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Sindaci, prefetti, vescovi, parroci. Qualcuno ricorda: «Fuggono dalle guerre, ma chi le ha scatenate? Spesso l’Occidente e l’Europa», e qualcun altro: «I sindaci non sono razzisti, non temono gli stranieri, ma i poveri, la miseria. Solo che rifiutare chi non ha nulla è da infami».

Corriere del Veneto, 2 novembre 2016

Ha voglia Papa Francesco, l’ultima volta ieri, a ribadire: «Non si può chiudere il cuore ai rifugiati». Il fatto è che ormai sono così tanti, e sempre concentrati negli stessi Comuni (in Veneto 246 su 576 per 14.639 richiedenti asilo), da indurre anche molti parroci, oltre alla maggioranza dei sindaci, a dire: «No». Da qui lo sfogo del prefetto di Vicenza, Eugenio Soldà, che dovendo trovare posto a 2700 disperati, è sbottato: «Sono da solo, mi hanno abbandonato tutti, mi hanno sbattuto la porta in faccia pure i parroci. Mi hanno voltato le spalle». Non è una novità, purtroppo. A ottobre il prefetto di Padova, Patrizia Impresa, aveva ammesso: «La Chiesa ci ha sostenuti, ma quando si è trattato di trovare dei posti...».

E prima il collega di Venezia, Domenico Cuttaia, aveva lanciato un appello proprio alle parrocchie, non tutte propense a seguire l’esortazione del pontefice ad aprire le porte ai migranti. «Mi rivolgo alle parrocchie, per un’accoglienza minima di tre o quattro profughi ciascuna — aveva esortato Cuttaia — stanno arrivando anche molti minori e donne. Non possiamo lasciarli per strada». «Forse i curati non hanno tutti questi spazi a disposizione — nota Enrico Caterino, prefetto di Rovigo costretto a requisire un hotel a Ficarolo per gestire i continui arrivi — ma a me la Curia una mano l’ha data. Ha alloggiato per un mese 26 migranti in un suo edificio in pieno centro, dove tiene i corsi per i seminaristi. Non sono in grado di dire se la Chiesa possa fare di più, ma spetterebbe in prima battuta ai sindaci sostenerci nella gestione dell’emergenza. Il loro esempio potrebbe persuadere i parroci, invece in Polesine solo 9 Comuni su 41 collaborano».

Ma come risponde la Chiesa al j’accuse? Il vescovo di Vicenza, Beniamino Pizziol, vuole «parlare direttamente con il prefetto Soldà», però poi in una nota ufficiale la Curia «non può nascondere che tali dichiarazioni abbiano creato stupore e rammarico, soprattutto perché giungono inaspettate. Possiamo comprendere la delicata situazione che il prefetto deve gestire e vogliamo imputare a uno stato di emergenza continua le accuse rivolte ai parroci della Diocesi. I quali però non possono agire senza o contro le proprie comunità». Ieri, nell’omelia, monsignor Pizziol ha ricordato «i migranti costretti a lasciare le loro terre a causa delle guerre». «Chiediamoci — ha esortato — chi ha scatenato quelle guerre? Spesso l’Occidente e l’Europa». Più volte il presule ha chiesto ai sacerdoti di accogliere i rifugiati: «Dobbiamo lavorare di più». L’ultimo invito è di giovedì.

Di diverso tenore la riflessione del patriarca Francesco Moraglia: «A Venezia c’è disponibilità da parte dei sacerdoti, cerchiamo di ottemperare alle regole imposte dal ministero dell’Interno ma non è semplice, soprattutto vista la crescita esponenziale degli arrivi. Il territorio a un certo punto non riesce più ad accogliere, non credo che non voglia più accogliere. C’è anche chi non vuole, ma questo prescinde dal numero di profughi. Chi si impegna in tal senso deve fare i conti con risorse e forze limitate».

«Da noi l’accoglienza funziona — assicura monsignor Giuseppe Zenti, vescovo di Verona — si è dimostrato vincente puntare su piccoli nuclei e farli gestire dalla Caritas». Ma se i parroci dicono di no è anche per motivi «tecnici». «Non abbiamo molti spazi e le canoniche inutilizzate non sono a norma come abitazioni — spiega monsignor Adriano Tessarollo, vescovo di Chioggia — se succede qualcosa si va incontro a problemi penali. Mettere a posto una canonica costa 100mila euro: chi ce li ha? E spesso siamo visti male dai sindaci. Più di qualcuno ci ha detto: se ospiti profughi mando i vigili a controllare che tutto sia in regola. Mica pensano che se li sistemano da noi è perché loro non li vogliono. Dobbiamo infine mettere in conto eventuali accuse di volere i migranti per fare cassa». «Secondo il diritto canonico le case del clero non possono avere un diverso utilizzo e il cambio di destinazione d’uso non s’inventa in pochi giorni — concorda don Marino Callegari, delegato Caritas del Triveneto —. Ma spesso le parrocchie non hanno altri locali.
Nonostante ciò la Chiesa ha aperto le porte a migliaia di rifugiati». «Bisogna rimuovere le cause della paura — dice don Luca Favarin, che con l’associazione «Percorso vita» a Padova ha dato un tetto a 140 persone in undici strutture — è vero, i sindaci non sono razzisti, non temono gli stranieri, ma i poveri, la miseria. Solo che rifiutare chi non ha nulla è da infami».

L'immagine che abbiamo scelto come icona è tratta dal sito valigia blu, a cui raccomandiamo di fare una visita

La Repubblica online, 2 novembre 2016 (p.d.)

Una barca piena zeppa di uccelli cavalca le onde puntando verso l'Italia, l'unico orizzonte dove i viaggiatori sperano di sbarcare per spiccare di nuovo il volo. È questo il disegno dipinto sui muri del primo ristorante africano di Venezia che aprirà il 4 novembre in Calle Lunga San Barnaba.

La metafora del volo non è casuale. Lo staff che ha creduto nel progetto è composto in gran parte da migranti africani, arrivati qui nei modi più disparati l'ultimo anno con la speranza di poter chiudere la porta con il passato e ricominciare. I soci fondatori, Hamed Mohamad Karim, Hadi Noori, Mandana Goki Nadimi e Samah Hassan El Feky, anche loro migranti provenienti dall'Afghanistan, dall'Iran e dall'Egitto, lo hanno provato sulla loro pelle anni prima, quando alcuni di loro sono giunti nei camion frigoriferi ancora minori.

Ed è proprio qualche anno fa nel centro minori di Venezia, a Forte Rossariol, che a uno di loro, l'Hazara Hamed Mohamad Karim, è venuta l'intuizione che il cibo può unire e aiutare a superare i pregiudizi. "Ho iniziato a organizzare delle feste nel centro minori, chiedendo a tutti i ragazzi di preparare un piatto tipico del loro Paese - spiega - e ho visto che funzionava sia per i ragazzi che erano nei centri, sia per chi veniva a trovarci". Hamed, regista che non è più potuto tornare in Afghanistan perché minacciato dai talebani, fa un primo esperimento fondando nel 2002 l'Orient Experience nel sestiere di Cannaregio.

Il ristorante propone i piatti che i migranti hanno imparato a cucinare nel viaggio della speranza fino a Venezia e ha un grande successo. Oggi la sfida è ancora più grande perché a lavorare all'Africa Experience saranno richiedenti asilo che rappresentano le migliaia di persone che fuggono disperate dal continente nero. "Io sono etiope - racconta Alganesh Tadese Gebrehiwot, 30 anni, fuggita dall'Etiopia, chef del locale - Ho imparato a cucinare con mia mamma. In Etiopia c'è ancora molta divisione di ruoli, le donne cucinano e stanno in casa. Così io sono cresciuta aiutando lei e ho imparato alcuni dei piatti che preparerò, come un certo tipo di pane, Ejra o il Mesir wot, una zuppa di lenticchie. Non avrei mai pensato di diventare cuoca, ma sono finalmente molto felice. Io vengo dal Sudan, lavoravo come donna delle pulizie, ma non avrei mai potuto realizzare i mie sogni".

Anche Muhammed Sow della Guinea ed Efe Agbontaen della Nigeria sono scappati da terre di guerre e violenza sui barconi che vediamo ogni giorno, quei barconi così pieni di persone che finiscono per diventare un'unica massa. In quella massa ci sono invece esseri umani singoli, individui con le storie che si potranno conoscere qui, parlando davanti a un buon piatto proveniente da un Paese di cui alla fine si sa molto poco.

I piatti sono stati scelti tramite un concorso che ha coinvolto studenti e professori dell'Istituto alberghiero Barbarigo di Venezia, chiamati a giudicare quali erano i piatti all'altezza di un vero menu. I primi classificati in cucina saranno loro, accompagnati in sala da alcuni soci fondatori, come Hadi Noori, tra i primi ragazzini arrivati dall'Afghanistan in quei camion frigo che per alcuni sono stati mortali: "Avevo 15 anni - racconta Noori, oggi 25 anni - e lavoravo in fabbrica a Kabul. Volevo studiare e non potevo. Alla fine non avevo altra scelta, dovevo partire".

A 15 anni parte dall'Afghanistan per raggiunge l'Iran per poi proseguire a piedi verso la Turchia: "Durante questi viaggi sei solo - spiega - ma poi incontri altre persone che magari non rivedi più. Dalla Turchia sono andato in Grecia con un gommone, poi mi sono fermato là e ho cercato di lavorare ma c'era tanto sfruttamento. Un giorno mi sono infilato con altri ragazzi in un camion pieno di arance, la temperatura oscillava tra gli zero e i due gradi, ma siamo riusciti. Lo stesso capita ai mie colleghi che sono qui oggi, quando s'imbarcano e non sanno se arriveranno mai. Ci spinge solo la voglia di ripartire, di volare ancora".

COSÌ LIAIUTIAMO AD INTEGRARSI E LAVORARE

VOGLIAMO SCONFIGGERE I PREGIUDIZI”
intervista a Hamed Mohamad Karim

Non c’è nulla lasciato al caso nell’Africa Experience. Il locale è attraversato da legni intarsiati e intrecciati tra loro che formano la grande chioma di un albero africano, i colori sono accesi come quelli della natura e i disegni alle pareti, firmati dall’artista francese Blandine Hélary, raccontano le migrazioni umane.

Che significato ha questo ristorante per voi?«Vogliamo dimostrare che facciamo del nostro meglio per far capire a chi ha pregiudizi che siamo uguali a voi — spiega Hamed Mohamad Karim, 33 anni, portavoce dello staff formato da 4 donne e 4 uomini e ideatore del format con i soci del primo locale, l’Orient Experience — Lo facciamo per i nostri figli, per le future generazioni e per dare la possibilità di toccare con mano l’Africa. I piatti sono quelli che i ragazzi hanno imparato da soli, lontani da tutti, spinti soltanto dal desiderio di vivere».

L’idea è semplice, ma nessuno ci aveva mai pensato. Si può esportare?
«Magari, è quello che vogliamo. Prendiamo contatti con i centri di accoglienza e offriamo sia un tirocinio in modo che le persone possano imparare l’italiano e socializzare, sia un posto di lavoro se si dimostra che si è capaci, come i tre cuochi che inizieranno a lavorare venerdì. In questo modo si mette in moto una catena positiva».

Come avete scelto i piatti?
«Quando abbiamo coinvolto anche l’Istituto alberghiero si sono incontrati due mondi ed è stato bello perché quando poi si è vicini e si parla si capisce che siamo uguali. Siamo i primi imprenditori considerati stranieri ma che si sentono ormai italiani».

La vostra attività significa molto anche a Venezia, dove su 44 Comuni quasi la metà rifiuta di accogliere i migranti.
«In piccolo l’Africa Experience vuole mettere in luce quello che non si legge quasi mai, ovvero che il dialogo è possibile. Siamo quell’Italia che vorremmo che tutti conoscessero, quell’Italia di chi vuole stare qui nel segno della pace e dell’amicizia, quell’Italia che ci ha dato tanto e che vogliamo arricchire, portando economia e integrazione». ( v. m.)

«». il manifesto, 28 ottobre 2016 (c.m.c.)

Tonino Perna, ragionando su Calais, nei giorni scorsi si domandava da queste colonne «chi invade chi?». Una domanda che merita una risposta articolata, non semplicistica, che in parte lui stesso ha provato a dare. E sulla quale ritengo utile tornare dato che oramai l’assenza di buon senso nel dibattito pubblico sull’accoglienza pare essere l’unico dato di fatto incontrovertibile. Unito, sembra, a una generale ignoranza sulla materia tanto che secondo una recente ricerca del Centro Studi di Confindustria la presenza di cittadini migranti nel nostro Paese appare «sovrapercepita»: da una presenza reale nel 2015 dell’8,2%, la percezione dell’opinione pubblica si attesta al 26%.

C’è dunque una dominanza del mondo dell’opinione su quello della matematica, se la vogliamo mettere così, e ciò non aiuta a trovare soluzioni adeguate a problematiche oggettivamente complesse ma che, al tempo stesso, toccano la vecchia Europa e il nostro Paese solo minimamente. È la stessa Unhcr a dirci che nel 2015 sono stati oltre 65 milioni le persone costrette a fuggire dalle proprie case nel mondo, di cui poco più di 1 milione in Europa e circa 200mila in Italia. Si può parlare dunque di invasione? Di difficoltà nella gestione di grandi numeri? Se entriamo nello specifico dobbiamo registrare che ad oggi, in tutto il Paese, sono poco più di 145mila le persone accolte nelle strutture di accoglienza. E noi siamo 60 milioni. Una percentuale attorno allo 0,24%.

Di nuovo, poco? Tanto? La statistica direbbe insignificante ma, nonostante ciò, il tema accoglienza è considerato il problema per eccellenza. Si è costruito un immaginario secondo il quale se non accogliessimo quelle 145 mila persone questo Paese starebbe meglio. Ci sarebbero pensioni migliori, città più pulite, più lavoro, più servizi sociali, più asili nido. Ma sappiamo, sempre scorrendo i dati e la storia di questo Paese, che non è così.

Dove stanno i problemi allora? Senza voler scomodare la sociologia una prima risposta c’è, concreta e molto matematica: dal 2007 al 2013 questo Paese ha tagliato il fondo per le politiche sociali di quasi l’80%: si è passati da 2 miliardi di euro a 280 milioni senza che nessuno se ne sia accorto. Almeno così pare. Quel fondo alimentava i trasferimenti agli enti locali, oggi – non casualmente – in ginocchio, senza risorse, strangolati dal patto di stabilità e sui quali ricade per intero il peso dell’accoglienza. Tutto ciò nonostante l’apporto dei cittadini migranti sia diventato imprescindibile, come dimostrano tutti gli indicatori economici pubblici e privati.

Ma allora, di nuovo, perché prendersela con i richiedenti asilo? Perché sono il capro espiatorio preferito dalla politica da 25 anni a questa parte e anche perché, in questi anni, lo Stato non è stato in grado di strutturare un vero e proprio sistema di accoglienza (per non parlare di un vero piano sull’immigrazione) degno di questo nome, ma ha preferito, nella migliore delle tradizioni nostrane, la logica emergenziale per gestire un fenomeno epocale. La responsabilità sta qui e sta nella ‘furbizia’ di quei sindaci (purtroppo tanti) che non si sono assunti la responsabilità di concorrere all’accoglienza, scaricando su quei pochi che lo hanno fatto tutte le problematiche del caso.

Di comuni come Gorino o Capalbio ne abbiamo troppi in giro per il Paese e anche qui la matematica può chiarire meglio di tante parole: se ciascuno degli 8003 comuni italiani avesse dato il suo piccolo contributo oggi quelle 145 mila persone sarebbero accolte in piccoli nuclei da 18 (la famosa accoglienza diffusa), che si tratti di Gorino o di Milano. E con una semplice operazione perequativa potremmo gestire il tutto con più serenità e maggiore capacità d’integrazione.

Sarebbe un paese forse meno accattivante per media e classe politica in generale – che invece preferiscono le invasioni barbariche – ma forse più efficace nell’affrontare con serietà i problemi del nostro tempo e del nostro Paese.

Anche a sinistra dobbiamo avere il coraggio di prendere questa strada, riportando il tutto alla realtà. Senza giustificazionismi di sorta che assomigliano sempre più a una resa culturale all’egoismo e al razzismo.

«Il sindaco del comune emiliano e il collega di Ferrara: disponibili ad accogliere, ma lo Stato non sequestri spazi. La Lega: eroi i rivoltosi». La Repubblica 27 ottobre 2016 (c.m.c.)

Gli uomini sono tornati in mare, i bimbi a scuola, le barricate non ci sono più. Ma i pezzi di comunità da rimettere assieme sono tanti. Si cerca il dialogo adesso a Gorino, il paese che lunedì notte ha respinto un bus con a bordo dodici profughe per impedire che venissero ospitate in ostello. I sindaci di Goro e Ferrara stanno lavorando per fare incontrare i cittadini e le migranti, che lanciano un appello: «Non abbiate paura di noi». Ma intanto questa vicenda potrebbe costare il posto al prefetto Michele Tortora, che ora rischia il trasferimento.

«Non appena le acque si saranno calmate, vorremmo organizzare un incontro tra le ragazze e gli abitanti del paese» spiega il primo cittadino di Ferrara e presidente della Provincia Tiziano Tagliani, che in queste ore è in contatto con il collega di Goro Diego Viviani per trovare una mediazione. «I miei concittadini – scandisce quest’ultimo - sono disponibili ad accogliere i profughi, ma con un coinvolgimento diverso da parte dello Stato, senza nessun sequestro improvviso di altri alloggi e venendo informati ».

Pronte a parlarsi e guardarsi in faccia anche le migranti che erano sul pullmino respinto dai goresi: quattro di loro ora vivono in una casa famiglia di Codigoro, a venti chilometri dalle barricate. «Avere paura degli immigrati capita ovunque, ma la gente di qui non ha nulla da temere. Possiamo incontrarli per spiegare la nostra storia, così capiranno », sorride Aminatu, 36 anni, della Costa d’Avorio. Lei, per esempio, è partita perché non riusciva più a mantenere i suoi quattro figli dopo che il marito se n’è andato. Sanogo, 19 anni, invece è fuggita per non essere data in moglie a un uomo molto più vecchio. Dosso, seduta accanto a lei, mentre racconta la sua storia scoppia a piangere: «I miei genitori sono morti e io rischiavo la vita, ora sono pronta a fare qualsiasi lavoro». Poi c’è Ebrugbe, 20 anni, viene dalla Nigeria, dov’era stata condannata a morte per omosessualità: «Quando ho visto che il pullman tornava indietro da Goro – racconta - ho pregato che Dio ci aiutasse ».

Lunedì notte, a manifestare contro di lei c’era anche Fausto Gianella, 52 anni, una vita da pescatore con una parentesi da assessore e consigliere comunale. «In presenza del sindaco siamo disponibili a incontrare le migranti per spiegare che nessuno ce l’ha con loro. Ma non chiedo scusa: noi ci siamo ribellati perché ci hanno sequestrato l’ostello, l’unico punto di ritrovo che abbiamo in paese. E perché qui non abbiamo niente. Già prima, se ci avessero detto di ospitare tre o quattro ragazze, probabilmente non sarebbe successo nulla. Ragazze, però». Non c’entra il razzismo? «La giovane che gestisce l’ostello requisito è serba, e l’abbiamo accolta anni fa. Ma quale razzismo? È stato un cortocircuito ».

Le polemiche però non si fermano. Il ministro dell’Interno Alfano assicura che i fatti di Goro «non saranno un precedente ». Nessun arretramento da parte dello Stato, è il messaggio, mentre pare sempre più in bilico il posto del prefetto di Ferrara Michele Tortora: «Le cose – osserva Alfano - si possono sempre gestire meglio o peggio, però quello che si è verificato non è lo specchio dell’Italia».

Immediata la replica di Ap, il “sindacato” dei prefetti: «Tortora non diventi un capro espiatorio». Anche la Lega Nord continua a soffiare sul fuoco: il capogruppo in Regione Emilia-Romagna Alan Fabbri definisce «eroi e non fascisti » i manifestanti di Goro e i sindaci in camicia verde dei comuni colpiti dal terremoto avvertono: «Nessuno si azzardi a imporci l’accoglienza dei migranti ».

«L’inchiesta dello Spiegel rivela che nell’attraversare il Mediterraneo perentrare in Europa più di diecimila persone sono annegate dal 2013 e un sacco dimiliardi sono finiti nelle tasche di una rete di trafficanti che ha le sue basiin Germania, Italia e Libia». Internazionale

È il trafficante diesseri umani più ricercato del mondo. Di lui non esistono fotografie, solol’identikit disegnato per gli investigatori. Mostra un uomo tarchiato con untaglio di capelli corto e preciso. Sembra che sia un etiope sulla quarantina eche sia attivo da dieci anni. Al telefono la sua voce suona cupa e gutturale.Sceglie le parole con cura. All’arabo mescola espressioni inglesi smozzicate.Dopo che una delle sue imbarcazioni è affondata al largo di Lampedusa, il 3ottobre 2013, le sue conversazioni sono state intercettate. Lo si sente parlareirritato di life jackets, giubbotti di salvataggio. “Io non gli ho mai datolife jackets, chiaro?”
Quel 3 ottobre, al largodell’isola siciliana, sono affogate 366 persone che stavano quasi perraggiungere la loro meta, l’Europa. Quando l’ha saputo, l’uomo che avevaorganizzato il viaggio si è infuriato più per il danno alla sua reputazione cheper i morti. “Tanti migranti sono partiti con altri organizzatori e sono finitiin pasto ai pesci”, esclama. “Ma nessuno ne parla”. Solo a lui danno la caccia.Lui: Ermias Ghermay. Da quel “giorno delle lacrime”, come lo ha definito papaFrancesco, nel Mediterraneo sono morti altri diecimila migranti: in media unoogni tre ore. Ma nello stesso periodo circa cinquecentomila persone hannoraggiunto le coste italiane. Questo significa che, nel giro di tre anni, nellecasse dei trafficanti africani sono entrati miliardi di euro.

In questo business dimorte, a dettare le regole sono gli etiopi, i sudanesi, i libici e gli eritrei.L’Eritrea è uno dei paesi più poveri del mondo, una dittatura a partito unicoche l’ong Human Rights Watch ha definito “una gigantesca prigione”. Più di unmilione di eritrei sono fuggiti all’estero. Un mercato enorme per i trafficantidi esseri umani eritrei, molti dei quali gestiscono il business dei profughilungo la rotta centrale, quella che attraversa il Mediterraneo. Come dimostranole intercettazioni telefoniche effettuate dalle procure italiane, gli emissaridei trafficanti a Khartoum, Tripoli, Palermo, Roma e Francoforte fanno parte diuna rete efficientissima. Sparsi lungo il percorso, guidano i loro connazionaliverso nord e incassano milioni di euro.
Colpa del destino
Tra tutti gli africani,gli eritrei sono quelli che presentano il maggior numero di richieste di asiloin Germania, dove parallelamente sta aumentando anche il numero di trafficanti.Come quello di armi e di droga, anche il traffico di esseri umani è ormai unodei business più redditizi della criminalità organizzata ed è finito in granparte sotto il controllo degli eritrei. Il tutto sotto il naso delle autoritàtedesche, la cui passività di fronte a questi sviluppi lascia sbigottiti gliinvestigatori italiani. Lo Spiegel ha svolto le sue ricerche per mesi in Libia,in Italia, a Berlino e a Francoforte. Ha studiato più di mille pagine di attigiudiziari italiani, ha consultato dossier riservati e interrogato i migrantisopravvissuti alla traversata. Da questo lavoro è emersa un’immagine più chiaradei trafficanti di esseri umani, che sono disposti ad accettare la morte dimigliaia di persone, sequestrano i profughi e li vendono come bestie.

Uno deipiù famigerati esponenti di questa categoria è Ermias Ghermay. La sede dell’unitàspeciale Tarik al Sika si trova sull’omonima strada nel centro di Tripoli, lacapitale della Libia. È qui che viene coordinata la lotta a Ghermay e aglialtri trafficanti. Finora nessuno straniero aveva mai avuto accesso a questastruttura. Per entrare nel cortile bisogna passare una porta d’acciaio. Asinistra ci sono gli unici degli investigatori e delle forze speciali, a destrale celle. La Tarik al Sika è un’unità di élite che si occupa d’individuare itrafficanti di esseri umani e gli esponenti delle milizie estremiste. Inconfronto al caos che ormai è la norma in Libia, qui regna l’ordine. Allaparete sono affissi i turni di servizio. I dossier delle operazioni sono classificatie organizzati in raccoglitori.

Il capoturno Hussam (ilcognome non lo rivela per motivi di sicurezza) non indossa l’uniforme, ma jeanse maglietta. Porta la barba secondo l’uso della coalizione Alba libica:accuratamente rasata a formare un semicerchio che va da un orecchio all’altrosotto il labbro inferiore. I suoi capelli sono legati in una coda.“Sappiamo dove sinascondono Ermias e i suoi uomini, conosciamo quelli con cui lavorano eseguiamo i loro spostamenti”, dice Hussam. Poi tira fuori un dossier e legge: fino al 2015 Ghermay ha vissuto a Tripoli in un quartiere popolatoprevalentemente da migranti africani e noto per essere un centro di smistamentodi droga, armi e alcol. Hussam spiega che la sua unità ha fatto irruzione duevolte nell’appartamento di Ghermay, che però è riuscito a scappare in entrambii casi: ora il trafficante risiede a Sabrata, sulla costa occidentale dellaLibia, protetto da guardie armate fino ai denti. Purtroppo, spiega Hussam, leautorità libiche non hanno abbastanza uomini e armi per affrontarlo lì. Molti trafficanti diesseri umani si vantano di avere ottimi rapporti con la polizia libica esostengono di poter tirare fuori di prigione chiunque semplicemente pagando gliagenti. Hussam ammette che queste cose in Libia succedono davvero, ma non nellasua unità.
“Ghermay è un etiope conpassaporto eritreo e va in giro in jeans e maglietta per non dare nell’occhio”,racconta Yonas, un ex intermediario del trafficante. Qualche mese fa la Tarikal Sika lo ha arrestato alla mensa dell’ambasciata eritrea a Tripoli, dovelavorava. Da allora Yonas (uno pseudonimo per nascondere la sua identità)collabora con le forze speciali libiche, che lo hanno usato come testimone.Yonas ha dichiarato che per ogni eritreo che passava Ghermay incassava circa 30euro, e che a bordo del barcone affondato al largo di Lampedusa c’erano anchepersone mandate da lui.

La notte dopo ilnaufragio, racconta Yonas, “Ghermay ha fatto passare sotto la portadell’ambasciata Eritrea la lista dei passeggeri, in modo da avvisare iparenti”. Nelle intercettazioni telefoniche Ghermay si vanta di questo gesto: iparenti delle vittime, in prevalenza eritrei, sono stati “informati”tempestivamente. Queste cose fanno bene agli affari. “Subito dopo ladisgrazia”, racconta Yonas, “gli ho telefonato e gli ho detto di venire allamensa. Volevo che risarcisse le famiglie delle persone annegate. Lui è venutoall’appuntamento, ma ha rimborsato solo il prezzo della traversata”.
In una telefonata a untrafficante Sudanese Ghermay dice che se i profughi sono morti è colpa loro:non hanno seguito le sue istruzioni e hanno stupidamente fatto capovolgere ilbarcone. Ghermay ha la coscienza a posto: “Ho seguito le regole, ma loro sonomorti lo stesso. Si vede che era destino”. Il sudanese concorda: “Non si puòfare appello contro il giudizio di Dio”.
Collaborazione redditizia
Le rovine dell’anticoteatro di Sabrata si vedono da molto lontano. Dichiarate patrimoniodell’umanità dall’Unesco, sono la testimonianza dello splendore raggiuntodall’impero romano sotto il filosofo Marco Aurelio. Oggi questa cittàmillenaria è uno degli snodi della criminalità internazionale e un centro dismistamento delle ricchezze guadagnate grazie al traffico di esseri umani. Daqui passa la maggior parte dei migranti provenienti dall’Africa subsahariana, eda qui partono molte delle imbarcazioni dirette in Italia. Quando arrivano aSabrata i migranti hanno già affrontato un viaggio di migliaia di chilometri.Gli eritrei che sono riusciti a raggiungere il Sudan orientale passando perl’Etiopia pagano ino a seimila dollari per poter proseguire dalla capitalesudanese Khartoum ino alla costa mediterranea della Libia. Per quasi tutti, ilviaggio è una sofferenza. Molti sono sequestrati nel Sahara, rinchiusi esottoposti a maltrattamenti sistematici, finché i familiari non mandano i soldiper la tappa successiva.

Fanos Okba, 18 anni,sopravvissuta al naufragio di Lampedusa, è stata violentata in uno di questicampi di prigionia. “Eravamo costretti a stare in piedi tutto il giorno mentresotto i nostri occhi gli altri migranti venivano torturati in mille modi:scosse elettriche, colpi sulle piante dei piedi”, racconta. “Ad alcuni venivalegata una corda intorno al collo e alle gambe, in modo che al minimo movimentosi strangolavano”.

Per porre fine a queitormenti, i parenti devono versare denaro su conti bancari in Sudan, in Israeleo a Dubai, oppure con l’hawala, un sistema di trasferimento molto usato inMedio Oriente. È un sistema che si basa sulla fiducia: una persona riceve unasomma e un’altra versa la stessa cifra al destinatario in un’altra parte delmondo. Dopo che il denaro è arrivato a destinazione la famiglia del migrantericeve un codice, che dev’essere mandato al cellulare dei trafficanti. Soloallora il viaggio verso nord può continuare.

Una volta arrivati sullacosta libica, i clienti di Ghermay vengono nuovamente rinchiusi, di solito inqualche magazzino a Sabrata o alla periferia di Tripoli. Per facilitare lacontabilità i migranti ricevono un numero d’identificazione un po’ come succedenel commercio del bestiame. Secondo le carte degli inquirenti italiani, Ghermayintrattiene “contatti diretti con trafficanti nell’Africa subsahariana”. Inquesto modo riesce a “comprare carichi” da altri trafficanti “per aumentare iprofitti”.
I luogotenenti diGhermay, che si fanno chiamare “colonnelli”, impongono una disciplinaseverissima. Tenere i migranti nei magazzini costa: per questo chi non è ingrado di pagarsi subito il passaggio verso l’Italia viene picchiato etorturato.

Tutto questo succede inun paese a cui ad aprile l’Unione europea ha offerto un
pacchetto di aiuti delvalore di cento milioni di euro. Succede mentre le navi dell’operazione europeaSophia operano così vicino alle coste libiche che i trafficanti riescono aportare a destinazione i loro carichi spendendo una miseria: bastano un barconemalconcio, pochi litri di gasolio e un telefono satellitare per fare lachiamata d’emergenza. Gli investigatori della Tarik al Sika non riescono asmantellare l’organizzazione di Sabrata perché i trafficanti e le potentimilizie locali lavorano a stretto contatto. I miliziani hanno bisogno di denaroe i trafficanti di protezione: una collaborazione redditizia per entrambe leparti. E il mercato promette bene: di recente l’inviato speciale delle NazioniUnite Martin Kobler ha dichiarato che sulle coste libiche 235mila personeaspettano di partire per l’Italia.

Secondo gli investigatorilibici, Ghermay si è stabilito in un quartiere vicino alla torre idrica diSabrata. “Si sposta da una città all’altra”, spiega il maggiore Bassam Bashir,che dirige l’unità incaricata d’indagare sul traico di migranti nella città.“Le nostre fonti indicano che è qui”. Di recente l’amministrazione cittadina haavvisato che l’obitorio comunale non può più accettare cadaveri di stranieri:l’edificio è troppo piccolo per contenere i corpi di tutti i migranti africaniritrovati sulle spiagge di Sabrata. A luglio sono stati più di 120 e, secondoil sindaco, in un solo giorno ne sono stati trovati 53. Bashir conferma cheGhermay non è l’unico trafficante che vive a Sabrata: c’è anche un imprenditorechiamato Mosaab Abu Grein. Secondo gli inquirenti di Tripoli, è lui il vero redel traffico di esseri umani in Libia. Gli abitanti del posto dicono che AbuGrein ha 33 anni e due figli maschi, è una persona rispettabile e ha un’ottimareputazione, almeno ufficialmente. Sulla sua testa non pende nessun mandato dicattura internazionale ed è il proprietario dello stabilimento balneare piùgrande di Sabrata, ma ha scelto di non rispondere alle accuse degli inquirenti.Un suo ex complice, che ora collabora con le autorità, afferma che solo nel2015 Abu Grein avrebbe fatto arrivare clandestinamente in Europa 45milapersone, quasi un terzo del totale. A quanto pare anche prima della caduta diMuammar Gheddafi il ricco imprenditore aveva ottimi rapporti con la mafiaitaliana e un ruolo di primo piano nel traffico di esseri umani. Secondo gliinquirenti, oggi Ghermay gestisce gli affari di Abu Grein con l’Etiopia,l’Eritrea e il Sudan. Quando gli chiediamo se le autorità europee sono aconoscenza delle indagini dei loro colleghi libici, Hussam scuote il capo. “Voieuropei non fate che lamentarvi dei migranti che vengono dall’Africa”, dice,“ma nessun procuratore italiano o tedesco è mai venuto a Tripoli a chiederecosa succede qui”.
Testimone chiave
Ha il viso largo e gliocchi neri e porta una collana di perline di plastica: secondo il mandatod’arresto spiccato dalle autorità italiane, Atta Wehabrebi intratteneva“rapporti diretti con i trafficanti di esseri umani in Libia, compreso ErmiasGhermay”. Il procuratore Calogero Ferrara sostiene che Wehabrebi è un“testimone chiave”. Ferrara, abbronzato e con un sigaro in bocca, è orgoglioso.È qui nel suo ufficio di Palermo che Wehabrebi ha parlato per la prima volta,nell’aprile del 2015. Le dichiarazioni dell’eritreo, dice Ferrara, sonopreziose come quelle dei capi mafiosi pentiti.

Ferrara lavora per la squadraantimafia della procura di Palermo. Ogni mattina, quando raggiunge il suo ufficioal secondo piano del palazzo di giustizia, passa davanti a una targa checommemora alcuni dei suoi predecessori assassinati. In questo edificiolavoravano anche i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, uccisi nel1992. “In Italia ci sono tante cose che non funzionano”, dice Ferrara, “ma dilotta alla criminalità organizzata qualcosa ne capiamo”. Secondo gli inquirentisiciliani i crimini dei trafficanti di esseri umani richiedono misure drastichecome quelle adottate contro la mafia.

La giustizia italiana consente agliinvestigatori di usare intercettazioni telefoniche e riprese video. I testimonichiave sono trattati con generosità e godono di programmi di protezione. Finorala procura di Palermo ha condotto tre operazioni – Glauco 1, 2 e 3 – persmantellare le cellule della rete di Ghermay. Sono stati emessi 71 mandati dicattura. Nell’ultima grande operazione, a giugno, due terzi dei 38 arrestatierano eritrei. Ci sono già state delle condanne, tra cui quella di Wehabrebi,che ora vive sotto protezione. “Tutto ciò che sappiamo su questa rete lodobbiamo a lui”, spiega Ferrara. Wehabrebi è arrivato in Libia dall’Eritreaquando aveva 13 anni, e a Tripoli viveva nella stessa strada di Ghermay, in unquartiere borghese. Ai tempi di Gheddafi gestiva un bar dove i migranti sifermavano prima di cominciare la traversata del Mediterraneo. Wehabrebi sifaceva dare i soldi e li mandava ai trafficanti. Nel 2007 Wehabrebi è arrivato inItalia e ha deciso di mettere a frutto i suoi contatti con i capi del trafficodi esseri umani. Ha scalato le gerarchie e, secondo il mandato di cattura, èdiventato “uno dei boss e dei fondatori” dell’organizzazione criminale, insiemea Ghermay e a un sudanese di nome John Mahray. Wehabrebi era responsabile delleattività in Italia e si occupava di far proseguire verso nord i migrantisbarcati in Sicilia. Doveva farli partire prima che le autorità italianepotessero prendergli le impronte digitali. Senza impronte è difficilerintracciare i migranti: le autorità tedesche non possono ricostruire chiproviene da dove.

Anche se non aveva lapatente, Wehabrebi accompagnava in auto alcuni dei migranti in Germania e perfinoin Scandinavia: un gioco da ragazzi in un’Europa senza controlli allefrontiere. Altre volte se ne occupavano i suoi complici, che partivano da Bolognaalle nove di sera diretti a Rosenheim, nel sud della Germania. “Alle sei di mattinasei già tornato e hai guadagnato mille euro”, gli diceva Wehabrebi. “Se itedeschi ti fermano, di’ che non conosci la gente che hai in macchina, e ilgiorno dopo sei libero”. Secondo Wehabrebi, un business particolarmente redditizioera quello del commercio di documenti falsi. Racconta che alcuni dei suoicomplici eritrei avevano chiesto in cinque diverse prefetture italiane ilricongiungimento familiare per cinque diverse mogli che dicevano di aver lasciatoin Eritrea. Con questo stratagemma le donne, che ricevevano il visto dientrata, si risparmiavano la pericolosa traversata via mare ma dovevano pagarefino a 15mila dollari per il finto matrimonio. Secondo Wehabrebi tutto questosistema funziona anche perché le prefetture italiane non incrociano i dati traloro.

Gli italiani possonopermettersi di essere negligenti. Anche se solo nel 2015 più di 38mila eritreisono arrivati illegalmente in Italia il numero di eritrei è calato del 30 per centorispetto al 2011 fino agli attuali 9.600. Ogni anno decine di migliaia dieritrei sbarcati in Italia proseguono verso la Svizzera, la Svezia o laGermania. Tra loro ci sono moltissimi disperati, ma anche ricchi trafficanti. SecondoFerrara le autorità tedesche sono a conoscenza di questo traffico grazie aEurojust, l’unità di cooperazione giudiziaria dell’Unione europea, ma sembrache la cosa le lasci indifferenti. “Noi italiani svolgiamo indagini, emettiamomandati di cattura e chiediamo riunioni di coordinamento. Abbiamo documenti dacui risulta che la rete ha contatti con la Germania”. Ferrara dice di avermandato ai suoi colleghi in altri paesi dell’Unione quarantamila trascrizionid’intercettazioni telefoniche attraverso l’Europol. Il procuratore ha chiesto aiutoper individuare i vari legami all’interno della rete criminale. I britannici,gli svedesi e gli olandesi hanno valutato i dati e hanno avviato delle indagini,racconta, “ma i tedeschi non hanno fatto niente. Non sembravano troppo interessati.A una delle riunioni di Eurojust hanno mandato una praticante. Li ho sentitidire cento volte la frase: ‘Siamo pronti ad aiutare i colleghi italiani’, eonestamente non ne posso più”.
Arroganza o ingenuità?Ferrara propende per quest’ultima: “Mi ricorda un po’ le mie indagini sulla mafia.Anche in questo caso i tedeschi tendono a dire: ‘La mafia? Da noi non esiste’.Chiudono gli occhi davanti alla realtà, anche se gli abbiamo fornito prove sufficienti”.Gli inquirenti tedeschi sostengono di essere stati informati troppo tardi. Gliitaliani avrebbero condiviso i risultati delle indagini solo dopo che leoperazioni Glauco 1 e 2 erano terminate. E le differenze strutturali tra ilsistema tedesco e quello italiano avrebbero complicato il tutto.
L’eccezione tedesca
Un cordiale signore cheha il suo ufficio vicino alla cattedrale di Palermo si mostra particolarmentecritico nei confronti dei tedeschi. Si chiama Carmine Mosca e dirige un repartospeciale per la lotta contro il traffico di esseri umani istituito presso lasquadra mobile della polizia italiana. A giugno Mosca è andato a Khartoum persupervisionare l’estradizione di un trafficante. Loda la collaborazione con laNational Crime Agency britannica, che ha contribuito alla cattura del sospetto,e con le autorità olandesi, che ascoltano sempre le richieste italiane. Maquando si parla dei tedeschi trattiene a stento la rabbia. Non sarebbe troppodifficile arrestare gente come Ghermay, dice Mosca, ma i suoi uomini devonosuperare ostacoli inutili. Per esempio, normalmente una nave che partecipaall’operazione Sophia attracca in un porto della Sicilia con centinaia dimigranti a bordo. “Noi andiamo lì e indaghiamo”, dice Mosca. “Chiediamo chisono i trafficanti e i contatti telefonici in Libia per poterli mettere sottocontrollo. Quasi tutti gli equipaggi, irlandesi, spagnoli o norvegesi, sono benorganizzati e collaborativi”. L’unica eccezione sono i tedeschi.

Una volta lafregata Hessen è arrivata con un carico di migranti: “Gli ufficiali non cihanno neanche lasciato salire a bordo. Non ci hanno dato nessuna informazione.Non abbiamo catturato neanche un trafficante”, dice. Tutto ciò nonostante Moscaavesse con sé tre procuratori italiani: anche loro sono stati respinti daitedeschi. “Siamo in Italia, ci portano dei migranti e non ci lasciano neanchesalire a bordo per capire com’è andato il salvataggio”, dice Mosca. Quandoabbiamo contattato il comandante della Hessen, ha risposto di non ricordarenessun caso in cui sia stato negato alle autorità italiane di salire a bordo.Il ministero della difesa tedesco afferma che a metà del 2015 “non c’era ancoranessun mandato per combattere i trafficanti nel Mediterraneo” e che, nel corsodelle operazioni congiunte, l’accesso a bordo è sempre consentito “senecessario”. In Sicilia è diventato impossibile ignorare le conseguenzedell’arrivo di migliaia di sopravvissuti ai naufragi. Basta seguire le tracceche Wehabrebi ha fornito agli inquirenti. Per esempio a Palermo, nel vicolosanta Rosalia. Qui, in un bar come gli altri, i trafficanti hanno tenuto i lorocarichi di esseri umani fino a luglio, quando c’è stata una retata. Oggi igiovani guardano in strada con gli occhi vitrei e le guance gonfie di qat, unadroga molto comune in Africa orientale.

A Roma gli eritrei hanno la loro basenel palazzo Selam, un edificio in vetro che ospitava la Facoltà di lettere e filosofiadell’università Tor Vergata e ora offre riparo a circa duemila migranti. Duedei trafficanti ricercati a giugno erano domiciliati qui, altri presso ilcentro per i rifugiati dei gesuiti.
Dietro la porta verde divia degli Astalli 14 i religiosi non offrono solo pasti caldi: i migranti senzaissa dimora possono usare il loro indirizzo per presentare la richiesta di asiloo di un permesso di soggiorno. Dei 38 mandati di cattura emessi all’internodell’operazione Glauco, tre sono stati recapitati ai gesuiti. Wehabrebi, che quandofaceva il trafficante viveva a Roma in un palazzo borghese con vista sui colliAlbani, ha fornito anche altre informazioni durante il suo interrogatorio didieci ore. Una parte delle sue dichiarazioni è ancora secretata. “Stiamo giàpreparando l’operazione Glauco 4”, dice Ferrara. “Stavolta ci occupiamo dei flussi di denaro. Abbiamo chiesto la collaborazione dei servizi d’intelligence.Anche qui vale il motto del giudice Falcone: ‘Segui la pista dei soldi’”.

Per capire dove finisconoi milioni raccolti dai trafficanti bisogna cercare Mana Ibrahim, la moglie diGhermay. Secondo Wehabrebi ha fatto richiesta d’asilo in Germania: “Vive vicinoa Francoforte. Tutto il denaro guadagnato da Ghermay è in Germania”. La procuradi Palermo sostiene di aver trasmesso le informazioni sulla moglie di Ghermayai colleghi tedeschi, ma in Germania nessuno sa niente di Ibrahim. La procuradi Francoforte spiega che la città è indubbiamente “uno dei nodi nella rete deitrafficanti eritrei”, e che ultimamente sono stati aperti “tra i 10 e i 15procedimenti” al riguardo. L’ufficio che si occupa di criminalità organizzataavrebbe indagato più volte sul traffico di stranieri, ma finora sono statearrestate solo persone di secondo piano. Gli inquirenti di Palermo sostengonoche diversi grossi trafficanti dell’organizzazione di Ghermay sono ancora apiede libero in Germania, nonostante sul loro capo penda un mandato di cattura.Già negli anni scorsi esponenti di primo piano della rete dei trafficanti sonostati ricercati in Germania solo su richiesta delle autorità italiane. Tra loroc’è Measho Tesfamariam, considerato responsabile di una traversata avvenuta nelgiugno del 2014 e terminata con la scomparsa di 244 migranti. In seguitol’eritreo è arrivato in Germania e ha chiesto asilo. Nel dicembre del 2014 gliinquirenti lo hanno trovato a Müncheberg, nel Brandeburgo. Un altro esempio è YonasRedae, una figura di primo piano della rete che opera in Sicilia, arrestato afebbraio a Göttingen, dove viveva dopo aver fatto richiesta di asilo. OppureMulubrahan Gurum, tesoriere di una delle organizzazioni più potenti, che ino alsuo arresto nell’agosto del 2015 ha vissuto a Worms.
In Italia sono statepresentate denunce per stupro, lesioni personali, violazione di domicilio efurto contro Gurum, che ha negato tutte le accuse. Ha fatto richiesta d’asilo inGermania con il suo vero nome. Quando sulla sua scrivania è arrivata unarichiesta di estradizione, il procuratore capo di Coblenza, Mario Mannweiler, hapensato che fosse un normale caso di collaborazione amministrativa. Tra lemotivazioni si leggeva: “Appartenenza a un’associazione criminale”. Ma leprocure tedesche, dice Mannweiler, sono sovraccariche di lavoro: “Non è faciletrovare qualcuno che s’interessi al caso e sia disposto a scavare più a fondo”.Quindi i tedeschi preferiscono chiudere gli occhi sui criminali che arrivanonel loro paese attraverso la Libia e l’Italia? O è colpa delle leggi tedesche?In Italia appartenere alla mafia è di per sé un reato penale, in Germania no:prima di arrestare qualcuno bisogna dimostrare che abbia commesso un crimine. ABerlino un agente dell’intelligence tedesca ammette: “Siamo molto preoccupatiper l’alto numero di profughi non censiti presenti in Germania. Siamo ancheallarmati dalla cooperazione fra trafficanti, milizie e gruppi estremisti nelSahara”. La stessa fonte riferisce che ci sono cellule del gruppo Statoislamico in città come Tripoli e Sabrata, dove sembra che viva Ghermay.L’Unione europea spera che la crisi dei profughi possa essere risolta con isoldi. Il cosiddetto processo di Khartoum, lanciato nel 2014 per favorire lacollaborazione tra Unione europea e paesi di transito e di origine deimigranti, dovrebbe fornire aiuti finanziari ai paesi dell’Africa orientale eagli altri stati attraversati dalle rotte dei migranti. Tra i beneficiari c’èanche il dittatore sudanese Omar al Bashir: anche lui dovrebbe ricevere milionidi euro da Bruxelles. Un piano d’azione europeo prevede di rafforzare leistituzioni e il personale dell’Eritrea, il cui governo è accusato da Amnesty Internationald’infliggere un “trattamento crudele, disumano e degradante” a chiunque osimetterlo in discussione. Ma per fermare l’esodo degli eritrei non basteràun’iniezione di denaro. A Francoforte esistono già una comunità religiosaeritrea e una etiope e un consolato eritreo, e intorno alla stazione ci sonobar e ristoranti dove si ritrovano gli eritrei. Uno di loro racconta di averconosciuto Ghermay a Khartoum grazie a un amico che fa parte del giro dei trafficanti.“Come molti trafficanti, in autunno Ghermay si trasferisce in Sudan e frequentale cerchie più elevate”, racconta il ragazzo. Secondo lui nella maggior partedei casi cercare di coinvolgere i governi africani nella lotta ai trafficanti èassurdo: “In Sudan i generali in uniforme trattano Ghermay come un amicostretto. È sotto la loro protezione e quando torna in Libia è protetto dailibici”. Nel cimitero situato poco lontano dalla città di Zawiya, in Libia, le filedi mucchietti di sabbia sembrano infinite. I migranti senza nome che il mare hatrascinato a riva hanno tombe senza lapidi, solo con dei mattoni bianchi. Sonocentinaia, forse mille. Pochi chilometri più avanti un gruppo di uomini dellaguardia costiera di Zawiya osserva il mare. Il loro portavoce, che chiamanocolonnello Naji, si sforza di essere all’altezza del suo nuovo ruolo diresponsabile della lotta al traffico di esseri umani.

Dal 30 agosto le squadrecome la sua sono addestrate dall’Unione europea. Quando avvistano un barconecarico di migranti hanno il compito di riportarlo a riva. Ma è difficilestabilire da che parte stiano questi uomini. I migranti dicono che la primadomanda che gli fanno è: “Di chi siete?”. Come dire: quale trafficante avetepagato? In base alla risposta decidono se il barcone può proseguire verso lenavi dell’operazione Sophia o se invece sarà rimorchiato a riva. Sembra che certitrafficanti siano in buoni rapporti con la guardia costiera, e altri invece noncurino abbastanza questi contatti.
Naji è contento che laGermania aiuti i suoi uomini nella lotta contro i trafficanti.
Ma ha un consiglio pergli amici del nord: “Dovete cambiare le vostre leggi. I trafficanti vi usanocome dei tassisti che vengono a prendere i loro clienti davanti alle coste libiche,in tutta sicurezza e senza chiedere un soldo”.
Il servizio di Der Spiegel è firmato da Alexander Bühler, Susanne Koelbl, Sandro Mattioli e Walter Mayr
«Si tratta di un movimento sinistro che sta montando nel ventre d’Europa contro gli stranieri. La xenofobia può erompere nei villaggi, ma le sue motivazioni ultime sono da cercare nelle metropoli globalizzate e nelle roccaforti del potere politico e finanziario».

il manifesto, 27 ottobre 2016


La rivolta del paesotto del Ferrarese contro dodici donne e otto bambini è stata definita dalla curia una «notte ripugnante». Non si potrebbe chiamare altrimenti. Bisognerebbe andare a vedere con che faccia questa brava gente di Gorino, o come diavolo di chiama il villaggio, andrà a messa, domenica prima di pranzo, e confesserà qualche peccatuccio o toccatina e farà la comunione e se ne tornerà a casa a divorare un bel piatto di lasagne. Abbiamo paura! Ecco il grido rituale che risuona da venticinque anni nel regno di Padania, aizzato da politicanti con la bava alla bocca e giornalacci scandalistici.

Paura di dodici donne, tra cui una incinta, e otto bambini? Eh già, ma poi arrivano i padri, i mariti, i fratelli e con loro i criminali, gli imam e poi i tagliagole dell’Isis… Come no. Una ventina d’anni fa i sociologi scrivevano che i migranti delinquono perché sono senza famiglia, allo sbando. Se invece le famiglie si riuniscono, dilaga la poligamia. Se arrivano uomini, sono potenziali terroristi. Se arrivano le donne, sono avanguardia di un’invasione. Se tutti questi difensori ringhianti del campanile e dell’orto di casa avessero il coraggio di dire che provano disgusto per neri, marocchini, siriani e qualsiasi altro alieno perché è alieno, punto e basta, tutto sarebbe più onesto e più semplice.E invece no, mica sono razzisti, loro. Hanno paura.

Ma avranno provato a immaginare la paura di quelle donne e quei bambini quando, sopravvissuti a deserti e tempeste, venivano sballottati tra autobus e caserme dei carabinieri?

Certo, tutti a singhiozzare davanti al corpicino della bambina su una spiaggia turca. Però, che questi orrori restino là, a qualche migliaia di chilometri dai nostri paesini operosi, o sulle remote spiagge di Sicilia, perché qui non li vogliamo, i loro bambini. E così, grazie alle mitologie della paura, la parola “profugo”, che significa una persona che fugge, una vittima, è diventata sinonimo di minaccia. Di fronte alla quale, chiunque si barrica in casa e afferra, per ora solo metaforicamente, lo schioppo.

Qualche giorno fa, un giornale tedesco, e nemmeno troppo di sinistra, davanti all’ennesima manifestazione dei partiti xenofobi (Pegida, Afd ecc.), si è chiesto con un gran titolo: “Ma i tedeschi sono idioti?” E ha risposto: sì, i cittadini che manifestano sono idioti, la polizia è brutale e i politici sono entrambe le cose. Se consideriamo la situazione europea, dall’Egeo alla Manica, dal mare del nord al Mediterraneo, dovremmo ammettete che l’idiozia dilaga, nelle forme più creative e pittoresche. Il filo spinato macedone, i muri di Orbàn, il cattolicesimo ultra-reazionario e iper-nazionalista polacco, le rivolte in Sassonia contro i profughi, il referendum svizzero contro i comaschi, la chiusura del campo di Calais, il Brexit contro gli operai polacchi. Dico idiozia perché quasi tutte queste decisioni o proteste si ritorcono alla lunga contro chi le promuove. L’Europa si sta decomponendo e questo non faciliterà la vita nemmeno agli elettori di Orbàn, né agli xenofobi sassoni, né ai pensionati di Gorino. E tantomeno ai furbissimi inglesi che hanno votato contro l’Europa e ora rischiano, nell’acre soddisfazione dei continentali, di andare alla deriva con la loro isola sempre più ridimensionata.

Ma in realtà non si tratta di idiozia, tranne che in alcuni casi di leader politici. Si tratta di un movimento sinistro che sta montando nel ventre d’Europa contro gli stranieri, ingrossato anche da anziani, soggetti socialmente deboli e diseredati, che scaricano su quelli che non conoscono la disoccupazione, la precarietà, la frustrazione, la solitudine o la mancanza di prospettive. E questo è un frutto avvelenato, potenzialmente letale, del cedimento dei governi, socialdemocratici in testa, alla voracità delle banche, dei cosiddetti mercati e del capitalismo globale.

La xenofobia può erompere nei villaggi, ma le sue motivazioni ultime sono da cercare nelle metropoli globalizzate e nelle roccaforti del potere politico e finanziario.

». il manifesto, 26 ottobre 2016 (c.m.c.)

Se dovessi lasciare la tua casa in una notte cosa porteresti? Se le uniche opzioni fossero il fuoco di un cecchino o un destino da scudo umano cosa sceglieresti? Domande a cui nessuno di noi è costretto a pensare, ma che sono i dubbi martellanti di un milione e mezzo di persone. È il dramma di Mosul, stretta tra la prospettiva della battaglia finale e una fuga fatta di campi minati e campi profughi.

Fuggono in pochi dalla città, sotto l’assillante controllo dello Stato Islamico intenzionato a difendere ad ogni costo la sua roccaforte. Qualcuno ce la fa: secondo l’Onu sarebbero 6mila i civili scappati dalla periferia di Mosul, con peshmerga e truppe governative a 5 km dalla città.

Dove vanno? I timori delle organizzazioni umanitarie oggi sono cruda realtà: non c’è posto per gli sfollati in un paese che in due anni ne ha accumulati quasi 4 milioni su 33, il 12% della popolazione. Ma bisognosi di assistenza, dopo decenni di guerre globali, sono molti di più: secondo l’Onu, oltre 8.5 milioni necessitano di cure mediche, 6.6 di acqua, 2.4 di cibo.

Di campi fuori dalla città di Mosul ne sono stati messi in piedi pochi perché le risorse mancano. «Stiamo mobilitando risorse importanti per fornire aiuti gli sfollati. C’è grande incertezza intorno alla situazione militare. La protezione dei civili è l’elemento più importante di questa operazione», è il commento di Filippo Grandi, alto commissario Onu ai rifugiati.

L’Unhcr ha aperto 5 campi per 45mila persone e ne ha pianificati altri 6 per un totale di 120mila sfollati. Fornirà anche 50mila kit per costruire rifugi d’emergenza per altre 30mila persone, ma il problema restano i fondi: il budget dell’agenzia Onu per Mosul richiederebbe quasi 200 milioni di dollari ma al momento solo il 38% è stato finanziato. Da tempo l’Onu soffre per carenza di fondi, promessi dagli Stati membri ma versati solo in minima parte: è stato donato solo il 58% dei 861 milioni chiesti per l’Iraq.

Ma l’inverno è vicino e la convinzione è che la battaglia sarà lunga. E allora dove si va? A Baghdad è impossibile, la capitale è lontana e off limits per i sunniti. A Erbil lo stesso: dopo l’iniziale politica delle porte aperte, le autorità kurde hanno sigillato i confini e entra solo chi ha uno sponsor. O sei kurdo o sei cristiano.

E allora si scappa verso ovest, la frontiera con la Siria, un’altra trappola. Subito oltre il confine, in territorio siriano, c’è il campo di al-Hol. Zona rossa: qui gli scontri sono quotidiani, tra combattenti peshmerga da un lato e kurdi siriani dall’altro e miliziani islamisti che tentano la via della fuga o l’ultima carta, l’attentato suicida. Da 10 giorni centinaia di iracheni sono bloccati qui, senza poter raggiungere al-Hol, già strabordante di profughi siriani. Solo 912 iracheni sono riusciti a passare ma di posto non ce n’è.

I funzionari dicono agli sfollati di aspettare: devono controllare che tra loro non ci siano infiltrati. Le famiglie attendono sotto il sole ancora cocente di ottobre e usano coperte per ripararsi dal caldo di giorno e dal freddo di notte. Il loro numero aumenterà: è possibile che a breve saranno 100-200mila gli iracheni che tenteranno di raggiungere la Siria, un paese – se possibile – ancora più devastato. Cinque milioni di siriani sono profughi all’estero, altri 7 sfollati all’interno. Metà della popolazione non vive più nella propria casa, nella propria comunità.

Gli occhi di tutti sono oggi concentrati su Aleppo, ma qui la fuga di massa è stata precedente alla battaglia di questi ultimi mesi: ora andarsene è quasi un sogno. Dai quartieri est non si esce, vuoi per timore delle rappresaglie del governo vuoi per i missili delle opposizioni. Se vivi ad Aleppo, poi, l’unica via di fuga concreta è il confine turco, ma è sigillato: le pallottole della gendarmeria di Ankara hanno ucciso decine di rifugiati, ricordando ai siriani che non sono i benvenuti.

Chi è già dentro, 2.2 milioni di persone che guardavano all’Europa, vivono in condizioni miserabili. Condizioni alimentate, di nuovo, dall’Occidente: se da una parte la Ue paga profumantamente il presidente Erdogan perché non faccia passare nessuno, dall’altra le multinazionali fanno affari sul lavoro sottopagato di chi ha poca scelta.

La denuncia è nel rapporto dell’organizzazione britannica Business and Human Rights Resource Center: molti marchi europei d’abbigliamento sfruttano indirettamente i rifugiati siriani ignorando «abusi endemici» in Turchia. Lavoro minorile, nessun diritto, salari irrisori.

«Qui non c'entra l'essere credenti o atei, religiosi o laici. La salvezza o la condanna non sono un premio o un castigo che arrivano dal cielo o dal divino, ma sono la conseguenza pratica, logica, inevitabile, frutto delle nostre scelte e della nostre azioni».

Huffington post online, 26 ottobre 2016

La visione del "Giudizio finale" nel Vangelo di Matteo fa parte della cultura universale. Ci ha pensato Michelangelo, con il magnifico affresco della Cappella Sistina, capolavoro assoluto dell'arte, a fissarla indelebilmente nella mente di ciascuno.

Di qua gli eletti, di là i dannati, nel mezzo Cristo giudice. Sono le parole di Gesù il metro con cui misurare il destino dell'umanità: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi". Tutto qui: sei azioni concrete per avere in eredità il Regno.

La parabola è tanto chiara quanto antica. In fondo è il cuore della nonviolenza attiva. Se accogli e ti apri al prossimo, ognuno vivrà meglio. Il luogo dove sperimentare questa verità è la "casa comune", il mondo in cui viviamo, che diventa Terra promessa, Regno di Dio, se i sei precetti (opere di misericordia corporale, dice la dottrina) vengono rispettati; se invece per paura o egoismo le sei buone azioni vengono disattese, la casa comune diventa un supplizio, un inferno ("ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato: via da me, maledetti!").

Qui non c'entra l'essere credenti o atei, religiosi o laici, è l'esperienza concreta che ci dice chiaramente quanto sia vero l'insegnamento contenuto nel Vangelo di Matteo: la salvezza o la condanna non sono un premio o un castigo che arrivano dal cielo o dal divino, ma sono la conseguenza pratica, logica, inevitabile, frutto delle nostre scelte e della nostre azioni.

L'Europa di oggi lo sta sperimentando, sta vivendo questa prova decisiva di masse "straniere" che arrivano da lontano e chiedono di entrare. Si può tentare di chiudere la porta (muri, fili spinati, leggi escludenti, respingimenti, ecc.) ma verrebbe fatalmente sfondata, oppure tenerla aperta (governare il fenomeno con politiche di accoglienza, di cooperazione, creazione di opportunità, libertà di movimento, ecc.).

Il vecchio continente si gioca su questo il proprio futuro: se si chiude sarà condannato al declino. La fuga in atto dall'Africa e dal Medio Oriente ha cause ben precise, anche storiche, che sono di origine economica, un'economia distorta che uccide e provoca guerre. Il movente sono le materie prime e le fonti energetiche: non solo petrolio e gas, ma anche oro, uranio, coltan e altri minerali preziosi necessari all'elettronica. Dopo le conquiste e le colonie dei secoli scorsi, oggi assistiamo ad una nuova depredazione in atto, cui questa volta partecipa anche la Cina.

Territori impoveriti, deviazioni di bacini acquiferi, immissioni di gas serra in atmosfera, hanno causato variazioni climatiche, surriscaldamento, desertificazioni che aggiungono profughi ambientali ai profughi politici, profughi di guerra, profughi economici.

La geo-politica mondiale ha bisogno di essere difesa militarmente con le armi. Il nostro paese, schierato politicamente con l'alleanza atlantica, ma proiettato geograficamente nel Mediterraneo, ha un ruolo importante come accesso all'Europa per milioni di persone.

Siamo pienamente coinvolti, nel bene e nel male. Da una parte facciamo salvataggi, dall'altra esportiamo bombe. E dunque, in definitiva, piantiamo semi di guerra e raccogliamo rifugiati. Dentro alla grande storia delle migrazioni di oggi, ci sono milioni di storie individuali. Storie annegate in fondo al mare (saremo mai perdonati per questo?), o storie di salvezza e di speranza.

Ci vuole un punto di vista particolare per superare la paura, per scoprire storie positive, per mettere in relazione competenze e progetti. L'immigrazione coinvolge i temi dei diritti, dell'ambiente, della pace. Il forestiero che chiede ospitalità è una sfida alla nonviolenza: ci dice che sulla terra nessuno deve essere escluso.

Mao Valpiana è Presidente nazionale del Movimento Nonviolento

«Le rifugiate africane respinte con le barricate a Gorino. La prefettura di Ferrara cede alle proteste e trasferisce 12 donne». Articoli di Andrea Tornago e Marco Zavagli.

Il Fatto Quotidiano e il manifesto, 26 ottobre 2016

Il Fatto Quotidiano

"ABBIAMO LASCIATO L'INFERNO
ORA DOVE POSSIAMO ANDARE"
di Andrea Tornago

L’ultimo tratto del viaggio della speranza è un rettilineo della statale 309 Romea tra Comacchio e Gorino, sul Delta del Po. Quarantadue chilometri al confine tra l’Emilia e il Veneto che dodici ragazze sui vent’anni, scappate dall’Africa in guerra, non sono mai riuscite a percorrere. Per otto ore le richiedenti asilo arrivate dalla Nigeria, dalla Costa d’Avorio e dalla Sierra Leone, sono rimaste bloccate su un pullman nella caserma dei carabinieri di Comacchio, mentre i cittadini di Gorino, frazione di Goro (Ferrara), il paese di pescatori in riva al Po che avrebbe dovuto accoglierle, salivano sulle barricate contro l’ordinanza del prefetto di Ferrara che requisiva l’ostello “Amore e Natura”.

In tutta la provincia ferrarese non c’era nemmeno una struttura disponibile: “Ci dicono tutti che sono al completo anche se è inverno – spiega il prefetto Michele Tortora –. Abbiamo scelto Goro perché non ha mai dato il suo contributo all’accoglienza”. Quasi 300 persone, metà degli abitanti di Gorino, lunedì sera sono scese in strada a bloccare l’unica via d’accesso al paese. È comparsa una barricata. E alla fine le autorità hanno dovuto fare dietrofront, verso mezzanotte, portando le dodici donne di cui una incinta in località rimaste segrete per ore. Abbiamo incontrato tre di loro nella casa di riposo di Ferrara, grazie all’opera di tessitura del sindaco Tiziano Tagliani.

“Mio marito è finito in carcere per motivi politici, poi è riuscito a evadere – racconta Belinda, 22 anni, scappata dalla Sierra Leone –. Ora il governo mi sta cercando perché credono che parli e lo faccia catturare di nuovo. Il mio viaggio per venire qui è durato cinque mesi. Sono rimasta due mesi in Libia, in un campo in cui gli uomini arabi hanno cercato di violentarmi, finché non sono fuggita anche da lì, verso il mare. Dopo due settimane sulla spiaggia, senza cibo e senza un posto in cui dormire, sono riuscita a imbarcarmi per l’Italia”.

Joy è nigeriana, ha solo 20 anni ed è scappata dal suo Paese quando il padre si è convertito alla religione vudù: “Ho incontrato un ragazzo, sono rimasta incinta, mio padre voleva ucciderci. La notte in cui siamo partiti ci hanno pure rapinati, ma siamo riusciti ad arrivare in Libia, intorno al 20 settembre. I libici ci picchiavano, ci lasciavano senza cibo, eravamo nelle loro mani. Siamo scappati una notte verso il mare, abbiamo seguito della gente che andava verso una barca e lì ho perso mio marito. Non so più niente di lui. Si chiama Lamin Dampha. Quelle persone mi hanno fatto salire sulla barca perché aspetto un bambino, hanno avuto pietà di me”.

Anche Faith ha 20 anni ed è partita su un fuoristrada verso il Mali il giorno in cui i miliziani di BokoHaram hanno rastrellato il suo villaggio nel nord della Nigeria: “Non ho notizie della mia famiglia, non so nemmeno se sono vivi o morti. Un uomo si è preso cura di me in Libia, mi ha aiutato a partire sulle barche, inseguiti dalle pattuglie libiche, e sabato scorso sono arrivata in Italia”. Su quell’autobus fermo nella caserma di Comacchio, le ragazze sopravvissute al viaggio più lungo non riuscivano a capire cosa stesse succedendo: “Vedevamo che parlavano concitati, ma l’autista non voleva che sapessimo – continua Faith –, poi abbiamo saputo che la popolazione non ci voleva e ci siamo rimaste malissimo. Se non ci date un posto voi, dove possiamo andare?”.

Gli abitanti di Gorino, ieri, hanno festeggiato. Dopo le barricate contro le richiedenti asilo per protesta non hanno mandato i figli a scuola e non sono andati a vongole, la principale attività economica del posto. “Quel che è più sconcertante è che si è trattato davvero di una protesta di popolo – spiega al Fatto il questore di Ferrara, Antonio Sbordone –. L’apporto di persone venute da fuori, o di militanti politici, non è stato determinante”. Ma il sindaco di Goro, Diego Viviani, difende i suoi concittadini: “Questa comunità non merita di essere definita razzista – ha detto il primo cittadino, eletto con una lista civica di centrosinistra – Gorino ha avuto una reazione che io non condanno, ma adesso dobbiamo dimostrare che non siamo come ci hanno dipinto”.

Sorride intanto Joy, mentre parla del bambino che porta in grembo da otto mesi. Nella barca che l’ha portata in Europa non respirava, la gente le premeva la pancia. All’ospedale di Ferrara, però, le hanno detto che sta bene. Nessuna di loro aveva mai sentito parlare di Lampedusa, di Bologna o di Ferrara prima dello sbarco. Ma se qualcuno adesso chiede loro dove volevano arrivare alla fine del viaggio, lo sguardo si fa serio, gli occhi fissi a terra: “Italy”.

il Manifesto
GORO , LA CACCIATA
DEI PROFUGHI

di Marco Zavagli

Alla fine hanno vinto loro. Gli abitanti di Gorino che pur di non accogliere 12 donne rifugiate con i loro bambini hanno alzato barricate e protestato tutta la notte, accendendo i riflettori su questo paesino del Delta del Po. Il prefetto di Ferrara ha deciso il trasferimento del piccolo gruppo di rifugiati nei comuni vicini senza però riuscire a mettere fine alla protesta che è continuata anche ieri. Un episodio che «non fa onore all’Italia» dice il ministro degli Interni Angelino Alfano, mentre la diocesi parla di una «notte che ripugna alla coscienza cristiana».

Strano destino quello dei pescatori di Gorino. Un tempo rischiavano la vita per salvare donne e bambini dalle acque. Ora respingono chi da altre acque, quelle del Mediterraneo, è riuscito a fuggire. Era la notte del 17 novembre del 1951. Il Po aveva rotto gli argini a Occhiobello, tra Ferrara e Rovigo. I pescatori di Goro risalirono la piena con le proprie barche per portare soccorso a chi era in balia dell’alluvione. «Non esitarono, nessuno esitò – raccontava Fidia Gambetti riportando su l’Unità la cronaca di allora -. Per 48 ore almeno e proprio nei momenti della massima piena, migliaia di vite umane dovettero la loro salvezza soltanto all’audacia, allo sprezzo del pericolo, alla perizia instancabile degli uomini che navigavano su codesti gusci di noce». Alcuni persero la vita. Ma «portarono in salvo 320 fra bambini e donne».

Cosa è rimasto di «questo pugno di uomini intrepidi e da sempre dimenticati su un lembo di terra duramente conquistata giorno per giorno»? Difficile stabilire i contorni umani della rumorosa rivolta contro la decisione della prefettura di Ferrara. Difficile anche riportare i commenti che i manifestanti hanno affidato ai taccuini dei cronisti mentre sbarravano l’accesso a quell’ostello dal nome che suona oggi come crudele beffa, «Amore e natura». Eppure se un intero paese scende in strada spontaneamente per negare accoglienza a dodici giovani donne un motivo ci deve essere.

E allora si prova a scavare nella recente storia di questo paesino di 600 abitanti sperduto nel delta del Po. Fino a dieci anni fa i goresi erano forse tra i pescatori più invidiati dell’alto adriatico. La Sacca sembrava un serbatoio inesauribile di vongole. Il prezzo dei molluschi era alle stelle. Poi il mercato si è incrinato. La natura ha fatto la sua parte. Il cuneo salino e l’aumento delle temperature hanno provocato morie di vongole. A questo si aggiunge una selvaggia pesca abusiva notturna. Tutti elementi che hanno messo in ginocchio l’economia locale.

Bastano i motivi finanziari a giustificare quello sbarramento prima umano che materiale? Una domanda destinata qui a restare senza risposta. Certo fa riflettere la denuncia, etica, del prefetto Michele Tortora: «Abbiamo contattato i privati, tutti gli hotel e strutture ricettive della costa e tutti hanno risposto, appena sentito parlare di profughi, che le strutture sono già al completo». Per la cronaca, in ottobre il turismo sui lidi ferraresi è prossimo allo zero.

L’esasperazione verso quello che, inutile nasconderlo, viene visto da buona parte della popolazione come un «pericolo invasione» trova terreno fertile nella destra. La Lega Nord, con l’appoggio di Casa Pound e Forza Nuova, nel capoluogo amministrato dal Pd, ha ottenuto seguito denunciando il degrado e la microcriminalità in zona stazione. A questo si aggiungono inchieste di procura e corte dei conti sui rapporti tra Comune di Ferrara e cooperative che gestiscono l’accoglienza. Tutto utile a far crescere la diffidenza.

Ferrara un tempo era conosciuta come patrimonio Unesco, città d’arte e di cultura, patria d’adozione dell’Ariosto e del Tasso. E negli ultimi anni? Le cronache nazionali la ricordano per il caso Aldrovandi. Per l’assurda fine di Said Belamel, il 29enne morto di freddo dopo una notte in discoteca mentre chiedeva invano aiuto agli automobilisti di passaggio. Per la madre che ritira la figlia dall’asilo dove lavora un’assistente con la sindrome di Down. Per il medico vicepresidente dell’ordine che le dà ragione, perché «i Down devono stare in cucina e non a scuola». Per i commenti sui social di chi brinda al suicidio sotto un treno di un giovane nigeriano. Per l’esponente di FdI che promette di far fuori tanti profughi quanti ne sbarcano. Per un vescovo che augura a Bergoglio di fare la fine di Giovanni Paolo I.

Ah, è vero. Grande spazio è stato riservato anche al «petaloso» nato dal «bell’errore» del piccolo Matteo. Qualcuno una volta chiedeva di restare umani. Sarebbe già molto tornare bambini.

». La Repubblica, 24 ottobre 2016 (c.m.c.)

«Please do not destroy the Jungle». Abdul esce dalla tenda azzurra, e spiega: «Se mi cacciano da qui, andrò a nascondermi da qualche altra parte. Non posso restare in Francia, ho mio fratello a Birmingham». Nonostante l’implorazione del giovane afgano, la Giungla di Calais sarà distrutta. Da oggi il governo organizza lo sgombero totale e definitivo della più grande bidonville d’Europa nella quale vivono almeno 7mila migranti. Una sessantina di pullman arriveranno alle 8 di stamattina nel gigantesco parcheggio ai confini della Giungla.

I passeggeri saranno smistati tra uomini maggiorenni, donne e bambini, minorenni senza famiglia, persone malate o con handicap. Potranno essere accolti in uno degli oltre 250 Cao,Centre d’Accueil et d’Orientation, le strutture organizzate in giro per la Francia nelle ultime settimane proprio per svuotare Calais.
«Starete al caldo e al sicuro» è scritto su un volantino che una funzionaria della Prefettura distribuisce ai migranti per convincerli ad accettare la proposta del governo. I testi sono tradotti in nove lingue, con una parte di spiegazione a fumetti. Le partenze dovrebbero essere volontarie ma molti non si fidano, temono di essere espulsi. La vigilia è tesa. A poche ore dall’inizio dell’operazione, si sono già verificati i primi scontri tra poliziotti e manifestanti No Border che vogliono impedire l’evacuazione. Due militanti sono stati fermati. Il governo ha mobilitato oltre 1200 agenti per garantire sicurezza e flussi. «I problemi saranno probabilmente di notte», avverte Gilles Debove, del sindacato di polizia.
La baraccopoli tra mare e boscaglia nata nella primavera 2015, con la prima crisi di migranti in Europa, assomiglia ormai a una città fantasma. La polizia ha già fatto chiudere il New Kabul e l’Hamid Karzai Restaurant gestiti dagli afgani sul “corso” principale della Giungla. Marc e Eileen, due britannici che avevano costruito due anni fa l’Ecole des Dunes, si sono rassegnati a portare via libri, fotocopiatrici, pannelli solari. Sanno che anche la loro scuola, dove hanno fatto lezione a tanti bambini, sarà distrutta tra qualche giorno. Il Jungle Boxing Club non è più frequentato da nessuno. Da domani arriveranno ruspe e bulldozer. Tutto deve scomparire.
La Prefettura di Calais non parla di sgombero ma di “messa al riparo” dei migranti. Per molte Ong le intenzioni del governo sono poco umanitarie. «È un’operazione elettorale», taglia corto Amin Trouve Baghdouche, coordinatore di Médecins du Monde. A sei mesi dalle elezioni presidenziali la vergogna di Calais deve essere cancellata. «Il problema è che non puoi cambiare la geografia, molti continuano a sperare di andare nel Regno Unito» racconta Christian Salomé, presidente dell’Auberge des Migrants. L’associazione ha lanciato un appello per donare valigie, borse, zaini. È la merce più richiesta. Alcuni migranti partono con un fagotto, altri devono fare un trasloco dopo mesi passati nella Giungla.
Negli ultimi giorni, i tentativi di “passare” la frontiera si sono intensificati, con i trafficanti che hanno quintuplicato i prezzi. «Almeno duemila non se ne vogliono andare » calcola il presidente dell’Auberge des Migrants. Il rischio è che vadano a nascondersi nella regione, per poi tornare. Il Belgio ha rafforzato i controlli al confine non appena è stata annunciata la data dell’evacuazione.
I migranti che non vorranno partire saranno probabilmente portati in centri di detenzione, anche se le autorità finora negano. Insieme alle borse, l’Auberge des Migrants ha fatto anche una scorta di estintori. «Temiamo che ci siano incendi durante l’evacuazione». Difficile che sia un’operazione pacifica come annunciato dal governo.

Rovigo - “Io mi occupo delle persone in carne ed ossa”. Così Massimo Bergamin, primo cittadino del comune capoluogo di Rovigo, commenta l’iniziativa delle parrocchie del vicariato di Rovigo che ha messo dei cartelloni in alcune zone della città dove lanciano un messaggio ispirato dal Papa sull’accoglienza dei profughi.

“Se loro vogliono dare una mano sono contento - spiega - figuriamoci se mi metto in polemica. Io so solo di fare il sindaco di una città che per il sociale ha 900mila euro mentre mette a disposizione per i richiedenti asilo 2milioni e 500mila euro”.

Bergamin, che sta studiando come recuperare i 5 euro dalla quota che le cooperative ricevono dalla Stato, si sente discriminato dal Governo perché i sindaci si trovano da soli a gestire queste problematiche: “Io oggi ricevo una famiglia, papà e mamma con tre figlie, che sta ricevendo uno sfratto, esecutivo lunedì” ribadendolo anche durante trasmissione Agorà su Rai 3.

Dall’altra parte il prefetto Enrico Caterino commenta positivamente, al di là dei pensieri politici, la posizione della Diocesi: “Quando c’è stato bisogno è stata la prima ad aiutarci - afferma - a fine agosto primi di settembre ha ospitato temporalmente per 10-15 giorni in via Sichirollo una ventina di profughi che poi sono stati collocati in altre strutture”. Situazione ancora entro i limiti: circa 600 i profughi presenti in Polesine.


Riferimenti
Qui da youtube un documentario della RAI sull'alluvione del Polesine del novembre 1961. Ma solo all'inizio, alla radice del disastro, si accenna alle cause
«». il manifesto, 13 ottobre 2016 (c.m.c.)

Lo sguardo dell’uomo sul Mondo, diceva Walter Benjamin, riflette la forma dei rapporti di produzione. E se i «rapporti di produzione», elabora Foucault, sono governati dalla biopolitica, cioè dalla riduzione della vita al suo valore di scambio, di merce, è facile capire quanto la politica che gestisce gli affari europei non possa vedere i fenomeni migratori nella loro dimensione umana.

Generando così quella solidarietà empatica che darebbe luogo a pratiche di accoglienza radicalmente diverse dalle attuali.

Eccitati ed accecati dall’idea di perdere i privilegi accumulati in secoli di dominio sul resto del mondo «in via di sviluppo», i sempre più cittadini europei si rivolgono alle destre populiste che promettono loro di fermare i migranti «sul bagnasciuga», come nel secolo scorso già affermava il fascismo.

Ma l’eccitazione superficiale, agitata e servita calda dai vari demagoghi continentali, nasconde nella sua profondità una altrettanto grande depressione, generata dall’oscura consapevolezza che ciò che oggi capita ai migranti, domani , ma forse già oggi, potrebbe accadere a chi ancora crede di cavarsela con i muri. Perché se è vero che la Storia non insegna nulla, è altrettanto vero che l’anima non dimentica, che i traumi personali e collettivi vissuti dai singoli e da intere popolazioni, restano nel profondo e riemergono costantemente a ricordare tutto quello checiò che si è vissuto.

Ma per far sì che questa memoria collettiva, fatta di quando l’Europa era un continente di migranti, di bombardati, di sottoposti a feroci dittature, di razzismi verso gli italiani o gli irlandesi, di guerre civili a sfondo religioso, ma anche di resistenza, di affermazione dei diritti umani, di abbattimenti di frontiere, di dialogo, di aiuto ai popoli che uscivano dal colonialismo, possa riemergere come forma della politica, e prima ancora della consapevolezza, bisogna tornare a vedere con gli occhi ciò che abbiamo sotto gli occhi, cambiare lo sguardo sulle cose. Non è forse l’occultamento dei corpi migranti uno dei dispositivi fondanti di questa fase biopolitica? Non è la riduzione dei singoli individui ed individue, di bambini e bambine con nomi, storie, vite, vissuti, diversi, nel grande calderone dei «migranti», morti anche nella ridda dei numeri e delle statistiche?

Rovesciando la logica del respingimento, delle barriere, dell’esternalizzazione dei confini spinati, le associazioni che si impegnano nelle gestione dei migranti sulle banchine siciliane o greche, restituiscono come prima priorità a queste persone il loro volto, la loro identità unica ed irripetibile, non solo la speranza che il dolore vissuto sia servito a qualcosa per le loro esistenze, ma che serva anche a chi li accoglie per cambiare la sua prospettiva sull’ordine delle cose. Perché siamo noi, quelli pronti a gettare al vento secoli di democrazia e convivenza, ad aver bisogno della forza di queste vite almeno tanto quanto loro hanno bisogno di noi.

La politica è prima di tutto uno sguardo. Dallo sguardo attento nasce il riguardo, il guardare due volte, e di conseguenza il rispetto che ha, non a caso, la stessa radice. Il cambiamento parte da una cambio di paradigma per quello che concerne le priorità da affrontare, che non sono più quelle della contraddizione capitale lavoro, ma quelle tra uomo e ambiente e tra generi, genti e generazioni.

Da come si riorganizzeranno le forze antagoniste attorno alle gestione e soprattutto alla soluzione delle emergenze migratorie, si misurerà la possibilità che esista un futuro per tutti e non la pura sopravvivenza di una parte minoritaria sulla maggioranza del vivente.

. La Repubblica, 12 ottobre 2016 (c.m.c.)

Si sentono come dei fantasmi nel paese in cui sono nati e cresciuti, in cui hanno studiato, di cui parlano la lingua e spesso conoscono le usanze e le leggi molto più di quanto conoscano la lingua, le leggi e le usanze del paese da cui provengono i loro genitori. Sono i ragazzi e i giovani impropriamente definiti della seconda generazione di migranti. Impropriamente perché la maggior parte di loro non è affatto venuta in Italia da un altro paese, ma è nata e cresciuta qui, analogamente ai coetanei italiani. Oppure sono venuti quando erano ancora bambini e qui hanno frequentato le scuole e hanno condiviso esperienze con i coetanei autoctoni.

È passato un anno da quando alla Camera è stata approvata in prima lettura una nuova legge sulla cittadinanza che introduce quello che è stato definito uno ius soli temperato, ovvero con più vincoli di quello in vigore in Francia o Stati Uniti.

Non basta, infatti, nascere in Italia per avere la cittadinanza. Occorre, per i minori nati in Italia, non solo che venga fatta una formale richiesta da parte dei genitori, ma anche che almeno uno dei genitori abbia un permesso di soggiorno di lungo periodo o, in alternativa, che il minore abbia frequentato almeno un ciclo di studi. Lo stesso requisito, da soddisfare entro i sedici anni di età, è richiesto per i minori arrivati prima dei dodici anni. Per i più vecchi (fino ai venti anni) il requisito si allunga.

Come si vede, si è ben lontani da ogni automatismo, fino a far ritenere a qualcuno che questi vincoli violino sia i diritti dei minori sia il principio di eguaglianza. Eppure, dopo essere stata approvata alla Camera della legge non si è più sentito parlare.

Sommersa da oltre duemila emendamenti, giace al Senato senza che sia annunciata alcuna calendarizzazione, stretta tra la feroce opposizione di Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia, il disinteresse del Movimento Cinquestelle (che alla Camera si è astenuto) e il timore dei partiti governativi di riaprire al proprio interno conflitti irrisolti. A meno che, come qualcuno maliziosamente potrebbe sospettare, i partiti di maggioranza non vogliano utilizzare questo blocco per dimostrare i limiti del bicameralismo perfetto, portando acqua al mulino del sì al referendum costituzionale.

Qualsiasi siano le ragioni, il Parlamento italiano sta dando un’ennesima prova di quanto i diritti civili nel nostro paese godano raramente di attenzione, a fasi alterne e sempre e solo uno per volta, creando sgradevoli gerarchie di priorità oltre che attese lunghissime. È passata, faticosamente, la legge sulle unioni civili, che gli stranieri aspettino pazientemente il proprio turno, se e quando questo arriverà.

I nostri pensosi rappresentanti non sembra siano sfiorati dal sospetto che continuare a tenere ai margini una fetta importante delle giovani generazioni che abitano il nostro paese da tempo avviato al declino demografico non è solo una ennesima dimostrazione che questo è un paese che non investe sui bambini e giovani in generale, non solo su quelli stranieri, un paese occupato dell’oggi e senza attenzione per il futuro. È anche una politica miope proprio nei confronti della integrazione tanto sbandierata come necessità per una immigrazione ben regolata.

Continuare a tenere ai margini, come estranei da non ammettere ad una appartenenza comune, dei bambini, adolescenti, giovani che aspirano a questa appartenenza rischia di farli sentire e comportarsi come tali: senza obblighi perché privi di reciprocità, risentiti, ostili.

È una meraviglia che, nonostante la miopia della politica e un discorso pubblico sui migranti e le loro famiglie non sempre civile e pacato, questi ragazzi e giovani continuino ostinatamente a rivendicare la propria italianità. Sono, di fatto, italiani molto più di molti che sono nati all’estero da cittadini italiani e all’estero sono cresciuti e vivono, spesso non conoscendo la lingua italiana. E pure hanno tutti i diritti dei cittadini italiani, incluso il diritto di voto, anche sulla riforma costituzionale, i cui effetti positivi o negativi non li toccherà per nulla.

Un convegno internazionale promosso da BarbaraSpinelli (Milano, 25 settembre 2016) ha rivelato come i migranti che approdanofortunosamente in Europa non siano che la punta di un immensoiceberg, costituito da milioni di persone sfrattate dalle loro case e terre,cacciate dal perverso “sviluppo “praticato dal resto del globo. Sulla base deimateriali e degli stimoli di quel convegno la nostra redattrice ha scrittoquest’ampia analisi della questione, con l’obiettivo di diffonderne la conoscenza e di stimolare azioni cheaiutano ad contrastarne le cause.

I NUOVI DANNATI DELLA TERRA
GLI SFRATTATI DELLO "SVILUPPO
di Ilaria Boniburini

1. Introduzione
Esiste una stretta relazione tra il modello di sviluppodominante, le devastazioni ambientali e i flussi migratori indotti provenientidai paesi del Sud del mondo verso il Nord. E chi maggiormente subisce glieffetti negativi di questo sviluppo sono le popolazioni indigene e i poveri delSud del mondo, cioè coloro che meno hanno contribuito a provocarli. Non solo,ma l’Europa, insieme ai nuovi imperi (Cina e US), continua a perseguire iltornaconto del mondo occidentale, anche celandosi dietro la cosiddetta “cooperazioneinternazionale”.
Il 24 settembre scorso si è svolto a Milano il convegnointernazionale “Il secolo dei rifugiati ambientali?” organizzato dall’europarlamentareBarbara Spinelli[1]. Lerelazioni presentate hanno insistito non tanto sull’emergenza migratoria dell’Europa,quanto sulle cause ambientali, all’origine della maggior parte delle migrazioniindotte.
Il convegno prende origine dal fatto che quella dei migrantiambientali è una condizione non riconosciuta dal diritto internazionale comequella dei rifugiati, per cui a queste persone non è riconosciuto il diritto diasilo, nonostante l’abbandono del loro paese di origine sia forzata. Infatti, imigranti ambientali sono coloro che si trovano costretti ad abbandonare le loroterre per cause di siccità, erosione del suolo, desertificazione, deforestazione,inquinamento, salinazzione delle terre e altri eventi causati da mutamentiambientali provocati dall’intervento dell’uomo.
Dalle analisi presentate dai relatori, è evidente che losbarco in Europa di migliaia di persone non è il solo e neanche il piùdrammatico dei problemi se si guarda alle origini di questi flussi forzati e siconsidera il fenomeno nelle sue innumerevoli manifestazioni. Evidenti sonoanche le responsabilità dei paesi “sviluppati” nel concorrere alle cause dellemigrazioni forzate e le loro opportunistiche politiche messe in atto.
Sono uscita dal convegno con unaprofonda amarezza per la pochezza della nostra società, che vanta di essere civile,moderna, evoluta e democratica, mentre continua a costruire il proprio “sviluppo”sullo sfruttamento degli altri popoli e spesso calpesta i diritti umani dei piùdeboli nel perseguire i propri interessi. Sono arrabbiata con il popolo Europeoe con quello Italiano, per l’incapacità di esprimere ospitalità e solidarietà ecogliere l’opportunità di rinnovamento che potrebbe derivare dall’incontro diculture diverse. La storia è anche fatta di migrazioni.
Mi rendo conto che scrivere solo per denunciare non èsufficiente. La denuncia sembra solo provocare un' indignazione momentanea, manon una presa di coscienza vera e propria. Vorrei utilizzare quello che hoimparato nei miei dieci anni di studio, lavoro e vita in Africa su questioni disviluppo e quello che ho acquisito al Convegno sui rifugiati ambientali perconvincervi di due cose.
1. Le politiche migratorie italiane ed europee sonoprofondamente sbagliate. Il problema posto è fuorviante: è mirato a mantenerefuori dalla “Fortezza Europa” i migranti poveri e non ad affrontare ilproblema. Queste politiche sono intellettualmente insignificanti e moralmentemisere; «non dobbiamo dimenticare che non si fala storia senza grandezza di spirito, senza una moraleelevata, e senza gesti nobili» (Rosa Luxemburg).
2. Se si vuole affrontare il problema alla base, occorre unradicale cambiamento del nostro modello di sviluppo e stili di vita. Una fettaenorme delle migrazioni in atto è provocata da trasformazioni ambientaliindotte dal nostro modo di vivere, che sta distruggendo la fonte primaria dellanostra vita: l’universo naturale e le sue insostituibili risorse. Inoltre, convertetutti i nostri beni (cose che hanno valore per l’uso che ne facciamo) in merci(cose che hanno valore solo la loro capacità di essere convertite in moneta);trasforma i fruitori in clienti (paganti); e riduce le nostre esperienze edecisioni a questioni di mero interesse economico-finanziario. A sostegno dellamia tesi porto una serie di ragionamenti.
2. Politichemigratorie sbagliate
il problema posto è fuorviante e strumentale
Una distinzione iniziale tra “migranti”, “migranti senzavisto” e “migranti da sfratto” è necessaria per non alimentare una confusionegià presente nei discorsi politici e nella maggior parte dei giornali.
A rigore di logica e dizionario alla mano, sono “migranti”tutti coloro che si trasferiscono in un paese diverso da quello di origine.Anch’io sono una migrante: vivo e lavoro all’estero dal 1998; ma grazie al miopassaporto Europeo e al mio conto in banca, non sono mai stata additata come “migrante”,e non ho mai avuto particolari problemi ad ottenere un visto.
Quando si parla del “problema dei migranti”, i governi egiornali si riferiscono più specificatamente ai “migranti senza visto” chearrivano in Europa – generalmente additati come “clandestini” perché non hannoun visto di accesso. Un visto che gli è stato negato o gli verrebbe comunquenegato in base alle norme nazionali di frontiera. Queste norme non sono ugualiper tutti. In presenza di un passaporto non occidentale, viene di solitorichiesto di avere un’assicurazione sanitaria, un conto corrente bancario e soldi,referenze, e altro ancora. Particolare resistenza a rilasciare un visto è fattanei confronti dei cittadini Africani.
Utilizzo il termine “migranti da sfratto” per riferirmi atutte quelle persone che per diversi motivi - conflitti, disastri ambientali,carestie, o progetti di sviluppo come dighe - sono letteralmente statesfrattate e private della loro casa o si vedono costrette a lasciare le loroterre per poter sopravvivere o dare supporto alle loro famiglie. Mi rendo contoche il termine è generico ed è forse difficile provare uno sfratto indotto,perché lasciare la propria terra (o addirittura il proprio paese di origine)richiede anche una volontà individuale, nonché una capacità fisica edeconomica. Qualche decennio fa, in assenza di ricerche e testimonianze dirette,poteva essere difficile capire le cause di queste migrazioni da sfratto. Oggi,non mancano né i dati né le testimonianze, ed è accertato che chi affronta unviaggio incerto, pericoloso, e costoso come quello che i migranti senza vistointraprendono, per terra o per mare, lo fa per ragioni molto forti. Nei loropaesi di origine rischiano di essere uccisi in guerra, perseguitati dai proprigoverni, ma anche “solo” di non avere più mezzi di sussistenza, perché spazzativia e per l’incapacità dei governi di supplire a carestie, siccità, alluvioni, oaltri eventi.
A supporto della definizione “migranti da sfratto” cito unafonte autorevolissima, Saskia Sassen e il suo recente saggio del 2015 Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economiaglobale. Nel libro, Sassen descrive come il fenomeno delle espulsioni siauna tipica caratteristica di questa fase del neoliberalismo e cita moltissimiesempi: dalle espulsioni di lavoratori, agricoltori e residenti non abbienti daun numero sempre più consistente di aree, alle espulsioni di intere comunità daparte di governi e multinazionali per costruire dighe o intraprenderecoltivazioni da esporto.
2.1 Occorre guardareoltre i “migranti senza visto”
I “migranti senza visto” che arrivano in Europa sono solouna piccola percentuale della totalità di coloro che si trovano costretti adabbandonare le loro terre a causa di guerre, persecuzioni, carestie, oinadeguate condizioni socio-economiche. Diamo uno sguardo ad alcunestatistiche.
L’ International Organization for Migration (IOM) stima che nel2015 circa 1.046. 600 persone sono arrivate in Europa; si precisa che il numeronon tiene conto di quelli che riescono a passare inosservati. Frontex, l’Agenzia Europea per la gestionedelle frontiere esterne degli stati membri, ha stimato che sono circa 1.800.000i migranti arrivati in Europa nel 2015.
Nel 2014, l”Europa ha accolto circa 3.107.000 rifugiati,mentre l’Italia pur essendo il paese di arrivo di molti rifugiati ne ha accolticirca 93.000, ponendosi agli ultimi posti per incidenza dei rifugiati rispettoalla popolazione nazionale[2].
Paragoniamo ora queste cifre con quelle del rapporto “GlobalTrends 2015” dell’UNHCR[3] relativeal totale degli sfrattati, conteggiati a fine 2015 in tutto il mondo: circa65.3 milioni. Un popolazione più grande di quella dell’Italia o della GranBretagna! Un quinto di questi (12.4 milioni) sono quelli sfollati nel solo anno2015. Il numero degli sfrattati è aumentato notevolmente negli ultimi duedecenni, e si è velocemente ingrandito a partire dal 2011, con l’inizio della“primavera Araba” e il conflitto siriano. La maggior parte degli sfrattatiSiriani approda in Turchia. Nonostante l’attenzione è focalizzata sull’Europa,e le regioni Africane e del Medio oriente, altre crisi si sono abbattute nelAmerica Centrale. Le violenze in El Salvador, Guatemala, and Honduras hannoprovocato un’ondata di migrazioni forzate verso il Messico e gli Stati Uniti. Conla situazione dello Yemen in continua deteriorazione, durante il 2015 circa 169.900persone hanno abbandonato il paese, rifugiandosi nei paesi vicini, e circa 2,5milioni sono stati internamente sfrattati.
Un altro dato interessante emerge dalle stime dell”InternationalDisplacement Monitoring Centre (IDMC) [4]: sono circa27.8 milioni le persone che nel 2015, a causa di guerre, violenze e carestie eranosenza una casa, ma sempre nei confini dei loro stati. Questi sono i cosiddetti “sfollatiinterni” (IDPs – Internally Displaced People),cioè quei migranti forzati che non riescono a pagarsi un viaggio verso l’Europao altri paesi. Relegati nei rapporti delle agenzie internazionali, raramente siparla di loro. Nel 2015, sono state “internamente sfrattate” circa 8.6 milionidi persone e circa 11 milioni l”anno precedente.
2.2 I rifugiati: una categoriache appare sempre più discriminante
Come succede per altre questioni, quello che non colpisce ilmondo occidentale, è ritenuto irrilevante. Se migliaia di persone, senza vistoe senza soldi non arrivassero per mare e per terra in Europa, il problema dei “migrantida sfratto” passerebbe inosservato.
Per i governi europei il problema non è quello dei migrantiin sé, ma il fatto che sono poveri, e non dovrebbero entrare a meno che non faccianoparte della categoria dei “rifugiati” quindi aventi diritto di asilo.
Dalla Convenzione di Ginevra nel 1951, quando è statariconosciuta la condizione di rifugiato a coloro che si trovano al di fuori delloro paese di origine a causa di persecuzioni, conflitti, violenze o altrecircostanze che minacciano l’ordine pubblico, sono state accolte e salvatemolte vite umane. Gli Stati hanno accettano una serie di obblighi nei confrontidi queste persone; ma oggi questa forma di protezione assomiglia sempre più auna categorizzazione che serve soprattutto a tenere fuori i migranti dasfratto, che sono la maggior parte. Nel 2015, meno di 1/3 di quei 65,3 milionierano riconosciuti come rifugiati e circa 3,2 milioni avevano fatto domanda diasilo (asylum-seekers). Inoltre, idieci paesi che accolgono il maggior numero di rifugiati sono quelli del Suddel Mondo, di cui cinque nell”Africa Subsahariana e non come si penserebbel’Europa. Con circa 2.5 milioni, la Turchia rimane lo stato che ha il più altonumero di rifugiati[5].
2.3 La meschinità dell’Europa
A considerare le statistiche di cui sopra, ci rendiamo contoche l’enfasi data al “nostro” problema Europeo di ‘sistemare’ 1.8 milioni di “migrantisenza visto” è sproporzionata rispetto al dramma complessivo delle “migrazionida sfratto”.
Non solo, ma l’Europa per non sovraccaricarsi di questa peso,relativamente esiguo, sta facendo di tutto per mettere in atto politicherestrittive per il controllo dei flussi di migranti.
Ne sono esempi significativi il Migration Compact, l’accordòEU con la Turchia e la Roadmap di Bratislava. Il Migration Compact è uno strumentoper evitare l’ingresso ai migranti senza visto e non un modo per affrontare ilproblema migratorio. Infatti, consiste sostanzialmente nel esternalizzare lefrontiere, incentivando i paesi di origine ad esercitare un risoluto controllosulle uscite e rispendendo al mittente coloro che sono entrati, anche versopaesi retti da dittatori riconosciuti responsabili di crimini contro l’umanità,come il Sud Sudan[6].
L’accordocon la Turchia, che prevede il ritorno dei richiedenti asilo nella Turchia di Erdogan- paese non in grado di garantire ai rifugiati un asilo sicuro - rischia divenir ripetuto con l’Egitto di Al Sisi[7].
E perconcludere la lista delle misure ristrettive, la recentissima Roadmap diBratislava, che dichiara di non voler più permettere flussi incontrollati,assicurare il pieno controllo delle frontiere, ritornare al sistema Schengen edi applicare principi di solidarietà e responsabilità. Questi obiettividovrebbero essere raggiunti attraverso: la messa in opera dell”accordo EU-Turchia,il Migration Compact, il “dialogo” con paesi terzi (sul modello Egitto) e l’operatività(nonché” indipendenza) della Guardia di frontiera europea. Uno strumento gretto,velato – neanche tanto bene - da una falsa preoccupazione per le vite umane deimigranti (appellandosi ipocritamente alla solidarietà).
3. Riconoscere le trasformazioniambientali come causa fondamentale delle migrazioni da sfratto
Vivendo e lavorando in Africa, le statistiche citate non misorprendono. Non c’è uno stato Africano che non abbia un campo profughi o chenon abbia avuto il problema di ricevere sfollati o vedere i propri abitantiscappare altrove. Quando insegnavo in Ruanda, oltre 2/3 dei miei studenti eranonati al di fuori del loro paese, per la maggior parte in campi profughi inCongo o Tanzania.
Non ero invece del tutto consapevole del peso che letrasformazioni ambientali hanno nel produrre “migranti da sfratto”. Cercherò quindidi dare conto di quest’ aspetto.
I conflitti continuano ad avere una responsabilità notevolenel provocare fughe, ma secondo l’IDMC, nel 2015 solo il 31% degli sfollatiinterni è dovuto a conflitti e violenze, mentre il restante 49% è dovuto adisastri naturali come terremoti, eventi climatici estremi come le alluvioni, oaltre cause legate a trasformazioni ambientali gravi[8].
3.1 Oltre le cause diguerra: il peso delle cause ambientali
Per dare un’idea generale, adotto la distinzione della Forced Migration Online(FMO) che individua tre cause fondamentali alla base di quelli che chiamo “migrazionida sfratti”[9]:
1. Conflitti: conflitto armato, inclusa la guerra civile;violenza generalizzata; e la persecuzione per motivi di nazionalità, razza,religione, opinione politica o di un gruppo sociale, da parte delle autoritàstatali. Questa è l’unica causa riconosciuta suscettibile di aiuto internazionale,in quanto è quella che produce i rifugiati.
2. Disastri: catastrofi “naturali” (come vulcani, alluvioni,terremoti), cambiamenti ambientali (deforestazione, la desertificazione, ildegrado del territorio, il riscaldamento globale) e disastri provocatidirettamente dall’uomo (incidenti industriali, radioattività). Il tema degli sfrattatidal disastro, per cause “naturali” e legate al cambiamento climatico, rimanecontroverso; e ne spiegherò le ragioni nei seguenti capoversi. Diverse organizzazioniinternazionali forniscono assistenza alle persone colpite da queste calamità,tra cui la Federazione Internazionale delle Società della Croce Rossa eMezzaluna Rossa, e il Programma alimentare mondiale, senza contare le molte ONG.
3. Sviluppo: progetti realizzati per migliorare lo “sviluppo”di un’area, città, nazione che però al contempo produce sfratti a larga scaladi comunità locali e indigene. Per esempio i progetti di dighe, le estrazioniminerarie, le deforestazione o la creazione di parchi e riserve, che estromettele popolazioni indigene[10]. Questoè senza dubbio un fattore trascurato, che avviene con poco riconoscimento,supporto o assistenza, proprio perché colpisce in modo sproporzionato leminoranze indigene, i poveri urbani e rurali; spesso con la compiacenza deigoverni locali e attraverso i finanziamenti dei paesi occidentali o della Cina.
Chiaramente, tra queste tre categorie vi sonosovrapposizioni di cause ed effetti. È fondamentale cercare di capire le causedi queste trasformazioni ambientali, ma concentrarsi sulla ricerca di un nesso lineareo matematico di causa ed effetto tra migrazioni dovute a trasformazioniambientali e attività antropica «può essere fuorviante e servire più daparaocchi che da strumento di analisi»[11].
Bisogna invece riconoscere che c’è un’ondatamigratoria silenziosa che rappresenta le vittime di un sistema di produzione econsumo che ha ampiamente superato i limiti ecologici del Pianeta. Lemigrazioni ambientali possono essere lette come conseguenza di un continuotrasferimento di servizi ecosistemici dai luoghi sfruttati ai poli dellosfruttamento, fino a determinare nei primi ambienti ostili alla sopravvivenza”.[12]
Come afferma François Gemenne, ci troviamo nell’erageologica dell’Antropocene[13], in cuitutte le trasformazioni ambientali sono in qualche misura legate all’operadegli esseri umani, a come si produce, si consuma, si costruisce, e si governa,quindi al predominante modello di sviluppo.
3.2 Sviluppo: l’egemoniadi una credenza e il collasso di un Pianeta
La parola sviluppo è quella che forse più di ogni altra èstata capace di plasmare un’epoca. Per oltre settant’anni il concetto disviluppo come sinonimo di progresso, civilizzazione, e positività a priori(senza il bisogno di qualificare lo sviluppo con un attributo) ha orientato lepolitiche di tutti i paesi del mondo e colonizzato le menti, impedendo ad altreconcezioni di essere approfondite e altre pratiche di essere attuate.
Questo concetto è però inadeguato sia a comprendere i fenomeni,che a dare risposta ai bisogni e alle questioni che il genere umano esprime inquesta fase della sua storia.
È indicativo che il termine sviluppo abbia acquisito l’accezioneattuale a partire dal 1945, quando è entrato in uso il concetto sottosviluppo. Daallora lo sviluppo è stato associato all’idea che tutte le società avrebberodovuto passare attraverso prevedibili “fasi di sviluppo”. È quindi diventando unprogetto di dominazione, in quanto minala fiducia di altre culture ad esprimersi e portare avanti diversi modi dipensare e di agire e riducendo i loro destini ad un modo essenzialmenteoccidentale di concepire, percepire e plasmare il mondo.
Nei decenni successivi c’è stata una progressivasovrapposizione tra sviluppo e “sviluppo economico” compiendo una forteriduzione dei significati complessi e che il termine comprende. Così come cisono stati tentativi di riabilitare la parola stessa nei suoi momenti di crisi,per esempio durante il momento di presadi coscienza ambientale, di preoccupazione per la scarsità di risorse e losfruttamento sfrenato della natura. Se questa coscienza ha introdotto l’importanteconcetto di “limite alla crescita”, la nozione di sostenibilità - che invece havinto - ha matrici diverse. Infatti, quest’ultimo concetto è avvolto da una“modernizzazione ecologica”, dove l’innovazione tecnologica riveste un ruolocentrale. Si riconosce una crisi ecologica, ma a differenza del movimentoradicale sul limite della crescita si crede fermamente di poter interiorizzarela cura per l’ambiente.
Bisogna riconoscere che il termine è emerso al momento giusto: per dare allosviluppo uno scopo relativamente nuovo e soprattutto una rinnovata legittimazione. Losviluppo sostenibile è l’espressione che forse più di ogni altra ha ridato allosviluppo un prestigio mondiale, e lo ha fatto dandogli un tono opportunatamenteambientalista. La tesi principale che sta al fondo dell’espressione svilupposostenibile è che crescita economica e problema ecologico possono essereconciliati, è solo una questione di individuare appropriate misure dimitigazione.
La caratteristica peculiare dello sviluppo, e dell’immaginarioche lo accompagna, è che la crescita e il progresso possano svilupparsi all’infinito,anche grazie all’aumento costante delle merci prodotte. Ma, come scrive GilbertRist[14], l’egemoniadello sviluppo si è potuta affermare solo grazie ad un illusione semantica,attraverso la creazione del sottosviluppo, cioè creando uno “pseudo contrario”che ha trasformato una credenza in senso comune, e facendo credere nellapossibilità di trasformare l’intero mondo ad immagine e somiglianza dell’occidente[15].
Invece, a distanza di 70 anni ci ritroviamo un pianeta inprogressivo deterioramento. Di seguito alcuni elementi emblematici[16]:
- lo scioglimento dei ghiacci nella parte ovest dell’Antartideha superato ormai la soglia dell’irreversibilità e se le previsioni sonocorrette con l’innalzamento del livello dei mari la migrazione di centinaia dimilioni di persone rimarebbe l’unica alternativa (a);
- nonostante i rischi per l’ecosistema, naviinquinanti continuano a trasportare materiali inquinanti, provocando emissionidi gas di serra corrispondente al 4-5% del totale; l’organizzazione marittimainternazionale prevede un aumento del 72% entro il 2020 in assenza diprovvedimenti contro tale problema (a);
- negli ultimi 15-20 anni gli eventi climatici estremisi sono manifestati con effetti sempre più distruttivi e con frequenza sempremaggiore; per esempio El Nino nel 2015 ha provocato una grave siccità dall’AfricaOrientale sino al Sud America e all’Asia, traducendosi in malnutrizione, morte dimigliaia di capi di bestiame, e diffusione di epidemie, mettendo a rischiocirca 60 milioni di persone (a);
- a partire dal 1990, almeno 18 confitti violenti sonostati generati dallo sfruttamento delle risorse naturali e il 40% dei confittiintrastatali degli ultimi 60 anni (guerre civili come quelle in Angola, Congo,Darfur, Medio Oriente) si collegano alla gestione, accesso e sfruttamento dellerisorse naturali (a);
- il rapporto “The Human Cost of Weather RelatedDisasters” sostiene che negli ultimi 20 anni circa il 90% delle catastrofiregistrate nel mondo sono state provocate da fenomeni legati al clima (inondazioni,tempeste, siccità) (a);
- dal Medio Oriente agli Stati Uniti, dal SudAmerica all”Europa dell”Est, in tutti i continenti si moltiplicano i rischi discontro per l’acqua; il rapporto ONU “Acqua per un mondo sostenibile” dice cheentro 15 anni la domanda di acqua aumenterà del 55% ma nel 2030 ladisponibilità coprirà solo il 60% (b);
- 1 miliardo di persone sono ancora senzaacqua potabile e 2 miliardi e mezzo sono privi di servizi igienici (b);
- un rapporto del Pentagono (2004) afferma che le prossimeguerre saranno combattute per questioni di sopravvivenza.; nei prossimi 20 annidiventerà evidente un “calo significativo” dalla capacità del pianeta di sostenerel”attuale popolazione; milioni di persone moriranno per guerre e per fame finoa ridurre la popolazione della terra ad una quantità sostenibile (b);
- un rapporto della CIA (2011) sostiene che almenootto fiumi saranno oggetto di conflitti (b);
- la quantità di acqua necessaria in Africa percoltivare i terreni acquistati da stranieri e multinazionali nel 2009, è duevolte il volume usato nei 4 anni precedenti in tutta l’Africa; se l’accaparramentodelle terre e dell’acqua continua al ritmo attuale, la richiesta di acquasupererà le scorte Africane di acqua rinnovabile (b);
- dighe, miniere, piantagioni, autostrade,complessi industriali e resort turistici, costringono ogni anno 10 milioni dipersone a spostarsi e i privati assumono il controllo dell’acqua che dava davivere a intere popolazioni;
- solo le dighe hanno generato nei decenni passati80 milioni di profughi; per esempio la diga Rinascita, sul Nilo costruitadalla italiana Salini formerà un bacino che bloccherà tanta acqua pari a unavolta e mezzo il flusso annuo del Nilo e caccerà uomini e donne e animali (b);
- il Land Matrix, un “iniziativa indipendente permonitorare l’acquisizione di terre su grandi scale, registra che le transazionitransnazionali coprono una superficie di circa 44, 27 milioni di ettari,praticamente tutti situati nel Sud del mondo e solo una piccola percentuale èdestinata a coltivazioni alimentari; questo fenomeno provoca l’espropriazioneforzata di piccoli coltivatori locali (landgrabbing).
Gli effetti negativi di questo modello di sviluppo, così comei sui benefici, non sono omogeneamente distribuiti dal punto di vistageografico (ne tantomeno dal punto di vista delle classi sociali). Sono lepopolazioni del sud del mondo e quelle più povere a pagare il prezzo dellegravi conseguenze di questo sviluppo, quando invece i benefici sono concentratinei paesi occidentali e riservate alle persone abbienti.
3.2 Non puòesserci sviluppo equo senza giustizia ecologica
Giuseppe De Marzo nella sua presentazione “Larelazione fra diritti umani e diritti della natura”[17] haspiegato il rapporto, tanto ovvio quanto indissolubile, tra natura e uomo equindi tra diritti della natura e diritti dell’uomo, tra equità e sostenibilità,tra pace e sviluppo equo (come sosteneva Maathai Wangari) e tra sviluppo equo egiustizia ecologica.
Le “migrazioni da sfratto” non sono altro che unulteriore prodotto, insieme alla povertà e alle diseguaglianze, di questomodello di sviluppo, che basa la sua sussistenza sullo sfruttamento dellerisorse naturali, sulla protezioni dei capitali e dei profitti dei grandiinvestitori, e sulla credenza nello sviluppo illimitato.
Affrontare il problema dei “migranti da sfratto”significa ripensare profondamente e rivoluzionarmene a un nuovo modello disviluppo, che sostiene la causa dell’ambientalismo e dell’ecologismo piùradicale, ponendo fine alla rapina, sfruttamento e distruzione del PianetaTerra, rimettendo al centro dell’economia il concetto di beni, e perorando la causadella pace, il rispetto di tutti gli esseri umani e la solidarietà.
4. Ipocrisia, sfruttamentoe calpestamento dei diritti umani: neocolonialismo e neoliberismo
Nel 1961, Frantz Fanon, anticolonialista radicale, scriveva:
«Quando si riflette sugli sforzi che sono stati impiegatiper attuare l’alienazione culturale così caratteristica dell’epoca coloniale,si capisce che nulla è stato fatto a caso […] Il risultato coscientementericercato dal colonialismo, era di ficcare in testa agli indigeni che lapartenza del colono avrebbe significato per loro ritorno alle barbarie,incanagliamento, animalizzazione.»[18]
E ancora:
«Sono secoli che l’Europa ha arrestato la progressione deglialtri uomini e li ha asserviti ai suoi disegni e alla sua gloria; secoli che innome d’una pretesa “avventura spirituale” soffoca la quasi totalità dell’umanità.[…]
L’Europa ha assunto la direzione del mondo con ardore,cinismo e violenza. E guardate quanto l’ombra dei suoi monumenti si stende e simoltiplica. Ogni movimento dell’Europa ha fatto scoppiare i limiti dello spazioe quelli del pensiero. L’Europa si è rifiutata ad ogni umiltà, ad ogni modestia,ma anche a ogni sollecitudine, ad ogni tenerezza»[19].
Sono passati cinquantacinque anni, dovrebbe essere tuttaun’altra storia, ma queste parole sembrano ancora attuali nonostante ladecolonizzazione, i movimenti di liberazione, la creazione di stati africaniindipendenti e il riconoscimento nel 1948 (Carta dei diritti umani) che tuttigli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Il colonialismosi è esaurito, ma l’imperialismo occidentale ha trovato nuovo vigore sotto laguida americana.
In occasione del cinquantesimo anniversario del libro “Idannati della terra”, Miguel Mellino scriveva che l’attualità di Fanon sta nelfatto che siamo ancora di fronte a «una combinazione mostruosa di capitalismo erazzismo»[20].Mellino argomenta che l’imperialismo è ancora una realtà, così come il sistemagerarchico di status di cittadinanza che caratterizza le nostre metropoli, eche i processi di «accumulazione per espropriazione» e «finanziarizzazione»,oltre che appropriarsi dei mezzi di produzione si appropriano delle nostre vite.
Lo sfruttamento, la prevaricazione, il razzismo e l'annichilamentodelle culture africane e degli altri popoli non occidentali non passano piùattraverso i regimi coloniali, ma attraverso il neocolonialismo delle politicheestere dei nostri governi democratici, dei trattati economici internazionali e dell’aiutoallo sviluppo.
4.1 L’ipocrisia della cooperazioneallo sviluppo
È attraverso la “professionalizzazione” e la“istituzionalizzazione” dello sviluppo (Escobar, 1995) che si mirava areplicare nel “Terzo Mondo” le caratteristiche delle società occidentalicapitalistiche avanzate. Democrazia, un alto livello di industrializzazione eurbanizzazione, la meccanizzazione dell’agricoltura, rapida crescita dellaproduzione materiale e dello standard di vita, e adozione diffusa di valoritipici della cultura americana e anti-comunista dovevano essere gli obiettivi specifici.
Con la professionalizzazione dello sviluppo l’economista èdiventato l’esperto per eccellenza, seguito dal tecnico che ha il compito diapplicare le conoscenze teoriche e, attraverso la pianificazione, di legare l’economiaalla politica e allo Stato.
Con l’istituzionalizzazione dello sviluppo si è affermato uncomplesso sistema di relazioni, programmi, pratiche e organi amministrativi chehanno consentito di produrre, divulgare e inculcare discorsi, promuoverepolitiche, strategie, procedure, norme e comportamenti. Si è formata una vera epropria istituzione “aiuto allo sviluppo”o quello che oggi chiamiamo “cooperazione allo sviluppo” o “cooperazioneinternazionale”.
Con la fine del colonialismo, la cooperazione allo sviluppo, èuno degli strumenti più potenti per continuare a manovrare i paesi del Sud delmondo. Essa passa attraverso organi internazionali come la Banca Mondiale, leNazioni Unite, e le varie Banche di Sviluppo Regionali; le agenzie nazionali dicooperazione come l’USAID (americana), la Cooperazione Italiana, GEZ (tedesca)e JEICA (giapponese) e le Organizzazioni Non Governative. Queste agenzie sonoresponsabili della produzione e la circolazione dei discorsi dello sviluppo,attraverso conferenze, riunioni di esperti, consulenze, pubblicazioni, thinktanks, ma anche nella promozione e realizzazione di progetti e riformepolitiche, amministrative e sociali. Se le Nazioni Unite sono riconosciute comele più autorevoli nella produzione di linee guida e strategie; le agenzie diprestito, come la Banca Mondiale, portano con se il denaro e il simbolo delcapitale e del potere. Se gli esperti hanno la conoscenza e le competenze,quindi il potere delle parole, i governi hanno l’autorità legale di interveniresul popolo delle loro nazioni.
Il consenso a questo “controllo” sui paesi del Sud del Mondoe in particolare sull’Africa è garantito dall’obiettivo buonista della lottaalla povertà, al quale tutte queste organizzazioni si appellano. Al contempo,consente di perseguire, implicitamente, l’interesse e il tornaconto del mondooccidentale del capitalismo neoliberista. Con l’introduzione della “governance” nel discorso sullo sviluppo side-politicizza il campo “politicamente” sensibile delle trasformazioniterritoriali, e socio-economiche verso il solo campo della tecnica,sbarazzandosi del rischio di venir accusati di ingerenza, pur continuando ainfluenzare gli assetti istituzionali dei paesi poveri e indirizzarli versoprogrammi che implicavano riforme neoliberiste.
Nelle città si afferma uno sviluppo predatorio finalizzatoallo sfruttamento delle rendite connesse alla valorizzazione economica di tuttele risorse privatizzabili. Nelle città africane alla segregazione razziale delcolonialismo si sostituisce una segregazione su base socio-economica, dove formedi esclusione fisica, economica e sociale perpetuano diseguaglianze, povertà eframmentazione del tessuto urbano. Alla città pianificata e infrastrutturata,luogo del potere, delle classi agiate e dei cosiddetti espatriati, delle bancheinternazionali, degli alberghi di lusso, dei mall e degli uffici dei gruppiinternazionali, si contrappone la città informale, costituita da agglomerazionispontanee, fatte di materiali di scarto, dove vivono migliaia di persone esclusedai beni e i servizi urbani di base come l’acqua, le fognature, i trasporti, lestrutture sanitarie. È anche l’esclusione da un lavoro regolare e adeguatamenteretribuito, dalla rappresentanza politica e dai processi decisionali.
4.2 Due esempi dineocolonialismo
È la costruzione di dighe e bacini artificiali che dàorigine ai più consistenti sfratti, sottraendo spazi e risorse comuni acomunità locali ed economie diffuse per innescare processi produttivi cherispondono a logiche di profitto transnazionali e di scala industriale. Questecostruzioni sono generalmente finanziate con prestiti o contributi di organiinternazionali come la Banca Mondiale, coinvolgono agenzie di cooperazione, tecnicistranieri, materiali di importazione, meccanismi di corruzione per aggirarenormative ed acquisire il consenso dei governi, e spesso finiscono con ilcalpestare i diritti umani delle popolazioni. Non a torto, si parla dineocolonialismo.
Porto due esempi: il caso del lago Turkana e valle dell”Omoin Kenya e quello degli EPA (Economic Partnership Agreements), accordi dilibero scambio tra l”Europa e i paesi ACP (paesi dell Africa, Caraibi ePacifico).
La valle dell’Omo è alimentata dall’omonimo fiume, cheattraversa l’Etiopia per poi sfociare nel lako Turkana. Storicamente, qui vivonoalcune tra le più antiche comunità africane, che praticano un’economiaagro-pastorale di sussistenza, strettamente legata all’inondazioni del fiumeOmo.
Dagli anni Sessanta in poi questa valle ha visto lacostituzione di due parchi nazionali - che ha escluso dalla gestione di questeterre le popolazioni indigene - e le estese piantagioni da carburante, che hannomesso a rischio le comunità locali. A peggiorare la situazione, è stata lacostruzione di tre infrastrutture indroelettriche che insistono sul bacinodell’Omo: la diga Gibe I (2004), la stazione idroelettrica Gibe II (2010) e larecente diga Gibe III (2015). Quest’ultima, incoraggiate dalle agenzieinternazionali per lo sviluppo, è destinata a raddoppiare la capacitàenergetica di Etiopia, fornire energia per l'esportazione nel vicino Kenya,Sudan e Gibuti e irrigare le piantagioni industriali.
Questi progetti disviluppo hanno innescato una serie di processi, tutti a discapito dellepopolazioni locali. La raccolta d’acqua di Gibe III frena le inondazioninecessarie a sostenere la produzione alimentare di circa 200.000 persone. Neldisperato tentativo di trovare altri mezzi di sussistenza i pastori hannospostato il loro bestiame nel Parco Nazionale Mago, ciò che ha scatenato la lotta con i soldatigovernativi incaricati di proteggere il parco. In altre zone, il governo etiopecostringe le comunità indigene a fare spazio alle grandi piantagioni,sfrattandole dalle loro terre ancestrali e senza risarcimento adeguato. Lagente del posto riferisce che una tattica del governo è quello di scatenare unacomunità contro l’altra al fine di reprimere meglio in caso di rivolta[21].Perriempire il serbatoio della diga prima e per deviare l’Omo dopo - che servirà all’irrigazione delle piantagioniindustriali – il livello del lago Turkana sarà drammaticamente ridotto, trasformandol’area nell’ennesimo luogo di conflitto per le risorse.
Dietro a questi progetti ci sono la Salini CostruttoriS.p.A., una delle principali aziende italiane operanti nel settore delleinfrastrutture, e i soldi della coperazione italiana, sotto forma di creditod’aiuto al governo etiope. Nel 2004 sono stati stanziati ben 220 milioni dieuro, nonostante: a) le obiezioni della Direzione Generale per la Cooperazioneallo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri e del Ministero dell'Economia edelle Finanze, in quanto il contratto tra la Salini e Ethiopian Electric PowerCorporation è stato fatto senza gara d'appalto, in violazione del dirittoitaliano e dell’ UE; b) l’assenza di uno studio di fattibilità riguardante le speseper le misure di mitigazione dell’impatto ambientale; c) l’ulterioreindebitamento dell’Etiopia. Persino la Banca Mondiale, maggiore sostenitore diprogetti infrastrutturali nel Sud del Mondo, aveva negato il prestito[22].
Gli EPA sono degli accordi commerciali tra due gruppi dipaesi (paesi UE e paesi ACP), che mirano a eliminare le barriereprotezionistiche in nome del libero scambio. I negoziati, cominciati nel 2002 e ufficialmente conclusi nel 2014,mirano ancora una volta a proteggere l’economia europea – in un momento diprofonda crisi – attraverso l’apertura dei mercati dei paesi ACP ai prodottiEuropei eliminando qualsiasi daziodi importazione.
I paesi dell’Africa, Caraibi e Pacifico, già messi alla duraprova da severe trasformazioni ambientali, vedranno le proprie produzionilocali ulteriormente strangolate, anche perché non di godono di sussidi oincentivi statali, come quelle Europee. L’appello lanciato da Padre Zanotelli e Vittorio Agnoletto“Fermiamo gli EPA”[23] mettevain guardia sulle conseguenze nefaste di questi accordi per i paesi africani,che colpiscono le economie regionali e impediscono lo sviluppo di prodottinazionali.
5. Sfrattati dellosviluppo: un appello e un impegno politico

Individuare “il problema” da affrontare è una scelta fondamentale che influenza il percorso sia della comprensione che della soluzione. Non solo, ma identificare come problema una determinata questione piuttosto che un'altra, è un’operazione ideologicamente orientata, perché riflette uno specifico modo di vedere le cose e il mondo.

C’è una profonda differenza ideologica, politica, morale e tecnica tra:

a) fare fronte ai “migranti senza visto” che secondo i governi e la maggior parte dell”opinione pubblica disturbano le nostre vite;

b) assistere i “migranti da sfratto”, ovunque essi siano, anche intervenendo sui meccanismi che portano agli sfratti, espropriazioni e migrazioni forzate.

Scegliere se il problema da porci sia a) oppure b) influirànon solo sulle nostre scelte future in termini di ricerca, politiche,provvedimenti, ma definirà anche di chi e di che cosa prenderci cura e quindidi chi siamo.
A mio parere affrontare il problema in termini di migranti(quali che essi siano) non rende giustizia né alle complesse cause eresponsabilità intrinseche né agli obiettivi di radicale cambiamento, giàespressi da una certa parte della società, e che nel convegno stesso hannotrovato spazio e parole, a partire da quelle di Barbara Spinelli.
Anche estendendo (giustamente) la categoria degli aventidiritto di asilo a coloro che si trovano costretti ad abbandonare le loro terreper fenomeni causati da mutamenti socio-ambientali, non si cambierebbe il mododi concepire la società e veder il mondo dal di sopra (il Nord). Quello checontinuerebbe ad alimentarsi sarebbe il “pensiero abissale”, cioè «una disposizione intellettuale,filosofica e politica, che si traduce nella capacità di tracciare linee attraversole quali istituire divisioni radicali all'interno della realtà, rendendone unaparte «riconoscibile», rispettata, rilevante, e condannando tutto il resto all'irrilevanzae all'inesistenza».[24]
Propongo quindi di parlare di “sfrattati dello sviluppo” pertre ragioni:
- per evidenziare che il problema e il grandedramma sta in chi è sfrattato, cioè costretto a lasciare il proprio luogo diorigine, e non nel cercare rifugio altrove che è una conseguenza e che diventaproblema solo nel momento in cui l’altrove non è disposto ad accogliere;
- per rendere esplicite le cause strutturali edipendenti dall’azione che generano gran parte delle migrazioni e riconoscerela responsabilità delle nostre società, perché è su queste che possiamo agirecambiando radicalmente il modo di concepire il mondo e il modello di sviluppodi riferimento;
- per dare un senso profondamente politico all’impegnoe alle azioni necessarie per sostenere il cambiamento.
Questo scritto diventa anche un appello, perché comprendere non è sufficiente percambiare, e il passo successivo è farcomprendere. Convincere il maggior numero di persone che queste politicheeuropee sono degradanti per la nostra civiltà, non rappresentano ciò che siamooggi, e ciò che vogliamo essere domani. Accettare queste politiche significaapprovare di sopraffare e calpestare gli altri, che un domani potremmo ancheessere noi o i nostri figli, perché il modello che vita che ci siamo costruitinon lascia scampo e non permette di raggiungere quei principi di libertà euguaglianza in dignità e diritti, che ci accomunano in quanto essere umani.
Johannesburg, 10 ottobre 2016
Il testo è scaricabile qui in formato .pdf


[1] La registrazione e trascrizione completa del Convegnoè disponibile sul sito di Radio Radicale: https://www.radioradicale.it/scheda/486729/il-secolo-dei-rifugiati-ambientali-analisi-proposte-politiche.
[2] Salvatore Altiero eMaria Marano (a cura di) “Crisiambientale e migrazioni forzate”, 2016, http://asud.net/wp-content/uploads/2016/07/Crisi-ambientali-e-migrazioni-forzate-def.pdf
[3] UNCHR, “Global Trends 2015”, http://www.unhcr.org/576408cd7.pdf
[4] IDMC, “Global Report on Internal Displacement”, May2016,http://www.internal-displacement.org/assets/publications/2016/2016-global-report-internal-displacement-IDMC.pdf
[5] Dati riferiti al 2015, estratti da “Global Trends2015” (op.cit).
[6] Vedi gli articoli di Guido Viale “Il gioco crudele delMigration compact” e di Alex Zanotelli “No Migration Compact” per unaspiegazione più esaustiva; rispettivamente su eddyburg alle pagine:

[7] Si legga per esempio l’articolo di Tonia Mastrobuoni “L’implicitoaccordo dei carnefici dell’EU sul destino dei migranti”, su edduburg allapagina:

[8] Op. cit.
[9] La FMO parla di migrazioni forzate, termine che io ho ritenutoopportuno cambiare in “migrazioni da sfratti” (http://www.forcedmigration.org).
[10] Al Convegno la relazione di Francesca Casella ha messoin evidenza come nel mondo ci siano 200,000 aree protette, di cui il 50% sonoanche gli habitat di origine di popolazioni indigene, che vengono cacciate innome della “conservazione e tutela”.
[11] Consiglio di leggere Salvatore Altiero e MariaMarano (a cura di), “Crisi ambientale emigrazioni forzate”, op.cit.
[12] ib., p. 8.
[13] François Gemenne “L”Antropocene e le sue vittime: unbuon motivo per parlare di rifugiati ambientali” relazione al convegno “Il secolodei rifugiati ambientali?”.
[14] Gilber Rist, “Losviluppo. Storia di una credenza occidentale”, 1997, Bollati Boringhieri.
[15] Ilaria Boniburini,"L’ideologia della crescita, l’inganno dello sviluppo”, in: Mauro Baioni,Ilaria Boniburini, Edoardo Salzano, La città non è solo un affare, ÆmiliaUniversity Press, 2013, pp: 5-21.
[16] I dati sono statiestrapolati da: (a) rapporto “Crisi ambientale e migrazioni forzate” a cura diSalvatore Altiero e Maria Marano; (b) dalla relazione “Il diritto all”acqua e iprofughi idrici” di Emilio Molinari ; (c) dalla relazione “Dagli EPA (EconomicPartnership Agreements) al Land Grabbing: l”impatto sui processi migratori” diVittorio Agnoletto.
[17] Raccomando diascoltare l’intera registrazione della presentazione di De Marzo sul sito diRadio Radicale.
[18] Franz Fanon, “I dannati della terra”, 2007 [1962],Einaudi, p. 143.
[19] ib. p. 227.
[20] Miguel Mellino, “Un classico per il presente”, Il manifesto, 18 maggio,http://rassegnastampa.unipi.it/rassegna/archivio/2011/05/18SI93020.PDF.
[21] The Oakland Institute, “Omo Tribes under threat”,2013.
[22] Per un approfondimento si legga Salvatore Altiero,“Lago Turkana e
Valle dell”Omo: dalle dighe made in Italy alle barriere dell’Europa,lo sviluppo che genera migrazioni” in A Sud – CDCA “Crisi ambientale emigrazioni forzate”, op. cit. pp.
[24] Traduzione dell’autore di Boaventura de Sousa Santos,“Beyond abyssal thinking”, 2007,http://www.boaventuradesousasantos.pt/media/pdfs/Beyond_Abyssal_Thinking_Review_2007.PDF.
«Il Viminale blocca la moneta inventata da Mimmo Locano. Il papa invece lo invita in Vaticano».

Il manifesto, 11 ottobre 2016 (p.d.)

Il sogno di Mimmo Lucano, sindaco di Riace, era quello di incontrare Bergoglio. «Il suo messaggio rivoluzionario è quello che più si avvicina all’universalismo dei diritti che qui, nel nostro piccolo, cerchiamo di praticare», aveva detto in un’intervista rilasciata a questo giornale. E l’incontro si farà.

Lucano è stato invitato, «su desiderio di Papa Francesco», a partecipare al summit europeo, il 9 e il 10 dicembre, presso la Casina Pio IV in Vaticano. Con lui anche l’alcadesa di Madrid, l’ex magistrato Manuela Carmena. Si tratta di un summit sulle buone pratiche messe in atto nel mondo a favore di rifugiati e sans papier. Un tema notoriamente caro al papa argentino. «Innalzare altri muri e recinzioni – è scritto nella nota che anticipa il convegno – non fermerà i milioni di migranti in fuga. Urge che i sindaci, in quanto autorità più vicine alla cittadinanza, mettano a disposizione le loro competenze per accogliere e regolarizzare tutti i migranti e i rifugiati. È necessario che la voce dei sindaci venga ascoltata per promuovere la costruzione di ponti e non di muri».

Ma la bella notizia mitiga solo in parte l’indignazione di Lucano per quel che è accaduto dalle parti del Viminale qualche giorno fa. Il servizio centrale per l’immigrazione ha, infatti, comunicato che d’ora in poi sono vietate le banconote inventate nel 2011 da Lucano per superare le pastoie burocratiche in cui spesso il sistema Sprar si impantana. Un meccanismo rivoluzionario: Lucano ha istituito una moneta locale, una sorta di bonus sociale convertibile, mediante il quale i commercianti riacesi fanno credito ai migranti. Sono banconote con l’effigie di Martin Luther King, Che Guevara, Peppino Impastato, Pio La Torre, Charlie Chaplin e altre icone di libertà e giustizia.

Hanno un valore di 1,2,5,10, 20 e 50 euro. I debiti contratti vengono saldati in pochi mesi, e, nel mentre, si tiene in piedi un esperimento tanto pratico quanto efficace. Ciò, al fine di sopperire al ritardo dei fondi pubblici e per assicurare ai profughi un reale potere d’acquisto. Ma tutto questo evidentemente dà fastidio a qualcuno. Non è la prima volta che si cerca di ostacolare il “modello Riace”. Ci hanno già provato. Ecco dunque l’ordine di ritirare i bonus-moneta dalla circolazione.

Lucano è infuriato ed è pronto scendere in piazza con tutti i migranti accolti se il divieto non verrà ritirato. In settimana incontrerà il capo del dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Viminale, Mario Morcone.

». La

Repubblica, 11 ottobre 2016 (c.m.c.)

Ashis Nandy vede venditori di nazionalismo far danni in tutto il mondo, compresa la sua India. Ma qui questa ideologia mescolata prima al secolarismo del modello Nehru, ora all’induismo di Narendra Modi non ha funzionato bene, tanto meno ora. Il celebre intellettuale, psicologo e sociologo, – 78 anni – ha fatto sua la battuta di Rabinandrath Tagore, uno dei padri della moderna India: l’impresa di costruire un nazionalismo indiano è tanto assurda quanto per la Svizzera sarebbequella di darsi una marina militare. Ma Nandy è prima di tutto studioso della mentalità coloniale. Ha lavorato per la «decolonizzazione» della mente indiana e la liberazione dal suo «nemico intimo»: gli inglesi. Si è occupato dei poteri coloniali europei, tra i quali ha individuato i «perdenti nel Primo Mondo», con il loro «machismo», o come meglio dice lui, il loro «androcratico dominio».

E dunque la prima cosa che le chiedo è: se la mente indiana è da decolonizzare che cosa si ha da fare con la mente europea?
«Sono d’accordo con la formula che piace a Taylor e Chakrabarty: smetterla di immaginarsi come il centro. Ma aggiungo che il «West», Europa e Nord America, in virtù dell’esperienza coloniale con il «Rest », sono portatori di un trionfalismo e della visione del proprio stile di vita come superiore a quello di altre parti del mondo. E banalmente osservo che il mondo non ha il genere di risorse che serve per produrre una mezza dozzina di Stati Uniti d’America. In Europa va un po’ meglio, ma non riesco a credere a quanto gli europei siano ostili verso gli immigrati, a quanto esageratamente pensino che il loro arrivo possa rendere la loro esistenza miserabile. Hanno invece qualcosa di importante da imparare».

Che cosa?
«Quello che è vero per l’Europa come è vero per l’India e per tutti: una certa apertura ad altri stili di vita e di pensiero è necessaria ed implica che, in alcuni casi, i livelli dei consumi debbano abbassarsi, invece di salire. C’è qualcosa di sbagliato nella difficoltà europea e americana di affrontare questa possibilità. La nostra idea di progresso è viziata dal dogma della crescita perpetua. Nel 1972 il Club di Roma ha prodotto un manifesto intitolato ai “limiti dello sviluppo”. E ora? Non riusciremo a rendere popolare la “crescita zero”, ma almeno prepariamo la gente a uno stato di cose in cui si dica: “Va bene, è abbastanza, non vogliamo crescere di più”».

Lei, bengalese, ha vissuto la separazione tra musulmani e induisti, la nascita del Pakistan e poi del Bangladesh. Avvennero quelle che restano forse le più grandi migrazioni umane della storia.
«Appartengo al Bengala. E lì ho assistito alla stessa ostilità nei confronti degli immigrati, un numero altissimo di rifugiati, quasi dieci milioni in un colpo solo. E poi ancora molti altri. Fu una catastrofe. E lo stesso è accaduto nel Punjab, il Pakistan a occidente. Anche quando il governo ha cercato di trattare bene i profughi, mostrandosi aperto nei loro confronti, le stesse comunità di appartenenza, gli stessi parenti! sono stati ben più ostili e implacabili».

Ma che cosa è il nazionalismo in India? Ci sono sondaggi secondo i quali l’India è il paese più nazionalista al mondo.
«A dispetto di questi dati le dico che il nazionalismo non è un’opzione qui di successo, perché è troppo specifico per soddisfare i bisogni di tutti gli indiani. L’India è caratterizzata da una serie di anelli comunitari concentrici, e ciascun individuo non appartiene solo a una, ma a una serie di comunità, dal paese alla regione, fino al gruppo linguistico, alla setta, alla religione e, infine, alla casta. Il quadro è davvero molto complesso. Ogni comune individuo indiano, vive un “io” sfaccettato, ma ci si trova abbastanza a suo agio, perché è abituato a questa varietà».

«Sono antisecolarista», lei ha detto una volta.
«Il progetto secolare era tarato nella sostanza. Partiva dal presupposto che, così come in Europa, la religione si indebolisse. La gente si dichiarava non credente, agnostica o atea e molto spesso l’ideologia ha fatto da surrogato della religione. Ci si aspettava che quelle ideologie servissero a fornire una struttura etica alle nostre esistenze pubbliche, ma così la sfera pubblica è apparsa dominata dalla legge della giungla, priva di valori, in preda alla anomia».

Ha ragione allora il filosofo cattolico tedesco, Wolfgang Boeckenfoerde che dice: «Gli stati liberali e secolari vivono di premesse che non sono capaci di riprodurre»?
«Il problema nasce prima dello stato liberale, con la Rivoluzione francese e il giacobinismo: senza terrore nulla si ottiene. Tale convinzione si è radicata nel profondo nella cultura delle élites del potere e da lì sono penetrare in profondità nel complesso della società intera. La società tedesca dopo la Prima Guerra mondiale era alla deriva dal punto di vista morale, e l’ascesa del nazismo si collega a questa crisi della vita pubblica. L’Illuminismo europeo ha prodotto di tutto: grandi pensatori, grandi innovatori, grandi riformatori sociali, grandi scienziati, ma non ha prodotto un pensatore che abbia dato priorità alla non violenza, un aspetto cruciale nella vita pubblica del nostro tempo».
Lei propone una alternativa al secolarismo, cerca nuovi concetti.

E che nome darebbe a questa alternativa?
«Pluralismo culturale è un termine abbastanza consono, perché ogni sistema religioso, in questa parte del mondo, può dare il suo contributo, anche il cristianesimo, quello di San Francesco d’Assisi. In quest’area del mondo Chiesa e Stato non sono così distinti, perché non esiste una Chiesa. Ciò rende il contesto caotico ed eterogeneo, ma facilita anche l’instaurarsi di un dialogo».

Quella in corso è la recrudescenza del nazionalismo induista e sta vanificando il progetto laico.

«Il progetto nazionalista induista è un prodotto diretto del progetto secolarista, perché la persona che l’ha istituito era un ateo dichiarato. Sia il leader degli induisti, che ha prodotto la Bibbia del nazionalismo (Vinayak Damodar Savarkar) sia il leader del nazionalismo musulmano, che ha forgiato nel subcontinente uno Stato musulmano, il Pakistan (Mohammad Ali Jinnah), erano entrambi personalità non religiose e nutrivano un profondo disprezzo nei confronti dei comuni induisti e dei comuni musulmani».

Un’ideologia contro la natura del popolo cui è stata imposta.

«Il disprezzo nei confronti degli induisti e dei musulmani è iscritto chiaramente nelle vite e nelle opere di quei due campioni. Si è trattato dello sfruttamento di una identità religiosa per consolidare una convivenza democratica. È un po’ come quello che è accaduto in Palestina. Lì le relazioni tra ebrei e musulmani e virtualmente ovunque, in Magreb, nell’impero ottomano, nella Spagna dei mori, erano migliori che nel resto d’Europa. Oggi invece si azzuffano come cani e gatti e questa contrapposizione va avanti in Palestina da sessantacinque anni. Così in Asia meridionale si azzuffano musulmani e induisti da sessantacinque anni. Non ha funzionato e ancora non vedo una facile via d’uscita».

L'autore è fra i protagonisti di “ Identità e democrazia in un’epoca di paura” , il convegno internazionale di Reset-Dialogues on Civilizations che si terrà dal 12 al 14 ottobre alla Fondazione Cini di Venezia in collaborazione con l’Università di Ca’Foscari e la Fondazione FIND

il manifesto, 9 ottobre 2016 (c.m.c.)

Ogni giorno quarantaduemila persone si mettono in cammino nel mondo per fuggire dalla morte e dalla disperazione. Oggi, in tanti e diversi, ci aggiungeremo a loro, camminando da Perugia ad Assisi. Il loro dolore, la loro angoscia, sono, in qualche modo, anche i nostri perché li sentiamo vicini, sentiamo le loro grida di aiuto, vogliamo fare qualcosa, reagire, rispondere, proteggere. Per molti, noi siamo semplicemente matti, anime belle ma inconcludenti perché pensiamo di affrontare questi problemi con una marcia della pace e della fraternità. Ma è solo un altro modo per tirarsi fuori e restare comodamente seduti nel proprio giardino di privilegi e illusioni.

Il problema è che si sentono in pace mentre siamo in guerra. Una guerra vera, anche se molto diversa da quelle del passato. Una guerra mascherata da pace. Una guerra combattuta in gran parte da altri, lontano da noi, che ci consente di pensare ai fatti nostri, al nostro tornaconto, a ciò che ci interessa e ci conviene. Per questo il momento è difficile: perché dobbiamo cambiare radicalmente mentre sembra che possiamo continuare la vita di sempre.

Ogni tanto una foto, un’immagine, un attentato, una tragedia, un fatto ci colpisce e abbiamo un soprassalto di consapevolezza, di coinvolgimento. Ma dura poco. Ciascuno è interessato ai fatti che lo coinvolgono direttamente, sul momento. I fatti che hanno un impatto sul medio o lungo periodo o che non ci coinvolgono immediatamente, vengono costantemente rimossi o derubricati. Per egoismo, per indifferenza o per ignoranza. Ma anche per un problema di prospettiva. Questo è tempo di chiusure. Non solo di frontiere.

Non alziamo più la testa dal francobollo di terra che calpestiamo. Chiudiamo gli occhi sul mondo mentre il mondo diventa sempre più interconnesso e interdipendente. Chiudiamo gli occhi sul futuro perché continua a sorprenderci e ci inquieta. Non c’è niente che possa competere con le cose che ci occupano o preoccupano, qui e ora. Del resto, siamo ostaggio di un sistema mediatico che accende e spegne le nostre attenzioni con la stessa velocità con cui cambiamo il canale in televisione.

Nel frattempo, i fatti si muovono, si susseguono, si moltiplicano, si complicano modificando rapidamente la realtà, sconvolgendo le nostre convinzioni, costringendoci a fare i conti con problemi sempre più difficili e complessi.

Di fronte a questa realtà pressante, partecipare ad una marcia della pace e della fraternità vuol dire vincere l’indifferenza, la rassegnazione, la sfiducia, recuperare la capacità di pensare, di agire e non solo re-agire, di farlo assieme e non da isolati.

Con la Marcia Perugi-Assisi, noi proviamo a fare un certo numero di cose allo stesso tempo.

Riconnetterci con il dolore del mondo perché il dolore ci rende tutti più umani. La sofferenza delle persone sta crescendo in tante parti del mondo come nelle nostre città, nelle nostre famiglie. Grazie alle tecnologie della comunicazione aumenta la conoscenza e la percezione di questo dolore diffuso. C’è il dolore terribile, angosciante di tutte le persone che stanno agonizzando per la fame, la sete e la mancanza di cure (di questi giorni la Nigeria, lo Yemen,..), di quelle che sono martoriati dalle bombe e dal terrore ad Aleppo o in qualche altro mattatoio dimenticato, di quelle che cercano di scappare, di quelle che perdono il lavoro, che non riescono a trovarlo, delle donne abusate, violentate,… E c’è il dolore dell’anima.

Il dolore che ci portiamo dentro, il dolore profondo della vita che viene da un malessere diffuso e accompagna il senso di inquietudine e smarrimento. E poi c’è, sempre più evidente, il dolore della natura che a forza di alte temperature, di bombe d’acqua, di scioglimento dei ghiacciai, di innalzamento del livello dei mari e di desertificazione manifesta le conseguenze dei disastri che abbiamo causato. «Restiamo umani» ci implorava Vittorio Arrigoni dalla Striscia di Gaza. È arrivato il tempo di andare a ripescare la nostra umanità nel mare in cui l’abbiamo lasciata sprofondare.

Ri-unire gli operatori di pace, invitarli a uscire allo scoperto, radunare le forze sparse, ri-unire le energie positive, le persone che hanno deciso di non rassegnarsi, di assumere le proprie responsabilità, di cercare di capire cosa non va nel nostro modo di vivere e di «fare società», di cambiare qualcosa nella propria vita e di unirsi ad altri per capire come costruire nuovi rapporti economici, sociali, internazionali e con la natura. «Da isolati – diceva Aldo Capitini – non si risolvono i problemi».

Accendere i riflettori sulle tante cose positive che succedono, le cose semplici che moltissime persone fanno senza aspettare qualcun altro, i tanti modi in cui si fa «pace», i tanti piccoli passi quotidiani verso una società di pace. E così, rendere le nostre azioni individuali e collettive più forti e contagiose.

Investire sui giovani e sulla scuola. Alla Perugi-Assisi partecipano più di cento scuole di tutt’Italia con migliaia di giovani studenti. Per ciascuno di loro la marcia è l’occasione per dare avvio o proseguire un percorso di educazione alla cittadinanza glocale avviato da dirigenti scolastici e insegnanti che cercano di trasformare la scuola in un luogo dove si studia e s’impara la pace. Preparare i giovani a vivere da cittadini consapevoli e responsabili in un mondo globalizzato, interconnesso e interdipendente, in continuo, rapido cambiamento, è uno dei compiti più urgenti della scuola e della nostra società. Partecipare alla Marcia, organizzarne un pezzetto, vuol dire fare uno dei tanti «esercizi» di pace necessari per imparare a farla tutti i giorni.

Fare pace a km 0. Affrontare il tempo difficile che è arrivato imparando a fare pace nelle cose che facciamo, nei luoghi in cui operiamo, nelle nostre città-mondo. Le nostre città non sono isole ma spazi attraversati, spesso investiti, dalle correnti di tutto il mondo. Dobbiamo pensare alle nostre città-mondo come un laboratorio del mondo nuovo che vogliamo costruire.

Nelle nostre città, nei territori possiamo fare molte cose: svelare le basi militari evidenti e nascoste e gli interessi collegati, fare pace con la nostra gente sempre più sola, ansiosa, rancorosa, ritrovare il noi che può aiutare l’io, ricomporre le comunità, un pensiero comune, imparare a prenderci cura gli uni degli altri e dell’ambiente, investire sui giovani e sulla loro formazione, lottare contro ogni forma di violenza e di esclusione sociale, organizzarci per accogliere chi arriva da altri mondi, rimettere al centro il lavoro, costruire un’economia solidale… Se lo possiamo fare, abbiamo la responsabilità di farlo! Nella convinzione che tutto quello che faremo per la pace nelle nostre città contribuirà alla costruzione della pace nel mondo.

Gettare le basi per una politica nuova. «Il mondo si sta riscaldando pericolosamente e i nostri governi si rifiutano ancora di prendere i provvedimenti necessari per fermare questa tendenza» ha detto qualche tempo fa Naomi Klein. Ma il problema come sappiamo non è solo climatico. Non c’è uno spazio pubblico internazionale dove non si respiri un’aria di tensione e di scontro: tutti contro tutti. Veniamo da un lungo tempo dominato dalla cecità e dalla sordità politica ed economica. E ora che cominciano a essere tragicamente evidenti i segni dei disastri che abbiamo provocato, a spadroneggiare sono gli egoismi e la sfiducia.

Tutti i mali che per un certo tempo avevamo rimosso sono tornati: guerre, nazionalismi, muri, xenofobia, corsa al riarmo, trafficanti di armi e di spese militari…E, all’ombra di una democrazia e libertà sempre più virtuali, scorrazzano gli imprenditori della paura e i fomentatori d’odio.

Per fermare le guerre, fare le paci, azzerare la fame, debellare la sete, sradicare la miseria, proteggere il pianeta avremmo bisogno di politici straordinari, dotati di visione e molto coraggio. Se non li troviamo, non possiamo fare altro che assumerci anche questa responsabilità. Non ci sarà mai pace senza una vera politica di pace. La speranza che coltiviamo anche oggi è che, insieme, possiamo generarne una davvero nuova.

«». il manifesto

Si è da poco conclusa a New York l’assemblea generale delle nazioni Unite, l’ultima della presidenza Obama e l’ultima con Ban Ki-Moon segretario ma la prima ad avere come tema centrale migranti e rifugiati.

Le aspettative intorno a questa assemblea erano altissime ed in molti sono stati delusi dal risultato, ritenuto piú una promessa di buone intenzioni che un impegno preso dai leader del mondo nei confronti di un problema umanitario globale.

«Bisogna tener presente la complessità di questi incontri – spiega Andrea Milan di UN Woman, specializzato in tematiche di genere correlate ai flussi migratori – UN Woman ha lavorato a stretto contatto con il team che ha supportato i negoziati, ed il risultato che è stato raggiunto, nel clima politico che conosciamo, viste le dichiarazioni sul tema rilasciate da molti dei capi di Stato coinvolti, è stato quello che poteva essere, si è arrivati dove si poteva arrivare. Si è scelto, in pratica, di non forzare i tempi ma di accordarsi almeno su dei messaggi chiari e importanti nell’immediato. Ad esempio gli stati membri delle nazioni unite si sono impegnati sul fatto che tutti i bambini possano avere accesso al sistema educativo entro pochi mesi dal loro arrivo a destinazione. Ma la cosa importante è che se ne sia cominciato a discutere e che ora si prepara un processo di due anni che porterà all’approvazione di un global compact per i rifugiati».

E questo per UN Woman è un passo in avanti?

Certo che lo è; si è messo un approccio al problema dei rifugiati che tenga conto delle tematiche di genere, che comprenda i diritti umani, e sia centrato sulle persone e non su i numeri, visto che di solito si parla solo dei grandi numeri e non delle persone che li compongono. Si creerà un compact molto complesso su le migrazioni e su i rifugiati, Questo summit di settembre è stato determinato a fine dicembre 2015, il team si è composto ad inizio 2016, in pochi mesi era difficile arrivare ad una conclusione risolutiva sul tema, con posizioni tanto diverse tra i vari governi.

I paragoni venivano fatti tra i risultati ottenuti al summit di Parigi sul climate change e quelli ottenuti fa questo summit.
Prima che ad UN Woman ho lavorato all’universitá dell’Onu e sono stato coinvolto nei negoziati verso Parigi. La differenza che c’è stata, ad esempio con il fallimento dei negoziati sul clima di Copenaghen, ed il successo ottenuto a Parigi, è da ricercare nel processo lungo che ha preceduto il summit francese. La difficoltá sul tema dei rifugiati è che qua bisogna agire su due fronti perché abbiamo da un lato l’urgenza e l’emergenza di persone che muoiono, emergenza che va affrontata, e dove bisogna dare una risposta ai bisogni immediati, dall’altra abbiamo la necessitâ di una risoluzione di lungo periodo e più complessa che va negoziata in parallelo.

Oltre al summt dell’Onu, il giorno immediatamente successivo c’è stato anche un summit di Obama sullo stesso tema. Questo non depaupera il ruolo dell’Onu?
Il summit di Obama è stato importante in quanto aveva come obiettivo quello di portare degli impegni concreti sul campo, ed alcuni Paesi lo hanno fatto, si sono impegnati. C’è stata una forte collaborazione tra l’Onu che organizzava il proprio summit e gli Stati Uniti che organizzavano quello del giorno seguente.
Quando si considerano i risultati del summit su i rifugiati, bisogna considerare entrambi gli eventi. Le Nazioni unite si sono concentrate su i due global compact, rifugiati e migrazioni, che sono complessi, ad esempio il compact su i migranti ha una parte imponente che riguarda il mondo del lavoro, e richiederanno lunghi negoziati, mentre il summit di Obama si è concentrato sull’immediato, in special modo sulla crisi dei rifugiati siriiani e la loro ricollocazione nei vari Paesi.

In che modo UN Woman affronta il problema delle tratte?
Lavoriamo su vari livelli, cercando di assicurarci che le misure che vengono adottate tengano conto dei bisogni specifici delle donne. Le donne hanno sempre un carico maggiore di problemi. Tornando alla situazione dei rifugiati, le donne corrono più rischi ed hanno più discriminazioni ad esempio come lavoratrici in quanto migranti, straniere. Nell’ambito delle tratte di essere umani cerchiamo di assicurarci che le misure normative per combattere la tratta comprendano le aree di vulnerabilità specifica in cui si possono trovare le donne. All’interno delle risposte fornite dal sistema delle Nazioni unite, una parte importante del lavoro di UN Woman è proprio fare in modo che la violenza sulle donne, in ogni sua forma vada prevenuta, e può esserlo solo tramite un lavoro congiunto con le parti normative e la società civile.

Riportiamo il testo integrale dell'intervento di apertura tenuto dall'eurodeputata Barbara Spinelli al convegno internazionale "Il secolo dei rifugiati ambientali?" tenutosi a Milano il 24 settembre 2016. In calce il link peri video integrali dell'evento.

barbara-spinelli.it, 7 ottobre 2016 (p.d.)

Convegno internazionale: "Milano, 24 settembre 2016 | Palazzo Reale

Promosso da: Barbara Spinelli – GUE/NGL Co-promotori: Costituzione Beni Comuni | Diritti e Frontiere – ADIF | Laudato si’ – Credenti e non credenti per la casa comune. Patrocinio: Consiglio Comunale di Milano, Milano in Comune | Università degli Studi, Centro d’eccellenza Jean Monne

Il titolo del convegno può apparire a molti una provocazione, e certamente lo è. Già l’Europa non riesce ad accogliere i profughi di guerra e di persecuzioni che approdano ai nostri confini (e su questo si sta disfacendo), anche se i fuggitivi rappresentano solo lo 0,2 per cento delle nostre popolazioni, ed ecco che lanciamo un nuovo allarme: ben più ampio, anzi cataclismico. Si tratta della fuga in massa provocata dai cambiamenti climatici, e dalle politiche in particolare – fatte dall’uomo – che sempre più costringeranno le popolazioni ad abbandonare le proprie terre. Saskia Sassen parla appropriatamente di politiche di espulsioni. Una parte della popolazione umana sarà semplicemente estromessa da quella che Slavoj Žižek chiama la “casa di vetro” dentro la quale crediamo di poterci proteggere, e in cui crediamo di veder riflessa la cosiddetta, inesistente “comunità internazionale”. Stiamo oltrepassando categorie come quella dell’emarginazione, dell’esclusione sociale, dello sradicamento.

Se queste cifre creano confusione e sembrano una provocazione, è perché non siamo ancora abituati mentalmente a una visione globale dei fenomeni di fuga e migrazione. Perché confondiamo le parole senza analizzare nel loro insieme i fenomeni, perché separiamo le guerre e le persecuzioni dagli effetti del modello di sviluppo globale adottato in primis da Occidente e Cina. Questa confusione non è alimentata solo da governanti politici. Lo è anche dalle sinistre e dalle Ong. Tutti siamo chiamati a divenire più chiari, e non solo a vedere le cose da un punto di vista globale ma anche a legare vari fenomeni tra loro e al tempo stesso a distinguerli nettamente, e a vedere non solo le insufficienze del diritto internazionale ma le difficoltà del suo mutamento.

Le parole innanzitutto: quando si parla di 200-250 milioni di rifugiati ambientali previsti entro il 2050 (dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni, OIM), dobbiamo subito chiarire e appunto distinguere. Le cifre spaventano perché sono spesso gettate al pubblico per allarmare (o anche per riscaldare i cuori, cosa che qui non vorremmo fare). Nella maggior parte, le persone colpite non sono veri e propri rifugiati, così come li intende la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati e richiedenti asilo. Sono Internally Displaced People, sfollati interni ai Paesi dove avviene il disastro ambientale. Meglio sarebbe dunque dire migranti interni o sradicati forzati, e i migranti interni sono già fortunati perché una parte non riesce nemmeno a spostarsi ed è aggrappata al territorio devastato, a meno che il territorio non sia sprofondato nell’acqua come le isolette di Kiribati, la cui popolazione si trova alle prese con la riluttante accoglienza di Nuova Zelanda e Australia.

Di loro bisogna prioritariamente occuparsi, non solo di quella parte di sfollati che alla fine, non trovando più protezione nei Paesi di origine, proveranno a varcare le frontiere avvalendosi delle labili regole del diritto internazionale. I più sono concentrati in Africa, dove vive la maggior parte di rifugiati del mondo (su 65 milioni, l’85 per cento), sotto forma appunto di sfollati interni. L’Africa è il continente più colpito dal cambiamento climatico, pur non essendo di certo il maggiore colpevole del degrado. Nel 2015, gli sfollati africani sono stati 27,8 milioni: l’equivalente di New York, Londra, Parigi e il Cairo messi insieme.

Quel che occorre cominciare a capire è come e quando avviene la congiunzione fra lo sfollato interno e il rifugiato che varca le frontiere, e cosa si possa fare per individuare la congiunzione e prevenire il catastrofico precipitare delle crisi.

Propongo tre tracce di riflessione che riassumo con schematismo estremo per mancanza di tempo:

1) Studiare i processi di espulsione nel loro insieme, che dal disastro ambientale conducono allo stato di guerra e/o persecuzione, e dunque al bisogno di trovare risposte d’emergenza all’insorgere della questione rifugiati internazionali;

2) Studiare lo sviluppo economico e la politica sul clima che permettono questo fenomeno aggrovigliato;

3) Individuare gli strumenti legali del diritto internazionale e fare eventuali proposte.

1) Vedere il processo nella sua globalità.

Gli esempi che si possono fare sono molti, ma vorrei cominciare dalla crisi siriana, perché è un caso paradigmatico. Tra il 2006 e il 2010, il Paese ha conosciuto una siccità record, dovuta a sfruttamento di terre e irrigazioni eccessive che hanno ingigantito la scarsità dell’acqua e la desertificazione (sono i fenomeni di land grabbing e water grabbing: attività sistematicamente perseguite nel Terzo Mondo dalle grandi multinazionali, con la complicità di regimi locali). Quasi un milione e mezzo di siriani ha perso i mezzi di sussistenza ed è stato sradicato, l’85 per cento del bestiame è morto, sono del tutto scomparse culture essenziali tra cui il grano, l’orzo, il famoso peperoncino di Aleppo. Gli agricoltori senza più terre sono fuggiti in massa nelle città (a Daraa soprattutto) con problemi di occupazione e di scarsità d’acqua che crescevano esponenzialmente. A ciò si sono aggiunte le dighe costruite dalla Turchia sul Tigri e l’Eufrate, che hanno privato di acqua la Siria oltre che l’Iraq. Le prime rivolte siriane nascono da questi eventi, e l’islamismo ne ha approfittato scatenando una guerra per l’accaparramento delle risorse (petrolio soprattutto). L’oppressione politica non è la sola causa delle guerre. Il cambiamento del clima causato dall’uomo ha svolto nel caso della Siria caso un ruolo ancora maggiore. In questo processo si è inserito il conflitto geostrategico – un ennesimo regime change promosso dall’Occidente, che ha decretato lo Stato fallito in Siria – e gli sfollati interni sono in parte divenuti popoli in fuga da guerre e violenze generalizzate. Lo stesso fenomeno avviene in regioni dell’India o in Indonesia. Clima, sviluppo economico, terrorismo, guerre: tutto è legato. Si potrebbe dire che se la temperatura media sale di 2 gradi celsius, l’esplodere di terrorismi e guerre è inevitabile.

2) Rivedere le teorie dello sviluppo.

Parliamo di teorie che continuano a essere difese secondo modalità immutate nonostante i disastri manifesti che provocano. Penso in particolare agli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (Millennium Development Goals) lanciati dall’Onu nel 2005 e al loro rapporto molto ambiguo con sostenibilità e diritti. Lo scopo continua a essere la crescita, quale che sia il costo, senza concentrarsi su quella che è ormai in gran parte del mondo un’economia di sussistenza o sopravvivenza. Gli Obiettivi sottolineano il legame tra sviluppo e rule of law, ma i diritti sono di fatto al servizio di uno sviluppo la cui insostenibilità non è messa in questione. L’accrescersi di sfollati e migranti (essenzialmente interni) è in grandissima parte il risultato di quest’agenda dello sviluppo e del commercio, patrocinata dall’Onu o dai piani di risanamento di Fondo Monetario o Banca Mondiale, perseguiti senza badare alla resilienza locale.

3) La legge internazionale.


È il punto dolente del fenomeno in questione, delicatissimo da affrontare. La Convenzione ONU sui rifugiati è stata ideata nel ’51 dopo due guerre mondiali, e non è ancora adattata al terzo fenomeno che è quello degli sfollati o rifugiati causati dalla globalizzazione e dal degrado climatico. L’articolo A,2 della Convenzione è molto esplicito e limitativo. Sono titolati a chiedere asilo coloro che hanno un “valido motivo fondato su timore giustificato” di essere perseguitati per cinque ragioni (razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale, opinioni politiche). Lo sfollato o il potenziale profugo ambientale non fugge una persecuzione, anche se esistono responsabilità evidenti di sfruttamento coloniale delle risorse e delle terre. Né fugge un genocidio o un crimine contro l’umanità – nonostante varie denunce in questo senso – perché dal un punto di vista legale le corporazioni o multinazionali responsabili di land grabbing o water grabbing non sono colpevoli del dolus specialis – o intento specifico – implicito nell’imputazione di sterminio. Per il momento esistono alcune convenzioni ad hoc. Penso ai Principi guida dell’Onu del 1998 sugli Internally Displaced People, alla Convenzione dell’Organizzazione dell’Unità Africana del 1969, alla Dichiarazione di Cartagena sui rifugiati dell’84. Tutte queste convenzioni affrontano le responsabilità di disastri climatici causati dall’uomo e dalle agende globali di sviluppo, ma sono miglioramenti di facciata: il più delle volte non sono vincolanti e sono state ratificate solo da un numero esiguo di Stati. Inoltre – e non è questione minore – l’assistenza agli sfollati interni deve tener conto della questione della sovranità, come prescritto dal diritto internazionale.

In altre parole, perché possano scattare meccanismi di protezione internazionale occorre spesso arrivare fino all’acme del processo distruttivo, quando il disastro climatico è ormai già sfociato in guerre e/o persecuzioni e la Convenzione di Ginevra può, ma con estrema difficoltà, essere invocata. È importante proporre innovazioni in questo campo, e tanti ci provano da decenni. Diciamoci che non è una cosa semplice.

Per questo dico che siamo interpellati come sostenitori dei diritti dell’uomo, e anche le Ong sono interpellate, perché spesso il loro sguardo è concentrato su un unico segmento del processo di devastazione: l’ultimo. Non so se avremo tempo di affrontare questa questione, ma il problema c’è e non possiamo nascondercelo.

Il problema è quello dell’ambiguità dei diritti che giustamente difendiamo. Il rischio che si corre infatti – come sinistra che invoca frontiere aperte e come Ong – è quello di divenire gli infermieri di disastri che debbono essere risolti a monte, molto prima. Ed è quello di non capire che la protezione delle frontiere non è parola scandalosa, se specifichiamo che l’obiettivo deve essere la protezione di frontiere che possano aprirsi in maniera non caotica, ordinata.

Avanzare richieste concernenti un segmento soltanto di questi processi (quello dei rifugiati internazionali) rischia non solo di andare contro un muro dal punto di vista legale, ma di divenire complice del fenomeno, non occupandosi delle sue cause. È un difetto che ritroviamo anche nelle Ong. Penso in particolare a quelle legate alla Fondazione Soros: a parole Soros sostiene i diritti dei popoli colpiti da disastri ambientali, ma poi lui stesso ha fatto investimenti di enormi proporzioni nel carbone, acquisendo nell’estate 2015 azioni dei giganti Peabody Energy and Arch Coal. Ecco come l’ONG interviene per riparare le falle di qualcosa che non ha intenzione alcuna di aggiustare.

Bisogna insomma pensare l’intera catena del disastro ambientale, diritti compresi, che vanno disgiunti dall’agenda dominante concernente lo sviluppo, perché non diventino semplici ausiliari del suo pervertimento. Vorrei concludere con quanto affermato da Oscar Wilde nel 1891, nell’Anima dell’uomo sotto il socialismo: “È tanto facile aver simpatia per la sofferenza, e tanto difficile aver simpatia per il pensiero”.

Noi siamo vicini ai sofferenti, ma il nostro dovrebbe essere il tentativo di pensare meglio quel che ci accade. Non di dire: “Ce la faremo ad accogliere tutti i rifugiati”, per confortare le nostre certezze morali ma senza prospettive reali di successo.

Naturalmente è essenziale proteggere le vittime ambientali, ma suonando l’allarme occorre misurare i rischi di un irrigidirsi delle posizioni xenofobe sulla migrazione in generale, in Europa. E dobbiamo sapere che se l’attenzione si fissa sulla fuga finale, vorrà dire che avremo fallito. La doverosa accoglienza dei fuggitivi non deve quindi distoglierci dal compito prioritario, che è quello di rimettere in questione il modello di sviluppo che fonda la mondializzazione dagli anni ’70. È un modello neocoloniale che produce espropriazioni, urbanizzazioni di massa, fame, povertà, guerre: incentrato su investimenti nel commercio, ha distrutto le agricolture locali. Per questo ho detto che bisogna concentrarsi sull’economia della sopravvivenza, ripartire da essa: sopravvivenza di popoli minacciati che devono – ove ancora possibile – potersi riappropriare dei loro territori e anche essere risarciti, che devono – sempre dove ancora possibile – poter contare sulla messa in salvo dei territori stessi, e tornare a produrre il cibo e a trovare l’acqua di cui abbisognano, nei luoghi e nelle terre da cui sono espulsi. Se ci limiteremo a fare dell’accoglienza, non li avremo veramente salvati ma avremo solo suggellato il loro sradicamento.

Riferimenti

I rifugiati fantasma senza diritto d’asilo. “Salviamo chi fugge dai disastri naturali”,
La Repubblica, 12 settembre 2012, Ogni anno 6 milioni di rifugiati a causa dei disastri ambientali, il manifesto, 25 settembre 2016, nonchè, su eddyburg, gli articoli di Guido Viale e di Dante Carraro.


A questo link trovate i video integrali delle sessioni mattutina e pomeridiana del convegno.
Prosegue senza tregua e senza speranza il suicidio dell'Europa, con una perfetta sintonia tra la cecità dei suoi governanti e l'inumanità di porzioni crescenti dei suoi popoli. Ma le rabbie s'accumulano, dentro e fuori le mura.

Il manifesto, 6 ottobre 2016 (p.d.)

Contro i migranti l’Europa rafforza con mezzi e uomini una delle frontiere che considera più a rischio. Accade al confine tra Bulgaria e Turchia dove oggi debutta la nuova guardia costiera e di confine europea alla presenza del premier bulgaro Boyko Borissov, del commissario Ue all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos e dell’ex direttore di Frontex – ora responsabile del nuovo corpo di polizia – Fabrice Leggeri. Un debutto che è stato preceduto dalla decisione di Bruxelles di stanziare in settimana 108 milioni di euro che Sofia dovrà spendere per costruire nuove barriere anti-migranti, oltre a quella già realizzata alla frontiera con la Turchia, e per l’acquisto di 50 veicoli per la sorveglianza dei confini. Altri 52 milioni di euro aggiuntivi sono inoltre in attesa di ottenere il via libera da parte della Commissione europea.

La Bulgaria – uno dei paesi più poveri dell’Unione europea – acquisisce così un’importanza cruciale nella strategia messa in atto da Bruxelles per fermare i flussi di migranti e di profughi che vorrebbero raggiungere l’Europa. E il fatto che tra tutti i confini esterni si sia deciso di puntare ancora una volta su uno Stato confinante con la Turchia sembra confermare i dubbi di quanti ritengono sempre più a rischio l’accordo sui migranti siglato a marzo con Ankara. Da oggi quindi altri 130 uomini andranno ad aggiungersi ai 192 già inviati in precedenza nel Paese da Frontex.

Approvata lo scorso mese di luglio dal Consiglio europeo, l’Eu border and coast guard agency può contare per il 2016 su un budget di 238 milioni di euro destinato a crescere fino a 322 milioni entro il 2020. Quella che prende avvio oggi rappresenta una sorta di prova generale in attesa che il 6 dicembre diventi attivo il corpo di «intervento rapido» forte di 1.500 uomini messi a disposizione dai singoli Stati (l’Italia contribuirà con 125 persone). Il suo compito sarà quello di intervenire – su decisione del Consiglio Ue – nelle eventuali situazioni di emergenza che si potrebbero creare nel caso in cui uno Stato non sia in grado di difendere le proprie frontiere mettendo così a rischio l’area Schengen. Per il 6 gennaio, infine, è invece previsto l’avvio di un nucleo di guardie impegnato esclusivamente nei rimpatri dei migranti.

Stando ai dati forniti dalla Sar, l’Agenzia di stato bulgara per i rifugiati, dall’inizio dell’anno alla fine di settembre sono stati 14.728 i rifugiati entrati nel paese, la maggior parte dei quali provenienti dall’Afghanistan. Altri diecimila avrebbero invece lasciato i centri cercando un alloggio in altre località dove attendere una risposta alla domanda di asilo. Nonostante questo, i nuovi arrivi hanno creato una situazione di sovraffollamento nei centri, all’interno dei quali si trovano oggi 5.568 migranti, il 7% in più rispetto alla reale capacità di ricezione. Numeri che hanno spinto il governo a ordinare la costruzione di due ulteriori centri per un totale di 800 nuovi posti.

Di fronte a questa emergenza legata al sovraffollamento, ma anche alla difficile convivenza tra migranti e popolazioni locali, il governo pensa di intervenire con un giro di vite destinato a peggiorare le già difficili condizioni di vita dei primi. Due giorni fa il presidente della commissione per la sicurezza interna del paese, Tsvetan Tsvetanov, ha reso noto che si sta valutando la possibilità di trasformare i centri di accoglienza in luoghi chiusi dai quali i migranti non potranno più uscire come avviene oggi, proclamando per di più al loro interno un coprifuoco che verrà fatto rispettare con un impiego massiccio di forze dell’ordine. Tutto questo, ha spiegato Tsvetanov, «per evitare disordini e tensioni con la popolazione».

Purtroppo nei mesi scorsi non sono mancati casi d anche gravi di intolleranza nei confronti de migranti nei confronti dei quali sono entrate in azione anche formazioni paramilitari il cui scopo era quello di fermare quanti riuscivano a passare la frontiera provenendo dalla Turchia. La nuova guardia di confine europea si spera che possa almeno mettere fine a esperienze simili.

SLa Repubblica, 6 ottobre 2016

Quando i giovani medici mi dicono: «Dottore, voglio lavorare in Africa», rispondo che «non occorre andarci, perché l’Africa è qui». Piove sulle terre sterminate del Tavoliere.

Enzo Limosano, chirurgo vascolare in pensione, ci guida per una strada infame tra uliveti e campi di carciofi sopra una terra grassa e lustra come groppa di bufala. Destinazione, il “ghetto” chiamato Ghana, uno dei tanti bacini di manodopera sottocosto del baricentro agroalimentare d’Italia. È la provincia di Foggia, oltre un milione di tonnellate l’anno di soli pomodori. Il camper è l’unico ambulatorio possibile in questo pantano. A bordo, una piccola task force sanitaria (chirurgo toracico, dentista e infettivologo con alcuni aiutanti) targata Cuamm, una Ong di solida reputazione che da sessant’anni opera fra Etiopia e Mozambico. È gente che non si tira indietro davanti a epidemie come Ebola o a guerre civili, ma che qui, mi accorgo, esita un attimo, come ai confini dell’indicibile. «Vuole la verità? L’Africa è meglio. Si sorride, lavori rilassato. Qui invece la tensione è ovunque».

Si va a zig zag tra le pozzanghere sotto un cielo piatto come un ferro da stiro. Qua e là, casupole semi-abbandonate della riforma agraria fascista rattoppate da teli. Ripari miseri, eppure lussuosi rispetto alle baracche dell’Inferno vero, il famigerato Gran Ghetto di Rignano, 40 chilometri a Nordest. È un agglomerato di quattromila schiavi ben visibile dagli aerei di linea in atterraggio su Bari ma stranamente invisibile ai terrestri del Foggiano. Non lo vedono nemmeno le folle di fedeli, vicinissime, che a San Giovanni Rotondo innalzano canti per Padre Pio. Nemmeno lui, qui, fa miracoli per gli ultimi della Terra.

Da Cerignola, il Ghetto Ghana dista sette chilometri, ma bastano a separare le Ombre dal mondo dei vivi. Le facce bianche sono scomparse. Passano solo medici e caporali. E cani. Quelli abbandonati, attirati dai reietti come loro. Dopo, non è più Italia. Un barbiere improvvisato insapona un cliente sotto una tettoia, tra galline, questuanti, bottiglie di birra e trattori arrugginiti. Poco lontano, qualche tenda a pagoda, coperta di nylon per via dell’acquazzone. È giorno di pausa, e si va a salutare Alexander, ghanese brizzolato, piccolo boss di questo spazio di case sparse, in una baracca trasformata in bar. È lui che detta legge, e i salamelecchi diventano necessari in un mondo di gerarchie spietate. Zanzare microscopiche trapanano l’aria in un odore dolciastro inconfondibile. Lo stesso della Bosnia ai tempi dell’ultimo conflitto. Polvere, sudore, marciume e benzina. L’olfatto non distingue tra guerra e miseria.

Michele Alberga, 68 anni, il dentista, porta alla cintura un diffusore sottocutaneo di insulina ma, nonostante l’età e il diabete, spende il tempo libero a curare migranti con animo lieto, senza ipocrisie pietistiche o assistenzialismi. Gli chiedo se non gli venga mai il dubbio, con la sua dedizione, di essere funzionale a un sistema di sfruttamento. Risposta netta: «Loro ci aspettano». È la stessa che mi veniva data in Uganda e in Sudan, negli ospedali del Cuamm. «Se non lo fai tu — ti dicono — chi altro? ». Non ci si può tirare indietro, se ci si vuol guardare allo specchio a giornata finita.

E loro ci aspettano davvero, in fondo allo stradone. Tanti, anche se il Ghetto è mezzo vuoto, perché le avanguardie sono già partite per gli aranceti della Calabria, a farsi sfruttare in modo ancora più bestiale dalla ‘ndrangheta. Ogni settore ha le sue patologie. Dietro ai pomodori sciatiche e lombalgie, dietro all’uva emicranie e dolori al collo. Gli agrumi si pagano con spalle indolenzite, le coltivazioni in serra con disidratazioni gravi, i carciofi con infiammazioni al gomito simili a quelle del tennista. Il tutto senza contare gli incidenti gravi e le malattie sommerse. Quelle della miseria: Aids, tubercolosi, meningite, sifilide o epatite. Solo i più forti ce la fanno a tornare a casa.

Ha smesso di piovere. Attorno al camper si affollano i reduci della campagna — appena finita — del pomodoro, tirate di dieci ore a riempir cassoni per le aziende di trasformazione del Salernitano. Aspettano il medico anche per quindici giorni, perché i pochi medici e infermieri volontari di Puglia non ce la fanno a coprire più di due viaggi al mese. Fino al dicembre dell’anno scorso funzionava un servizio di Emergency, solidamente finanziato e poi burrascosamente interrotto dalla Regione per una serie di gravi incomprensioni. Ora bisogna ripartire da zero, e la giunta ha allo studio un piano triennale d’intervento per il quale si sono messi a disposizione, oltre al Cuamm, i missionari comboniani e i Medici senza frontiere.

Sembra una retrovia della Grande Guerra. Mettere in fila i pazienti, distribuire i numeri, evitare liti fra ghanesi e altri africani. Marcella Schiavone, 28 anni, chirurga col Mozambico alle spalle, riceve nel camper. Il divano per il paziente è minimo. Le domande semplici, in italiano o inglese elementare. Come ti chiami. Quale problema. Quando è cominciato. Dimmi come stai. Una donna sola davanti a quarantaquattro maschi in meno di tre ore, e non è mai visita sommaria.

Ognuno è tastato, auscultato con attenzione. Passa Ibra, disidratato con dolori allo stomaco. Alì, con una cisti sul naso da rimuovere. Richmond, con un’ernia inguinale. Franco, con una ferita al dito medio, che stringe i denti mentre gli fanno uscire pus come dentifricio dal tubetto. Daniel ha un piede mangiato dal diabete. Gli vedo l’osso nella ferita. Non lavora più, ma chiede l’elemosina, e quella ferita da ostentare è il suo unico capitale. Dorme in un’auto abbandonata, una cuccia immonda, e non pensa al dopodomani.

Ogni volta che apriamo un barattolo di “pummarola”, sarebbe cosa buona pensare che in quel barattolo c’è la disidratazione di Ibra, l’ernia di Richmond, l’avitaminosi di Ahmed, lo sterno mezzo sfondato di George. Ci sono chilometri di spine dorsali lesionate, il fango, la pioggia, e il sole implacabile del Sud. E le mosche, i veleni, le zanzare, i cani, i materassi sfondati, le prostitute a seguito di un esercito di uomini stremati. Il naufragio dei barconi, i centri di raccolta e quelli che ci campano sopra, i carrozzoni della finta assistenza, e il nostro razzismo che cresce. I caporali, i trasportatori della Camorra, un sistema produttivo dove pochi campano sulle spalle di molti, una grande distribuzione che strangola il contadino. Per un barattolo di pomodoro.

«Ho tenuto la mia bambina reclusa per mesi nella baracca perché non vedesse l’orrore che c’era fuori», racconta tra le lacrime un reduce del ghetto di Rignano. C’è anche chi si porta la moglie e i figli all’inferno. E c’è chi tace, non svela i suoi aguzzini nemmeno se ha il corpo coperto di ferite da taglio. E ci sono — raccontano i medici — storie come quella di una giovane africana senza nome, drogata e violentata dal branco fino ai limiti della medicina d’urgenza, capace a malapena di balbettare monosillabi. Da dove vieni? Non so. Come sei arrivata qui?Non ricordo. Come ti chiami? Non ne ho idea. Il capolinea della disumanizzazione.

L’Italia può essere peggio dell’Africa.

Tanti tornerebbero a casa. Ma non hanno i soldi per farlo. E se lo facessero, non oserebbero ammettere la sconfitta. Alla Regione sembrano decisi a dire basta allo scandalo. Stefano Fumarulo, braccio operativo del governatore per la sanità e le migrazioni, annuncia uno smantellamento imminente in nome della dignità dei lavoratori. Con quali alternative di alloggio? Ci sono Comuni spopolati che chiedono abitanti e sono disposti ad accogliere stranieri, aziende che cercano uomini capaci di mestieri disertati dagli italiani. E intanto si sperimentano forme associative per strappare i migranti dalla tirannia dei caporali. Ma resta sempre il dubbio che, una volta fuori dai ghetti, questi stranieri escano anche dal sistema-lavoro e si vedano costretti a rientrarvi con mezzi ancora più precari.

«Senza una riforma della catena produttiva che imponga la tracciabilità, e senza una certificazione etica del marchio, come avviene per altri beni, questa bestialità non avrà fine», dice con ferrea convinzione Yvan Signet, sindacalista partito dalle Malebolge di Rignano e uomo-simbolo della lotta per l’affrancamento dei lavoratori stranieri. Uno che, non a caso, vive sotto minaccia da parte dell’intero caporalato pugliese. «La cosa più grave è che non si prende atto che nei ghetti si sperimenta un tipo di sfruttamento perfettamente integrato nel sistema-Paese, uno sfruttamento che sta già ricadendo sugli italiani. Pensi alla donna morta di fatica quest’estate nei campi fra Taranto e Brindisi. Tutti sanno tutto, si fanno articoli e talk show, ma per questa gente non cambia nulla».

Nelle quattro ore che siamo al Ghetto Ghana, da Cerignola non arriva anima viva. Come per un ordine silenzioso, gli “indigeni” stanno alla larga. Nessuno aggiusta la strada, e nemmeno l’Asl passa la frontiera tra i mondi. Non si deve sapere, non si deve vedere. Anzi, non si vuole vedere, perché altrimenti l’imbroglio sarebbe chiaro e la verità intollerabile. Quando torniamo a Bari — tre quarti d’ora di macchina dal ghetto di Cerignola — lo struscio in corso Vittorio è già iniziato. Fiumane di giovani ignari, incollati a telefonini accesi come lucciole nel buio. Sono lontani mille miglia dai ghetti. E non sanno di essere destinati, forse anch’essi, ad appartenere a una manovalanza senza nome, in aziende senza patria che li sfrutteranno ottanta ore la settimana.

Francesco Di Gennaro, 28 anni, brillante specialista in malattie infettive con una forte esperienza in Mozambico per conto del Cuamm: «Questa potrebbe essere una regione simbolo del domani, un luogo dove sperimentare il futuro... Siamo o no la terra degli sbarchi? In Puglia potremmo capire come sarà il mondo fra trent’anni... e invece la gente si è chiusa nel suo tornaconto. Persino i giovani hanno smesso di chiedersi se questa è una società giusta o sbagliata».

«Il Comitato 3 ottobre ha voluto trasfondere nella “Carta di Lampedusa” questo spirito di accoglienza insito nell’isola stessa: è necessario abbattere ogni forma di confine, di visto, per affermare il libero diritto di cittadinanza di ciascuno».

Il Fatto Quotidiano online, 3 ottobre 2016 (c.m.c.)

Lampedusa. «Per quanto possano essere limitate, le isole non sono prive di drammi di portata universale. La storia non le ignora e in esse trova talvolta il suo epilogo. Altre volte invece la storia vi comincia».

Questa frase dello scrittore Predrag Matvejević – autore, tra gli altri, di Breviario Mediterraneo (edito per la prima volta da Garzanti nel 1991) – racchiude il senso più profondo della “Giornata nazionale della memoria e dell’accoglienza”, riconosciuta tale il 16 marzo 2016 grazie anche all’impegno di un’organizzazione senza scopo di lucro, riunitasi nel ‘Comitato 3 ottobre‘, data in cui nel naufragio al largo di Lampedusa – era il 2013 – persero la vita 368 migranti.

Qui la storia non finisce, ma si rinnova attraverso una richiesta fondamentale lanciata dal Comitato: bisogna proteggere le persone e non i confini. Una questione centrale per la politica europea: accogliere o respingere? Ecco che Lampedusa diventa una palestra formidabile per capire quale possa essere la rotta giusta. Quest’isola che negli ultimi sedici anni ha accolto 217. 591 immigrati e che lo ha fatto mantenendo la sua forte identità, la sua bellezza, il suo spirito, continuando ad alimentare quel seme dell’accoglienza che aveva già inciso nel proprio Dna. L’isola avrebbe potuto reagire diversamente?

Avrebbe potuto alzare muri o erigere barricate per respingere, quel 3 ottobre del 2013, i 368 corpi restituiti dal mare alla terra lampedusana? Le spoglie di giovani eritrei, ventenni scappati dalla feroce dittatura di Isaias Afewerki. E come avrebbe potuto non diventare la casa di tutti quegli altri corpi? I cadaveri arrivarono a 600 tanto che ci vollero due navi militari per portare via tutte quelle bare.

Il Comitato 3 ottobre ha voluto trasfondere nella “Carta di Lampedusa” questo spirito di accoglienza insito nell’isola stessa: è necessario abbattere ogni forma di confine, di visto, per affermare il libero diritto di cittadinanza di ciascuno. Un ordine umano diverso, fondato su valori differenti da quelli che governano il nostro quotidiano, ma l’unico capace di riempire di senso la storia di Lampedusa e permetterle di cominciare, di nuovo, a vivere, dopo l’orrore di tanta morte.

E non poteva che cambiare anche il modo di comunicare e rappresentare quell’immane tragedia. Così, per la ricorrenza del 3 ottobre si è tenuto a Lampedusa il ‘Prix Italia’, un premio internazionale organizzato dalla Rai che quest’anno si è concentrato sul tema delle migrazioni.

Tante le anteprime, a partire dall’ultima fatica di Marco Pontecorvo che qui ha presentato Il coraggio di vincere, storia di un giovane pugile senegalese. Di rilievo anche lo speciale del giornalista Domenico Iannacone, Lontano dagli occhi, che raccogliendo e riallacciando una serie di storie di migranti senza nome, fa così riacquistare loro, un’identità.

Il lavoro viene reso ancor più prezioso dalle parole di Andrea Camilleri: lo scrittore siciliano ci ricorda che un’isola non è mai chiusa dal mare, anzi, è proprio il mare ad allargare i suoi orizzonti; i muri non servono a nulla se non a ingabbiare le nostre paure rendendoci incapaci di immaginare e vivere nuove forme di convivenza.

«I governanti dei Paesi dell’Est credono possibile rispondere alla sfida planetaria della migrazione ricostruendo una nuova cortina di ferro». La Repubblica, 3 ottobre 2016 (c.m.c.)

Solo una macabra farsa: questo era il referendum ungherese contro gli stranieri e contro “i diktat” di Bruxelles fortemente voluto dal premier Viktor Orbán. E tale si è rivelato. Il popolo cui amano fare appello piccoli e grandi dittatori questa volta ha preferito tacere. Forse ha fiutato l’inganno e ha evitato di acclamare l’uomo forte di Budapest. Ma il danno resta per l’immagine di quel Paese e per il destino futuro dell’Europa.

La grande speranza si è rivelata una fugace illusione: avevamo creduto che la caduta del Muro di Berlino se non proprio la “fine della storia” avesse, almeno in Europa, segnato la fine dell’età dei muri e dei reticolati di filo spinato. E invece sta accadendo esattamente il contrario. Quella che una volta tra ammirazione e sospetto veniva chiamata Mitteleuropa sembra tornata preda di antichi fantasmi e di pulsioni identitarie nell’illusione di trovare risposte alle sfide del mondo globale in una inattuale autarchia economica e spirituale.
I governanti dei Paesi dell’Est Europa capeggiati proprio da Orbán credono possibile dare risposta alla sfida planetaria rappresentata dalla migrazione di popolazioni in fuga dalle guerre del Medio Oriente, o dalla miseria del continente africano, ricostruendo quella che, per più di mezzo secolo, era stata causa delle loro sofferenze: una nuova cortina di ferro.

Un passo dopo l’altro, una crisi dopo l’altra, dunque, l’Europa procede spedita verso la sua disunione politica e culturale: come capitò ai sonnambuli che scivolarono senza neppure averne consapevolezza nella Prima guerra mondiale, gli europei potrebbero uno di questi giorni scoprire di aver superato il punto di non ritorno verso uno storico fallimento. Un fallimento che appare tanto più paradossale in quanto i governi dei singoli Paesi cercano risposte nazionali, o peggio ancora nazionaliste, a sfide che essi stessi definiscono di natura globale e condannano in tal modo i propri Paesi e l’intera Europa ad un declino irreversibile.
Oggi, come accadde negli anni ’20-’30 del Novecento, assistiamo infatti allo scontro di “due Europe”: quella che crede che sia possibile governare le metamorfosi in atto nel segno della giustizia sociale, della libertà e dell’universalismo dei diritti. L’altra che, invece, fa politica con la paura e l’odio e insinua la velenosa convinzione che sia possibile impedire l’irruzione del mutamento innalzando Muri e chiudendo i confini nazionali.
Sappiamo come andò a finire allora. Non è del resto un caso che, da buon conoscitore della storia europea, Helmut Kohl nel discorso tenuto nell’ottobre del 1993 dinnanzi all’Assemblea nazionale francese avesse messo in guardia gli europei ricordando loro che «gli spiriti maligni non sono stati banditi per sempre dall’Europa» e ammonendo che «ad ogni generazione si pone di nuovo il compito di impedire il loro ritorno, di superare i pregiudizi e di far cadere i sospetti ».
La previsione fatta dal Cancelliere dell’unificazione tedesca appare drammaticamente confermata da quanto accade oggi in tutto il Vecchio Continente, dalla Brexit all’anarchia spagnola. E soprattutto dall’enorme potenziale di consenso che movimenti xenofobi e populisti riescono a catalizzare anche in Paesi di antica civiltà giuridica e storica tradizione di universalismo politico com’è il caso della Francia.
La verità è che in quel Paese come in molti altri, Italia compresa, si contrappongono, provocando una crescente conflittualità politica e spirituale che supera la classica contrapposizione tra destra e sinistra, due “visioni del mondo”. Una è convinta non solo della possibilità di governare la dimensione di questo esodo carico di tragedie, ma anche che questo fenomeno rappresenti un obbligo morale e al tempo stesso una opportunità per il futuro che altrimenti la demografia condannerebbe a un declino irreversibile. L’altra è una “visione del mondo” dominata da dubbi e paure, da pregiudizi ma anche da timori diffusi tra le parti più deboli, socialmente e culturalmente, delle società europee sulla possibilità di riconquistare o quanto meno di difendere determinati livelli di sicurezza sociale.
Come pure i valori tradizionali che guidano il funzionamento della vita quotidiana, minacciati dalla sensazione di non essere più padroni del proprio destino di cui è metafora la crisi della sovranità sui confini nazionali. Oggi è molto difficile formulare una ragionevole previsione sui destini d’Europa o addirittura di quello che abbiamo imparato a indicare, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, come l’Occidente.
Non sappiamo se le istituzioni dell’Unione europea reggeranno l’urto del terribile ciclo elettorale che vedrà coinvolti nei prossimi dodici mesi — nel settembre del 2017 si svolgeranno le elezioni in Germania — praticamente tutti i principali Paesi del Vecchio continente. Né quale America uscirà dal confronto tra il feroce populismo di Trump e l’occidentalismo tradizionale ma dallo scarso carisma di Hillary Clinton.
Certo tutto sarebbe diverso se l’Europa fosse in grado di esprimere una politica, se sapesse e potesse parlare con una sola voce. Se: ma non è così. Le democrazie europee strette in una implacabile tenaglia, da un lato le questioni globali e dall’altro la necessità di conquistare legittimità politica parlando un linguaggio locale, tra dover elaborare un “nuovo racconto” che tenga conto delle mutate condizioni geo-politiche e geo-economiche del pianeta-mondo dell’età globale e dover dare ascolto alle attese spesso corporative di cittadini protagonisti di cicli elettorali sempre più brevi, rischiano il corto circuito. Se da qualche parte in Europa c’è qualche leader capace di impedire che essa faccia bancarotta una seconda volta nel giro di un secolo, è questo il momento che si faccia sentire.
Hic Rhodus, hic salta.
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