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LETTERA APERTA A QUANTI SI SCANDALIZZANO
SE LE O.N.G. HANNO CONTATTO CON GLI SCAFISTI

Due sono i casi: o siete d’accordo con Matteo Salvini e gli altrineonazisti (ce ne sono tanti in giro, malamente mascherati), e vi augurate chei milioni di africani e mediorientali chefuggono dagli inferni che oggi abitano affoghino, oppure siete dagli ipocriti.
In apparenza, meglio essere ipocriti che assassini. Ma avolte l’ipocrisia può essere peggiore: nasconde sotto una maschera dibenevolente umanità una persona che persegue il medesimo risultato pratico,uccidere per conto terzi. Forse è peggio essere un Minniti che un Salvini.
Criminale è infatti ogni politica che assuma il respingimento deiprofughi come obiettivo primario.
Persone che hanno la capacità di leggere almeno un giornalenon possono non sapere quali sono le cause che generano l’esodo di milioni di persone,famiglie, gruppi etnici verso i paesidove si vive come noi viviamo: in Europa, al riparo da guerre, persecuzioni,assenza di nutrimento e di riparo.
Chi ha la competenza necessaria per scrivere un articolo suun giornale, o di preparare un servizio per la televisione, o di fare unalezione in un’università, o tenere un corso in una scuola media o elementare,costui non può non aver percepito la vastità dell’inferno che si è prodottonelle regioni da cui fuggono verso l’Europa. E, di conseguenza, la dimensione dell’umanità che tenta di fuggire dalmale in cui vive.
Le persone che hanno la capacità di guardare con occhicritici la storia di oggi, di ieri e dell’altro ieri non possono non sapere chequell’inferno non è stato prodotto dai suoi abitanti, né solo da governicorrotti, né solo da lotte tribali o religiose, ma dal pesante sfruttamentocompiuto per secoli dai paesi del capitalismo, il quale ha utilizzato, comestrumento del proprio dominio, anche la corruzione dei governi locali e l’accensionedi sopiti conflitti etnici.
In una parola, l’esodo dagli inferni del mondo di oggi non cesseràfinche non si sarà stati capaci di ristabilire equilibri che sono statidistrutti.
Sarà un processo lungo, e non vi sono segni che sia neppure iniziatonelle menti dei potenti della terra: quelli che hanno compreso quel che sidovrebbe fare sono pochi, e privi di altri strumenti che non siano la predicazione.
Se così stanno le cose veniamo al punto di oggi: allo “scandalo”che sarebbe costituito dal fatto che le organizzazioni non governative siaccorderebbero con gli uomini e le organizzazioni che, per danaro (poiché questoè lo strumento col quale si paga qualunque servizio nella società in cui viviamo)aiutano i migranti a fuggire dai loro inferni.

Che cosa dovrebbe fare chi volesse aiutare i profughi afuggire? Forse aspettare che i trafficanti li abbiano gettati in mare, eraccoglierne i corpi inanimati o agonizzanti? Non so se le donne e gli uominidelle ONG siano degli eroi o degli angeli: so che, nell’assenza criminale deglistati, in assenza della predisposizione di canali protetti per l’esodo e di idoneestrutture e politiche per l’accoglienza, sono gli unici che fanno ciò che deveesser fatto – se non si vuole riconoscere d’essere affini ai neonazisti alla Salvini.
Edoardo Salzano

Riferimenti
Chi volesse informarsi meglio potrebbe trovare numerosissimi scritti su questo sito, prevalentemente raccolti nella cartella "2015-EsodoXXI". Un ampio saggio è stato scritto per eddyburg da Ilaria Boniburini, I nuovi dannati della terra. Gli sfrattati dello “sviluppo”.

I governi europei e l'UE fingono di voler combattere gli slogan xenofobi, neonazisti e criminale dei Salvini e Le Pen, ma ne assumono pienamente le politiche. Il modello turco, farcito di menzogne e di crudeltà, viene proposto da Renzi come "soluzione finale" e accettato da tutti.

il Fatto quotidiano, 6 giugno 2017, con postilla

Solo in apparenza e per opportunismo le istituzioni europee e i governi degli Stati membri sono preoccupati dalle estreme destre che crescono in tutta l’Ue e in alcuni casi già governano. Si dicono allarmati dalla loro chiusura verso immigrati e rifugiati, dalla xenofobia. La verità è diversa e ci vuole poco per accorgersene. Da fine 2015 le politiche d’immigrazione comunitarie e nazionali incorporano ed emulano le linee difese dalle destre estreme.

Gli slogan di Salvini e Le Pen – “aiutiamoli a casa loro”, “respingiamoli in massa”, senza minimamente curarsi delle ragioni delle fughe (guerre, fame, siccità) – non sono più loro esclusive parole d’ordine. Sono ormai l’ossatura della politica comunitaria. Il governo austriaco che chiudeva le frontiere (e che oggi propone di relegare i rifugiati nelle isole greche, seguendo l’esempio australiano) obbediva già agli slogan del partito di Norbert Hofer.

Il Migration compact 2.0 di Renzi, approvato dalle istituzioni europee, dice esattamente questo: aiutiamoli a casa loro, in Africa soprattutto, visto che da lì parte il maggior numero di richiedenti asilo o migranti. Il modello da imitare è quello dell’accordo UeTurchia stipulato il 7 marzo, che garantisce sovvenzioni dirette di 6 miliardi di euro. L’accordo (ma viene chiamato statement, dichiarazione, per aggirare l’approvazione che il Parlamento europeo deve dare ai Trattati) è giudicato pericoloso e potenzialmente illegale da tutte le maggiori Ong:
- perché i rimpatri forzati e per gruppi etnici verso la Turchia violano la Convenzione di Ginevra e la Carta europea dei diritti fondamentali (divieto di respingimento), secondo cui ogni domanda d’asilo deve essere esaminata individualmente, non secondo l’appartenenza a una collettività;
- perché la Turchia respinge una notevole parte dei rimpatriati nelle stesse zone di guerra da cui erano fuggiti (Siria), non esitando a sparare sui fuggitivi siriani che vorrebbero scappare in Turchia;
- perché la Turchia ha sì ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, ma con precise limitazioni geografiche: Ankara non si assume obblighi verso profughi non europei. Non ha ratificato il Protocollo di New York del ’67 che ha rimosso gli originari limiti che definivano rifugiati solo i profughi europei sfollati per eventi antecedenti il ’51.
In altre parole, quello di Erdogan non è uno “Stato sicuro”. L’intesa comunque porrebbe naufragare, visto che Ankara non ha ottenuto la liberalizzazione dei visti per i connazionali.
Nonostante ciò, l’accordo è presentato come eccellente. È anzi il prototipo degli accordi con una serie di Stati africani suggeriti nel Migration Compact 2.0 come soluzione ottimale della questione rifugiati. Ecco i 4 principali obiettivi del piano:

1) Aiuti allo sviluppo e cooperazione economica vanno massicciamente rilanciati, ma in stretta e assai contestabile connessione con il management delle frontiere, con la gestione dei rifugiati e, molto genericamente, con le questioni di sicurezza. Mettere tutto ciò sullo stesso piano è contestabile dal punto di vista del diritto internazionale.

2) Priorità deve essere data a 17 “partner strategici”: Algeria, Egitto, Eritrea, Etiopia, Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Guinea, Libia, Mali, Marocco, Niger, Nigeria, Senegal, Somalia, Sudan e Tunisia. Nessuna preoccupazione sfiora gli estensori circa il non rispetto dei diritti fondamentali e dell’obbligo di non-respingimento in paesi come Eritrea, Sudan, Libia, Mali, Etiopia e Somalia.

3) Fin dal Consiglio europeo del 28-29 giugno, sarà proposto un “piano straordinario”, che prevede accordi con 7 “Paesi-pilota”: 4 Paesi d’origine (Costa d’Avorio, Ghana, Nigeria, Senegal), 2 di transito (Niger, Sudan), e uno di transito e origine (Etiopia). Qui si sperimenterà il nuovo volto dell’aiuto allo sviluppo: investimenti in progetti sociali e in infrastrutture, condizionati a “precise obbligazioni” nella cooperazione sulla sicurezza militar-poliziesca e il contenimento dei flussi migratori, economici o politici che siano.

4) Il finanziamento: si parla di una sorta di Piano Juncker per l’Africa, come se il Piano per l’Unione avesse funzionato: il bilancio Ue metterebbe a disposizione 4,5 miliardi, che dovrebbero servire da leva per investimenti privati o pubblici pari a 60 miliardi.

Fin qui i punti chiave del piano che il governo italiano difende da tempo, e che la Commissione e i partner europei (Ungheria in testa) mostrano di apprezzare. Questa involuzione dell’Unione ha ormai una storia. La svolta avvenne il 4 marzo 2015, quando il commissario all’immigrazione Avramopoulos ruppe il tabù, in una conferenza stampa: “Dobbiamo cooperare con i regimi dittatoriali nella lotta allo smuggling” di migranti e rifugiati.

Segue un’escalation di momenti di verità della governance europea. Il culmine è raggiunto il 25 gennaio dalle parole che il segretario di Stato belga all’immigrazione Théo Francken avrebbe rivolto all’omologo greco Ioannis Mouzalas, secondo quanto riferito da quest’ultimo alla Bbc: in un Consiglio informale dei ministri dell’Interno e della Giustizia, ad Amsterdam, il belga gli avrebbe consigliato: “Respingeteli o affondateli” (“push back migrants, even if that means drowning them”). Il ministro belga ha smentito, ma Mouzalas ha ripetutamente confermato.

A questo si aggiungano le dichiarazioni ufficiali del massimo rappresentante del Consiglio europeo, il presidente Donald Tusk. Ne elenchiamo alcune:

13 ottobre 2015, lettera ai colleghi del Consiglio europeo. C’è un’apertura alla Turchia (compreso l’appoggio a “zone sicure” in Siria) e una messa in guardia contro le frontiere aperte: “La facilità con cui è possibile entrare in Europa è il principale pull factor per i migranti”. Nessun accenno alla fuga per ben altri motivi: guerre attizzate o acuite dagli occidentali, dittature cruente, respingimenti in massa di eritrei operati dal Sudan, disastri ambientali e fame in gran parte provocati da investimenti e accaparramenti di terre (land grabbing) da parte di imprese occidentali.

22 ottobre 2015, intervento al Congresso di Madrid del Partito popolare europeo: “Non possiamo continuare a pretendere che la gran marea di migranti sia ciò che vogliamo, e che stiamo perseguendo una politica di frontiere aperte”.

3 marzo 2016, appello ufficiale “ai migranti potenzialmente illegali”: “Non venite in Europa. Non credete agli smuggler. Non rischiate le vostre vite e il vostro denaro. Non servirà a nulla!”. Ricordiamo che la stessa identica frase (“It’s all for nothing!”) fu detta nel 2014 dal governo australiano, uno degli Stati più criticati per la politica dei rifugiati.

Il Migration compact 2.0, unito a simili proposte dell’ungherese Orbán, è una tappa di questa escalation. Pochi giorni fa, alla vigilia del G7 in Giappone, il capo gabinetto di Jean-Claude Juncker, Martin Selmayr, ha twittato: “Un G7 con Trump, Le Pen, Boris Johnson, Beppe Grillo? Uno scenario dell’orrore che mostra perché è importante combattere il populismo. Con Juncker”. Mettere sullo stesso piano quei quattro nomi è una truffa, sicuramente apprezzata da Renzi alla vigilia delle amministrative e cinque mesi prima del referendum costituzionale. Ma più fondamentalmente resta la domanda: se è importante combattere Le Pen e l’estrema destra, perché adottare precisamente le sue politiche, con direttive, accordi e il Migration compact di Renzi?

Postilla
La vigorosa e documentata denuncia della nostra parlamentare europea, che nessuna eco ha avuto nei mass media italiani, denuncia la politica criminale dei governi e delle istituzioni europee nei confronti dei popoli costretti a fuggire dalla morte per guerra, per miseria, per fame e per sete, a causa delle iniziative politiche, economiche e sociali tenacemente condotte dal Primo mondo e dai suoi emuli nel corso dei secoli del colonialismo, ancora pesantemente in atto. Numerosi articoli sull' Emigration conpact, sono reperibili in eddyburg digitando l'espressione nel "cerca".
Finalmente una buona notizia dal fronte più dolorante del mondo di oggi. Ma «non ci si illuda che bastino pareri e future sentenze come grimaldello per scardinare l’ideologia neonazionalista della Fortezza Europa, trasformandola in una casa dalla cui porta entra chi ha diritto».

l'Avvenire, 9 giugno 2017
.Grazie a un parere dell’avvocato generale della Corte Ue inizia finalmente a vacillare il "sistema Dublino", cardine della Fortezza Europa. E, a conti fatti, uno dei maggiori impedimenti a una più equa gestione sul territorio Ue del problema dei migranti. Il principio impone ai profughi di presentare domanda di asilo nel primo Stato Ue in cui hanno posto piede. Altrimenti vi ci vengono rispediti. "Dublinanti" è diventato così il brutto sinonimo, quasi dispregiativo, usato dalla burocrazia per indicare chi è stato respinto nel Paese di primo arrivo. Da ieri si riconosce che in caso di crisi potrebbe non valere più.

In questa lunga crisi migratoria, a conti fatti, la norma è stata un peso per la Ue. Oltre agli enormi costi umani, ha infatti ulteriormente appesantito la situazione degli Stati in prima linea come il nostro Paese, la Grecia e la Spagna. L’Italia in particolare si è trovata a pattugliare, dopo il 3 ottobre 2013, un tratto di Mediterraneo smisurato con la propria Guardia Costiera per salvare vite umane stipate da bande di trafficanti senza scrupoli su barche sempre più fragili e contemporaneamente, grazie al "Dublino" a mettere in piedi un sistema di accoglienza complesso e oneroso perché obbligata ad assistere coloro che aveva salvato. Anche la xenofobia ricomparsa sul web e nelle strade deve molto al caos creato dalle norme dei regolamenti Dublino. Caos cui si è sommata l’indifferenza dei membri transalpini della Ue verso il flusso in arrivo prima dal Medio oriente e poi dall’Africa che ha portato Roma – come anche la Grecia – a rinunciare a prendere le impronte alle persone salvate che si sono dirette verso nord per ricongiungersi ai familiari laddove welfare e mercato del lavoro offrivano maggiori possibilità di integrazione.

Dopo un lungo braccio di ferro l’Ue ha raggiunto nel 2015 un fragile e discutibile compromesso, lasciando alla Turchia il compito di bloccare la rotta balcanica per tre miliardi di euro mentre il sistema di ricollocamento interno per quote di profughi eritrei e siriani avrebbe dovuto alleggerire la pressione sugli Stati mediterranei. Ma l’accordo è congelato per l’avversione dell’Europa orientale.
Ieri l’Avvocato generale della Corte Ue ha dato ragione alla Ue mediterranea. Non si può applicare la normativa di Dublino in casi di emergenza, ha stabilito. Cosa cambia? Il diritto di rispedire i migranti nei Paesi di primo ingresso potrebbe essere di fatto sospeso. In concreto, guardando ai nostri confini, potrebbe ad esempio finire il blocco dei gendarmi francesi a Ventimiglia e cessare il rimpatrio dei minori africani da parte delle guardie di frontiera austriache. Per l’Avvocato generale il fatto che in un momento di forte pressione migratoria uno Stato membro organizzi o faciliti il transito dei migranti verso altri Paesi europei non è contestato. Vedremo a breve se a questo parere su casi concreti di richiedenti asilo farà seguito una sentenza della Corte di Giustizia del Lussemburgo. In genere il parere viene accolto.

Comunque il banco potrebbe saltare. È la prima volta che alla voce critica delle Ong e delle organizzazioni umanitarie contro le norme "dublinanti" si affianca un parere legale che sostituisce il buon senso alla rigidità di un regolamento insostenibile. Ora è il turno di una soluzione politica che sancisca il definitivo superamento del "muro di Dublino". Abbia il coraggio di riformarlo con un meccanismo di suddivisione responsabile e solidale dei rifugiati e dei richiedenti asilo in base alla popolazione, senza eccezione, includendo tutti e 27 i membri. Non è certo a colpi di sentenze che la Ue può uscire dalla profondità di questa crisi migratoria che contribuisce a metterne a repentaglio l’unità.

Nonostante le difficoltà, non ci sono alternative a una politica europea unitaria, ricca di lungimiranza e di umanità, per provare ad affrontare questi scenari complessi. E non ci si illuda che bastino pareri e future sentenze come grimaldello per scardinare l’ideologia neonazionalista della Fortezza Europa, trasformandola in una casa dalla cui porta entra chi ha diritto. Solo un’Unione più coesa nell’accoglienza responsabile può trovare lo slancio unitario per vincere la sfida e riuscire a governare con una logica nuova – quella della cooperazione con l’Africa – flussi che altrimenti rischiano di non fermarsi.

il manifesto, 6 giugno 2017

Cominciando dal nuovo ordine globale dopo la prima Guerra mondiale, la narrazione storica presenta un mondo sempre più interconnesso dal punto di vista economico e in espansione rispetto alle tecnologie di comunicazione. L’Europa si è sviluppata secondo l’internazionalismo liberale wilsoniano e ha superato l’era delle monarchie e degli imperi. Il panorama politico europeo consisteva in moderni stati nazione, i cui cittadini erano in possesso di un passaporto e di diritti civili, mentre negli anni Venti del Novecento la Società delle Nazioni come organismo sovranazionale si rivolgeva ai soggetti coloniali almeno nel caso di ex possedimenti degli stati conquistati.

Sempre in quegli stessi anni, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha lavorato per la diffusione su scala globale di leggi sul lavoro, introducendo patti tra i sindacati, gli stati e i lavoratori come misura contro lo sviluppo del movimento comunista. Ad un’analisi più approfondita, però, gli stati nazione moderni, nati dopo il 1919, seguivano l’idea di un’entità omogenea basata sullo stesso linguaggio, religione ed etnia, tutti e tre questi fattori combinati in una concezione essenzialista del nazionalismo e del patriottismo.

Accanto a questo processo di costruzione della nazione e tenendo conto dell’evoluzione del «mondo in connessione», in una dicotomia ossimorica, gli strumenti dell’esclusione e della marginalizzazione si sono decisamente diffusi. Anche l’istituzione di diritti delle minoranze era basata sulla individuazione dell’alterità. Va sottolineato il fatto che l’idea dell’esistenza di un’autenticità etnica, considerata un fattore di modernità, ha nutrito l’anti-semitismo e legittimato l’eliminazione delle popolazioni nomadi.

La società delle Nazioni si vantava di avere supportato e organizzato un cosiddetto «scambio di popolazioni» tra la Grecia e la Turchia nel 1923. L’organizzazione di stampo coloniale ancora vigente differenziava tra cittadini e soggetti originari delle colonie e offriva tutte le ragioni per legittimare differenti gradazioni di diritti civili, minando ciò che era stato dichiarato come universale e innegabile dalla tradizione dell’Illuminismo.

Utilizzando il concetto di cittadinanza, lo stato ha lavorato alla produzione di strumenti di esclusione, utilizzando la difesa dallo snaturamento «etnico» di una nazione come metodo. Un processo usato quasi ovunque nel mondo dopo il 1919, dall’Unione Sovietica agli stati fascisti. Di conseguenza, la lista di coloro che non rientravano nel contesto sociale di quella che era immaginata come una nazione etnicamente autentica era cresciuta significativamente ben prima che Hitler instaurasse il regime nazista in Germania.

Il risultato di queste molteplici forme di esclusione è di avere creato un nuovo tipo umano migrante. La denominazione contemporanea di profughi, nemici stranieri, sfollati ci dà un’idea di quanto il mondo dal ventesimo secolo si sia allontanato dal cosmopolitismo kantiano. Così, un supposto background trans-culturale si è trasformato nella più pericolosa e indesiderata questione durante il ventesimo secolo.

Mentre si concentrano sugli strumenti legali di esclusione, i governi elevavano a imprescindibile essenza la nozione di uno stato nazione etnicamente omogeneo, generando la riduzione della diversità culturale, con conseguenze devastanti. Come spiega Timorhy Snyder nel suo libro impressionante e terrificante Terre di sangue (Rizzoli), dopo Hitler e Stalin il tessuto sociale cosmopolita dell’Europa dell’Est è stato distrutto per sempre.

Ma così facendo, discutiamo su un problema europeo e sulla storia del fascismo? Non esattamente. L’inclusione dell’Asia conferma l’organizzazione ossimorica di un mondo sempre più connesso da una parte e di una distanza sempre maggiore tra i diritti politici e sociali, se paragonati alla protezione delle catene di merci e di oggetti e alle relazioni economiche, dall’altra parte. Invece di una continuazione del «mondo in connessione» come si era sviluppato nel tardo Ottocento, una separazione del mondo caratterizza il ventesimo secolo. Fino ad oggi, coloro che sono stati esclusi dalla protezione nazionale hanno avuto raramente una voce. Ciò che conosciamo, al di là delle testimonianze autobiografiche, risulta dagli strumenti che gli stati hanno utilizzato in un processo di marginalizzazione delle persone, per esempio le decisioni in merito all’immigrazione, il rifiuto della convalida dei passaporti, i tentativi di propaganda in contesti ideologici e politici vari.

Durente la Seconda Guerra Mondiale, la sovrapposizione tra la marginalizzazione e la connessione globale aumentò. Le parti in guerra imprigionarono civili in campi di internamento in Asia, Europa e Stati Uniti con l’accusa di essere «nemici della nazione». A partire dal 1942, una serie di accordi complessi tra gli stati belligeranti portarono ad attività di rimpatrio sia del corpo diplomatico, ma soprattutto di civili. Alcuni di loro avevano vissuto per anni in luoghi ora chiamati «esteri» rispetto alla loro nazionalità, sebbene le espressioni «nemici stranieri» e «rimpatrio» non corrispondessero alla loro concezione di sé.

In questo contesto sociale, il teatro europeo della guerra era ugualmente presente nel Pacifico, come testimonia l’esperienza delle navi di scambio che spesso ospitavano diplomatici che rappresentavano uno dei molti organismi di governo in esilio a Londra. Sulle navi di scambio era sempre presente un delegato svizzero, custode del rispetto dei patti definiti internazionalmente. In un caso, il delegato svizzero sperò in una breve tappa in Vietnam organizzata dalla Francia di Vichy quando i rappresentanti del movimento della Francia Libera di De Gaulle erano saliti a bordo. In altri casi, le famiglie ebree ebbero grossi problemi coi passaporti. Lo stesso accadde alle molte persone bloccate a Shangai dopo un lungo viaggio dall’Europa Occidentale attraverso la Siberia o dalla Siria e dall’Egitto. I missionari americani dalla Cina si incontrarono con i diplomatici latinoamericani a Manciukuò e in Corea per gestire il possibile ingresso di persone in fuga nei loro paesi. In molti di questi casi, che hanno ottenuto visibilità grazie alla prospettiva degli European Global Studies, il rimpatrio è stato un atto di migrazione forzata, realizzato su navi neutrali, noleggiate specificatamente con questo scopo.

Le navi partivano da porti americani, inglesi e asiatici e navigavano per i cosiddetti scambi verso porti neutrali in Portogallo, Goa e Mozambico. C’era sempre un delegato svizzero a bordo, che vigilava sulle condizioni di scambio negoziate, per esempio controllando la lista dei passeggeri, la gestione dei bagagli, delle merci e del denaro. Visto che la Svizzera riceveva tutte le informazioni da entrambi le parti in trattativa, le fonti presenti negli Archivi Svizzeri permettono uno sguardo unico su una delle operazioni più spettacolari e meno studiate che la guerra nel Pacifico offre.

Da questo esempio, pressoché sconosciuto nella storia per altro ben approfondita della Seconda Guerra Mondiale, comprendiamo fino a che punto una guerra globale determina nuovi modi di connessione e come si siano aperti nuovi spazi di scambio con l’Africa, come importante centro nevralgico. Impariamo che tali operazioni di scambio coinvolsero un considerevole numero di strutture che trasformarono piccoli stati neutrali in potenti agenti di relazioni.

In ogni caso, incrementando strumenti e metodi di connessione, le attività descritte hanno distrutto le società transculturali nei porti asiatici. La conseguenza è stata che la conoscenza e le competenze globali sono diventate fonti di sospetto, da un punto di vista nazionale. Sia le potenze dell’Asse che gli alleati effettuarono interrogatori meticolosi ai loro cittadini rimpatriati per ottenere informazioni che avessero rilevanza militare. La comunità a bordo, quindi, rispecchiava ogni sorta di biografia rotta, reindirizzata e distrutta nel limbo della non-appartenenza. La sovrapposizione antitetica di mercati connessi e di comunità globali separate o addirittura distrutte si è perpetuata anche nel periodo della Guerra Fredda.

Quali sono le conseguenze a lungo termine di una storia del ventesimo secolo raccontata dal punto di vista della separazione? In contrasto col contesto di una società di consumi neoliberale, la storia della separazione individua un vuoto sociale, politico e culturale nella comprensione delle opportunità e delle emergenze delle vite di chi attraversa le frontiere, in quanto risorse umane per la costruzione di identità fondate su competenze globali. Le leggi sull’immigrazione di oggi propongono verifiche negative – l’ossimoro «migrante temporaneo permanente» può servire, quindi, come esempio.

Traduzione di Laura Marzi

Finalmente trovata la soluzione tecnica idonea a sostituire scafisti, Ong e altre più evolute forme di canali protetti per garantire condizioni umane all'esodo degli abitanti che il Primo mondo ha tramutato in inferni.

la Repubblica online, "Viaggi", 1 giugno 2017
Ieri la consegna, nei cantieri francesi STX di Saint-Nazaire, sull'estuario della Loira; domenica la cerimonia di inaugurazione. Queste sono invece le prime miglia marine percorse dalla Meraviglia, nuova ammiraglia della flotta MSC. Con 171.598 tonnellate di stazza lorda e capacità di ospitare 5.714 passeggeri, MSC Meraviglia è la nave più grande mai costruita da un armatore europeo, MSC Crociere, e la più grande entrata in servizio nel 2017.

Msc Meraviglia è una delle 6 nuove navi che entreranno in servizio trail 2017 e il 2020. Alla cerimonia della consegna, che prevede il cambio della bandiera, da quella del Paese costruttore a quella dell'armatore, ha presenziato il neopresidente francese Emmanuel Macron. Dopo il varo, la nave inizierà la sua stagione inaugurale nel Mediterraneo Occidentale. MSC Meraviglia è lunga 315 metri, larga 43 metri e alta 65 metri con una stazza lorda di 171.598 tonnellate.

La nave può viaggiare ad una velocità fino a 22.7 nodi, è stata progettata per navigare in tutte le stagioni e per essere in grado di scalare la maggior parte dei porti crocieristici internazionali, offrendo la più ampia ed emozionante gamma di funzionalità di bordo di qualsiasi altra nave da crociera di MSC.

Tra le peculiarità della nuova generazione di cruiser, la possibilità di offrire a bordo uno spettacolo dedicato del Cirque du Soleil. Lo show Cirque du Soleil at Sea verrà presentato per sei giorni la settimana due volte al giorno. Dopo il varo, la nave inizia quindi il suo primo viaggio lungo la costa atlantica, con scalo a Vigo (Spagna), Lisbona (Portogallo), fino al Mediterraneo, toccando quindi Barcellona (Spagna), Marsiglia (Francia) e, infine, Genova (Italia). L’11 giugno inizierà il primo itinerario di 7 notti, in partenza da Genova per Napoli (Italia), Messina (Italia), La Valletta (Malta), Barcellona, Marsiglia e rientrerà a Genova il 18 giugno.

«». il blog di Guido Viale, 28 maggio 2017 (c.m.c)

Quello di cui intendo parlare qui sono alcune soluzioni di ordine istituzionale per affrontare l’ingresso nel mondo del lavoro di profughi e migranti; non i meccanismi con cui vengono sfruttati tutti coloro che si trovano nel nostro paese in una condizione di irregolarità e che, grazie alla condanna alla clandestinità imposto da chi si oppone alla loro regolarizzazione, è ormai da tempo uno dei pilastri portanti dell’economia italiana in molti settori.

Va comunque rilevato che diverse innovazioni recenti nel campo della legislazione del lavoro rendono sempre più sfumato, sia di fatto che in linea di diritto, i confini che separano il lavoro legale da quello illegale. Basta pensare ai cosiddetti scontrinisti, lavoratori – anzi lavoratrici – pagati dal Ministero dei Beni Culturali fino a un massimo di 400 euro al mese sulla base degli scontrini che riescono a presentare (evidentemente falsi, cioè raccolti da altri) e senza alcuna tutela. Non so in quale altro paese del mondo possa esistere un istituto contrattuale del genere.“Mettere al lavoro” profughi, richiedenti asilo e migranti non ancora regolarizzati o a cui è spirato il permesso di soggiorno, cioè offrir loro la possibilità di avere un lavoro regolare e retribuito, è il problema centrale intorno a cui si gioca il futuro dell’Europa e del nostro paese. Le considerazioni alla base di questo enunciato sono elementari:

- Gli sbarchi e gli arrivi in altre forme, tutte irregolari fino a che non saranno istituiti corridoi di ingresso legali, continueranno e, anzi, aumenteranno nel tempo, a causa dei cambiamenti climatici, della devastazione economica e ambientale delle loro terre, dei conflitti che questi processi innescano e alimentano, degli accordi commerciali che devastano le economie di sussistenza dei paesi da cui si originano quei flussi;

- Nessuna politica di contrasto, per quanto spietata, cioè fondata sull’abbandono di profughi e migranti in viaggio verso l’Europa in mare, nel deserto o tra le mani dei loro aguzzini, né tantomeno i rimpatri, possono permettere un contenimento significativo di questi flussi;

- L’accoglienza, così come è organizzata, non basta. In Italia, con l’eccezione della rete SPRAR – e neanche tutta – essa è per lo più affidata all’apprestamento estemporaneo di contenitori dove le persone che richiedono asilo (praticamente tutti i nuovi arrivati, dato che non esistono altri canali di accesso a una regolarizzazione) vengono mantenuti, a spese dello Stato, in una condizione di inattività forzata che umilia loro, ma che umilia anche le comunità dei territori dove insistono gli edifici in cui sono ospitati, e che li vedono bighellonare mentre loro lavorano.

In ogni caso questo è il destino di tutti coloro che sbarcano in Europa, perché l’Italia è ormai l’unico paese di approdo e le sue frontiere con il resto dell’Unione europea sono chiuse, sia fisicamente che dalla convenzione Dublino III. Questa forma di accoglienza, ma anche quella affidata alla rete SPRAR, rispondono a una logica di emergenza che non ha più alcuna ragion d’essere, dato che il fenomeno degli arrivi è destinato a protrarsi nel tempo.

Una volta ottenuto l’asilo o il diniego definitivo – spesso dopo anni – per le persone ospitate in queste strutture non è previsto alcuna altra forma di accompagnamento e vengono abbandonate per strada, con o senza documenti che ne legittimino la permanenza in Italia, a seconda dell’esito del procedimento. Il presupposto è che chi ha ricevuto il diniego ritorni da dove è venuto come ingiunto dal foglio di via che gli viene consegnato – ma nessuno lo fa – oppure che venga rimpatriato a forza, passando eventualmente attraverso un CPR; ma questi rimpatri sono costosi, per lo più impraticabili e vengono e verranno fatti solo ogni tanto “per dare l’esempio”. Ma anche per chi ha ricevuto la protezione internazionale non è prevista alcuna forma di accompagnamento;

Il risultato è che le persone messe per strada si accumuleranno di qui a poco al ritmo di cento/duecentomila all’anno: il numero degli arrivi da cui si prevede che l’Italia sarà interessata nei prossimi anni e forse per decenni. Si tratta di una situazione insostenibile, che non farà che alimentare e moltiplicare la propaganda di coloro che chiedono misure sempre più feroci di respingimento e di confinamento, anche se sanno benissimo – ma non lo dicono al pubblico a cui si rivolgono – che si tratta di misure inattuabili e inefficaci;

Il lavoro, un lavoro regolare e retribuito, è per tutte le persone in questa condizione il mezzo fondamentale di inclusione sociale e di empowerment: per avere un reddito, per sentirsi indipendenti, per trovarsi e pagare un alloggio, per crearsi una rete di relazioni sociali, per impratichirsi nella lingua, per imparare un mestiere, per risparmiare e contribuire al mantenimento di parenti rimasti in patria.

Molte delle persone che arrivano in queste condizioni, soprattutto se profughi di guerra o di qualche conflitto, ma anche se profughi ambientali o cosiddetti migranti economici, desiderano ritornare prima o poi da dove sono venute non appena se ne presentino le condizioni. Per questo il lavoro è anche ciò che può creare le basi per un ritorno: con nuove professionalità acquisite, con un patrimonio di relazioni con il paese di arrivo che può essere messo a frutto nel paese di origine – soprattutto se, come spiegheremo, le attività in cui verrebbero impegnate sono prevalentemente legate al risanamento ambientale sia locale che globale – e in alcuni casi anche con un piccolo capitale che oggi, per mancanza di supporto a impieghi alternativi, viene spesso dilapidato in attività immobiliari senza alcun beneficio.

In queste condizioni, e per tutte queste persone, la ricerca del lavoro non può essere affidata al mercato, cioè all’iniziativa individuale, anche se avvenisse in condizioni di legalità, cioè con un regolare permesso di soggiorno che oggi non viene dato a nessuno. E questo, non solo perché il mercato del lavoro, in Italia come in quasi tutti gli altri paesi europei, non offre in questo periodo, e per molti anni a venire, grandi opportunità nemmeno ai cittadini autoctoni; e neanche solo perché le agenzie di intermediazione non funzionano; ma soprattutto perché persone arrivate in queste condizioni hanno bisogno di un forte accompagnamento personalizzato.

Alcuni amministratori locali, ben consapevoli che è innanzitutto necessario spezzare la gabbia dell’inattività forzata a cui sono condannati i richiedenti asilo, hanno cominciato ad impegnarli, a titolo volontario e gratuito, in attività “socialmente utili”, con l’obiettivo di mostrare alla cittadinanza che quei profughi non sono solo un peso, e meno che mai un pericolo, ma possono essere anche un aiuto. Altri, tra cui alcuni studiosi del fenomeno, hanno proposto di riattivare l’istituto dei “lavori socialmente utili” (LSU): un istituto attivato dalla legislazione italiana del lavoro in un periodo compreso tra il 1984 e i primi anni del 2000), con l’intento dichiarato, ma quasi mai veramente perseguito, di avviare al lavoro un bacino di disoccupati che si era progressivamente andato allargando da alcuni lavoratori in cassa integrazione ad altri in mobilità, fino ad includere giovani inoccupati e disoccupati di lunga durata.

Entrambe queste soluzioni – lavoro gratuito e LSU – sono fattispecie di un approccio alla disoccupazione generale chiamato workfare, tutt’ora in vigore, anche se in disgrazia, in molti paesi, che era nato in contrapposizione, anche da un punto di vista terminologico, al welfare e, segnatamente, alle indennità di disoccupazione, considerate un incentivo all’ozio, o alla rinuncia della ricerca attiva di un lavoro. Al workfare veniva così assegnato sia il compito di tenere il disoccupato “in esercizio”, sia quello di riavviarlo in qualche modo al lavoro. Ma entrambe le soluzioni, più altre che vi possono essere assimilate, sono invece una vera e propria trappola: sia per il lavoratore che per le istituzioni che le promuovono e la società che le adotta.

Intanto ne vanno messe in discussione le finalità: in molti casi il workfare è stato introdotto con intenti punitivi: far pagare al disoccupato, come che sia, il costo del suo mantenimento; in altri casi, con intenti compassionevoli: sottrarlo all’inattività, farlo sentire, per l’appunto, “socialmente utile”. L’approccio prevalente è comunque quello di considerare il workfare una forma di avviamento o riavviamento al lavoro. Tutti e tre questi approcci presentano però più controindicazioni che benefici.

Sul lavoro volontario e gratuito c’è poco da dire: attivato una tantum con persone costrette a un isolamento forzato nelle loro strutture può essere giustificato come modo per allacciare un loro rapporto con la cittadinanza. Trasformato in pratica continuativa è una forma di schiavismo che risponde al principio di compensare con lavoro gratuito il proprio mantenimento, senza che da esso derivi alcuna prospettiva di sbocco occupazionale vero, o di inclusione sociale, allontanando così ancora di più le persone coinvolte da un percorso di integrazione.

Il lavoro socialmente utile (LSU), così come è stato introdotto e sviluppato in Italia, prevedeva una occupazione a mezzo tempo, con una retribuzione ridotta, ma contributi sociali garantiti interamente, in progetti temporalmente definiti – ma di fatto rinnovati di anno in anno alla scadenza – presso amministrazioni pubbliche, società miste pubblico-private, o imprese già esistenti o costituite ad hoc in forma cooperativa, affidatarie di lavori o servizi pubblici esternalizzati. La formula non poteva funzionare, e non ha funzionato, innanzitutto per il fatto che la retribuzione dimezzata era, sì, insufficiente a garantire il mantenimento di una persona e ancor più di una famiglia, ma era anche una buona base per impiegare il resto della giornata in un doppio lavoro “in nero”, anche grazie al fatto che i contributi sociali erano comunque interamente coperti.

Questo metteva di fatto molti lavoratori socialmente utili addirittura in una situazione privilegiata rispetto a chi svolgeva una attività regolare a tempo pieno, rendendoli così particolarmente restii ad abbandonare la loro posizione, anche in presenza di un’offerta di lavoro regolare. Questa renitenza era ulteriormente aggravata dalla speranza, spesso alimentate da forze politiche e sindacali, di utilizzare l’ingaggio nei LSU come corridoio di ingresso nella Pubblica amministrazione, posizione che in Italia gode ancora, nonostante tutto, di una particolare protezione.

Ma, oltre a ciò, sia il lavoro socialmente utile che il lavoro volontario e gratuito non sfuggono a un dilemma radicale: o il lavoro è effettivamente “socialmente utile”, e allora dovrebbe essere svolto in via ordinaria, con contratti di lavoro regolari, perché svolgerlo in forma gratuita, o in ambiti riservati ed esclusivi, significa entrare in concorrenza sia con i lavoratori interessati a svolgerlo dietro il pagamento di un salario regolare, sia con le imprese interessate ad averlo in affidamento a condizioni di mercato. Oppure quei lavori non fanno concorrenza a nessuno perché sono lavori finti o non sono per nulla utili; vanno solo a vantaggio di chi li gestisce e contribuiscono a creare delle sacche di parassitismo tra chi li gestisce.

Che è esattamente quanto successo per molti anni, mano a mano che si dilatava il bacino dei LSU e che venivano riconfermati gli pseudoprogetti in cui quei lavoratori venivano impegnati. Basti pensare alle migliaia di lavoratori ingaggiati in raccolte differenziate dei RSU o in lavori di bonifica senza essere dotati di attrezzature, strumenti e know how per operare; e venendo spesso assegnati ad aree e interventi in cui operavano già altre imprese più o meno regolari. Questo ha fatto sì che sui LSU finissero per ricadere anche le stimmate di persone incapaci o indisposte a lavorare in condizioni ordinarie, pregiudicandone ogni eventuale successiva ricollocazione.

Per di più, quando i lavori sono utili, perché coprono funzioni rimaste scoperte – ed è stato il caso di molti lavoratori applicati a ruoli della Pubblica amministrazione – questa si mette nella condizione di non poterne più fare a meno e, quando il sedicente progetto giunge a scadenza, scopre di non aver più le risorse per coprire alcune funzioni vitali.

Insomma, sia il lavoro volontario gratuito, a prescindere dalla sua inaccettabilità, sia il lavoro socialmente utile attribuito in riserva si rivelano una trappola tanto per il lavoratore che per le amministrazioni che lo impiegano direttamente o attraverso l’affidamento a un’impresa. Lo è per il lavoratore, perché, lungi dal funzionare come strumento di avviamento a un lavoro regolare, lo rinchiude in un recinto da cui nessuno ha più interesse a farlo uscire. Tanto è vero che lo svuotamento del bacino degli LSU italiani ha richiesto un progetto ad hoc (OFF), finanziato dall’Unione europea, costato molte decine di milioni, durato quasi dieci anni e nel quale la maggior parte delle uscite sono state di fatto realizzate per prepensionamento.

Ma è una trappola anche per le amministrazioni, perché le inducono a creare delle finte attività per sostenere lavori di nessuna utilità o efficacia, oppure ad affidare funzioni per essa vitali a interventi a termine, destinati a lasciarle scoperte quando il progetto viene a scadenza.

Qual è allora la soluzione? Una soluzione soddisfacente per adesso non c’è, perché il problema è il più complesso che l’Europa, e forse tutte le economie sviluppate, si trovano ad affrontare oggi. Ma per quanto riguarda l’Italia e gli scenari di qui a due o tre anni, valgono comunque le seguenti considerazioni:
Il problema è di assoluta priorità e va riportato come tale a livello europeo: profughi e migranti sbarcano in Italia, ma per raggiungere l’Europa. Il nostro paese non può essere lasciato solo ad affrontare questo flusso, anche se tutti gli altri paesi membri dell’Unione Europea trovano molto comodo lasciare le cose come stanno.

Non si tratta di “pestare i pugni sul tavolo” come hanno promesso di fare sia Renzi che i 5stelle, ma di far capire a tutti, e innanzitutto all’opinione pubblica, che in mancanza di iniziative adeguate è l’intera costruzione europea a rovinare;

Le ricollocazioni previste dalla Commissione europea, anche se venissero effettuate – il che non è – non sono adeguate: innanzitutto riguardano solo la fase dell’accoglienza e non quella della inclusione sociale successiva; poi dovrebbero essere rinnovate ogni anno, perché ogni anno c’è un nuovo flusso di profughi da accogliere e sistemare;

Il problema è creare occasioni di lavoro per tutti in settori che abbiano veramente bisogno di molta manodopera. Questi sono soprattutto i settori legati alla manutenzione del territorio, alle riconversioni energetica, agricola ed edilizia, alla manutenzione e riparazione dell’usato, ai servizi alla persona, compreso il trasporto personalizzato. Luciano Gallino aveva stimato la necessità immediata di almeno un milione di nuovi posti di lavoro aggiuntivi per alleviare la disoccupazione in Italia; cifra che proiettata su scala europea e proporzionata alla consistenza della disoccupazione ufficiale degli altri paesi, significa almeno sei milioni di posti di lavoro su scala continentale. Perché non sembri una esagerazione, bisogna ricordare che fino alla crisi del 2008 i paesi europei di immigrazione assorbivano “normalmente” almeno un milione e mezzo di nuovi migranti all’anno, trovandogli un lavoro. Sono dunque le politiche di austerità che da allora hanno prodotto 25 milioni di disoccupati nell’UE che vanno cambiate;

Non si può aspettare un cambiamento radicale di questo genere, assimilabile a un regime change a livello europeo, per cominciare ad agire. Occorre fin da ora mettere a punto, trovare i finanziamenti e realizzare progetti di inclusione sociale e lavorativa di profughi e migranti a livello locale. Per poi riproporli come modelli di buone prassi da recepire e valorizzare in tutta Europa. E viceversa: conoscere, importare e riprodurre quanto di valido è stato sperimentato in Europa su questo piano;

Ovviamente gli esempi non bastano, ma è solo a partire dalla loro realizzazione e dalla loro valorizzazione che è possibile dare credibilità a un programma generale di riconversione produttiva dell’Europa fondata su un piano generale di lavori inclusivo di tutte le competenze e di tutte le componenti sociali che possono essere impiegate nella sua realizzazione;

Gli inserimenti lavorativi di profughi e migranti arrivati da poco in Europa hanno bisogno di un accompagnamento personalizzato gestito da organismi capaci di svolgerlo, sia che si tratti di assunzioni in imprese esistenti che di creazione di nuove imprese. Le uniche organizzazione in parte attrezzate per questa funzione sono le imprese del terzo settore, a cui spetta un ruolo fondamentale nel farsi promotrici e soggetti attuatori di un programma del genere;

In tutti gli ambiti dove sono in campo nuovi progetti o creazione di nuove imprese una condizione essenziale è che a essere coinvolti siano gruppi misti di disoccupati italiani, soprattutto giovani, e stranieri; e soprattutto che ci sia un transfer di conoscenze e di competenze manageriali da chi le ha potute maturare all’interno di imprese già operanti a chi si trova a dover iniziare quasi da zero.

In tutti i casi è importante mantenere i contatti più stretti possibili con tutti i livelli istituzionali, perché si capisca che questa è l’unica strada percorribile per non lasciar precipitare il nostro paese, e dietro di esso, tutta l’Europa, in un caos senza ritorno. Le cose da fare sono tantissime e gigantesche, ma si può e si deve cominciare a lavorare da quello che si può fare.

Gli esempi positivi di inserimento in attività già in corso o di creazione di nuove imprese non mancano e andrebbero raccolte in un repertorio. Il paradosso e che coinvolgono richiedenti asilo che attraverso questi progetti si inseriscono positivamente nel lavoro e nella società. Poi quando arriva il diniego, devono essere licenziati perché non possono essere regolarizzati, determinando spesso anche il fallimento delle attività che avevano contribuito a far vivere.

la Repubblica, 29 maggio 2017

Uno è il numero del cinismo europeo. L’Italia ha bisogno di 5000 posti nell’Unione per ricollocare i minori non accompagnati arrivati sulle nostre coste. Ma i paesi europei hanno accolto finora «soltanto un minore non accompagnato», scrive nero su bianco il Parlamento di Strasburgo. Così come il milite ignoto è il simbolo della ferocia della guerra, l’anonimo e unico bambino senza genitori coinvolto nel programma di accoglienza è l’emblema della mancata solidarietà della Ue, della sua disunione e della sua crisi. Uno stavolta non si riferisce al deficit, alle correzioni di bilancio ma alla stitica capacità di condivisione dei nostri partner. È il numero più significativo, un puntino scandaloso nella statistica del fenomeno migratorio e dei richiedenti asilo. L’intero piano di ricollocazione però sta fallendo. E la risoluzione approvata a larghissima maggioranza il 18 maggio dall’Europarlamento mette in chiaro le cifre di questo fallimento.

Solo l’11 per cento

Al 27 aprile erano stati ricollocati 17903 richiedenti asilo: 12490 dalla Grecia e 5920 dall’Italia. «Un dato — scrivono i promotori della mozione — che equivale ad appena l’11 per cento degli obblighi assunti». Cioè, 18410 persone su 160 mila previste.

Chi fa la propria parte
Il programma di accoglienza solidale naturalmente esclude Italia, Grecia e Germania che fanno già il possibile nella gestione del fenomeno. In quanto paesi di arrivo sono loro a dover essere aiutati nel controllo dei flussi da tutti gli altri. Ma questa solidarietà si limita a pochissimi stati. Soltanto la Finlandia e Malta rispettano gli obblighi. E la sola Finlandia lo fa «sistematicamente » per il capitolo doloroso dei “minori non accompagnati”.

Chi diserta

Praticamente tutti gli altri. Alcuni più degli altri. Ungheria e Slovacchia rifiutano la ricollocazione e hanno portato la commissione Ue davanti alla Corte europea di giustizia. Austria, Polonia e Repubblica Ceca sono fra i Paesi che fanno di meno. «Ma la maggior parte degli stati membri è ancora molto in ritardo, sebbene si siano registrati alcuni progressi».

L’Italia
Il paradosso è che nel 2016 il nostro Paese ha ricollocato più richiedenti asilo di quanti sia riuscita a dirottarne negli altri stati Ue. Lo scorso anno sono arrivati da noi 181436 persone, il 18 per cento in più rispetto al 2015. Il 14 per cento di loro erano minori. Tra i richiedenti asilo sono stati ammessi gli eritrei e 20700 sono sbarcati sulle nostre coste. In questo caso, l’Italia è indietro nella loro registrazione, necessaria a inserirli nel programma di solidarietà.

Chi fa il furbo
Alcuni stati membri utilizzano criteri restrittivi e discriminatori nel rifiutare le quote di accoglienza. Ricollocano soltanto le madri sole o escludono richiedenti di alcune nazionalità, ad esempio gli eritrei. Al 7 maggio scorso la Grecia si era vista respingere 961 persone che avevano i requisiti per essere trasferiti altrove.

L’obiettivo
Il Consiglio europeo si è impegnato a garantire il traguardo di 160 mila ricollocazioni. Siamo lontanissimi dal risultato. L’Europarlamento invita gli stati a dare la priorità ai minori non accompagnati e ad altri « richiedenti vulnerabili » . Si chiede quindi almeno di cancellare dalle statistiche lo scandaloso “ 1” che riguarda la drammatica situazione dei bambini giunti in Italia. La Grecia sta meglio di noi, almeno in questa classifica. Invece di 5000 posti, al momento ha bisogno di altri 163 “ visti” per il trasferimento di altrettanti minori.

Procedure d'infrazione
Strasburgo chiede alla commissione di partire davvero con le sanzioni. Così come scattano per i decimali di sforamento del deficit (la manovra correttiva chiesta da Bruxelles all’Italia è per l’0,2 per cento), la procedura d’infrazione adesso va avviata anche per chi non rispetta il programma sui migranti. «Se i paesi non incrementeranno rapidamente le loro ricollocazioni, i poteri della commissione vanno usati senza esitazione», si legge nella mozione. «Un largo fronte europeista chiede ora a Juncker di battere un colpo», scrive il vicepresidente dell’Europarlamento David Sassoli nel suo blog su Hufpost. Ieri a Ventotene, al festival dell’associazione “La nuova Europa”, Laura Boldrini ha detto che «l’Unione avrà un futuro solo senza muri e senza paura ». E da Malta il segretario del Pd Matteo Renzi ha invitato il Continente «a non voltarsi dall’altra parte» davanti alla spinta migratoria.

. il manifesto, le Monde diplomatique , maggio 2017

Campi per rifugiati e sfollati, accampamenti di migranti, aree di attesa, campi di transito, centri di detenzione amministrativa, centri di identificazione ed espulsione, punti di passaggio frontalieri, centri di accoglienza per richiedenti asilo, «ghetti», «giungle», hotspots... Dalla fine degli anni 1990 queste parole occupano l’attualità di tutti i paesi.I campi non sono solo luoghi di vita quotidiana per milioni di persone; diventano una delle componenti più rilevanti della «società mondiale», una delle forme di governo del mondo: un modo di gestire l’indesiderabile.

Prodotto della deregulation internazionale seguita alla fine della guerra fredda, queste strutture hanno assunto proporzioni importanti nel XXI secolo, in un contesto di sconvolgimenti politici, ecologici ed economici. Il fenomeno indica il fatto che un’autorità di qualche tipo (locale, nazionale o internazionale), la quale esercita un potere su un territorio, colloca persone in campi di vario tipo, o le costringe a collocarvisi autonomamente, per una durata di tempo variabile .

Nel 2014, sei milioni di persone, soprattutto popoli in esilio – i karen della Birmania in Tailandia, i sahrawi in Algeria, i palestinesi in Medioriente ... –, vivevano in uno dei 450 campi di rifugiati «ufficiali», gestiti da agenzie internazionali – come l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Hcr) e l’agenzia onusiana per i rifugiati palestinesi – o, più di rado, da amministrazioni nazionali. Spesso allestiti in fase di emergenza, senza che i loro iniziatori ne avessero immaginato e ancor meno pianificato la durata nel tempo, questi campi esistono talvolta da oltre vent’anni (come in Kenya), trent’anni (in Pakistan, Algeria, Zambia, Sudan) o anche sessant’anni (in Medioriente). Con il tempo, alcuni sono arrivati ad assomigliare ad ampie aree periurbane, dense e popolose.

Inoltre, nel 2014, il pianeta contava anche più di 1.000 campi per sfollati interni, che ospitavano circa 6 milioni di individui, oltre a diverse migliaia di piccoli campi auto-organizzati, i più precari e meno visibili, con circa 4 o 5 milioni di occupanti, essenzialmente migranti chiamati «clandestini». Queste strutture provvisorie, talvolta definite «selvagge», si ritrovano in tutto il mondo, nelle periferie delle città o lungo le frontiere, su terreni abbandonati o fra le rovine, in interstizi, in edifici abbandonati. Infine, almeno un milione di migranti è passato via via in uno dei 1.000 centri di detenzione amministrativa sparsi per il mondo (400 nella sola Europa).

In totale, tenendo conto degli iracheni e dei siriani fuggiti dal loro paese in questi ultimi tre anni, si può stimare che da 17 a 20 milioni di persone oggi siano «accampate».

Differenze a parte, i campi presentano tre tratti comuni: l’extra-territorialità, l’eccezione, l’esclusione. Innanzitutto, sono spazi a parte, fisicamente delimitati, non-luoghi che spesso non risultano sulle mappe. È il caso del campo per rifugiati di Dadaab, in Kenya, il quale pure conta una popolazione di due o tre volte più grande rispetto a quella del dipartimento di Garissa, nel quale si trova. I campi hanno un status di eccezionalità: sono gestiti da norme diverse da quelle dello Stato nel quale si trovano. E questo, si tratti di campi chiusi o aperti, consente di accantonare, rinviare o sospendere il riconoscimento di un’uguaglianza politica fra i loro occupanti e i normali cittadini.

Infine, questa forma di raggruppamento umano esplica una funzione di esclusione sociale: segnala, e al tempo stesso nasconde, una popolazione in eccesso, in sovrannumero. Il fatto di essere apertamente diversi dagli altri, di non essere integrabili, afferma un’alterità che deriva da questa duplice esclusione,giuridica e territoriale.Ogni tipo di campo sembra accogliere una popolazione particola-re – i migranti senza permesso di soggiorno nei centri di detenzione amministrativa, i rifugiati e gli sfollati nelle strutture umanitarie ecc. –, ma vi si ritrova in un certo senso lo stesso tipo di persone, provenienti da Africa, Asia e Medioriente.

Le categorie istituzionali di identificazione sembrano maschere ufficiali, applicate provvisoriamente sui loro volti. Così, uno sfollato interno liberiano che nel 2002-2003 (nel periodo più acuto della guerra civile) viveva in un campo alla periferia di Monrovia, diventa un rifugiato se l’anno successivo va a registrarsi in un campo dell’Hcr al di là della frontiera settentrionale del suo paese, nella Guinea forestale; e diventa un clandestino se nel 2006 lascia il campo e va a cercare lavoro a Conakry, dove ritrova diversi compatrioti che vivono nel «quartiere dei liberiani» della capitale guineana.

A quel punto, magari tenterà di arrivare in Europa, via mare o attraverso il continente, con le rotte trans-sahariane; se arriverà in Francia, sarà portato in una delle cento zone di attesa per persone con domande in corso (zones d’attente pour personnes en instance, Zapi), che contano anche porti e aeroporti. Verrà ufficialmente considerato un assistito, prima di poter essere registrato come richiedente asilo, con forti probabilità di veder respinta la propria domanda. A quel punto, sarà trattenuto in un centro di detenzione amministrativa (in Francia Centre de rétention administrative, Cra; in Italia Centro di identificazione ed espulsione, Cie, ndt), in attesa che siano compiuti i passi necessari alla sua espulsione (si legga l’articolo a pagina 14). Se legalmente non può essere espulso, sarà «liberato» e si ritroverà, a Calais o nella periferia romana, migrante clandestino in un accampamento o in un edificio occupato da migranti africani.

I campi e gli accampamenti di rifugiati non sono più realtà confinate in lontane contrade dei paesi del Sud, né appartengono al passato. A partire dal 2015, l’arrivo di migranti del Medioriente ha fatto emergere una nuova logica dei campi in Europa. In Italia, in Grecia, alla frontiera fra la Macedonia e la Serbia e fra l’Ungheria e l’Austria, sono nati diversi centri di accoglienza, registrazione e smistamento degli stranieri. Di carattere amministrativo o di polizia, possono essere organizzati dalle autorità nazionali, dall’Unione europea o da soggetti privati.

Queste strutture, allestite in magazzini risistemati o caserme militari riconvertite, su terreni incolti dove sono stati piazzati i container, si saturano ben presto. Tutt’intorno sorgono allora piccoli campi definiti «selvaggi» o «clandestini», approntati da organizzazioni non governative (Ong), da abitanti della zona o dagli stessi migranti. È quanto si è prodotto, ad esempio, intorno al campo di Moria, a Lesbo, il primo hotspot (centro di controllo europeo) creato da Bruxelles ai confini dello spazio Schengen nell’ottobre 2015 per identificare i migranti e prelevarne le impronte digitali. Queste sistemazioni di fortuna, che in genere accolgono alcune decine di persone, possono arrivare a dimensioni considerevoli, al punto di assomigliare a vaste bidonville.

In Grecia, di fianco al porto del Pireo, un accampamento di tende ospita fra 4.000 e 5.000 persone, e fino a 12.000 persone hanno trascorso un periodo a Idomeni, alla frontiera greco-macedone, in una sorta di ampia zona di attesa (2). Negli ultimi anni, anche in Francia sono stati aperti diversi centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cada; in Italia Cara, ndt) e centri di accoglienza d’emergenza.

Anch’essi soffrono di una cronica carenza di posti e, intorno, proliferano gli insediamenti selvaggi. Per esempio, i migranti respinti dalla struttura aperta dal comune di Parigi alla porta della Chapelle nell’autunno 2016 sono costretti a dormire in tende, sui marciapiedi o sotto i cavalcavia della metropolitana. Qual è il futuro di questo paesaggio di campi? Le strade possibili sono tre. La prima è la loro sparizione, come è avvenuto con la distruzione degli accampamenti di migranti a Patrasso in Grecia, e a Calais in Francia, nel 2009 e nel 2016, e anche con il reiterato smantellamento dei campi «rom» intorno a Parigi e Lione.

Quanto ai campi per rifugiati di antica data, la loro scomparsa pura e semplice costituisce sempre un problema. Lo testimonia il caso di Maheba, in Zambia. Il campo, aperto nel 1971, avrebbe dovuto grabili, afferma un’alterità che deriva da questa duplice esclusione,chiudere nel 2002. Ma all’epoca aveva 58.000 occupanti, in gran parte rifugiati angolani di seconda o terza generazione. Un’altra strada è la trasformazione, nel lungo periodo, che può arrivare al riconoscimento e a un certo «diritto alla città», come mostrano i campi dei palestinesi in Medioriente, o la progressiva integrazione nella periferia di Khartoum dei campi di profughi dal Sud Sudan. L’ultima possibilità, attualmente la più diffusa, è quella dell’attesa.

Eppure, altri scenari sarebbero possibili. La proliferazione dei campi in Europa e nel mondo non è una fatalità. È vero che i flussi di rifugiati, soprattutto siriani, sono molto aumentati dopo il 2014 e il 2015; ma erano prevedibili, annunciati dal continuo aggravarsi dei conflitti in Medioriente, dall’aumento delle migrazioni negli anni precedenti, da una situazione globale che rivela come la «comunità internazionale» abbia fallito nel compito di mantenere o ristabilire la pace.

Del resto questi flussi erano stati anticipati dalle agenzie delle Nazioni unite e dalle organizzazioni umanitarie che, dal 2012, invano chiedevano una mobilitazione degli Stati per accogliere i nuovi profughi in condizioni sicure e dignitose. Arrivi massicci e apparentemente improvvisi hanno provocato il panico in diversi governi impreparati, governi che hanno poi trasmesso la propria inquietudine ai cittadini.

La strumentalizzazione del disastro umanitario ha permesso di giustificare interventi duri e recitare, con l’espulsione o il confinamento dei migranti, il copione della difesa del territorio nazionale. Sotto molti punti di vista, lo smantellamento della «giungla» di Calais nell’ottobre 2016 ha avuto la stessa funzione simbolica dell’accordo del marzo 2016 fra Unione europea e Turchia (3) o dell’innalzamento di muri alle frontiere di diversi paesi (4): si tratta di mostrare che gli Stati sanno rispondere all’imperativo securitario, proteggere nazioni «fragili»tenendo a distanza gli stranieri indesiderabili. Nel 2016, l’Europa alla fin fine ha visto arrivare tre volte meno migranti che nel 2015. Gli oltre 6.000 morti nel Mediterraneo e nei Balcani (5), l’esternalizzazione della questione migratoria (verso la Turchia o verso paesi dell’Africa del Nord) e la proliferazione di campi nel continente ne sono stati il prezzo.

(1) Cfr. Gérer les indésirables. Des camps de réfugiés au gouvernement humanitaire, Flammarion, coll. «Bibliothèque des savoirs», Parigi, 2008.
(2) Per una più ampia descrizione dei campi in Europa, cfr. Migreurop, Atlas des mi grants en Europe. Géographie critique des politiques migratoires, Armand Colin, Parigi, 2012, e Babels, De Lesbos à Calais. Comment l’Europe fabrique des camps, Le Passager clandestin, coll. «Bibliothèque des frontières», Neuvy-en-Champagne,in uscita nel mese di maggio 2017..
(3) Si legga Hans Kundnani e Astrid Ziebarth, «Fra Germania e Turchia, la questione dei rifugiati», Le Monde diplomatique/il manifesto, gennaio 2017.
(4) Cfr. Wendy Brown, Murs. Les murs de séparation et le déclin de la souveraineté étatique, Les Prairies ordinaires, Parigi, 2009.
(5) Cfr. Babels, La Mort aux frontières de l’Europe. Retrouver, identifier, commémorer, Le Passager clandestin, coll. «Bibliothèque des frontières», 2017.

Continua la strage nel Mediterraneo, davanti alle coste del migliore alleato dei governi a trazione Renzi. Le benemerite Ong ne possono salvare alcuni, ma per interrompere la strage occorre cambiare chi ci governa, in Italia e in Europa

il manifesto, 25 maggio 2017

Le prime immagini diffuse dalla Ong maltese Moas mostrano centinaia di uomini che si sostengono a vicenda attaccati ai giubbotti di salvataggio, mentre sullo sfondo si vede il barcone sul quale viaggiavano carico di altre centinaia di uomini e donne. Erano almeno in cinquecento a bordo di quella carretta che non ha retto al peso di tanta umanità disperata in mezzo alla quale si trovavano anche tantissimi bambini. Non a caso tra i 34 migranti morti nell’ennesima tragedia del Mediterraneo si contano anche molti dei minori: «Almeno una decina», fa sapere in serata la Guardia costiera che con la nave Fiorillo ha affiancato la Phoenix del Moas nei soccorsi. A provocare il rovesciamento parziale del barcone sarebbe stata un’onda anomala o la decisione di molti migranti di spostarsi tutti sullo stesso lato del mezzo alla vista della Phoenix. Fatto sta che la barca si è inclinata improvvisamente provocando la caduta in mare di almeno duecento tra uomini, donne e bambini prima che il barcone riuscisse a raddrizzarsi.

Nel Mediterraneo si continua quindi a morire. Accantonate per il momento, almeno si spera, le polemiche sulle Ong, resta solo da aggiornare la contabilità di quanti perdono la vita nella speranza di raggiungere l’Europa. Con la certezza che nessun accordo con i paesi africani riuscirà mai a fermarli. La tragedia di ieri è avvenuta intorno alle 9 del mattino 30 miglia a nord della città libica di Zuara, quindi in piene acque internazionali. Il primo ad avvistare l’imbarcazione carica fino all’inverosimile di migranti è l’equipaggio della nave Phoenix del Moas che allerta la sala operativa della Guardia costiera a Roma.

Forse proprio la vista della nave intervenuta a prestare loro soccorso crea agitazione tra i migranti che si trovano a bordo del barcone, una parte dei quali si sarebbe spostata su un di lato sbilanciando l’imbarcazione che comincia a inclinarsi. Inevitabile la caduta i mare di quanti si trovano ammassati lungo i bordi. «Non è la scena di un film dell’horror, ma una tragedia che sta avvenendo adesso, alle porta dell’Europa» twitta il fondatore del Moas, Chris Catrambone. Inviate dalla sala operativa della Guardia costiera italiana sul posto arrivano anche la Fiorillo e, in seguito, altre unità navali. Oltre alle 34 vittime accertate ci sarebbero anche dei dispersi.

Intanto due episodi fanno chiarezza su quanto accade lungo la rotta tra la Libia e l’Italia e sulle conseguenze degli accordi siglati con il paese nordafricano. Il primo sarebbe avvenuto martedì ed è stato denunciato dalla ong tedesca Jugend Retted secondo la quale la guardia costiera libica avrebbe usato le armi per convincere alcuni barconi a fermarsi. Un episodio smentito dalla Marina libica ma confermato anche da Medici senza frontiere e da Sos Mediterranee. Sempre martedì la Guardia costiera libica avrebbe inoltre raggiunto e bloccato 12 miglia al largo di Sebrata due barconi con a bordo in tutto 237 migranti provenienti dalla stessa Libia, dal Marocco, dall’Africa subsahariana e dal Bangladesh. Costretti a rientrare a Sebrata, i migranti sono stati stati arrestati con l’accusa di immigrazione clandestina e consegnati al centro di accoglienza di Al Nasr che fa capo all’autorità della lotta contro l’immigrazione clandestina di Zawiya. L’episodio conferma così il trattamento riservato ai migranti dalle autorità di Tripoli con le quali il Viminale sta trattando ormai da mesi, e questo nonostante le garanzie più volte offerte da Roma e Bruxelles sul fatto che da parte libica si sarebbero rispettati i diritti umani di quanti fuggono da guerre e miseria.

Per quanto riguarda i soccorsi quella di ieri è stata una giornata particolarmente intensa e difficile, con 14 navi impiegate dalla Guardia costiera italiana in 12 operazioni per soccorrere più di 2.000 migranti diretti verso l’Italia a bordo di gommoni e piccole imbarcazioni. Secondo stime fornite dall’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) su un totale di oltre 50 mila migranti arrivati quest’anno (il 39% in più rispetto allo stesso periodo del 2016) circa 1.400 hanno perso la vita nel tentativo di attraversare il Mediterraneo. Sempre l’Oim ha denunciato un altro naufragio avvenuto venerdì scorso e nel quale risulterebbero disperse 150 persone.

«Il Paese africano è una tappa obbligata per chi dalla Libia vuole arrivare in Europa. Ma deve prima subire torture e minacce di trafficanti e criminali».

la Repubblica, 17 maggio 2017

Per chi vuole entrare in Libia, per provare a saltare in Europa, il Niger è tutto. È la porta d’ingresso, la rotta di avvicinamento. Ma è anche la via di fuga, il percorso da fare in retromarcia per fuggire al mattatoio. Seny Condjira e Demba Djack ci hanno provato. Sono partiti dal Senegal, sono passati qui in Niger, sono entrati in Libia, hanno provato ad arrivare in Europa. Ma hanno fallito: sono stati torturati, picchiati, hanno assistito a tutto quello che succede da quelle parti. E hanno deciso che non era possibile, che dalla Libia bisognava soltanto fuggire, rientrare in Niger per tornare a casa.

Alla stazione di Niamey dei bus della “Sahelienne”, la compagnia che collega le capitali dell’Africa occidentale, i racconti dei migranti in ritirata dalla Libia sono terrificanti. Nelle foto sui telefonini ti fanno vedere i segni delle torture, i corpi martoriati e mutilati, due decapitati, decine di corpi bruciati non si capisce bene in quale occasione. Seny era partito quasi un anno fa. «Mio cugino è già in Italia, mi ha detto che da voi è assolutamente meglio della povertà assoluta che c’è qui».

Anche Demba ha provato a passare da Sebha e Tripoli per arrivare in Europa. «Vengo dalla regione di Matan, nell’interno del Senegal. Anche io ho visto le torture e la schiavitù in Libia. E sono fuggito». Ma perché questa violenza bestiale? «Adesso ti spiego come funziona in Libia», dice Seny che ha 34 anni e viene dalla regione di St.Louis. «Avevo iniziato il mio viaggio quasi un anno fa: dal Senegal al Mali tutto bene, noi con la carta di identità possiamo viaggiare nei paesi della Comunità dell’Africa occidentale. Poi dal Mali si passava in Burkina Faso, e lì i primi problemi: i poliziotti provano a rapinarti, a prenderti tutto quello che hai, e se non paghi rimani fermo alle stazioni per ore, per giorni. Per cui tu paghi. Siamo arrivati a Niamey, poi ad Agadez, prima di partire per il deserto e la Libia.

Ad Agadez ci attendevano i trafficanti, per giorni siamo rimasti nei ghettos organizzati per noi migranti: si sono fatti pagare e ci hanno assicurato il passaggio in Libia, in 30 su un pick-up Toyota. Il viaggio a noi è andato bene, in tre giorni siamo arrivati prima a Gatrun e poi a Sebha in Libia. Ma lì è l’autista ha detto che il trafficante non aveva pagato per noi, e che quindi doveva venderci, ci doveva portare dove c’erano gli altri migranti. Era una grande piazza, con intorno dei garage, un mercato degli schiavi».

«Noi africani venivamo comprati e venduti da arabi, da libici, che lavorano con la manovalanza di “caporali” nigeriani e ghanesi. Mi hanno venduto e trasferito in una prigione, una grande casa privata con altre 200 persone. Lì è iniziato il terrore: i carcerieri ci picchiavano, ci tagliavano con i machete, alcuni li hanno uccisi davanti agli altri. Perché? Ma perché tutti dovevamo essere terrorizzati e poi telefonare a casa per chiedere soldi, 300, 400 o 500 dollari per essere rimessi in libertà. Quando chiamavamo le nostre famiglie loro ci picchiavano per farci urlare, per terrorizzare i nostri parenti». Seny spiega bene come gli schiavisti libici ordinino ai migranti di chiedere soldi alle famiglie, chiedono di mandare i soldi con money transfer a loro complici in Ghana o in Guinea, così possono incassare senza farli passare dalla Libia.

Demba racconta che durante la prigionia molti ogni mattino venivano caricati per andare a lavorare nei campi, a costruire o riparare edifici, a fare qualsiasi tipo di lavoro fosse utile ai padroni. «Io sono riuscito ad avere un po’ di soldi dalla mia famiglia», dice Seny, «e a migliorare la mia posizione. Poi ho lavorato per loro come traduttore, perché molti di noi non parlavano nessuna lingua, in Libia il francese che parliamo noi non serve. In un modo o nell’altro, sono riuscito a comprami un viaggio per ritornare in Niger, e l’Oim ( l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, ndr) mi ha aiutato a tornare in Senegal».

Demba era arrivato fino a Tripoli, dove per settimane è passato da una fattoria-prigione all’altra. È riuscito a sopravvivere, e non sa ancora bene come sia riuscito a rientrare in Niger in rotta per il Senegal. «A Tripoli eravamo in condizioni micidiali. Un libico si è impietosito per uno di noi, lo ha portato in ospedale, ma in ospedale non c’era nulla. È stato fortunato perché un infermiere ha messo un post su Facebook e gli uomini dell’Oim sono andati ad aiutarlo, lo hanno curato e lo hanno rimesso in rotta per il Sud, io l’ho seguito».

I rapitori libici lavorano su grandi numeri: «Fanno fare decine e decine di telefonate, e trovano famiglie che corrono a vendersi la casa, le vacche, un pezzetto di terra pur di trovare i dollari chiesti come riscatto. In Libia è il caos totale, non c’è legge, è la perversione assoluta ». Giuseppe Loprete, il capo dell’Oim in Niger, dice che neppure questi racconti di vero terrore bastano a fermare quelli che dal Niger sono ancora in rotta verso il Nord, verso la Libia, sognando l’Europa: «Da mesi raccontiamo che il viaggio è un incubo, che possono morire in mare, che possono essere torturati e uccisi dai trafficanti.

Da qualche settimana abbiamo iniziato a far incontrare chi sale verso il Nord con chi fugge dagli schiavisti: soltanto i racconti di chi abbandona i campi di concentramento dei trafficanti ogni tanto convincono qualcuno a tornare indietro».

Seny e Demba spiegano però qualcosa di decisivo per capire la disperazione che sale dall’Africa: «Quando un anno fa abbiamo deciso di partire abbiamo mobilitato le famiglie, abbiamo chiesto soldi, abbiamo venduto animali, abbiamo dato una speranza ai nostri cari, abbiamo detto loro che avremmo mandato indietro soldi dall’Europa. Ecco, adesso tornare indietro è ammettere il fallimento, è confessare che i soldi richiesti sono stati perduti. Bruciati! Noi non si sa come siamo riusciti a fuggire dopo quello che abbiamo visto. Tanti non ci provano neppure, perché morire in Libia o in mare è meno grave di tornare indietro. Morire in Libia per tanti è meglio che rivedere una famiglia che non ti perdonerà di avere fallito».

».

il manifesto 14 maggio 2017 (c.m.c.)

«È curioso, ma i migranti stanno polarizzando il mondo», dice al manifesto il sacerdote messicano Alejandro Solalinde, candidato al Nobel per la Pace per il 2017. Padre Solalinde, scampato a un attentato dei narcos per il suo impegno a favore dei migranti, è in Italia per presentare il libro I Narcos mi vogliono morto, edito da Emi.

Oggi è a Udine, al Festival Vicino Lontano e visiterà la mostra «Vivos», legata al tema dei desaparecidos messicani, di cui si occupa da anni. Il 18 maggio sarà al Salone del libro di Torino, insieme a Moni Ovadia e Alex Zanotelli. Scrive: «Pochi sanno, o vogliono sapere, che nel Messico attuale mancano almeno 150.000 esseri umani, cinque volte gli scomparsi dell’ultima dittatura argentina. Svaniti nel nulla in quella guerra dimenticata in cui narcos rivali si fronteggiano con il sostegno di interi pezzi di polizia ed esercito per il controllo dei traffici. Come per molti altri orrori commessi nel corso di questo conflitto, le “prove generali” di desaparición sono state fatte sui migranti».

A Oaxaca, Solalinde gestisce l’albergo per migranti «Hermanos en el camino». Una struttura – spiega – «che nasce per proteggere le persone migranti dalla polizia e dai cartelli del crimine organizzato. Per i criminali, sono la preda perfetta: ufficialmente non esistono, non hanno documenti. E per le mafie, tutto ha un valore economico, anche gli organi. Abbiamo iniziato ad assisterli, a rispondere alle principali necessità concrete come quelle di comunicare con le famiglie, ma anche a fornire assistenza legale, a sporgere denuncia, a mettere in comune le diverse storie, a capire che la migrazione è un fenomeno complesso.

Dopo l’arrivo di Trump, il numero di chi cerca di andare negli Usa è diminuito?
Un po’, sì, ma il flusso continua, s’inventano maniere ingegnose per passare. Su 100 che cercano di andare negli Usa, 25 si arrendono e tornano indietro, altri 25 ci provano, ma il dato nuovo è che il 50% resta in Messico e si organizza, convinto che Trump non durerà e potrà ritentare. Il ripudio contro le politiche xenofobe di Trump, negli Usa, è forte. Il 1° maggio sono stato a Los Angeles in una delle tre gigantesche marce, sempre più numerose in cui è evidente il ruolo delle donne. La mia impressione è che stiano perdendo la paura di manifestarsi e che si stiano organizzando. È curioso ma i migranti stanno polarizzando il mondo. È chiaro negli Usa, ma anche in Messico. La maggioranza è a favore dei migranti, una minoranza ne ha paura, li criminalizza e li sfrutta: il crimine organizzato, l’Istituto nazionale delle migrazioni e i politici messicani in coordinamento con gli Stati uniti.

In Messico, le manifestazioni per i migranti si sono unite a quelle contro le privatizzazioni di Peña Nieto. C’è una speranza di cambiamento alle prossime elezioni?
Sì. Contro Trump e contro le politiche di Henrique Peña Nieto, il 20 gennaio c’è stata una grande manifestazione, e marce davanti all’ambasciata Usa. Mai la popolarità di un presidente è caduta così in basso come quella di Nieto. Il partito Morena, di Amlo, potrebbe farcela se la sinistra non si divide un’altra volta. Le candidature indipendenti, come quella dell’Ezln sono buone, ma un po’ tardive e in questo momento, come in passato, se la sinistra si divide, ne guadagna il sistema. Morena è un movimento nuovo e dobbiamo vigilare affinché non finisca nell’ingranaggio. Ad Amlo ho suggerito una commissione di controllo sociale ed etica, che ha già cominciato a funzionare.

Lei ha un ruolo importante nella ricerca degli scomparsi, anche dei 43 studenti normalistas, a partire dalle confessioni di alcuni trafficanti. Che cosa le hanno detto?
Che gli studenti siano stati bruciati risulta anche dagli esami di alcuni resti, ma il rogo non è avvenuto nella discarica di Cucula. L’equipe interdisciplinare di esperti indipendenti si è avvicinata alla verità a partire dalle testimonianze di tre sopravvissutti, che hanno assistito all’ultimo incontro degli studenti con l’esercito federale e con la polizia. Su uno degli autobus c’era un grosso carico di eroina. Sono scomparsi nelle caserme militari, dove si sa che esistono forni crematori. È un crimine di lesa umanità, che non si prescrive. Un crimine di stato. L’indagine potrà avere un seguito solo se vince Amlo e cambiano le cose.

Come lei scrive nel libro, il Messico è una gigantesca fossa comune, ma la comunità internazionale, e anche i vescovi, hanno nel mirino il Venezuela che i migranti li accoglie. Perché?
Quando ci sono in ballo grandi risorse, e in questo caso il petrolio, c’è la mano della Cia e degli Usa che vogliono il controllo geopolitico. Il papa chiede la pace e loro la guerra. Molto diverso è stato il messaggio del vescovo Ruiz o di Monsignor Romero, che ho conosciuto personalmente. Nel 1972, gli ho chiesto aiuto per la mia squadra di missionari itineranti, che la chiesa locale non accettava. Lui invece ne era entusiasta: è il cammino del Vangelo – disse.

».

il manifesto 13 maggio 2017 (c.m.c.)

Sabir: basterebbe aver scelto questo nome a far capire cosa sia questo incontro del (non sul) Mediterraneo che per la terza volta si tiene in Sicilia, quest’anno a Siracusa. È il nome della lingua meticcia che da secoli i pescatori di questo mare usano per parlarsi, quelli che provengono dalla costa africana come quelli che provengono dalle coste europee.

Per comunicare oggigiorno bisogna fare un convegno, perché fra il sud e il nord del mare che si chiamava «di mezzo» proprio per far capire che si trattava di un’acqua di comunicazione fra terre che vi si sporgevano con le loro mille punte peninsulari e i loro arcipelaghi, si è scavato un solco. Sociale, politico, culturale, economico.

Nemmeno il confine Messicano, lungo il quale Trump vuole erigere un muro, marca uno stacco così drammatico nella differenza procapite del reddito, nella circolazione della comunicazione. L’Europa, costruita 60 anni fa, porta la cicatrice, sanguinosa, non rimarginata di questa rottura. Che l’ha resa mostruosa, perché, come scriveva nel suo Breviario Mediterraneo un intellettuale della costa jugoslava che ci ha purtroppo appena lasciato - Peredrag Maktievich - «l’Europa senza il Mediterraneo è come un adulto privato della sua infanzia». Un mostro. L’Europa l’abbiamo fatta tutta arrampicata sul Nord, quasi anche noi europei del sud fossimo già rifugiati che scappavano dall’inferno.

E infatti appena le cose in uno dei nostri paesi meridionali vanno male c’è qualche signor ministro che dice: «oddio, stiamo precipitando nel Mediterraneo».

I nostri confini sono curiosi: il solo geograficamente davvero rilevante perché segnato addirittura da un grande oceano, l’Atlantico, ci separa dal paese cui in realtà siamo più appiccicati: gli Stati uniti. Il confine che è solo una pozza pari allo 0,7 % delle acque del globo, il Mediterraneo, ci separa da terre totalmente estranee. Le conosciamo solo per quanto sono state nell’antichità, ignoriamo quale sia la loro cultura moderna, sebbene noi si viva dell’eredità di quanto proprio lì - nel mondo arabo - si sia inventato in secoli non lontani. Per noi, nella modernità, quelle terre sono diventate solo colonie, e tali sono rimaste.

Questa nostra Sabir, promossa da Arci, Acli, Charitas e con la collaborazione di tantissime associazioni del sud e del nord, vuole ricominciare il dialogo interrotto, naturalmente provando a sanare la vergogna più grande, quella delle selvagge, inumane migrazioni. Ma vuole farlo per indicare all’Ue il suo errore più grave, esser stata incapace di pensarsi come la storia imponeva di fare: come un’area che non poteva “dimenticare” di essere una cosa sola con tutta l’area mediterranea, da cui ha preso tanto e che tanto ha danneggiato. Avrebbe dovuto pensare alla propria crescita assieme alla crescita di quest’area, con un progetto di co-sviluppo. Non, come invece è stato, come a una zona di ineguale commercio. Oggi, con i traumi delle migrazioni, di cui è responsabile, l’Europa paga i suoi errori.

Questo è quello che qui a Siracusa discutiamo in questi giorni, in decine di workshop e la sera assistendo a spettacoli musicali e teatrali. Dagli immediati drammatici problemi di chi arriva, o peggio di chi prova ad arrivare e non riesce, ai grandi problemi della prospettiva di lungo periodo. È il frutto del lavoro volontario, umanitario, di solidarietà e carità di tantissimi. Ma è anche di più: come ha detto papa Francesco quando recentemente ha ricevuto in Vaticano i movimenti sociali: la carità è importante, ma ci vuole la politica.

«Senza regole: arrivo e smistamento dei migranti in mano a milizie e amministrazioni corrotte. E il mare restituisce sempre nuovi morti».

il Fatto Quotidiano, 10 maggio 2017 (p.d.)

“Sono riemersi altri corpi sulla spiaggia. Sono ancora pochi. Ma immagino che molti altri ne arriveranno”, ha raccontato al Fatto sabato sera Ibrahim Mahjoob, direttore del centro di detenzione per migranti donne di Surman, piccola città sulla costa libica 60 km a ovest di Tripoli. Sarebbero 13 i corpi riemersi sul tratto di costa di Surman nelle stesse ore in cui un numero non precisato di corpi senza vita sarebbe stato rinvenuto sulla spiaggia di Zawiya, una ventina di chilometri più a est, nei pressi di Zuwara, al confine con la Tunisia. Nelle solo città di Zawiya circa 84 corpi sono stati rinvenuti dall’inizio dell’anno, come spiega il volontario della Mezzaluna Rossa di Zawiya, Mohamed Sifwa. “Tanti altri corpi sono in mare e la Guardia costiera li sta recuperando”. Corpi gonfi d’acqua, arsi dal sole e dalle acque del Mediterraneo, resi irriconoscibili. Così uomini, donne e bambini diventano numeri, quelli delle vittime registrate da istituzioni europee e libiche e organizzazioni non governative.
“Il naufragio potrebbe essere avvenuto circa10 giorni fa”, spiega Mahjoob. Secondo il direttore si tratterebbe di un gommone partito da Sabrata. Nota per le antiche vestigia romane, Sabrata negli ultimi due anni è divenuta il principale punto di imbarco delle carrette del mare. Qui trafficanti legati alla mafia nigeriana e sudanese gestiscono un giro di affari che lo scorso anno ha generato circa 150 milioni di euro, se si calcola una media di 400 euro per migrante su 180 mila arrivi nel 2016.
A Sabrata non esiste un’unità locale dei guardia coste, e quelle di Tripoli, Zawiya e Sabrata non entrano nelle acque territoriali della città vicina per non innescare tensioni e faide tribali, come nella migliore tradizione mafiosa. Mentre i guardia coste di Zawiya sono stati accusati più volte di essere in affari con i trafficanti di migranti di Sabrata, altre motovedette libiche lamentano la mancanza di mezzi economici e imbarcazioni per svolgere il loro lavoro, ed escono solo su segnalazione di mezzi in difficoltà al largo delle proprie coste.
Nel weekend le organizzazioni non governative hanno recuperato circa 6000 migranti al largo delle coste libiche. Nella stessa giornata, sul versante libico, 651 persone sono state recuperate dalla Guardia costiera di Tripoli. Nella conferenza stampa a Tripoli dopo il recupero dei migranti, il comandante della Guardia costiera della regione centrale, Rida Issa ha criticato le Ong: “Sono un segnale per i migranti che il viaggio fino in Europa è sicuro, perché sanno che non dovranno attraversare tutto il mare in piccole imbarcazioni”. “Tu arrivi ad Agadez e lì qualcuno garantisce per te fino all’Europa. E tu paghi quando arrivi salvo in Sicilia”, ha raccontato tempo fa al Fattoun giovane ghanese nel carcere per migranti di Triq Siqqa a Tripoli. L’anarchia ha lasciato spazio di manovra non solo alle milizie, ma anche e soprattutto alle organizzazioni criminali attive nella regione dell’Africa Subsahariana e nel Corno d’Africa. “A Sabrata ci sono uomini armati nigeriani a guardia dei casolari di periferia dove vengono stipate migliaia di migranti prima della partenza”, spiega una fonte di Sabrata: “Questo era impensabile fino a un paio di anni fa”.
L’internazionalizzazione del business ha portato a una sorta di industrializzazione. “Oggi il trafficante di migranti a Sabrata sa con largo anticipo quando arriverà il successivo carico di migranti. Prima arrivavano alla spicciolata”, rivela una fonte di Zuwara, dove le forze di sicurezza locali due anni fa sono riuscite a porre fine al business delle partenze.“La presenza di milizie che chiedono ciascuna una percentuale, lungo tutto il tragitto, fa aumentare esponenzialmente i costi delle varie tratte”. Prima il passaggio dei migranti da Sabha, città nel deserto, fino a Tripoli, veniva a costare ai migranti il prezzo del biglietto di un autobus o di un taxi collettivo. Oggi invece le organizzazioni criminali transnazionali si occupano anche di quella tratta e devono pagare il pedaggio ai vari gruppi armati. “Questo comporta una riduzione del guadagno dei trafficanti che operano sulla costa. Ecco perché i trafficanti riducono giorno dopo giorno gli standard per la traversata”, spiega la fonte: “Le missioni umanitarie ovviamente sono lì per aiutare. E solo quello possono fare, almeno fin quando la Libia non uscirà da questa crisi e sarà più stabile. Solo allora le istituzioni e il futuro esercito saranno in grado di mettere fine al governo delle milizie e scacciare le organizzazioni criminali che vengono da fuori”.

il Fatto Quotidiano, 8 maggio 2017 (p.d.)

Fazal Amin ha 22 anni ed è arrivato dall’Afghanistan. “Da quanto tempo sei qui?”, gli chiedo. “Non molto”, dice. “Un anno”. Ha provato a entrare in Croazia 35 volte. E 7 volte in Ungheria.
Circa 5 mila profughi sono bloccati in Serbia ormai da mesi. Dal 18 marzo 2016, per l’esattezza. Da quando l’Unione Europea ha deciso di rispedire in Turchia chiunque entri illegalmente in Grecia, chiudendo così la cosiddetta via dei Balcani. Ma la frontiera è vicina, è a un paio d’ore da Belgrado: e quindi molti, di notte, provano ad attraversare. Per poi, all’alba, essere di nuovo qui. Ciondolano tutto il giorno nella zona della stazione. Tra un centro dell’Unhcr in cui possono connettersi a Internet, e di fronte, un ambulatorio di Medici Senza Frontiere. Che non è neppure un ambulatorio, in realtà, perché sono tutti ragazzi, tutti in salute: hanno bisogno solo di una doccia. “E dopo un anno, nessuno ci ha ancora pensato”, dice uno dei medici.
Nel 2016, la missione Frontex per il controllo dei confini è costata 254 milioni di euro. L’Ue ha previsto poliziotti, lacrimogeni, fili spinati, sensori a infrarosso: ma non sacchi a pelo. Molti, dopo un anno, dormono ancora per terra. Di giorno, girano per Belgrado come tutti gli altri ragazzi. Con lo zaino e le Nike. Non fosse per la pelle più scura, sembrerebbero studenti. E invece, non possiedono che quello zaino. E si capisce subito quanto sia dura: hanno tutti dei capelli bianchi. A meno di 30 anni.
La Belgrado dei turisti è a pochi passi da qui. E anche quella degli artisti: per molti, Belgrado sarà presto la nuova Berlino. Quest’area, alla confluenza tra il Danubio e la Sava, è uno sconfinato cantiere da 3,5 miliardi di euro: il nuovo lungofiume, tutto acciaio e vetro. Ma per ora, di là dalla strada che finisce alla cattedrale, è ancora la Seconda guerra mondiale: circa mille profughi sono accampati nei vecchi magazzini delle ferrovie, degli edifici lunghi, rettangolari. Senza luce. Tutti mattoni e amianto.
L’interno è così poco interno, con i soffitti squarciati, gli infissi senza vetri, che si sta intorno al fuoco. Un fuoco di pneumatici e bottiglie di plastica: non c’è legna. Solo aria di diossina. E per terra, spazzatura, coperte, e cataste di ragazzi. Hanno in tutto 15 bagni chimici e due docce. E 4 lavandini. Quest’inverno, solo l’intervento di Medici Senza Frontiere ha evitato morti assiderati, facendo salire la temperatura da -16 gradi a -1. Si accede dal retro della stazione. Molti pendolari parcheggiano l’auto proprio qui, davanti al primo dei magazzini. Guardano distratti un ragazzino scalzo nel fango.
“I profughi sono solo in transito, non vogliono fermarsi in Serbia. E quindi non c’è ostilità”, dice Andrea Contenta, di Medici Senza Frontiere. “Ma non è solo questo. I profughi, per esempio, sono liberi di girare in pieno centro: non credo che a Parigi, a Roma sarebbe così”, dice. Oltre ai mille intorno alla stazione, mille sono nel campo di Krnjaca, di là dal Danubio, e altri mille in quello di Obrenovac, fuori città.
Due campi di prefabbricati in cui non manca niente. Eppure la Serbia, con il suo reddito pro capite di 4.716 euro, è uno dei Paesi più poveri d’Europa. Un paese da cui si parte. Nel 2015, l’anno dell’esodo, il 40 percento delle richieste di asilo in Germania è arrivata da qui. Non dalla Siria. Da Serbia e Kosovo.
“Quello che tutti temono, in realtà, è essere rispediti in Bulgaria. Perché sono tutti dublinanti”, spiega Andrea Contenta. Sono tutti profughi, cioè, a cui la polizia ha registrato le impronte in Bulgaria: è dalla Bulgaria che sono entrati in Europa, e quindi, secondo il regolamento di Dublino, è in Bulgaria che sono tenuti a presentare domanda di asilo. E ad aspettare il responso. “Ma in Bulgaria vengono rinchiusi in veri e propri centri di detenzione”, dice. “Mentre alla frontiera con Ungheria e Croazia, intanto, vengono respinti con manganelli, gas e cani. Alla fine, sono trattati meglio qui che in quell’Europa che sognano”.
Per i profughi la Serbia è il crocevia ideale, perché confina con quattro Paesi dell’Unione Europea: la Bulgaria, l’Ungheria, la Croazia, e anche la Romania. Ma oltre alla geografia, in realtà, conta la politica. I profughi sono concentrati sostanzialmente in tre Stati in cui, per motivi diversi, hanno potuto diventare merce di scambio.
Il primo è la Turchia: si è impegnata a tenersi i profughi in cambio di 3 miliardi di euro e l’accesso allo spazio Schengen per i propri cittadini. Il secondo è la Grecia. Che in questo momento, ovviamente, è costretta ad accettare qualsiasi decisione di Bruxelles. Dal 2015, ha ricevuto 780 dollari a profugo, aumentati a 14.088 dopo la chiusura della via dei Balcani: secondo un’inchiesta del Guardian, 70 dollari su 100 sono svaniti. E infine, appunto, la Serbia. Che dal 2014 sta negoziando l’adesione all’Unione Europea: la promessa su cui Aleksander Vucic, riconfermato presidente il 2 aprile, ha costruito tutto il suo consenso. “Ma la democrazia, qui, non è ancora solida.
Per niente. Si registrano attacchi sempre più frequenti alla società civile, alla stampa. Alla magistratura”, spiega Srdjan Cvijic, analista della Open Society. “Ospitando i profughi, Vucic si assicura il sostegno di Bruxelles. Che è pronta ora a sorvolare su tutto il resto. Su un avvicinamento all’Europa che è un avvicinamento solo al suo mercato”, dice. “Non ai suoi valori”.
L’Unione Europea ha delle norme sull’immigrazione, ma non ha una politica dell’immigrazione. Non ha delle norme coerenti. Uguali per tutti. E anche qui a Belgrado, in realtà, tutto è tranquillo, sì: ma il merito, più che dell’Ue, è degli europei. Dei volontari europei. Mentre tanti partono per il califfato, tanti partono per Calais. Per Kos. Per Lampedusa.
Qui alla stazione sono una sessantina, e sono in larga parte di quel genere di ventenni che i governi detestano: piercing, capelli rasta. L’aria da centro sociale. Domandi se studiano, se lavorano, e ti rispondono che per ora sono in viaggio, a cercare il senso della vita. D’istinto, diresti che non sono capaci di badare neppure a se stessi: e invece, sotto la guida di Paul Linger, il solo veterano, cucinano, spazzano, montano generatori. Recuperano legna e vestiti. Risolvono problemi pratici e burocratici di ogni tipo. “Ma soprattutto, parlano con i ragazzi”, dice Paul. Chiacchierano, giocano. Suonano. “Un luogo così, con mille giovani uomini affamati, esausti e sfiduciati, in mezzo a una strada da mesi, potrebbe essere una polveriera. E invece, è diventato un gruppo di amici”.
Tutto è organizzato autonomamente, qui. Con donazioni private. E perfettamente. “Con le mille procedure, i mille formalismi delle Ong, o delle agenzie dell’Onu, tutto questo non sarebbe mai possibile. Abbiamo un’unica regola: ognuno fa quello che può”, dice Paul. “Anzi, due regole ”, dice. “Perché per stare qui, ognuno paga di tasca sua”. E non dice altro, ma non solo perché è molto impegnato. “Tanto ormai sui profughi è già stato detto tutto: è solo questione di volontà politica”, taglia corto. Ho tempo solo di domandargli perché è qui. Mi guarda come se dovessi domandare piuttosto a tutti gli altri perché non sono qui, poi mi dice: Perché questi profughi sono in Europa. E io sono europeo.
Anche se tecnicamente, non lo è: è inglese. In realtà, però, non è affatto facile. Leonor viene dal Portogallo, ed è un’assistente sociale. “Ma in Portogallo mi occupo di barboni e tossici. Mentre qui ho davanti dei ragazzi identici a me. Come posso aiutarli davvero?” dice. “Sono normalissimi. Sono solo nati nel posto sbagliato”. “Possiamo solo cucinargli una zuppa. Trovargli una felpa. E per questo, siamo degli eroi”, dice Mateo, spagnolo. “Ma il loro problema non è certo questo”.
“Quest’inverno, quando erano nella neve fino al collo, sono arrivati centinaia di fotografi. Ma ora non interessano più a nessuno. Perché ormai abbiamo visto di tutto. E qui, in fondo, è passabile, no?”, dice l’italiano Roberto. “Ascolti le loro storie, e ti viene da chiedergli: sei stato torturato? Ti hanno stuprato davanti a tua madre? Sei stato ucciso? No? E allora, perché sei andato via? Anche se io per primo - conclude - vivo a Londra. Io per primo sono un migrante economico”.
«Invece di accapigliarsi su Zuccaro - ha fatto bene, ha fatto male? - e in considerazione del fatto che fare la guerra ai migranti è una brutta cosa, non sarebbe meglio organizzare seriamente l’accoglienza?». Domanda ineccepibile. Ahimè, hanno già risposto.

il Fatto Quotidiano, 8 maggio 2017

La Storia se ne infischia della Giustizia: quello che deve accadere accade, che il Diritto lo consideri giusto oppure no. La Politica dovrebbe governare la Storia, un po’ come il pilota che conduce una nave in acque tempestose; se il pilota è incapace la nave naufraga. Che è proprio quello che sta avvenendo per quanto riguarda l’immigrazione in Europa attraverso il Mediterraneo.

Fame e Guerra sono i motori dell’immigrazione: si migra in cerca di salvezza; quindi si è disposti a tutto. Non ha senso aspettarsi collaborazione da parte dei migranti, sono i Paesi di destinazione che devono gestire un fenomeno storico come questo. Non importa come, si può stabilire che i migranti sono invasori da combattere o esseri umani da accogliere; ma, nell’uno o nell’altro caso, si devono adottare misure concrete, idonee a raggiungere l’obbiettivo stabilito: un esercito in armi alle frontiere o un’efficiente organizzazione di accoglienza.

Quello che non ha senso è dire ai migranti che migrare è vietato e che, se tuttavia migrano, saranno aiutati se si troveranno in difficoltà. Ancora più insensato è ricorrere ai Tribunali: quelli che migrano non commettono un reato ma quelli che li aiutano sì: saranno puniti. Così i trasportatori ammucchiano sulle barche i trasportati (previo adeguato compenso), li portano al largo e aspettano che qualcuno li raccolga. C’è il rischio che la barca affondi prima che arrivino i soccorsi ma sono gli incerti del mestiere del migrante.

In questo sistema demenziale (analogo a quello che regola la prostituzione: prostituirsi non è reato però per quelli che la organizzano sì, così le strade sono piene di poverette e gli organizzatori contano i soldi), arriva la denuncia di Carmelo Zuccaro, Procuratore della Repubblica di Catania: le Ong vanno a raccogliere i migranti, c’è il sospetto di accordi organizzativi tra trasportatori e salvatori; e poiché i soldi non hanno odore, anche di accordi economici; voi li imbarcate, noi li “salviamo” e li portiamo a destinazione, i soldi ce li dividiamo.

Prima di Zuccaro l’aveva detto, 4 mesi fa, Frontex. Ma non c’è bisogno di grande acume investigativo per capire che, in un sistema velleitario e vigliacco come quello adottato dall’Italia, l’opportunità di lucrare sulla migrazione è stata raccolta da molti.

L’Italia non vuole i migranti; quindi di organizzare accoglienze efficienti (una per tutte: sussidi e alloggi in cambio di lavori di pubblica utilità) non se ne parla; però sparargli quando arrivano non sta bene; e anche affondarli in mare non si può. Quindi non si fa nulla: i migranti sono deportati in campi di concentramento gestiti da privati (che ci guadagnano); sono salvati in mare da privati (anche) che forse (e sarebbe appena ovvio) ci guadagnano; quando li si acchiappa, si perseguitano i trasportatori che – in realtà – svolgono un servizio di pubblica utilità (remunerato com’è giusto che sia): i migranti sono in pericolo di vita, scappano da guerra e fame, vogliono essere trasportati al di là del mare.

Giuridicamente (per quello che vale in una tragedia come questa) la differenza tra lecito e illecito sta nello scopo e nel momento in cui i migranti vengono raccolti in mare. Se sono trovati a metà strada o giù di lì si tratta di salvataggio, se me li vado a cercare a una decina di chilometri dalla costa di partenza, si tratta di trasporto: se lo si fa per scopi umanitari si commette il reato di favoreggiamento della immigrazione clandestina semplice (reclusione fino a 3 anni, quindi niente: affidamento in prova ai servizi sociali etc); se lo si fa a scopo di lucro, favoreggiamento aggravato (da 4 a 12 anni: in realtà da niente a 4/5 anni). Se ci si associa per commettere più reati di questo tipo, si tratta di associazione a delinquere, una cosa più seria. Che anche qualche Ong voglia una fetta della torta non sarebbe per nulla strano: con tutti i soldi che ci sono in ballo, l’efficacia intimidatoria di queste norme è pari a zero.

Invece di accapigliarsi su Zuccaro – ha fatto bene, ha fatto male? – e in considerazione del fatto che fare la guerra ai migranti è una brutta cosa, non sarebbe meglio organizzare seriamente l’accoglienza?
Qualche episodio dei guasti provocati dalle aziende del "capitalismo avanzato" italiano nello sfruttamento delle risorse dell'Africa viene al pettine dei tribunali. Chissà come andrà a finire.

il Fatto quotidiano online, 4 maggio 2016

Sono passati sette anni da quando, il 5 aprile del 2010, una conduttura petrolifera di proprietà della Nigerian Agip Oil Company Limited, la controllata di Eni in Nigeria, esplose a circa 250 metri da un torrente, nella zona settentrionale dei territori della comunità Ikebiri, nello Stato di Bayelsa. Gli sversamenti inquinarono il fiume e gli stagni, danneggiando sia la fauna ittica che la vegetazione e compromettendo le fonti di sostentamento di interi villaggi basate soprattutto sulla pesca, e poi sulla raccolta di frutti e sulla coltivazione. Ora il capo della comunità, Francis Timi Ododo, a nome delle popolazioni che vivono in quell’area, ha avviato una causa legale nei confronti della multinazionale italiana Eni. Procedimento nel quale sarà supportata dalle sezioni europea e nigeriana di Friends of the Earth. La comunità chiede due milioni di euro a titolo di risarcimento, ma soprattutto la bonifica dell’area devastata dall’incidente. Bonifica che, secondo la Naoc, è già stata eseguita. E in tribunale sarà Davide contro Golia. Oggi è stato notificato l’atto di citazione nei confronti dell’Eni, nei prossimi giorni toccherà alla sua controllata, mentre il procedimento legale avrà luogo presso il Tribunale di Milano. In Italia a rappresentare gli interessi della comunità è l’avvocato Luca Saltalamacchia, mentre in Nigeria è il legale Chima Williams. “Si tratta di un caso senza precedenti in Italia – sostiene Friends of the Earth – e, se la comunità dovesse vincere la causa, sarebbe la prima volta che una compagnia italiana viene condannata dalla giustizia del suo Paese per un disastro ambientale causato in una nazione straniera”.

L’incidente del 2010 – La comunità Ikebiri è composta da diversi villaggi situati sul delta del Niger, dove le popolazioni si dedicano alla produzione dell’olio di palma, alla costruzione di canoe, alla pesca, all’agricoltura. “Ricostruire i fatti non è stato semplice – spiega a ilfattoquotidiano.it l’avvocato Saltalamacchia – ma lo abbiamo fatto anche attraverso i documenti della stessa Naoc”. Il 5 aprile 2010 la comunità di Ikebiri scoprì l’esistenza della fuoriuscita di petrolio. Nella zona, Naoc possiede sette pozzi petroliferi e otto condutture, con diverse linee di flusso. La compagnia fu immediatamente allertata. “I loro tecnici – continua il legale – intervennero l’11 aprile insieme a unità armate”. In seguito a quel controllo, al quale fu ammessa la presenza di un delegato della comunità, fu la stessa Naoc a redarre un report, ammettendo che l’incidente era stato causato da “difetti della tubatura” e annotando: “La riparazione è stata completata. Le aree impattate dovrebbero essere bonificate il più presto possibile”. Quello che avvenne in seguito è tuttora poco chiaro.

Le prime operazioni – “L’area fu chiusa – spiega Saltalamacchia – e la controllata di Eni ha sempre dichiarato di aver proceduto nei giorni a seguire a una bonifica, ma di tale operazione non è mai stata mostrata una documentazione, anche se richiesta più volte”. Quello che la comunità sa, invece, è che nei giorni successivi a quel primo intervento sul posto all’area fu dato fuoco. Nessuno della comunità ha potuto vedere la zona in quel frangente, in quanto sarebbe stato molto pericoloso avvicinarsi. “Da un lato ci chiediamo come mai non è mai stata fornita documentazione rispetto alla bonifica che Naoc dice di aver eseguito – aggiunge il legale – dall’altro, allargando lo sguardo a quanto avviene nella zona del Delta del Niger, in un report è stata la stessa Onu a lanciare l’allarme riguardo alla pratica dei certificati di avvenuta bonifica ‘regalati’ dalle agenzie governative. Non è questo il caso, ma il sospetto è che la bonifica non sia avvenuta e si sia solo cercato di trovare un intervento tampone, magari proprio incendiando il sito”. Un’accusa che la Naoc ha sempre rigettato al mittente.

Il sito inquinato – Naoc sostiene che gli sversamenti abbiano interessato un’area di circa 9 ettari, ma secondo la comunità la contaminazione ha interessato prima una zona contenuta, di circa 17,9 ettari, allargandosi poi proprio per mancanza di una bonifica. A supportare questa tesi ci sarebbero i risultati di alcune analisi chimiche fatte eseguire a novembre 2015 sui luoghi dell’incidente. I risultati? “Dimostrano che il sito è inquinato in più punti, non solo nelle immediate vicinanze dell’area interessata”, aggiunge l’avvocato Saltalamacchia. A causa delle piogge, il petrolio fuoriuscito venne trasportato ad oltre due chilometri di distanza. “Ancora oggi all’interno di questo perimetro – spiega il legale – il terreno risulta pesantemente inquinato. La verità è che servirebbe una vera bonifica, operazione complessa quanto costosa, anche più di un eventuale risarcimento”. Potenzialmente l’area inquinata potrebbe essere ampia 400 ettari, eppure Naoc sostiene di aver correttamente bonificato il sito. Dalla comunità, i residenti raccontano un’altra storia. Come quella di Emilia Matthew. “In questi anni è successo – spiega – che molti di noi si siano ammalati. La pesca, che da sempre ha rappresentato la nostra fonte di sostentamento, è ora assolutamente a rischio. I pesci che vivevano nei laghetti e negli acquitrini sono stati tutti uccisi dal petrolio. Anche le nostre coltivazioni, che comprendono le piante medicinali che noi stessi usiamo per curarci, sono state contaminate dal petrolio”.

I tentativi di accordo andati in fumo – Diversi i tentativi di mediazione messi in atto dalla comunità per ottenere un risarcimento, ma soprattutto la bonifica dei luoghi. Subito dopo l’incidente la comunità Ikebiri contattò Eni, chiedendo di essere risarcita per quanto accaduto e ottenendo un pagamento di due milioni di naira (equivalenti a circa 6mila euro attuali e 10mila nel 2010). “Al di là di questa cifra – sottolinea Friends of the Earth – versata, peraltro, solo a titolo di ‘materiale di primo soccorso’, non vi è stato alcun tipo di risarcimento”. Un’offerta iniziale di 4,5 milioni di naira (equivalenti a 13mila euro attuali e 22mila del 2010) è stata rifiutata dalla comunità, che l’ha giudicata insufficiente. Attraverso il suo legale italiano, la comunità ha cercato più volte di giungere a un accordo transattivo sia con Eni che con Naoc, ma non si è arrivati a nulla di concreto. “Secondo gli standard applicati nel passato dalle corti nigeriane e tenuto conto del tempo trascorso dal 2010 a oggi – spiega a ilfattoquotidiano.it l’avvocato Saltalamacchia – un risarcimento congruo dovrebbe ammontare a poco più di 700 milioni di naira, pari a circa due milioni di euro”. In quelle aree dopo questo tipo di incidenti la maggior parte delle comunità accettano risarcimenti anche irrisori, lasciando che il sito rimanga inquinato. “In questo caso – spiega il legale – la comunità è intenzionata ad andare avanti e far valere i propri diritti”.

Delta del Niger quinto al mondo per tasso di inquinamento – Il delta del Niger è il quinto luogo con il più alto tasso di inquinamento petrolifero al mondo. È come se, dagli anni Cinquanta al 2006, si fossero verificati in questo luogo cinquanta disastri della portata del naufragio della petroliera Exxon Valdez, che nel 1989 sversò nei mari dell’Alaska 40,9 milioni di litri di petrolio. Gli sversamenti continuano ancora oggi, al ritmo di più di uno al giorno. Lo Stato di Bayelsa, dove ha sede la comunità Ikebiri, è considerato uno dei più inquinati di tutto il Paese. L’Eni è consapevole di tali problematiche, tanto che si è dotata di una serie di strumenti di due diligence da applicare alla propria attività, anche in Nigeria, dichiarando che tali strumenti sono vincolanti anche per la Naoc. “Esistono decine e decine di risoluzione delle Nazioni Unite e regolamenti europei – aggiunge Saltalamacchia – che parlano della tutela dei diritti umani, dei risarcimenti, delle responsabilità, ma gli Stati non li rispettano come dovrebbero. Questa è una controversia storica per l’Italia”.

Il cane a sei zampe, interpellato da ilfattoquotidiano.it, ha fatto sapere che “NAOC, una delle società controllate di Eni che opera in Nigeria, ha sempre operato in modo responsabile sul territorio. In relazione all’oil spill che avrebbe interessato la comunità Ikebiri nel 2010 – è il commento della società petrolifera – NAOC ha avviato un dialogo costruttivo con gli esponenti della comunità Ikebiri, ed è intervenuta in modo tempestivo ed efficace per bonificare i siti interessati, che sono stati oggetto di ispezione da parte delle autorità competenti nigeriane con esito positivo. Tuttavia – ha specificato Eni – alcuni membri della comunità Ikebiri avevano già promosso un procedimento giudiziario presso la corte competente nigeriana nell’ambito del quale NAOC, in quanto titolare delle attività, sta fornendo tutti i chiarimenti necessari in ordine alla risoluzione della controversia. Eni è stata informata dell’inizio di procedimenti giudiziari in Italia in merito a tali vicende. Il Department Petroleum Resources (equivalente di UNMIG in Italia) – ha concluso la società – ha validato, insieme al NOSDRA (National Oil Spill Detection and Response Agency) che fa capo al Ministero dell’Ambiente nigeriano, la nostra posizione nelle Joint Investigation Visit effettuate”.

Dure critica della europarlamentare agli "ignoranti militanti", primo fra tutti Luigi Di Maio, leader dei grillini e aspirante al governo del paese, che dimostrano platealmente di non conoscere i contorni del più grave evento di questo secolo.

il manifesto, 29 aprile 2017

Barbara Spinelli è eurodeputata indipendente del gruppo Gue-Ngl e membro della commissione Libe (Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni) del Parlamento europeo dove si occupa in maniera particolare di tutta la partita dei rifugiati, degli accordi con i paesi terzi e delle politiche sulle migrazioni.

I politici italiani e il giudice di Catania continuano a dire che le accuse alle ong vengono dall’agenzia Frontex ma nel rapporto Risk Analysis 2017 non se ne trova traccia.
«Infatti. In quel rapporto non c’è soprattutto l’accusa più infamante, quella di collusione con i trafficanti. Ce n’è una meno grave anche se grave lo stesso: quella che descrive le ong come pull factor cioè come fattore di attrazione per i migranti. Un’accusa che fu rivolta anche alla missione italiana Mare Nostrum, che perciò fu chiusa. La Ue e Frontex continuano a pensare che le attività di search and rescue alimentino le fughe dei migranti verso l’Europa ma voglio ricordare che nell’ultima plenaria del Parlamento europeo lo stesso vice presidente della Commissione Frans Timmermams ha detto chiaro che non c’è nessuna prova di collusione tra i trafficanti e le ong.

Perché allora si contina a cavalcare questa fake news?
«È il clima generale che porta a colpevolizzare le organizzazioni umanitarie che si occupano di salvataggi. E questo clima nasce dalle politiche europee di esternalizzazione dell’asilo e di accordi di riammissione con paesi dittatoriali o pericolosi. Poi c’è il gioco politico di chi su questo punta ad accentuare la xenofobia e la chiusura delle frontiere»

Salvini, Le Pen, ma anche Di Maio e M5S, non c’è una grande differenziazione, mi pare.
«Sì, mi è molto dispiaciuto quel post di denuncia delle ong scritto a nome di tutto il Movimento, poi Di Maio ha parlato anche di taxi e questo è stato non meno deludente, anche perché al Parlamento europeo i deputati M5S invece hanno posizioni più elaborate e serie sui diritti, sulle migrazioni. È una brutta svolta, spero che si ricredano».

Giusi Nicolini, sindaca di Lampedusa, ha detto ieri a Di Maio: “Se pensate che l’arrivo dei migranti sia aumentato per la presenza delle ong, non siete in grado di governare il paese”. Lei è d’accordo?

«Sono d’accordo su un punto: le dichiarazioni del M5S sono fondate su una profondissima ignoranza, oltretutto volontaria perché non è possibile che non si conosca cosa rischiano le persone che salgono sui barconi e sui gommoni per raggiungere l’Italia e l’Europa. Una ignoranza militante che rende i Cinque Stelle vicini di fatto alle destre e non del tutto credibili come forza di governo, anche se non è che i due ultimi governi italiani, Renzi e Gentiloni, abbiano avuto un comportamento esemplare e positivo su queste tematiche. Proprio questi governi hanno stipulato accordi di rimpatrio prima segretamente con il Sudan e poi, da ultimo, con la Libia. E questo è ancora più grave perché siamo di fronte non a qualche post su un blog o a qualche dichiarazione ma ad atti che violano la Convenzione di Ginevra e la legge internazionale dividendo e applicando il diritto all’asilo su basi etniche mentre ogni migrante ha diritto ad un esame individuale della sua richiesta di asilo. No, certamente non mi sento più sicura con questi governi».

Quali rischi in più vede con questa campagna?
«A livello europeo Frontex si tiene distante dai luoghi più esposti a possibili naufragi e non ha un vero mandato di ricerca e salvataggio. Continua a prendere sempre più finanziamenti europei al solo scopo di sigillare le frontiere e vede con fastidio le attività di search and rescue in acque internazionali o nei pressi della Libia. Bisogna ricordare che search vuol dire ricerca, cioè ascolto degli Sms che invocano aiuto. E rescue vuol dire soccorso, obbligatorio per le leggi internazionali. Le due cose vanno insieme. E poi temo che questo fango sulle ong possa indebolirle finanziariamente, soprattutto le più piccole. Qualcuno potrebbe decidere di non dare più contributi per timore di finanziare mafie e trafficanti».

Riferimenti
Sul'argomento vedi, su eddyburg, gli articoli
Inedita alleanza tra gli accusatori delle Ong.... , È giusto sparare contro le Ong..., e l'eddytoriale n. 173

«Con quale coraggio si celebra l’anniversario di un’Europa ideale proprio quando gli stati membri dell’Unione e le istituzioni comunitarie attuano programmi che contraddicono i più elementari diritti di chi fugge da guerre, conflitti etnici, povertà estrema?». il manifesto, 24 marzo 2017 (c.m.c.)

Da tempo è palese la doppiezza politica dell’Unione europea sull’immigrazione. Da un lato è la stessa Commissione a scrivere nei suoi documenti (ad esempio Population Structure and Ageing, 2016) che a causa dell’invecchiamento della popolazione si sta determinando uno squilibrio sempre più insostenibile tra le persone in età lavorativa e quelle che hanno superato i 65 anni. Dall’altro si occulta il fatto che solo consistenti flussi migratori possono correggere tale squilibrio ed evitare le sue pesanti ricadute sulla spesa pubblica degli stati membri.

I dati evidenziati dalla Commissione sono eloquenti. Se agli anziani, sempre più numerosi, si aggiunge il numero, sia pure in calo, di bambini e ragazzi al disotto di 15 anni, il risultato è che ad oggi nei paesi dell’Unione ci sono solo meno di due persone in età lavorativa che devono supportare le spese d’istruzione, sanità, pensioni, oltre alle altre spese generali dello stato per ogni persona anziana o molto giovane. Nei prossimi anni la situazione è destinata ad aggravarsi giacché la dipendenza dei giovanissimi e soprattutto degli anziani graverà su una persona e mezza in età lavorativa (1,57 nel 2030). E ciò solo in termini fiscali.

Ancor più importante è il deficit in termini di Pil. La sproporzione crescente tra la popolazione complessiva e quella in età lavorativa (anche a non tener conto del tasso di disoccupazione, dei sottoccupati e inattivi) non promette nulla di buono. Infatti le proiezioni economiche e di bilancio della Commissione prevedono una crescita media del Pil dell’1,1% fino al 2020 e dell’1,4% nei decenni successivi (nell’Ue a 28, ora 27). I valori sono ancora più bassi per l’Ue a 15. Il che significa una perdurante stagnazione.

Stando così le cose, la prima conseguenza negativa è che per garantire gli attuali livelli di spese sociali non basta continuare a tagliare in nome di un “rigore” dalle cui strette si vuol uscire solo a parole. Come non bastano i vani e inutili propositi di riduzione della spesa pubblica complessiva.

Per modificare questi squilibri occorrerebbe una rapida crescita della popolazione in età lavorativa dell’ordine di decine di milioni in pochi anni. Il che sarebbe possibile solo mettendo in atto politiche di accoglienza e rapida regolarizzazione di immigrati decine di volte più numerosi di quelli che bussano attualmente alle nostre porte.

Ovviamente, ciò richiederebbe una decisa inversione di tendenza anche in politiche economiche capaci di promuovere un effettivo ampliamento delle basi produttive e del lavoro. Ma pure su questo piano bisognerebbe che gli slogan conclamati non fossero contraddetti dalle pratiche effettivamente adottate.Ed è proprio questa la contraddizione da cui emerge la doppiezza politica dell’Unione europea e dei paesi membri. Non v’è alcuna intenzione di riformare il sistema economico e innovare le politiche sociali.

Si preferisce far credere che sia possibile ed utile fermare i flussi migratori e ignorare la funzione riequilibratrice che essi avrebbero in termini demografici, economici e socio-culturali.

Anche chi pretende di distinguersi dalle politiche di partiti e governi apertamente nazionalisti e xenofobi poi elabora e sottoscrive programmi che pretendono di rispedire i migranti nei paesi dai quali fuggono. E sono disposti a stringere patti con governi spesso corresponsabili delle condizioni di conflitto e di miseria dai quali uomini, donne e bambini cercano scampo a costo di subire sofferenze e violenze d’ogni genere fino al rischio di morire.

Con quale coraggio si celebra l’anniversario di un’Europa ideale proprio quando gli stati membri dell’Unione e le istituzioni comunitarie attuano programmi che contraddicono i più elementari diritti di chi fugge da guerre, conflitti etnici, povertà estrema? Si finge di distinguere tra migranti che avrebbero diritto di accoglienza – salvo poi contingentarne il numero e richiuderli in campi di ritenzione in attesa di pochi permessi e molto probabili rimpatri – e i cosiddetti “irregolari”. Si tenta così di giustificare la negazione di qualsiasi accesso a chi cerca solo di sfuggire alla fame ed invoca l’elementare diritto di costruirsi una vita migliore.

Ma non basta. Non si esita ad alimentare sentimenti di paura ed ostilità nelle popolazioni dei paesi meta dei migranti del tutto strumentalmente, a fini di controllo e disciplinamento sociale o addirittura di mero calcolo elettorale. Tutto ciò non merita alcun sventolio di bandiere.

Sempre più grave il dramma delle persone che fuggono dalle guerre e dalle carestie che il Primo mondo ha provocato e che adesso respinge, con le armi proprie e con quelle dei suoi alleati libici.

la Repubblica, 13 marzo 2017

Il clima sta cambiando, anche in Italia. Lo si capisce dalle parole, scritte nei documenti ufficiali ed evocate nel dibattito politico: quelli che erano semplicemente “migranti” adesso sempre più spesso vengono chiamati “irregolari” o “clandestini”. Termini in voga negli anni di Silvio Berlusconi premier, con un governo apertamente sostenuto da un partito a vocazione xenofoba quale la Lega Nord.

Dopo di lui però c’era stata una drastica inversione di rotta. Il dramma dei profughi in fuga dalla Siria, le tragedie dei naufragi al largo di Lampedusa avevano spinto l’intero Paese ad aprire le braccia: il 2014 è stato l’anno di Mare Nostrum, la più grande operazione umanitaria della storia recente, con 100 mila persone soccorse nel canale di Sicilia. Salvare e assistere gli esseri umani era l’unica priorità.Poi l’Europa ha cominciato a chiudere le porte. E adesso chi arriva sulle coste italiane difficilmente riesce ad andare oltre: le frontiere di Francia e Austria sono sbarrate, viene obbligato a rimanere in una nazione alle prese con una crisi economica e con una disoccupazione altissima.
Soccorsi e sbarchi continuano - 181 mila nel 2016, altri 15.760 dall’inizio del 2017 - ma l’accoglienza sta diventando insostenibile per le autorità di Roma. Un problema di natura finanziaria, con la scarsità di risorse per integrare altri immigrati, ma anche una questione politica, con la prospettiva di elezioni in tempi brevi e la crescita di partiti dichiaratamente ostili agli stranieri - la Lega Nord di Matteo Salvini e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni - o comunque molto più chiusi su questo tema - il Movimento 5Stelle di Beppe Grillo. C’è pure una preoccupazione crescente dei sindaci di sinistra, su cui ricade la gestione diretta dei nuovi arrivati, quasi tutti africani. Così una delle prime decisioni di Paolo Gentiloni, premier di un esecutivo di centrosinistra, è stato il varo di un pacchetto di misure per incrementare le espulsioni di “migranti economici irregolari”. «Non è assolutamente possibile continuare a ricevere chiunque sbarchi illegalmente sulle nostre coste senza imporre alcun criterio di accoglienza», ha dichiarato giovedì il ministro dell’Interno Marco Minniti.

Questa svolta è incentivata e in parte finanziata dall’Unione Europea. La Commissione di Bruxelles però non sembra avere definito una strategia per affrontare la realtà dell’esodo: non è un’emergenza ma — ha sottolineato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella — «un fenomeno epocale che non si può rimuovere». Le radici sono nella situazione disastrosa del continente africano, ma l’impressione è che la Ue stia puntando solo a contenere gli effetti, cercando una maniera per ridurre le partenze dalla Libia.

Un approccio tattico, carico di pericoli. Lo sfruttamento dell’esodo è l’unica industria che continua a crescere nello sfacelo libico, con una vera e propria catena di montaggio che oltre alle organizzazioni tribali della zona di Sabratha — l’epicentro degli imbarchi — coinvolge una rete di relazioni ramificata fino al cuore dell’Africa subsahariana. Più in Libia aumenta la confusione, più migranti vengono fatti salire sui gommoni. E in questi giorni il caos è massimo. Ci sono combattimenti tra milizie d’ogni genere, un po’ ovunque, con una escalation militare che vede in campo armamenti sempre più sofisticati: persino a Tripoli da settimane si segnalano scontri.

Finora tutti gli interventi della comunità internazionale si sono rivelati velleitari. Come ha sottolineato sulle pagine del think tank "Brookings" Federica Saini Fasanotti, una delle migliori analiste del marasma tripolino: «La Libia ha bisogno di un piano d’azione realistico». Quale? La stessa ricercatrice in un’audizione alla Commissione affari esteri della Camera di Washington ha parlato di «destrutturare per ristrutturare» puntando a «uno stato federale, diviso in tre larghe regioni: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. I governi regionali potrebbero proteggere meglio gli interessi locali nella sicurezza, nella rinascita economica e nell’amministrazione ». È una prospettiva circolata lo scorso anno pure in alcune cancellerie europee e in ambienti del governo italiano, poi abbandonata per il sostegno incondizionato all’esecutivo benedetto dalle Nazioni Unite e guidato dal premier Fayez Serraj.

A un anno dall’insediamento, però, Serraj non è riuscito a creare strutture nazionali e stenta persino a imporre la sua autorità sull’intera capitale.

Per questo è assurdo pensare di fermare la marcia verso Nord confinando i migranti sul territorio libico. In una zona di guerra, ogni azione delle forze locali, inclusa la nuova guardia costiera formata dalla missione navale europea, mette a rischio la vita di uomini, donne e bambini. Gli scafisti non esitano a sparare contro le vedette per difendere il loro carico umano. E obbligano a partire anche con il mare in tempesta, aprendo il fuoco contro chi si ribella: la scorsa settimana 22 persone sono state uccise e 100 ferite. Solo stabilizzando la Libia si potrà cominciare ad affrontare il problema. Ma questo richiede un impegno dell’intera Europa, con una visione chiara: siamo davanti a un esodo che impone una risposta globale.

«Sentenza a sorpresa della Corte di giustizia europea “Gli Stati non sono obbligati a concedere visti umanitari”». Incredibile avallo dell'UA al peggior emulo di Adolf Hitler oggi al governo ne mondo "sviluppato".

la Repubblica, 8 marzo 2017

DETENZIONE automatica per chiunque chieda asilo entrando in territorio ungherese. È legge da ieri mattina, votata dalla Orszagház (casa della nazione, Parlamento magiaro), dominato dalla Fidesz, partito del popolare premier nazionalconservatore Viktor Orbán, liberamente eletto e rieletto al potere. «E’ una decisione contro la Ue, lo so ma siamo assediati, e una prossima grande ondata migratoria è vicina», egli ha detto.

La nuova sfida di Orbán arriva proprio nel giorno in cui la Corte di giustizia europea, respingendo il ricorso di una famiglia siriana che tentava di entrare in Belgio, ha deciso a sorpresa con una sentenza che gli Stati “non sono obbligati a garantire visti umanitari a persone che desiderano entrare nel loro territorio con l’obiettivo di presentare richiesta d’asilo”. In Ungheria, i nuovi migranti che riusciranno a entrare nel Paese saranno alloggiati in campi di raccolta costruiti con enormi alloggi-container in fila parallela circondati da filo spinato, finché il loro caso non sarà esaminato. Verso il summit straordinario della Ue a Roma il 25 marzo, è una sfida. Si reintroduce l’arresto automatico dei richiedenti asilo, sospeso nel 2013 su richiesta della Ue e dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr). «Con Donald Trump presidente eletto a Washington, elogiato da Orbán, il vento è cambiato», dicono fonti diplomatiche Nato per telefono.

Secondo l’Alto commissariato Onu per i diritti umani «vengono violati diritto internazionale e Ue, ciò avrà un impatto terribile». In vista del vertice Ue di Roma sul futuro dell’Europa Orbán ha definito l’immigrazione «veleno e cavallo di Troia del terrorismo». Nel 2016 circa 30 mila migranti sono arrivati in Ungheria, la maggioranza per proseguire il viaggio verso Svezia o Germania.

Di loro solo 425 hanno ottenuto asilo. È in costruzione la seconda barriera anti migranti al confine serbo: “barriera intelligente”, un sensore ogni 15 cm. Human Rights Watch accusa, ma senza prove, i soldati ungheresi di pestare i migranti e filmare tutto su selfies. Il partito di Orbán è membro del Ppe (Popolari europei).

il manifesto, 1 marzo 2017, con postilla

Due buchi neri dove scompaiono i bambini migranti: prima in Libia, meta obbligata della fuga dall’Africa; dopo in Europa tra prostituzione e lavoro nero. È il calvario attraverso cui passano, da invisibili, decine di migliaia di minori diretti in territorio europeo.

L’ultimo rapporto Unucef, basato su interviste a 82 donne e 40 bambini, dà numeri scioccanti: 23.846 bambini sono arrivati in Italia lo scorso anno, il 90% non accompagnati; tre quarti ha subito violenze mentre si trovava in Libia, la metà abusi sessuali ripetuti; un terzo denuncia abusi da parte di «uomini in uniforme»; 23mila sono attualmente nel paese nordafricano in centri di detenzione, con 28mila donne; 8mila quelli che in Italia sono rimasti intrappolati nelle maglie della criminalità; 700 morti in mare. Numeri enormi ma sicuramente sottostimati: potrebbero essere tre volte tanto.

E, una volta arrivati a destinazione, inizia un altro calvario: senza una protezione reale e continuativa, il rischio di finire nelle mani di altri trafficanti di uomini è altissimo. Prostituzione, piccola criminalità, spaccio, lavoro minorile. E l’utopia di una vita migliore che evapora.

In Europa arrivano soli per tanti motivi, spiega la direttrice regionale di Unicef, Afshan Khan: perché sono orfani di guerra o di Ebola, perché hanno visto morire i genitori nella traversata del Mediterraneo o del deserto, perché mandati ad aprire la strada all’arrivo della famiglia.

«Il mediterraneo centrale dal Nord Africa all’Europa è una delle tratte più letali e pericolose per bambini e donne – aggiunge Khan – È per lo più controllata da trafficanti, contrabbandieri». E da un giro d’affari di milioni di euro che spesso finanzia i gruppi jihadisti.

Dall'Africa centrale, la prima tappa è la Libia, un non-Stato devastato dall’intervento Nato del 2011 e che oggi perpetua il modello di “gestione” dei migranti già attivo sotto Gheddafi e l’accordo bilaterale con l’Italia di Berlusconi: i bambini finiscono in uno dei 34 centri di detenzione per migranti identificati dall’agenzia Onu, dieci in più dei 24 governativi ufficiali, quasi tutti nel nord del paese.

Ma è impossibile calcolare il vero numero di prigioni – specifica l’Unicef – gestite da milizie armate e non dal governo di unità di al-Sarraj che ha il controllo solo di una parte della Tripolitania.

Restano lì per mesi, anni, abusati e a volte costretti a prostituirsi o a lavorare, prima di riuscire a raggiungere la costa: «Sono qui da nove mesi. Ci trattano come galline. Ci picchiano, non ci danno abbastanza acqua e cibo – la testimonianze di Jon, 14 anni, fuggito da solo dalla Nigeria e da Boko Haram e ancora detenuto in Libia – Tanta gente muore lì, per le malattie o il freddo».

Nei giorni scorsi sul Guardian sono comparse le storie di ragazze nigeriane costrette a prostituirsi per pagare il resto del viaggio, i mille km che dividono il confine sud della Libia dalla costa. Molte di loro non riescono a pagare l’intero viaggio subito, ma contraggono debiti. È il sistema del pay as you go, paghi mentre vai: migliaia di dollari di debiti “coperti” con il proprio corpo, ad ogni checkpoint attraversato.

Quei centri di detenzione, dopo gli accordi siglati dal governo italiano e da quello di Tripoli e applaudito dall’Unione Europea, in molti casi non sono un incubo del passato: con la guardia costiera libica investita del ruolo di cane da guardia (pattugliare la costa, bloccare i migranti, riportarli in Libia, deportarli in Africa), la probabilità di tornarci è elevata.

Al contrario, è inesistente la possibilità per organismi internazionali di visitare i centri non ufficiali, in mano a signori della guerra, tribù armate, milizie. Off limits anche la metà dei centri del governo di Tripoli. E in quelli visionati mancano cibo, coperte, medicine, i migranti sono costretti in celle di due metri2 in cui vengono ammassate fino a 20 persone.

«I contrabbandieri stanno vincendo – spiega la vice direttrice di Unicef, Justin Forsyth – Questo accade quando non ci sono alternative legali e sicure per chiedere asilo in Europa». Non solo Italia: se è difficile fare stime realistiche, ci si può rifare ai dati Europol del 2015 che parlavano di 10mila bambini migranti scomparsi, a quelli di Roma che calcolava 6.500 minori non rintracciabili nei primi 10 mesi del 2016 e a quelli di Berlino che ha perso le tracce di 9mila bambini.

Dove finiscono? Nelle mani di altri mercanti di uomini.

Non è vero che "stanno vincendo" i mercanti e sfruttatori di schiavi bambini. Hanno già vinto, vinto l'esatto giorno (sarebbe interessante rintracciarne la data ,e i responsabili) quando ci si è rifiutati di realizzare percorsi sicuri per gli esuli perchè sfrattati dalle guerre, dalla miseria, dalla caereatia e dagli altri guasti procurati da uno sviluppo fondato sullo sfruttamento della natura e dell'uomo

«». il blog di GuidoViale,

Si può essere sovranisti in campo economico (no all’euro e all’Unione europea, sì a svalutazioni competitive e protezionismo, ecc.) senza essere anche razzisti in campo politico?

Il razzismo di oggi si manifesta innanzitutto nell’atteggiamento e nelle misure da adottare nei confronti dei profughi: il principale problema politico, oltre che sociale e culturale, che l’Europa, e con essa l’Italia, si trova di fronte; quello che ne mette in crisi la coesione sia tra gli Stati membri che all’interno di ogni paese; e che continuerà a sussistere nei prossimi decenni, perché nasce da processi epocali.

Non è casuale che nei numerosi interventi a favore dell’uscita dall’euro o dall’Unione europea, il tema dei profughi non venga mai toccato; oppure vi si accenni di sfuggita, alla fine del ragionamento, senza rendersi conto che invece è il perno intorno a cui ruota e si qualifica ogni prospettiva politica di cambiamento radicale. Il presupposto tacito di questo approccio è che le questioni dell’euro, dell’austerity, della sovranità monetaria possano essere affrontate isolandole dal contesto sociale e geopolitico in cui sono nate e si sono sviluppate, come se il campo economico fosse dotato di leggi proprie, quelle del mercato, che si insegnano all’università, e che “valgono” sempre: sia in presenza di politiche cosiddette liberiste che di politiche interventiste. Di qui la tesi che esistano due sovranismi: uno di destra e uno di sinistra; e che si distinguano tra loro non tanto per le diverse misure economiche che propongono, ma solo per le opzioni in campo sociale e politico.

Ma la questione dei profughi è una questione europea, che può essere affrontata solo a livello europeo. Sbarcano, se non annegano nel Mediterraneo, in Italia – come sbarcavano e torneranno a sbarcare in Grecia, non appena Erdogan avrà perso interesse ai buoni rapporti con l’Unione – perché sono i loro punti di approdo; ma la loro meta è l’Europa, dove Italia e Grecia sono e restano i paesi meno appetibili: quelli che fino a un anno fa, per la maggior parte di loro, erano solo paesi di transito; poi le frontiere interne dell’Unione, quelle che il trattato di Schengen dovrebbe tenere aperte, si sono chiuse e quell’umanità dolente ha cominciato ad accumularsi nel nostro paese. Accumularsi è il termine giusto, perché le autorità italiane la trattano come “cose”: da stoccare in qualche modo in attesa di potersene liberare. In Grecia, per ora, non ne arrivano quasi più; ma anche lì ne sono rimasti “intrappolati” più di 60mila.

Che fare? L’Europa ha la possibilità e l’interesse ad accoglierli tutti: perde, per calo demografico, tre milioni di abitanti all’anno e ha – e avrà sempre più – bisogno di rimpiazzarli per motivi sia economici che sociali e culturali; per non diventare un continente di vecchi, in declino economico, ripiegato su se stesso, culturalmente sclerotizzato, geo-politicamente isolato. Perché la trasformazione del continente in fortezza è bidirezionale. Respingere profughi e migranti, posto che sia possibile, significa ributtarli tra le braccia dei governi, delle bande armate, del degrado sociale e ambientale da cui sono fuggiti; trasformarli in ostaggi o reclute delle forze in campo. Ma significa anche rendere tutti quei paesi off limits per gli europei: chi potrà più andare di persona a fare investimenti, o cooperazione, o turismo, o “scambi culturali” nelle regioni controllate da uno Stato Islamico?

Poi ci sono più di 40 milioni di cittadini europei o di immigrati residenti in Europa che appartengono a comunità religiose o linguistiche in qualche modo legate ai paesi da cui provengono quei profughi. Trattarli come cose da respingere al mittente significa rinfocolare in quelle comunità sentimenti di estraneità e reazioni di ripulsa e di vendetta di cui le stragi che hanno insanguinato il continente sono solo le prime avvisaglie. Continuare su questa strada significa rendere la convivenza in Europa sempre più difficile, alimentando paure e reazioni difensive che sconfineranno sempre più in aperto razzismo.

Per questo la lotta per l’accoglienza e l’inclusione dei profughi che arrivano o cercano di arrivare in Europa va condotta a livello europeo, unendo tutte le forze che si stanno mobilitando contro i respingimenti – e che non sono poche, anche se non hanno voce sui media – in una prospettiva che è al tempo stesso culturale, sociale, politica ed economica: perché esige un cambio di passo nelle politiche economiche al solo livello, quello europeo, in grado di rendere efficace, in termini di occupazione, di redditi e di welfare, la lotta contro l’austerità.

E’ l’austerità, infatti – quella che ha creato 25 milioni di disoccupati tra i cittadini europei – ad aver reso l’arrivo dei profughi un problema, mentre prima della crisi un numero molto maggiore di cosiddetti “migranti economici” veniva non solo accolto e inserito nella società, ma anche richiesto e apprezzato dai datori di lavoro.

L’alternativa a questo irrinunciabile cambio di passo è respingere, o cercare di respingere, o far credere – per meschine ragioni elettorali – di poter respingere; cioè lavorare per estendere a tutti i paesi del Medioriente e dell’Africa centrosettentrionale da cui provengono i profughi diretti in Europa accordi analoghi a quello con la Turchia. Un disegno feroce che equivale a condannare a morte, o a violenze e soprusi di ogni genere, o all’inedia o, nella migliore delle ipotesi, a riprendere da capo la strada da cui sono stati riportati indietro, tutti i profughi che si sarà riusciti a respingere o a “rimpatriare”.

Se non è razzismo questo, che cosa è mai il razzismo? Ma è anche un disegno, come già si intravvede, troppo complesso e impegnativo, oltre che cinico e criminale, per andare in porto: quei paesi non sono la Turchia; in molti ci sono persino Governi che non governano. Senza contare che anche l’accordo con la Turchia è molto precario. Da un momento all’altro Erdogan potrebbe rovesciare in Europa i “suoi” tre milioni di profughi in un colpo solo…

In ogni caso, una volta fuori dall’euro e dall’Unione europea per tutte le forze che lottano per un mondo diverso sarà impossibile anche solo battersi per una politica comune di accoglienza in Europa. Le frontiere al Brennero, a Ventimiglia, a Como, già oggi chiuse, non si apriranno più e sull’Italia, lasciata sostanzialmente sola, verrà scaricato, ben più di quanto già non succeda ora, tutto il peso e l’orrore delle attività operative e delle responsabilità politiche dei respingimenti. E’ questo che vogliamo?

Il missionario camboniano, costretto dai suoi superiori ecclesiastici ad abbandonare l'Africa, ed attualmente esiliato a Napoli, riprende nei confronti dell'attuale governo e dell'episcopato italiani la pesante denuncia dell'inumanità del Migration compact, già espressa nei conronti del Governo Renzi. Lettera del 4 febbraio 2017

“Siamo stati capaci di chiudere la rotta balcanica,- ha detto il Presidente della Commissione Europea, Tusk - possiamo ora chiudere la rotta libica.” Parole pesanti come pietre pronunciate in occasione del Memorandum firmato a Roma il 2 febbraio dal nostro Presidente del Consiglio Gentiloni con il leader libico Fayez al Serraj, per bloccare le partenze dei migranti attraverso il canale di Sicilia.
E’ la vittoria del cosidetto Migration Compact (Patto per l’Immigrazione), portato avanti con tenacia dal governo Renzi e sostenuto dall’allora Ministro degli Esteri ,Gentiloni. “Lo stesso impegno profuso dall’Europa per la riduzione dei flussi migratori sulla rotta balcanica, -aveva affermato lo scorso anno davanti alla Commissione Trilaterale Gentiloni,- va ora usato sulla rotta del Mediterraneo Centrale per chi arriva dalla Libia.” Gentiloni, ora che è presidente del Consiglio, lo sta realizzando. Trovo incredibile che si venga ad osannare l’accordo UE con la Turchia per il blocco dei migranti. Ci è costato sei miliardi di euro, regalati a un despota come Erdogan ed è stato pagato duramente da siriani, iracheni, afghani in fuga da situazioni di guerra. “I 28 paesi della UE hanno scritto con al Turchia - ha affermato C. Hein del Consiglio Italiano per i Rifugiati - una delle pagine più vergognose della storia comunitaria. E’ un mercanteggiamento sulla pelle dei poveri.”

Visto il successo(!!) di quel Patto, il governo italiano lo vuole replicare con i paesi africani per bloccare la rotta libica, da dove sono arrivati in Italia lo scorso anno 160.000 migranti. Ecco perché il governo italiano, a nome della UE, ha fatto di tutto per arrivare a un accordo con la Libia, un paese oggi frantumato in tanti pezzi, dopo quella guerra assurda che abbiamo fatto contro Gheddafi (2011). Il governo italiano e la UE hanno riconosciuto Fayez al Serraj come il legale rappresentante del paese, una decisione molto contestata dall’altro uomo forte libico, il generale Haftar. Per rafforzare questa decisione l’Italia ha aperto la propria ambasciata a Tripoli.

Il Piano della Commissione Europea prevede di creare in Libia una ‘linea di protezione’(una specie di blocco navale) il più vicino possibile alle zone d’imbarco per scoraggiare le partenze dei profughi. Il vertice dei capi di Stato della UE a Malta (3 febbraio) ha approvato questo accordo fra l’Italia e la Libia. Ma questo è solo un primo e fragile tassello del Migration Compact , definito da G. Ajassa su la Repubblica “necessario, anzi urgente!” La UE vuole arrivare ad accordi con i vari stati da cui partono i migranti. Per ora la UE ha scelto cinque paesi.chiave: Niger, Mali, Senegal, Etiopia e Nigeria, promettendo tanti soldi per lo sviluppo. Lo scorso novembre una delegazione, guidata dall’allora Ministro degli Esteri, Gentiloni ha visitato il Niger , Mali e Senegal. Si è soprattutto focalizzata l’attenzione su un paese- chiave per le migrazioni: il Niger. E’ significativo che la prossima primavera l’Italia aprirà un’ambasciata nella capitale del Niger, Niamey. “I ‘buoni’ sono la Ue, l’Italia, il Migration Compact, che si spacciano per i salvatori umanitari- scrive il missionario Mauro Armanino che opera a Niamey- i ‘brutti’ sono migranti irregolari… Noi preferiamo stare con i ‘brutti’, coloro che ritengono che migrare è un diritto!”

Che ipocrita quest’Europa che offre soldi all’Africa a"svilupparsi" per impedire i flussi migratori, mentre la strozza economicamente! La UE sta forzando ora i paesi africani a firmare gli Accordi di Partenariato Economico (EPA) che li obbliga a togliere i dazi doganali, permettendo così alla UE di svendere sui mercati sub-sahariani i suoi prodotti agricoli, affamando così l’Africa. Senza parlare del land-grabbing, perpetrato anche da tante nazioni europee nonché dalla macchina infernale del debito con cui strangoliamo questi popoli. Per cui la fuga di milioni di esseri umani. Ad accoglierli ora ci sarà il blocco nei vari paesi e poi quello navale. E se riusciranno ad arrivare in Europa, troveranno muri, filo spinato,campi profughi e lager. Il Ministro dell’Interno, Marco Minniti, vuole infatti rilanciare i famigerati Centri di Identificazione e di Espulsione (CIE) in tutte le regioni d’Italia, che sono veri e propri lager.

”Chi vede gli occhi dei bambini che incontriamo nei campi profughi- ha detto Papa Francesco ai rappresentanti dei Movimenti popolari lo scorso novembre- è in grado di riconoscere immediatamente, nella sua interezza, la "bancarotta dell’umanità"! Cosa succede al mondo di oggi che,’ quando avviene la bancarotta di una banca, immediatamente appaiono somme scandalose per salvarle, ma quando avviene questa ‘bancarotta dell’umanità’, non c’è quasi una millesima parte per salvare quei fratelli che soffrono tanto! E così il Mediterraneo è diventato un cimitero e non solo il Mediterraneo…molto cimiteri vicino ai muri, muri macchiati di sangue innocente.”

Davanti a queste parole così chiare e dure, mi sconcerta il silenzio della Conferenza Episcopale Italiana. Ma altrettanto mi sorprende il silenzio degli Istituti missionari: finora non c’è stata una presa di posizione unitaria e dura su quanto sta avvenendo, che ci toccano direttamente come missionari.

Non possiamo più tacere: è in ballo la vita, la vita di milioni di migranti, che per noi sono, con le parole di Papa Francesco.”la carne di Cristo.”

Riferimenti
Vedi il precedente articolo di Alex Zanotelli sul Migration compact del maggio 2016 No Migration compact su eddyburg i numerosi articoli sul Migration compact e di Alex Zanotelli li trovi digitando le parole sul "cerca".

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