittatura. Ma non è consigliabile esimerci dal disegnare una strategia di sviluppo fondata sulla gestione sistemica dei flussi migratori, sull’integrazione di una quota determinante degli immigrati — soprattutto delle seconde, presto terze generazioni — e sulla correlativa necessità di stabilire relazioni speciali con le terre di origine dei nuovi italiani. Altrimenti la disputa sull’identità italiana sarà risolta nello scontro di piazza tra estremisti xenofobi militarizzati e bande di immigrati organizzate su fondo etnico-religioso, fra loro rivali. Con la maggioranza degli autoctoni a tifare per i primi, visto che l’82% degli italiani si dichiara ostile agli zingari (record europeo), il 69% ai musulmani (ci battono solo gli ungheresi, al 72%), cui si aggiunge lo zoccolo duro antiebraico (24%), sintomo classico di intolleranza per il “diverso”.

Sul fronte migratorio, la novità di quest’anno è che da paese di transito siamo diventati paese obiettivo. Chi sbarca nella penisola, sopravvivendo al Canale di Sicilia, tende a restarvi. Ciò per il convergere di costanti flussi migratori da Sud e più duri controlli alle frontiere alpine, con cari saluti allo spirito di Schengen.

Contrariamente alla retorica dell’”invasione”, quest’anno il numero dei migranti sbarcati in Italia è analogo a quello del 2015. La differenza sta nella crisi dell’accoglienza. Le varie tipologie di strutture deputate alla gestione immediata dei migranti sono al limite, spesso oltre. In tre anni siamo passati da 22.118 a 135.704 ospiti (al 21 luglio). Alle cifre ufficiali dobbiamo aggiungere un numero imprecisabile di persone allo sbando nel territorio nazionale. Secondo stime informali del governo, la soglia di collasso, oltre la quale si prevedono gravi problemi di ordine pubblico, sarà toccata quando il numero dei nuovi arrivati accolti in Italia si aggirerà attorno ai 200 mila. Siamo prossimi al punto di rottura, considerando anche il picco dei richiedenti asilo, cresciuti del 63% nel giro dell’ultimo anno.

«Il manifesto, 3 agosto 2016 (c.m.c.)

Valerio Calzolaio e Telmo Pievani, Libertà di migrare, Giulio Einaudi editore, 12,00 €.

Per decenni gli scienziati hanno sostenuto che la principale novità verificatasi nell’organismo che poi abbiamo chiamato umano sia stata la crescita del cervello. E invece non era vero: il salto qualitativo dei nostri antenati si è verificato dall’altro capo del corpo: nei piedi. Fu la formidabile invenzione della postura bipede.

Non ci avevo mai pensato e questa rivelazione, letta nel libretto appena uscito Libertà di migrare (Einaudi, pp. 130, euro 12), scritto da Valerio Calzolaio ( uno dei fondatori de il manifesto delle Marche, poi anche sottosegretario all’Ambiente in un governo Prodi, e autore, già nel 2010, di Ecoprofughi) con Telmo Pievani (docente di filosofia delle scienze biologiche e autore di numerosi volumi su questi temi), mi ha molto colpito.

In effetti, fu proprio l’uso più funzionale degli arti che consentì quasi tutto quello che poi gli umani hanno fatto. Senza questo supporto, anche il cervello, privo di stimoli, non si sarebbe sviluppato. Spingendolo a far ginnastica nel riflettere sulla scoperta del mondo che andavano facendo, esplorato per curiosità o per cercare condizioni più favorevoli di vita o, peggio, per sfuggire alla morte indotta dalle catastrofi naturali. Insomma: all’origine dell’umano c’è proprio la migrazione, la prima avventura cui i nostri antenati si sono dedicati. E noi siamo tutti figli di emigranti, per di più africani (la Terra come si sa si è popolata a partire da lì) e però provvisoriamente transitati per un’altra area cruciale, il Medio Oriente (questo volumetto lo consiglierei innanzitutto a Salvini, perché se ne facesse una ragione).

L’accadimento è molto antico, come prova quella che viene considerata la prima orma umana, impressa nel tufo creato dalla pioggia mischiata alle ceneri uscite da un vulcano in ebollizione in Tanzania. Si deve trattare all’incirca di due milioni di anni fa; e da allora la grande migrazione «out of Africa» ha popolato tutti i continenti, salvo l’Antartide, via via mischiando, differenziando, reciprocamente influenzando gli individui.

All’inizio, e a lungo, la migrazione – documentano gli autori – è stata tutta generata dai mutamenti ambientali. E così è in definitiva anche oggi e sarà sempre di più domani. Anche se da quando, con la prima agricoltura, venne al mondo «il terribile diritto di proprietà», cominciarono i conflitti, poi via via le guerre grandi, come quelle dei nostri giorni, e con loro si produsse un nuovo tipo di migrante, il rifugiato politico (un dato impressionante come metro della salute della democrazia contemporanea: questa categoria dal 1970 è triplicata!).

All’ «out of Africa» delle origini si è aggiunta, nell’epoca moderna, l’«out of Europe», cui dà un corposo impulso il colonialismo, che, al seguito degli eserciti conquistatori manda i suoi milioni di pieds noir. Un crescendo spaventoso, perchè l’occupazione del mondo si estende a dismisura: nel 1800 gli Stati nazionali guerrieri occupano il 35% delle terre, all’apogeo imperialista,nel 1914, si è arrivati all’81,4.

Le narrazioni sui migranti andrebbero intrecciate con quelle sui confini, con l’invenzione delle frontiere lungo cui si ergono muri, perché legittimano o delegittimano quello che è stato da sempre il movimento naturale degli umani (consiglio di leggere, in abbinata, il volume appena uscito che Sandro Mezzadra ha dedicato all’argomento, Terra e confini edito da manifestolibri).

Il fatto è che a differenza di altre categorie di odierni migranti quelli cosiddetti «ambientali» (vittime di eventi climatici o geofisici, quelli per catastrofi nucleari non sono nemmeno nominati) non hanno alcuno status legale. Nonostante esista un’Agenzia dell’Onu che si occupa del problema, la Unep, e nonostante proprio l’Onu abbia pubblicato, già nel 1985, il primo essenziale saggio sui rifugiati ambientali, scritto dell’egiziano Essam El Airmarwi. E nonostante la Dichiarazione sui diritti umani del 1948 reciti con grande chiarezza che deve esserci libertà di partire e diritto a restare per chiunque, ovunque.

A ricordare che i rifugiati climatici non hanno riconoscimento è stato papa Francesco: al paragrafo 25 dell’enciclica Laudato Si’. Poiché le previsioni ci dicono che nel giro di qualche decennio saranno 40 milioni gli abitanti delle città costiere minacciati di essere sommersi, e 700mila coloro che, sui 2,4 miliardi insidiati dalla desertificazione, costretti ad andarsene subito dalle loro terre, sarà bene cominciare ad occuparcene seriamente. Questo libro aiuta a capire.

«I genitori di questi minori conoscono i meccanismi di accoglienza, fanno un investimento sul futuro. Alcuni migranti minori adottati da Fiumicino sono ospitati in un centro accoglienza a Passoscuro che ha una capienza di 14 posti»

La Repubblica, 1 agosto 2016 (c.m.c.)

Scappano dalla guerra, dalla fame, dalle tragedie familiari. Sono minori tra i 10 e i 16 anni (in possesso di documenti spesso farlocchi). Diventano “figli” di Fiumicino perché arrivano in aereo da soli, il cartellino con il loro nome appeso al collo, e devono, per legge, essere presi in carico dal Comune che ospita lo scalo internazionale. Sono più o meno cento all’anno e il loro tutore, di tutti e cento, è il sindaco Pd di Fiumicino, Esterino Montino.

Si sapeva delle traversate drammatiche sui barconi. Nelle notti umide, con il mare ostile, abbiamo visto ragazzini soli, spaesati, con il giubbotto arancio in mezzo agli adulti stremati. Ma di questa altra modalità, l’arrivo in aereo, con finti accompagnatori che poi svaniscono nel nulla o finti parenti che dovrebbero attenderli a Fiumicino ma, in realtà, non si fanno vedere, di questo modo di fuggire verso il futuro, si conosce ben poco. Pochi giorni fa un aereo partito da Kinshasa ha trasportato quattro fratelli, il più piccolo di nove anni. Nuovi figli di Fiumicino.

Come funziona ce lo spiega il sindaco- tutore che si ritrova responsabile di questi ragazzini fino al compimento della maggiore età: «In genere dietro di loro ci sono famiglie più istruite che conoscono bene i meccanismi di accoglienza internazionali, famiglie che hanno almeno un parente che è in grado di pagare il biglietto aereo. Sono minori africani, somali, eritrei, nigeriani, anche molti afghani. Il ragazzino parte da solo, perfettamente istruito. Se ha meno di 15 anni c’è con lui un finto accompagnatore che poi sparirà all’arrivo. Bugia rodata: «In Italia mi aspetta lo zio Mohammed, amico di famiglia». È un viaggio per sempre, è l’investimento della famiglia sull’adolescente destinato altrimenti a vivere una vita misera tra fame o guerra, o tutte e due le cose insieme».

A Fiumicino, come in una piece teatrale, questi ragazzini attendono per molte ore che qualcuno li venga a prendere, sapendo bene che nessuno lo farà. Una volta accertato che sono soli al mondo, la polizia italiana fa le sue indagini preliminari e poi li affida al Comune. Di Fiumicino, naturalmente. Ed entra in scena il sindaco-tutore: «A mia volta chiamo il nostro servizio deputato. Abbiamo assistenti sociali, psicologi, personale qualificato».

I ragazzi cominciano a parlare, a raccontare le loro storie che nessuno può veramente controllare. La macchina del Comune si mette in moto, si cerca un posto dove ospitarli. Il Centro di Passoscuro può tenere fino a 14 minori. È quasi sempre pieno e la ricerca continua finché i nuovi arrivati sono tutti sistemati in luoghi adeguati, anche fuori regione, per esempio in Umbria. Ma è sempre Fiumicino che veglia e paga, dice il sindaco. Quanto? «La spesa - calcola Montino - si aggira mediamente intorno al milione di euro all’anno». 60, 90 euro al giorno per ragazzino.

Paga tutto il Comune, con un modesto contributo del Ministero degli Interni che arriva dopo anni. Un impegno finanziario enorme, un piccolo Comune che svolge «una funzione nazionale », fa notare parecchio preoccupato Montino. In questo momento il sindaco-tutore ne ha in carico una settantina.

Prendono lezioni di italiano, vanno a scuola, fanno sport, seguono corsi professionali. Nessuno vuol tornare da dove è arrivato. Un venti per cento, quelli più grandi, dopo una ventina di giorni scappa. Hanno parenti al Nord, in Germania, in Svezia, e tentano di raggiungerli. Gli altri rimangono, vengono allevati in Italia, i loro familiari, con cui a volte rimangono in contatto, almeno i primi tempi, hanno scommesso su questo.

Simona Baiocco, psicologa, responsabile del Centro di Passoscuro, ne parla come di figli: «Per ognuno di loro abbiamo un progetto e un percorso». Ahmed (nome di fantasia) compirà 18 anni tra pochi giorni e dovrà lasciare quella che è stata casa sua per quasi due anni. È arrivato in aereo dal Congo, il biglietto pagato da un giornalista che l’ha incontrato nel campo dove era ospitato. Orfano di madre, il padre militare ucciso. È bravissimo a scuola, fa palestra.

Una storia che sembra a lieto fine. Ora il Comune gli ha trovato una famiglia affidataria. Per il somalo Samir dimenticare è più difficile. Gli hanno ammazzato il fratello sotto gli occhi e lui si è salvato solo fingendosi morto. La madre è impazzita dal dolore, il padre è stato ucciso. Uno zio gli ha dato i soldi per l’aereo: «Vola via Samir e dimenticaci». Anche lui è diventato un figlio di Fiumicino.

Il Fatto Quotidiano online, 31 luglio 2016 (p.d.)
Da mesi si parla principalmente di economia in relazione all’Europa Unita, in particolare per mettere a nudo le contraddizioni della gestione politica di Bruxelles. Tuttavia esistono altre zone d’ombra nel "governo dell’Ue", altrettanto sconcertanti, che non vengono mai menzionate. Tra queste, forse tra le più preoccupanti c’è quella dei cosiddetti "aiuti" allo sviluppo a governi apertamente anti-democratici. Si tratta di un’espressione idiomatica che nasconde traffici di cui bisognerebbe vergognarsi. In realtà la parola ‘aiuto allo sviluppo’ spesso è sinonimo di sovvenzioni militari che hanno lo scopo di fermare i flussi migratori verso l’Europa ma che finiscono per potenziare regimi essenzialmente dittatoriali o nascondono il pagamento dei riscatti per gli ostaggi. Un disgustoso do ut des di cui il cittadino sa poco o nulla, ma che viene praticato con i soldi del contribuente.

L’ultima vergognosa proposta di un accordo di questo tipo risale all’inizio di luglio, quando la Commissione europea ha pubblicato una bozza di proposta per fornire 100 milioni di euro in aiuti alle forze armate di alcuni paesi africani: nella bozza si legge che il denaro verrà usato per bloccare migranti e rifugiati diretti prima in Libia e poi in Europa.

Un tempo questo sporco lavoro lo faceva Gheddafi ma oggigiorno è il presidente del Sudan Omar al – Bashir e la sua milizia governativa (mercenari della sua stessa tribù) conosciuta come la Forza di supporto rapido (Rsf). La Rsf non ha solo il compito di pattugliare i valichi di frontiera, fa parte dei servizi di sicurezza nazionale e di intelligence del Sudan. Alla Rsf appartengono uomini che hanno combattuto in Darfur con i Janjaweed, una milizia di tribù arabe sudanesi. A guidarla è un ex leader delle milizie Janjaweed, il generale Mohamed Hamdan Hametti, che si è impegnato ad inviare circa 1.000 dei suoi uomini lungo il confine con la Libia per bloccare i migranti. Sia al-Bashir che Hametti sono considerati colpevoli di crimini contro l’umanità in quanto artefici della violenza genocida durante la guerra civile del Darfur. Ma nessuno è ancora riuscito a trascinarli di fronte a una giuria.

Si legge nella proposta che gli "aiuti militari" dell’Unione europea potranno essere utilizzati per finanziare qualsiasi cosa, dai mezzi di trasporto per le truppe alle uniformi, alle apparecchiature di sorveglianza. Dal 2001 al 2009, Bruxelles aveva già concesso circa 1 miliardo di euro per la gestione delle frontiere e l’applicazione delle norme relative all’emigrazione. Tuttavia, questa è la prima volta che propone di pompare denaro direttamente in una struttura militare straniera.

I primi frutti di questo accordo già sono visibili: a metà luglio la Rsf ha arrestato oltre 300 migranti diretti in Libia attraverso il deserto nel Nord del Sudan. Che fine avranno fatto? Imprigionati nei gulag sudanesi simili a quelli creati da Gheddafi solo pochi anni fa o scomparsi in fosse comuni? Le loro sono vite che non contano nulla!

Per chi ha bisogno di rinfrescarsi la memoria, in Sudan la violenza politica tra i due gruppi etnici, i “contadini” (gli “africani”) e l’altro gli “allevatori di cammelli” (gli “arabi”) è iniziata nel 1970 ed era accentrata intorno alle dispute sulla proprietà della terra e i diritti di accesso all’acqua. La violenza è aumentata di anno in anno, e nel 1990, il governo del Sudan ha delegato la responsabilità di mantenere l’ordine pubblico a Khartoum, e nella regione circostante, alle milizie arabe Janjaweed, formate da alcuni gruppi di pastori, mettendo praticamente alla porta le forze di polizia.

Gli scontri violenti sono continuati ad aumentare finché nel 2003 il paese è piombato nella guerra civile. A questo punto, ha preso in mano la situazione il nuovo presidente Omar al-Bashir anche grazie all’appoggio di Washington, il cui emissario era niente di meno che Joe Biden, il vicepresidente del primo presidente di colore d’America, Barak Obama. Incitate da al Bashir, le milizie Janjaweed sono diventate estremamente violente attuando un programma di massacri, omicidi di massa, stupri, genocidi e facendo terra bruciata dovunque si nascondessero gli oppositori. Il genocidio del Darfur faceva parte di questo programma sanguinario.

Naturalmente Bashir, al potere dal 1989, nega le accuse mosse a riguardo del genocidio del Darfur dalla Corte penale internazionale (Icc). Interessante notare che proprio quest’anno è stato rieletto con il 94% dei voti in una votazione boicottata dai principali partiti dell’opposizione. Ufficialmente l’affluenza è stata del 46 per cento ma secondo molti osservatori l’affluenza è stata di gran lunga inferiore.

Nonostante diversi paesi occidentali, tra cui gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Norvegia, abbiamo criticato le elezioni, l’Unione europea ha reputato giusto inviare una delegazione per far visita al presidente e contrattare il nuovo accordo di sangue anti-migrazione.

La politica estera che i nostri leader conducono alle nostre spalle è un fertilizzante potente per la propaganda jihadista, una verità sulla quale è bene riflettere.

Rabbia, razzismo, paura: tre mostri legati insieme che contribuiscono a rendere disumano il nostro mondo. Che fare per lavorare nella direzione giusta. La Repubblica, ed Milano, 20 luglio 2016, con postilla (m.c.g.)


Temo sia accaduto molte altre volte. In questo caso, però, grazie a un video caricato sui social, l’episodio è diventato pubblico: un dipendente Atm insulta un utente dei mezzi pubblici, reo di essere entrato in metropolitana senza biglietto. Personalmente, la scena mi ha colpito per due aspetti. Il primo è la rabbia con cui il dipendente si accanisce ripetutamente sulla persona che non avrebbe pagato. Lo fa in maniera aggressiva e volgare, con modi da condannare nettamente, qualsiasi cosa sia successa prima dell’inizio del filmato. Il secondo è una frase pronunciata dal lavoratore Atm. «Devi ringraziare che ti tengono qui! E che ti danno da mangiare!», dice alla persona che è a pochi centimetri da lui: un uomo, pare sui trent’anni, in scarpe da tennis, con i pantaloncini, una maglietta fantasia. E la pelle nera.

Chi lo sta insultando, presumibilmente, non sa altro. Sa solo che è nero e che parla in italiano, anche se non perfettamente. Potrebbe essere un profugo sbarcato da poche settimane, un titolare di una delle 550mila imprese straniere in Italia o, ancora, un extracomunitario diventato nostro concittadino. Non importa. Per chi gli urla contro, il fatto che sia nero basta e avanza: lo autorizza, inconsciamente, a marcare la distanza tra lui e gli altri “che pagano”, a segnare la differenza tra noi e loro, a considerare il suo non aver comprato il biglietto un’infrazione ancora più pesante, aggravata dal colore della sua pelle, dalla sua diversità. E qui torniamo alla rabbia. La rabbia che mi ha colpito in quel video è un sentimento diffuso e strisciante che a volte esplode e degenera in conflittualità. Non è razzismo e neppure paura. Ma è legata ad entrambi a doppio filo.
La paura ne è la madre perché diversità e insicurezza generano inquietudine e frustrazione che, quando vengono strumentalizzate, creano rabbia. Il razzismo invece può diventarne il figlio malato, perché è facile indirizzare il malcontento verso i diversi, che rischiano di trasformarsi in capri espiatori.
Per evitare di soffiare sul fuoco è importante agire su più fronti. Il linguaggio: il nostro dibattito pubblico è sempre più segnato da discorsi spudorati e violenti. Serve una forte deterrenza. E serve ridare concretezza a parole come umanità e fratellanza. Ci sono poi le responsabilità delle agenzie educative, che devono trasmettere i valori di cittadinanza e bene comune. È da qui che discende il rispetto delle regole, compresa la consapevolezza che pagare un biglietto serve a far funzionare un sistema utile alla collettività. Solidarietà e legalità vanno insieme, anche nei piccoli gesti. Se non si riesce a far capire questo, a vincere è l’individualismo più sfrenato.

La sfida, quindi, è tornare con forza a lanciare questi messaggi, ai “vecchi” cittadini che rischiano di dimenticarli e ai “nuovi” cittadini che arrivano nel nostro Paese. Per questi ultimi, in particolare, è importante pensare a dei percorsi di vera cittadinanza. Accoglierli non significa solo dar loro vitto e alloggio, ma anche far conoscere loro valori, diritti e doveri partendo dalla Costituzione. Nel concreto, significa distribuire le persone capillarmente sul territorio, proporre loro progetti di autonomia incentrati sul lavoro e metterle nelle condizioni di diventare cittadini responsabili. Che quando prendono i mezzi pubblici pagano consapevolmente il biglietto perché sanno che è giusto e utile. A tutti.

postilla

Sulle stesse pagine su cui compare l'articolo di don Colmegna si conferma una decisione già paventata non solo dalle varie comunità religiose, ma anche dai laici progressisti: lo sfratto esecutivo per la moschea di via Padova; un luogo eminente di dialogo interreligioso grazie alla moderatezza e lungimiranza di Asfa Mahmoud, palestinese, architetto e presidente del Consiglio Direttivo della Casa Musulmana di Milano. Nel capoluogo lombardo sarà inoltre necessario rifare il bando per i nuovi luoghi di culto, fra i quali ci sarebbero dovute essere due moschee, grazie alla legge regionale, votata da Maroni e accoliti, che obbliga a predisporre un documento dedicato alle "attrezzature religiose" ad integrazione del Pgt.Oggi a Milano 100.000 islamici sono costretti a pregare in luoghi precari e inappropriati. A proposito di accoglienza e lungimiranza…(m.c.g.).

Rifletto non per giustificare, ma per comprendere episodi tragici come quello del ragazzo afgano che ha fatto strage degli innocenti passeggeri di un treno tedesco, al grido Allahu Akbar (Dio è grande). Quel ragazzo afgano che è stato accolto in Europa al termine della consueta trafila, che inizia nel fuoco di guerre e carestie, prosegue con tragitti pieni di dolore e rischio, e si conclude, dopo la “salvezza”, nei cosiddetti “centri di accoglienza" (in Italia si è eliminato il velo d’ipocrisia e si chiamano centri non già “di accoglienza" ma, onestamente, “di identificazione ed espulsione”).

Parliamo di questi centri, e degli umani che vi soggiornano, e delle esperienze che vi vivono le persone “normali”, che hanno altre storie alle loro spalle. Chi frequenta questi luoghi oppure ha occasione di lavorare nelle strutture umanitarie che ne accudiscono gli scampati, racconta che è altissima la percentuali di quanti sono “fuori di testa”. Raccontano che le ferite lasciate dalle numerose tappe dell’esodo sono così profonde sulla psiche da poter essere rimarginate con molto più tempo, fatica, incertezza, di quelle lasciate nelle carni e nelle ossa. Mentre chiudo questa nota ne arriva un'altra testimonianza, da Medici senza frontiere.

Ripeto, non per giustificare gli assassini multipli e le stragi provocate da codesti nostri disgraziati fratelli, ma per comprendere. E comprendere è per noi un obbligo maggiore che per gli altri, poiché siamo benestanti, ben nutriti e vestiti, ben protetti dalle avversità della natura e da quelle della storia.

Ma se così è, se comprendere è per noi un obbligo morale e civile, allora non possiamo fare a meno di interrogarci anche sulle cause di quell’esodo i cui prodotti, sani e insani, vengono scaricati sulle nostre sponde. La letteratura su questo tema è così ampia che è inutile farvi cenno. Ed è chiaro che mille fili indicano come burattinai del disastro del Terzo mondo attori ben radicati nel Primo mondo, o nei suoi dintorni. Lo ha ammesso di recente anche uno dei corresponsabili, Tony Blair.

C’è poi qualcos’altro che ci riesce difficile non solo, com’è ovvio, giustificare, ma perfino comprendere: il forsennato odio religioso. Dell’intreccio tra squilibrio mentale e odio religioso scriveva recentemente (a proposito di un’altra strage, quella di Nizza) il filosofo franco-bulgaro Todorov; e rifletteva: «Se una religione, qualsiasi essa sia, diventa l’ideologia fondamentale di uno Stato, i valori democratici sono minacciati. Certo, oggigiorno, bisogna ammettere che l’Islam aspira a questo ruolo più di altre religioni». Non si può non convenire. Ma forse è utile ricordare che, in un passato lontano non millenni, altre religioni, quali quelle del cristianesimo, hanno avuto la stessa pretesa e hanno provocato analoghi danni. E non ci dice nulla in proposito la Palestina?

Neppure la nostra storia è priva di macchie. Tutto ciò, lo ripeto ancora una volta, deve spingerci non a giustificare, ma a comprendere quanto il nostro presente sia pieno di “diversità”. Diversità che giustamente consideriamo una ricchezza, e che anche per questo non possiamo eliminare con gli strumenti della chirurgia sociale, ma dobbiamo sanare, nei suoi aspetti non accettabili con l’attenzione, comprensione, accoglienza (vera) e cura. E, a volte, forse anche con qualche sacrificio personale. Chiedendo agli “altri” di aiutarci a ripulire anche noi da ciò che in noi non è più accettabile: per cominciare, dalla pretesa che la nostra cultura sia migliore di tutte le altre. La nostra cultura, quella cioè del mondo nordatlantico, potrebbe addirittura tornare a produrre “mostri” (Donald Trump ne è un esempio temibile) e diffusi rigurgiti razzisti. I segnali sono ormai più che preoccupanti in tutta Europa. Occorre tornare a ragionare lucidamente e umanamente su cause ed effetti, piangendo i morti e salvaguardando tutti i vivi.

« Il manifesto,

Insieme ai traumi pregressi e alle violenze subite durante il viaggio, il disagio psichico dei migranti nasce anche nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) una volta “ospiti” di un sistema emergenziale.

Il fenomeno del disagio mentale dei richiedenti asilo è gravemente sottovalutato, avverte Medici senza frontiere nel rapporto «Traumi ignorati» e frutto di una ricerca quali-quantitativa condotta nei Cas di Roma, Trapani e Milano e dei dati raccolti durante le consultazioni nei Cas di Ragusa dai team di Msf. «Il 60% dei soggetti intervistati nell’ambito delle attività di supporto psicologico di Msf tra il 2014 e il 2015 presentava sintomi di disagio mentale connesso a eventi traumatici subìti prima o durante il percorso migratorio», spiega Silvia Mancini, esperta di salute pubblica per Msf e curatrice dello studio.

Sequestri, lavoro forzato, violenza sessuale, detenzione, tortura, come emergono ricorrenti dai colloqui, sono tutti fattori di rischio per la salute mentale. La probabilità di sviluppare disturbi psicopatologici è 3,7 volte superiore tra gli individui che hanno subito eventi traumatici rispetto a chi non ne ha subiti.

Ma il dato che più fa riflettere è quell’87% dei pazienti che dichiara di soffrire per le difficoltà incontrate nel vivere nei centri. Dove isolamento, paura del futuro, vuoto occupazionale, attesa infinita dei documenti e i mesi trascorsi senza svolgere alcuna attività sono fenomeni aggravanti del disagio mentale. Tra i 199 pazienti presi in esame da Msf nella provincia di Ragusa, il 42,2% presentava infatti disturbi compatibili con il disordine da stress post traumatico (PTSD), seguito da un 27% affetto da disturbi dovuti all’ansia.

Una popolazione migrante, sempre più vulnerabile, che ha subito numerose violenze durante il viaggio, è ancora oggi oggetto di un’accoglienza ferma ai bisogni primari: materassi, pasti e Tv in strutture poco preparate a identificare un disagio psichico.

Nei centri sono assenti le figure professionali specializzate nella psicologia dei traumi e capaci di fare fronte a ragazzi che presentano rabbia o fobie, così come sono assenti i mediatori culturali e specifici protocolli d’intesa tra Asl, opedali e questure per la presa in carico organica dei pazienti.

La patologia mentale viene diagnosticata solo quando si trova ormai in un fase acuta, con un eccessivo ricorso a Spdc, pronto soccorso e Tso. E questo anche in assenza di specifiche patologie psichiatriche, di fronte a disagi contingenti, nati magri da richieste rimaste inattese, o dal respingimento della domanda d’asilo.

Occorre, chiede Msf, uscire dall’approccio emergenziale, rafforzare i servizi interni alle strutture e quelli esistenti sul territorio; monitorare i centri e la qualità dei servizi erogati; formare il personale. Per uscire dal limbo psichico dove sono costretti i migranti.

. Il Post online,18 luglio 2016 (c.m.c.)

L’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo (EASO) è un’agenzia dell’Unione Europea con sede a La Valletta (Malta). Si tratta di un ente indipendente e specializzato che opera dal 2011, supportando gli Stati membri della UE con le procedure di asilo e fornendo assistenza ai richiedenti.

Ogni anno l’agenzia pubblica un rapporto con i dati relativi alle richieste di protezione internazionale presentate nei Paesi europei: nei giorni scorsi ha diffuso l’ultimo documento con i dati ufficiali del 2015, che mostrano un picco del numero delle richieste di protezione internazionale nel periodo tra l’estate e l’autunno. L’aumento di queste cifre è dipeso anche dall’annuncio fatto il 21 agosto 2015 dall’agenzia per i migranti e i rifugiati della Germania (BAMF), con cui di fatto si manifestava la volontà di prendersi carico di tutte le richieste di asilo presentate dai rifugiati siriani.

I dati del rapporto EASO si riferiscono alle domande presentate nei 28 Stati membri della UE, più Norvegia e Svizzera, e si basano sull’analisi del numero delle richieste presentate, il numero di quelle accettate e il Paese di origine di chi le ha presentate.

L’incremento delle domande è iniziato alla fine del 2014 ed è proseguito per tutto il 2015: i mesi che hanno registrato un lieve calo sono stati marzo e aprile, prima di un rialzo incominciato a maggio e continuato per i cinque mesi successivi. Il picco è stato registrato a ottobre, con più di 185mila richieste presentate in un solo mese. A novembre e dicembre c’è stato un lieve calo (che viene considerato normale per quel periodo dell’anno), con livelli comunque più alti rispetto a quelli degli anni precedenti: a dicembre 2015 le richieste sono state circa 115mila.

La Germania è il Paese ad aver ricevuto più richieste di asilo: soltanto nella seconda metà del 2015 sono state circa 866mila, secondo i dati del ministero degli Interni tedesco. L’afflusso dei richiedenti asilo in Germania nel 2016 ha finora subìto un rallentamento, anche se le cifre rimangono consistenti: nella prima metà dell’anno sono state presentate circa 220mila domande di protezione internazionale.

Thomas de Maizière, il ministro degli Interni tedesco, ha confrontato i mesi del 2015 con i corrispondenti del 2016, mostrando che a gennaio di quest’anno le domande in più sono state 90mila, a febbraio 60mila e a giugno circa 16mila, valutando positivamente tale trend. Il calo, ha spiegato de Mazière, è dovuto in parte all’accordo tra l’Unione Europea e la Turchia che stabilisce di bloccare il flusso illegale dei migranti, respingendo quelli che non hanno il diritto di asilo, a cui si deve aggiungere la decisione di alcuni governi dei Paesi della rotta balcanica di chiudere le proprie frontiere. Secondo il documento pubblicato da EASO il numero di domande presentate in Germania nella prima metà dell’anno sono circa 396mila (il 122 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso): di queste, circa 180mila sarebbero state accettate.

Nel 2015 in tutta Europa sono state presentate 1.392.155 richieste di protezione internazionale: il 110 per cento in più rispetto al 2014. Le persone a cui è stato riconosciuto lo status di rifugiato sono state 241.120, quelle a cui è stata assegnata una protezione sussidiaria sono state 59.425 e quelle a cui è stata concessa la protezione umanitaria sono state 27.320.

Come si diceva, il Paese europeo che ha ricevuto più richieste (circa il 34 per cento del totale) è stato la Germania: seguono Ungheria, Svezia, Austria e Italia. Nel 2015 l’Ungheria ha ricevuto circa 178mila richieste di protezione internazionale (quattro volte di più rispetto all’anno precedente) ma quasi tutte sono state ritirate.

Le richieste presentate in Svezia sono state circa 162mila (il doppio rispetto al 2014), in Austria circa 88mila, mentre quelle depositate in Italia sono state circa 84mila (circa un terzo in più rispetto al 2014). Nel 2015 il maggior numero delle richieste è stato presentato da migranti siriani (383.710, circa il 28 per cento del totale), seguito da quello dei migranti provenienti da alcuni Paesi della regione dei Balcani (201.405, tra Albania, Bosnia ed Erzegovina, Macedonia, Kosovo, Montenegro, Serbia) e dall’Afghanistan (196.170).

Alla fine del 2015 i richiedenti asilo ancora in attesa di una risposta da parte delle autorità competenti erano circa un milione, secondo il rapporto. Per quanto riguarda il 2016, gli analisti di EASO stimano che il numero delle richieste dovrebbe essere inferiore rispetto al 2015, ma comunque maggiore rispetto al 2013 e al 2014.

«. È necessario incontrare nuovi cammini di convivenza tra i popoli e far cessare un dramma che ferisce tutti». Il manifesto,

Migliaia di persone, che fuggono dalla guerra, dalla fame, dalla miseria, straziati senza pietà dalle bombe e dagli attentati, navigano per il Mediterraneo a bordo di barconi senza meta e senza un orizzonte certo. Sono persone che spinte dalla paura e dall’angoscia intraprendono un viaggio carico di rischi e dal destino incerto. La loro bussola indica solo la meta della tragedia umana e il dolore per orizzonti irragiungibili.

L’Europa e altre potenze mondiali come gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia non sono né capaci né vogliono affrontare il dramma che loro stessi hanno provocato. Fanno finta di ignorare di essere stati gli artefici delle guerre in Medio Oriente e di aver armato, per i propri interessi economici, strategici e politici nella regione, i gruppi di combattenti ribelli.

I grandi centri di potere, con il complesso industriale militare, vogliono affermare la propria egemonia mondiale utilizzando la violenza e ogni altro mezzo, come ad esempio la droga, per finanziare le guerre e manipolare la vita dei popoli. Le invasioni contro Iraq, Afganistan, Siria, Libia e l’interminabile colonizzazione della Palestina da parte d’Israele provocano gli erroneamente denominati “danni collaterali” mentre le potenze responsabili ignorano e giustificano l’ingiustificabile.

All’inizio di questo nuovo secolo i popoli arabi si sono sollevati e hanno intrapreso un cammino di resistenza per affermare il proprio diritto alla democrazia, all’autodeterminazione e alla sovranità nazionale. Sono stati momenti di speranza per l’intera umanità ma questo cammino è stato frustrato dall’intervento militare delle grandi potenze che si volevano appropriare dei beni e delle risorse naturali di questi popoli, distruggendo le loro speranze e i loro sforzi. Quella «primavera» si è così trasformata nell’«inferno arabo» con un orrore senza limiti e migliaia di persone costrette a fuggire dalle proprie terre e a lasciare i propri beni e i propri affetti.

Oltre 10 mila persone sono scomparse nel Mediterraneo. In questo mare rimane l’odore di morte e la scomparsa di esseri umani, di volti, di sguardi che non sono riusciti a vedere l’orizzonte della vita. Migliaia di voci tacciono nella profondità di un mare che cancella ogni impronta.

In questa spaventosa situazione, i governi, che ne sono responsabili alzano le loro voci prive di contenuti, incapaci di assumere le proprie responsabilità rispetto al dramma dei popoli del Medio Oriente. Essi cercano di giustificare il loro operato per discriminare, espellere, costruire muri e bloccare i rifugiati sulle isole come fossero lebbrosi o esseri indesiderabili.

L’Europa e gli altri Paesi stanno chiudendo le porte alla solidarietà e alla misericordia e rifiutano di ascoltare le voci che nel mondo chiedono di accogliere i rifugiati. Tra queste, la più incisiva è quella di Papa Francesco come sempre vicino ai più poveri e ai più emarginati. Le parole vanno associate alle azioni e per questo il Papa si è recato a Lampedusa e a Lesbos. Un modo per dare un segno concreto di vicinanza ai rifugiati, un segno reso ancora più evidente dall’ospitalità offerta ad alcune famiglie siriane portate a Roma.

Il governo turco sta ricevendo fondi dall’Unione Europea per fungere da barriera di contenimento dei rifugiati e per esercitare una forte repressione che impedisca loro di raggiungere l’Europa. L’Argentina ha deciso di collaborare a questa necessaria azione umanitaria, accogliendo 3000 rifugiati.

Purtroppo però nel mondo non c’è la volontà politica di risolvere questa situazione ma se le grandi potenze non prenderanno delle decisioni in grado di creare alternative che mettano fine alle guerre nella regione, alle morti e alla sofferenza dei popoli, tutto ciò genererà un’escalation di guerre dalle conseguenze imprevedibili. E’ urgente quindi che la comunità internazionale, l’Onu, il Consiglio di Sicurezza del Parlamento Europeo e Paesi come gli Stati Uniti, la Russia e la Cina agiscano in base a una visione umanitaria capace di bloccare la violenza nella regione.

Il mare Mediterraneo si sta trasformando nella fossa comune di migliaia di rifugiati che hanno perso le loro vite senza avere un destino. Bisogna ricordare che la pace non si regala e che essa non è passività né assenza di conflitto. La pace è una dinamica permanente di relazioni tra le persone e i popoli.

È quindi urgente che la comunità internazionale smetta di essere spettatrice e diventi protagonista, che cominci a far sentire la propria voce e che fermi le guerre e le invasioni che colpiscono il Medio Oriente. È necessario incontrare nuovi cammini di convivenza tra i popoli e far cessare un dramma che ferisce tutti.

«». La Repubblica, 14 luglio 2016 (c.m.c.)

Quale confine stanno varcando i contadini tedeschi di Wesel fotografati il 24 marzo del 1945 da Robert Capa mentre fuggono dalle loro case incendiate?

Forse lo stesso confine della paura, della disperazione, del senso di catastrofe dei migranti di oggi. Sono quelle dell’anima le frontiere più paurose. I confini politici sono invisibili. Sono linee tracciate a inchiostro sulle mappe militari dai geografi del potere. Anche una cresta, un fiume, i presunti confini “naturali”, quando ci sei davanti sono solo capricci della crosta terrestre.

I confini diventano visibili, e fotografabili, solo quando il potere li rende invalicabili costruendo muri, barriere, reticolati. Non c’è nulla di sbagliato nel concetto di confine. Il pianeta Terra ha un confine, la sua atmosfera. I confini, come i limiti umani, sono fatti per lo sconfinamento, sfidarli è l’«inesplicabile e pur prepotente bisogno psicologico» di cui scrisse Ryszard Kapuscinski. Il problema non è quel che i confini “sono”, ma quel che “fanno”. Se dividono oppure uniscono. Se includono oppure escludono. Il con- fine di per sé è solo la membrana osmotica di una con- divisione del pianeta fra popoli. I muri li trasformano in una fine e basta.

Nel mondo che si pretende globalizzato i confini sembrano essere risorti nella loro drammatica geometria: una barriera fisica che un flusso perpendicolare di corpi umani cerca di perforare.

Anche la fotografia è geometria, e di foto di reticolati scavalcati quante ne abbiamo viste, in questi anni di migrazione epocale. Alcune di queste immagini, i fuggitivi più fortunati le rivedranno in un oggetto che porta il nome del loro sogno, Europa, che ora è una mostra ma verrà presto distribuito come libro in 10mila copie nei centri di accoglienza ai rifugiati in tutto il continente, curato da Cortona On The Move, coscienzioso festival di fotografia di viaggio; e quindi conterrà molte fotografie, messe a disposizione dall’archivio dell’agenzia Magnum, di cui è membro Thomas Dworzak, il fotografo tedesco che ha avuto l’idea.

Che frontiere d’Europa raccontano quelle foto, a chi le ha varcate a rischio della vita? Muri, fili spinati ci saranno, ma sono quelli i confini che i profughi ricorderanno? I muri con torrette d’avvistamento e checkpoint sono solo i confini più simbolici. I confini oggi avanzano nel mare, arretrano nei centri di identificazione, sono confini a rate e non finiscono mai. Superate queste frontiere mobili, ne trovi di nuove nel cuore delle città, salgono sull’autobus, si infilano nelle code delle Ausl, sono le frontiere della convivenza difficile, della paura dell’altro.

Fotografarle è quasi impossibile. Il sorriso dei ragazzi che toccano con la punta dei piedi la spiaggia di Lesbo è il sollievo commovente di chi è scampato a un pericolo, non di chi ha conquistato una patria. I confini oggi non separano più territori ma diritti. Sono filtri che discriminano l’autorizzato dal clandestino. Le vere dogane di oggi proteggono un bene più esclusivo ed escludente del sacro suolo patrio, un bene raro e molto più caninamente difeso che si chiama cittadinanza.

Le frontiere diventano visibili e fotografabili quando il potere costruisce muri. Superate le barriere fisiche, trovi però quelle della convivenza difficile, della diffidenza.

«Uno studio su dieci paesi della Ue rivela i timori di attentati. Ma per molti crescono anche le preoccupazioni per i costi sociali. Sono i risultati di un sondaggio del Pew research center di Washington Gli analisti: “Polacchi e ungheresi i più spaventati, ma hanno meno stranieri di tutti”» La Repubblica, 13 luglio 2016

Tra i cittadini europei, le paure di un aumento del terrorismo e di una perdita di posti di lavoro e prestazioni sociali sono strettamente legate all’ondata migratoria. Lo afferma un sondaggio reso pubblico dal Pew research center di Washington, condotto in Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Olanda, Polonia, Spagna, Svezia, Ungheria. Dieci paesi che insieme contano per l’80 per cento dei cittadini dell’intera Unione. Il 59 per cento in media teme che l’arrivo dei migranti accresca la minaccia di attentati, e il 50 per cento che peggiori la situazione di occupazione e di welfare e previdenza. Meno alte in percentuale, ma diffuse (media 30 per cento) sono le inquietudini per l’aumento della criminalità. E le reazioni negative ai flussi migratori sono più forti nell’Est e nel Sud della Ue, e tra elettori di destra, anziani o persone con meno istruzione.

«È un paradosso interessante che le paure siano più forti in paesi come Polonia e Ungheria, che non ospitano certo grandi numeri di migranti e non sono state colpiti dal terrorismo», dice a Repubblica Katie Simmons, vicedirettore della ricerca. E spiega: «Da un lato la paura dell’Is è particolarmente sentita là, e coesiste con uno stato d’animo più negativo verso i migranti. Dall’altro proprio là gioca molto un fattore ideologico. Perché soprattutto persone dichiaratamente di destra esprimono questi timori».

L’aspettativa di attacchi armati ancor più frequenti, e la convinzione che i migranti pesino su mercato del lavoro e Stato sociale, sono più diffuse in Ungheria e Polonia: che appunto hanno accolto pochissimi stranieri e non hanno subìto attentati. Tra gli ungheresi 76 su cento temono i terroristi, e 82 su cento danni economici e sociali, tra i polacchi rispettivamente 71 e 75 su cento.

All’Ovest, temono più terrorismo 61 tedeschi su cento, altrettanti olandesi in percentuale, 60 italiani su cento, ma appena 46 francesi e 40 spagnoli su cento. Mentre l’incubo di una perdita di lavoro e previdenza, dopo ungheresi e polacchi, vede greci (72 per cento), italiani (65) e francesi, 53 su cento. I meno timorosi di disoccupazione e colpi al welfare: tedeschi (31) e svedesi (32).

Tra gli europei, continua il rapporto di Pew research, il timore delle conseguenze del grande flusso migratorio è in parte causato anche da attitudini pessimiste verso i musulmani. In Ungheria, Italia, Polonia e Grecia in media oltre sei cittadini su dieci dichiarano opinioni sfavorevoli verso le persone di fede islamica, media europea 60 per cento. Il parere dominante, nella media dei dieci paesi, è che i musulmani tendano a restare comunità distinta dalla società di residenza anziché adottarne valori e stile di vita. Sei cittadini su dieci la pensano così in Grecia, Ungheria, Spagna, Italia, Germania.

La minaccia terrorista inquieta tutti mentre il sondaggio registra forti differenze su altri temi legati all’immigrazione. Grandi sono le divergenze d’opinione quanto all’effetto della diversità culturale per la qualità della vita e la forza d’identità nazionale. La paura di un loro deterioramento è forte tra ungheresi, polacchi, greci, italiani, francesi, mentre solo svedesi e tedeschi arrivano a consistenti ma non maggioritarie percentuali di cittadini secondo cui la multiculturalità è arricchimento.

Infine ma non ultimo, ecco diversi sentimenti verso minoranze, antiche o nuove. L’Italia, seguita dalla Grecia, è la più timorosa verso i Rom, Olanda e Germania le meno inquiete. Opinioni negative verso gli ebrei sono al massimo (55 per cento) in Grecia, alte (32) anche in Ungheria, bassissime in Olanda (4 per cento), Svezia e Germania (5). 16 per cento in media europea.

«Altraeconomia, 4 luglio 2016 (c.m.c)

Le frontiere europee hanno bloccato i migranti ma non i profitti delle principali aziende di armamenti. Anzi, la crescente militarizzazione dei confini dell’Unione europea - un mercato stimato in 15 miliardi di euro nel 2015 e che nel 2020 toccherà quota 29 miliardi di euro- ha alimentato i ricavi di quelle imprese già coinvolte nella vendita di sistemi militari al Medio Oriente.

A rivelare il paradosso è il report “Border Wars: The Arms Dealers profiting from Europe’s Refugee Tragedy” (Frontiera di guerra. Come i produttori di armamenti traggono profitto dalla tragedia dei rifugiati in Europa) promosso dalla Ong olandese “Stop Wapenhandel”, pubblicato dal Transnational Institute (Tni) e rilanciato in Italia dalla Rete Italiana per il Disarmo.

Nelle 60 pagine del report, l’autore Mark Akkerman, membro di Stop Wapenhandel, va oltre la retorica degli annunciati di programmi di «contrasto all’immigrazione clandestina» e misura, nome per nome, affare per affare, gli interessi dei colossi della sicurezza dei confini dell’Ue.

Tra questi spiccano come detto aziende che producono sistemi militari del calibro di Airbus -64 miliardi di euro di ricavi nel 2015-, Leonardo-Finmeccanica (13 miliardi di euro il fatturato dello scorso anno), Thales, francese, 14,1 miliardi di euro a bilancio 2015, Safran e del gigante del settore tecnologico Indra. «Tre di queste imprese (Airbus, Finmeccanica e Thales) -evidenzia il rapporto- sono anche tra le prime quattro aziende europee esportatrici di sistemi militari: tutte sono attive nel vendere i propri sistemi ai paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, alimentando i conflitti che sono all’origine della fuga di intere popolazioni in cerca di rifugio. Tra il 2005 e il 2014, gli Stati membri dell’UE hanno autorizzato a queste ed altre aziende oltre 82 miliardi di euro di licenze per esportazioni verso Medio Oriente e Nord Africa».

Il sostegno economico alla Fortezza Europa non conosce austerità. Tra il 2004 e il 2020, infatti, l’Unione europea ha stanziato circa 4,5 miliardi di euro a favore di misure di sicurezza dei confini degli Stati membri. E l’agenzia di controllo delle frontiere Frontex, nata nel 2005, ha visto crescere il proprio bilancio del 3.688% al 2016, portato da 6,3 milioni a 238,7 milioni di euro. Inoltre, all’industria degli armamenti e della sicurezza sono state destinati gran parte dei finanziamenti di 316 milioni di euro messi a disposizione dall’Ue per la ricerca in materia di sicurezza.

In materia di finanziamenti per la ricerca, peraltro, le aziende non europee ritenute meritevoli di riceverli sono tutte israeliane, in forza di un accordo del 1996 tra l’Unione europea e Israele. «Queste aziende hanno svolto un ruolo nel fortificare i confini di Bulgaria e Ungheria, promuovendo il know-how sviluppato con l’esperienza del muro di separazione in Cisgiordania e del confine di Gaza con l'Egitto -spiega l’autore del rapporto-. L’azienda israeliana BTec Electronic Security Systems è stata selezionata da Frontex a partecipare al laboratorio svolto nell’aprile 2014 su ‘Sensori e piattaforme di sorveglianza delle frontiere’: l’azienda vantava nella sua domanda di applicazione via mail che le sue ‘tecnologie, soluzioni e prodotti sono installati sul confine israelo-palestinese’».

E intorno alle “frontiere di guerra” si sarebbe condotta anche una costante operazione di lobby. «L’industria degli armamenti e della sicurezza ha contribuito a definire la politica europea di sicurezza delle frontiere con attività di lobby e per mezzo delle abituali interazioni con le istituzioni europee per le frontiere e anche delineando le politica per la ricerca -si legge nel report-. L’Organizzazione europea per la Sicurezza (EOS), che comprende Thales, Finmecannica e Airbus, ha fatto pressioni per una maggiore sicurezza delle frontiere. Inoltre, molte delle sue proposte, come ad esempio la spinta ad istituire un’agenzia europea per la sicurezza delle frontiere, sono diventate politiche europee: è il caso, ad esempio, della trasformazione di Frontex in ‘Guardia costiera e di frontiera europea’ (European Border and Coast Guard - EBCG). Infine le giornate biennali di Frontex/EBCG e la loro partecipazione a tavole rotonde sul tema della sicurezza e ai saloni fieristici dedicate ai sistemi militari e alla sicurezza garantiscono una comunicazione regolare e una naturale affinità per la cooperazione».

«Purtroppo non è stupefacente vedere anche Finmeccanica-Leonardo tra i principali destinatari di questa enorme massa di fondi -riflette Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Italiana per il Disarmo– grazie ai quali l'azienda controllata dallo Stato italiano può accrescere il proprio fatturato. Mentre, al contrario, sarebbero necessari investimenti di tutt'altra natura per ottenere soluzioni vere alle dinamiche migratorie attuali. Fin da subito la nostra Rete ha commentato negativamente la crescita dei fondi per una risposta meramente muscolare e di controllo (comunque impossibile) delle frontiere. Una scelta che è ancora più miope ed insensata se si va a considerare l'enorme numero di profughi che stanno scappando dalle guerre alimentate dalle armi

prodotte e vendute da queste stesse industire militari».
C'è chi, come l'ARCI, affronta seriamente la questione dei rifugiati con azioni concrete su vari livelli: dall'espressione immediata e concreta della solidarietà allo sforzo tenace di modificare le mentalità ispirate a un'ingiustificata (e fomentata) paura.

Il manifesto, 1 luglio 2016

ifugiati. Conversazione su frontiere, politica, diritti, di Filippo Miraglia con Cinzia Gubbini, per il Gruppo Abele, 112 p., 10

In genere, interrogati sulle possibili soluzioni di questo problema – quello dell’immigrazione – i competenti si affrettano a precisare: non ho la ricetta pronta; oppure: non ho la bacchetta magica. E invece, l’Arci, la sua ricetta ce l’ha, e il merito di questo libro è soprattutto quello di illustrarla. E se assumiamo questo punto di vista per leggere il libro di Filippo Miraglia, coglieremo immediatamente tutte le virtù della ricetta Arci». Così Luigi Manconi nella prefazione (scritta assieme a Alessandro Leogrande) al libro che Filippo Miraglia, vicepresidente dell’Arci e da anni impegnato sul problema, ha scritto in un face à face con Cinzia Gubbini.

È appena uscito per le edizioni del Gruppo Abele, nella – tutta interessante – serie "Palafitte": Rifugiati. Conversazione su frontiere, politica, diritti. Manconi ha ragione: fra le tante parole che ogni giorno vengono spese sul tema questo volume ha il pregio di dire cose molto concrete e fattibili, quelle che già ora cercano di fare molte associazioni, in particolare l’Arci, la Comunità di sant’Egidio, le Chiese Valdesi (queste utilizzando il 5 per 1000 previsto nella cartella delle tasse) e tante altre ancora. Un grande impegno della società civile, che certo resta indicazione esemplare ma non può, con ogni evidenza, supplire alla totale cecità e inefficienza delle istituzioni. Ma è un "fare" per nulla inutile: non solo intanto aiuta in concreto persone in carne ed ossa, ma soprattutto serve a far capire cosa si dovrebbe e potrebbe fare. E che non si fa. Non si fa innanzitutto non, o almeno non solo, per via delle reazioni emotive che l’arrivo di tanti individui diversi da noi – per storia cultura comportamenti valori abitudini – produce.

È che queste reazioni sono innanzitutto il frutto di una ben organizzata campagna promossa da chi ha interesse a suscitare paure. E cioè di chi sa bene di aver bisogno degli immigrati, ma li vuole illegali e perciò ricattabili appena cercano di far valere i loro diritti. Se non fosse così non si capirebbe come mai chi possiede imprese dovrebbe rifiutare gli immigrati sebbene tutti i dati ci dicano che, senza di loro, un continente come l’Europa (e ancor più l’Italia), in drammatica decrescita di popolazione, non ha speranza di veder aumentato il proprio Pil e nemmeno di colmare le casse dei fondi destinati al welfare. Forse, oltreché di reazioni psicologiche, bisognerebbe parlare di più di interessi di classe, vetusta locuzione ormai quasi illegale.

Con pacatezza, Filippo Miraglia ci spiega che la spesa per il brutale respingimento è inutile e produce enormi sprechi; che sarebbe meglio generalizzare una cosa così sensata come l’allestimento di corridoi detti umanitari, anziché trasformare il Mediterraneo in un campo di battaglia e in un cimitero; che il flusso migratorio verso l’Europa non è poi così massiccio, una proporzione minima rispetto ai sessanta milioni di rifugiati che esistono nel mondo; che i paesi dell’Ue potrebbero assorbirla senza gravi problemi se solo, anziché ammucchiare i nuovi arrivati in luoghi ignobili sotto minaccia di rimpatrio, fossero decentrati sul territorio e affidati agli enti locali così come alle associazioni che operano sul territorio (come spesso già avviene) sì da facilitarne l’inclusione sociale ed evitare i guasti della logica concentrazionista gravemente dannosa per tutti.

È quanto l’Arci e le associazioni con cui collabora (c’è ormai una stretta unità di intenti e di azione concreta fra organismi laici e religiosi che si muove in questo senso ) sta facendo fra mille difficoltà ma con ottimi risultati. E invece la logica governativa è di affidare questa materia così delicata e complessa in gran parte alle prefetture. come se si trattasse di disastri più imprevedibili di un terremoto. (Come stupirsi di «mafia capitale» e di tutto il malaffare che accompagnano gli appalti per la gestione delle strutture previste? Se la gestione non viene affidata alla collettività locale, a una rete sociale e politica, è naturale che prevalga il malaffare). Il testo contiene una quantità di informazioni e riflessioni su una materia di cui a tutti capita di discutere per via del peso acquisito nel contesto politico europeo, ma senza avere cognizione dei suoi precisi aspetti. Oltretutto, per via della giungla di norme in cui è immersa – a livello dei progetti Ue – apparentemente bellissime, se non fosse per il fatto che esse vengono puntualmente contraddette dalle pessime misure dell’emergenza.

Ma il libro non si limita alla pur preziosa descrizione di quanto in concreto si fa e non si dovrebbe fare e su quanto di buono si riesce a realizzare nonostante tutto. È anche un testo denso di riflessione politica: sulla sinistra e come ha finito per marginalizzare il discorso sul tema: perché non può sbraitare come Salvini, ma non ha nemmeno il coraggio di proporre soluzioni. Finisce per tacere, accantonando il problema che viene abbandonato alla più becera propaganda. Ma c’è anche un riflessione, in larga parte nuova, sulla debolezza in Italia di una rappresentanza politica collettiva dei migranti come c’è invece i altri paesi europei. E uno scarsissimo ruolo attribuito dalle istituzioni alle associazioni che operano nella società civile.

Nel libro si parla molto anche dell’Arci stessa, con molti accenti critici e autocritici, senza autoreferenzialismo. Informazioni preziose, perché l’Arci, con i suoi un milione e 100mila iscritti e i suoi 4.700 circoli distribuiti su tutto il territorio nazionale, non è solo la più grande organizzazione laica esistente nel nostro paese, è un pezzo stesso di questo paese. Prezioso per chi vuole ancora far politica.

. Il manifesto, 01 luglio 2016 (p.d.)

Il migliore albergo d’Europa non ha la piscina. Nessun minibar nelle stanze. Non è nemmeno previsto il servizio in camera. Il miglior albergo in Europa è il City Plaza Hotel di Atene (http://best-hotel-in-europe.eu/), dove 400 migranti (180 i bambini) vivono da un mese e mezzo in condizioni di dignità ormai rarissime nei tempi in cui la Fortezza Europa chiude le proprie frontiere sul mediterraneo siglando accordi con la Turchia.

Sono persone intrappolate dallo sbarramento delle rotte che dai Balcani dovevano portarli a nuove vite, tentativi di scappare alla guerre siriane, alle instabilità irachene, agli orrori palestinesi, alla disperazione afghana, alle repressioni curde. Tutte situazioni nelle quali è facile distinguere il ruolo dell’occidente, lo stesso occidente che poi respinge questi corpi alle frontiere, li chiude in centri senza che abbiano commesso alcun reato, li trasferisce in un paese che, su mandato dell’unione europea, li isola in campi di detenzione.
Pratiche e politiche aberranti che rendono il City Plaza un monumento alla dignità umana, al rispetto della persona, un posto dove «nel bilanciamento di interessi si sceglie di dare priorità alla solidarietà». Fa male pensare al City Plaza come a un’eccezione nata dalla intelligente osservazione, da parte di un’associazione di attivisti, la Diktio, vecchia di vent’anni, di quello di cui davvero avevano bisogno i migranti, di quali erano le azioni necessarie per restituire loro il decoro esistenziale.

Ci racconta Olga, che per parlarci deve lasciare la reception del Plaza, dove stanno compilando le liste dei bambini che da settembre andranno a scuola (pochi i siriani, per i quali sono aperte le quote previste dall’accordo) nel centralissimo quartiere di Victoria, che la lotta è consistita nel dare ai migranti una soluzione stabile e mostrare al governo che questo era possibile.

«Questo processo è cominciato la scorsa estate, quando, per l’intensificazione degli sbarchi, i ministri decisero di aprire il primo campo, vicino Atene. Noi eravamo presenti portando lì, e anche nei luoghi di incontro dei migranti, beni di prima necessità, supporto medico. Si trattava di uomini in transito, che volevano rimanere in Grecia solo per qualche giorno. La chiusura della rotta balcanica all’inizio di marzo e, subito dopo, l’accordo Ue-Turchia hanno interrotto la transitorietà di questi flussi. A far nascere, potente, l’esigenza di una collocazione dignitosa per i tanti migranti che le politiche europee avevano reso prigionieri senza libertà di movimento».

Ci spiegano qui che è stato in questo passaggio, nell’esigenza di radicare una organizzazione stabile per rispondere a delle necessità stabili, che il movimento di solidarietà è diventato «più politico», facendosi promotore di manifestazioni per i diritti dei migranti. Due gli slogan: «libertà di movimento, ma anche diritto di restare».

L’altro tassello di questa storia è fatto da un palazzo alto sette piani. Una volta era un hotel di lusso, posto in uno dei quartieri più centrali di Atene. Fallito sette anni fa, si stagliava con la sua insegna viola come monumento alla crisi finanziaria, questioni di crediti non erogati, di banche, del collasso greco, dei ricatti europei. E ritorna quel bilanciamento di interessi che è protagonista in ogni scelta politica: cosa vale di piu? La proprietà privata? La solidarietà?
In cento attivisti hanno occupato il Plaza ormai quasi due mesi fa. In un salone giocano una quarantina di bambini, c’è entusiasmo per la notizia della scuola che inizia a settembre. Chiedono diari e penne, si vogliono preparare.
I migranti ospitati in tutto sono 400, vengono dall’iraq, dall’Afganistan, dalla Palestina, altri sono curdi e siriani. Sperimentano un modello di coesistenza e di autorganizzazione. Ci sono dei disabili, alcuni con malattie croniche.
Ogni nucleo ha una stanza con bagno, che per tutti significa trovare nel loro viaggio, per la prima volta, sicurezza e dignità. C’è un ambulatorio dove vengono per le visite medici volontari, gli stessi che hanno contribuito a creare quella storia dal basso di mutuo soccorso finita con l’elezione di Syriza. C’è una dispensa con i beni donati suddivisi per bagnoschiuma, pannolini per bambini asciugamani, lenzuola. Molti portano scorte alimentari, in modo da assicurare una colazione e due pasti al giorno.

I migranti si occupano del City Plaza come di un oggetto prezioso, un miraggio nel deserto. I bambini tolgono le briciole dei craker dal tavolo, fanno attenzione a colorare nel perimetro dei fogli per non macchiare le tovaglie. Il City Plaza ha subito spesso attacchi da parte di gruppi di estrema destra, non è un quartiere facile questo. Ma col tempo le persiane dei vicini, rimaste chiuse nelle prime settimane, si sono aperte. Un cane randagio che vagava moribondo per strada è stato adottato e curato dagli occupanti: il quartiere ha reagito a una immagine così potente, così capace di essere simbolo, facendosi accogliente.

«Il nostro obiettivo – continua Olga – non può essere dare una casa a tutti, non è realistico. Il nostro obiettivo e dare l’esempio di un differente e possibile tipo di gestione della presenza dei migranti. Ora siamo in 400. Viviamo in uno stabile che non funzionava da sette anni. Non abbiamo interrotto alcuna attività. Non c’era nessuno che lavorava qui. Le stanze sono tutte occupate, non possiamo accettare e vagliare alcuna altra richiesta e ce ne capitano molte, naturalmente. Ma noi vogliamo essere un modello di residenza, non un campo».

Certo, sottolinea Olga, che la presenza al governo di Syriza contribuisce in qualche modo a legittimare il progetto. Ma sembra altrettanto vero che sgomberare 400 migranti per mandarli per strada non sembra poter essere l’obiettivo di nessun governo. Un’esperienza che che solleva qualche contraddizione: il Plaza, con diecimila euro al mese e moltissima solidarietà, offre dignità a 400 persone, incoraggiando, al contempo, la loro indipendenza. Esiste un modello alternativo migliore? Finora non sembra.

Articoli di Alfredo Marsala e intervista di Carlo Lania all'ammiraglio Credendino sugli sforzi per salvare qualcuno sulla strage in atto nel Mediterraneo dalla fine del secolo scorso, nell'indifferenza di chi comanda e di chi forma il pensiero corrente.

Il manifesto, 1 luglio 2016, con postilla

UNA STRAGE DI DONNE

di Alfredo Marsala

Un mare senza pace. Proprio mentre il peschereccio naufragato il 18 aprile del 2015 entrava nel porto di Augusta con la stiva piena di cadaveri, un altro naufragio è avvenuto a 20 miglia dalla Libia provocando la morte di dieci donne.

Duecento, forse 300. Non si sa ancora quanti siano i corpi incastrati nella stiva del relitto del peschereccio recuperato a 370 metri di profondità dalla Marina militare, a 40 miglia dalla Libia e a 100 dalle coste della Sicilia.

Quel che resta del barcone, naufragato il 18 aprile dell’anno scorso per quella che è stata definita la più grande tragedia nel Mediterraneo di tutti i tempi ma che sembra non aver insegnato nulla ai potenti dell’Ue, è stato trasportato ad Augusta. Nel molo è stata costruita una tensostruttura refrigerata. Una sorta di mega cella frigorifera lunga 30 metri, larga 20 e alta 10 realizzata per contenere il peschereccio.

Un posto di morte e dolore. Qui inizieranno le operazioni di recupero delle salme. I pompieri si occuperanno di estrarre i cadaveri, un equipe di medici, coordinata dalla professoressa Cristina Cattaneo della sezione di medicina legale dell’università di Milano, con la collaborazione degli atenei di Catania, Messina e Palermo e dei medici della polizia, farà poi i rilievi sui corpi. Un salto all’inferno, una mesta conta di cadaveri: bambini, donne e uomini senza volto, senza nome. Con i corpi martoriati, dilaniati dai pesci e dal mare, rimasti più di un anno negli abissi. Morti intrappolati nella stiva perché i trafficanti sigillarono i portelloni per impedirne l’uscita mentre il barcone, col suo carico di 700 disperati, come raccontarono i 28 superstiti, affondava. Se da quella maledetta stiva saranno estratti 300 corpi, come stima la Marina, significa che altre 200 persone sono state risucchiate dal Canale di Sicilia, ormai diventato il cimitero più grande del pianeta. I superstiti della grande strage furono 28, soccorsi dalla nave portoghese King Jacob, con a bordo marinai filippini che non appena giunsero nel porto di Palermo chiesero l’aiuto di un prete e di una squadra di psicologi per lo sotto shock subito dalla terribile esperienza.

Fu proprio quando la nave si avvicinò per prestare soccorso che il peschereccio stracolmo di disperati si capovolse. Decine di persone finirono in mare, la King Jacob lanciò le scialuppe ma nemmeno un terzo dei migranti riuscì a salvarsi. Gli altri furono risucchiati dal mare o intrappolati nel barcone dell’orrore.

Il tentativo che si farà ora è quello di identificare le salme. Difficile, quasi impossibile. Sarà il Dna se sarà possibile incrociarlo con le banche dati a stabilire la nazionalità e a dare un nome alle vittime, sempre che i Paesi di provenienza abbiano gli archivi. «Abbiamo già centinaia di richieste e stiamo raccogliendo dati dai familiari che si trovano in Senegal e Mali – dice la professoressa Cattaneo – e riceviamo richieste dai parenti che sono nel nord Europa. C’è già pronto il materiale necessario per fare i confronti.

Il riconoscimento ha una ripercussione sui familiari vivi, ma ci sono anche ripercussioni amministrative perché alcuni ricongiungimenti sono impossibili perché mancano i certificati di morte». Il recupero è stata un’operazione complessa anche perché, sottolinea l’ammiraglio Pietro Covino, «non era mai stato fatto per un peschereccio di tali dimensioni e a una profondità di circa 400 metri. Con tre fasi principali: l’ispezione del relitto per verificarne la struttura, le dimensioni e le capacità di sostenere la presa per riportarlo in superficie; la realizzazione del modulo di recupero; e la mobilitazione dei mezzi necessari». Il tutto è costato 9,5 milioni di euro, finanziati dalla Presidenza del consiglio dei ministri. Ed è un operazione che andava fatta, sostiene il premier Matteo Renzi, per «dare una sepoltura a quei nostri fratelli, a quelle nostre sorelle che altrimenti sarebbero rimasti per sempre in fondo al mare». La logista prevede vitto e alloggio a tutti gli operatori coinvolti, 150 in media al giorno. Una cittadella per i vigili del fuoco – con aula incontri, due dormitori e uno spogliatoio – per la Croce rossa, un posto medico avanzato e un consultorio psicologico h24. Le aree dove saranno eseguite le autopsie saranno tre.

Ma alla conta dei morti se ne aggiungono già altri. Proprio mentre il relitto del peschereccio arrivava ad Augusta, un altro naufragio è avvenuto a circa 20 miglia dalla Libia. Dieci i cadaveri recuperati in mare, tutti di donne. I soccorritori della nave Diciotti, allertata dalla guardia costiera, sono riusciti a salvare 107 migranti e a recuperarne poco dopo altri 117 sempre nel Canale di Sicilia.

Il naufragio è avvenuto con condizioni meteorologiche pessime, mare forza 3, vento a 30 nodi e onde alte due metri.
«CONTRO L'ISIS,

MA CONTINUIAMO A
SALVARE I MIGRANTI IN MARE»

intervista di Carlo Lania a Enrico Credendino

EuNavFor-Med, la missione europea di contrasto al traffico di esseri umani, ha appena compiuto un anno. Solo due mesi in più di Sophia, la bambina somala nata il 24 agosto 2015 a bordo della nave tedesca che aveva soccorso la madre e altri 453 migranti nel Canale di Sicilia e che ha dato il suo nome alla missione. La foto ingrandita della piccola Sophia è appesa a una delle pareti dell’ex aeroporto di Centocelle, a Roma, quartier generale dell’operazione. «In questi mesi la missione ha salvato più di 18 mila migranti», spiega il comandante della flotta europea, l’ammiraglio Enrico Credendino.

Torinese, 53 anni, è stato al comando della missione Atlanta, l’operazione europea anti-pirateria, e successivamente è stato tra gli organizzatori di Mare nostrum, la missione umanitaria italiana. Il 20 giugno scorso il Consiglio europeo ha prolungato di un anno, fino a giugno 2017, la missione ampliandone i compiti con l’incarico di addestrare la Guardia costiera libica, mentre una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu (la 2292) la impegna nelle operazioni di contrasto del traffico di armi dirette alle milizie libiche.

I nuovi compiti cambiano la natura della missione?
No. Il mandato rimane lo stesso: combattere le reti criminali che lucrano sul traffico di uomini. Sophia nasce dopo il naufragio del 18 aprile 2015, quando l’Europa decide di agire finalmente in maniera più concreta perché non vuole più vedere morti in mare. Nel mandato delle operazioni non è previsto il soccorso ma per un marinaio c’è una sola legge, che è quella di salvare, proteggere e tutelare tutti quelli che sono in difficoltà in mare. Finora abbiamo salvato oltre 18 mila vite, fermato più di 70 scafisti e neutralizzato 170 imbarcazioni. Il mandato quindi rimane uguale, ma sono stati aggiunti due nuovi compiti che ci aiuteranno a conseguirlo.

Con nuove regole di ingaggio?
No, anche se ne avremo qualcuna in più per poter salire e ispezionare le navi sospette di fare traffici illeciti, fermarle e portarle nei porti di riferimento.

Come avverrà la perquisizione delle navi sospette?
La risoluzione dell’Onu ci dice esattamente cosa possiamo fare, cioè salire sulle navi, ispezionarle e se troviamo riscontri di armi o materiale illecito possiamo sequestrarlo e portarlo nel porto di un altro paese consegnandolo all’autorità giudiziaria. Stiamo ancora individuando i paesi, dovrebbero essere quelli più vicini all’area delle operazioni quindi potrebbero essere la Grecia, la Spagna, l’Italia, la Francia.
Approvando l’estensione della missione il parlamento tedesco ha definito i nuovi compiti come operazioni di contrasto all’Isis e al terrorismo. E’ di questo che stiamo parlando?
Indirettamente. Il mio compito in questo caso è di evitare che le armi arrivino ai gruppi terroristici presenti in Libia. In questo senso contribuiamo a combattere il terrorismo.

Tra i nuovi compiti c’è l’addestramento della guardia costiera e delle marina militare libica. Come avverrà?

Va premesso che tutto quello che avviene in Libia avviene solo su richiesta dei libici. Siamo a casa loro, sono loro che devono volerlo e noi vogliamo lavorare insieme a loro. Il governo libico ha appena designato il comitato di esperti che insieme al mio comitato di esperti lavorerà per stilare il programma di addestramento sulla base delle loro esigenze, in modo da poter cominciare entro quattro, cinque settimane. Prevediamo di farlo inizialmente in mare, in acque internazionali, imbarcando cento militari per un periodo di 14 settimane, sul modello di quanto abbiamo fatto due anni fa in Mozambico. Poi cominceremo l’addestramento a terra in un paese membro: Grecia e Malta hanno già offerto le loro strutture, anche l’Italia lo farà, con l’obiettivo di andare a lavorare poi a Tripoli, una volta che ci saranno le condizioni per farlo, nella base navale dove oggi si trova il presidente Serraj e dove potremo addestrare un numero più grande di persone. Infine ci sarà una terza fase nella quale addestreremo i libici sulle loro motovedette. L’Italia ne fornirà dieci, altri paesi membri daranno un contributo.

Ha parlato di un addestramento su suolo libico. Non teme così di provocare una reazione da parte delle milizie?
Questo succederà solo quando ci saranno le condizioni di sicurezza. Intanto l’addestramento a terra lo faremo nei paesi membri.

La fase tre della missione europea prevede un intervento in acque libiche ed eventualmente anche nei porti.
Sempre su richiesta libica e ci vorrà una nuova risoluzione dell’Onu. Comunque saranno attività che condurremo insieme ai libici. Lo scopo dell’addestramento della guardia costiera e della marina libica è proprio quello di conoscerci e quando ci saranno le condizioni lavorare insieme per arrestare gli scafisti e distruggere quelle strutture logistiche che sono di loro esclusivo uso. Noi non vogliamo creare danni collaterali. Per esempio molti dei barconi utilizzati per trasportare i migranti sono pescherecci che i pescatori spesso sono costretti a vendere.

Quando pensa che prenderà avvio la terza fase?

Credo che succederà, non sono però in grado di dire quando.

Quando la missione europea opererà in acque libiche i migranti fermati verranno consegnati alle autorità libiche?
Noi applichiamo in maniera stretta il principio di non respingimento ovunque in mare, sia in acque internazionali che in acque territoriali. Questa è una chiara decisione presa dal Consiglio europeo e questo è il mio mandato. Quindi noi tutti i migranti che prendiamo mare li portiamo in Italia.

Sarà così anche in futuro?
Anche in futuro. I migranti non verranno respinti né consegnati ai libici perché sarebbe un respingimento.

Abbiamo parlato della guardia costiera libica. I migranti salvati da quella che opera oggi finiscono spesso in centri di detenzione dove subiscono violenze. Che garanzie ci sono che la stessa cosa non accadrà anche in futuro?
Come missione Sophia noi siamo parte del piano di azione dell’Unione europea sull’immigrazione che prevede anche una missione civile chiamata Eubam Libya che oggi è a Tunisia ma appena possibile andrà a Tripoli. Questa missione sta pianificando l’addestramento delle forze di polizia e la ricostruzione del sistema giudiziario e carcerario libico, in modo tale che anche le condizioni degli scafisti che verranno arrestati da libici rispetteranno gli standard umanitari. Per quanto riguarda i migranti in particolare noi lavoriamo insieme all’Unhcr, la prima organizzazione che ho incontrato il giorno dopo essere stato nominato comandante della missione. L’Unhcr addestra i nostri equipaggi prima che vadano in mare in modo che la parte umanitaria, la parte gender, l’assistenza ai bambini abbia gli standard previsti. Nell’addestramento della guardia costiera libica ci sarà uno specifico capitolo proprio su questo.

Ogni tanto esce un allarme su possibili invasioni di migranti dalla Libia. Recentemente il direttore di Frontex, Fabrice Leggeri, ha parlato di possibili 300 mila arrivi in Italia entro al fine dell’anno. Condivide questi allarmi?
I dati in Libia noi non li abbiamo, quindi mi baso sui dati ufficiali dell’Oim secondo i quali ci sono circa 200 mila migranti in Libia pronti a muovere e 400 mila sfollati libici che non hanno però intenzione di lasciare il paese. Infine ci sono circa 200 mila rifugiati mediorientali, soprattutto siriani, che però sono in Libia da molti anni, ormai fanno parte del tessuto libico e non vogliono lasciare il paese. Quindi quelli pronti al muovere sarebbero 200 mila. Ed è un numero in linea con quello dell’anno scorso.

Quindi nessuna invasione?

Io questo non lo so, non ho la sfera di cristallo. Non credo però che ci sarà nessuna invasione, penso che i numeri siano più o meno in linea con quelli dell’anno scorso.

postilla
L'Europa dei governi continua nella sua politica di respingimenti criminali conditi con uno spruzzo di umanitarismo: si lascia che i disperati s'imbarchino come possono, quando inevitabilmente affogano si cerca di fare i crocerossini salvandoli dalle onde - o i becchini recuperandone i resti nelle loro bare. Si ignora che si tratta di un esodo di centinaia di migliaia (di milioni) di uomini donne vecchi bambini che scappano dalla miseria e dal terrore. da anni che sa e capisce propone infaticabilmente la necessità di creare dei corridoi umanitari per sostituire il "servizio" offerto dai trafficanti, ma chi decide non li ascolta. Riproponiamo a proposito un intervento di Barbara Spinelli del 2014, La grande finzione di Frontex Plus e le responsabilità dell’Europa

Il Post, 21 marzo 2016

“Syrup! Syrup!”. Avrà settant’anni la donna curva e minuta che si para dinanzi alla portiera appena Dimitris accosta la macchina sul ciglio della strada, sotto un vecchissimo (e tragicamente profetico) segnale stradale bilingue greco-inglese che indica in direzione del campo: “Station of sanitary veterinary inspection Idomeni”; come a chiarire subito che questo è un posto per le bestie, non per gli esseri umani. Con gesti sobri e discreti, senza insistere, la signora indica le mani butterate, i piedi avvolti in scarpe rotte, e dà segno, in un silenzioso esperanto, di aver bisogno di medicine. Quando Dimitris le fa cenno che il dottore – il “free doctor” di cui al cartello rosso e bilingue (inglese-arabo) – riceve in una tenda laggiù, dall’altra parte del campo, il suo rammarico è lampante negli occhi; ma piena di dignità si volta, e a passi lentissimi riprende il cammino della speranza.

Non è di marzo questa impura aria, che impregna i vestiti e non trova catarsi: le fumarole mefitiche spuntano da fornelletti improvvisati, da arrugginiti bidoni d’idrocarburi, da catastine di legna, da plastica bruciacchiata sparsa qua e là sopra il campo ancora fradicio da giorni e giorni di pioggia – oggi è uscita una lisca di sole, e i vestiti zuppi vengono finalmente stesi ad asciugare. Nel campo nato tre chilometri prima di Idomeni attorno alle strutture di un’area di servizio della EKO, sui tetti delle tende delle Nazioni Unite è tutto un fiorire di calzini, di magliette sdrucite, di pantaloni logori o seminuovi; e poi la fantasia al potere, mutande su un ramo d’albero, maglioni su una staccionata, pedalini su una sedia di plastica; e le reti basse, fatte per separare, sono in realtà degli stendini fatti e compiuti. È uscito il sole, oggi, ma potrebbe non durare; o – a leggere i giornali di ieri – potrebbe non durare il campo intero, chi può dirlo. Nell’attesa, dal benzinaio, la coda dietro a un camioncino di targa tedesca è chilometrica e lentissima: si distribuiscono scarpe, ma sono poche le possibilità d’intendersi al volo sulla taglia nel volteggio di arabo, farsi, inglese, curdo. Così, in fin dei conti, il solo modo di capire a quale piede vada bene quale calzatura è la sensata esperienza – e ridono e frignano e sghignazzano i tantissimi bambini che fanno i capricci, come qualunque loro coetaneo europeo in un negozio alla moda: sulla campana disegnata coi gessi colorati tra la pompa di benzina e la fila di bagni chimici, vogliono saltare con scarpette resistenti.

Idomeni è una città senza governo, nel senso più letterale. Nel punto in cui convergono le tre direttrici sterrate o d’asfalto, subito a fianco dei binari della linea interrotta, stamani la polizia ha ricavato con fatica, in mezzo al flusso continuo e dantesco di anime in pena, un piccolo spazio per l’auto blu della viceministra degli Interni, Maria Kollia-Tsaruchà, che è nata a Serres, non lontano da qui. Piccola e sgomenta sul sedile anteriore, mi invita a documentare con precisione cosa accade, perché si sappia; e aggiunge in un sussurro che la situazione dhen elènchete, non si controlla più. Il suo ministro, il coraggioso non-vedente Panayotis Kurublìs, dichiara che questa è una nuova Dachau (una Dachau, ribatte Dimitris, da cui però usciranno quasi tutti vivi, e segnati per sempre, a migliaia, nei polmoni, nelle giunture, nell’anima); il vagare affranto del ministro stamattina per il campo, al braccio di gendarmi muti e forse ancora non abituati, pare più una prova d’impotenza che il preludio a una nuova azione politica, per la quale non s’intravvede lo spazio. La polizia sta ai margini, presidia con quattro aitanti giovanotti una linea immaginaria che corre perpendicolare ai binari e parallela al muro di filo spinato 100 metri più in là: i ragazzi col casco e lo scudo osservano e sorridono distesi, forse più partecipi del dramma in corso che solleciti di possibili problemi. Né incutono timore le pettorine fosforescenti delle ONG, anche perché non mancano i “bianchi” (quelli di MSF, di Praksis, di Orient) che tra una distribuzione e l’altra si appartano un momento in lacrime, per dare sfogo non visti al sentimento umano (li riconosci subito, gli Europei, dallo stato della loro pelle, e quando senti qualcuno che parla italiano ti senti all’improvviso più fiero che durante l’inno della finale di Madrid).

Molti, dalle file dell’opposizione greca, criticano questo modo di procedere, denunciano il sostanziale abbandono dei campi profughi e soffiano sul fuoco delle scaramucce fra gruppi etnici, come quelle avvenute ieri al Pireo, e pure qui stesso – un Afghano, un Siriano e un Tedesco ricoverati in ospedale per ferite d’arma da taglio. Tutti aspettano risse e disordini per poter meglio additare la faciloneria del governo, la sua mancanza di strategia. I grandi giornali, dal Vima alla Kathimerinì, sono zeppi di editoriali aggressivi contro il premier Tsipras e la sua politica di frontiere aperte senza distinzione di provenienza e di status. Così, si insiste sulla presunta mancanza di ordine pubblico, invece che sulla mancanza politica di un governo che esita, forse comprensibilmente forse no, pressato com’è fra la povertà di mezzi, l’indecisione e l’atavico timore dei Turchi; un governo che preferisce dedicare sforzi e polemiche all’uscita estemporanea di un sottosegretario (Panayotis Muzalas) che ha chiamato “Macedonia” quella che per il diritto internazionale è “Fyrom” e per i Greci è semplicemente “ta Skopia” (da pronunciare con una lieve aspirazione di disprezzo fra la “p” e la “i”). Da giorni, mentre qui prosegue l’inferno, sui media si discute se la maestà del nazionalismo ellenico – lesa da quel nome proprio, soprattutto nell’opima figura dell’alleato destrorso di Tsipras, il ministro della Difesa Panos Kammenos – debba o meno costare a Muzalas la poltrona.

Così, mentre ad Atene si litiga sulle parole, i poliziotti di Skopje rispediscono indietro a suon di legnate i profughi che nottetempo riescono a passare sfidando le gelide correnti dell’Axiòs, il fiume che passa accanto a Idomeni e che appena varcato il confine impossibile inizia a chiamarsi Vardar – come se il muro di filo spinato fosse così stretto e potente da risucchiare un nome assieme alle vite dei migranti (tre, cinque, o chissà quanti) che l’altro giorno sono scomparse nei flutti. Intanto il numero dei profughi è quadruplicato, l’ospedale più vicino (quello di Kilkìs) non è stato potenziato e va in tilt con 20 pazienti (e qui sono accampati in 16mila); e come se non bastasse nella provincia di Kilkìs Alba Dorata ha il 10 per cento, a testimonio di un pericolo di xenofobia che spesso si sottovaluta: un documentario della giornalista Anghelikì Kuruni, Alba dorata: un fatto personale, presentato proprio ieri al Festival del documentario di Salonicco, denuncia la permeabilità dei Greci più insospettabili al fascino delle svastiche. Né manca, nella Macedonia travolta dall’onda, chi teme l’invasione, il fattore demografico a tutto vantaggio degli “altri”, e l’inettitudine di uno Stato debole e incerottato.

Eppure la realtà profonda non è questa. Se Idomeni rimane in piedi, se questa città fantasma, nonostante tutto, funziona da mesi nel fluire ininterrotto di centinaia di migliaia di persone, vuol dire che la realtà è soprattutto un’altra. Qui è tutto merito di quella parola greca che, come tante altre, da sola fa miracoli: allilenghìi. Di norma tradotta con “solidarietà”, essa reca al proprio interno la radice del “reciproco” e la radice antichissima della “garanzia”, del “pegno”: indica insomma un atto di fiducia reciproca, di consapevolezza e riconoscimento della comunanza di un destino. Nessuno, sotto questo cielo, può saperlo meglio dei Greci, che hanno inventato il concetto stesso di xenìa e che nell’ultimo secolo hanno assistito a innumerevoli e tragici spostamenti di masse umane. Non è un caso che oltre i due terzi di loro – dicono i sondaggi – non abbiano paura dei profughi (attualmente 45mila sul suolo del Paese, il 60% dei quali stipati nella sola Macedonia), e si dichiarino pronti ad ospitarli in tutti i modi (molte decine ormai anche nelle proprie case), anche se meno del 50% sarebbe contento se si stabilissero tutti in Grecia – cosa che nessuno di quelli beninteso vuol fare, forse nemmeno la stanchissima signora con le mani butterate che cercava lo sciroppo, e non è arrivata intanto nemmeno a metà strada.

Alto e robusto, il mio amico Dimitris sembra un eroe di Nikos Kazantzakis, con il suo parlare semplice e la riserva di umanità che tiene in sé: un Ulisse più altruista, uno Zorba più dolente. Mi racconta di quando venne qui la prima volta, a giugno 2015, e non c’era praticamente nessuno: non le televisioni che ora trasmettono da ogni angolo, non le padelle paraboliche che sfiorano le tende (qualche bambino cede alla tentazione di metterci sopra i calzini ad asciugare), non le ONG che con rare eccezioni sono qui da 2-3 mesi, non le Nazioni Unite che giunsero a fine agosto coi primi accampamenti. All’epoca, tutto era in mano a una mafia internazionale (turca, greca, macedone) che approfittava dei confini aperti per spillare somme ingenti ai profughi (talora portati perfino dalla Libia e dal Marocco, probabilmente attraverso la Turchia…) e per infliggere loro (compresi donne e bambini) marce infinite attraverso la spina dorsale dei Balcani. Dopo la crisi di agosto ci furono l’Orban cattivo, la Merkel buona e l’Austria silenziosa, e Idomeni diventò per altre settimane solo un punto di transito per quelli che il governo Tsipras – unico forse tra quelli europei – definiva a priori mai “clandestini” ma sempre “rifugiati”, indipendentemente dalla loro provenienza e dalla loro motivazione, rinunciando così a quell’intollerabile discriminazione fra esule per fame ed esule di guerra che tutte le sinistre europee (a tacer delle altre parti politiche) hanno comodamente sposata ed eretta a fondamento delle loro politiche. Poi vennero novembre, la limitazione del passaggio ai soli Siriani, Iracheni e Afghani (questi ultimi esclusi poi a partire da gennaio, in una sorta di macabro gioco a eliminazione), e così la metamorfosi di Idomeni in un campo vero e proprio, in concomitanza con l’inizio dell’inverno. L’inverno freddo dei film di Theo Anghelòpulos; l’inverno in cui piove, “perché questo non è il Libano”. E la tolleranza di chi, forse per soldi forse per buona intenzione, ha portato fin qui tanta gente che non aveva alcuna speranza di passare.

Dimitris, che vive e lavora come fisioterapista alternativo a Salonicco, ricorda perfettamente quando, di ritorno da quel suo primo viaggio al confine, con un pugno di amici decise che era ora di far qualcosa: “io ho dei figli, e mi sono semplicemente vergognato”. Così, di punto in bianco, senza nessun sostegno e nel disinteresse totale tanto dei media, impegnati a deplorare i morti annegati dinanzi alle isole, quanto delle autorità che non giudicavano quel fronte un pericolo attuale, dettero vita attraverso un blog Volontari di Salonicco – amore senza frontiere e una pagina Facebook a una raccolta di cibo e vestiti tra i cittadini del quartiere, poi dell’intera città. E, nel silenzio, senza alcuna visibilità, cominciarono ad arrivare generi di ogni tipo da parte di perfetti sconosciuti, spesso casalinghe o modesti impiegati che durante la pausa pranzo passavano dal deposito (una casa privata adibita all’uopo) a lasciare 10 uova, una cassetta di mele, o una scatola di pannolini; o, meglio ancora, cibo cucinato alla vigilia delle spedizioni che due volte a settimana raggiungevano e raggiungono tuttora Idomeni – prima camioncini, poi interi camion pieni di generi di prima necessità, “ma non, tiene a ribadire Dimitris, i toast freddi delle Nazioni Unite o di MSF, bensì razioni di cibo vero, o per lo meno un uovo con un po’ di formaggio, di pane, e un frutto, insomma qualcosa che sazi”. Ogni viaggio costa una fortuna; uno non ci penserebbe, ma solo in buste e contenitori se ne vanno almeno tremila euro al mese, e se qualche imprenditore generoso (e anonimo) non ne regalasse un po’ forse i volontari non ce la farebbero. Ma le bollette del gas di chi cucina, quelle se le paga ciascun volontario coi propri soldi, proprio come la benzina dei camion (35-40 euro ciascuno per ogni viaggio), per non parlare delle cose che si distribuiscono – “ho visto amici tornare a casa scalzi per aver visto vecchi con le scarpe rotte, ed essersi vergognati di averne di sane”.

A Idomeni le file sono infinite, e quelle per il cibo non vanno molto più veloci di quelle per le calzature; sopra la passerella che ripara i primi 50 (gli altri sono esposti alle intemperie per centinaia di metri ancora) campeggia l’orologio con un beffardo “Welcome to Idomeni” che lampeggia anche in arabo. Ogni camion che arriva è assediato dai bambini, onnipresenti, mentre alle 11 già la gente inizia a prender posto dinanzi alle cucine improvvisate nei container dall’associazione Ikòpolis: Babis, uno dei cuochi, col mestolo in mano dinanzi a tre enormi pentoloni in cui andrà un riso con il tonno, mi dice che a fine giornata avranno sfornato 2000-2500 razioni. Dimitris mi conferma che il suo proprio gruppo, quando va su, riesce a distribuire a volte più di 4 o 5000 razioni (250 sono i volontari che preparano e cucinano); su un campo di 16000 persone non è poco, ma non è mai abbastanza. Ma non è poco soprattutto perché denota un’adesione spontanea della popolazione greca al volontariato che non passa né per la Chiesa (quella cattolica e quella evangelica sono ora ben presenti entrambe), né per le organizzazioni non governative (per quanto lodevoli) né tanto meno per il governo, de facto spettacolarmente assente, e incapace forse di cogliere tramite i suoi semplici impiegati la dimensione umana della catastrofe. Si parla tanto di terrorismo “molecolare”; ecco, questa è a suo modo una solidarietà molecolare.

E questo, si badi, in un Paese dove negli ultimi 7 anni i salari e le pensioni sono calati della metà, e l’economia è praticamente in coma. Ogni mese, il sospirato e promesso recupero del livello pre-2008 si allontana nel tempo: ci vorranno altri vent’anni, strilla in copertina il giornale di oggi, che registra gli ultimi diktat della trojka, su cui il governo Tsipras è accusato di aver ceduto a indicibili mercanteggiamenti. Di fatto, le “linee rosse” poste a suo tempo dalla “rivoluzione Syriza” sono miseramente cadute una dopo l’altra, proprio come non cadono i muri dell’Europa: salario minimo decurtato, pensioni sottoposte a nuovi tagli (per molti è la terza o quarta volta), limite di esenzione dalle tasse abbassato di altri 200 euro, confisca dei beni mobili e immobili automatica e immediata per i debitori insolventi. Su tutto, un sistema bancario fragilissimo strozzato da un debito pubblico e privato capillare, la cui perversa dinamica nel corso degli anni ha messo in ginocchio il Paese sul piano economico ma anzitutto umanitario – lo illustra splendidamente il rapporto della commissione d’inchiesta sul debito voluta nel Parlamento greco dall’ex presidente Zoì Konstandopulu, figura competente e intransigente, sottoposta forse per questo al ludibrio mediatico e misogino perfino dai propri stessi compagni di partito, e prontamente rimossa nel nuovo corso del Syriza di governo (il rapporto è ora comodamente leggibile anche in francese. Anche se forse non è un caso che proprio per questo Tsipras abbia perduto per strada l’appoggio di molti antichi alleati in Europa, da Mélenchon a Corbyn a pezzi interi di Podemos, i quali parteggiano ormai apertamente per la nuova formazione politica internazionale dell’ex ministro Varufakis e della stessa Zoì. Sarà un caso che Tsipras abbia partecipato la settimana scorsa al vertice dei socialdemocratici europei di Parigi, scambiandosi amichevoli battute con Hollande e Renzi?

A Dimitris la politica non interessa se non per gli effetti che produce sulla pelle degli ultimi; e però sa bene che se la popolazione non vedrà uno sforzo concreto da parte delle autorità, anche il volontariato spontaneo per i rifugiati si estinguerà per sfinimento, sfociando nella più classica delle guerre fra poveri: prima o poi sottentrerà il pensiero “se il governo ci lascia soli, ci taglia i soldi e ci ruba il futuro, perché dovremmo noi aiutarlo a gestire questa tragedia a spese nostre”? Mentre noi parliamo quassù, nella piazza centrale di Salonicco, sotto lo sguardo pensoso della statua di Aristotele (che era Macedone anche lui, essendo nato a Stagira), si svolge la rappresentazione plastica di questa contraddizione: fino al lungomare, troneggiano infatti gli stands della multinazionale Unilever, la quale ostenta con sfarzo i propri programmi di solidarietà nei confronti dei Greci disagiati. Tuttavia, dinanzi al padiglione dove si offre una minestra calda, o a quello dove si distribuiscono medicinali, i poveri che si addensano non hanno più lingua né colore, sono indistintamente Afgani, Greci, Iracheni, Bengalesi, Siriani. Pochi passi più in là, in un magazzino del porto, si svolge una mostra di geniali fotografie (“Images of our other self“) scattate tra Atene e Salonicco dai venditori ambulanti del giornale di strada Schedìa (“La zattera”), che sono spesso essi stessi senzatetto: immagini anonime di una Grecia “dal basso” che è fatta di taniche e bambole rotte, di asfalto e cartone, di barboni e teste di medusa, di murales perfetti come quello in cui un palloncino sale verso l’alto squarciando pian piano un muro di mattoni: e il muro di Idomeni, che palloncino lo squarcerà? Appena fuori dal magazzino, sulla banchina del porto di Salonicco, gli attivisti del “Caravan project” hanno piantato due tende mongole (o yurt) sotto le quali danno conto di un tour di mesi e mesi nella Grecia profonda, dai campi bruciati di Chio alle sofferenze dei Rom di Patrasso, dall’ambiente in pericolo nel sito macedone di Skuriès ai villaggi dell’interno in cui vivono ormai solo i vecchi sdentati e silenti. Anche qui, si parla dei Greci disagiati che vivono per strada? dei migranti che li affiancano nelle stesse strade? delle strade di un Paese senza speranza? di un mondo composito, quel mondo che si vede ormai ad ogni angolo, e che le strade dei Balcani le percorre fino a sbattere contro muri di indifferenza?

Così canterà stasera Àlkistis Protopsalti all’auditorium di Salonicco, riprendendo la versione greca del testo scritto da un Turco tanti anni fa, che canta l’epoca dello “scambio di popolazioni” conseguente alla catastrofe micrasiatica del 1922. E viene da chiedersi a cosa penseranno, ascoltando commossi questi versi, le migliaia di spettatori di ogni età accorsi ad acclamare la più popolare cantante del Paese, già ministro della cultura nel gabinetto provvisorio del settembre scorso.

Migranti e indigeni si confondono, e chissà a chi finiranno i 1000 pasti caldi quotidiani supplementari che il Comune di Salonicco ha varati l’altroieri per tutelare le fasce bisognose. Proprio ieri mattina, quasi alla chetichella, sono arrivati al porto i primi 260 profughi provenienti dalle isole. Scesi da pullman gran turismo partiti da Kavala e requisiti all’uopo (sulle fiancate, scritte incongrue o beffarde come “Crazy Holidays”), sono stati accomodati in due dei molti ampi magazzini inutilizzati dell’area portuale, quelli più lontani dal centro. La progressione che si squaderna sotto gli occhi del camminatore che arrivi fin laggiù è quasi simbolica: nelle strutture limitrofe a piazza Aristotele, il porto appare come un modello di riuso dell’archeologia industriale, con spazi espositivi caldi e accoglienti, dal Museo della Fotografia a quello del Cinema, e almeno 5 vaste sale di proiezione che in questi giorni ospitano il Festival Internazionale del Documentario; poco più in là, entro un vasto edificio un po’ délabré che avrà oltre un secolo, c’è il molo passeggeri che in questo marzo ventoso, fuori stagione, rimane ancora poco frequentato; quindi, una serie di hangar dai vetri rotti e dagli intonaci scrostati, sfasciumi abbandonati di un glorioso passato marinaro, tra i quali compare una croce rossa sul magazzino 9, che deborda di 150 scatoloni di generi di prima necessità raccolti negli ultimissimi giorni; infine, in fondo a tutto, poco oltre il monumento ai marinai e la chiesa, una recinzione dietro la quale all’improvviso tutto si anima: ambulanze, tende, uomini del genio e pulitori. La capacità del magazzino 18 è di oltre 700 persone, e sicuramente verrà riempito (precedenza a donne, vecchi e bambini), così come poi il magazzino 21: e naturalmente, anche a non voler considerare il loro odore insalubre, il freddo che vi regna e le difficoltà di approvvigionamento (per ora 450 pasti li offrirà la mensa studentesca, più in là si vedrà), questi enormi capannoni non basteranno per l’obiettivo ambizioso che si propongono le autorità, ovvero svuotare in poche settimane i campi di Lesbo, di Chio, e – se tutto andrà bene – della stessa Idomeni, sfruttando non più le strutture di Atene (dove i profughi erano stati massicciamente ammassati a dicembre), ma quelle, ancora tutte da inventare, della Macedonia centromeridionale: caserme, officine dismesse, hangar appunto.

In questo disegno ancora tutto da inventare Salonicco ha un ruolo centrale: nella caserma di Diavatà sono ospitati da settimane oltre 2000 migranti, e molti altri, appunto, arriveranno. La città, previdente, ha affinato gli strumenti culturali per affrontare il problema: basta vedere tutti i manifesti sui muri della via Egnazia (tradizionale patrimonio dei contestatori), che solo qualche mese fa davano battaglia sull’economia, e ora sono tutti dedicati alla questione dei profughi; o basta fare un salto al Museo delle Tradizioni Popolari, dove da anni si è insediata una piccola e orgogliosa mostra sulla philoxenìa di una città abituata da sempre alle ondate migratorie – lo ricorda anche il sindaco Butaris, parlando in tv della comunità sefardita, la più cospicua d’Europa sin dal xvi secolo, e la più decimata dalla Shoah.

Ma al porto permangono le contraddizioni: se due chilometri più in qua i magazzini dove si svolge il Festival sono pieni di spettatori al punto che certe proiezioni registrano il “sold-out”, due chilometri più in là, lontano dagli occhi delle folle, sono in via di esaurimento i posti-letto per gente che non ha più nulla, e che si candida a diventare protagonista degli stessi documentari che verranno proiettati l’anno prossimo. Come quello di Marianna Ikonomu, La strada più lunga, un capolavoro di efficacia e di schiettezza nel descrivere, dall’interno del carcere minorile di Volos, la storia personale e giudiziaria di due diciottenni, l’uno curdo siriano di Kobane l’altro iracheno di Mosul, implausibilmente accusati di fare i passeurs alle frontiere, e detenuti per mesi per essere poi liberati con l’obbligo di residenza in un Paese, la Grecia, che doveva essere un mero transito, e di cui ignoravano financo l’esistenza. “This plane nach Yunan?” mi chiedeva, sull’aereo che da Istanbul mi portava giorni fa a Salonicco, il mio vicino di posto ventenne, inventando un mirabile pidgin inglese-tedesco-arabo uscito in parte dalle lezioni che da 8 mesi a questa parte gli somministra in Germania l’apposito servizio di Frau Merkel – perché lui, fortunato, era venuto via da Aleppo nella tarda estate del 2015, all’epoca delle frontiere aperte, e ora probabilmente torna quaggiù, forte ormai del suo documento di Germania, per aiutare la madre e la sorella rimaste imbottigliate. Forse – ma non te lo dirà mai – esse sono adesso proprio nel fango di Idomeni.

Dimitris aveva capito un anno fa, inascoltato, che a Idomeni si sarebbe scritta la storia, e quando ora dice con l’aria compresa che questo momento storico assomiglia agli anni attorno alla nascita di Cristo (movimenti di popolazioni, contaminazioni e concorrenze religiose, società globalizzata che non trova un bandolo), forse non va trattato con la sufficienza dei professori. Visto da qui, il termine “biblico” è tutto fuorché un’esagerazione. E quindi le attenzioni e soprattutto gli entusiasmi per l’esito del minuscolo vertice europeo (in cui l’Italia, accodandosi agli altri “grandi Stati”, ha apertamente rinunciato a portare avanti una linea comune con la Grecia) oscillano fra il ridicolo e il tragico, dando la misura del colpevole delirio che ha corroso il continente: si esulta per il (secondo molti peraltro impraticabile) rinvio di 70000 Siriani in Turchia, senza specificare né cosa sarà dei 45000 disperati che sono ora imbottigliati qui a Idomeni, né a quali condizioni di vita i “rispediti” vadano incontro nel Paese di Erdogan, dove li aspettano nella migliore delle ipotesi campi freddi e ostili tra le piantagioni di cotone, o nella peggiore (penso in particolare ai moltissimi Curdi) centri di smistamento che – stando a quanto ne mostra la ZDF – hanno poco da invidiare a quelli della Libia. Soprattutto, come ricordano Amnesty International, l’Unicef e Save the Children, si fa carta straccia del diritto d’asilo e si sancisce di fatto la fine dei principî su cui l’Europa si è fondata, e per i quali basterebbe leggere il lenzuolo sui binari di Idomeni: “Humans are more than passports”. Le ceneri dell’Europa, in questa impura aria di marzo attoscata dalle fumarole alla diossina.

Mentre torniamo verso la macchina, Babis sta ancora cucinando, un calzino è caduto dal ramo di un albero, e la donna con le mani butterate è quasi arrivata dal medico, dove dovrà aspettare in fila un bel po'; nel frattempo, si è chinata a raccogliere un foglio in inglese e in arabo con cui la polizia informa i rifugiati che la frontiera è chiusa, e li dissuade dal farsi abbindolare da chi promette facili passaggi oltreconfine; chissà se la signora, stanchissima, capirà. Ai lati della strada, un anziano sbuccia un’arancia, chino su un tappeto nella sua tenda aperta; un adulto sposta un cassonetto colmo, un altro sorseggia il tè che un Egiziano distribuisce gratis nel capanno laggiù; un altro ancora va, armato di pennarello, a perfezionare la scritta sgrammaticata sul capannone di MSF che ospita gente da ogni dove (“Iran+Pakistan+Somalia+Lobnane+Ghana+Bangladesh+Daghestan – The are starving Let them cross the border”); le donne si affrettano, come avessero una casa da accudire; dei ragazzi, dietro a un banchetto, fanno mercato di generi di prima necessità che avranno raccattato chissà dove. Visti nella loro nuda vita, senza pensare alle carte che hanno in tasca, gli uomini sono per un momento tutti uguali e nulla si nasconde, né le cataste di uova né i pantaloni macchiati né i segni del martirio sulla pelle.

Così, può capitare che per un attimo s’incrocino e si guardino un uomo e una donna che mai altrimenti ne avrebbero avuto l’occasione, benché in fondo siano colleghi. Lui è un pingue signore con la barba, che pare venire dall’Estremo Oriente e incede con passo deciso in mezzo a due giovani dall’aspetto occidentale; lei è una bambina di nove anni che vaga con la birichina ritrosia di chi ha qualcosa da farti vedere. Lui è Ai Weiwei, il più famoso artista vivente, ed è qui per attirare l’attenzione su Idomeni tramite apposite performances seguite dai media di mezzo mondo. Lei (ce lo spiega a gesti il padre Mehmet Hussein, profugo di Aleppo), si chiama Sahinas, e il suo piccolo tesoro è un album in cui ha disegnato a pennarello la sua vita: mentre lo sfoglia con la manina, scorrono il minareto di Aleppo, le gigantografie di Assad, i caccia che sganciano le bombe, il gommone sotto la nave con le scalette, il muro con la bandiera greca sopra, perfino il barbiere barbuto del campo di qui, che assomiglia un po’ al Cinese che ha appena incrociato. Sono disegni bellissimi, a prescindere dal loro significato storico. Dinanzi al nostro interesse, il padre è pronto a regalarci l’album senza chiedere un euro; Dimitris, ovviamente, rifiuta e dice che tornerà domenica e lo ricontatterà. Si scambiano numeri di telefono (ma a Babele la linea prenderà?), e Mehmet aggiunge pensoso – ci sembra di capire – che non sa se domenica saranno ancora lì. Ai Weiwei, intanto, è già lontano, sparito in mezzo alle padelle paraboliche.

Quando torniamo a Salonicco, Dimitris scappa al magazzino: ha ricevuto in poche ore una dozzina di telefonate di volontari, e c’è moltissimo da fare. Nella piazza principale, intanto, Unilever sta sbaraccando; domani Aristotele, forse, tornerà a vedere l’Olimpo.

Comune-info, 28 giugno 2016 (p.d.)

In aprile c’è stato il botto mediatico: il sindaco di Riace Domenico Lucano segnalato dalla rivista Fortune come uno fra i cinquanta leader più influenti del mondo, l’unico italiano presente. Non è stato dunque un caso che in occasione della giornata mondiale dei rifugiati sia stato invitato il 22 giugno al Parlamento Europeo a Bruxelles per raccontare la sua esperienza. Un riconoscimento che giunge dopo anni di lavoro estenuante e capillare sul territorio, cercando di invertire la tendenza dello spopolamento del suo paese (emigrati al Nord e all’estero), trasformando quello che altri vedono come un problema – la presenza dei migranti -, come una opportunità. La storia di Riace è risaputa e sotto gli occhi di tutti, per i tanti servizi di inchiesta che i media hanno voluto riservargli.

È in questo paese di milleottocento abitanti, nel cuore della Locride, che sei anni fa è partita un’altra scommessa: il Riaceinfestival collegato con la Rete dei caffè Sospeso. Fondato dalla Rete dei Comuni Solidali, in collaborazione con l’amministrazione Comunale e l’associazione Città Futura.

Un festival delle migrazioni e delle culture locali, una manifestazione nata sull’onda della politica di accoglienza e reinsediamento dei rifugiati e richiedenti asilo politico un esempio positivo che è riuscito nel tempo a coinvolgere altri Comuni della zona.

Il concorso cinematografico vuole dare spazio a produzioni indipendenti legate ai temi delle migrazioni, della multiculturalità, della società plurale, del rapporto tra paesi ricchi e paesi poveri. Mediterraneo luogo privilegiato di intreccio e confronto tra culture, lingue, religioni, ordinamenti sociali e ordinamenti giuridici.

Una iniziativa concreta che, attraverso l’universale linguaggio del cinema e delle arti, promuova lo scambio e la conoscenza reciproca affinché si contrastino forme di chiusura e razzismo, richiamando l’attenzione sul percorso innovativo che le amministrazione comunale di Riace a saputo avviare, coniugando l’accoglienza dei migranti con il rilancio del proprio territorio e dando l’immagine di una Calabria inedita, diversa da quella delle cronache nere.

Due le sezioni (www.riaceinfestival.it):

1. Progetto “Granaio della memoria: memorie e storie di accoglienza”
Stiamo vivendo un momento importante di trasformazione culturale grazie alla presenza di numerose persone richiedenti asilo sui nostri territori. Nonostante la pesante campagna (richiedenti asilo presentati come invasori e beneficiari di privilegi in contrapposizione con gli italiani in difficoltà), il nostro Paese continua a vivere un vero miracolo ed essere promotore di un civile rapporto di convivenza. La tenuta sociale dei territori coinvolti dai progetti di accoglienza è stata possibile grazie agli sforzi e alla messa in atto di buone pratiche sociali di tanti cittadini, operatori, volontari e amministratori di Comuni di tutte le dimensioni che stanno traghettando verso il futuro un Paese sempre più multietnico.

Il progetto si propone di fare memoria raccogliendo documentazione di tutta questa grande spinta culturale e solidaristica e diffondere buone pratiche, fare emergere gli elementi di criticità attraverso la creazione di un archivio multimediale dedicato al tema dell’accoglienza in Italia. L’Archivio avrà il compito e una sua funzione culturale attiva cercando di diffondere i materiali, utilizzando la particolare visibilità di Riace come paese dell’accoglienza ormai noto a livello internazionale. L’archivio potrà anche essere consultato dagli studiosi, stagisti, universitari, giornalisti che ogni giorno visitano il piccolo centro. Le opere potranno inoltre essere messe a disposizione per iniziative e progetti di divulgazione e studio sul tema dell’accoglienza (previo consenso degli autori), dalla Rete dei Comuni Solidali su tutto il territorio nazionale.

Nello specifico l’archivio intende raccogliere i seguenti lavori: produzioni video realizzate da videomaker e/o reporter indipendenti per documentare il sistema dell’accoglienza dei richiedenti asilo in Italia e la loro condizione. Materiali realizzati nell’ambito degli stessi progetti di accoglienza in cui si articola il sistema nazionale, in particolare la rete Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), i vari progetti emergenza seguiti dalle Prefetture. I Centri di accoglienza straordinari

2. Concorso Corti

Storie di incontri, esperienze di piccola quotidianità. Parole, abbracci, liti, sguardi, amori, paesaggio, periferie, felicità, esperienze, viaggi, feste, cibo…Narrazioni e ricostruzioni su ciò che cambia nella società, nella politica e nella cultura a seguito dei fenomeni migratori e non solo. Una particolare attenzione a tutto ciò che permette la costruzione di una società multiculturale, alla condizione di vita di migranti e rifugiati politici nei paesi di transito e di destinazione e a positive esperienze di integrazione /interazione sociale.

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