Corriere del Veneto, 2 novembre 2016
Ha voglia Papa Francesco, l’ultima volta ieri, a ribadire: «Non si può chiudere il cuore ai rifugiati». Il fatto è che ormai sono così tanti, e sempre concentrati negli stessi Comuni (in Veneto 246 su 576 per 14.639 richiedenti asilo), da indurre anche molti parroci, oltre alla maggioranza dei sindaci, a dire: «No». Da qui lo sfogo del prefetto di Vicenza, Eugenio Soldà, che dovendo trovare posto a 2700 disperati, è sbottato: «Sono da solo, mi hanno abbandonato tutti, mi hanno sbattuto la porta in faccia pure i parroci. Mi hanno voltato le spalle». Non è una novità, purtroppo. A ottobre il prefetto di Padova, Patrizia Impresa, aveva ammesso: «La Chiesa ci ha sostenuti, ma quando si è trattato di trovare dei posti...».
E prima il collega di Venezia, Domenico Cuttaia, aveva lanciato un appello proprio alle parrocchie, non tutte propense a seguire l’esortazione del pontefice ad aprire le porte ai migranti. «Mi rivolgo alle parrocchie, per un’accoglienza minima di tre o quattro profughi ciascuna — aveva esortato Cuttaia — stanno arrivando anche molti minori e donne. Non possiamo lasciarli per strada». «Forse i curati non hanno tutti questi spazi a disposizione — nota Enrico Caterino, prefetto di Rovigo costretto a requisire un hotel a Ficarolo per gestire i continui arrivi — ma a me la Curia una mano l’ha data. Ha alloggiato per un mese 26 migranti in un suo edificio in pieno centro, dove tiene i corsi per i seminaristi. Non sono in grado di dire se la Chiesa possa fare di più, ma spetterebbe in prima battuta ai sindaci sostenerci nella gestione dell’emergenza. Il loro esempio potrebbe persuadere i parroci, invece in Polesine solo 9 Comuni su 41 collaborano».
Di diverso tenore la riflessione del patriarca Francesco Moraglia: «A Venezia c’è disponibilità da parte dei sacerdoti, cerchiamo di ottemperare alle regole imposte dal ministero dell’Interno ma non è semplice, soprattutto vista la crescita esponenziale degli arrivi. Il territorio a un certo punto non riesce più ad accogliere, non credo che non voglia più accogliere. C’è anche chi non vuole, ma questo prescinde dal numero di profughi. Chi si impegna in tal senso deve fare i conti con risorse e forze limitate».
L'immagine che abbiamo scelto come icona è tratta dal sito valigia blu, a cui raccomandiamo di fare una visita
La Repubblica online, 2 novembre 2016 (p.d.)
Una barca piena zeppa di uccelli cavalca le onde puntando verso l'Italia, l'unico orizzonte dove i viaggiatori sperano di sbarcare per spiccare di nuovo il volo. È questo il disegno dipinto sui muri del primo ristorante africano di Venezia che aprirà il 4 novembre in Calle Lunga San Barnaba.
La metafora del volo non è casuale. Lo staff che ha creduto nel progetto è composto in gran parte da migranti africani, arrivati qui nei modi più disparati l'ultimo anno con la speranza di poter chiudere la porta con il passato e ricominciare. I soci fondatori, Hamed Mohamad Karim, Hadi Noori, Mandana Goki Nadimi e Samah Hassan El Feky, anche loro migranti provenienti dall'Afghanistan, dall'Iran e dall'Egitto, lo hanno provato sulla loro pelle anni prima, quando alcuni di loro sono giunti nei camion frigoriferi ancora minori.
Ed è proprio qualche anno fa nel centro minori di Venezia, a Forte Rossariol, che a uno di loro, l'Hazara Hamed Mohamad Karim, è venuta l'intuizione che il cibo può unire e aiutare a superare i pregiudizi. "Ho iniziato a organizzare delle feste nel centro minori, chiedendo a tutti i ragazzi di preparare un piatto tipico del loro Paese - spiega - e ho visto che funzionava sia per i ragazzi che erano nei centri, sia per chi veniva a trovarci". Hamed, regista che non è più potuto tornare in Afghanistan perché minacciato dai talebani, fa un primo esperimento fondando nel 2002 l'Orient Experience nel sestiere di Cannaregio.
Il ristorante propone i piatti che i migranti hanno imparato a cucinare nel viaggio della speranza fino a Venezia e ha un grande successo. Oggi la sfida è ancora più grande perché a lavorare all'Africa Experience saranno richiedenti asilo che rappresentano le migliaia di persone che fuggono disperate dal continente nero. "Io sono etiope - racconta Alganesh Tadese Gebrehiwot, 30 anni, fuggita dall'Etiopia, chef del locale - Ho imparato a cucinare con mia mamma. In Etiopia c'è ancora molta divisione di ruoli, le donne cucinano e stanno in casa. Così io sono cresciuta aiutando lei e ho imparato alcuni dei piatti che preparerò, come un certo tipo di pane, Ejra o il Mesir wot, una zuppa di lenticchie. Non avrei mai pensato di diventare cuoca, ma sono finalmente molto felice. Io vengo dal Sudan, lavoravo come donna delle pulizie, ma non avrei mai potuto realizzare i mie sogni".
Anche Muhammed Sow della Guinea ed Efe Agbontaen della Nigeria sono scappati da terre di guerre e violenza sui barconi che vediamo ogni giorno, quei barconi così pieni di persone che finiscono per diventare un'unica massa. In quella massa ci sono invece esseri umani singoli, individui con le storie che si potranno conoscere qui, parlando davanti a un buon piatto proveniente da un Paese di cui alla fine si sa molto poco.
I piatti sono stati scelti tramite un concorso che ha coinvolto studenti e professori dell'Istituto alberghiero Barbarigo di Venezia, chiamati a giudicare quali erano i piatti all'altezza di un vero menu. I primi classificati in cucina saranno loro, accompagnati in sala da alcuni soci fondatori, come Hadi Noori, tra i primi ragazzini arrivati dall'Afghanistan in quei camion frigo che per alcuni sono stati mortali: "Avevo 15 anni - racconta Noori, oggi 25 anni - e lavoravo in fabbrica a Kabul. Volevo studiare e non potevo. Alla fine non avevo altra scelta, dovevo partire".
A 15 anni parte dall'Afghanistan per raggiunge l'Iran per poi proseguire a piedi verso la Turchia: "Durante questi viaggi sei solo - spiega - ma poi incontri altre persone che magari non rivedi più. Dalla Turchia sono andato in Grecia con un gommone, poi mi sono fermato là e ho cercato di lavorare ma c'era tanto sfruttamento. Un giorno mi sono infilato con altri ragazzi in un camion pieno di arance, la temperatura oscillava tra gli zero e i due gradi, ma siamo riusciti. Lo stesso capita ai mie colleghi che sono qui oggi, quando s'imbarcano e non sanno se arriveranno mai. Ci spinge solo la voglia di ripartire, di volare ancora".
Non c’è nulla lasciato al caso nell’Africa Experience. Il locale è attraversato da legni intarsiati e intrecciati tra loro che formano la grande chioma di un albero africano, i colori sono accesi come quelli della natura e i disegni alle pareti, firmati dall’artista francese Blandine Hélary, raccontano le migrazioni umane.
Che significato ha questo ristorante per voi?«Vogliamo dimostrare che facciamo del nostro meglio per far capire a chi ha pregiudizi che siamo uguali a voi — spiega Hamed Mohamad Karim, 33 anni, portavoce dello staff formato da 4 donne e 4 uomini e ideatore del format con i soci del primo locale, l’Orient Experience — Lo facciamo per i nostri figli, per le future generazioni e per dare la possibilità di toccare con mano l’Africa. I piatti sono quelli che i ragazzi hanno imparato da soli, lontani da tutti, spinti soltanto dal desiderio di vivere».
L’idea è semplice, ma nessuno ci aveva mai pensato. Si può esportare?
«Magari, è quello che vogliamo. Prendiamo contatti con i centri di accoglienza e offriamo sia un tirocinio in modo che le persone possano imparare l’italiano e socializzare, sia un posto di lavoro se si dimostra che si è capaci, come i tre cuochi che inizieranno a lavorare venerdì. In questo modo si mette in moto una catena positiva».
Come avete scelto i piatti?
«Quando abbiamo coinvolto anche l’Istituto alberghiero si sono incontrati due mondi ed è stato bello perché quando poi si è vicini e si parla si capisce che siamo uguali. Siamo i primi imprenditori considerati stranieri ma che si sentono ormai italiani».
La vostra attività significa molto anche a Venezia, dove su 44 Comuni quasi la metà rifiuta di accogliere i migranti.
«In piccolo l’Africa Experience vuole mettere in luce quello che non si legge quasi mai, ovvero che il dialogo è possibile. Siamo quell’Italia che vorremmo che tutti conoscessero, quell’Italia di chi vuole stare qui nel segno della pace e dell’amicizia, quell’Italia che ci ha dato tanto e che vogliamo arricchire, portando economia e integrazione». ( v. m.)
«». il manifesto, 28 ottobre 2016 (c.m.c.)
Tonino Perna, ragionando su Calais, nei giorni scorsi si domandava da queste colonne «chi invade chi?». Una domanda che merita una risposta articolata, non semplicistica, che in parte lui stesso ha provato a dare. E sulla quale ritengo utile tornare dato che oramai l’assenza di buon senso nel dibattito pubblico sull’accoglienza pare essere l’unico dato di fatto incontrovertibile. Unito, sembra, a una generale ignoranza sulla materia tanto che secondo una recente ricerca del Centro Studi di Confindustria la presenza di cittadini migranti nel nostro Paese appare «sovrapercepita»: da una presenza reale nel 2015 dell’8,2%, la percezione dell’opinione pubblica si attesta al 26%.
C’è dunque una dominanza del mondo dell’opinione su quello della matematica, se la vogliamo mettere così, e ciò non aiuta a trovare soluzioni adeguate a problematiche oggettivamente complesse ma che, al tempo stesso, toccano la vecchia Europa e il nostro Paese solo minimamente. È la stessa Unhcr a dirci che nel 2015 sono stati oltre 65 milioni le persone costrette a fuggire dalle proprie case nel mondo, di cui poco più di 1 milione in Europa e circa 200mila in Italia. Si può parlare dunque di invasione? Di difficoltà nella gestione di grandi numeri? Se entriamo nello specifico dobbiamo registrare che ad oggi, in tutto il Paese, sono poco più di 145mila le persone accolte nelle strutture di accoglienza. E noi siamo 60 milioni. Una percentuale attorno allo 0,24%.
Di nuovo, poco? Tanto? La statistica direbbe insignificante ma, nonostante ciò, il tema accoglienza è considerato il problema per eccellenza. Si è costruito un immaginario secondo il quale se non accogliessimo quelle 145 mila persone questo Paese starebbe meglio. Ci sarebbero pensioni migliori, città più pulite, più lavoro, più servizi sociali, più asili nido. Ma sappiamo, sempre scorrendo i dati e la storia di questo Paese, che non è così.
Dove stanno i problemi allora? Senza voler scomodare la sociologia una prima risposta c’è, concreta e molto matematica: dal 2007 al 2013 questo Paese ha tagliato il fondo per le politiche sociali di quasi l’80%: si è passati da 2 miliardi di euro a 280 milioni senza che nessuno se ne sia accorto. Almeno così pare. Quel fondo alimentava i trasferimenti agli enti locali, oggi – non casualmente – in ginocchio, senza risorse, strangolati dal patto di stabilità e sui quali ricade per intero il peso dell’accoglienza. Tutto ciò nonostante l’apporto dei cittadini migranti sia diventato imprescindibile, come dimostrano tutti gli indicatori economici pubblici e privati.
Ma allora, di nuovo, perché prendersela con i richiedenti asilo? Perché sono il capro espiatorio preferito dalla politica da 25 anni a questa parte e anche perché, in questi anni, lo Stato non è stato in grado di strutturare un vero e proprio sistema di accoglienza (per non parlare di un vero piano sull’immigrazione) degno di questo nome, ma ha preferito, nella migliore delle tradizioni nostrane, la logica emergenziale per gestire un fenomeno epocale. La responsabilità sta qui e sta nella ‘furbizia’ di quei sindaci (purtroppo tanti) che non si sono assunti la responsabilità di concorrere all’accoglienza, scaricando su quei pochi che lo hanno fatto tutte le problematiche del caso.
Di comuni come Gorino o Capalbio ne abbiamo troppi in giro per il Paese e anche qui la matematica può chiarire meglio di tante parole: se ciascuno degli 8003 comuni italiani avesse dato il suo piccolo contributo oggi quelle 145 mila persone sarebbero accolte in piccoli nuclei da 18 (la famosa accoglienza diffusa), che si tratti di Gorino o di Milano. E con una semplice operazione perequativa potremmo gestire il tutto con più serenità e maggiore capacità d’integrazione.
Sarebbe un paese forse meno accattivante per media e classe politica in generale – che invece preferiscono le invasioni barbariche – ma forse più efficace nell’affrontare con serietà i problemi del nostro tempo e del nostro Paese.
Anche a sinistra dobbiamo avere il coraggio di prendere questa strada, riportando il tutto alla realtà. Senza giustificazionismi di sorta che assomigliano sempre più a una resa culturale all’egoismo e al razzismo.
«Il sindaco del comune emiliano e il collega di Ferrara: disponibili ad accogliere, ma lo Stato non sequestri spazi. La Lega: eroi i rivoltosi». La Repubblica 27 ottobre 2016 (c.m.c.)
Gli uomini sono tornati in mare, i bimbi a scuola, le barricate non ci sono più. Ma i pezzi di comunità da rimettere assieme sono tanti. Si cerca il dialogo adesso a Gorino, il paese che lunedì notte ha respinto un bus con a bordo dodici profughe per impedire che venissero ospitate in ostello. I sindaci di Goro e Ferrara stanno lavorando per fare incontrare i cittadini e le migranti, che lanciano un appello: «Non abbiate paura di noi». Ma intanto questa vicenda potrebbe costare il posto al prefetto Michele Tortora, che ora rischia il trasferimento.
«Non appena le acque si saranno calmate, vorremmo organizzare un incontro tra le ragazze e gli abitanti del paese» spiega il primo cittadino di Ferrara e presidente della Provincia Tiziano Tagliani, che in queste ore è in contatto con il collega di Goro Diego Viviani per trovare una mediazione. «I miei concittadini – scandisce quest’ultimo - sono disponibili ad accogliere i profughi, ma con un coinvolgimento diverso da parte dello Stato, senza nessun sequestro improvviso di altri alloggi e venendo informati ».
Pronte a parlarsi e guardarsi in faccia anche le migranti che erano sul pullmino respinto dai goresi: quattro di loro ora vivono in una casa famiglia di Codigoro, a venti chilometri dalle barricate. «Avere paura degli immigrati capita ovunque, ma la gente di qui non ha nulla da temere. Possiamo incontrarli per spiegare la nostra storia, così capiranno », sorride Aminatu, 36 anni, della Costa d’Avorio. Lei, per esempio, è partita perché non riusciva più a mantenere i suoi quattro figli dopo che il marito se n’è andato. Sanogo, 19 anni, invece è fuggita per non essere data in moglie a un uomo molto più vecchio. Dosso, seduta accanto a lei, mentre racconta la sua storia scoppia a piangere: «I miei genitori sono morti e io rischiavo la vita, ora sono pronta a fare qualsiasi lavoro». Poi c’è Ebrugbe, 20 anni, viene dalla Nigeria, dov’era stata condannata a morte per omosessualità: «Quando ho visto che il pullman tornava indietro da Goro – racconta - ho pregato che Dio ci aiutasse ».
Lunedì notte, a manifestare contro di lei c’era anche Fausto Gianella, 52 anni, una vita da pescatore con una parentesi da assessore e consigliere comunale. «In presenza del sindaco siamo disponibili a incontrare le migranti per spiegare che nessuno ce l’ha con loro. Ma non chiedo scusa: noi ci siamo ribellati perché ci hanno sequestrato l’ostello, l’unico punto di ritrovo che abbiamo in paese. E perché qui non abbiamo niente. Già prima, se ci avessero detto di ospitare tre o quattro ragazze, probabilmente non sarebbe successo nulla. Ragazze, però». Non c’entra il razzismo? «La giovane che gestisce l’ostello requisito è serba, e l’abbiamo accolta anni fa. Ma quale razzismo? È stato un cortocircuito ».
Le polemiche però non si fermano. Il ministro dell’Interno Alfano assicura che i fatti di Goro «non saranno un precedente ». Nessun arretramento da parte dello Stato, è il messaggio, mentre pare sempre più in bilico il posto del prefetto di Ferrara Michele Tortora: «Le cose – osserva Alfano - si possono sempre gestire meglio o peggio, però quello che si è verificato non è lo specchio dell’Italia».
Immediata la replica di Ap, il “sindacato” dei prefetti: «Tortora non diventi un capro espiatorio». Anche la Lega Nord continua a soffiare sul fuoco: il capogruppo in Regione Emilia-Romagna Alan Fabbri definisce «eroi e non fascisti » i manifestanti di Goro e i sindaci in camicia verde dei comuni colpiti dal terremoto avvertono: «Nessuno si azzardi a imporci l’accoglienza dei migranti ».
Uno deipiù famigerati esponenti di questa categoria è Ermias Ghermay. La sede dell’unitàspeciale Tarik al Sika si trova sull’omonima strada nel centro di Tripoli, lacapitale della Libia. È qui che viene coordinata la lotta a Ghermay e aglialtri trafficanti. Finora nessuno straniero aveva mai avuto accesso a questastruttura. Per entrare nel cortile bisogna passare una porta d’acciaio. Asinistra ci sono gli unici degli investigatori e delle forze speciali, a destrale celle. La Tarik al Sika è un’unità di élite che si occupa d’individuare itrafficanti di esseri umani e gli esponenti delle milizie estremiste. Inconfronto al caos che ormai è la norma in Libia, qui regna l’ordine. Allaparete sono affissi i turni di servizio. I dossier delle operazioni sono classificatie organizzati in raccoglitori.
Ferrara lavora per la squadraantimafia della procura di Palermo. Ogni mattina, quando raggiunge il suo ufficioal secondo piano del palazzo di giustizia, passa davanti a una targa checommemora alcuni dei suoi predecessori assassinati. In questo edificiolavoravano anche i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, uccisi nel1992. “In Italia ci sono tante cose che non funzionano”, dice Ferrara, “ma dilotta alla criminalità organizzata qualcosa ne capiamo”. Secondo gli inquirentisiciliani i crimini dei trafficanti di esseri umani richiedono misure drastichecome quelle adottate contro la mafia.
La giustizia italiana consente agliinvestigatori di usare intercettazioni telefoniche e riprese video. I testimonichiave sono trattati con generosità e godono di programmi di protezione. Finorala procura di Palermo ha condotto tre operazioni – Glauco 1, 2 e 3 – persmantellare le cellule della rete di Ghermay. Sono stati emessi 71 mandati dicattura. Nell’ultima grande operazione, a giugno, due terzi dei 38 arrestatierano eritrei. Ci sono già state delle condanne, tra cui quella di Wehabrebi,che ora vive sotto protezione. “Tutto ciò che sappiamo su questa rete lodobbiamo a lui”, spiega Ferrara. Wehabrebi è arrivato in Libia dall’Eritreaquando aveva 13 anni, e a Tripoli viveva nella stessa strada di Ghermay, in unquartiere borghese. Ai tempi di Gheddafi gestiva un bar dove i migranti sifermavano prima di cominciare la traversata del Mediterraneo. Wehabrebi sifaceva dare i soldi e li mandava ai trafficanti. Nel 2007 Wehabrebi è arrivato inItalia e ha deciso di mettere a frutto i suoi contatti con i capi del trafficodi esseri umani. Ha scalato le gerarchie e, secondo il mandato di cattura, èdiventato “uno dei boss e dei fondatori” dell’organizzazione criminale, insiemea Ghermay e a un sudanese di nome John Mahray. Wehabrebi era responsabile delleattività in Italia e si occupava di far proseguire verso nord i migrantisbarcati in Sicilia. Doveva farli partire prima che le autorità italianepotessero prendergli le impronte digitali. Senza impronte è difficilerintracciare i migranti: le autorità tedesche non possono ricostruire chiproviene da dove.
Una volta lafregata Hessen è arrivata con un carico di migranti: “Gli ufficiali non cihanno neanche lasciato salire a bordo. Non ci hanno dato nessuna informazione.Non abbiamo catturato neanche un trafficante”, dice. Tutto ciò nonostante Moscaavesse con sé tre procuratori italiani: anche loro sono stati respinti daitedeschi. “Siamo in Italia, ci portano dei migranti e non ci lasciano neanchesalire a bordo per capire com’è andato il salvataggio”, dice Mosca. Quandoabbiamo contattato il comandante della Hessen, ha risposto di non ricordarenessun caso in cui sia stato negato alle autorità italiane di salire a bordo.Il ministero della difesa tedesco afferma che a metà del 2015 “non c’era ancoranessun mandato per combattere i trafficanti nel Mediterraneo” e che, nel corsodelle operazioni congiunte, l’accesso a bordo è sempre consentito “senecessario”. In Sicilia è diventato impossibile ignorare le conseguenzedell’arrivo di migliaia di sopravvissuti ai naufragi. Basta seguire le tracceche Wehabrebi ha fornito agli inquirenti. Per esempio a Palermo, nel vicolosanta Rosalia. Qui, in un bar come gli altri, i trafficanti hanno tenuto i lorocarichi di esseri umani fino a luglio, quando c’è stata una retata. Oggi igiovani guardano in strada con gli occhi vitrei e le guance gonfie di qat, unadroga molto comune in Africa orientale.
A Roma gli eritrei hanno la loro basenel palazzo Selam, un edificio in vetro che ospitava la Facoltà di lettere e filosofiadell’università Tor Vergata e ora offre riparo a circa duemila migranti. Duedei trafficanti ricercati a giugno erano domiciliati qui, altri presso ilcentro per i rifugiati dei gesuiti.
Dietro la porta verde divia degli Astalli 14 i religiosi non offrono solo pasti caldi: i migranti senzaissa dimora possono usare il loro indirizzo per presentare la richiesta di asiloo di un permesso di soggiorno. Dei 38 mandati di cattura emessi all’internodell’operazione Glauco, tre sono stati recapitati ai gesuiti. Wehabrebi, che quandofaceva il trafficante viveva a Roma in un palazzo borghese con vista sui colliAlbani, ha fornito anche altre informazioni durante il suo interrogatorio didieci ore. Una parte delle sue dichiarazioni è ancora secretata. “Stiamo giàpreparando l’operazione Glauco 4”, dice Ferrara. “Stavolta ci occupiamo dei flussi di denaro. Abbiamo chiesto la collaborazione dei servizi d’intelligence.Anche qui vale il motto del giudice Falcone: ‘Segui la pista dei soldi’”.
il manifesto, 27 ottobre 2016
». il manifesto, 26 ottobre 2016 (c.m.c.)
Se dovessi lasciare la tua casa in una notte cosa porteresti? Se le uniche opzioni fossero il fuoco di un cecchino o un destino da scudo umano cosa sceglieresti? Domande a cui nessuno di noi è costretto a pensare, ma che sono i dubbi martellanti di un milione e mezzo di persone. È il dramma di Mosul, stretta tra la prospettiva della battaglia finale e una fuga fatta di campi minati e campi profughi.
Fuggono in pochi dalla città, sotto l’assillante controllo dello Stato Islamico intenzionato a difendere ad ogni costo la sua roccaforte. Qualcuno ce la fa: secondo l’Onu sarebbero 6mila i civili scappati dalla periferia di Mosul, con peshmerga e truppe governative a 5 km dalla città.
Dove vanno? I timori delle organizzazioni umanitarie oggi sono cruda realtà: non c’è posto per gli sfollati in un paese che in due anni ne ha accumulati quasi 4 milioni su 33, il 12% della popolazione. Ma bisognosi di assistenza, dopo decenni di guerre globali, sono molti di più: secondo l’Onu, oltre 8.5 milioni necessitano di cure mediche, 6.6 di acqua, 2.4 di cibo.
Di campi fuori dalla città di Mosul ne sono stati messi in piedi pochi perché le risorse mancano. «Stiamo mobilitando risorse importanti per fornire aiuti gli sfollati. C’è grande incertezza intorno alla situazione militare. La protezione dei civili è l’elemento più importante di questa operazione», è il commento di Filippo Grandi, alto commissario Onu ai rifugiati.
L’Unhcr ha aperto 5 campi per 45mila persone e ne ha pianificati altri 6 per un totale di 120mila sfollati. Fornirà anche 50mila kit per costruire rifugi d’emergenza per altre 30mila persone, ma il problema restano i fondi: il budget dell’agenzia Onu per Mosul richiederebbe quasi 200 milioni di dollari ma al momento solo il 38% è stato finanziato. Da tempo l’Onu soffre per carenza di fondi, promessi dagli Stati membri ma versati solo in minima parte: è stato donato solo il 58% dei 861 milioni chiesti per l’Iraq.
Ma l’inverno è vicino e la convinzione è che la battaglia sarà lunga. E allora dove si va? A Baghdad è impossibile, la capitale è lontana e off limits per i sunniti. A Erbil lo stesso: dopo l’iniziale politica delle porte aperte, le autorità kurde hanno sigillato i confini e entra solo chi ha uno sponsor. O sei kurdo o sei cristiano.
E allora si scappa verso ovest, la frontiera con la Siria, un’altra trappola. Subito oltre il confine, in territorio siriano, c’è il campo di al-Hol. Zona rossa: qui gli scontri sono quotidiani, tra combattenti peshmerga da un lato e kurdi siriani dall’altro e miliziani islamisti che tentano la via della fuga o l’ultima carta, l’attentato suicida. Da 10 giorni centinaia di iracheni sono bloccati qui, senza poter raggiungere al-Hol, già strabordante di profughi siriani. Solo 912 iracheni sono riusciti a passare ma di posto non ce n’è.
I funzionari dicono agli sfollati di aspettare: devono controllare che tra loro non ci siano infiltrati. Le famiglie attendono sotto il sole ancora cocente di ottobre e usano coperte per ripararsi dal caldo di giorno e dal freddo di notte. Il loro numero aumenterà: è possibile che a breve saranno 100-200mila gli iracheni che tenteranno di raggiungere la Siria, un paese – se possibile – ancora più devastato. Cinque milioni di siriani sono profughi all’estero, altri 7 sfollati all’interno. Metà della popolazione non vive più nella propria casa, nella propria comunità.
Gli occhi di tutti sono oggi concentrati su Aleppo, ma qui la fuga di massa è stata precedente alla battaglia di questi ultimi mesi: ora andarsene è quasi un sogno. Dai quartieri est non si esce, vuoi per timore delle rappresaglie del governo vuoi per i missili delle opposizioni. Se vivi ad Aleppo, poi, l’unica via di fuga concreta è il confine turco, ma è sigillato: le pallottole della gendarmeria di Ankara hanno ucciso decine di rifugiati, ricordando ai siriani che non sono i benvenuti.
Chi è già dentro, 2.2 milioni di persone che guardavano all’Europa, vivono in condizioni miserabili. Condizioni alimentate, di nuovo, dall’Occidente: se da una parte la Ue paga profumantamente il presidente Erdogan perché non faccia passare nessuno, dall’altra le multinazionali fanno affari sul lavoro sottopagato di chi ha poca scelta.
La denuncia è nel rapporto dell’organizzazione britannica Business and Human Rights Resource Center: molti marchi europei d’abbigliamento sfruttano indirettamente i rifugiati siriani ignorando «abusi endemici» in Turchia. Lavoro minorile, nessun diritto, salari irrisori.
Huffington post online, 26 ottobre 2016
La visione del "Giudizio finale" nel Vangelo di Matteo fa parte della cultura universale. Ci ha pensato Michelangelo, con il magnifico affresco della Cappella Sistina, capolavoro assoluto dell'arte, a fissarla indelebilmente nella mente di ciascuno.
Di qua gli eletti, di là i dannati, nel mezzo Cristo giudice. Sono le parole di Gesù il metro con cui misurare il destino dell'umanità: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi". Tutto qui: sei azioni concrete per avere in eredità il Regno.
La parabola è tanto chiara quanto antica. In fondo è il cuore della nonviolenza attiva. Se accogli e ti apri al prossimo, ognuno vivrà meglio. Il luogo dove sperimentare questa verità è la "casa comune", il mondo in cui viviamo, che diventa Terra promessa, Regno di Dio, se i sei precetti (opere di misericordia corporale, dice la dottrina) vengono rispettati; se invece per paura o egoismo le sei buone azioni vengono disattese, la casa comune diventa un supplizio, un inferno ("ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato: via da me, maledetti!").
Qui non c'entra l'essere credenti o atei, religiosi o laici, è l'esperienza concreta che ci dice chiaramente quanto sia vero l'insegnamento contenuto nel Vangelo di Matteo: la salvezza o la condanna non sono un premio o un castigo che arrivano dal cielo o dal divino, ma sono la conseguenza pratica, logica, inevitabile, frutto delle nostre scelte e della nostre azioni.
L'Europa di oggi lo sta sperimentando, sta vivendo questa prova decisiva di masse "straniere" che arrivano da lontano e chiedono di entrare. Si può tentare di chiudere la porta (muri, fili spinati, leggi escludenti, respingimenti, ecc.) ma verrebbe fatalmente sfondata, oppure tenerla aperta (governare il fenomeno con politiche di accoglienza, di cooperazione, creazione di opportunità, libertà di movimento, ecc.).
Il vecchio continente si gioca su questo il proprio futuro: se si chiude sarà condannato al declino. La fuga in atto dall'Africa e dal Medio Oriente ha cause ben precise, anche storiche, che sono di origine economica, un'economia distorta che uccide e provoca guerre. Il movente sono le materie prime e le fonti energetiche: non solo petrolio e gas, ma anche oro, uranio, coltan e altri minerali preziosi necessari all'elettronica. Dopo le conquiste e le colonie dei secoli scorsi, oggi assistiamo ad una nuova depredazione in atto, cui questa volta partecipa anche la Cina.
Territori impoveriti, deviazioni di bacini acquiferi, immissioni di gas serra in atmosfera, hanno causato variazioni climatiche, surriscaldamento, desertificazioni che aggiungono profughi ambientali ai profughi politici, profughi di guerra, profughi economici.
La geo-politica mondiale ha bisogno di essere difesa militarmente con le armi. Il nostro paese, schierato politicamente con l'alleanza atlantica, ma proiettato geograficamente nel Mediterraneo, ha un ruolo importante come accesso all'Europa per milioni di persone.
Siamo pienamente coinvolti, nel bene e nel male. Da una parte facciamo salvataggi, dall'altra esportiamo bombe. E dunque, in definitiva, piantiamo semi di guerra e raccogliamo rifugiati. Dentro alla grande storia delle migrazioni di oggi, ci sono milioni di storie individuali. Storie annegate in fondo al mare (saremo mai perdonati per questo?), o storie di salvezza e di speranza.
Ci vuole un punto di vista particolare per superare la paura, per scoprire storie positive, per mettere in relazione competenze e progetti. L'immigrazione coinvolge i temi dei diritti, dell'ambiente, della pace. Il forestiero che chiede ospitalità è una sfida alla nonviolenza: ci dice che sulla terra nessuno deve essere escluso.
Mao Valpiana è Presidente nazionale del Movimento Nonviolento
Il Fatto Quotidiano e il manifesto, 26 ottobre 2016
Il Fatto Quotidiano
L’ultimo tratto del viaggio della speranza è un rettilineo della statale 309 Romea tra Comacchio e Gorino, sul Delta del Po. Quarantadue chilometri al confine tra l’Emilia e il Veneto che dodici ragazze sui vent’anni, scappate dall’Africa in guerra, non sono mai riuscite a percorrere. Per otto ore le richiedenti asilo arrivate dalla Nigeria, dalla Costa d’Avorio e dalla Sierra Leone, sono rimaste bloccate su un pullman nella caserma dei carabinieri di Comacchio, mentre i cittadini di Gorino, frazione di Goro (Ferrara), il paese di pescatori in riva al Po che avrebbe dovuto accoglierle, salivano sulle barricate contro l’ordinanza del prefetto di Ferrara che requisiva l’ostello “Amore e Natura”.
In tutta la provincia ferrarese non c’era nemmeno una struttura disponibile: “Ci dicono tutti che sono al completo anche se è inverno – spiega il prefetto Michele Tortora –. Abbiamo scelto Goro perché non ha mai dato il suo contributo all’accoglienza”. Quasi 300 persone, metà degli abitanti di Gorino, lunedì sera sono scese in strada a bloccare l’unica via d’accesso al paese. È comparsa una barricata. E alla fine le autorità hanno dovuto fare dietrofront, verso mezzanotte, portando le dodici donne di cui una incinta in località rimaste segrete per ore. Abbiamo incontrato tre di loro nella casa di riposo di Ferrara, grazie all’opera di tessitura del sindaco Tiziano Tagliani.
“Mio marito è finito in carcere per motivi politici, poi è riuscito a evadere – racconta Belinda, 22 anni, scappata dalla Sierra Leone –. Ora il governo mi sta cercando perché credono che parli e lo faccia catturare di nuovo. Il mio viaggio per venire qui è durato cinque mesi. Sono rimasta due mesi in Libia, in un campo in cui gli uomini arabi hanno cercato di violentarmi, finché non sono fuggita anche da lì, verso il mare. Dopo due settimane sulla spiaggia, senza cibo e senza un posto in cui dormire, sono riuscita a imbarcarmi per l’Italia”.
Joy è nigeriana, ha solo 20 anni ed è scappata dal suo Paese quando il padre si è convertito alla religione vudù: “Ho incontrato un ragazzo, sono rimasta incinta, mio padre voleva ucciderci. La notte in cui siamo partiti ci hanno pure rapinati, ma siamo riusciti ad arrivare in Libia, intorno al 20 settembre. I libici ci picchiavano, ci lasciavano senza cibo, eravamo nelle loro mani. Siamo scappati una notte verso il mare, abbiamo seguito della gente che andava verso una barca e lì ho perso mio marito. Non so più niente di lui. Si chiama Lamin Dampha. Quelle persone mi hanno fatto salire sulla barca perché aspetto un bambino, hanno avuto pietà di me”.
Anche Faith ha 20 anni ed è partita su un fuoristrada verso il Mali il giorno in cui i miliziani di BokoHaram hanno rastrellato il suo villaggio nel nord della Nigeria: “Non ho notizie della mia famiglia, non so nemmeno se sono vivi o morti. Un uomo si è preso cura di me in Libia, mi ha aiutato a partire sulle barche, inseguiti dalle pattuglie libiche, e sabato scorso sono arrivata in Italia”. Su quell’autobus fermo nella caserma di Comacchio, le ragazze sopravvissute al viaggio più lungo non riuscivano a capire cosa stesse succedendo: “Vedevamo che parlavano concitati, ma l’autista non voleva che sapessimo – continua Faith –, poi abbiamo saputo che la popolazione non ci voleva e ci siamo rimaste malissimo. Se non ci date un posto voi, dove possiamo andare?”.
Gli abitanti di Gorino, ieri, hanno festeggiato. Dopo le barricate contro le richiedenti asilo per protesta non hanno mandato i figli a scuola e non sono andati a vongole, la principale attività economica del posto. “Quel che è più sconcertante è che si è trattato davvero di una protesta di popolo – spiega al Fatto il questore di Ferrara, Antonio Sbordone –. L’apporto di persone venute da fuori, o di militanti politici, non è stato determinante”. Ma il sindaco di Goro, Diego Viviani, difende i suoi concittadini: “Questa comunità non merita di essere definita razzista – ha detto il primo cittadino, eletto con una lista civica di centrosinistra – Gorino ha avuto una reazione che io non condanno, ma adesso dobbiamo dimostrare che non siamo come ci hanno dipinto”.
Sorride intanto Joy, mentre parla del bambino che porta in grembo da otto mesi. Nella barca che l’ha portata in Europa non respirava, la gente le premeva la pancia. All’ospedale di Ferrara, però, le hanno detto che sta bene. Nessuna di loro aveva mai sentito parlare di Lampedusa, di Bologna o di Ferrara prima dello sbarco. Ma se qualcuno adesso chiede loro dove volevano arrivare alla fine del viaggio, lo sguardo si fa serio, gli occhi fissi a terra: “Italy”.
il Manifesto
GORO , LA CACCIATA DEI PROFUGHI
Alla fine hanno vinto loro. Gli abitanti di Gorino che pur di non accogliere 12 donne rifugiate con i loro bambini hanno alzato barricate e protestato tutta la notte, accendendo i riflettori su questo paesino del Delta del Po. Il prefetto di Ferrara ha deciso il trasferimento del piccolo gruppo di rifugiati nei comuni vicini senza però riuscire a mettere fine alla protesta che è continuata anche ieri. Un episodio che «non fa onore all’Italia» dice il ministro degli Interni Angelino Alfano, mentre la diocesi parla di una «notte che ripugna alla coscienza cristiana».
Strano destino quello dei pescatori di Gorino. Un tempo rischiavano la vita per salvare donne e bambini dalle acque. Ora respingono chi da altre acque, quelle del Mediterraneo, è riuscito a fuggire. Era la notte del 17 novembre del 1951. Il Po aveva rotto gli argini a Occhiobello, tra Ferrara e Rovigo. I pescatori di Goro risalirono la piena con le proprie barche per portare soccorso a chi era in balia dell’alluvione. «Non esitarono, nessuno esitò – raccontava Fidia Gambetti riportando su l’Unità la cronaca di allora -. Per 48 ore almeno e proprio nei momenti della massima piena, migliaia di vite umane dovettero la loro salvezza soltanto all’audacia, allo sprezzo del pericolo, alla perizia instancabile degli uomini che navigavano su codesti gusci di noce». Alcuni persero la vita. Ma «portarono in salvo 320 fra bambini e donne».
Cosa è rimasto di «questo pugno di uomini intrepidi e da sempre dimenticati su un lembo di terra duramente conquistata giorno per giorno»? Difficile stabilire i contorni umani della rumorosa rivolta contro la decisione della prefettura di Ferrara. Difficile anche riportare i commenti che i manifestanti hanno affidato ai taccuini dei cronisti mentre sbarravano l’accesso a quell’ostello dal nome che suona oggi come crudele beffa, «Amore e natura». Eppure se un intero paese scende in strada spontaneamente per negare accoglienza a dodici giovani donne un motivo ci deve essere.
E allora si prova a scavare nella recente storia di questo paesino di 600 abitanti sperduto nel delta del Po. Fino a dieci anni fa i goresi erano forse tra i pescatori più invidiati dell’alto adriatico. La Sacca sembrava un serbatoio inesauribile di vongole. Il prezzo dei molluschi era alle stelle. Poi il mercato si è incrinato. La natura ha fatto la sua parte. Il cuneo salino e l’aumento delle temperature hanno provocato morie di vongole. A questo si aggiunge una selvaggia pesca abusiva notturna. Tutti elementi che hanno messo in ginocchio l’economia locale.
Bastano i motivi finanziari a giustificare quello sbarramento prima umano che materiale? Una domanda destinata qui a restare senza risposta. Certo fa riflettere la denuncia, etica, del prefetto Michele Tortora: «Abbiamo contattato i privati, tutti gli hotel e strutture ricettive della costa e tutti hanno risposto, appena sentito parlare di profughi, che le strutture sono già al completo». Per la cronaca, in ottobre il turismo sui lidi ferraresi è prossimo allo zero.
L’esasperazione verso quello che, inutile nasconderlo, viene visto da buona parte della popolazione come un «pericolo invasione» trova terreno fertile nella destra. La Lega Nord, con l’appoggio di Casa Pound e Forza Nuova, nel capoluogo amministrato dal Pd, ha ottenuto seguito denunciando il degrado e la microcriminalità in zona stazione. A questo si aggiungono inchieste di procura e corte dei conti sui rapporti tra Comune di Ferrara e cooperative che gestiscono l’accoglienza. Tutto utile a far crescere la diffidenza.
Ferrara un tempo era conosciuta come patrimonio Unesco, città d’arte e di cultura, patria d’adozione dell’Ariosto e del Tasso. E negli ultimi anni? Le cronache nazionali la ricordano per il caso Aldrovandi. Per l’assurda fine di Said Belamel, il 29enne morto di freddo dopo una notte in discoteca mentre chiedeva invano aiuto agli automobilisti di passaggio. Per la madre che ritira la figlia dall’asilo dove lavora un’assistente con la sindrome di Down. Per il medico vicepresidente dell’ordine che le dà ragione, perché «i Down devono stare in cucina e non a scuola». Per i commenti sui social di chi brinda al suicidio sotto un treno di un giovane nigeriano. Per l’esponente di FdI che promette di far fuori tanti profughi quanti ne sbarcano. Per un vescovo che augura a Bergoglio di fare la fine di Giovanni Paolo I.
Ah, è vero. Grande spazio è stato riservato anche al «petaloso» nato dal «bell’errore» del piccolo Matteo. Qualcuno una volta chiedeva di restare umani. Sarebbe già molto tornare bambini.
«Please do not destroy the Jungle». Abdul esce dalla tenda azzurra, e spiega: «Se mi cacciano da qui, andrò a nascondermi da qualche altra parte. Non posso restare in Francia, ho mio fratello a Birmingham». Nonostante l’implorazione del giovane afgano, la Giungla di Calais sarà distrutta. Da oggi il governo organizza lo sgombero totale e definitivo della più grande bidonville d’Europa nella quale vivono almeno 7mila migranti. Una sessantina di pullman arriveranno alle 8 di stamattina nel gigantesco parcheggio ai confini della Giungla.
“Se loro vogliono dare una mano sono contento - spiega - figuriamoci se mi metto in polemica. Io so solo di fare il sindaco di una città che per il sociale ha 900mila euro mentre mette a disposizione per i richiedenti asilo 2milioni e 500mila euro”.
Bergamin, che sta studiando come recuperare i 5 euro dalla quota che le cooperative ricevono dalla Stato, si sente discriminato dal Governo perché i sindaci si trovano da soli a gestire queste problematiche: “Io oggi ricevo una famiglia, papà e mamma con tre figlie, che sta ricevendo uno sfratto, esecutivo lunedì” ribadendolo anche durante trasmissione Agorà su Rai 3.
Dall’altra parte il prefetto Enrico Caterino commenta positivamente, al di là dei pensieri politici, la posizione della Diocesi: “Quando c’è stato bisogno è stata la prima ad aiutarci - afferma - a fine agosto primi di settembre ha ospitato temporalmente per 10-15 giorni in via Sichirollo una ventina di profughi che poi sono stati collocati in altre strutture”. Situazione ancora entro i limiti: circa 600 i profughi presenti in Polesine.
Lo sguardo dell’uomo sul Mondo, diceva Walter Benjamin, riflette la forma dei rapporti di produzione. E se i «rapporti di produzione», elabora Foucault, sono governati dalla biopolitica, cioè dalla riduzione della vita al suo valore di scambio, di merce, è facile capire quanto la politica che gestisce gli affari europei non possa vedere i fenomeni migratori nella loro dimensione umana.
Generando così quella solidarietà empatica che darebbe luogo a pratiche di accoglienza radicalmente diverse dalle attuali.
Eccitati ed accecati dall’idea di perdere i privilegi accumulati in secoli di dominio sul resto del mondo «in via di sviluppo», i sempre più cittadini europei si rivolgono alle destre populiste che promettono loro di fermare i migranti «sul bagnasciuga», come nel secolo scorso già affermava il fascismo.
Ma l’eccitazione superficiale, agitata e servita calda dai vari demagoghi continentali, nasconde nella sua profondità una altrettanto grande depressione, generata dall’oscura consapevolezza che ciò che oggi capita ai migranti, domani , ma forse già oggi, potrebbe accadere a chi ancora crede di cavarsela con i muri. Perché se è vero che la Storia non insegna nulla, è altrettanto vero che l’anima non dimentica, che i traumi personali e collettivi vissuti dai singoli e da intere popolazioni, restano nel profondo e riemergono costantemente a ricordare tutto quello checiò che si è vissuto.
Da come si riorganizzeranno le forze antagoniste attorno alle gestione e soprattutto alla soluzione delle emergenze migratorie, si misurerà la possibilità che esista un futuro per tutti e non la pura sopravvivenza di una parte minoritaria sulla maggioranza del vivente.
Si sentono come dei fantasmi nel paese in cui sono nati e cresciuti, in cui hanno studiato, di cui parlano la lingua e spesso conoscono le usanze e le leggi molto più di quanto conoscano la lingua, le leggi e le usanze del paese da cui provengono i loro genitori. Sono i ragazzi e i giovani impropriamente definiti della seconda generazione di migranti. Impropriamente perché la maggior parte di loro non è affatto venuta in Italia da un altro paese, ma è nata e cresciuta qui, analogamente ai coetanei italiani. Oppure sono venuti quando erano ancora bambini e qui hanno frequentato le scuole e hanno condiviso esperienze con i coetanei autoctoni.
È passato un anno da quando alla Camera è stata approvata in prima lettura una nuova legge sulla cittadinanza che introduce quello che è stato definito uno ius soli temperato, ovvero con più vincoli di quello in vigore in Francia o Stati Uniti.
Non basta, infatti, nascere in Italia per avere la cittadinanza. Occorre, per i minori nati in Italia, non solo che venga fatta una formale richiesta da parte dei genitori, ma anche che almeno uno dei genitori abbia un permesso di soggiorno di lungo periodo o, in alternativa, che il minore abbia frequentato almeno un ciclo di studi. Lo stesso requisito, da soddisfare entro i sedici anni di età, è richiesto per i minori arrivati prima dei dodici anni. Per i più vecchi (fino ai venti anni) il requisito si allunga.
Come si vede, si è ben lontani da ogni automatismo, fino a far ritenere a qualcuno che questi vincoli violino sia i diritti dei minori sia il principio di eguaglianza. Eppure, dopo essere stata approvata alla Camera della legge non si è più sentito parlare.
Sommersa da oltre duemila emendamenti, giace al Senato senza che sia annunciata alcuna calendarizzazione, stretta tra la feroce opposizione di Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia, il disinteresse del Movimento Cinquestelle (che alla Camera si è astenuto) e il timore dei partiti governativi di riaprire al proprio interno conflitti irrisolti. A meno che, come qualcuno maliziosamente potrebbe sospettare, i partiti di maggioranza non vogliano utilizzare questo blocco per dimostrare i limiti del bicameralismo perfetto, portando acqua al mulino del sì al referendum costituzionale.
Qualsiasi siano le ragioni, il Parlamento italiano sta dando un’ennesima prova di quanto i diritti civili nel nostro paese godano raramente di attenzione, a fasi alterne e sempre e solo uno per volta, creando sgradevoli gerarchie di priorità oltre che attese lunghissime. È passata, faticosamente, la legge sulle unioni civili, che gli stranieri aspettino pazientemente il proprio turno, se e quando questo arriverà.
I nostri pensosi rappresentanti non sembra siano sfiorati dal sospetto che continuare a tenere ai margini una fetta importante delle giovani generazioni che abitano il nostro paese da tempo avviato al declino demografico non è solo una ennesima dimostrazione che questo è un paese che non investe sui bambini e giovani in generale, non solo su quelli stranieri, un paese occupato dell’oggi e senza attenzione per il futuro. È anche una politica miope proprio nei confronti della integrazione tanto sbandierata come necessità per una immigrazione ben regolata.
Continuare a tenere ai margini, come estranei da non ammettere ad una appartenenza comune, dei bambini, adolescenti, giovani che aspirano a questa appartenenza rischia di farli sentire e comportarsi come tali: senza obblighi perché privi di reciprocità, risentiti, ostili.
È una meraviglia che, nonostante la miopia della politica e un discorso pubblico sui migranti e le loro famiglie non sempre civile e pacato, questi ragazzi e giovani continuino ostinatamente a rivendicare la propria italianità. Sono, di fatto, italiani molto più di molti che sono nati all’estero da cittadini italiani e all’estero sono cresciuti e vivono, spesso non conoscendo la lingua italiana. E pure hanno tutti i diritti dei cittadini italiani, incluso il diritto di voto, anche sulla riforma costituzionale, i cui effetti positivi o negativi non li toccherà per nulla.
Individuare “il problema” da affrontare è una scelta fondamentale che influenza il percorso sia della comprensione che della soluzione. Non solo, ma identificare come problema una determinata questione piuttosto che un'altra, è un’operazione ideologicamente orientata, perché riflette uno specifico modo di vedere le cose e il mondo.
C’è una profonda differenza ideologica, politica, morale e tecnica tra:
a) fare fronte ai “migranti senza visto” che secondo i governi e la maggior parte dell”opinione pubblica disturbano le nostre vite;
b) assistere i “migranti da sfratto”, ovunque essi siano, anche intervenendo sui meccanismi che portano agli sfratti, espropriazioni e migrazioni forzate.
Il manifesto, 11 ottobre 2016 (p.d.)
Lucano è stato invitato, «su desiderio di Papa Francesco», a partecipare al summit europeo, il 9 e il 10 dicembre, presso la Casina Pio IV in Vaticano. Con lui anche l’alcadesa di Madrid, l’ex magistrato Manuela Carmena. Si tratta di un summit sulle buone pratiche messe in atto nel mondo a favore di rifugiati e sans papier. Un tema notoriamente caro al papa argentino. «Innalzare altri muri e recinzioni – è scritto nella nota che anticipa il convegno – non fermerà i milioni di migranti in fuga. Urge che i sindaci, in quanto autorità più vicine alla cittadinanza, mettano a disposizione le loro competenze per accogliere e regolarizzare tutti i migranti e i rifugiati. È necessario che la voce dei sindaci venga ascoltata per promuovere la costruzione di ponti e non di muri».
Ma la bella notizia mitiga solo in parte l’indignazione di Lucano per quel che è accaduto dalle parti del Viminale qualche giorno fa. Il servizio centrale per l’immigrazione ha, infatti, comunicato che d’ora in poi sono vietate le banconote inventate nel 2011 da Lucano per superare le pastoie burocratiche in cui spesso il sistema Sprar si impantana. Un meccanismo rivoluzionario: Lucano ha istituito una moneta locale, una sorta di bonus sociale convertibile, mediante il quale i commercianti riacesi fanno credito ai migranti. Sono banconote con l’effigie di Martin Luther King, Che Guevara, Peppino Impastato, Pio La Torre, Charlie Chaplin e altre icone di libertà e giustizia.
Hanno un valore di 1,2,5,10, 20 e 50 euro. I debiti contratti vengono saldati in pochi mesi, e, nel mentre, si tiene in piedi un esperimento tanto pratico quanto efficace. Ciò, al fine di sopperire al ritardo dei fondi pubblici e per assicurare ai profughi un reale potere d’acquisto. Ma tutto questo evidentemente dà fastidio a qualcuno. Non è la prima volta che si cerca di ostacolare il “modello Riace”. Ci hanno già provato. Ecco dunque l’ordine di ritirare i bonus-moneta dalla circolazione.
Lucano è infuriato ed è pronto scendere in piazza con tutti i migranti accolti se il divieto non verrà ritirato. In settimana incontrerà il capo del dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Viminale, Mario Morcone.
Repubblica, 11 ottobre 2016 (c.m.c.)
Ashis Nandy vede venditori di nazionalismo far danni in tutto il mondo, compresa la sua India. Ma qui questa ideologia mescolata prima al secolarismo del modello Nehru, ora all’induismo di Narendra Modi non ha funzionato bene, tanto meno ora. Il celebre intellettuale, psicologo e sociologo, – 78 anni – ha fatto sua la battuta di Rabinandrath Tagore, uno dei padri della moderna India: l’impresa di costruire un nazionalismo indiano è tanto assurda quanto per la Svizzera sarebbequella di darsi una marina militare. Ma Nandy è prima di tutto studioso della mentalità coloniale. Ha lavorato per la «decolonizzazione» della mente indiana e la liberazione dal suo «nemico intimo»: gli inglesi. Si è occupato dei poteri coloniali europei, tra i quali ha individuato i «perdenti nel Primo Mondo», con il loro «machismo», o come meglio dice lui, il loro «androcratico dominio».
E dunque la prima cosa che le chiedo è: se la mente indiana è da decolonizzare che cosa si ha da fare con la mente europea?
«Sono d’accordo con la formula che piace a Taylor e Chakrabarty: smetterla di immaginarsi come il centro. Ma aggiungo che il «West», Europa e Nord America, in virtù dell’esperienza coloniale con il «Rest », sono portatori di un trionfalismo e della visione del proprio stile di vita come superiore a quello di altre parti del mondo. E banalmente osservo che il mondo non ha il genere di risorse che serve per produrre una mezza dozzina di Stati Uniti d’America. In Europa va un po’ meglio, ma non riesco a credere a quanto gli europei siano ostili verso gli immigrati, a quanto esageratamente pensino che il loro arrivo possa rendere la loro esistenza miserabile. Hanno invece qualcosa di importante da imparare».
Che cosa?
«Quello che è vero per l’Europa come è vero per l’India e per tutti: una certa apertura ad altri stili di vita e di pensiero è necessaria ed implica che, in alcuni casi, i livelli dei consumi debbano abbassarsi, invece di salire. C’è qualcosa di sbagliato nella difficoltà europea e americana di affrontare questa possibilità. La nostra idea di progresso è viziata dal dogma della crescita perpetua. Nel 1972 il Club di Roma ha prodotto un manifesto intitolato ai “limiti dello sviluppo”. E ora? Non riusciremo a rendere popolare la “crescita zero”, ma almeno prepariamo la gente a uno stato di cose in cui si dica: “Va bene, è abbastanza, non vogliamo crescere di più”».
Lei, bengalese, ha vissuto la separazione tra musulmani e induisti, la nascita del Pakistan e poi del Bangladesh. Avvennero quelle che restano forse le più grandi migrazioni umane della storia.
«Appartengo al Bengala. E lì ho assistito alla stessa ostilità nei confronti degli immigrati, un numero altissimo di rifugiati, quasi dieci milioni in un colpo solo. E poi ancora molti altri. Fu una catastrofe. E lo stesso è accaduto nel Punjab, il Pakistan a occidente. Anche quando il governo ha cercato di trattare bene i profughi, mostrandosi aperto nei loro confronti, le stesse comunità di appartenenza, gli stessi parenti! sono stati ben più ostili e implacabili».
Ma che cosa è il nazionalismo in India? Ci sono sondaggi secondo i quali l’India è il paese più nazionalista al mondo.
«A dispetto di questi dati le dico che il nazionalismo non è un’opzione qui di successo, perché è troppo specifico per soddisfare i bisogni di tutti gli indiani. L’India è caratterizzata da una serie di anelli comunitari concentrici, e ciascun individuo non appartiene solo a una, ma a una serie di comunità, dal paese alla regione, fino al gruppo linguistico, alla setta, alla religione e, infine, alla casta. Il quadro è davvero molto complesso. Ogni comune individuo indiano, vive un “io” sfaccettato, ma ci si trova abbastanza a suo agio, perché è abituato a questa varietà».
«Sono antisecolarista», lei ha detto una volta.
«Il progetto secolare era tarato nella sostanza. Partiva dal presupposto che, così come in Europa, la religione si indebolisse. La gente si dichiarava non credente, agnostica o atea e molto spesso l’ideologia ha fatto da surrogato della religione. Ci si aspettava che quelle ideologie servissero a fornire una struttura etica alle nostre esistenze pubbliche, ma così la sfera pubblica è apparsa dominata dalla legge della giungla, priva di valori, in preda alla anomia».
Ha ragione allora il filosofo cattolico tedesco, Wolfgang Boeckenfoerde che dice: «Gli stati liberali e secolari vivono di premesse che non sono capaci di riprodurre»?
«Il problema nasce prima dello stato liberale, con la Rivoluzione francese e il giacobinismo: senza terrore nulla si ottiene. Tale convinzione si è radicata nel profondo nella cultura delle élites del potere e da lì sono penetrare in profondità nel complesso della società intera. La società tedesca dopo la Prima Guerra mondiale era alla deriva dal punto di vista morale, e l’ascesa del nazismo si collega a questa crisi della vita pubblica. L’Illuminismo europeo ha prodotto di tutto: grandi pensatori, grandi innovatori, grandi riformatori sociali, grandi scienziati, ma non ha prodotto un pensatore che abbia dato priorità alla non violenza, un aspetto cruciale nella vita pubblica del nostro tempo».
Lei propone una alternativa al secolarismo, cerca nuovi concetti.
E che nome darebbe a questa alternativa?
«Pluralismo culturale è un termine abbastanza consono, perché ogni sistema religioso, in questa parte del mondo, può dare il suo contributo, anche il cristianesimo, quello di San Francesco d’Assisi. In quest’area del mondo Chiesa e Stato non sono così distinti, perché non esiste una Chiesa. Ciò rende il contesto caotico ed eterogeneo, ma facilita anche l’instaurarsi di un dialogo».
Quella in corso è la recrudescenza del nazionalismo induista e sta vanificando il progetto laico.
«Il progetto nazionalista induista è un prodotto diretto del progetto secolarista, perché la persona che l’ha istituito era un ateo dichiarato. Sia il leader degli induisti, che ha prodotto la Bibbia del nazionalismo (Vinayak Damodar Savarkar) sia il leader del nazionalismo musulmano, che ha forgiato nel subcontinente uno Stato musulmano, il Pakistan (Mohammad Ali Jinnah), erano entrambi personalità non religiose e nutrivano un profondo disprezzo nei confronti dei comuni induisti e dei comuni musulmani».
Un’ideologia contro la natura del popolo cui è stata imposta.
«Il disprezzo nei confronti degli induisti e dei musulmani è iscritto chiaramente nelle vite e nelle opere di quei due campioni. Si è trattato dello sfruttamento di una identità religiosa per consolidare una convivenza democratica. È un po’ come quello che è accaduto in Palestina. Lì le relazioni tra ebrei e musulmani e virtualmente ovunque, in Magreb, nell’impero ottomano, nella Spagna dei mori, erano migliori che nel resto d’Europa. Oggi invece si azzuffano come cani e gatti e questa contrapposizione va avanti in Palestina da sessantacinque anni. Così in Asia meridionale si azzuffano musulmani e induisti da sessantacinque anni. Non ha funzionato e ancora non vedo una facile via d’uscita».
L'autore è fra i protagonisti di “ Identità e democrazia in un’epoca di paura” , il convegno internazionale di Reset-Dialogues on Civilizations che si terrà dal 12 al 14 ottobre alla Fondazione Cini di Venezia in collaborazione con l’Università di Ca’Foscari e la Fondazione FIND
il manifesto, 9 ottobre 2016 (c.m.c.)
Ogni giorno quarantaduemila persone si mettono in cammino nel mondo per fuggire dalla morte e dalla disperazione. Oggi, in tanti e diversi, ci aggiungeremo a loro, camminando da Perugia ad Assisi. Il loro dolore, la loro angoscia, sono, in qualche modo, anche i nostri perché li sentiamo vicini, sentiamo le loro grida di aiuto, vogliamo fare qualcosa, reagire, rispondere, proteggere. Per molti, noi siamo semplicemente matti, anime belle ma inconcludenti perché pensiamo di affrontare questi problemi con una marcia della pace e della fraternità. Ma è solo un altro modo per tirarsi fuori e restare comodamente seduti nel proprio giardino di privilegi e illusioni.
Il problema è che si sentono in pace mentre siamo in guerra. Una guerra vera, anche se molto diversa da quelle del passato. Una guerra mascherata da pace. Una guerra combattuta in gran parte da altri, lontano da noi, che ci consente di pensare ai fatti nostri, al nostro tornaconto, a ciò che ci interessa e ci conviene. Per questo il momento è difficile: perché dobbiamo cambiare radicalmente mentre sembra che possiamo continuare la vita di sempre.
Ogni tanto una foto, un’immagine, un attentato, una tragedia, un fatto ci colpisce e abbiamo un soprassalto di consapevolezza, di coinvolgimento. Ma dura poco. Ciascuno è interessato ai fatti che lo coinvolgono direttamente, sul momento. I fatti che hanno un impatto sul medio o lungo periodo o che non ci coinvolgono immediatamente, vengono costantemente rimossi o derubricati. Per egoismo, per indifferenza o per ignoranza. Ma anche per un problema di prospettiva. Questo è tempo di chiusure. Non solo di frontiere.
Non alziamo più la testa dal francobollo di terra che calpestiamo. Chiudiamo gli occhi sul mondo mentre il mondo diventa sempre più interconnesso e interdipendente. Chiudiamo gli occhi sul futuro perché continua a sorprenderci e ci inquieta. Non c’è niente che possa competere con le cose che ci occupano o preoccupano, qui e ora. Del resto, siamo ostaggio di un sistema mediatico che accende e spegne le nostre attenzioni con la stessa velocità con cui cambiamo il canale in televisione.
Nel frattempo, i fatti si muovono, si susseguono, si moltiplicano, si complicano modificando rapidamente la realtà, sconvolgendo le nostre convinzioni, costringendoci a fare i conti con problemi sempre più difficili e complessi.
Di fronte a questa realtà pressante, partecipare ad una marcia della pace e della fraternità vuol dire vincere l’indifferenza, la rassegnazione, la sfiducia, recuperare la capacità di pensare, di agire e non solo re-agire, di farlo assieme e non da isolati.
Con la Marcia Perugi-Assisi, noi proviamo a fare un certo numero di cose allo stesso tempo.
Riconnetterci con il dolore del mondo perché il dolore ci rende tutti più umani. La sofferenza delle persone sta crescendo in tante parti del mondo come nelle nostre città, nelle nostre famiglie. Grazie alle tecnologie della comunicazione aumenta la conoscenza e la percezione di questo dolore diffuso. C’è il dolore terribile, angosciante di tutte le persone che stanno agonizzando per la fame, la sete e la mancanza di cure (di questi giorni la Nigeria, lo Yemen,..), di quelle che sono martoriati dalle bombe e dal terrore ad Aleppo o in qualche altro mattatoio dimenticato, di quelle che cercano di scappare, di quelle che perdono il lavoro, che non riescono a trovarlo, delle donne abusate, violentate,… E c’è il dolore dell’anima.
Il dolore che ci portiamo dentro, il dolore profondo della vita che viene da un malessere diffuso e accompagna il senso di inquietudine e smarrimento. E poi c’è, sempre più evidente, il dolore della natura che a forza di alte temperature, di bombe d’acqua, di scioglimento dei ghiacciai, di innalzamento del livello dei mari e di desertificazione manifesta le conseguenze dei disastri che abbiamo causato. «Restiamo umani» ci implorava Vittorio Arrigoni dalla Striscia di Gaza. È arrivato il tempo di andare a ripescare la nostra umanità nel mare in cui l’abbiamo lasciata sprofondare.
Ri-unire gli operatori di pace, invitarli a uscire allo scoperto, radunare le forze sparse, ri-unire le energie positive, le persone che hanno deciso di non rassegnarsi, di assumere le proprie responsabilità, di cercare di capire cosa non va nel nostro modo di vivere e di «fare società», di cambiare qualcosa nella propria vita e di unirsi ad altri per capire come costruire nuovi rapporti economici, sociali, internazionali e con la natura. «Da isolati – diceva Aldo Capitini – non si risolvono i problemi».
Accendere i riflettori sulle tante cose positive che succedono, le cose semplici che moltissime persone fanno senza aspettare qualcun altro, i tanti modi in cui si fa «pace», i tanti piccoli passi quotidiani verso una società di pace. E così, rendere le nostre azioni individuali e collettive più forti e contagiose.
Investire sui giovani e sulla scuola. Alla Perugi-Assisi partecipano più di cento scuole di tutt’Italia con migliaia di giovani studenti. Per ciascuno di loro la marcia è l’occasione per dare avvio o proseguire un percorso di educazione alla cittadinanza glocale avviato da dirigenti scolastici e insegnanti che cercano di trasformare la scuola in un luogo dove si studia e s’impara la pace. Preparare i giovani a vivere da cittadini consapevoli e responsabili in un mondo globalizzato, interconnesso e interdipendente, in continuo, rapido cambiamento, è uno dei compiti più urgenti della scuola e della nostra società. Partecipare alla Marcia, organizzarne un pezzetto, vuol dire fare uno dei tanti «esercizi» di pace necessari per imparare a farla tutti i giorni.
Fare pace a km 0. Affrontare il tempo difficile che è arrivato imparando a fare pace nelle cose che facciamo, nei luoghi in cui operiamo, nelle nostre città-mondo. Le nostre città non sono isole ma spazi attraversati, spesso investiti, dalle correnti di tutto il mondo. Dobbiamo pensare alle nostre città-mondo come un laboratorio del mondo nuovo che vogliamo costruire.
Nelle nostre città, nei territori possiamo fare molte cose: svelare le basi militari evidenti e nascoste e gli interessi collegati, fare pace con la nostra gente sempre più sola, ansiosa, rancorosa, ritrovare il noi che può aiutare l’io, ricomporre le comunità, un pensiero comune, imparare a prenderci cura gli uni degli altri e dell’ambiente, investire sui giovani e sulla loro formazione, lottare contro ogni forma di violenza e di esclusione sociale, organizzarci per accogliere chi arriva da altri mondi, rimettere al centro il lavoro, costruire un’economia solidale… Se lo possiamo fare, abbiamo la responsabilità di farlo! Nella convinzione che tutto quello che faremo per la pace nelle nostre città contribuirà alla costruzione della pace nel mondo.
Gettare le basi per una politica nuova. «Il mondo si sta riscaldando pericolosamente e i nostri governi si rifiutano ancora di prendere i provvedimenti necessari per fermare questa tendenza» ha detto qualche tempo fa Naomi Klein. Ma il problema come sappiamo non è solo climatico. Non c’è uno spazio pubblico internazionale dove non si respiri un’aria di tensione e di scontro: tutti contro tutti. Veniamo da un lungo tempo dominato dalla cecità e dalla sordità politica ed economica. E ora che cominciano a essere tragicamente evidenti i segni dei disastri che abbiamo provocato, a spadroneggiare sono gli egoismi e la sfiducia.
Tutti i mali che per un certo tempo avevamo rimosso sono tornati: guerre, nazionalismi, muri, xenofobia, corsa al riarmo, trafficanti di armi e di spese militari…E, all’ombra di una democrazia e libertà sempre più virtuali, scorrazzano gli imprenditori della paura e i fomentatori d’odio.
Per fermare le guerre, fare le paci, azzerare la fame, debellare la sete, sradicare la miseria, proteggere il pianeta avremmo bisogno di politici straordinari, dotati di visione e molto coraggio. Se non li troviamo, non possiamo fare altro che assumerci anche questa responsabilità. Non ci sarà mai pace senza una vera politica di pace. La speranza che coltiviamo anche oggi è che, insieme, possiamo generarne una davvero nuova.
«». il manifesto
Si è da poco conclusa a New York l’assemblea generale delle nazioni Unite, l’ultima della presidenza Obama e l’ultima con Ban Ki-Moon segretario ma la prima ad avere come tema centrale migranti e rifugiati.
Le aspettative intorno a questa assemblea erano altissime ed in molti sono stati delusi dal risultato, ritenuto piú una promessa di buone intenzioni che un impegno preso dai leader del mondo nei confronti di un problema umanitario globale.
«Bisogna tener presente la complessità di questi incontri – spiega Andrea Milan di UN Woman, specializzato in tematiche di genere correlate ai flussi migratori – UN Woman ha lavorato a stretto contatto con il team che ha supportato i negoziati, ed il risultato che è stato raggiunto, nel clima politico che conosciamo, viste le dichiarazioni sul tema rilasciate da molti dei capi di Stato coinvolti, è stato quello che poteva essere, si è arrivati dove si poteva arrivare. Si è scelto, in pratica, di non forzare i tempi ma di accordarsi almeno su dei messaggi chiari e importanti nell’immediato. Ad esempio gli stati membri delle nazioni unite si sono impegnati sul fatto che tutti i bambini possano avere accesso al sistema educativo entro pochi mesi dal loro arrivo a destinazione. Ma la cosa importante è che se ne sia cominciato a discutere e che ora si prepara un processo di due anni che porterà all’approvazione di un global compact per i rifugiati».
E questo per UN Woman è un passo in avanti?
Certo che lo è; si è messo un approccio al problema dei rifugiati che tenga conto delle tematiche di genere, che comprenda i diritti umani, e sia centrato sulle persone e non su i numeri, visto che di solito si parla solo dei grandi numeri e non delle persone che li compongono. Si creerà un compact molto complesso su le migrazioni e su i rifugiati, Questo summit di settembre è stato determinato a fine dicembre 2015, il team si è composto ad inizio 2016, in pochi mesi era difficile arrivare ad una conclusione risolutiva sul tema, con posizioni tanto diverse tra i vari governi.
I paragoni venivano fatti tra i risultati ottenuti al summit di Parigi sul climate change e quelli ottenuti fa questo summit.
Prima che ad UN Woman ho lavorato all’universitá dell’Onu e sono stato coinvolto nei negoziati verso Parigi. La differenza che c’è stata, ad esempio con il fallimento dei negoziati sul clima di Copenaghen, ed il successo ottenuto a Parigi, è da ricercare nel processo lungo che ha preceduto il summit francese. La difficoltá sul tema dei rifugiati è che qua bisogna agire su due fronti perché abbiamo da un lato l’urgenza e l’emergenza di persone che muoiono, emergenza che va affrontata, e dove bisogna dare una risposta ai bisogni immediati, dall’altra abbiamo la necessitâ di una risoluzione di lungo periodo e più complessa che va negoziata in parallelo.
Oltre al summt dell’Onu, il giorno immediatamente successivo c’è stato anche un summit di Obama sullo stesso tema. Questo non depaupera il ruolo dell’Onu?
Il summit di Obama è stato importante in quanto aveva come obiettivo quello di portare degli impegni concreti sul campo, ed alcuni Paesi lo hanno fatto, si sono impegnati. C’è stata una forte collaborazione tra l’Onu che organizzava il proprio summit e gli Stati Uniti che organizzavano quello del giorno seguente.
Quando si considerano i risultati del summit su i rifugiati, bisogna considerare entrambi gli eventi. Le Nazioni unite si sono concentrate su i due global compact, rifugiati e migrazioni, che sono complessi, ad esempio il compact su i migranti ha una parte imponente che riguarda il mondo del lavoro, e richiederanno lunghi negoziati, mentre il summit di Obama si è concentrato sull’immediato, in special modo sulla crisi dei rifugiati siriiani e la loro ricollocazione nei vari Paesi.
In che modo UN Woman affronta il problema delle tratte?
Lavoriamo su vari livelli, cercando di assicurarci che le misure che vengono adottate tengano conto dei bisogni specifici delle donne. Le donne hanno sempre un carico maggiore di problemi. Tornando alla situazione dei rifugiati, le donne corrono più rischi ed hanno più discriminazioni ad esempio come lavoratrici in quanto migranti, straniere. Nell’ambito delle tratte di essere umani cerchiamo di assicurarci che le misure normative per combattere la tratta comprendano le aree di vulnerabilità specifica in cui si possono trovare le donne. All’interno delle risposte fornite dal sistema delle Nazioni unite, una parte importante del lavoro di UN Woman è proprio fare in modo che la violenza sulle donne, in ogni sua forma vada prevenuta, e può esserlo solo tramite un lavoro congiunto con le parti normative e la società civile.
barbara-spinelli.it, 7 ottobre 2016 (p.d.)
Il titolo del convegno può apparire a molti una provocazione, e certamente lo è. Già l’Europa non riesce ad accogliere i profughi di guerra e di persecuzioni che approdano ai nostri confini (e su questo si sta disfacendo), anche se i fuggitivi rappresentano solo lo 0,2 per cento delle nostre popolazioni, ed ecco che lanciamo un nuovo allarme: ben più ampio, anzi cataclismico. Si tratta della fuga in massa provocata dai cambiamenti climatici, e dalle politiche in particolare – fatte dall’uomo – che sempre più costringeranno le popolazioni ad abbandonare le proprie terre. Saskia Sassen parla appropriatamente di politiche di espulsioni. Una parte della popolazione umana sarà semplicemente estromessa da quella che Slavoj Žižek chiama la “casa di vetro” dentro la quale crediamo di poterci proteggere, e in cui crediamo di veder riflessa la cosiddetta, inesistente “comunità internazionale”. Stiamo oltrepassando categorie come quella dell’emarginazione, dell’esclusione sociale, dello sradicamento.
Se queste cifre creano confusione e sembrano una provocazione, è perché non siamo ancora abituati mentalmente a una visione globale dei fenomeni di fuga e migrazione. Perché confondiamo le parole senza analizzare nel loro insieme i fenomeni, perché separiamo le guerre e le persecuzioni dagli effetti del modello di sviluppo globale adottato in primis da Occidente e Cina. Questa confusione non è alimentata solo da governanti politici. Lo è anche dalle sinistre e dalle Ong. Tutti siamo chiamati a divenire più chiari, e non solo a vedere le cose da un punto di vista globale ma anche a legare vari fenomeni tra loro e al tempo stesso a distinguerli nettamente, e a vedere non solo le insufficienze del diritto internazionale ma le difficoltà del suo mutamento.
Le parole innanzitutto: quando si parla di 200-250 milioni di rifugiati ambientali previsti entro il 2050 (dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni, OIM), dobbiamo subito chiarire e appunto distinguere. Le cifre spaventano perché sono spesso gettate al pubblico per allarmare (o anche per riscaldare i cuori, cosa che qui non vorremmo fare). Nella maggior parte, le persone colpite non sono veri e propri rifugiati, così come li intende la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati e richiedenti asilo. Sono Internally Displaced People, sfollati interni ai Paesi dove avviene il disastro ambientale. Meglio sarebbe dunque dire migranti interni o sradicati forzati, e i migranti interni sono già fortunati perché una parte non riesce nemmeno a spostarsi ed è aggrappata al territorio devastato, a meno che il territorio non sia sprofondato nell’acqua come le isolette di Kiribati, la cui popolazione si trova alle prese con la riluttante accoglienza di Nuova Zelanda e Australia.
Di loro bisogna prioritariamente occuparsi, non solo di quella parte di sfollati che alla fine, non trovando più protezione nei Paesi di origine, proveranno a varcare le frontiere avvalendosi delle labili regole del diritto internazionale. I più sono concentrati in Africa, dove vive la maggior parte di rifugiati del mondo (su 65 milioni, l’85 per cento), sotto forma appunto di sfollati interni. L’Africa è il continente più colpito dal cambiamento climatico, pur non essendo di certo il maggiore colpevole del degrado. Nel 2015, gli sfollati africani sono stati 27,8 milioni: l’equivalente di New York, Londra, Parigi e il Cairo messi insieme.
Quel che occorre cominciare a capire è come e quando avviene la congiunzione fra lo sfollato interno e il rifugiato che varca le frontiere, e cosa si possa fare per individuare la congiunzione e prevenire il catastrofico precipitare delle crisi.
Propongo tre tracce di riflessione che riassumo con schematismo estremo per mancanza di tempo:
1) Studiare i processi di espulsione nel loro insieme, che dal disastro ambientale conducono allo stato di guerra e/o persecuzione, e dunque al bisogno di trovare risposte d’emergenza all’insorgere della questione rifugiati internazionali;
2) Studiare lo sviluppo economico e la politica sul clima che permettono questo fenomeno aggrovigliato;
3) Individuare gli strumenti legali del diritto internazionale e fare eventuali proposte.
1) Vedere il processo nella sua globalità.
Gli esempi che si possono fare sono molti, ma vorrei cominciare dalla crisi siriana, perché è un caso paradigmatico. Tra il 2006 e il 2010, il Paese ha conosciuto una siccità record, dovuta a sfruttamento di terre e irrigazioni eccessive che hanno ingigantito la scarsità dell’acqua e la desertificazione (sono i fenomeni di land grabbing e water grabbing: attività sistematicamente perseguite nel Terzo Mondo dalle grandi multinazionali, con la complicità di regimi locali). Quasi un milione e mezzo di siriani ha perso i mezzi di sussistenza ed è stato sradicato, l’85 per cento del bestiame è morto, sono del tutto scomparse culture essenziali tra cui il grano, l’orzo, il famoso peperoncino di Aleppo. Gli agricoltori senza più terre sono fuggiti in massa nelle città (a Daraa soprattutto) con problemi di occupazione e di scarsità d’acqua che crescevano esponenzialmente. A ciò si sono aggiunte le dighe costruite dalla Turchia sul Tigri e l’Eufrate, che hanno privato di acqua la Siria oltre che l’Iraq. Le prime rivolte siriane nascono da questi eventi, e l’islamismo ne ha approfittato scatenando una guerra per l’accaparramento delle risorse (petrolio soprattutto). L’oppressione politica non è la sola causa delle guerre. Il cambiamento del clima causato dall’uomo ha svolto nel caso della Siria caso un ruolo ancora maggiore. In questo processo si è inserito il conflitto geostrategico – un ennesimo regime change promosso dall’Occidente, che ha decretato lo Stato fallito in Siria – e gli sfollati interni sono in parte divenuti popoli in fuga da guerre e violenze generalizzate. Lo stesso fenomeno avviene in regioni dell’India o in Indonesia. Clima, sviluppo economico, terrorismo, guerre: tutto è legato. Si potrebbe dire che se la temperatura media sale di 2 gradi celsius, l’esplodere di terrorismi e guerre è inevitabile.
2) Rivedere le teorie dello sviluppo.
Parliamo di teorie che continuano a essere difese secondo modalità immutate nonostante i disastri manifesti che provocano. Penso in particolare agli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (Millennium Development Goals) lanciati dall’Onu nel 2005 e al loro rapporto molto ambiguo con sostenibilità e diritti. Lo scopo continua a essere la crescita, quale che sia il costo, senza concentrarsi su quella che è ormai in gran parte del mondo un’economia di sussistenza o sopravvivenza. Gli Obiettivi sottolineano il legame tra sviluppo e rule of law, ma i diritti sono di fatto al servizio di uno sviluppo la cui insostenibilità non è messa in questione. L’accrescersi di sfollati e migranti (essenzialmente interni) è in grandissima parte il risultato di quest’agenda dello sviluppo e del commercio, patrocinata dall’Onu o dai piani di risanamento di Fondo Monetario o Banca Mondiale, perseguiti senza badare alla resilienza locale.
3) La legge internazionale.
È il punto dolente del fenomeno in questione, delicatissimo da affrontare. La Convenzione ONU sui rifugiati è stata ideata nel ’51 dopo due guerre mondiali, e non è ancora adattata al terzo fenomeno che è quello degli sfollati o rifugiati causati dalla globalizzazione e dal degrado climatico. L’articolo A,2 della Convenzione è molto esplicito e limitativo. Sono titolati a chiedere asilo coloro che hanno un “valido motivo fondato su timore giustificato” di essere perseguitati per cinque ragioni (razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale, opinioni politiche). Lo sfollato o il potenziale profugo ambientale non fugge una persecuzione, anche se esistono responsabilità evidenti di sfruttamento coloniale delle risorse e delle terre. Né fugge un genocidio o un crimine contro l’umanità – nonostante varie denunce in questo senso – perché dal un punto di vista legale le corporazioni o multinazionali responsabili di land grabbing o water grabbing non sono colpevoli del dolus specialis – o intento specifico – implicito nell’imputazione di sterminio. Per il momento esistono alcune convenzioni ad hoc. Penso ai Principi guida dell’Onu del 1998 sugli Internally Displaced People, alla Convenzione dell’Organizzazione dell’Unità Africana del 1969, alla Dichiarazione di Cartagena sui rifugiati dell’84. Tutte queste convenzioni affrontano le responsabilità di disastri climatici causati dall’uomo e dalle agende globali di sviluppo, ma sono miglioramenti di facciata: il più delle volte non sono vincolanti e sono state ratificate solo da un numero esiguo di Stati. Inoltre – e non è questione minore – l’assistenza agli sfollati interni deve tener conto della questione della sovranità, come prescritto dal diritto internazionale.
In altre parole, perché possano scattare meccanismi di protezione internazionale occorre spesso arrivare fino all’acme del processo distruttivo, quando il disastro climatico è ormai già sfociato in guerre e/o persecuzioni e la Convenzione di Ginevra può, ma con estrema difficoltà, essere invocata. È importante proporre innovazioni in questo campo, e tanti ci provano da decenni. Diciamoci che non è una cosa semplice.
Per questo dico che siamo interpellati come sostenitori dei diritti dell’uomo, e anche le Ong sono interpellate, perché spesso il loro sguardo è concentrato su un unico segmento del processo di devastazione: l’ultimo. Non so se avremo tempo di affrontare questa questione, ma il problema c’è e non possiamo nascondercelo.
Il problema è quello dell’ambiguità dei diritti che giustamente difendiamo. Il rischio che si corre infatti – come sinistra che invoca frontiere aperte e come Ong – è quello di divenire gli infermieri di disastri che debbono essere risolti a monte, molto prima. Ed è quello di non capire che la protezione delle frontiere non è parola scandalosa, se specifichiamo che l’obiettivo deve essere la protezione di frontiere che possano aprirsi in maniera non caotica, ordinata.
Avanzare richieste concernenti un segmento soltanto di questi processi (quello dei rifugiati internazionali) rischia non solo di andare contro un muro dal punto di vista legale, ma di divenire complice del fenomeno, non occupandosi delle sue cause. È un difetto che ritroviamo anche nelle Ong. Penso in particolare a quelle legate alla Fondazione Soros: a parole Soros sostiene i diritti dei popoli colpiti da disastri ambientali, ma poi lui stesso ha fatto investimenti di enormi proporzioni nel carbone, acquisendo nell’estate 2015 azioni dei giganti Peabody Energy and Arch Coal. Ecco come l’ONG interviene per riparare le falle di qualcosa che non ha intenzione alcuna di aggiustare.
Bisogna insomma pensare l’intera catena del disastro ambientale, diritti compresi, che vanno disgiunti dall’agenda dominante concernente lo sviluppo, perché non diventino semplici ausiliari del suo pervertimento. Vorrei concludere con quanto affermato da Oscar Wilde nel 1891, nell’Anima dell’uomo sotto il socialismo: “È tanto facile aver simpatia per la sofferenza, e tanto difficile aver simpatia per il pensiero”.
Noi siamo vicini ai sofferenti, ma il nostro dovrebbe essere il tentativo di pensare meglio quel che ci accade. Non di dire: “Ce la faremo ad accogliere tutti i rifugiati”, per confortare le nostre certezze morali ma senza prospettive reali di successo.
Naturalmente è essenziale proteggere le vittime ambientali, ma suonando l’allarme occorre misurare i rischi di un irrigidirsi delle posizioni xenofobe sulla migrazione in generale, in Europa. E dobbiamo sapere che se l’attenzione si fissa sulla fuga finale, vorrà dire che avremo fallito. La doverosa accoglienza dei fuggitivi non deve quindi distoglierci dal compito prioritario, che è quello di rimettere in questione il modello di sviluppo che fonda la mondializzazione dagli anni ’70. È un modello neocoloniale che produce espropriazioni, urbanizzazioni di massa, fame, povertà, guerre: incentrato su investimenti nel commercio, ha distrutto le agricolture locali. Per questo ho detto che bisogna concentrarsi sull’economia della sopravvivenza, ripartire da essa: sopravvivenza di popoli minacciati che devono – ove ancora possibile – potersi riappropriare dei loro territori e anche essere risarciti, che devono – sempre dove ancora possibile – poter contare sulla messa in salvo dei territori stessi, e tornare a produrre il cibo e a trovare l’acqua di cui abbisognano, nei luoghi e nelle terre da cui sono espulsi. Se ci limiteremo a fare dell’accoglienza, non li avremo veramente salvati ma avremo solo suggellato il loro sradicamento.
Riferimenti
I rifugiati fantasma senza diritto d’asilo. “Salviamo chi fugge dai disastri naturali”, La Repubblica, 12 settembre 2012, Ogni anno 6 milioni di rifugiati a causa dei disastri ambientali, il manifesto, 25 settembre 2016, nonchè, su eddyburg, gli articoli di Guido Viale e di Dante Carraro.
Il manifesto, 6 ottobre 2016 (p.d.)
La Bulgaria – uno dei paesi più poveri dell’Unione europea – acquisisce così un’importanza cruciale nella strategia messa in atto da Bruxelles per fermare i flussi di migranti e di profughi che vorrebbero raggiungere l’Europa. E il fatto che tra tutti i confini esterni si sia deciso di puntare ancora una volta su uno Stato confinante con la Turchia sembra confermare i dubbi di quanti ritengono sempre più a rischio l’accordo sui migranti siglato a marzo con Ankara. Da oggi quindi altri 130 uomini andranno ad aggiungersi ai 192 già inviati in precedenza nel Paese da Frontex.
Approvata lo scorso mese di luglio dal Consiglio europeo, l’Eu border and coast guard agency può contare per il 2016 su un budget di 238 milioni di euro destinato a crescere fino a 322 milioni entro il 2020. Quella che prende avvio oggi rappresenta una sorta di prova generale in attesa che il 6 dicembre diventi attivo il corpo di «intervento rapido» forte di 1.500 uomini messi a disposizione dai singoli Stati (l’Italia contribuirà con 125 persone). Il suo compito sarà quello di intervenire – su decisione del Consiglio Ue – nelle eventuali situazioni di emergenza che si potrebbero creare nel caso in cui uno Stato non sia in grado di difendere le proprie frontiere mettendo così a rischio l’area Schengen. Per il 6 gennaio, infine, è invece previsto l’avvio di un nucleo di guardie impegnato esclusivamente nei rimpatri dei migranti.
Stando ai dati forniti dalla Sar, l’Agenzia di stato bulgara per i rifugiati, dall’inizio dell’anno alla fine di settembre sono stati 14.728 i rifugiati entrati nel paese, la maggior parte dei quali provenienti dall’Afghanistan. Altri diecimila avrebbero invece lasciato i centri cercando un alloggio in altre località dove attendere una risposta alla domanda di asilo. Nonostante questo, i nuovi arrivi hanno creato una situazione di sovraffollamento nei centri, all’interno dei quali si trovano oggi 5.568 migranti, il 7% in più rispetto alla reale capacità di ricezione. Numeri che hanno spinto il governo a ordinare la costruzione di due ulteriori centri per un totale di 800 nuovi posti.
Di fronte a questa emergenza legata al sovraffollamento, ma anche alla difficile convivenza tra migranti e popolazioni locali, il governo pensa di intervenire con un giro di vite destinato a peggiorare le già difficili condizioni di vita dei primi. Due giorni fa il presidente della commissione per la sicurezza interna del paese, Tsvetan Tsvetanov, ha reso noto che si sta valutando la possibilità di trasformare i centri di accoglienza in luoghi chiusi dai quali i migranti non potranno più uscire come avviene oggi, proclamando per di più al loro interno un coprifuoco che verrà fatto rispettare con un impiego massiccio di forze dell’ordine. Tutto questo, ha spiegato Tsvetanov, «per evitare disordini e tensioni con la popolazione».
Purtroppo nei mesi scorsi non sono mancati casi d anche gravi di intolleranza nei confronti de migranti nei confronti dei quali sono entrate in azione anche formazioni paramilitari il cui scopo era quello di fermare quanti riuscivano a passare la frontiera provenendo dalla Turchia. La nuova guardia di confine europea si spera che possa almeno mettere fine a esperienze simili.
SLa Repubblica, 6 ottobre 2016
Quando i giovani medici mi dicono: «Dottore, voglio lavorare in Africa», rispondo che «non occorre andarci, perché l’Africa è qui». Piove sulle terre sterminate del Tavoliere.
Enzo Limosano, chirurgo vascolare in pensione, ci guida per una strada infame tra uliveti e campi di carciofi sopra una terra grassa e lustra come groppa di bufala. Destinazione, il “ghetto” chiamato Ghana, uno dei tanti bacini di manodopera sottocosto del baricentro agroalimentare d’Italia. È la provincia di Foggia, oltre un milione di tonnellate l’anno di soli pomodori. Il camper è l’unico ambulatorio possibile in questo pantano. A bordo, una piccola task force sanitaria (chirurgo toracico, dentista e infettivologo con alcuni aiutanti) targata Cuamm, una Ong di solida reputazione che da sessant’anni opera fra Etiopia e Mozambico. È gente che non si tira indietro davanti a epidemie come Ebola o a guerre civili, ma che qui, mi accorgo, esita un attimo, come ai confini dell’indicibile. «Vuole la verità? L’Africa è meglio. Si sorride, lavori rilassato. Qui invece la tensione è ovunque».
Si va a zig zag tra le pozzanghere sotto un cielo piatto come un ferro da stiro. Qua e là, casupole semi-abbandonate della riforma agraria fascista rattoppate da teli. Ripari miseri, eppure lussuosi rispetto alle baracche dell’Inferno vero, il famigerato Gran Ghetto di Rignano, 40 chilometri a Nordest. È un agglomerato di quattromila schiavi ben visibile dagli aerei di linea in atterraggio su Bari ma stranamente invisibile ai terrestri del Foggiano. Non lo vedono nemmeno le folle di fedeli, vicinissime, che a San Giovanni Rotondo innalzano canti per Padre Pio. Nemmeno lui, qui, fa miracoli per gli ultimi della Terra.
Da Cerignola, il Ghetto Ghana dista sette chilometri, ma bastano a separare le Ombre dal mondo dei vivi. Le facce bianche sono scomparse. Passano solo medici e caporali. E cani. Quelli abbandonati, attirati dai reietti come loro. Dopo, non è più Italia. Un barbiere improvvisato insapona un cliente sotto una tettoia, tra galline, questuanti, bottiglie di birra e trattori arrugginiti. Poco lontano, qualche tenda a pagoda, coperta di nylon per via dell’acquazzone. È giorno di pausa, e si va a salutare Alexander, ghanese brizzolato, piccolo boss di questo spazio di case sparse, in una baracca trasformata in bar. È lui che detta legge, e i salamelecchi diventano necessari in un mondo di gerarchie spietate. Zanzare microscopiche trapanano l’aria in un odore dolciastro inconfondibile. Lo stesso della Bosnia ai tempi dell’ultimo conflitto. Polvere, sudore, marciume e benzina. L’olfatto non distingue tra guerra e miseria.
Michele Alberga, 68 anni, il dentista, porta alla cintura un diffusore sottocutaneo di insulina ma, nonostante l’età e il diabete, spende il tempo libero a curare migranti con animo lieto, senza ipocrisie pietistiche o assistenzialismi. Gli chiedo se non gli venga mai il dubbio, con la sua dedizione, di essere funzionale a un sistema di sfruttamento. Risposta netta: «Loro ci aspettano». È la stessa che mi veniva data in Uganda e in Sudan, negli ospedali del Cuamm. «Se non lo fai tu — ti dicono — chi altro? ». Non ci si può tirare indietro, se ci si vuol guardare allo specchio a giornata finita.
E loro ci aspettano davvero, in fondo allo stradone. Tanti, anche se il Ghetto è mezzo vuoto, perché le avanguardie sono già partite per gli aranceti della Calabria, a farsi sfruttare in modo ancora più bestiale dalla ‘ndrangheta. Ogni settore ha le sue patologie. Dietro ai pomodori sciatiche e lombalgie, dietro all’uva emicranie e dolori al collo. Gli agrumi si pagano con spalle indolenzite, le coltivazioni in serra con disidratazioni gravi, i carciofi con infiammazioni al gomito simili a quelle del tennista. Il tutto senza contare gli incidenti gravi e le malattie sommerse. Quelle della miseria: Aids, tubercolosi, meningite, sifilide o epatite. Solo i più forti ce la fanno a tornare a casa.
Ha smesso di piovere. Attorno al camper si affollano i reduci della campagna — appena finita — del pomodoro, tirate di dieci ore a riempir cassoni per le aziende di trasformazione del Salernitano. Aspettano il medico anche per quindici giorni, perché i pochi medici e infermieri volontari di Puglia non ce la fanno a coprire più di due viaggi al mese. Fino al dicembre dell’anno scorso funzionava un servizio di Emergency, solidamente finanziato e poi burrascosamente interrotto dalla Regione per una serie di gravi incomprensioni. Ora bisogna ripartire da zero, e la giunta ha allo studio un piano triennale d’intervento per il quale si sono messi a disposizione, oltre al Cuamm, i missionari comboniani e i Medici senza frontiere.
Sembra una retrovia della Grande Guerra. Mettere in fila i pazienti, distribuire i numeri, evitare liti fra ghanesi e altri africani. Marcella Schiavone, 28 anni, chirurga col Mozambico alle spalle, riceve nel camper. Il divano per il paziente è minimo. Le domande semplici, in italiano o inglese elementare. Come ti chiami. Quale problema. Quando è cominciato. Dimmi come stai. Una donna sola davanti a quarantaquattro maschi in meno di tre ore, e non è mai visita sommaria.
Ognuno è tastato, auscultato con attenzione. Passa Ibra, disidratato con dolori allo stomaco. Alì, con una cisti sul naso da rimuovere. Richmond, con un’ernia inguinale. Franco, con una ferita al dito medio, che stringe i denti mentre gli fanno uscire pus come dentifricio dal tubetto. Daniel ha un piede mangiato dal diabete. Gli vedo l’osso nella ferita. Non lavora più, ma chiede l’elemosina, e quella ferita da ostentare è il suo unico capitale. Dorme in un’auto abbandonata, una cuccia immonda, e non pensa al dopodomani.
Ogni volta che apriamo un barattolo di “pummarola”, sarebbe cosa buona pensare che in quel barattolo c’è la disidratazione di Ibra, l’ernia di Richmond, l’avitaminosi di Ahmed, lo sterno mezzo sfondato di George. Ci sono chilometri di spine dorsali lesionate, il fango, la pioggia, e il sole implacabile del Sud. E le mosche, i veleni, le zanzare, i cani, i materassi sfondati, le prostitute a seguito di un esercito di uomini stremati. Il naufragio dei barconi, i centri di raccolta e quelli che ci campano sopra, i carrozzoni della finta assistenza, e il nostro razzismo che cresce. I caporali, i trasportatori della Camorra, un sistema produttivo dove pochi campano sulle spalle di molti, una grande distribuzione che strangola il contadino. Per un barattolo di pomodoro.
«Ho tenuto la mia bambina reclusa per mesi nella baracca perché non vedesse l’orrore che c’era fuori», racconta tra le lacrime un reduce del ghetto di Rignano. C’è anche chi si porta la moglie e i figli all’inferno. E c’è chi tace, non svela i suoi aguzzini nemmeno se ha il corpo coperto di ferite da taglio. E ci sono — raccontano i medici — storie come quella di una giovane africana senza nome, drogata e violentata dal branco fino ai limiti della medicina d’urgenza, capace a malapena di balbettare monosillabi. Da dove vieni? Non so. Come sei arrivata qui?Non ricordo. Come ti chiami? Non ne ho idea. Il capolinea della disumanizzazione.
L’Italia può essere peggio dell’Africa.
Tanti tornerebbero a casa. Ma non hanno i soldi per farlo. E se lo facessero, non oserebbero ammettere la sconfitta. Alla Regione sembrano decisi a dire basta allo scandalo. Stefano Fumarulo, braccio operativo del governatore per la sanità e le migrazioni, annuncia uno smantellamento imminente in nome della dignità dei lavoratori. Con quali alternative di alloggio? Ci sono Comuni spopolati che chiedono abitanti e sono disposti ad accogliere stranieri, aziende che cercano uomini capaci di mestieri disertati dagli italiani. E intanto si sperimentano forme associative per strappare i migranti dalla tirannia dei caporali. Ma resta sempre il dubbio che, una volta fuori dai ghetti, questi stranieri escano anche dal sistema-lavoro e si vedano costretti a rientrarvi con mezzi ancora più precari.
«Senza una riforma della catena produttiva che imponga la tracciabilità, e senza una certificazione etica del marchio, come avviene per altri beni, questa bestialità non avrà fine», dice con ferrea convinzione Yvan Signet, sindacalista partito dalle Malebolge di Rignano e uomo-simbolo della lotta per l’affrancamento dei lavoratori stranieri. Uno che, non a caso, vive sotto minaccia da parte dell’intero caporalato pugliese. «La cosa più grave è che non si prende atto che nei ghetti si sperimenta un tipo di sfruttamento perfettamente integrato nel sistema-Paese, uno sfruttamento che sta già ricadendo sugli italiani. Pensi alla donna morta di fatica quest’estate nei campi fra Taranto e Brindisi. Tutti sanno tutto, si fanno articoli e talk show, ma per questa gente non cambia nulla».
Nelle quattro ore che siamo al Ghetto Ghana, da Cerignola non arriva anima viva. Come per un ordine silenzioso, gli “indigeni” stanno alla larga. Nessuno aggiusta la strada, e nemmeno l’Asl passa la frontiera tra i mondi. Non si deve sapere, non si deve vedere. Anzi, non si vuole vedere, perché altrimenti l’imbroglio sarebbe chiaro e la verità intollerabile. Quando torniamo a Bari — tre quarti d’ora di macchina dal ghetto di Cerignola — lo struscio in corso Vittorio è già iniziato. Fiumane di giovani ignari, incollati a telefonini accesi come lucciole nel buio. Sono lontani mille miglia dai ghetti. E non sanno di essere destinati, forse anch’essi, ad appartenere a una manovalanza senza nome, in aziende senza patria che li sfrutteranno ottanta ore la settimana.
Francesco Di Gennaro, 28 anni, brillante specialista in malattie infettive con una forte esperienza in Mozambico per conto del Cuamm: «Questa potrebbe essere una regione simbolo del domani, un luogo dove sperimentare il futuro... Siamo o no la terra degli sbarchi? In Puglia potremmo capire come sarà il mondo fra trent’anni... e invece la gente si è chiusa nel suo tornaconto. Persino i giovani hanno smesso di chiedersi se questa è una società giusta o sbagliata».
Il Fatto Quotidiano online, 3 ottobre 2016 (c.m.c.)
Lampedusa. «Per quanto possano essere limitate, le isole non sono prive di drammi di portata universale. La storia non le ignora e in esse trova talvolta il suo epilogo. Altre volte invece la storia vi comincia».
Questa frase dello scrittore Predrag Matvejević – autore, tra gli altri, di Breviario Mediterraneo (edito per la prima volta da Garzanti nel 1991) – racchiude il senso più profondo della “Giornata nazionale della memoria e dell’accoglienza”, riconosciuta tale il 16 marzo 2016 grazie anche all’impegno di un’organizzazione senza scopo di lucro, riunitasi nel ‘Comitato 3 ottobre‘, data in cui nel naufragio al largo di Lampedusa – era il 2013 – persero la vita 368 migranti.
Qui la storia non finisce, ma si rinnova attraverso una richiesta fondamentale lanciata dal Comitato: bisogna proteggere le persone e non i confini. Una questione centrale per la politica europea: accogliere o respingere? Ecco che Lampedusa diventa una palestra formidabile per capire quale possa essere la rotta giusta. Quest’isola che negli ultimi sedici anni ha accolto 217. 591 immigrati e che lo ha fatto mantenendo la sua forte identità, la sua bellezza, il suo spirito, continuando ad alimentare quel seme dell’accoglienza che aveva già inciso nel proprio Dna. L’isola avrebbe potuto reagire diversamente?
Avrebbe potuto alzare muri o erigere barricate per respingere, quel 3 ottobre del 2013, i 368 corpi restituiti dal mare alla terra lampedusana? Le spoglie di giovani eritrei, ventenni scappati dalla feroce dittatura di Isaias Afewerki. E come avrebbe potuto non diventare la casa di tutti quegli altri corpi? I cadaveri arrivarono a 600 tanto che ci vollero due navi militari per portare via tutte quelle bare.
Il Comitato 3 ottobre ha voluto trasfondere nella “Carta di Lampedusa” questo spirito di accoglienza insito nell’isola stessa: è necessario abbattere ogni forma di confine, di visto, per affermare il libero diritto di cittadinanza di ciascuno. Un ordine umano diverso, fondato su valori differenti da quelli che governano il nostro quotidiano, ma l’unico capace di riempire di senso la storia di Lampedusa e permetterle di cominciare, di nuovo, a vivere, dopo l’orrore di tanta morte.
E non poteva che cambiare anche il modo di comunicare e rappresentare quell’immane tragedia. Così, per la ricorrenza del 3 ottobre si è tenuto a Lampedusa il ‘Prix Italia’, un premio internazionale organizzato dalla Rai che quest’anno si è concentrato sul tema delle migrazioni.
Tante le anteprime, a partire dall’ultima fatica di Marco Pontecorvo che qui ha presentato Il coraggio di vincere, storia di un giovane pugile senegalese. Di rilievo anche lo speciale del giornalista Domenico Iannacone, Lontano dagli occhi, che raccogliendo e riallacciando una serie di storie di migranti senza nome, fa così riacquistare loro, un’identità.
Il lavoro viene reso ancor più prezioso dalle parole di Andrea Camilleri: lo scrittore siciliano ci ricorda che un’isola non è mai chiusa dal mare, anzi, è proprio il mare ad allargare i suoi orizzonti; i muri non servono a nulla se non a ingabbiare le nostre paure rendendoci incapaci di immaginare e vivere nuove forme di convivenza.
Solo una macabra farsa: questo era il referendum ungherese contro gli stranieri e contro “i diktat” di Bruxelles fortemente voluto dal premier Viktor Orbán. E tale si è rivelato. Il popolo cui amano fare appello piccoli e grandi dittatori questa volta ha preferito tacere. Forse ha fiutato l’inganno e ha evitato di acclamare l’uomo forte di Budapest. Ma il danno resta per l’immagine di quel Paese e per il destino futuro dell’Europa.