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L'articolo di Vezio De Lucia a proposito delle prossime elezioni politiche ha indotto un gruppo di urbanisti a redigere su quella base un appello, e altri a firmarlo.

Sappiamo tutti che le elezioni politiche del 13 e 14 aprile sono decisive per la società italiana. Ma siamo convinti che è in gioco soprattutto il futuro delle città e del territorio italiani. La vittoria della destra porterebbe sicuramente verso il trasferimento anche formale del potere urbanistico nelle mani di soggetti privati, riprendendo il percorso già avviato negli anni del precedente governo Berlusconi. È una prospettiva drammatica, alla quale fanno da contorno il rilancio indiscriminato delle grandi opere, a cominciare dal ponte sullo Stretto, il ritorno al nucleare e il favore per politiche energetiche ambientalmente insostenibili.

Il Partito Democratico, che dovrebbe essere il naturale antagonista di Berlusconi, si presenta oggi per molti aspetti consenziente con le impostazioni della destra, soprattutto nelle materie di cui stiamo trattando. Quando si legge, nel programma del Partito Democratico, che “l’ideologia della regolamentazione è cattiva consigliera” [vedi postilla] scompare di fatto ogni differenza con il berlusconismo. In un Paese come il nostro, nel quale quasi la metà del territorio è devastata da un abusivismo sostanzialmente impunito, dove gli energumeni del cemento armato continuano a essere i protagonisti, non solo in materia di edilizia, ma più in generale della finanza e dell’economia, com’è possibile che la regolamentazione dell’uso del territorio sia degradata a ideologia? Ci si rende conto dove possono portare ragionamenti siffatti se estesi ad altri ambiti del vivere civile?

Il programma de La Sinistra l’Arcobaleno, ancorché striminzito per quanto qui interessa, lo condividiamo. L’impegno per politiche ambientalmente corrette e il richiamo alla legge quadro sul governo del territorio ci sembrano importanti e qualificanti. E speriamo che siano un’indicazione ad abbandonare il sostegno a politiche speculative e di dissipazione del territorio che i partiti di sinistra e i verdi hanno praticato, anche molto recentemente, come nel caso del recente piano regolatore di Roma.

Se nel nuovo Parlamento l’unica forza alternativa al Popolo delle Libertà sarà quella del Partito Democratico, diventerà impossibile la resistenza alla politica delle grandi opere, della privatizzazione della città e del territorio, della promozione della rendita immobiliare, dell’ulteriore decadenza del potere pubblico. Per impedire che ciò avvenga, per lasciare aperta la strada verso prospettive meno devastanti, i sottoscritti ritengono che sia utile e necessario votare per La Sinistra l’Arcobaleno.

Alessandro Abaterusso, Diego Accardo, Immacolata Apreda, Maria Giovanna Arghittu, Paolo Baldeschi, Dino Barrera, Piergiorgio Bellagamba, Paolo Berdini, Irene Berlingò, Lamberto Bernini, Piero Bevilacqua, Flavia Bianchi, Ivan Blecic, Antonello Boatti, Ilaria Boniburini, Antonio Bonomi, Fabrizio Bottini, Sergio Brenna, Rosalinda Brucculeri, Michele Camporeale, Claudio Canestrari, Vittorio Caporioni, Arnaldo (Bibo) Cecchini, Pino Chiezzi, Gabriella Corona, Donatella D’Arco, Michele De Crecchio, Francesca De Lucia, Vezio De Lucia, Pasquale Di Perna, Agostino Di Lorenzo, Claudio Favale, Maria Teresa Fernandez, Daria Ferrari, Piero Ferretti, Georg Josef Frisch, Ado Grilli, Renato Grimaldi, Anna Guerzoni, Polo Henrici de Angelis, Francesco Indovina, Francesco Lo Piccolo, Giovanni Lupo, Marcello Madau, Roberta Madoi, Alberto Magnaghi, Patrick Marini, Antonietta Mazzette, Lodovico Meneghetti, Maurizio Morandi, Loredana Mozzilli, Paolo Nicoletti, Diego Novelli, Anna Pacilli, Gaia Pallottino, Rossano Pazzagli, Mariangela Perale, Antonio Perrotti, Francesco Pistilli, Valentino Podestà, Fabio Poggioli, Fabrizio Profico, Antonella Radicchi, Raffaele Radicioni, Giulietta Rak, Carla Ravaioli, Sandro Roggio, Maria Teresa Roli, Mariangela Rosolen, Bernardo Rossi Doria, Milvio Sabatini, Edoardo Salzano, Angelo Saracini, Emilio Soave, Marco Turati, Mauro Torriani, Sauro Turroni, Manlio Vendittelli, Giuliana Zagabria.

Postilla

Chiudiamo qui le adesioni all’appello pubblicato giusto un mese fa. Abbiamo raccolto quai ottanta firme di urbanisti o di persone comunque interessate ai problemi delle città e del territorio, ne siamo soddisfatti. Siamo anche soddisfatti per aver in qualche modo contribuito a una significativa correzione del programma del partito democratico. "In tema di pianificazione dell’uso e di governo del territorio, l’ideologia della regolamentazione è cattiva consigliera", quest’affermazione del programma PD l’abbiamo citata nell’appello per denunciare il rischio di confluenza verso il berlusconismo, denuncia condivisa anche da importanti esponenti di quel partito. È successo che, dopo qualche giorno, la frase incriminata è stata sapientemente corretta: cattiva consigliera non è più la regolamentazione ma la deregolamentazione. Benissimo, siamo pienamente d’accordo, e speriamo, subito dopo le elezioni, di poter partire da quest’impegnativa asserzione per riprendere con il Pd il lavoro per la nuova legge urbanistica .

Sul sito del partito democratico si trova da ieri il programma di governo del nuovo partito. Era meglio l’annuncio delle 12 azioni di governo! Era meglio il meno del più! Ridotto a slogan, necessariamente semplificanti e parziali, il programma del partito democratico lasciava spazio a interpretazioni e speranze. Poteva essere letto come una prima traccia di un programma ancora da costruire, certo, sbilanciato sul fronte dell’economia e dell’impresa ma giustificato da una congiuntura economica sfavorevole, la recessione negli Stati Uniti, la globalizzazione, si sa come va il mondo.

Adesso è peggio! Non lasciano perplesse solo alcune proposte specifiche del programma, ma è l’ambizione del testo a destare la preoccupazione maggiore. Anche il programma dell’Unione aveva l’ambizione di essere onnicomprensivo, era però costruito in centinaia di incontri con tutte le parti della società (vi ricordate la fabbrica del programma?). Oggi, invece, i 4 problemi dell’Italia, i 10 pilastri del progetto, le 12 azioni di governo, sono frutto soltanto di una ristrettissima cerchia di dirigenti di partito. Non è anche questo un problema di qualità della democrazia?

Con il suo programma, il partito democratico sembra voler smarcarsi soprattutto a sinistra. In certi passaggi si percepisce l’euforia di chi, abbandonato anche l’ultimo riferimento alla propria storia, si sente finalmente libero di dire ciò che pensa veramente – e, verrebbe da dire, lo fa con una retorica quasi futurista, contrapponendo alla pesantezza del reale l’effimero dell’ossimoro: l’efficienza economica si trova nella crescita, la disuguaglianza si affronta con il mercato, l’ambientalismo si risolve nell’imperativo del fare.

Delle ideologie del secolo passato si mantengono solo quelle peggiori. “L’economia fornisce il metodo, ma l’obiettivo è cambiare l’anima” ebbe a dire Margareth Thatcher. Questo sembra essere diventato il leitmotiv. Nulla è rimasto di quell’embedded liberalism che era la sostanza del programma di Prodi: sviluppo sì, ma sostenibile. “Noi crediamo che la tutela dei beni comuni ambientali e la valorizzazione dei territori siano ormai un cardine della civiltà contemporanea, nonché un criterio generale per orientare lo sviluppo sociale ed economico”. La nuova parola d’ordine è, invece, infrastrutture moderne e quindi sostenibili. La modernità come sinonimo di sostenibilità!

È vero, l’Italia ha bisogno di nuove infrastrutture. Ma insieme ha bisogno di un nuovo patto tra cittadini e istituzioni, ha bisogno di una nuova fiducia nell’amministrazione pubblica. Non c’è bisogno di meno Stato ma di uno Stato più autorevole, capace di gestire la cosa pubblica in modo trasparente e democratico. È certamente vero che servono gli inceneritori: ma per bruciare quel che resta dopo la raccolta differenziata; è certamente vero che servono nuove linee ferroviarie: ma per rispondere a un oggettivo bisogno di mobilità; è certamente vero che servono nuovi impianti per la produzione di energia: ma non quelli a maggiore impatto sul territorio.

Nel programma del partito democratico, la risposta ai problemi oggettivi del nostro Paese sembra essere, invece, tutta improntata su facili, per quanto demagogiche scorciatoie. Ancora una volta, le risorse ambientali e territoriali sono destinate a soccombere alle politiche economiche. Ciò è particolarmente evidente in almeno tre punti del programma:

- alla lettera b) del primo punto torna la svendita del patrimonio pubblico con l’obiettivo di ridurre il debito pubblico – e Tremonti ringrazia;

- alla lettera a) del punto 5, nel capitolo dedicato all’ambientalismo del fare, compare il nucleare – ma i nostri politici lo sanno che la Germania della cancelliera Markel, non più di due mesi fa, nel proprio programma per il clima ha tassativamente escluso lo sviluppo di nuovi impianti nucleari?;

- infine, alla successiva lettera b), si preannuncia la fine della pianificazione urbanistica come la conosciamo oggi: “in tema di pianificazione dell’uso e di governo del territorio, l’ideologia della regolamentazione è cattiva consigliera”. Ma in che modo, e soprattutto chi sceglierà allora fra tutela del territorio e sviluppo urbano? Si preannuncia una privatizzazione del governo del territorio anch’essa già proposta dal precedente governo di centrodestra?

È difficile credere che ogni riferimento alla sostenibilità ambientale nel programma di Prodi sia stato esclusivo appannaggio della sinistra radicale e che, con la dissoluzione dell’Unione, si sia dissolto anche la coscienza ambientale del partito democratico. Pur comparendo tra i dieci pilastri del programma, fra le azioni di governo la sostenibilità ambientale non è però mai citata. Da un partito riformista che comprende autorevoli esponenti dell’ambientalismo italiano, ci si doveva aspettare un impegno diverso. Ma soprattutto ci si doveva aspettare una maggiore assunzione di responsabilità per il nostro Paese e per le generazioni future. Ma forse c’è ancora tempo.

Scrive Giuseppe Palermo
“Voto giusto o voto utile?”

Caro Eddy, sono appena tornato a Roma e ho letto il tuo pezzo sul "chi votare e perché", le cui conclusioni condivido (nel senso almeno che sono d'accordo sul "chi" votare, quanto al "perché" avrei delle motivazioni in parte diverse, ma questo sarebbe un discorso lungo e nemmeno interessante, che tralascio). La questione che ti sottopongo è invece un'altra e riguarda il sistema elettorale che ci è imposto, i cui effetti micidiali già noti sono ora accentuati dalla decisione di Veltroni di competere da solo. Voglio dire che purtroppo gli appelli al cosiddetto "voto utile" non sono soltanto l'ovvio espediente di chi come lui questo voto ha interesse a chiederlo, ma hanno almeno in parte un fondamento oggettivo. L'esito paradossale di tali ragionamenti per noi sarebbe che, se si vuole evitare la catastrofe di una vittoria di Berlusconi (con successiva sua ascesa alla Presidenza della Repubblica) bisognerebbe rassegnarsi a votare, in modo difforme dalle nostre convinzioni, per il Pd. Così argomentano, ad esempio, Paolo Flores d'Arcais, che pure non nasconde tutto il suo disgusto per quel partito, e, non diversamente nella sostanza, il politologo Ceccanti sull'Unità (vedi allegato). La lettura di quei due articoli mi ha messo in crisi nera, anche se forse le cose sono ancora più complicate, e cioè in definitiva il voto realmente "utile" sarebbe condizionato dal dove si vive e si vota (vedi intervento sul pezzo di Flores: con riferimento a un altro interessante articolo del Sole-24 Ore (pure allegato). Seguendo costoro, nel mio caso e votando io a Roma, farei - forse - bene a scegliere SA (almeno al Senato), ma il discorso sarebbe diverso in altre regioni. Il che non mi tranquillizza affatto, senza dire che per me la crisi si ripropone per l'elezione del sindaco di Roma, dove sono assolutamente deciso a non scegliere Rutelli (appoggiato sia da Pd che da SA), almeno al primo turno, a costo di votare per una lista civica, anche se alla fine dovrò farlo al ballottaggio. E se votassi in Sicilia, avrei gli stessi dolori di pancia con la Finocchiaro, candidato unico di tutta la sinistra, sapendo quale festa sarebbe per le lobbies affarististiche trasversali (basti ricordare il caso della Disneyland di Regalbuto, da lei favorita, o quello del ripescaggio del suo amico Salvo Andò, in cui è impegnata da tempo). Dei brutti compromessi sono quindi inevitabili. Se hai tempo di leggere questa roba dimmi che ne pensi. A me il discorso del voto "giusto", succeda poi quel che succeda ("fai quel che devi, avvenga quel che può"), non mi convince, e in questo almeno credo che Flores abbia ragione. Certo però che, come che vadano le elezioni, con Veltroni bisognerà fare i conti e fargliela pagare, e tanto più se col suo comportamento ci ha rubato il voto in modo così infame, riducendoci ad extraparlamentari.

Risponde Edoardo Salzano

“Dipende dall’obbiettivo: per me giusto è utile”

Caro Giuseppe, ti ringrazio molto della tua lettera, che mi permette di toccare alcuni punti rilevanti che nella mia “dichiarazione di voto” avevo trascurato. Intanto, voglio dirti che concordo con il giudizio che dai su Veltroni: “ci ha rubato il voto in modo infame”, e tenta di ridurci ad extraparlamentari. Tenta: non ci è riuscito. Ci riuscirà solo se gli lasceremo campo libero, solo se cadremo nella trappola del suo ricatto, solo se la lista di sinistra non entrerà in Parlamento. Questa sembra a me la prima ragione, la più immediata, per votare a sinistra: far fallire il disegno di Veltroni. Perché il suo disegno è proprio questo: non è battere Berlusconi, è far scomparire tutto quello che c’è alla sinistra del suo pensiero, della sua ideologia.

Eppure, dovrebbe aver capito che Berlusconi in Italia, non si vince spaccando il fronte di centro-sinistra. A questo proposito mi hanno colpito le riflessioni di Asor Rosa sul manifesto di ieri, là dove affermava la convinzione “che l'Italia possa essere decentemente governata (se non temessi l'enfasi, salvata) solo da quel complesso di forze che in Italia costituisce il centro-sinistra «storico» e che, per intenderci, va da Fanceschini a Migliore”, dagli eredi della DC a Rifondazione comunista. Asor Rosa non lo precisa, ma quel centro-sinistra non è molto distante da quello che si definiva “arco costituzionale”: quell’insieme di forze, ideali, interessi, che erano nati dall’antifascismo e dalla Resistenza e avevano scritto i principi del loro accordo storico nella Costituzione del 1948. In realtà, il primo passo del percorso strategico di Veltroni è stato proprio l’aver incoraggiato, se non promosso, quella silenziosa cancellazione dell’antifascismo, della Resistenza e della costituzione che è grosso modo coevo all’ascesa di Berlusconi.

A ben vedere, Veltroni ha giocato nei confronti della sinistra ex comunista lo stesso ruolo che Craxi giocò nei confronti dei socialisti: ha portato gran parte della sua formazione originaria verso un orizzonte che oggi possiamo definire neoliberista. E gli slogan sono gli stessi: modernizzazione, mercato, crescita. Sarebbe interessante indagare su chi siano i “poteri forti” e gli interessi economici cui si riferiva ieri l’uno e si riferisce oggi l’altro.

Io non so quanti riescano a vedere oggi Veltroni quale a me sembra che sia. Credo però che molti di quanti oggi sono vicini al PD, o che comunque voteranno per questa formazione, soffrono un disagio simile a quello che proviamo noi. Ed è anche per questi, per le donne e gli uomini di sinistra che sono confluiti del PD ma si rendono, o si renderanno conto, di viverci male che dobbiamo lasciare viva (o, meglio, aprire) una nuova casa di sinistra. Questa mi sembra una prima utilità per un voto alla Sinistra Arcobaleno.

Ma c’è una utilità che a me sembra ancora più importante nel voto per quella lista. Secondo me Berlusconi è la punta (una punta particolarmente sporca) di un iceberg. L’iceberg, che è molto vasto, è costituito dal blocco sociale del neoliberismo: da quel blocco che è l’espressione contemporanea di quella creatura proteiforme che è il capitalismo. A scritti che raccontano e analizzano quel blocco ho dedicato una cartella su eddyburg (“Il capitalismo d’oggi”), proprio perché mi rendo conto che è una realtà alla quale dobbiamo prestare la massima attenzione: un’ideologia pratica (se posso permettermi questo apparente ossimoro) che secondo molti osservatori connette in un uniico sistema di valori e di interessi soggetti apparentemente molto diversi tra loro. Ecco, Veltroni e il veltronismo fanno parte integrante di quell’iceberg. Sono certamente più “puliti” di Berlusconi: sono presentabili in qualunque salotto perbene, mentre l’altro è accettato solo per i suoi soldi. Ma la sostanza è la stessa.

Insomma, a me non basta battere Berlusconi se questo comporta che il berlusconismo stravince . Il rischio è proprio questo: che Veltroni sconfigga Berlusconi allargando la presa del berlusconismo, portandovi definitivamente dentro anche un’altra parte della sinistra tradizionale (oltre a quella che c’è già).

So bene che battere il berlusconismo sarà lungo (temo che sarà altrettanto lungo battere Berlusconi, con una formazione ridotta come quella del PD, sia pure con l’aggiunta dei radicali e di Attila-Di Pietro). Ma so anche che l’unica speranza di battere l’uno e l’altro è che ci sia una consistente sinistra centrata sui due temi della difesa del lavoro e dell’ambiente. Perciò sono convinto che quello per la Sinistra Arcobaleno è l’unico voto che, oltre a essere giusto, è anche utile.

E credo che esso potrà essere un voto utile non solo per costruire un domani decente, ma anche per i prossimi anni. In qualunque ipotesi di maggioranza. Nel caso che il risultato sia di pareggio: in questo caso le liste minori faranno la differenza, e mi sembrerebbe utile che la sinistra avesse più forza degli altri “piccoli”. Nel caso che vinca Berlusconi: vogliamo lasciare a Veltroni, Calearo, Colaninno il monopolio dell’opposizione a Berlusconi, vogliamo che siano gli unici a contrastare/patteggiare? Nel caso che vinca Veltroni? La maggioranza, per quanto forte, deve trovare dei punti d’incontro con l’opposizione: e vogliamo lasciare soli due soggetti che sono tanto vicini da copiarsi l’un l’altro il programma e contendersi i candidati?

Insomma, mi sembra che ci siano molte ragioni per affermare che il voto alla formazione Sinistra Arcobaleno è un voto non solo giusto, ma anche utile. Con l’impegno, naturalmente, a fare da questa formazione l’avvio di un percorso che dovrà portare a costruire un partito del tutto nuovo, dove le istanze del lavoro e dell’ambiente, dell’uomo e della terra, dell’oggi e del domani, si saldino in un solo sistema di principi e di azioni, e trovino le forze sociali con cui cambiare il mondo. E che promuova un modo di fare politica il più lontano possibile da quello del “porcellum” e della politica-immagine, nel quale mi sembra che entrambi gli aspiranti dominatori si trovino perfettamente a loro agio.

All'inizio non ci volevo quasi credere, pensavo fosse uno scherzo. Come! Con una legge elettorale come quella che ci ritroviamo le due parti «storiche» del centro-sinistra si presentano al voto separate, scegliendo di andare incontro ad una quasi certa sconfitta? Poi, con lentezza, ho capito che la scelta veltroniana andava al di là della scadenza elettorale attuale, guardava a una prospettiva diversa da quelle tradizionali, lanciava ponti in direzioni inconsuete. Insomma, era una scelta seria. Anzi, molto seria. Anzi, grave.

Non c'è molto spazio per motivarlo, ma io lo direi così. Il Pd - partito sostanzialmente di centro che non guarda a sinistra, intenzionato a presentarsi da sé e in sé come la soluzione del problema politico italiano e destinato perciò per propria natura a rinunciare ad un sistema preventivo di alleanze, esplicitamente percepito come un ostacolo alla propria autonoma manovra programmatica e politica - rappresenta un'anomalia non solo nella tradizione politica italiana ma in quella europea (se qualcuno è in grado di additarmene un esemplare analogo fra l'Atlantico e i confini della Russia, gliene sarei grato). Qualche elemento ispirativo se ne può ritrovare nel Partito democratico americano, tanto caro a Veltroni (e infatti il nome è lo stesso: nomen omen), anche se altri - per esempio, il confessionalismo spinto di certi suoi settori - nettamente divergono. E - potremmo dire ancora una volta: infatti - esso manifesta l'ambizione di ricondurre il bipolarismo italiano - che indubbiamente è all'origine, per la sua composizione eccessivamente molteplice, di molti degli inconvenienti del nostro sistema politico - ad un più sano e semplice bipartitismo. Per raggiungere questo obiettivo si tende fra l'altro a cancellare definitivamente dalla nostra carta politica qualsiasi presenza e sigla socialista: un'altra delle nostre più pesanti e innaturali anomalie.

L'abilità e la forza comunicativa, che indubbiamente caratterizzano il suo principale ispiratore e leader, Walter Veltroni, non celano però - se si esce per un istante dal clima (neanche tanto) agitato del confronto elettorale - alcuni gravi rischi strategici. Io ne vedo tre, che segnalo, perché forse, nell'immediato o in un lontano futuro, si troverà modo di correggerli.

Innanzitutto. Per avvalorare la tesi secondo cui il Pd era legittimato a fare da solo, Veltroni ha dovuto riconoscere il medesimo diritto al suo principale antagonista, il Popolo delle libertà, con il quale forma in duetto il futuro bipartitismo virtuoso. Così facendo, ha portato avanti, con atti e con parole che il suo concorrente ha subito ripreso, il processo di legittimazione di Silvio Berlusconi in persona all'interno del quadro politico-istituzionale italiano. Se viene meno la persuasione che la principale anomalia del sistema politico italiano - oltre che una grande vergogna nazionale - è la presenza nell'agone politico di uno come Berlusconi, tutto il quadro si corrompe e si offusca e in nome della «governabilità» (ricordate Craxi?) si possono compiere le peggiori turpitudini.

Dice: metà degli italiani lo vota. Gli italiani hanno votato anche Mussolini e i tedeschi Hitler. Insomma, il voto democratico non è sempre in grado di sanzionare - depurandole - le aberrazioni che si verificano in giro per il mondo: talvolta ne prende atto e le esalta. Non penso soprattutto, a dir la verità, alle ipotesi di Grosse Koalition, che pure da qualche parte si ventilano. Penso ad una caduta di tensione (quasi mi vergogno, dati i tempi, a definirla morale), che sembra caratterizzare l'attuale momento storico-politico (il fine giustifica i mezzi...). Basterebbe una buona, precisa e incontestabile presa di posizione nel merito per cancellare molti dubbi e preoccupazioni.

Esprimo in secondo luogo una convinzione ideal-politica, che per me ha valore pienamente strategico. Io sono persuaso che l'Italia possa essere decentemente governata (se non temessi l'enfasi, salvata) solo da quel complesso di forze che in Italia costituisce il centro-sinistra «storico» e che, per intenderci, va da Fanceschini a Migliore. Naturalmente, per motivare convenientemente questa convinzione, dovrei scrivere un libro. In mancanza del quale, accontentatevi dell'enunciazione: le particolari condizioni della storia italiana nel corso degli ultimi due secoli hanno sempre evidenziato l'imprescindibilità di questa alleanza ai fini del destino nazionale (e anche di ognuno dei principali protagonisti che lo compongono e lo determinano). Ancor più oggi: a me pare cioè, per esprimermi in una maniera un po' approssimativa, che il raggiungimento di un punto di equilibrio tra «riformismo» e «radicalismo» sia la formula a cui consegnare il nostro futuro: formula difficile da impostare e da gestire, ma tutt'altro che impossibile.

In questa prospettiva strategica salta all'occhio non solo la clamorosa divaricazione veltroniana - che va alla ricerca di altri destini, presumibilmente ben diversi - ma anche l'inadeguatezza delle forze della cosiddetta «sinistra radicale» a sostenere, praticare, riempire di contenuti nuovi tale prospettiva. Con il corredo culturale e ideale di cui esse, più o meno a seconda dei casi, dispongono e con il ritardo d'iniziativa di cui han dato prova negli ultimi anni, non si va lontano. Dico questo: la divaricazione veltroniana è stata resa possibile anche (soprattutto?) dall'assenza sulla sinistra di un interlocutore in grado di condizionare anche i movimenti del centro del centro-sinistra. Il centro del centro-sinistra ha deciso di andare per proprio conto, anche perché non aveva contrappesi validi sulla propria sinistra, che gli rendessero più difficoltosa la manovra.

Infine. Pochi, mi pare, hanno notato che il prossimo voto mette gli elettori italiani di fronte al massimo d'incertezza possibile riguardo all'uso che del loro voto verrà fatto. Walter Veltroni ha detto: non siamo soli; siamo liberi. Ha ragione. Si vota al buio. Il bipolarismo imperfetto delle tre precedenti consultazioni politiche consentiva tuttavia di votare non solo per un partito ma per un governo. Ora non più: possiamo votare solo per un partito o un raggruppamento di partiti, ai quali è demandata dopo il voto l'intera facoltà di contribuire a formare, a seconda della forza loro attribuita dagli elettori, questo o quel governo.

Io trovo questo intollerabile. Tolte di mezzo le preferenze; attribuiti agli stati maggiori (Andrea Manzella parla di cinque-sei persone!) tutti i poteri nella formazione delle liste: interrotta qualsiasi circolazione rinnovatrice fra i partiti e il resto della società: ci si toglie ora anche il diritto di scegliere il governo che desideriamo. Il massimo della delega, dunque, coincide con la fase di maggiore scadimento, autoreferenzialità e discredito del nostro ceto politico. Nonostante il successo di alcuni dei comizi di Walter in piazza, la forbice secondo me s'allarga. E non si sa cosa di nuovo sarà in grado di combinare un parlamento che uscirà da questo voto.

Da questo punto di vista non c'è niente che si possa fare nell'immediato. Bisognerebbe forse pretendere che al primo posto delle tanto conclamate riforme ci sia l'annosa, mai affrontata, sempre più indispensabile «riforma della politica»: la quale vuol dire essenzialmente messa in discussione del ceto politico, rottura dell'autoreferenzialità, nuovo rapporto società-politica (gli inserimenti adottati a tal fine nelle liste fanno sorridere, quando non indignano), cambiamento radicale delle regole del gioco.

In conclusione, e per non lasciar spazio ad equivoci. Penso che questa volta si debba assolutamente andare a votare, e non solo per sbarrare la strada a Berlusconi (che pure è un argomento non da poco). Bisogna soprattutto impedire che si cada in quell'acquiescenza passiva, che si traduce nel detto famoso: «in malora!» e che sarebbe la situazione peggiore di tutte, l'anticamera della morte. Per chi votare, invece, oggi è affare di ognuno.(

“E’ finita l’’età dell’oro’. E’ finita la fiaba del progresso continuo e gratuito. La fiaba della globalizzazione, la ‘cornucopia’ del XXI secolo. Una fiaba che pure ci era stata così ben raccontata. Il tempo che sta arrivando è un tempo di ferro.” Crisi finanziaria, depressione, carovita sono solo l’inizio. Il più tremendo bilancio della globalizzazione, e del mercato (anzi del “mercatismo”) suo strumento principe, è la “catastrofe ambientale, capace di erodere alla base le ragioni stesse della nostra sopravvivenza sulla terra”. E “se il funzionamento del meccanismo non verrà rallentato” c’è da attendersi il peggio . Perché “mercatismo e ambientalismo sono termini tra loro incompatibili”. “Non ci può essere ambientalismo con sviluppo forsennato”. Dunque: basta con “il mito dell’economia che è tutto, che sa tutto, che fa tutto”, “dominatrice assoluta della nostra esistenza”. Basta con “gli economisti, sacerdoti e falsi profeti del nuovo credo”. “Perché abbiamo firmato una cambiale mefistofelica con il dio mercato?”

Non sto citando me stessa, né altri ambientalisti. Incredibilmente, quanto sopra riportato reca la firma di Giulio Tremonti, ed è tratto dalla prima parte del suo La paura e la speranza” (Mondadori) da poco in libreria. Con una competenza in materia assai rara tra i politici, l’autore dedica intere pagine all’inarrestabile aumento delle emissioni di gas climalteranti e con scientifica puntualità lo rapporta all’aumento della temperatura terrestre. Correttamente considera anche le posizioni che attribuiscono il fenomeno a cause diverse dalla sovrapproduzione, ma conclude che questa “non è certo una ragione sufficiente per aggiungere catastroficamente al calore solare anche il calore industriale”. Con un coraggio raro anche tra ambientalisti doc afferma che nemmeno la green economy può ritenersi una soluzione, e senza esitare asserisce: “E’ necessario fermare il mercatismo, l’ideologia forsennata dello sviluppo forzato, spinto dalla sola e assoluta forza del mercato”.

Ma lei, onorevole Tremonti, dov’è stato finora? Lei, docente di economia, ministro delle Finanze (1994), ministro dell’ Economia e delle Finanze (2001-2004), vicepresidente del Consiglio (2005-2006), ha mai fatto o proposto qualcosa di appena conseguente con quanto asserisce ora? Non è stato anche lei a raccontarci la favola bella del capitalismo, destinato prima o dopo ad arricchire tutti? e del mercato (che solo oggi tra disprezzo e sgomento chiama “mercatismo”) capace, purché libero dai maléfici “lacci e lacciuoli” di uno stato ficcanaso e invadente, di guidare le sorti del mondo verso infallibili traguardi di abbondanza e benessere? E non è su queste certezze che si è fondato il suo lungo sodalizio con quel monumento vivente al mercato e al Pil che è Berlusconi? E che farà se, Berlusconi vincente, toccherà nuovamente a lei reggere le sorti dell’italica economia? Crede le sarà facile, nella compagnia che si ritroverà, applicare quanto ora afferma necessario, come ad esempio: “La mano privata è così invisibile che, proprio per questo, deve essere sostituita dalla ben più visibile mano pubblica”?

Ma di questo Tremonti non dice, nemmeno quando ne è esplicitamente invitato, al massimo si limita a citare il suo auspicio di una nuova Bretton Woods, che riordini un poco il “forsennato disordine globale”. Oppure, come sere fa a “Porta a porta”, a proposito del crescente impoverimento dei ceti più deboli, suggerisce una distribuzione gratuita di latte, pane e pasta, a ciò utilizzando il volontariato. Non credo servano commenti. Nella seconda parte del libro d’altronde dimentica del tutto “catastrofe ambientale”, “dio mercato”, ecc, e si dedica invece a discettare di “valori”. Valori cristiani precipuamente, e in pratica limitatamente all’Europa (cosa singolare, dopo il suo insistito argomentare di globalizzazione come dimensione oggi non prescindibile). Ma non entro nel merito. Lo ha già fatto ampiamente e sapientemente (e criticamente) Emanuele Severino sul Corriere della Sera.

Questa d’altronde non vuol essere una recensione del libro di Tremonti. Se me ne occupo è perché i contenuti della prima parte rappresentano una vistosa eccezione rispetto all’atteggiamento della più parte del mondo politico di fronte alla crisi ecologica: cioè a quella sorta di “rimozione” dai più messa in atto in presenza di un problema gigantesco, che, affrontato seriamente, vorrebbe la rimessa in causa dell’intero impianto economico oggi attivo in tutto il mondo. Perché quanto con tardiva conversione scrive Tremonti (salvo poi fingere di nulla, in qualche modo passando dalla “rimozione” alla “schizofrenia”) risponde largamente alla realtà che ci troviamo di fronte, e che la politica (quasi tutta) è ben lontana dall’assumere nella sua gravità. Ciò che non può stupire da parte delle destre: difficile immaginare che possano dichiarar guerra a se stesse. Ma le sinistre?

Un’economia che da un lato va dilapidando le risorse del pianeta oltre ogni sua sopportabilità e mettendo a rischio il nostro stesso futuro, dall’altro (ma questo Tremonti non lo dice) sempre più va precarizzando e sfruttando il lavoro, non potrebbe (dovrebbe?) essere per le sinistre occasione per “entrare in conflitto con il modello economico sociale e fare dell’ alternativa ad esso il proprio elemento paradigmatico”, (parole di Bertinotti durante il forum con il manifesto)?

Indubbiamente tra le file della Sinistra Arcobaleno sono molte ormai le persone pienamente consapevoli della gravità di un problema che condiziona e determina ogni momento del nostro esistere. Come con la massima chiarezza scrive Franco Giordano nell’Introduzione a “Sinistra Europea”, “Oggi l’emergenza ambientale è, indiscutibilmente, il problema cardine di ogni politica che si collochi a sinistra (…) è questione di politica generale.” Allo stesso modo, specie tra quanti si occupano specificamente della materia, esiste la coscienza di come siano sempre i più poveri (operai addetti a processi tossici, profughi in fuga da alluvioni e desertificazioni, gente che vive in prossimità di discariche o fabbriche inquinanti, ecc.) a pagare lo scotto più alto del guasto ecologico; ciò che immediatamente iscrive il problema tra le ragioni storiche della sinistra.

Eppure non sempre, nel concreto, le posizioni e le scelte politiche rispondono a questa coerenza. Non di rado anzi il problema viene interamente omesso, come una materia marginale, da accantonare quando si tratti di Politica Economica (penso ad esempio a due interventi a firma Marcello Villari e Alfonso Gianni, per altri versi di tutto rispetto), o anche quando si discute a tutto campo della necessità di una nuova sinistra (penso al Forum pubblicato su del 23 scorso, in cui l’ambiente è appena nominato, di passaggio). Così le proposte programmatiche: certo prevedono misure utili, necessarie anzi, per tentare di contenere il guasto ecologico, e però restano sostanzialmente interne alla realtà economica data, senza discuterne le logiche portanti.

Tra le sinistre il conflitto capitale-lavoro in qualche modo sembra ancora esaurire la storia. Non si considera insomma, non abbastanza, che il conflitto capitale-natura (cioè la devastazione degli ecosistemi e la possibile fine della specie umana ad opera dell’attuale modo di produzione, distribuzione e consumo) dimostra la reale irrazionalità del capitalismo, idee e macchine. Ne decreta la sconfitta. Le stesse cause della crisi attuale, di cui più nessuno nega la gravità, con tutta evidenza lo dicono. Al di là delle difficoltà immediate - finanziarie, da sopraproduzione, ecc. -parlano infatti di una duplice crisi: da un lato l’impoverimento del mondo del lavoro, che fino a ieri costituiva un enorme bacino di consumo, e quindi di profitto; dall’altro l’esaurimento delle risorse, petrolio in primis, e le conseguenze del mutamento climatico, che sempre più pesano sui fatturati. Parlano insomma di una situazione in cui accumulare plusvalore è sempre più difficile, ma in cui le cause della crisi economica sono le stesse che oggi rendono il mondo insostenibile: ecologicamente e socialmente.

E’ a partire di qui che le sinistre potrebbero, forse dovrebbero, avviare quel cambio di passo che l’intera politica mondiale chiede. Spingendo lo sguardo oltre i confini nazionali, su una realtà globale che è tale economicamente ma non politicamente, e che esige una conduzione che non sia solo quella dei grandi poteri economici. E mettendo sotto accusa una società ricca che sarebbe in grado di sfamare l’intera popolazione del globo, mentre abbiamo un miliardo e mezzo di persone sottoalimentate. Una società tecnologicamente avanzata tanto da poter soddisfare i reali bisogni di tutti con una ridotta quantità di lavoro, mentre invece gli orari continuano ad aumentare, al fine di produrre quantitativi crescenti di merci sempre più scadenti, destinate in poche settimane a finire in discarica. Una società scientificamente in grado di far vivere tutti a lungo e in buona salute, ma in cui si continua a morire di aids perché i farmaci hanno costi inaccessibili, e sempre più si muore di tumori a causa di aria, acqua, territori inquinati. Una società che, quando i mercati si fanno pigri e la produzione ristagna, ha sempre una nuova guerra di riserva, così da riattivare la produzione di armi e far ripartire il Pil. Possono le sinistre tollerare oltre una società cosiffatta?

Lo so, è un compito da far tremare, ma a cui non credo ci si possa sottrarre. E d’altronde sapere che questo è il compito delle sinistre, e dichiararlo, richiamandosi anche alle altre sinistre europee che un po’ dovunque oggi mostrano nuova vitalità, forse sarebbe un buon argomento anche in campagna elettorale.

Qualche minima differenza, sulla casa, c'è. A grandissime linee, il Pdl favorisce la proprietà mentre il Pd ha un occhio di riguardo per l'affitto. Ma a ben guardare, molte scelte sono praticamente le stesse, del resto ineludibili: incentivare il risparmio energetico, aiutare in vario modo chi non ce la fa a pagarsi un tetto, aliquota fissa sugli affitti.

Alcune indicazioni, inoltre, sono già realtà, come il bonus locazioni per i giovani, o la fine delle proroghe generalizzate degli sfratti, il che la dice lunga sulla profonda conoscenza delle problematiche del mattone da parte dei due contendenti. Ma vediamo nel dettaglio i contenuti dei programmi.

Risparmio energetico

È diventato un cavallo di battaglia e ambedue i programmi puntano sull'energia verde, anche se solo Veltroni si ricorda esplicitamente del bonus del 55%, la detrazione Irpef sulle spese effettuate per risparmio energetico: la vuole rendere permanente (ora vale fino al 2010), limitandola però ai pannelli solari. Per gli altri interventi prevede un "piano" (la parola ricorre spesso nei due programmi).

Il Pdl, invece, si limita prudentemente a promettere incentivi (che del resto già ci sono) e detassazione progressiva degli investimenti: a rigor di logica, vorrebbe dire la deducibilità totale delle spese, che di fatto, però, è sempre meno conveniente di una detrazione dall'imposta del 55% delle spese stesse.

Imposte sulla proprietà

Silenzio assoluto del Pd sui temi fiscali della casa: l'Ici, evidentemente, non si tocca (va detto che la «ulteriore detrazione» introdotta dalla Finanziaria 2008 ha già alleviato parecchio i proprietari dal peso dell'Ici).

Mentre il Popolo delle libertà rilancia la proposta di abrogare del tutto il prelievo sulla prima casa, ma «senza oneri per i comuni». Come fare? Non viene detto. Colpisce, invece, la chiara indicazione sul Catasto: i nuovi estimi, a differenza di quanto pensa il Governo uscente, saranno su base reddituale e non patrimoniale. Veltroni non affronta il tema, che invece è al centro del dibattito fra gli operatori: le due diverse soluzioni premiano, nel primo caso, i proprietari di case più costose, e nel secondo chi possiede case modeste.

Affitto

Tutti d'accordo sulla cedolare secca sugli affitti, anche se nessuno si azzarda a tirare fuori un'aliquota precisa (si è sempre parlato del 20% e i costi quantificati da Vincenzo Visco erano valuati intorno ai 4 miiardi). Unanimità anche sulla possibilità per l'inquilino di detrarre dall'Irpef una quota del canone di locazione (peraltro la norma c'è già).

Le differenze si fanno sentire un poco sulla mobilitazione, invocata da Veltroni, delle Siiq e dei costruttori. Con il loro intervento, con politiche di regolazione del mercato (non meglio identificate) e con l'obbligo di destinare agli affitti convenzionati una parte dei nuovi appartamenti dovrebbe formarsi un circolo virtuoso per consentire locazioni di mercato ma a prezzi umani. Il Popolo delle libertà, al contrario, non avanza invece alcuna proposta in questo senso.

Proprietà

Qui il Pdl è smagliante: convinti, come Einaudi, che chi possieda la casa sia un buon cittadino, gli azzurri propongono una nuova dismissione dei (pochi) alloggi pubblici rimasti e un piano casa per aiutare le giovani coppie a comprare. Il sistema proposto sembra ingegnoso: uno scambio fra proprietà dei terreni (sperando che i giovani ne possiedano) e concessioni di edificabilità.

Poi ancora, questa volta in comune con il Pd, le proposte sui mutui: agendo su norme già esistenti, il Pdl ne faciliterà la rinegoziazione, il Pd aumenterà la detrazione della quota interessi.

Ristrutturazioni

Qui il Pd è silenzioso e non chiede neppure la messa a regime del bonus del 36%, che invece è esplicitata tra le proposte del Pdl. Gli azzurri vogliono anche spingere i lavori in condominio, garantendo il pagamento degli eventuali mutui con un fondo pubblico.

Alloggi sociali e povertà

Il caro affitti e il degrado delle periferie hanno allarmato i due poli. Così sono emerse proposte diverse: sommaria quella del Popolo delle Libertà, che lancia l'idea dell'ennesima legge per le periferie (di regola ne viene sfornata una a legislatura, che resta inattuata all'80 per cento).

I democratici puntano su una serie di interventi per arrivare a una quota di alloggi sociali nella media Ue (il 10-20% contro il 4% italiano). In più, si accenna alla possibilità dell'intervento dei fondi etici, che dovrebbero fare a meno di sussidi pubblici. Pura solidarietà, insomma, però da privato a privato. Meno utopica l'idea di fondi pubblici e dell'uso delle dismissioni dei beni pubblici a fini sociali.

I brevetti legittimano le «enclosures» del sapere operate dalle multinazionali. Allo stesso tempo favoriscono la biopirateria delle virtù nutrizionali e terapeutiche di alcune piante L'appropriazione della conoscenza è giustificata attraverso le opere di John Locke, laddove il filosofo britannico parla del beneficio generale derivato dall'occupazione della «terra nullius». Oggi come allora il privato è sinonimo di innovazione e creatività, mentre il pubblico è il regno della pigrizia

Una delle idee più radicate nella cultura occidentale è quella per cui la proprietà privata sia un «diritto naturale», qualcosa di tanto spontaneo da motivare perfino un bambino: «Questo gioco è mio!». Se da molto tempo ormai abbiamo smesso di interrogarci sulle ragioni per cui certi individui «hanno» mentre altri «non hanno», ciò è dovuto principalmente al fatto che abbiamo interiorizzato l'ideologia sui caratteri «naturali» e virtuosi del diritto di proprietà private indipente dalla sua distribuzione. In questo siamo oggi tutti un po' lockiani, perchè abbiamo «risolto» il problema di una società divisa fra possidenti e non possidenti voltandoci all'indietro, con una semplice teoria fondata sulle origini remote della proprietà privata e sulla catena dei trasferimenti fondata su una nozione di «giusto titolo» originario, che prescinde quindi dall'analisi della distribuzione odierna.

Come noto, il filosofo britannico John Locke fondava la propria giustificazione della proprietà privata individuale sulla naturale attività di occupazione di risorse comuni non ancora privatizzate e legittimava il fatto che il governo civile tutelasse (con risorse di tutti, quali la polizia o le corti di giustizia) tale occupazione individuale per due ordini di ragioni: da un lato, sostenendo che l'occupante immette il proprio lavoro, e quindi in parte se stesso, nella cosa bruta, rendendola così fruttifera e quindi benefica per tutti. D'altra parte, il filosofo considerava la naturale occupazione individuale legittima soltanto nella misura in cui rimanessero comuni (e quindi libere per l'occupazione altrui) altre risorse di simile natura e qualità. Con il tempo e l'affollarsi della società, questa seconda specificazione è stata dimenticata e fa oggi quasi sorridere se applicata agli immobili. Essa tuttavia mantieneun immutato potere legittimante criptico. Certo, non esiste (quasi) più terra nullius da occupare, almeno in Occidente, e gli esempi di scuola sull'acquisto della proprietà privata per occupazione sono ormai limitati alle conchiglie sul lido del mare.

Economia dell'innovazione

Nondimeno, gran parte dell'«economia dell'innovazione» ci ha quasi ipnotizzati convincendoci che grazie al progresso tecnologico, la «crescita» possa continuare in eterno sicchè le dimensioni della torta (Pil, il prodotto interno lordo) siano la sola cosa di cui valga la pena di preoccuparsi: «Finirà il petrolio? Inventeremo la fusione fredda!». La presente generazione continui felice a bruciarlo alla guida dei suoi Suv perchè continuando a crescere l'economia, le prossime generazioni inventeranno nuove «risorse comuni» da privatizzare. Della distribuzione non vale la pena di preoccuparsi. Il benessere di tutti seguirà, automatico, alla diffusione geografica dello sviluppo e della tecnologia occidentale.

La teoria «naturalistica» dell'occupazione che lega la proprietà private al lavoro, all' innovazione e alla stessa identità dell'individuo, non giustifica quindi oggi soltanto attività bucoliche e economicamente marginali quali la raccolta delle conchiglie, dei funghi, o magari la caccia e la pesca. Essa continua a offrire una potente legittimazione ideologica a favore del privato rispetto al pubblico, descrivendo soltanto il primo come luogo virtuoso in cui l'individuo mette in gioco se stesso, lavora, rischia, investe, crea, innova. In questa luce, il pubblico è il luogo della pigrizia, della scarsa o nulla produzione di valore aggiunto, delle risorse abbandonate a se stesse e non «messe in valore» perchè nessun individuo, se la privatizzazione non è consentita, vi introduce lavoro ed investimento identitario. L'imagine è suggestiva e profondamente legata all'idea forte, protoilluminista, per cui sia un bene che l'uomo domi la natura, in particolare la terra. La virtù della terra privatizzata è simboleggiata dalle campagne inglesi, successive alle enclosures ben arate e con confini perfettamente tracciati. La terra non domata dalla proprietà private sarà invece selvatica, boscosa, piena di sterpaglia, «inutile».

Tale ideologia, oltre ad essere primitiva ed etnocentrica, risulta infantile nel suo individualismo di fondo, perchè si basa su irreealistiche premesse filosofiche, quale quelle del Robinson Crosue discusso dal teorico libertario Robert Nozick (la verità è invece che un uomo solo, in natura, lungi dall'occupare, muore perchè soltanto la cooperazione di specie ha consentito la sopravvivenza originaria e quindi la proprietàin origine non poteva che essere del gruppo).

Lo spettacolo della ricchezza

L'ideologia della proprietà privata si basa su una concezione riduttiva e semplificata del rapporto fra individuo proprietario (il soggetto) e l'oggetto del suo possesso. Essa, già poco adatta a cogliere la complessità del rapporto fra un individuo ed un bene materiale e tangibile (la terra, un libro, un piatto di spaghetti) mostra i suoi limiti teorici di fondo, ma al contempo la sua potenza suggestive ed ideologica nel momento in cui viene utilizzata per descrivere e gestire rapporti sociali del mondo che stiamo vivendo. Oggi infatti la forma della ricchezza appropriabile è sempre meno quella di beni tangibili e sempre più quella delle immagini, dell'informazione, degli strumenti finanziari complessi, delle idee innovative, in una parola della «ricchezza spettacolo» piuttosto che di quella tangibile. Ma la retorica e gli strumenti intellettuali che ne giustificano il controllo esclusivo in capo ad alcuni privati piuttosto che il loro godimento in commune non sono mutati affatto.

A chi appartiene la mitica foto scattata il 16 ottobre del 1968 a Città del Messico e ritraente Tommie Smith e John Carlos con il pugno guantato delle black panthers dopo il trionfo nei 200 piani? al fotografo? agli atleti? al nostro immaginario collettivo? Chi ha «inventato» l'uso igienico della pianta di neem considerate da generazioni di indiani la «farmacia del villaggio»? I ricchi proventi che le multinazionali del dentifricio derivano dal suo brevetto in Florida a chi dovrebbero appartenere? Alla comunità che utilizzava la pianta per igiene orale e che oggi non può più permettersela perchè i prezzi sono saliti alle stelle? O ai ricercatori che hanno «scoperto» questo antico uso? E che dire della pianta di Maca, da secoli utilizzata delle popolazioni andine e che oggi contende (appositamente brevettato) una fetta del ricco mercato dei prodotti erettili maschili vantando la propria naturalezza? Chi ha inventato la tradizione di ricerca matematica di base, indispensabile radice di tanti miracoli dell'informatica moderna che, brevettati, riempiono le tasche di Bill Gates? E che dire delle nuove frontiere di Internet, quei domain names che si possono «naturalmente» occupare pagando «appena» venti dollari (lo stipendio mensile di qualche miliardo di persone) e connettendosi in rete (un privilegio di un'infima minoranza degli umani)?

Aborigeni e Wto

Sono, queste, domande ormai assai semplici per il mainstream giuridico economico e politico del mondo globale che, grazie alla vecchia ideologia individualistica, fondata su una nozione apparentemente naturale, minima e virtuosa di proprietà privata, come fonte della creatività e laboriosità individuale, trova nelle regole della «proprietà intellettuale» codificate negli accordi Trips («Trade Related Aspects of Intellectual Property») collegati all'Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) la risposta ad ogni dubbio su chi sia o debba essere il «proprietario» dotato del potere di escludere tutti gli altri. Colpisce l'uso della medesima retorica del progresso, che legittimò giuridicamente il saccheggio delle terre nullius, che gli Amerindiani sfruttavano collettivamente ed in modo ecologicamente compatibile, non conoscendo l'idea che la terra possa appartenere all'uomo. Gli Amerindiani, infatti, credevano infatti che, insieme a tutte le altre specie animali e vegetali, appartenevano alla terra, così come ad essa ancor oggi appartengono i vari lignaggi africani in cui i viventi ricevono dagli avi il mandato a mantenere la terra nell'interesse delle generazioni future. Il rapporto fra soggetto ed oggetto può presentarsi capovolto e non è affatto detto che capovolto non debba essere anche il rapporto fra privato e publico, se soltanto si sposasse una logica un po' più attenta al lungo periodo e non una dettata dalle scadenze elettorali o dal rendiconto trimestrale con cui le corporations comunicano con gli azionisti.

Proprio come allora i conquistadores consideravano prova della natura selvaggia delle popolazioni aborigine il non conoscere la proprietà privata, oggi la comunità internazionale esercita pressioni poderose a favore dell'appropriabilità privata della terra in Africa e delle idee in Cina. La retorica utilizzata dagli apparati politici ed ideologici dell'Occidente dominante è anche oggi, come allora, quella dell'innovazione, del progresso e dello sviluppo. Molti africani tradizionali resistono o cercano di resistere alla vendita dei loro campi alla Monsanto, che corrompe il sistema per acquistarli e sperimentare l'innovazione «creativa» degli Ogm, che le consentirà di escludere pratiche collettive antichissime quali la selezione e lo scambio delle sementi. Similmente, molti cinesi sembrano ancora credere nella massima confuciana per cui «rubare un libro è una violazione elegante», non concependo l'idea che la cultura, prodotta da tutti, possa essere racchiusa in uno strumento accessibile soltanto a chi possa pagare per possederlo.

Saccheggio oligopolistico

Tali concezioni culturali, diverse dal «naturale» e virtuoso appetito acquisitivo lockiano che fonda l'intera scienza economica dominante, (inclusa la sua teoria della proprietà intellettuale come «monopolio virtuoso») secondo cui nessun individuo creerebbe se non incentivato dalla speranza di una compensazione materiale per il proprio sforzo di creatività, sono ben documente dalla letteratura antropologica. Etnie recessive ma assai sagge quali i Kayapo dell'Amazzonia, non credono che la conoscenza sia il prodotto dell'uomo ma della natura. Inoltre, secondo loro, la conoscenza è sempre intergenerazionale non potendo mai appartenere soltanto alla generazione presente. Essa è sempre ricevuta liberamente e va liberamente tramandata di generazione in generazione. Certo non può esser proprietà privata di un individuo che, anche qualora intelligentissimo ed intuitivo, deve al gruppo la sua intelligenza e a beneficio di questo devono ricaderne i frutti che del resto non sarebbe esistiti se qualcuno non gli avesse insegnato le basi.

Ma il rozzo semplicismo delle teoriche dominanti sulla proprietà intellettuale viene smascherato anche dalle frontiere della conoscenza tecnologica, dove prodotti come l'enciclopedia Wikipedia o il software Linux confutano senza appello le basi motivazionali della teoria lockiana della proprietà.

Una domanda sorge spontanea: se è stato così facile trasferire la retorica della proprietà privata dal mondo materiale a quello delle idee, non dovrebbe essere altrettanto facile tornare indietro, facendo tesoro delle contraddizioni teoriche che l'individualismo proprietario mostra quando esteso al mondo delle idee al fine di travolgerne la funzione di legittimazione della proprietà privata mal distribuita in tutte le sue forme?

Forse allora si capirebbe che la privatizzazione, lungi dal garantire creatività, virtù ed ordine giuridico altro non è che una forma, assai poco sofisticata di saccheggio oligopolistico degli spazi pubblici, per la semplice ragione che un mercato competitivo fra pari non esiste, nè potrà mai esistere, se non nella retorica incolta di qualche promessa elettorale.

A Edoardo Salzano. La mia opinione non è diversa dalla tua, così ti renderò meno lieto di quanto saresti se fosse diversa... Condivido la tua dichiarazione dalla prima all'ultima parola. Se parliamo di speranza di cambiamento gli anziani sanno che rispetto a 50-60 anni fa la speranza è diminuita. 60 anni vuol dire 1948, ossia la sconfitta delle sinistre. Ma si ricominciò subito con lena, si vinse nel '53 la battaglia contro la "legge truffa". La legge elettorale nazionale d'oggi è assai peggiore, idem le norme per le elezioni locali che hanno ridotto i Consigli, una volta luogo di decisioni davvero democratiche, a ritrovo di sudditi dei dittatori sindaci e presidenti, da un lato i consiglieri contenti dall'altro i frustrati. Si risalì la china proprio a partire dai Comuni. Man mano la forza ricostruita della sinistra costrinse la democrazia cristiana a trattare, di qui le grandi conquiste sociali e politiche che adesso di vogliono ridiscutere o addirittura negare. Non intendo raccontare come i nonni ai nipotini, voglio solo confermare che ora la situazione politica e sociale è drammatica.

Cosa aggiungere o rafforzare nella tua rassegna? Il tema trascurato nella campagna elettorale da quasi tutti e circa il quale dobbiamo esigere un impegno prioritario della nuova sinistra è quello della scuola, dagli asili nido all'università. All'inizio della contesa Veltroni ha commesso un fallo imperdonabile. Credendo di rendersi gradito a certi poteri locali opportunistici e trafficoni ha promesso 100 (100!!) nuove università sparse sul territorio nazionale. Come se il problema non fosse quello all'incontrario, dell'eccesso di proliferazione clientelare delle sedi, che quando siano piccole non possono istituire ambiti seri di ricerca, né quadri didattici a livello di una cultura complessa. Intanto la condizione universitaria dell'esistente è disastrosa; la didattica sopperisce alla mancanza di professori e ricercatori veri, di ruolo, con insegnanti improvvisati, assegnatari annuali di "contratti di diritto privato" (peraltro economicamente miseri); la ricerca - lo sanno tutti - è in crisi da decenni anche per mancanza di finanziamenti adeguati. Intanto la scuola non si libera dai lacci posti dall'irrisolta questione del rapporto scuola pubblica/scuola privata (per lo più confessionale); quest'ultima continua a incassare risorse tolte alla prima. La laicità è in crisi in ogni settore ma nella scuola, come nell'altro grande servizio sociale primario, l'ospedale, è sulla difensiva, non decolla verso nuove mete soprattutto nei primi gradi, oppure recede a causa della disperazione degli insegnanti. Il Partito democratico è pieno di papisti e di presunti laici cosiddetti fedeli, non potrà mai schiodare il problema dall'assito su cui è ben fissato il privilegio degli istituti privati e dei relativi ceti di riferimento.

Ecco. Sulla scuola, che, a ragionar bene, radunerebbe a sé tutte le altre questioni, la Sinistra l'Arcobaleno deve mobilitarsi al massimo, al di là di ogni calcolo d'oggi circa eventuali alleanze di domani (del resto improbabili al 98%).

Ho inviato a molti altri l'informazione ricevuta da Rifondazione in merito ai risultati perversi che sortirebbero dalla votazione in base alla "porcata" se la sinistra non otterrà il quorum in determinate regioni. Lo facciano tutti i frequentatori di eddyburg che siano d'accordo con la tua dichiarazione di voto.

Saluti e auguri di un combattente d'antan

Ldm (Lodovico Defendente Maria)

La lotta di classe non c’è più. Lo ha sancito in un suo recente intervento di campagna elettorale Veltroni in polemica con Bertinotti poiché essa è un retaggio culturale dell’ottocento e del secolo trascorso. Sepolte da tempo le classi sociali, ora è la volta di proclamare, quale logica conseguenza, anche la fine del conflitto di cui le classi sono portatrici. Con una battuta viene così cancellata la storia, anche quella del partito in cui Lui stesso ha militato. Nella foga di lanciare il neonato partito “riformista” verso una frontiera in cui il conflitto viene esorcizzato il Pd di Veltroni approda a riverniciate categorie del pensiero riprese dall’ammirata America. Non si tratta, come ha detto Bertinotti, di un semplice maquillage, ma di un riposizionamento vero di una linea politica e di una classe dirigente che fa proprie le ragioni del mercato e del capitale.

Bandito il termine “socialismo”, nella nuova vulgata non ci sono più padroni e operai. Non perché il capitalismo si è dissolto, ma perché entrambi sono sussunti entro la categoria di “lavoratori” che svolgono “ruoli diversi”. Il termine padrone è definitivamente rimosso a favore del più digeribile “datore di lavoro”. Lavoratori sono sia i “datori di lavoro” che i loro “dipendenti” perché entrambi si “spezzano la schiena” da mattina a sera per creare ricchezza. Poiché tutti e due fanno “impresa” esiste un “interesse comune” che dovrebbe far convergere coloro che svolgono “ruoli diversi”. Nel nuovo pensiero le differenze sociali non sono determinate dalle differenti condizioni in cui nel processo economico si presentano chi possiede i mezzi della produzione e chi invece dispone solo della propria forza lavoro, ma da una ingiusta distribuzione del reddito prodotto a cui dovrebbe provvedere la politica della concertazione. Mercato e concorrenza sono riaffermati pilastri della crescita sociale ed economica e mentre il primo deve essere esteso ovunque, liberalizzando i settori o comparti ancora “protetti” dallo Stato, il secondo deve essere incentivato liberandolo dai lacci e laccioli che la politica vi ha inserito. Il credo della dottrina liberista “meno stato e più mercato” viene assunto a riferimento per le politiche economiche poiché il privato, “rischiando del suo”, è il solo soggetto che è spinto a far fruttare nel modo più efficiente i “fattori della produzione”. La liberalizzazione viene invocata quale presupposto della concorrenza poiché è quest’ultima il meccanismo che consente di contenere o ridurre i prezzi delle merci. Liberisti con i soggetti deboli ma protezionisti con le banche, specialmente quelle grandi, poiché il loro fallimento trascinerebbe nel baratro l’intero sistema economico. Ai “lavoratori dipendenti” viene chiesta “flessibilità” perché ciò è imposto dalla nuova divisione internazionale del lavoro e dal mercato. E se la “flessibilità”, che è un bene, si accompagna alla “precarietà”, che è considerata un male, quest’ultima non deve diventare motivo per mettere in discussione la prima. Nel mercato del lavoro anche il salario deve essere flessibile e derivare dalla produttività, non quella media settoriale o nazionale, ma quella della singola azienda. Da qui la necessità di superare i contratti nazionali di categoria e incentivare, con politiche fiscali, quelli di secondo livello. Se poi non si fanno, poco male, perché si ha fiducia nelle generosità delle imprese che sanno premiare i meritevoli. Poiché la detassazione di salari e stipendi deve favorire la produttività aziendale, essa deve riguardare solo l’allungamento del tempo di lavoro (straordinari). Al diritto al lavoro, sancito dalla Costituzione, si preferisce il meno rigido diritto all’”opportunità di lavorare”. Ci fermiamo qui.

È grazie a questa revisione politico culturale che nel Pd si vuole, mistificando, far convivere l’operaio della Thyssen con il suo antagonista, l’ex presidente di Federmeccanica, che ha firmato il contratto nazionale solo grazie alle deprecate lotte sindacali. É la nuova politica del “ma anche”. Ma chi “conterà” quando si tratterà di prendere decisioni di politica economica e di politica del lavoro, il giovane Colaninno ed il falco Calearo o l’operaio della Thyssen? Chi avrà la meglio tra la giovane precaria messa in lista ed il prof. Ichino, che da anni si batte per la cancellazione dello statuto dei diritti dei lavoratori? Chi la spunterà tra le new entry di Legambiente e Di Pietro?

Si sancisce la morte della lotta di classe mentre il mondo è attraversato da lotte che oppongono lavoratori ai capitalisti, oppressori ad oppressi per la conquista di migliori condizioni di vita e di diritti sociali. Non è culturalmente e politicamente onesto cancellare la storia introducendo una cesura tra il presente e il passato, come se le evidenti contraddizioni insite nel sistema capitalistico non esistessero più solo perché vengono rimosse dalla coscienza e dal pensiero. Non siamo nel mondo dell’armonia e la sua invocazione non basta a giustificare una pratica politica che mira a conservare l’ordine presente. Le classi sociali subalterne, anche dopo le elezioni, si troveranno comunque a lottare per la conquista di migliori condizioni di vita, ad ennesima riprova che la lotta di classe non è una invenzione dato che scaturisce dall’esistenza delle differenze socioeconomiche che stanno alla base del sistema economico vigente.

Andrea Rossi è Consigliere PRC Provincia di Lodi, Pierattilio Tronconi è Consigliere PRC Comune di Codogno.

Sull'argomento, anche gli articoli sul salario di Luciano Gallino, Giorgio Ruffolo e Andrea Nove e quello su La ricchezza sbagliata di Nicola Cacace

Che campagna elettorale! Poche idee, bassezze, graffi, scuse, perfino Vespa si annoia. Nel Popolo della Liberta gli slogan di sempre sono pieni di disprezzo per l'avversario. Berlusconi aggiunge una prudente allusione ai tempi difficili che verranno - recessione, euro troppo alto, petrolio alle stelle - per cui (ma non lo dice) si stringerà la cinghia. Invece Veltroni gioca la carte delle buone maniere anche se ieri gli è sfuggito un «chi vince comanda», a prova che della democrazia hanno la stessa idea.

Lui però non mette in guardia dalle imminenti vacche magre: macché pericoli provenienti dall'esterno, sono state la sinistra e i centro-sinistra a sbagliare tutto, facendosi legare le mani dalla nefasta ideologia che contrapponeva padroni e operai, proprietari e spossessati, beni privati e beni pubblici. Usciamo da questa paralizzante menzogna! Lo pensa anche Galli della Loggia. Passate le redini in mani più giovani e refrattarie alle fantasie sociali l'Italia rifiorirà.

Bankitalia e l'Ocse informano che abbiamo in Italia i salari più bassi dell'Europa, neanche la Grecia, ma solo Bertinotti raccoglie. Gli altri tacciono perché la Banca Centrale Europea comanda: guai ad alzarli, i salari, sarebbe l'inflazione. I salariati non hanno da fare che una cura dimagrante in attesa di tempi migliori.

Eppure all'aeroporto mi hanno avvicinato due giovani, due facce pulite: Questo Veltroni, quale speranza per noi! E lei che ne pensa? Rispondo ridendo: Il peggio possibile. Sorpresa. Li guardo, due ragazzi cui il leader rinnovatore, le playstation e la tv assicurano che viviamo in un mondo senza conflitti, eccezion fatta per l'amore, la mafia e il terrorismo islamico. Che strada in salita li attende per rimediare alla devastazione di quel minimo di critica dell'economia e di spessore democratico cui eravamo arrivati. Non penso agli estremisti, ma a uno come Caffè, uno come Bobbio, miti persone serie, anch'esse consegnate da Silvio e Walter alle pattumiere della storia.

Non stupisce che nella generale piattezza tornino a brillare le religioni con i loro lampi lontani, ma la vicina tentazione di una nuova egemonia. Non tutte, intendiamoci, da noi si agita la chiesa cattolica apostolica romana, cujus regio ejus religio. Ratzinger parla dallo schermo ogni due giorni più la domenica, negli altri predicano i cardinali Bertone e Bagnasco. Degli altri culti approda in tv solo il Dalai Lama, ma perché perseguitato dalla Cina. Non ci arrivano le sue parole. Non la sapienza dell'ebraismo, non quella dei protestanti: la comunità ebraica italiana si fa sentire solo in politica, i secondi sono avvezzi a essere ignorati.

Silvio e Walter e Casini omaggiano più di ogni altro il Sacro soglio, ma con il ritorno del sacro hanno frascheggiato tutti. Politici e filosofi, maschi e femmine pensanti. Adesso che se ne vedono le conseguenze, più interventismo che spiritualità, proporrei alla sinistra di mettere fra le tre o quattro priorità un bel ritorno al laicismo.

Eh sì. Si finisca di traccheggiare con «laicità sì, laicismo no». E' una distinzione inventata da poco, che in parole povere vuol dire: la Chiesa ingoi la separazione dallo stato nei termini costituzionali, purché applicata «con juicio» e con i consueti strappi sottobanco, tipo esenzione dalle tasse e accomodamenti con la scuola privata . Ma ad essa lo stato deve riconoscere la competenza sulla sfera morale e del costume. Il bieco laicismo la nega, una laicità come si deve è tenuta invece a riconoscere l'autorità del papa su questo terreno.

Io penso che questa autorità non vada riconosciuta affatto. Prima di tutto, come si può parlare di etica, di scelte morali, là dove non esiste libertà di coscienza? Mi ha sorpreso che uno dei nostri amici più colti, Massimo Cacciari, abbia definito Karol Woytila come la più alta autorità «morale» dei suoi tempi. Si può parlare di fede, ed è vero che l'esperienza di fede può raggiungere grandi altezze, affascinanti, tragiche. Si può ammettere che sono spesso legati a una «rivelazione» gli squarci sapienziali che intemporalmente ci parlano. Ma fede e sapienzialità implicano una obbedienza che mette duri limiti al sapere critico e ai suoi strumenti, senza i quali non si darebbero né la modernità né un pensiero scientifico e tanto meno politico. Tanto più che a imporre limiti e veti sono le chiese, strutture del tutto terrestri e facilmente prevaricanti. Non hanno persuaso per secoli che il potere terreno fosse la mera proiezione della gerarchia teologica? Non a caso la rivoluzione francese è dovuta passare attraverso l'uccisione del re, autorità che si forgiava su quella celeste e ne era consacrata.

Dalla secolarizzazione la chiesa cattolica apostolica romana non si è mai rimessa. Spento Giovanni XXIII è stato tutto un lento rimuovere quel che ad essa concedeva il Vaticano II. Con Ratzinger la rimozione è diventata precipitosa. Specie in Italia non deflette dal riguadagnare terreno. E' ridicola l'argomentazione che si fa perché il Vaticano ha la sua sede nel nostro paese. In realtà qui ha sede la classe politica borghese più cedevole d'Europa. Il Vaticano neppure tenta in Francia una incursione sulle leggi del 1905 (che sarebbero di utile lettura ai nostri politici) e Zapatero ha messo un alt secco al tentativo di intervenire sulle elezioni in Spagna. Da noi i governi ritirano le leggi appena i vescovi vi mettono il becco.

La vicenda dei rapporti italiani fra stato e chiesa è fin paradossale. Il fascismo ha fatto il Concordato nel modo più cinico: nelle scuole elementari si cominciava con una preghiera ma poi si propinava in tutte le salse una paganissima romanità. Dopo il 1945, il Concordato sarebbe stato abolito se il miscrendente Togliatti non avesse scelto di lasciarlo in piedi per timore di una guerra di religione che isolasse i comunisti, e fu un errore, la guerra ci fu lo stesso, i comunisti furono scomunicati. Sarebbe stato il cattolico De Gasperi ad arginare le velleità integraliste di Gedda, cosa che Pio XII non gli perdonò. Sempre paradossalmente fu Craxi, primo ministro socialista, a confermare e rimaneggiare il Concordato, mentre il credente e praticante Scalfaro fu l'ultimo presidente della repubblica a non inchinarsi al santo soglio. Poi c'è stato il diluvio. Alla morte di Karol Woytila, un capo di stato dietro l'altro finirono in ginocchio, mentre i leader dei partiti di sinistra scoprivano di essere andati a scuola dai salesiani. L'Opus Dei usciva con fragore alla luce dalla clandestinità e la signora Binetti transitava direttamente al Partito democratico.

Ecco dunque una bandiera da raccogliere da parte di una sinistra che voglia restare una cosa seria. Raccogliere bandiere lasciate cadere da qualcun altro ha un suono un po' sinistro, ma afferrare quelle sventolate della chiesa cinguettando con i vescovi è una patente regressione. Fino al ridicolo. Come definire altrimenti la decisione del comune di Roma di non celebrare unioni se non eterosessuali perché il Sacro Soglio è collocato sul suo territorio? Come lasciare che i vescovi mettano il veto a una legge del parlamento sottoposta a referendum senza invitare il Vaticano a restare al suo posto? Come assistere senza aprir bocca ai ripetuti tentativi di questo o quel primate di resuscitare il Non Expedit? Se è un affare interno della Chiesa affossare passo a passo il Vaticano II, umiliando una grande speranza dei credenti, sarà bene un affare interno dello stato legiferare senza interferenze sulla famiglia, sulla sessualità, sulla riproduzione, sul diritto di morire con dignità. Da questi terreni che ineriscono alla più intima libertà anche lo stato dovrebbe ritrarre il piede, rispettando le scelte della persona, e prima di tutto quella delle donne, da sempre ossessione e bersaglio d'una chiesa tutta maschile. Una grande mutazione sta venendo da esse e ne esce mutata anche la concezione della vita e della morte - uno stato moderno, attento, prudente segue questa evoluzione non lascia alla Chiesa di emettere una fatwa alla settimana. Certo, bisogna che abbia un'idea di che cosa sia un'etica pubblica, quella che matura discutendone in libertà e responsabilità, alle soglie del terzo millennio. Ma di questo i leader del «paese normale» non hanno cura.

Loro hanno i «valori». Meno stato più mercato per i beni, meno repubblica più Vaticano. I «valori» di Berlusconi, quelli di Veltroni, quelli di Casini, quelli di Emma Mercegaglia, quelli del cardinal Bagnasco. Se ne fa un gran parlare. Un «valore» accompagna ogni vassallata, ogni porcheria. Se mi si permette (e anche se non mi si permette), molti di noi ne hanno abbastanza. Inciampiamo a ogni passo in valori di latta, mentre si torna a guardare con più disprezzo che un secolo fa alla vita e alla libertà di chi lavora nel frenetico accendersi e spegnersi di migliaia di imprese senza regole. Assimilati ormai ai poveri, cui si deve al più un briciolo di compassione.

Se non è declino morale questo, travestito da affidamento ai principi della Borsa, della Confindustria e di oltretevere, la ragione non ha più corso.

Certe volte basta una parola, una frase: come quella del cavalier Berlusconi che sabato 8 marzo, parlando della formazione delle liste dei candidati, ha detto sorridendo che era stata una fatica terribile «decidere del destino degli altri». La frase entrerà forse stabilmente nel lessico politico. Ma già da oggi indica una realtà di fatto e dà voce ad una convinzione diffusa: quella che affida sempre più al solo leader, senza impacci o intralci di alcun genere, il compito di dimostrarsi padrone dei destini degli altri. Badiamo bene: il sorriso compiaciuto e un po’ autoironico con cui quella frase è stata pronunziata significa che non siamo davanti al ritorno sulla scena italiana della tragedia del fascismo e di un tardivo replicante dell’Uomo del destino (detto anche della Provvidenza). È vero che tante cose ritornano, ma sono tante anche le cose cambiate. E poi i destini del popolo come si diceva una volta, o della gente come si dice oggi, qui entrano in gioco solo indirettamente. Quelli di cui si tratta per il momento sono i destini di chi aspira a entrare in Parlamento. Pochi, in ogni caso; e i poteri del leader, per quanto miracolosi, non sono assoluti. Nemmeno gli dèi antichi erano capaci di salvare Ettore o Achille, figuriamoci cosa avrebbero potuto fare con un Mastella.

Ma quelle parole corrispondono alla realtà dei fatti, almeno di quelli della politica italiana. La stesura delle liste dei candidati è il momento decisivo della prefigurazione del futuro Parlamento; e la decisione tra chi salvare e chi sommergere non è più nelle mani degli elettori. Alle loro idiosincrasie, agli scatti residuali ed estremi non prevedibili dai sondaggi, resta appena la possibilità di spedire qualche candidato dal purgatorio di una collocazione nella zona a rischio della lista al paradiso del Parlamento o all’inferno dell’anonimato. Ma le figure che abiteranno il Palazzo sono scelte da altri. Lo dimostrerà la conta degli eletti e degli esclusi che faremo alla fine del gioco.

Tutto questo lo sappiamo: ma forse bisognerebbe riflettere in questa occasione alla svolta storica che si viene compiendo sotto i nostri occhi. Da quando gli antichi greci scrivevano un nome su di un coccio di ceramica – e per gli italiani a partire dall’introduzione del suffragio universale e da quel giorno del 1946 in cui perfino le donne per la primissima volta nel nostro Paese si ritrovarono tra le mani le schede elettorali – il senso di appartenenza a una società si è legato al potere di scegliere un nome e di rifiutarne un altro. È stato decidendo sui nomi che abbiamo pensato di essere dei sovrani, come ci assicurava la Costituzione repubblicana. Sovrani parziali, in collaborazione e in conflitto con tante altre teste coronate quanti erano gli abitanti del Paese: ma sempre sovrani. Un principe senza scettro, come si intitolò un bel libro di Lelio Basso sulla Costituzione, ma almeno senza più uomini della Provvidenza a decidere per noi e su di noi. Niente più finestre illuminate e notti insonni a Palazzo Venezia dove un solo uomo, il cavalier Mussolini, pensava al destino di tutti.

Dopo di allora sono seguiti anni lunghi, di contrasti e di pensieri diversi. Altri poteri, interni ed esterni all’Italia, hanno fatto sentire il loro peso, con le buone – aiuti economici, propaganda e altro – o con le cattive (gli attentati, le bombe, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro). È rimasto però nel nostro Paese un attaccamento forte, di cuore e di testa, a quel rito elettorale: e questo è un fatto che riguarda la grande maggioranza del popolo italiano. Non per niente, mentre altri e più "moderni" Paesi hanno registrato un diffuso assenteismo elettorale, le percentuali italiane sono rimaste alte, spesso altissime. Elettori mai soddisfatti, sempre più diffidenti, costretti sulla difensiva, gli italiani hanno continuato a fare croci su nomi e simboli.

Ma intanto c’era chi giocava a truccare le carte, a modificare le regole del gioco. Così è cambiata la legge elettorale. Chi l’ha scritta per conto dell’ultimo governo Berlusconi l’ha definita una porcata. Chi l’ha varata ha mirato a intorbidare oltre ogni limite il rapporto tra il voto dei cittadini e la formazione delle maggioranze di governo. Dei suoi nefasti effetti ha fatto le spese un governo Prodi prigioniero di infiniti ricatti, praticamente impossibilitato a governare. E quando ha dimostrato di volerla cambiare il governo Prodi è stato fatto cadere.

È in questo quadro che si iscrive la frase che abbiamo citato: decidere il destino degli altri. Nella notte del leader è stato deciso il destino dei candidati: gli eletti da un lato, gli scartati dall’altro. Ai votanti con le regole attuali resta una scelta elementare: prendere o lasciare. Non c’è più nemmeno il voto di preferenza, residuo dell’antica sovranità. La lista degli eletti era già diventata cosa di apparati, alla ricerca di una difficile sintonia col popolo degli elettori. Oggi il traguardo finale è in vista: e, come nelle tappe di montagna del giro d’Italia al tempo di Coppi e Bartali, mentre gli apparati arrancano si annuncia un uomo solo al comando.

Chi pronunziava quella piccola frase voleva piacere: quelle parole erano cariche di una volontà di seduzione. Così l’avranno sicuramente intesa molti cittadini italiani frastornati dalla propaganda e impauriti dalle ombre di un presente non facile. Che cosa c’è di più riposante che mettere tutto nelle mani di un generoso e grande fratello? Ma a qualcuno quella stessa frase avrà forse ricordato come e perché e per colpa di chi il popolo degli elettori che si presenta a questo appuntamento è diventato un popolo a sovranità limitata.

«La sinistra si gioca la pelle». Fausto Bertinotti non lo dice esplicitamente ma la posta in gioco alle prossime elezioni secondo lui è abbastanza chiara. In questo lungo forum con il manifesto, il candidato della Sinistra arcobaleno non nasconde il fallimento del governo Prodi né le difficoltà del «nuovo soggetto unitario e plurale». Quasi due ore di intervista a tutto campo: dalle liste elettorali alla doppia sfida contro la destra e contro il Pd.
Inevitabile partire dal governo Prodi e dalla sua caduta. Da un male può nascere un bene?

Sì. Sì, se si determinano una discontinuità e una rottura vere. Altrimenti saremo marginalizzati o travolti da una «rivoluzione passiva». Il punto da cui partire secondo me è l'efficacia di una politica di sinistra - e per sinistra io intendo una forza che pur con tutte le innovazioni eredita dal movimento operaio del '900 il tema dell'uguaglianza e della trasformazione della società capitalistica nel suo tempo. Per rispondere al problema dell'efficacia, nel 2006 avevamo scelto la partecipazione a un governo di centrosinistra. Anche perché, dopo cinque anni di Berlusconi, c'era una tale attesa nel paese che l'alleanza di governo era una strada quasi obbligata. L'abbiamo presa puntando tutto su un programma molto dettagliato. Perché così dettagliato? Perché era il tentativo, un po' ingenuo, riconosco ex post, di ottenere quelle garanzie che non ci sembrava possibile ottenere per via politica. Andando alla concretezza dei dettagli potevamo chiedere agli altri: facciamo proprio questa cosa che c'è scritta qui.

Più che un programma è stato un contratto?

Sì. Ma non ha funzionato e dico subito che è stato un errore di cui mi prendo la mia parte di responsabilità. Sostituire a un chiarimento strategico pressoché impossibile un castello di dettagli programmatici si è rivelata una forzatura.

E' stata una disgrazia o una fortuna che sia caduto Prodi?

Formula antipatica. E' una fortuna se tutti coloro che si sentono di sinistra prendono atto che quella storia lì, cioè la possibilità di costruire una politica riformatrice prevalentemente dal governo con un'alleanza tra forze diverse, è finita. Perché sia una fortuna dobbiamo cambiare il gioco e dire che il centro del nostro interesse è costruire una sinistra. Non più trovare una risposta qui e ora al tema dell'efficacia attraverso alleanze e governo ma di ritrovarla più avanti nel tempo costruendo un nuovo soggetto politico di sinistra.

Ma in campagna elettorale questa proposta non rischia di essere poco credibile?

No, perché se facciamo la campagna elettorale dando l'idea che la Sinistra arcobaleno è un cartello elettorale non rispondiamo al tema dell'efficacia. E' invece un investimento a redditività differita, facciamo una cosa oggi aspettando un risultato domani. Chiedo di votarci in primo luogo per aiutarci a fare una sinistra di alternativa. Non tanto e non solo per come stiamo in questa competizione elettorale ma per costruire la vera novità: un soggetto unitario e plurale della sinistra che oggi in Italia non c'è e domani ci deve essere.

Ma dov'è l'elemento di discontinuità? Proponi comunque un soggetto politico pensato dall'alto.

Non ci giriamo intorno: senza un protagonismo dei partiti il soggetto non si può costruire. Prc, Pdci, Sd e Verdi sono un serbatoio di storie, conoscenze, esperienze e lavoro politico imprescindibile. Ma accanto ai partiti ci sono almeno altre due componenti. Una è la sinistra «diffusa»: associazioni, movimenti, giornali, club, centri sociali, che sono già organizzati ma che non si riconoscono nelle forme dei partiti. Non perché sia qui, ma uno dei pochi momenti di gioia in questa campagna elettorale è stato quando ho letto la vostra prima pagina che annunciando le edizioni del lunedì diceva: «Noi ci siamo». E' un impegno che vorrei si moltiplicasse. La terza componente è una sinistra «potenziale», fatta di componenti sociali, culturali o civili che oggi sono impedite a collocarsi in politica per il suo linguaggio o per la sua natura.

Per esempio?

Il primo e il più grande sono gli operai, che sono uno dei drammi di questa vicenda elettorale. Il giorno dello sciopero dopo la strage della Thyssen Krupp in piazza era apprezzabile anche fisicamente una distanza enorme. I fischi al segretario della Fiom, impegnato tra l'altro nella lotta contrattuale, rendevano evidente che non si trattava di fischi «politici» - Non ci piace questo sindacato ma ce ne piace un altro -. Fischiavano perché i cancelli della fabbrica che il '68-'69 aveva aperto si sono chiusi. Il «noi» della fabbrica comunque declinato - noi classe operaia, noi comunisti, noi Fiom, noi Cgil, noi sindacato dei consigli, noi rivoluzionari - per la prima volta era un noi chiuso: noi operai che rischiamo di crepare diversamente da tutti voi che avete un'altra vita e state da un'altra parte. L'abbattimento di quel muro per me è necessario perché lo conosco da vicino ma ce ne sono altri. Penso che ci siano tantissimi «territori» potenzialmente di sinistra - per esempio la cultura ambientalista o femminista - che vivono un processo di sfruttamento e lo criticano ma non sono in condizioni di mettersi a disposizione di un progetto politico.

Però la rappresentanza della contraddizione operaia a fronte di scarsi consensi della sinistra al Nord non pone un problema vero?

In un certo senso non è mai stato vero. A Brescia potevi avere la più radicale lotta operaia e contemporaneamente il voto alla Dc. Negli anni '80 a Brescia o a Bergamo molti iscritti alla Fiom votavano Lega. Tuttavia il tema esiste anche in rapporto al Pd: esiste o no oggi una possibile interpretazione di classe della società? Esiste o no una formazione economica e sociale su scala mondiale che può essere chiamata capitalismo non come un'invettiva ma come l'interpretazione della società? Io penso di sì. Secondo: questo capitalismo tende alla mercificazione e all'annichilimento degli spazi di libera scelta e di autogestione più di quello precedente? Io penso di sì. Terzo: esiste ancora su scala mondiale e locale una contraddizione fra capitale e lavoro? Ancora sì, e questo è un punto cruciale per la costruzione della Sinistra arcobaleno: questa nuova soggettività politica deve entrare in conflitto con il modello economico sociale e deve fare dell'alternativa ad esso il suo elemento paradigmatico.

Rovesciamo la prima domanda: c'è qualcosa che in un ipotetico governo di sinistra varrebbe la pena rifare?

Fra le cose fatte ce n'è una che difenderei: la politica internazionale. Naturalmente è stato un compromesso, però lo difendo: dal ritiro delle truppe in Iraq fino al Libano e alla politica in Medio Oriente, a un Atlantico un po' più ampio, al riconoscimento di ciò che avveniva in America latina e in Africa via via fino alla cosa che soffro di più come il continuamento della presenza in Afghanistan. Anche lì la conferenza di pace ha offerto uno spiraglio...

...E il riconoscimento dell'indipendenza del Kosovo?

No. Qui penso che sia un errore e basta, che però condividiamo con tutta l'Europa e che è la conclusione di un ciclo drammatico che ha prodotto una neobalcanizzazione drammatica. Diciamo che è un errore che conclude un itinerario di errori. Però sostanzialmente la politica estera dell'Unione io la difendo. Purtroppo non abbiamo raggiunto lo stesso compromesso sul terreno economico-sociale e su quello dei diritti, basti pensare che in politica economica è tornata la logica dei due tempi. Non è che critico un provvedimento piuttosto che un altro, è proprio l'ispirazione complessiva che non ha funzionato: sulla precarietà, sulle pensioni, sui salari. Noi abbiamo cercato il compromesso, ma anche sui diritti civili è andata male.

Prima parlavi di un muro da abbattere tra operai e la gente che sta fuori. Ma non c'è un muro da abbattere anche tra i partiti e gli elettori? Se le parole chiave di questa nuova sinistra sono rinnovamento e partecipazione dove le vediamo? Le liste sono formate esclusivamente dai partiti, i gruppi dirigenti sono sempre gli stessi, tu stesso fai politica da molti anni per costruire questo soggetto unitario. Non credi che ci sia un deficit di credibilità?

No. Un deficit di credibilità no, un processo faticoso sì. Per favorire il rinnovamento ognuno deve dare il suo contributo e il mio lo vedrete tra 40 giorni.

E' una notizia?

No. Lo sapete tutti che ho scelto di non avere nessun incarico di direzione in questo nuovo soggetto. Proprio perché penso che non solo bisogna fare un rinnovamento generazionale, che pure è necessario, ma anche cambiare le forme di organizzazione. Adesso noi siamo in un imbuto e facciamo il fuoco con la legna che abbiamo. Lo dico chiaro già da ora: queste liste elettorali non saranno convincenti. Chiedo uno sforzo di comprensione al popolo, a tutti: «Siate generosi». Perché non c'è un terreno più infido e più complicato di quello della rappresentanza, lo sappiamo bene. Questo vale per tutti ogni volta che si deve formare un organismo dirigente. E non è una giustificazione. Quando diciamo innovazione dobbiamo essere pronti. E' curioso che molti di noi che hanno alle spalle una storia di critica delle forme di organizzazione non genericamente della politica ma del movimento operaio e della sinistra lo hanno fatto quando queste organizzazioni erano forti e possenti. E oggi che bisognerebbe lavorare ad una ricostruzione della sinistra questo elemento critico viene un po' dimenticato. In questo passaggio così difficile chiedo uno sforzo di generosità, è comprensibile che quando si mettono insieme i soci fondatori vengano un po' tutelati. Non è bene che la formula «bombardate il quartier generale» venga invocata dall'alto ma in ogni modo penso proprio così: che bisognerebbe che ricominciasse subito un'altra storia. Che cioè già in campagna elettorale si costituissero non dei comitati elettorali ma i comitati per la Sinistra arcobaleno. Spero che si possano aprire «case della sinistra arcobaleno» già in queste settimane, anche facendo sì che le sedi dei partiti vedano sovrapporsi al proprio simbolo un altro cartello e un'altra forma di partecipazione. Una volta sofferta la composizione delle liste, piuttosto che recriminare affoghiamola moltiplicando i luoghi della partecipazione. Insomma dobbiamo davvero aprire una fase costituente.

Non è però un problema solo di liste elettorali. Non si può ignorare che nella sinistra arcobaleno convivono oggi prospettive completamente diverse sul suo futuro. Almeno tra i Verdi e il Pdci. Come rispondi a questo problema?

Le resistenze vanno battute ma i voti vanno presi. Questa operazione non sopravvive e non decolla se non ha un risultato elettorale. Quindi intanto pancia a terra avanti come siamo. E' indispensabile all'impresa, lo dico a tutti. Ma poi penso che questo soggetto unitario va fatto. Voglio rispondere a chi solleva il tema dell'identità anche se non lo condivido nelle sue forme. L'identità è comunque un problema reale se il processo è vero, aperto e inclusivo. Se invece si fa un'operazione asettica di pura razionalità politica sbagliamo. Il problema della costruzione di un popolo è anche il problema dei simboli e dunque fa parte del processo costituente. Quindi: il massimo di apertura e contemporaneamente il massimo di determinazione. Le resistenza vanno battute. Il chi ci sta è decisivo. Io sono perché ci siano tutti, anche di chi è più lontano da me. Ma poi la battaglia politica deve essere aperta e a tutto campo. Non ci sono recinti e depositi privilegiati per la costruzione di questo soggetto.

A proposito di identità e prospettive. Tremonti e la Lega affrontano la crisi della globalizzazione con una chiusura nazionalistica. Da 120 anni la sinistra ha una visione opposta. Oggi?

Schematizzo al massimo. Della destra tutto si può dire tranne che non sia dotata di realismo. Siccome la crisi c'è e deve difendere interessi reali risponde brutalmente con una nuova combinazione di liberismo e populismo che è il protezionismo. All'ingrosso: liberisti nei rapporti economici, protezionisti nei rapporti tra stati. Ma il Pd a sua volta fa un'operazione di sistema. Dallo scioglimento del Pci a ieri c'è stata una controriforma graduale e non dichiarata ma sempre collocata a sinistra. Oggi invece è indicativo che la parola «sinistra» venga cancellata anche nel nome. Non è maquillage, quella di Veltroni è un'operazione che va presa sul serio. Sempre quando la sinistra è in difficoltà diventa aristocratica e sottovaluta i problemi. L'abbiamo fatto con Berlusconi ora rischiamo di ripeterlo con Veltroni. Quello del Pd è un riposizionamento vero: è la richiesta di cancellazione del conflitto. Sia sul terreno della lotta di classe che in quello del lavoro. Il conflitto viene cancellato come se fosse un fraintendimento dei vari portatori di interessi. Dunque lo schema di destra è comunitario-protezionistico, quello di centrosinistra è la dissoluzione delle fisionomie sociali e dei diritti. Di fronte a queste due ipotesi di «sistema» la sinistra è alternativa alla prima e critica con la seconda.

Perché vi alleate con il Pd nelle città? In una battuta: è meglio Rutelli sindaco di Veltroni premier?

Noi dobbiamo valorizzare le autonomie e ripensare un sistema elettorale in cui ci sia autonomia di movimenti, soggetti politici e realtà sociali. In questa prospettiva i corpi intermedi - sindacati, associazioni, il volontariato ma anche gli enti locali - hanno una grande rilevanza. Ma per quale ragione dovremmo privarci del governo delle città?

Forse perché Rutelli ha già chiarito che un albo delle unioni civili a Roma non lo farà mai. La critica che fai al governo Prodi non rischi di replicarla domani in cento città?

E' un rischio ma è anche la possibilità di aprirsi spazi significativi. Pensiamo a Napoli. Dal governo locale possono venire aperture a spazi di organizzazione nella società molto significativi, poi naturalmente mi si può dire: ma che politica urbanistica fai? Che politica dei trasporti fai?

Il governo locale è più permeabile di quello nazionale?

Sì. Anche per un'esperienza finita così male come quella del governo Prodi. Porsi il problema del governo è indispensabile, perché se da un lato c'è il rischio dell'omologazione dall'altro c'è quello di chiamarsi fuori, in forme politiche non dico estremistiche ma semplificate e banali, che non fanno i conti con la durezza e la complessità della mediazione. Puoi riuscirci o no, ma quel cimento è obbligato.

C'è il rischio che questa formazione della sinistra appaia una cosa vecchia. Di cultura si parla poco in questa campagna elettorale. La Rai, la televisione, è il veicolo attraverso il quale si è formata anche una cultura, disastrosa, dell'Italia. Oggi l'unica cosa a cui si pensa è sganciarla dai partiti e privatizzarla. Voi a quale tv, a quale Rai, pensate?

Questo campo pone una questione davvero cruciale: il problema della costruzione di un senso comune, che possiamo anche chiamare la questione dell'egemonia. Su questo abbiamo accumulato molti ritardi. E una delle ragioni è la scomparsa di luoghi di ricerca comune e di formazione sui grandi temi di fondo della società. La politique d'abord ci ha massacrati. Bisognerebbe creare una scuola, un diavolo di luogo dove si possa organizzare e pensare sistematicamente, perché scuola, radio e televisione, nuovi strumenti di comunicazione, nuove produzioni di arti e di cultura, obbligano a ripensarci organicamente. Penso che, come per la scuola, il tema della ridefinizione di una missione della tv è fondamentale; tutte le discussioni in cui spesso ci avviluppiamo - tre, quattro, cinque reti - contano poco. Persino la contesa con Mediaset - rischio di apparire un bestemmiatore - conta poco quando il linguaggio è unificato e non si distingue più un programma del servizio pubblico da uno di Mediaset. Per la Rai bisogna aprire una discussione sulla sua missione, marcandone sia nel contenuto che nel contenitore il carattere di spazio pubblico. E in questo caso continuo a pensare che la forma migliore sia il più vicino possibile all'autogoverno. Se tu mi chiedi: chi governa la Rai? Ti dico: chi ci lavora. Ma se tu mi chiedi che i partiti si ritirino, sono disposto solo a favore dei lavoratori. Sennò perché devo liberarmi?

Proprio il 13 marzo avete indetto un sit in di fronte alla Rai.

Se dobbiamo andare a viale Mazzini per chiedere un minuto in più è meglio stare a casa. Invece vogliamo marcare il carattere di servizio pubblico, e dentro questo spazio chiediamo una complessiva capacità di informare sottratta al vizio di una logica duopolistica.

Hai detto che la sinistra si deve porre il tema dell'uguaglianza. Fai quattro proposte secche per stabilirla una situazione di stagflazione, di recessione. Qualcosa che vi distingua dagli altri partiti.

La prima è l'aumento dei salari, degli stipendi e delle pensioni. Cosa a cui va attribuita un'importanza grandissima. Uno più importante di me diceva: contro i padroni aumento dei salari. Io dico: contro la recessione aumento dei salari. Salari, stipendi e pensioni sono così bassi che il loro aumento determinerebbe una possibilità di spesa immediata e in qualche modo questo risponde insieme ad un criterio di giustizia e a un criterio di domanda. Secondo: in alternativa alle grandi opere, che rischiano di suggestionarci anche dal punto di vista dell'occupazione, proponiamo un grande programma di opere pubbliche costruite al contrario: mettere a sistema la difesa idrogeologica del paese, costruire le case popolari. Un intervento di civiltà, di valorizzazione ambientale e di beni comuni come il patrimonio artistico-culturale. Cioè non un'operazione di devastazione ma di arricchimento di risorse che sono anch'esse un argine contro l'impoverimento, dall'acqua fino agli asili nido. Terzo, l'energia: al contrario del nucleare e del carbone, vogliamo accompagnare quello che sta già accadendo nel paese. A Milano si costruisce un nuovo Politecnico tutto in funzione dell'energia solare. Quanti progetti come quello possono essere avviati in Italia? Quarto, il salario sociale: l'idea di una dotazione in denaro e in servizi per i giovani che entrano nel marcato del lavoro, siano essi disoccupati o precari, che li accompagni nel mercato del lavoro.

Negli ultimi mesi della legislatura Rifondazione si è concentrata molto sulla legge elettorale. Tanto che tu stesso dopo il 20 ottobre hai aperto a un governo istituzionale anche con la contrarietà delle altre forze della sinistra. Qualcuno ha sospettato che questo abbia per esempio rallentato la discussione di alcune leggi in parlamento come il conflitto d'interessi e la Gentiloni.

No, le calendarizzazioni le decide il governo e alla fine il governo ha deciso di non affrontare la Gentiloni, o il conflitto d'interessi perché ha pensato di non avere la maggioranza in senato, cosa poi verificatasi. Quanto alla domanda: quello che succede oggi mi dà ragione e in questo ti rispondo a mio nome, non come rappresentante della Sinistra arcobaleno. Se oggi avessimo avuto una legge simil-tedesca, avremmo una competizione pulita invece che una pulsione al 'voto utile'. In nome della quale si produce una cosa terribile, per cui se parli con una persona sul piano dei contenuti ti dà ragione - salari, ambiente, diritti degli omosessuali. Poi gli chiedi: per chi voti? E ti risponde «chi vince», come in una partita di calcio. Avessimo avuto una competizione alla tedesca, non si dava il premio di maggioranza e dunque l'argomento del «voto utile» cadeva in sé.

Nelle forze della Sinistra arcobaleno sulla legge elettorale siete divisi. Il prossimo governo però farà comunque una riforma. Come farete a restare uniti?

Adesso il tema dell'alleanza in coalizione è derubricato per scelta del Pd. Dunque ora la riforma è una scelta tra due direzioni: una presidenzialista e bipartitica, l'altra verso la centralità dei partiti in una repubblica parlamentare e proporzionale. Ho buone ragioni di pensare che la Sinistra avrà una scelta quasi obbligata.

Come spieghi la significativa assenza di movimenti in questo inizio di campagna elettorale per un partito che per un certo periodo pensava di essere un partito-movimento?

I movimenti, secondo me, vivono una fase di difficoltà per molte e complesse ragioni. Del resto tutto questo lungo ciclo ci ha abituati ad un andamento diversificato, in cui si producono grandi, fortissimi momenti di conflitto e anche di tensione verso l'unità. Penso al movimento degli studenti francesi contro il Cpe (il contratto di primo impiego, ndr), vittorioso, che viene da un grande successo come la vittoria del referendum contro il trattato europeo, e poi vai alla competizione elettorale e sei massacrato da Sarkozy. E' imprescindibile che la costruzione della sinistra alternativa si misuri con i problemi dei movimenti, con un approccio che è quello del rispetto dell'autonomia ma anche della costruzione di forme di relazione e di un processo di tendenziale unificazione. Pensiamo alla Fiom: è presente in tutti i movimenti. In Val Susa contro la Tav c'era, a Vicenza c'era, nei cortei per la pace c'era. Poi però quando c'è il contratto dei metalmeccanici è sola e il reciproco non si vede. Mettiamola così: mi pare un problema complesso, un limite della sinistra. Si riconoscerà però che anche al governo e con tutte le difficoltà, tranne in un caso controverso, il grosso della Sinistra arcobaleno è stata nettamente con i movimenti.

Parlando di partecipazione, ti faccio l'esempio della Sinistra europea. Lì dentro c'è un'innovazione e un'apertura reale però poi la linea da tenere rispetto al governo viene decisa solo nella segreteria di Rifondazione. Chi partecipa alla sinistra arcobaleno poi dove va a finire?

Hai ragione. Questo processo contiene molte contraddizioni e molti limiti. Ognuno di noi è in grado di misurare le proprie impazienze e io stesso ne conto più d'una. Quel percorso ha dato luogo a un'aggregazione di forze interessanti che però non siamo riusciti a fluidificare in un rapporto stringente con il partito.

Visto che auspichi un soggetto unitario non pensi che le riunioni volanti tra i leader dei vari partiti debbano essere rese permanenti o istituzionalizzate?

Si aprirà fra pochi giorni a Roma una sede della Sinistra arcobaleno: mi piacerebbe che non fosse solo un comitato elettorale. Lo dico a chiunque, associazione o giornale, etc, è interessato a questo percorso unitario: va lì e occupa una stanza, perché proprio è un processo - secondo me - che deve prodursi e gemmare. E poi certo, sarebbe opportuno che si producesse subito un grande evento, un'assemblea di tutti coloro, partiti e non, che si prendono l'impegno di costruire la Sinistra arcobaleno al di là della campagna elettorale. Un'assemblea autoconvocata per provare a dire dove vogliamo andare.

Sessant'anni fa, nel '48 e sempre in aprile, ci fu una sconfitta pesante del Pci e del Psi. Però si ripresero. Ove ci fosse una sconfitta, cosa che speriamo di evitare, secondo te ci sono le forze per reagire?

Credo sarebbe molto dura. Sono convintissimo che la Sinistra arcobaleno debba nascere come una necessità. Però temo anche il rischio - che c'è in tutta Europa - della scomparsa della sinistra politica dalla panorama politico e culturale. Non che questo cancellerebbe i movimenti, le tensioni critiche, l'anticapitalismo, ma che non siano più presenti sulla scena della politica. Una sconfitta temporanea rischia di portarci a una devastazione di lungo periodo. E' questa la mia risposta a chi parla di voto utile. Da un lato costruire questa sinistra dentro e oltre le elezioni è una necessità storica. Dall'altro è l'unico modo per condizionare il Pd a una relazione con la sinistra. Il voto per noi è doppiamente utile.

Se uno dovesse fare una previsione oggi su come vanno queste elezioni finisce con un quasi pareggio in senato e una situazione di ingovernabilità che, come dicono spesso sia Veltroni che Berlusconi, porti a una legislatura di transizione.

Mi pare una tesi arbitraria da sconfiggere politicamente. E' stata messa in campo per preparare una sorta di union sacrée post-elettorale e mettere il paese di fronte all'inevitabilità di un'alleanza per le riforme tra Pd e Pdl. Anche nel suo versante più dolce sarebbe una specie di governo istituzionale che tuttavia nelle nuove condizioni avrebbe l'obiettivo di istruire un regime, cioè un taglio delle ali fatto per via istituzionale e non per il voto. E quindi chiedo a Veltroni e Berlusconi: se volete costruire un regime ditelo subito, passate attraverso il consenso e non nascondetevi dietro al pareggio. Se così fosse potremmo batterci politicamente. Se invece queste riforme non dichiarate si vogliono fare dopo il voto vanno contrastate sul terreno della democrazia e quindi chiamando fin d'ora tutte le forze democratiche a una sorveglianza, perché il pericolo che prima veniva indicato della scomparsa della sinistra qui verrebbe perseguito attraverso un'operazione autoritaria istituzionale che chiederebbe davvero una mobilitazione democratica di tutti i cittadini.

Siamo tutti adulti e vaccinati, non facciamo finta che queste siano elezioni come le altre. In ballo non è solo un cambio di governo, ma la cancellazione dalla scena politica di ogni sinistra di ispirazione sociale. Questa è la novità, reclamata ormai non più solo dalla destra ma dall'ex Pci, poi Pds poi Ds e ora confluito, assieme alla cattolica Margherita, nel Partito democratico. E' l'approdo della «svolta» del 1989 e il suo vero senso: non si trattava di condannare le derive del comunismo o dei «socialismi reali», ma di stabilire che il capitalismo è l'unico modo di produzione possibile.

Ci sono voluti diversi anni di manfrina ma ora Veltroni dichiara tutti i giorni che la sola società possibile è quella di «mercato», e a governarla «democraticamente» bastano due partiti come nel modello anglosassone, uno più «compassionevole» e l'altro più feroce. Che ci sia un conflitto di classe fra proprietari e non, che i primi possano sfruttare, usare e gettare i secondi, che questi siano riusciti a conquistarsi dei diritti extramercato è stata una favola cattiva, che ha seminato l'odio e spezzato l'armonia del paese. Operai e padroni sono egualmente lavoratori, hanno un interesse comune che è l'azienda, anzi il padrone, detto più benevolmente l'imprenditore, vi rischia di più il suo capitale, mentre l'operaio solo il suo salario. Veltroni ha così liquidato due secoli di lotte sociali e ridotto la democrazia secondo il modello americano a sistema elettorale e poco più. Il suo «riformismo» non mira, come quello delle socialdemocrazie, a correggere il capitale: ma a «riformare i diritti del lavoro» fino a farne, com'era all'inizio del XIX secolo, una merce come le altre, abolirne ogni regolamentazione a cominciare dalla durata.

Agitando un'avvenente flexsicurity che, oltre a mandare all'aria qualsiasi professionalità (perché, quando sei licenziato devi accettare qualsiasi secondo mestiere ti si offra) è una frottola se non dove, come in Danimarca, è altissima la spesa sociale e per quattro anni, aiutato dal sindacato, puoi cercare un altro impiego senza perdere il salario. Da noi vige il comandamento: ridurre la spesa pubblica, già inferiore alla media europea dell'Ocse. Il trend è ridurre il «bene pubblico» e l'«intervento pubblico» in genere. Già nel prodiano «sussidiarietà» stava il germe del teorema: il pubblico interviene «soltanto dove il privato non arriva». Negli Stati uniti non rispondono a questa regola anche istruzione e sanità? E per la pensione non ci sono le assicurazioni private?

Il sindaco d'Italia aggiunge con uno smagliante sorriso che solo se «aumenta la ricchezza» ci sarà meno disuguaglianza. La torta piccola si divide fra pochi. E precisa che se non ci fossero stati i comunisti (lui nel profondo del cuore non lo è mai stato) o i veti sindacali o le leggi tipo Giugni eccetera, saremmo un paese prospero e felice. Lo ridiventeremo votando lui o Berlusconi, che ha ripescato quando era al suo punto più basso, considerandolo il solo in grado di rappresentare l'«altro» grande leader. E quello si è attaccato alla pertica che gli veniva tesa e s'è fuso con Fini. Poi se la vedranno ciascuno con i propri cespugli - come li ha prontamente definiti la stampa - il primo con il centro, Casini e compagni, il secondo con quel che resta della sinistra. A sinistra non sarà facile. Ma a questo fine supremo il Nostro ha preferito sacrificare il premio che in caso di vittoria l'attuale legge gli darebbe se corresse coalizzato. Forse, sapendo che la recessione è in arrivo, non gli dispiacerebbe che grandinasse sulla testa di Berlusconi piuttosto che sulla sua.

E' a questa strategia che gli italiani democratici e già benevolmente progressisti vogliono dare una mano? Facciano. Ma non raccontiamoci storie, voteranno per un capitalismo che resterà straccione, con una manodopera vieppiù senza difesa e con garanzie zero contro la nota propensione agli imbrogli. Evitiamo la figura ridicola dei francesi che, dopo aver intronizzato Nicolas Sarkozy, scoprono che è un padrone duro, cosa che non aveva mai nascosto, oltre che un nevrotico narcisista. Lo hanno fatto precipitare nei sondaggi dal 66% di settembre al 42% di oggi. Ma se lo dovranno tenere per cinque anni a meno di andare sulle barricate.

Che comporta la piega che stiamo prendendo? Uscita di scena anche da noi una sinistra di derivazione classista e marxista, trascolora la cultura politica europea - il cui segno dal 1789 al 1989 è stato quello sociale, diversamente dagli Stati Uniti e dal mondo non occidentale. Nel Novecento questa sinistra si era aspramente divisa fra correnti rivoluzionarie e gradualiste - cioè sul «come» cambiare una società ingiusta - ma che fosse ingiusta e andasse cambiata è il tema che ha alimentato due secoli di storia e era penetrato anche nella classe proprietaria attraverso l'assioma «per essere conservato il capitalismo va regolato», legittimando e legiferando la dualità di interessi. Decisiva era stata la crisi del 1929, a definire le forme della regolamentazione era stato il keynesismo. L'ultimo sprazzo, ma rimasto isolato, è stato il tentativo teorico di Michel Aglietta. Con il ritorno a Von Hayek, non è un sistema «economico» che muta, è un arretramento dell'idea di società che ha retto il grande pensiero politico moderno. Che una democrazia immobile ed esclusivamente di mercato portasse dei pericoli l'aveva intuito perfino de Toqueville, alla fine della sua grande opera controrivoluzionaria «De la démocratie en Amérique» (sospetto che non ha sfiorato Furet cento anni dopo). In verità, che resta della tradizione fondante dell'Europa, della rivoluzione inglese e francese e poi russa? Vacillano i pilastri di una democrazia non meramente elettorale, che democrazia può anche non essere affatto, quando al posto delle dichiarazioni del 1789 e della loro complessa filiazione subentra il solo mercato attivando a mo' di risposta i fuochi devastanti delle etnie e dei fondamentalismi. L'ultimo Lucio Colletti, ormai polemico con il marxismo, si chiedeva tuttavia quali mostri avrebbero preso corpo nel caso che venisse a cessare la speranza di una liberazione egualitaria in terra.

Una seconda considerazione è ancora più cogente. Nella rapida e crudele mondializzazione della produzione e dei commerci e nel giganteggiare delle operazioni puramente speculative, l'Europa e quel che resta dei suoi stati nazionali perdono ogni propria fisionomia politico-sociale. Le regole della Ue assicurano la mera lubrificazione dei capitali del resto del mondo che la sfondano da tutte le parti, demolendo quella che era stata la sua conquista e caratteristica principale: i diritti e il compenso del lavoro. Le nazioni più deboli come la nostra vacillano sotto la tempesta, si dilatano oltre ogni dire disuguaglianza e povertà perché i primi a passare sono i redditi non da capitale, cioè il 90% di essi. Non c'è più posto né legittimità per una politica industriale - basta veder oggi la fatica che fanno Gran Bretagna e Germania per salvare alcune banche, squassate dalla crisi dei subprime, e come i nostri più fiacchi capitali si diano allo sport di comprare aziende più o meno decotte in Francia o Spagna per spostarle in Tunisia, dove il lavoro costa meno lasciando a piedi la manodopera continentale. La frattura sociale torna ad allargarsi come all'inizio del Novecento. Il capovolgimento politico della Russia e della Cina, con la loro intollerabile miseria salariale, può concorrere illimitatamente con le produzioni occidentali, minandone le società e inducendovi una inclinazione autoritaria. Si è tolto senso alla libertà salvo a quella di imprendere, comprare e vendere, si è dichiarata la fine della storia e poi si va elucubrando sulla «poltiglia» degli adulti e la «violenza» dei giovani.

E' fuori del Partito democratico che cade la responsabilità di una linea di difesa e di opposizione a questo trend devastante. Ma come sostenere che le sinistre alla sua sinistra hanno saputo in questi anni delinearla e praticarla? Veltroni dice molte stravaganze, ma una non lo è: nelle grandi fasi di mutamento non si regge sulla sola linea del «no». No del tutto fondati quando vanno contro i diritti elementari della persona (nel lavoro, nell'immigrazione, nella pratica repressiva) e ormai sempre più spesso contro gli equilibri fondamentali del sistema ecologico-ambientale, per non parlare della guerra. Ma è sotto gli occhi di tutti come le lesioni degli uni e degli altri non vengano più ormai da scelte controvertibili su un piano locale ma da una spinta potente e univoca su scala mondiale, contro la quale le azioni locali sono essenziali ma non contano molto oltre la testimonianza. La vicenda del popolo di Seattle ha avuto un peso incalcolabile sulla formazione della soggettività, nullo sulla forza concreta della Wto - le forze che chiamavamo «strutturali» avendo raggiunto con la propria mondializzazione e la frammentazione di chi le avversa un impatto mai raggiunto prima. L'ampiezza e inoperatività del movimento per la pace obbligano a riflettere sul mutamento avvenuto nel rapporto fra maturazione delle coscienze e agenti di decisione economico-militari.

In Italia la Sinistra Arcobaleno, in Francia le sinistre disunite comunista, ecologista, trotzkiste, in Germania la Linke (è quella che sta andando più avanti e sta obbligando la Spd a una riflessione cui era impreparata) hanno da rendersi conto di questa dimensione e passare dalla resistenza alla proposta. Che non può essere, una volta passata la notte elettorale, la sommatoria di tre o quattro urgenze pur evidenti. L'arretramento è stato grande e poco conta dolersene o sdegnarsene - niente è più derisorio delle punte di astensionismo che emergono qua e là, infantile «Non gioco piu!» mentre rotola il mondo. Molto va aggiornato, molto va ricominciato da capo. A questa ricerca tenteremo di partecipare. E va da sé che il giornale è aperto.

«Somos reformistas, no de izquierdas». El Pais, principale quotidiano spagnolo, intervista Walter Veltroni. Uno sguardo a tutto tondo sul suo tour elettorale, un parallelo italo-spagnolo su due paesi al voto, ma soprattutto domande secche sulla novità del Pd. Il titolo parte proprio da lì: «Veltroni ringiovanisce la politica italiana». Ma non si tratta solo di candidature, è il programma a segnare la svolta. E Veltroni usa parole chiare per definirla: «Siamo riformisti, non di sinistra».

Una frase che, in questi giorni in cui la parola Veltrusconi riecheggia in tutti i discorsi di chi sfida i leader dei due maggiori partiti – Casini su tutti – fa riagitare lo spauracchio delle larghe intese. Veltroni mette in chiaro subito che «riforme istituzionali, sì, accordi di governo, no». Uno slogan che riassume quello che da giorni va dicendo a chi, da Fini a Bertinotti, lo accusa di aver “copiato” il programma del Pdl: «Se è vero che il nostro programma è copiato dal suo, allora vorrà dire che potrà votare, fin da subito, alcuni punti del nostro programma». Ma, aggiunge, «non collaborerò mai con Berlusconi ad un governo».

Tra i due programmi, comunque, c’è sicuramente un punto dirimente: la questione energetica. Berlusconi ha rilanciato nel programma presentato venerdì il nucleare come panacea di tutti i mali, Veltroni ora replica spiegando che quello di cui abbiamo bisogno è «un'operazione di gigantesca riconversione del nostro sistema produttivo, possibile grazie alle grandi scoperte della tecnologia, che ci permette di ricavare energia dalla natura, a cominciare dal sole».

Sottolinea le differenze anche il ministro del Lavoro Cesare Damiano: «Il programma del Popolo delle libertà mi pare piuttosto avaro sui temi del lavoro, tutto il contrario del Partito democratico che ha un programma robusto e preciso». Nel Pdl «si parla di detassazione degli straordinari e sgravi sulla tredicesima. Il Pd – prosegue Damiano – invece deve agire con molta più forza intervenendo sulla revisione al basso delle aliquote, con incentivi sui salari di produttività, sulla revisione del modello contrattuale con un miglioramento retributivo soprattutto per il lavoro discontinuo, si tratta dei famosi 1000-1100 euro per i contratti a progetto».

Intanto, in una lettera a Famiglia Cristiana, il segretario del Pd ricuce sul fronte dei temi etici: il settimanale cattolico lo aveva duramente attaccato per aver siglato l’accordo con i Radicali, ora Veltroni rassicura che «non c'è ragione di temere che nel Pd i cattolici siano mortificati. Al contrario, è di tutta evidenza come essi rappresentino una delle colonne portanti del partito: non solo sul piano quantitativo, ma anche sul piano della qualità e dell'autorevolezza delle idee».

Non piace la svolta “riformista” ai Socialisti. Boselli: «Raccontare agli italiani che non è mai stato comunista, è una bugia ed anche un errore. Il nuovo – aggiunge – non passa cancellando la storia di ciascuno di noi». Ma nell’intervista a El Pais, Veltroni sostiene che «gli italiani sono stanchi del passato». «L'Italia – prosegue – ha diritto di scegliere tra una proposta riformista ed una conservatrice. Si potrà dire quel che si vuole – ammette – ma Reagan ha cambiato l'America; Mitterrand ha cambiato la Francia e altrettanto farà Sarkozy, così come la Thatcher e Blair hanno cambiato l'Inghilterra».

Il link al testo dell'intervista

Caro Eddyburg, pensavo già di scriverti sulle contraddizioni sottaciute, ma evidentissime nella pratica (oggi 26.2 nella cronaca romana del Corriere della Sera un bell'articolo di Giuseppe Strappa dal titolo "Soppesando parole e mattoni" segnala i casi del progettato riuso dei depositi ATAC di Porta Maggiore e via Bainsizza, dove si vorrebbero usare - in deroga al PRG recentissimamente approvato - criteri, funzioni e densità del tutto identici ai vituperati casi milanesi di ex Fiera e Centro Direzionale), di Veltroni, del Pd, di molte amministrazioni di centrosinistra, quando ho letto l'appello al voto a sinistra di Vezio Di Lucia.

Tutto giusto e condivisibile: il programma di Pd e PdL sono oggettivamente convergenti nel considerare città, ambiente e territorio come un supporto "corvéable a merci" per la valorizzazione economica, rispetto alle esigenze di disegno urbano, di sostenibilità ambientale, di partecipazione sociale. Lo ha dimostrato il progetto di legge Lupi(FI)-Mantini (Margherita, ora Pd) presentato in modo bi-partizan sia sotto il Governo Berlusconi che sotto quello Prodi.

Ma, forse, anche a sinistra qualche esame di coscienza dovremmo farlo se talvolta per far fronte all'emergenza socio-abitativa e alle ristrettezze economiche dei bilanci comunali si accetta di far edificare ai privati sulle aree pubbliche inattuate (Milano e Lombardia) o si affidano le valutazione economiche dei PII al Centro Studi di Fiera Milano (Cinisello) o a Guido Rossi (ex Falck di Sesto), come numi tutelari dell'attendibilità economica. Sarà un caso, allora, se Bertinotti per esemplificare una linea programmatica alternativa cita il primo Fanfani populista e demagogico del Piano Casa degli Anni Cinquanta e non l'eredità storica del centrosinistra degli Anni Sessanta/Settanta (Legge Ponte, decreto ministeriale su standard e densità, piani per l'edilizia popolare come quota dell'edificabilità complessiva, Legge Bucalossi), unico baluardo ancora oggi per i cittadini che vogliano opporsi alla deriva privatistico-liberista subentrata dagli Anni Settanta in poi?

Grazie Brenna delle tue riflessioni e della segnalazione dell’articolo di Strappa, che ho subito inserito. Di fronte a questa situazione non possiamo tacere; il quadro che si prospetta è gravissimo. Le elezioni sono uno di quegli avvenimenti della vita nei quali sei costretto a scegliere tra quello che c’è: secondo me oggipiù che mai bisogna dire forte che, per salvare un possibile futuro, occorre scegliere a sinistra.

Forse più di altri elettori, noi urbanisti di sinistra (possiamo ancora chiamarci così?) dovremmo essere allarmati e impauriti dalla probabile vittoria della destra di Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. La prossima legislatura potrebbe essere quella che promulga la fine del governo pubblico del territorio, la sua irreversibile privatizzazione, la resa senza condizioni agli interessi fondiari. Devo ricordare che, nella primavera del 2005, la maggioranza di centro destra della Camera, con il sostegno di 36 deputati di centro sinistra, e con il complice silenzio della grande stampa, approvò il cosiddetto disegno di legge Lupi. Oltre alla cancellazione degli standard urbanistici, a un indiscriminato incentivo al consumo del suolo e a tanti altri danni, quella proposta prevedeva che le decisioni in materia di urbanistica finora di esclusiva competenza pubblica fossero sostituite da atti negoziali, cioè concordati con la proprietà immobiliare. Solo grazie alla mobilitazione nostra, all’impegno implacabile di eddyburg e all’anticipata conclusione della XIV legislatura fu scongiurata la definitiva approvazione del provvedimento da parte del Senato. Nei mesi del governo Prodi, parlamentari di sinistra e di centro sinistra hanno presentato proposte alternative alla legge Lupi, alcune riprendendo dichiaratamente il testo elaborato da eddyburg nella primavera del 2006. Ma prima dello scioglimento delle camere era solo iniziato il dibattito in commissione al Senato.

Perciò siamo punto e a capo. Si pone allora il problema di come dobbiamo votare per avere una ragionevole certezza di non ritrovarci nuovamente schiacciati dall’incubo della legge Lupi. Per quanto posso capire, il partito democratico è un interlocutore fondamentale per la costruzione, nel governo del Paese e delle realtà locali, di maggioranze di centro sinistra. E in quel partito militano amministratori di alto profilo, come Renato Soru. Ma sappiamo anche che, purtroppo, prevalgono, in quella compagine, posizioni e sensibilità che non possiamo condividere. A cominciare dalla disponibilità a larghe intese e a programmi comuni con la destra, disponibilità suffragata dalla dichiarazione del leader che “non ci sono due Italie ma una sola”. Il risultato non sarebbe Berlusconi ma il berlusconismo (e nel berlusconismo può legittimamente rientrare la legge Lupi). D’altra parte non è lontano dal berlusconismo quell’“ambientalismo del fare” a banda larga che tanto credito raccoglie nel partito democratico. Dobbiamo aggiungere la diffusa attitudine per l’urbanistica contrattata di molte amministrazioni locali a maggioranza di centro sinistra, la subordinazione a spericolate operazioni urbanistiche (come i grattacieli di Torino) garantite solo dalle firme di archistar che vengono accreditati come importanti maître à penser. Per non dire di quelle regioni governate dal centro sinistra che si oppongono con argomenti da lega nord all’approvazione dell’ultima stesura del Codice dei beni culturali e del paesaggio, un testo che finalmente restituisce indispensabili prerogative allo Stato.

Un efficace antidoto alle tentazioni e ai cedimenti che attraversano il partito democratico può essere una forte e autorevole presenza di eletti nelle liste la sinistra l’arcobaleno. Ed è a questa nuova formazione – che raccoglie, com’è noto, quanti provengono da rifondazione, dalla sinistra democratica (ex Ds), dai comunisti italiani e dai verdi – che propongo sia destinato il nostro voto. Da almeno tre lustri non sottoscrivo appelli al voto alle elezioni politiche, mi sono sempre dichiarato indipendente. Stavolta mi pare che ci si debba schierare. Non senza inquietitudini. In primo luogo, perché, come ha dichiarato Marco Revelli in una lucidissima intervista al manifesto, la nuova sinistra “è una sinistra dai riflessi spaventosamente lenti, che stenta a cogliere la dimensione di quello che sta succedendo. La svolta impressa dal Pd sconvolge tutta la mappa delle identità politiche italiane. É una liquidazione chiarissima, esplicita e credo irreversibile, perfino del concetto di centrosinistra”. “Se l’alternativa di sinistra vuole essere davvero «nuova» – continua Revelli – dovrebbe misurarsi con una società trasformata nel profondo, essere capace di superare vecchi dogmi (come quello sviluppista) o il modello di partito burocratico novecentesco, o almeno di metterli apertamente in discussione. Invece mi sembra di assistere a una sorta di congelamento delle idee di fronte alle minacce, e al prodromo, della liquidazione della sinistra tout court”.

Anche nel merito specifico delle questioni che più interessano in questa sede, non manca il disagio riguardo a la sinistra l’arcobaleno. Perché se è vero che ai partiti che confluiscono nella nuova formazione si devono alcune esperienze di buon governo del territorio, sappiamo anche che non sono state poche le occasioni nelle quali esponenti della sinistra e dei verdi hanno sostenuto scelte e operazioni insostenibili, a cominciare dal recentissimo voto a favore del piano regolatore di Roma, il piano del nuovo sacco della capitale. E non mancano le loro responsabilità anche nella rovina di Napoli e della Campania sommerse dai rifiuti e in altre non lodevoli vicende. Ma tant’è. Non è questo il momento per rifugiarsi nell’astensione, né possiamo assistere attoniti all’estinzione della sinistra.

24 febbraio 2008

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