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ILa Repubblica, 19 ottobre 2016

Esistono ragioni dell’individuo non appellabili: se si vuole rischiare la vita lanciandosi da un cocuzzolo con una tuta alare si ha il diritto di farlo (ne sono morti tanti anche salendo, sulle Alpi, e nessuno si è sognato di vietare l’alpinismo). Ma dalla bella inchiesta di Giampaolo Visetti sui jumper estremi emerge qualcosa di diverso e nuovo rispetto alle tante tradizionali maniere di rischiare la pelle per provare un’emozione forte.

Questo qualcosa di diverso e nuovo è riassunto alla perfezione da queste parole del jumper Di Palma: «Se non ci fossero i social, il 90 per cento di noi farebbe altro». Ovvero: ci si lancia solo a patto che questa esperienza estrema (e solitaria) possa avere un pubblico. Solo se la webcam è accesa. Qualcuno poi compone le spoglie e recupera la webcam. Le morti in diretta dei jumper (37 solo quest’anno) hanno milioni di visualizzazioni; lo sanno bene gli inserzionisti pubblicitari. Ma il cinismo pubblicitario non è certo una novità, mister Barnum lo conosceva bene già nell’Ottocento; e neppure l’eccitato voyeurismo di noi pubblico lo è.
La novità è la perdita di senso dell’esperienza individuale (che fu il vero scopo dell’alpinismo classico) al di fuori della sua condivisione pubblica. O tutti vedono quello che sto facendo, o è come se non lo facessi. La chiamerei: dittatura degli altri, o allocrazia. Il supremo lusso futuro in tema di libertà sarà fare qualcosa solo per se stessi, badando bene che nessuno lo sappia.

Uno dei siti più frequentati tra quelli classificati come «culturali» è www.eddyburg.it, tra i primi cinque nella graduatoria redatta dal servizio Internet ShinyStat. Sorprendente il numero di contatti (anche mille al giorno), visto che il sito è decisamente specialistico. E' rivolto infatti a chi si occupa di politiche del territorio. I più assidui frequentatori sono certamente «urbanisti democratici», delusi però da come i partiti della sinistra hanno trattato in questi anni la questione ambientale. Il sito è curato da un piccolo staff coordinato da Eduardo Salzano che lo ha fondato alcuni anni fa per dare conto delle sue riflessioni e che via via si è arricchito del contributo di visitatori «regolari» e lettori «saltuari».

Salzano è un intellettuale molto noto specie tra gli urbanisti: docente allo Iuav, autore di esemplari strumenti di pianificazione, saggista, presidente dell'Istituto nazionale di urbanistica (da cui è preso le distanze in polemica sulla linea dell'Istituto ).

Eddyburg è uno strumento agile, quotidianamente e puntigliosamente aggiornato, senza mai cadere nelle trappole della supponenza e della noia. L'idea è che Eddyburg conosca (e assecondi) l'inclinazione dei suoi lettori a trovare, oltre le strettoie delle discipline della progettazione urbanistica e territoriale, spiegazioni e risposte al degrado dei luoghi a cui ha in buona parte contribuito una malintesa idea di sviluppo urbanistico e economico. L'obiettivo dichiarato del sito è dunque di offrire analisi e informazioni utili per la tutela dei beni comuni.

Ma la «redazione» del sito non nasconde di ampliare l'orizzonte del suo intervento, affrontando anche il nodo di come è organizzato lo spazio metropolitano, un argomento centrale nelle discussioni passate degli urbanisti e poi, pian piano, rimosso dalla discussione pubblica.

Il lavoro di Salzano ha contribuito a segnalare e a rafforzare alcune battaglie sui temi ambientali di primo piano (ponte sullo stretto di Messina , Mose a Venezia, coste sarde, autostrade padane ecc.), sempre in evidenza con informazioni tecniche che non eccedono nella pedanteria. Il proposito di potenziare il giornale, deciso anche sulla scorta del successo di pubblico, è una buona notizia: servirà non poco nei prossimi tempi per contraddire e contenere le pratiche di governo del territorio delle destre.

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Cancelli. Il cancello fra i ricchi e i poveri si trova in una citta' dell'Africa, che e' per ragioni storiche ancora sotto dominio europeo e si chiama Ceuta. Questo cancello, che e' alto e forte e sempre sorvegliato da custodi, e' il luogo piu' desiderato dell'Africa: i poveri, tuttavia, di solito ne girano al largo, cercando di aggirarne le guardie e di girargli attorno con gl'itinerari piu' lunghi e strani.

Una decina di giorni fa, tuttavia, e' successa una cosa strana. Decine di poveri si sono ammassati, dapprima quasi per caso e come oziosi, poi sempre piu' risentiti e decisi, ai piedi di questo cancello. I pochi son diventati massa compatta. Infine, quando qualcuno ha cominciato ad afferrare il cancello e a scuoterlo forte, un urlo s'e' levato da tutta la folla e tutti si sono spinti avanti. Allora i sorveglianti hanno sparato: non si sa se prima quelli europei o quelli africani (il cancello e' guardato da entrambi i lati). Non si sa, e non si sapra' mai, quanti siano stati i morti, trafitti mentre si arrampicavano o calpestati dalla folla. Ne' si sapra' mai nulla dei loro pensieri, delle loro vite, delle loro eventuali idee politiche (se, lusso estremo, ne hanno).

Passata l'emergenza, i poveri sopravvissuti sono tornati nelle loro bidonvilles e nei loro deserti, e i sorveglianti ai loro ordinari pattugliamenti. Cio' che e' successo, tuttavia, e' di una chiarezza estrema e, nel giro d'un mese, e' il secondo messaggio inequivocabile che noi qui in Occidente riceviamo. Il primo e' stato in Louisiana, coi poveri abbandonati a freddo a morire sotto l'uragano. Il secondo, in Europa. Pochissimi, fra i triclini virtuali di grandi fratelli, grandi politici, grandi giornalisti e grandi tutto il resto, hanno voglia (o ormai facolta') di ascoltarli. Ma ormai hanno un nome preciso, ed e' Titanic.

riccardoorioles@sanlibero.it

Ogni giorno in Iraq si allunga la lista delle vittime. Mentre scrivo questo articolo, la stampa tedesca ha annunciato l’assassinio di Fuad Ibrahim Mohammed, direttore dell’Istituto di Studi Tedeschi dell’Università di Baghdad, che negli ultimi due anni ha lavorato alla ricostruzione della biblioteca dell’Università, distrutta dai colpi dell’artiglieria durante l’ingresso in città degli americani, freddato mentre rientrava dal lavoro. Sono cose che non fanno più nemmeno notizia. Il costo in termini di vite umane della ricostruzione del patrimonio culturale iracheno è immenso e passa vergognosamente sotto silenzio dai media internazionali. È questa la premessa dalla quale devono partire i lettori che si avvicinano a The looting of the Iraq Museum, Baghdad, che racconta eventi ormai familiari, dando un’idea di quelle che saranno le conseguenze future. Con il museo ancora chiuso, questo volume ci accompagna in una visita immaginaria attraverso le sue sale e la storia della Mesopotamia. Le nostre guide sono un team di studiosi iracheni, italiani, americani e inglesi, la maggior parte dei quali lavorano in Iraq da decenni. Prendendo spunto da opere della collezione del museo, ci conducono dall’Età della Pietra ad Alessandro Magno, fermandosi qua e là per poter ammirare nel dettaglio i pezzi di maggior magnificenza. È una guida seria e puntuale di un museo che non possiamo visitare. Il percorso è talora interrotto da interessanti digressioni, supportate da superbo materiale fotografico, sui principali siti archeologici, islamici e ottomani, scritte da chi ha scavato personalmente in questi luoghi e può illustrarne al meglio l’importanza. Ma lo scopo principale di questo libro piacevole e di facile comprensione è la chiamata a un intervento concreto. La storia del saccheggio del museo è ormai tristemente nota. Non ci sono infatti dubbi e resta poco da aggiungere sulla perdita di migliaia di oggetti delle sue collezioni, specialmente sigilli. I danni consapevolmente inflitti dalle truppe americane e polacche al sito storico di Babilonia, scelto come base logistica, sono stati ampiamente pubblicizzati e condannati dalla comunità internazionale. Ma le fotografie aeree dei saccheggi che continuano a venir perpetrati in numerosi siti archeologici sconvolgeranno i lettori, così come il resoconto dei sistematici fallimenti da parte dell’esercito alleato di proteggerli, nonostante una specifica imposizione in questo senso da parte del diritto internazionale. Non potendo il Governo iracheno riuscire laddove fallisce la coalizione, la pratica del saccheggio è ormai diventata in molte aree una delle principali risorse economiche della popolazione. È realistico temere che questa distruzione continuerà ancora, per molti anni a venire, ed è probabile che la reale natura delle perdite non sarà mai quantificata. Una percentuale dei ricavi del libro verrà devoluta al Ministero iracheno per le Antichità e l’Eredità culturale. Ma tutti noi siamo tenuti a chiederci che cosa possiamo fare, perché la situazione è persino più grave di quella messa in evidenza nel libro. Focalizzando la sua attenzione sul Museo di Baghdad e sui principali siti del paese, non menziona le perdite delle biblioteche, la distruzione di gran parte degli archivi dell’Iraq ottomano o i danni subiti da città e villaggi che sono a tutt’oggi disabitati. Da quando si è insediato il nuovo Governo, il Museo ha aperto solo una mezza giornata: per una conferenza stampa sull’oro di Nimrud che, prudentemente nascosto dal personale del museo nei sotterranei della Banca Centrale, è miracolosamente sopravvissuto alla devastazione. E infatti è così, ma gli avori di questo tesoro sono stati seriamente compromessi quando il loro deposito improvvisato è stato allagato e sono ancora in attesa di restauro. Visti i danni subiti dalla rete elettrica, il museo è privo di illuminazione e aria condizionata, perciò il lavoro di conservazione è pressoché impossibile e l’inventario degli oggetti conservati nelle sale interrate è fuori discussione. In tali circostanze il museo non può fare praticamente nulla. Anche se il personale rischia ogni giorno la vita per recarsi al lavoro, una volta al museo non c’è nulla che possa fare. All’estero, i colleghi sono desiderosi di dare il loro contributo, e hanno già fatto qualcosa in passato, ma da quando gli stranieri sono diventati il bersaglio di rapimenti e attentati, è difficile immaginare che delle istituzioni permettano ai loro esperti di partire alla volta dell’Iraq. La collaborazione sui siti archeologici non è nemmeno presa in considerazione. Subito dopo l’invasione del paese, il Governo inglese si è impegnato a dare il suo contributo alla ricostruzione culturale dell’Iraq: sono stati organizzati corsi di formazione di specialisti iracheni in Inghilterra per migliorare le loro conoscenze in materia, e proprio adesso tre archeologi di Babilonia si trovano al British Museum, ma non è stato concertato nessun programma preciso di interventi. Quando questo articolo sarà pubblicato ci saranno nuovi governi sia a Londra che a Baghdad. Il nuovo Segretario di Stato per la Cultura inglese non dovrebbe lasciarsi sfuggire un’opportunità tanto preziosa. Il Governo inglese ha il dovere di dare il via a un piano di cooperazione, formazione e investimenti della durata di diversi anni, che deve partire da un programma di tirocinio dei colleghi iracheni in Inghilterra, preparando la situazione per il momento in cui ci sarà possibile offrire finalmente un aiuto concreto sul campo.

Non riesco a immaginare un compito più urgente di questo per il nuovo Segretario di Stato, né maggior buona volontà ed energia di quella dimostrata sull’argomento. Ma visto come stanno le cose, non succederà nulla se il Governo non farà la sua parte.

Per altri particolari sull'opera del British Museum a favore delle antichità dell'Iraq, si consulti il sito del Museo.

Una recensione al volume, qui citato, The looting of the Iraq Museum è apparsa sul Sunday Times (8 mag. 2005).

Titolo originale: Bird flu and 1918’s pandemic – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Ci sono sia implicazioni terrificanti che risvolti positivi nell’annuncio della scorsa settimana che i gruppi di ricerca hanno decifrato la sequenza genetica della devastante influenza del 1918 e hanno sintetizzato il letale germe in un laboratorio ad alta sicurezza. L’impresa rappresenta un tour de force scientifico che offrirà importanti notizie sui modi migliori di rispondere all’influenza aviaria che circola ora in Asia, e che ha ucciso un grosso numero di uccelli e circa 60 persone in quattro paesi.

Le due più recenti pandemie di influenza, nel 1957 e 1968, furono causate da virus umani che avevano raccolto alcuni componenti di quelli dell’influenza degli uccelli. Ora emerge che il molto più letale virus del 1918, che uccise da 20 a 100 milioni di persone, fu probabilmente di origine aviaria, passato poi direttamente agli esseri umani. La mutazione genetica che lo consentì sta già iniziando ad apparire nell’attuale malattia degli uccelli, nota come H5N1. Ciò offre all’influenza di oggi due vie per scatenare la devastazione fra gli umani. Può mescolare alcuni dei suoi geni con l’influenza umana, come i virus del 1957 e del 1968, oppure mutare sé stessa per divenire facilmente trasmissibile tra gli uomini, come il virus del 1918.

Sinora, il virus degli uccelli raramente è saltato dai volatili agli umani, e raramente si è spostato da una persona all’altra. Ma potrebbe seguire il medesimo percorso evolutivo del virus 1918. Due funzionari della sanità USA affermano che il virus H5N1 ha acquisiti cinque delle dieci sequenze genetiche legate alla trasmissione umano-umano del 1918.

Questo non significa necessariamente che la catastrofe sia imminente. Nessuno sa quante probabilità ci siano che si verifichino ulteriori mutazioni, o quanto tempo occorrerà. Il virus aviario è stato in circolazione per decenni senza per questo trasformarsi in un mostro.

Le nuove scoperte offrono promettenti sviluppi per gli operatori sanitari che devono prepararsi ad una possibile pandemia. Gli scienziati saranno in grado di monitorare l’evoluzione del virus aviario e portare immediatamente assistenza medica in qualunque area dove appaia che il virus sia più trasmissibile. Saranno anche in grado di sviluppare cure e vaccini mirati agli obiettivi genetici più importanti, consentendo così di curare o addirittura prevenire l’influenza in modo più efficace.

Nessuno sa se il virus aviario ora sotto i riflettori diventerà una minaccia più grave per gli esseri umani. Ma un giorno o l’altro potrebbe arrivare una potenziale pandemia. Le nuove scoperte potranno aiutare a contenerla.

Nota: il testo originale di questo articolo del New York Times è ripreso dal sito dello International Herald Tribune (f.b.)

Alors qu'un projet de loi contesté veut réformer leur statut, ces espaces protégés s'interrogent sur leur devenir. Et Marseille sur l'opportunité de choisir ce type de structure pour sauvegarder ses calanques

Du côté du Vieux- Port, à Marseille, on vous le dit sur tous les tons: «Ici, on s'escagasse.» En clair, on se remue, on s'active, voire on se prend la tête. Objet de toutes les cogitations: le devenir des Calanques, entre la Pointe-Rouge et la baie de Cassis. Linéaire côtier de 38 kilomètres à couper le souffle, le site est un chef-d'œuvre de la nature. En péril. Comme le seraient, sur un autre registre, dit-on, et bien au-delà de la Canebière, nos sept parcs nationaux . Sept merveilles qui devraient devenir huit avec les Calanques si l'on suivait le souhait de certains Marseillais. Sept parcs pris dans la tourmente du projet de loi réformant leur statut.

Adopté en Conseil des ministres le 25 mai, le texte est jugé alarmant par nombre d'associations environnementalistes. Derrière le désengagement de l'Etat au profit des collectivités territoriales, elles subodorent un mauvais coup. «On affaiblit l'exigence de protection des sites, on l'organise même», observe Jean-David Abel, ancien conseiller de Dominique Voynet au ministère de l'Environnement.

Parcs en rade. Après la Vanoise, Port-Cros, les Pyrénées, dans les années 1960, les Cévennes, le massif des Ecrins, le Mercantour et la Guadeloupe, de 1970 à 1989, les Calanques seront-elles le huitième parc national de l'Hexagone, le premier du genre péri-urbain? Ou bien celui des Hauts de l'île de la Réunion (100 000 hectares, soit le tiers de l'île) lui soufflera-t-il la place? En dépit d'annonces réitérées, aucun parc national n'a vu le jour depuis seize ans. Et l'on ne compte plus les reports, voire les abandons - en Ariège, aux îles Chausey, en Corse. Sans parler du projet avorté d' «Espace Mont-Blanc».

Mer d'Iroise, Corse, Guyane, les projets annoncés au début des années 1990 attendent toujours ou se hâtent lentement. «Vidé de sa substance, le Parc national marin d'Iroise n'est plus aujourd'hui qu'un projet a minima», s'agacent les défenseurs de la cause. «Pourvu que les Marseillais ne connaissent pas nos dérives!» dit-on du côté du Conquet.

Montée en puissance d'intérêts particuliers, dérives liées aux dérogations accordées en matière d'urbanisme pour retaper bergeries, granges et cabanes de montagne, toutes résidences econdaires en puissance, les édiles aux pouvoirs renforcés sont soupçonnés d'être vulnérables aux pressions diverses. «Ne voulant fâcher personne, ils seront tentés d'adapter la réglementation pour que les contraintes de protection pèsent moins sur le développement de leurs territoires, dit-on au Syndicat national de l'environnement (SNE). Surtout s'ils président les parcs et ont une voix prépondérante dans le choix du directeur».

«Dans ce débat, le jeu des amendements parlementaires sera décisif. Avec le risque évident, sous la pression de députés préoccupés de leurs intérêts, de dénaturer, voire de démanteler les sites», renchérit André Etchelecou, président du comité scientifique du parc des Pyrénées. Procès d'intention? L'intéressé a toujours en tête les dix années d'affrontements autour de cette piste pour tracteurs qu'on voulait aménager, en vallée d'Aspe, à proximité des vallons d'Annès et de Bonaris, refuges du lagopède et du grand tétras. Ou cette station de ski de fond du col du Somport, annulée par le tribunal administratif mais pourtant équipée.

«Dire que les établissements qui gèrent les parcs sont d'abord la caisse de résonance d'intérêts particuliers est exagéré», conteste Joël Giraud, député apparenté PS des Hautes-Alpes, administrateur du parc des Ecrins. Question de perception sans doute - et de contexte local. «Ici, tous les élus ne sont pas intéressés par un fonctionnement optimal du parc, lâche un garde-moniteur du Mercantour. Ils le vivent comme un empêcheur d'équiper en rond.» Et puis il y a les précédents. «Les retouches successives apportées à la loi Montagne ou à celle sur le développement des territoires ruraux laissent des traces», commente la Fédération Rhône-Alpes de protection de la nature (Frapna). Comme les récentes décisions concernant l'ours ou le loup. Rendez-vous donc dans quelques mois au Parlement.

Successeur de Serge Lepeltier au ministère de l'Ecologie et du Développement durable, Nelly Olin a inscrit le texte en procédure d'urgence, pour discussion à l'automne. Dans l'intervalle, elle entreprend aujourd'hui de renouer avec les associations les fils d'un dialogue interrompu. Inquiètes du manque de lisibilité d'un projet ayant donné lieu à sept moutures successives, elles aussi «s'escagassent» contre un possible dévoiement de pratiques jusque-là vertueuses. Et ce, alors même que chacun reconnaît leur réussite en matière de sauvegarde de la biodiversité et que Lepeltier lui-même évoquait à leur sujet «des cathédrales des temps modernes».

«Mais de quel édifice parlera-t-on si l'on démultiplie les situations d'exception au cœur ou en périphérie des parcs? s'interroge Jean-David Abel. Si la création d'un comité économique et social accentue la pression des intérêts locaux?» Pour Serge Urbano, vice-président de France nature environnement (FNE): «Trop de points fondamentaux restent flous, trop d'inconnues sont renvoyées à des décrets d'application. A la pointe dans le système de notation de l'Union internationale pour la conservation de la nature (UICN), la France risque de régresser.» Au ministère, où l'on affirme vouloir à la fois renforcer les protections et élargir le réseau des parcs, la remarque agace.

Alors, menacés, ces espaces emblématiques, dans la Vanoise et ailleurs, du renouveau des bouquetins, de l'aigle royal ou du gypaète barbu? En danger, ces sites exceptionnels, plébiscités, des Cévennes à Port-Cros, arpentés chaque année par plus de 7 millions de visiteurs? Après quarante-cinq ans de pratique, une réflexion n'est sans doute pas inutile, d'autant qu'avec la décentralisation le contexte politique local a changé. C'était déjà le leitmotiv du rapport remis, il y a deux ans, par le député du Var Jean-Pierre Giran à Jean-Pierre Raffarin. Le parlementaire y préconisait notamment une plus grande implication des élus locaux dans les instances du parc. Le temps où leur création pouvait être imposée d'en haut, au grand dam des édiles du cru, est définitivement révolu. Finie l'époque du plan-Neige, des stations intégrées, lorsque le parc de la Vanoise s'opposait violemment à l'extension de la station de Val-Thorens et celui du Mercantour à la création de deux stations de sports d'hiver. Des combats qui ont laissé des traces.

«Aux Ecrins, nous avons tricoté le parc pour le rapprocher des populations, pour qu'elles se l'approprient. Cela n'exclut pas les divergences, mais on les traite autour de la table», souligne Christian Pichoud, président de ce parc depuis cinq ans. Reste que la nouvelle donne laisse planer incertitudes et craintes de voir ressurgir de vieux projets comme, en Vanoise, la liaison Val-Cenis-Termignon ou celle entre Val d'Isère et Bonneval. Vu leur fréquentation, leur environnement immédiat - cette zone périphérique dotée, demain, d'un plan d'aménagement auquel les communes pourront ou non souscrire - et leurs moyens (le budget de la Vanoise égale celui de l'office de tourisme de Val-d'Isère), les parcs ont l'habitude de vivre sous pression. Le risque est de voir ces tensions s'amplifier. Jusqu'à faire tomber des digues de protection qui ont fait leurs preuves?

A Marseille, on parle d'opportunité. Aux portes de l'agglomération phocéenne, les 5 500 hectares des Calanques - la moitié de la ville de Paris - en imposent. Au même titre que le cirque de Gavarnie dans les Pyrénées, la quarantaine de glaciers des Ecrins ou la vallée des Merveilles, dans le Mercantour. Massif calcaire, escarpé et buriné, aux reliefs vertigineux, le monument est incontournable et Guy Teissier, député UMP et maire de secteur à Marseille, voudrait l'inscrire définitivement dans le scénario des «parcs de deuxième génération» que prépare la réforme législative. Pour ses falaises, coiffées de pins, aux abrupts plongeant dans les abysses de la grande bleue. Pour ses plateaux, entrecoupés de vallons secs et encaissés, de crêtes, de criques et d'aiguilles. Pour ses 900 espèces végétales (soit le cinquième de l'inventaire français) ou son aigle de Bonelli, protégé, comme le martinet pâle. Pour son domaine marin ou sa grotte Cosquer, témoin du paléolithique supérieur - lorsque le niveau de la mer était 130 mètres plus bas qu'aujourd'hui.

Grandiose. Mais fragile. Un fabuleux jardin public que chacun, au nom des usages, s'approprie plus ou moins, qu'il soit «cabanonier», chasseur «à l'avant», friand de petit gibier, ou passionné d'escalade et de passages en tyrolienne. Moyennant quoi, sédentaires ou touristes venus par la terre, plaisanciers, plongeurs ou pêcheurs, arrivés par la mer, ils sont plus d'un million à arpenter chaque année le site.

Un espace en alerte rouge

Surfréquentation? «Depuis cinq ans, TGV et 35 heures aidant, elle s'est accentuée», juge Madeleine Barbier, secrétaire générale de l'Union calanques littoral (UCL). Saturation des mouillages, l'été, à Port-Miou et ailleurs, débarquements problématiques à En-Vau, mauvaise qualité des eaux de baignade, en juillet-août, embouteillages au col de Sormiou, le long d'une des routes du feu, stationnements pris d'assaut à la Gardiole et Callelongue: l'espace est en alerte rouge.

Rouge comme ces feux qui, épisodiquement, ravagent le massif (3 600 hectares brûlés en 1990). Rouge, aussi, comme les boues issues du traitement de la bauxite de Gardanne, immergées au large par 330 mètres de fond.

Cinq ans de concertation

Rouge, enfin, de la colère de ceux qui voient le rivage des criques «mousser» sous l'effet des effluents rejetés, avec les eaux usées de l'agglomération, par l'émissaire de Cortiou. «On a éliminé les macro-déchets, mais on se dépêtre mal des détergents», observe Renée Dubout, de l'UCL. Engagée depuis 1992 dans la protection du site, l'association ne laisse rien passer. De l'aménagement par l'Office national des forêts, sous couvert d'entretien, du chemin d'En-Vau - une soixantaine de pins abattus - à l'utilisation à des fins touristiques de la grotte de Capélan, en passant par ce débarcadère bétonné récemment découvert entre Sugiton et Pierres-Tombées. Détérioration des herbiers à posidonies, des tombants de gorgones, diminution des oiseaux nicheurs, décharges sauvages, braconnage sous-marin... le constat des scientifiques, sans appel, confirme tous ces grignotages, ces petits arrangements, facilités par l'absence d'un gestionnaire unique au pouvoir affirmé.

Si tout le monde s'accorde pour reconnaître que ce patrimoine est menacé (surtout par «les autres»), la manière de le préserver en respectant les habitudes de chacun est loin de faire l'objet d'un consensus. Proposée par le Comité de défense des sites naturels (Cosina), l'idée d'une réserve naturelle, strictement contrôlée, où prévaudraient les interdits, ne convainc guère. «Ce serait tout mettre sous cloche. Impossible aux portes de Marseille de “sanctuariser” un tel espace», fait valoir Jean-Louis Millo, le directeur du Groupement d'intérêt public (GIP) mis en place en 1999 pour concilier les points de vue et préfigurer un parc national. Après cinq ans de concertation, l'entité présidée par Guy Teissier affirme avoir fédéré les bonnes volontés autour de l'idée. «Une conversion tardive, observe François Labande, ancien président de l'association Mountain Wilderness, administrateur du parc des Ecrins. Si beaucoup se décident aujourd'hui pour cette formule de parc national, c'est faute de mieux plus que par conviction».

L'appellation ne fait pas, pour autant, l'unanimité. Une pétition contre circule. «La publicité autour du label Parc national nous attirerait encore plus de monde», résume Janine Pastré, gérante de la SCI Marine-Sormiou (128 cabanons répartis sur 14 hectares). Le mieux, en somme, engendrerait le pire. Mais Teissier n'en démord pas. «On peut adapter ici ce qui marche à Port-Cros ou aux Ecrins», fait valoir son entourage. CQFD: la structure parc national serait donc le seul recours. Surtout si elle est mise au goût du jour par le toilettage législatif annoncé - et décrié. Du coup, les militants «pro» parc de toujours se montrent plus circonspects et attendent de connaître les tenants et aboutissants du projet de loi. Le Gip annonce pour septembre un document d'intention, sorte d'état des lieux que l'ensemble des collectivités concernées devraient parapher. Il faudra ensuite définir un projet de territoire et réaliser une enquête publique. La «bataille des Calanques» ne fait que commencer.

D'autant que, discrète, la mairie de Marseille, qui contrôle 90% du territoire des Calanques, n'a pas encore révélé ses intentions. Cabanonier à ses heures, du côté de Sormiou, son premier magistrat, Jean-Claude Gaudin, n'a sûrement pas l'intention de se laisser déposséder.

Post-scriptum

La rumeur voudrait qu'un projet d'inscription du site des Calanques au patrimoine mondial de l'Unesco soit à l'étude. Sera-t-il écologiquement compatible avec le dossier piloté par Guy Teissier?

Non sono molti, in Italia, gli storici che si siano occupati di ambiente. E che abbiano raccontato le vicende dei fiumi, delle colline, delle pianure e delle paludi. E di come gli uomini se ne siano serviti, spesso correttamente, spesso abusandone. Con la storia delle risorse naturali si cimenta da tempo Piero Bevilacqua, professore di Storia contemporanea all'Università "La Sapienza" di Roma, che prova a ricostruire il nostro passato non limitandosi alle dinamiche dell'economia o alla vita sociale e politica, ma attribuendo dignità di soggetto storico alle forze ambientali. Non è difficile intendere quanto questa indagine torni comoda per capire cosa accade nel nostro paese ogni volta che un acquazzone si abbatte più irruento del solito. L'ultimo lavoro di Bevilacqua è appena uscito, si intitola Ambiente e risorse nel Mezzogiorno contemporaneo: è un volume curato insieme a Gabriella Corona e raccoglie studi di giovani ricercatori sulla legislazione forestale nei secoli scorsi, sull'idea di territorio in età giolittiana, sulla storia della biodiversità, della pesca, delle bonifiche e dei sismi (Donzelli, pagg. 329, lire 45.000). Di qualche anno fa è Tra natura e storia (ora ripubblicato sempre da Donzelli, pagg. 224, lire 35.000).

Professor Bevilacqua, al Nord e al Centro si continua a morire travolti da un'alluvione. Ma si può cominciare questa intervista ricordando che esattamente vent'anni fa un terremoto distruggeva l'Irpinia e parte della Basilicata. Morirono tremila persone. Abbiamo riflettuto a sufficienza su quella tragedia?

"No. Ma bisogna distinguere. La storiografia, generalmente insensibile alle questioni ambientali, ha raggiunto livelli di eccellenza nell'indagine su questi eventi. L'Istituto nazionale di geofisica di Bologna ha pubblicato un Catalogo dei forti terremoti in Italia dal 461 a.C. al 1990 di straordinario rilievo. Con la storia dei terremoti si realizza l'antico detto della historia magistra vitae".

In che senso?

"La memoria è la nostra geologia: apprendiamo da uno studio di Emanuela Guidoboni che negli ultimi cinquecento anni in Italia ci sono stati centosettantaquattro terremoti distruttivi, in media uno ogni tre, quattro anni. In Sicilia e in Calabria, le regioni più disastrate, la media è rispettivamente di uno ogni 17 e 19 anni: almeno una generazione di persone che vivono lì affronta una ricostruzione sismica".

Sono dati terribili.

"Non sono finiti. Nel secolo che si è chiuso sono morte 200.000 persone. E il costo dei sismi accaduti negli ultimi trent'anni ammonta a 180.000 miliardi di lire".

Lei parlava di historia magistra vitae. Non sembra che la comunità nazionale tenga conto di questi studi. O no?

"Purtroppo non ne fa buon uso. Siamo affetti, classe dirigente e semplici cittadini, da un abbaglio tecnologico, che ci fa perdere di vista un dato storico: la fragilità del nostro territorio. Implicitamente ci sentiamo sicuri, non ci sembra possibile che un paese che ha raggiunto simili livelli di benessere soccomba di fronte a un evento naturale".

Da dove deriva questa mitologia?

"Il sapere medio è povero di competenze geografiche e naturalistiche. Un uomo colto dell'Ottocento le maneggiava invece con dimestichezza: prenda il caso di Giustino Fortunato. Poi è prevalsa una certa vulgata idealistica. Nelle scuole la geografia è stata messa ai margini. Oggi una persona di buona cultura stenterebbe a riconoscere cinque, sei alberi fra i più frequenti del nostro paesaggio".

Stiamo negando un passato di grandi conoscenze. E' questo che vuol dire?

"Esattamente. L'Italia ha inaugurato la scienza idraulica moderna. Nel Nord del paese esistevano due grandi emergenze: la pianura Padana e la laguna veneta. La pianura padana è fra i più intricati sistemi idrografici del mondo. Dal Medioevo in poi tante fonti storiche segnalano la questione. E per secoli è proseguito lo sforzo affinché si rendesse agibile quella pianura. Nell'Ottocento gli idraulici sostenevano che il Po fosse frutto del lavoro umano, un fiume costruito, tanto imponenti erano stati i lavori per condurre in un unico argine la quantità di bracci in cui il corso si disperdeva. Carlo Cattaneo definisce il Po "un immenso deposito di fatiche". Nel XVII secolo fu attuata una gigantesca opera idraulica, rimasta senza pari: venne dirottata la foce del fiume per evitare che scaricasse materiali nella laguna veneta".

E arriviamo a Venezia. In un suo saggio di alcuni anni fa, Venezia e le acque, lei sosteneva che la legittimazione a governare la città dipendeva dalle capacità idrauliche della sua classe dirigente, che doveva dimostrarsi in grado di salvaguardare la laguna dall'interramento...

"In quel libro cercavo di raccontare la storia mirabile di un successo tecnico. Una grande opera fu anche la deviazione del fiume Brenta che, come il Po, alterava l'equilibrio della laguna scaricandovi le sue scorie. E a quella seguirono altre iniziative in diverse regioni. Basti ricordare la colmata della Val di Chiana, o il canale Cavour, costruito nell'Ottocento". Come si è arrivati al dissesto e alla noncuranza di oggi? "In seguito a tanti processi. In primo luogo la riduzione delle superfici agricole. Ancora nel 1951 ventisette milioni di ettari erano coltivati. Oggi sono quindici".

Ma il minore sfruttamento della terra non arreca anche vantaggi?

"No, se al posto dell'agricoltura subentra un insediamento cementizio, che impermeabilizza il terreno. Inoltre le trasformazioni nei metodi di coltivazione, pur necessarie per ricavare più reddito, possono provocare effetti negativi sulla tenuta del territorio".

Mi faccia un esempio.

"E' necessaria una premessa. Gli idraulici dell'Ottocento avevano capito che la dorsale appenninica andava incontro allo scivolamento di materiali disgregati dalle vette verso valle, all'erosione delle rocce. Questi eventi provocavano un colmamento delle zone costiere. Nei secoli passati, secondo molte fonti, i problemi erano attutiti dai contratti di mezzadria che imponevano ai contadini di restare nei fondi e di controllare i movimenti della terra e delle acque. Si costruivano i muri di sostegno, e se si sfaldavano si riparavano. Si deviavano i fiumi, si bonificavano le colline, indirizzando l'acqua piovana, si riempivano i fossi, si addolcivano le pendenze con le colmate. Buona parte del profilo collinare toscano è il prodotto di questa manutenzione".

E ora, invece, cosa accade?

"Prevale il lavoro meccanico, che insieme a tanti vantaggi ha provocato anche danni. Un trattore per arare un terreno va in direzione della massima pendenza. Scende e poi risale, agevolando i fenomeni franosi. Troppo spesso i vigneti sono sistemati in verticale. Un tempo, invece, o si costruivano i terrazzamenti oppure si procedeva "giro poggio", come si diceva, tagliando orizzontalmente e dolcemente la collina".

Ma è impossibile arrestare il processo di meccanizzazione.

"D'accordo. Ma resta il fatto che, storicamente, una delle cause dei fenomeni franosi che angustiano le zone appenniniche o le Prealpi è lo spopolamento delle colline interne. E le frane si abbattono sulle pianure inverosimilmente intasate sia dalle abitazioni che dagli stabilimenti industriali. Per non parlare delle costruzioni abusive, tirate su nelle golene o sui greti dei fiumi. E' difficile far tornare i contadini sulle alture, ma allora inventiamoci altri sistemi per non abbandonarle".

A cosa pensa?

"Dieci anni fa la Comunità europea ha varato un programma che si chiama "set aside" e consiste nel disincentivare le coltivazioni - tenga conto che i magazzini europei sono pieni di eccedenze - e nel favorire sui pendii le colture biologiche o la forestazione. Nei secoli scorsi, in particolare al Sud, le alluvioni sono state frenate dai boschi. In Calabria, prima dell'Unità, si procedette a una bonifica dei corsi alti dei fiumi che, raccontano molte memorie, erano pescosissimi e adesso sono ridotti a discariche. E' possibile che non si riesca a formare botanici, biologi, geologi? Nelle amministrazioni statali preunitarie figuravano molte più competenze di quante, in proporzione, ce ne siano oggi".

Lei accennava ai difetti della storiografia contemporanea. Vogliamo chiudere la conversazione su questo?

"Da noi prevale una formazione umanistica e solo umanistica. La storia politica è indispensabile, ci mancherebbe. Ma è possibile che non ci si spinga mai a dialogare con altri saperi, come quelli geografici o agronomici? Quando mi occupo di queste ricerche i miei interlocutori sono i geologi e gli urbanisti. Il mio libro Tra natura e storia non è stato né recensito né segnalato su nessuna rivista storica specializzata. In Germania o in Francia la situazione è diversa. Eppure noi siamo un paese molto più vulnerabile: io credo che nella mitologia popolare la salvaguardia secolare di Venezia possa avere lo stesso rilievo degli Orazi e Curiazi".

Già ricordati nell'editoriale di Rossana Rossanda sul manifesto di domenica scorsa, il terremoto di Lisbona del 1755 e il dibattito che suscitò fra i filosofi dell'illuminismo tornano alla mente in una sorta di associazione spontanea con la tragedia del sud-est asiatico di oggi. E più che i due eventi, a suscitare l'associazione è il loro impatto sull'immaginario dei contemporanei, allora e oggi. A ricostruire quello di allora fa da guida un libro uscito qualche mese fa a cura di Andrea Tagliapetra, Sulla catastrofe. L'illuminismo e la filosofia del disastro (Bruno Mondadori), che raccoglie e commenta gli scritti di Voltaire, Rousseau e Kant sull'evento e traccia alcune piste di riflessione non banali per l'oggi. Scrive Tagliapietra che allora non fu tanto l'entità, pur immensa, della tragedia a fare del terremoto di Lisbona un evento del pensiero oltre che della storia: altri e più terribili cataclismi (il terremoto di Lima del 1746, 20.000 morti, quelli di Qili e Pechino di pochi anni prima, 200.000, quello dei Caraibi del 1693, 60.000, nonché quello dello Huaxian nel `500, 800.000) non lo erano diventati. Fu piuttosto l'effetto di vicinanza a colpire la nascente opinione pubblica europea, amplificato dalla contemporanea espansione del sistema della stampa. Lisbona, che contava all'epoca 275.000 abitanti e govenava un impero già provato dalle guerre coloniali con l'Olanda ma ancora esteso su tre continenti, era la porta dell'Europa sull'oceano e sul Nuovo Mondo, e il suo crollo, puntualmente descritto e comunicato da gazzette e volantini, colpì al cuore l'immaginario dell'espansione e l'ottimismo della conquista. «Il terremoto fu percepito come un evento che, mentre suscitava antichissimi interrogativi sul male, su Dio, sulla natura, la giustizia, il destino dell'uomo, poneva al contempo la cultura europea sulla soglia di qualcosa di nuovo. Sorgeva un mondo in cui si discuterà sempre meno di peccato e di colpa, e sempre più di catastrofe e di rischio, si smetterà di risalire ogni volta alle logiche apocalittiche del diluvio universale e si lasceranno parlare i sistemi descrittivi e gli apparati empirici della geologia e delle scienze della terra». Evento di passaggio: dai piani di Dio alla responsabilità degli uomini. Gli scritti di Voltaire, Rousseau e Kant documentano questo passaggio. La morte dell'ottimismo del migliore dei mondi possibili, decretata da Voltaire nel Poema scritto per l'occasione e nel Candido. La risposta di Rousseau, con il dito puntato sulle colpe dei mortali («la natura non aveva affatto riunito in quel luogo 20.000 case di sei o sette piani») e la speranza spostata dai disegni divini alle possibilità rivoluzionarie umane. L'analisi di Kant, minutamente condotta sulle cause fisiche e geologiche del disastro. Il mondo è nelle mani di chi lo abita: questo si dice, e si impone, la coscienza europea di fronte a una catastrofe che segna l'inizio della modernità. E tuttavia, e contraddittoriamente, nello stesso momento il fantasma della catastrofe si installa nel cuore della modernità stessa: la possibilità permanente del disastro diventa l'altra faccia, il lato d'ombra, l'inconscio persecutorio e minaccioso della responsabilità rivendicata e dichiarata. La modernità nasce in questa tensione fra l'imminenza della catastrofe e le strategie della sua prevenzione e del suo contenimento.

E si rinnova e si ripete in questa stessa tensione, viene da dire di fronte ai dibattiti di oggi sull'apocalisse naturale asiatica, o dell'altro ieri sull'apocalisse politica dell'11 settembre (che non a caso suscitò anch'essa più di un riferimento all'«evento filosofico» del terremoto di Lisbona). Con la differenza che mentre nella nascente opinione pubblica europea dio lasciava il posto alla responsabilità umana, oggi il movimento è piuttosto l'inverso, e sotto varie maschere dio viene invocato a copertura delle responsabilità umane. Un altro segno del processo di decostruzione all'indietro della modernità a cui la post-modernità ci fa assistere. O forse il segno che né le maschere di dio né il totem della responsabilità bastano a fare i conti con la dimensione imperscrutabile della storia che è fatta di caso, accidente, incidente.

L'anno prossimo, il Dpef, Documento di programmazione economica e finanziaria, potrebbe essere corredato da un indicatore del prodotto interno lordo o Pil, in salsa ambientalista. Gli è stata anche trovata una sigla, «Pila», equivalente, appunto a Pil, in senso ambientale. Non è la questione trascurabile, la nominalistica perdita di tempo che sembra a prima vista, tanto che ieri alla camera dei deputati è stata illustrata una proposta di legge depositata da alcuni parlamentari e controfirmata da 100 di loro. Il Pil ambientale ha una lunga strada da percorrere, ma nasce sotto buoni auspici.

I due promotori sono deputati della sinistra ds, Valerio Calzolaio, già sottosegretario all'ambiente nella passata legislatura e Fabio Mussi, attualmente vicepresidente della camera e allora capogruppo. I due deputati hanno scritto una lettera a Romano Prodi per informarlo dell'iniziativa e sottolinearne i punti salienti, impegnando fin d'ora l'eventuale futuro governo ad agire per la costruzione del Pila. Un passo di questa lettera, la critica al Pil felicemente regnante è molto significativo (tanto che lo riportiamo in corsivo):

«Il Pil non sottrae il deprezzamento del capitale prodotto, il Pil non considera l'impoverimento del capitale naturale, il Pil indica alla pari cose buone e cattive, servizi utili e inutili purché prodotti e venduti, il Pil misura insieme e allo stesso modo prodotti che hanno effetti opposti e prodotti che si distruggono vicendevolmente (gli autoveicoli e gli effetti degli incidenti stradali, le mine e lo sminamento), il Pil misura come voce attiva il consumo delle risorse (anche quelle, tante, finite o in via di esaurimento), il Pil include le armi, il Pil trascura ogni servizio o transazione gratuiti, il Pil include le spese "difensive" (le spese per sanare gli effetti dell'inquinamento ad esempio), il Pil non valuta danni ed effetti di lungo periodo, il Pil non dice se il prodotto serve bisogni che sono anche diritti (cibo, medicine, vestiti) per chi non ne ha abbastanza. Se si abbatte una foresta aumenta il Pil...».

E' presto per dire come Prodi accoglierà la letta aperta di Mussi e Calzolaio. Se dirà «sono d'accordo» sarà meglio sospettare di lui, perché nella lettera - come prova il lungo passo che abbiamo trascritto - viene messo in dubbio, attraverso il Pil, tutto il consolidato sistema di interessi e valori, tutto l'inno alla crescita indifferenziata che ogni giorno viene riproposta. La critica al berlusconismo finora non ha mirato tanto alle scelte, quanto ai tempi, ai modi e alle priorità.

I 100 deputati, tutti del centro sinistra e rappresentanti tutti i partiti, da Acquarone dell'Udeur a Folena di Rifondazione, hanno mostrato di ritenere maturo il tempo per aprire una discussione sul principio stesso della macro economia.

Li rappresentavano ieri in una conferenza stampa i due promotori, Calzolaio e Mussi che hanno brevemente spiegato - stretti fra un voto di fiducia e l'altro - la tecnica con la quale procedere.

Nel primo tempo il massimo risultato ottenibile sarebbe quello di affiancare (diciamo: tra parentesi) alle temute cifre, ai sofferti spostamenti del Pil, di uno «zero virgola...» in più o in meno, il dato del Pilacalcolato dall'Istat. Mettendo a disposizione un indice sintetico dei costi ambientali affrontati, si informa e si incuriosisce il pubblico. E lo si spinge a scegliere, facendo conoscere il prezzo reale della crescita in termini di inquinamento, sottrazione delle risorse naturali irripetibili, spreco di acqua e di energia non rinnovabile; e viceversa, i valori del risparmio e dell'introduzione di energie rinnovabili. Ben presto Pila si libererà dalla parentesi.

Da parecchi anni il giro dell'Agosto è per me il giorno del rendiconto ecologico. Come sta la salute della Terra? Come andiamo con l'ambiente, con l'inquinamento atmosferico, con il clima, con l'esaurimento delle risorse? Va da sé che su tutto il fronte andiamo peggio. Va da sé perché non vogliamo né vedere né affrontare la realtà.

Sì, finalmente il protocollo di Kyoto è diventato operativo. Applaudo perché qualcosa è sempre meglio che nulla. Ma i rimedi di Kyoto sono largamente insufficienti. Eppure il Texano tossico, il presidente Bush, non solo continua a rifiutarli, ma si ingegna anche a sabotarli accordandosi con India, Cina e una manciata di altri Paesi su una cosiddetta «soluzione alternativa» (lo sviluppo di alte tecnologie pulite) che però non viene seriamente finanziata e che comunque non sarebbe alternativa ma complementare.

Sì, un'altra buona notizia è che la comunità scientifica è sempre più convinta e concorde nel denunziare la gravità della situazione e che, correlativamente, le voci dei lietopensanti che ci raccontano che tutto va bene sono sempre più fioche e sempre più contraddette da valanghe di dati, da valanghe di smentite.

Però, però. Tre anni fa i lietopensanti sono stati rassicurati dalle balordaggini di un certo Lomborg (sconfessato dai suoi stessi colleghi della «Commissione danese sulla disonestà scientifica»); e quest'anno fa già furore il romanzo Lo Stato di Paura di Crichton, la cui tesi è che il riscaldamento globale è l'invenzione di scienziati e giornalisti al servizio di interessi politici ed economici il cui proposito è di preservare «i vantaggi politici dell'Occidente e favorire il moderno imperialismo nei confronti dei Paesi in via di sviluppo». Questa è soltanto una tesi dogmatico-marxista rispolverata negli anni '70. Ma se un logoro vetero-marxismo viene rimesso a nuovo da un autore di thriller che sa vendere milioni di copie, allora «l'imbroglio anti-ecologico» riprende fiato.

Il guaio è che sul drammatico problema della «Terra che scoppia» (di sovrappopolazione) e che si autodistrugge, i media, gli strumenti di informazione di massa, non mobilitano l'opinione e non si impegnano più di tanto. Forse perché sono frenati da una colossale rete di interessi economici tutta progettata e proiettata nell'assurdo perseguimento di uno sviluppo illimitato, di una crescita infinita.

Comunque sia, il fatto dell'anno è che su questo cieco «sviluppismo» sta cadendo addosso una bella tegola. In questi giorni il costo del petrolio greggio si è avvicinato ai 70 dollari, e quindi al record massimo di un quarto di secolo fa di 80 dollari (costo ragguagliato a oggi) che produsse allora una grave crisi di stagflazione. Cosa succede? Il petrolio sta diventando scarso? Per il grande (ciarlatano) Lomborg non sarebbe possibile: lui ci assicura riserve per 5.000 anni. Ma anche i petrolieri ci rassicurano: abbiamo riserve per 50 anni (due zeri meno di Lomborg) e la stretta è colpa degli impianti di raffinazione. Ma a parte il fatto che 50 anni sono pochissimi, questa tranquillizzazione è un inganno. Nei prossimi venti anni la popolazione sarà ancora in aumento (quest'anno, saremo ancora 70-75 milioni in più), e si prevede che il fabbisogno energetico mondiale — con lo sviluppo dell'India e della Cina — crescerà del 50 per cento. Per questo rispetto siamo già allo stremo. Il campanello d'allarme è squillato dal 1980. E noi cosa abbiamo fatto e stiamo facendo? Ancora niente. Leggiamo e arricchiamo Crichton. Bravi, bravi.

Titolo originale: The tsunami, one year later – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini



NEW YORK – Un anno fa, quando molti di noi stavano trascorrendo il periodo delle vacanze con le famiglie, la terra tremò per otto terribili minuti, scatenando un’onda gigantesca che colpì 12 paesi dell’Oceano Indiano.

Nelle successive 24 ore, morirono più di 230.000 persone, 2 milioni furono i profughi, e migliaia di bambini restarono orfani. Lo tsunami devastò quasi 8.000 chilometri di coste, distrusse 3.500 chilometri di strade, spazzò via 430.000 abitazioni e danneggiò o distrusse oltre 100.000 imbarcazioni da pesca.

Subito dopo tsunami, feci un viaggio con l’ex Presidente George H.W. Bush attraverso la regione, per verificare l’efficacia del contributo americano alle vittime.

Poco dopo, fui nominato Inviato Speciale delle Nazioni Unite per la Ricostruzione dopo lo Tsunami, e da allora ho lavorato sia alle Nazioni Unite che in Indonesia, Sri Lanka, India, Maldive Thailandia, a sovrintendere il coordinamento e aumentare il ritmo dei lavori di ricostruzione, e risolvere specifici problemi in alcuni paesi.

Recentemente sono stato ad Aceh, Indonesia, e a Trincomalee nello Sri Lanka nord-orientale, dove ho incontrato sopravissuti che avevano perso tutto: i loro cari, il lavoro, la casa e la comunità. Mi hanno ricordato il dolore che tanti continuano a sopportare.

A Trincomalee, ho incontrato un ragazzo che aveva salvato il fratellino più giovane, ma era perseguitato dal ricordo del fratello maggiore, scivolatogli tra le dita mentre l’onda da un miliardo di tonnellate distruggeva la casa. Il ragazzo non ha mai più rivisto il fratello maggiore.

In entrambi i paesi, sono restato colpito dalla determinazione dei sopravvissuti a ricostruire le proprie vite nonostante le perdite inimmaginabili che hanno subito e le condizioni spesso disperate in cui vivono.

Sono anche stato incoraggiato, dalle molte significative realizzazioni degli ultimi 12 mesi: sono state prevenute le epidemie; molti bambini sono tornati a scuola; decine di migliaia di sopravvissuti ora lavorano e guadagnano di nuovo; è fornita assistenza costante per l’alimentazione; è disponibile online un sistema comune di verifica finanziaria; si prevede che la prossima estate sarà attivo un sistema di allarme regionale per gli tsunami.

Ma c’è ancora molto da fare. Soltanto ad Aceh e nella vicina Nias, ci sono oltre 100.000 persone che vivono ancora in condizioni inaccettabili e con accessi minimi ad occasioni di impiego.

Anche se le agenzie di soccorso attuano progetti per le abitazioni permanenti, ci sono ancora bisogni urgenti di fornire rifugi temporaneo durevoli, migliorare i centri di vita transitori e assistere le famiglie che ospitano le vittime.

Lo tsunami presenta una sfida critica alla comunità internazionale: continueremo nei soccorsi anche quando l’attenzione del mondo si sarà rivolta ad altre crisi? Cosa succederà domani, il giorno dopo l’anniversario? E nelle settimane e mesi che ci aspettano? Questo impegno richiederà anni, e dobbiamo onorarlo.

Ora più che mai, sono convinto che la ricostruzione debba essere guidata dall’impegno a “rifare meglio”: migliori case, scuole, centri sanitari, città più sicure ed economie più solide.

Le politiche per la ripresa devono includere principi base di buon governo, come la consultazione delle comunità locali per i piani di ricostruzione, gli obiettivi, la trasparenza, la verificabilità.

Nel 2006, mi concentrerò su tre priorità per essere sicuro di rifare meglio (ogni nazione ha un sufficiente impegno finanziario tranne le Maldive, che hanno bisogno di altri 100 milioni di dollari).

Per prima cosa, dobbiamo essere sicuri che il nostro sforzo, unico per la buona disponibilità di risorse si rivolto alla popolazione più vulnerabile: i più poveri tra i poveri, donne, bambini, migranti, minoranze etniche.

Dal Global Consortium on Tsunami Recovery, abbiamo fatto pressioni sui governi per assicurare una diffusa consultazione con le popolazioni locali e promozione di una politica che metta al di sopra di tutto l’eguaglianza nell’assistenza; abbiamo concordato una definizione ampia di popolazioni “colpite dallo tsunami” – a comprendere profughi o persone interessate dai conflitti in luoghi come lo Sri Lanka o Aceh – e abbiamo incoraggiato i governi a mettere in atto sistemi di verifica per le spese di assistenza possibili da consultare online.

Secondo,dobbiamo assicurarci che si facciano continui progressi in termini di riduzione del rischio nel 2006. Un sistema rapido di allerta per l’Oceano Indiano è un avanzamento benvenuto, ma rappresenta solo una parte della risposta.

Meno di un mese dopo che lo tsunami aveva colpito, 168 paesi si sono riuniti in Giappone e hanno concordato lo Hyogo Framework for Action, che fissa alcuni obiettivi strategici, priorità e azioni concrete da parte dei governi per ridurre gli effetti degli eventi calamitosi entro i prossimi dieci anni.

Ne fanno parte campagne di educazione nazionale perché le popolazioni riconoscano rapidamente i segnali di disastro incombente, una migliore pianificazione di uso del suolo per evitare investimenti in zone pericolose, regole comuni per un’edilizia più resistente e il ripristino di alcuni essenziali elementi di prevenzione ambientali come le mangrovie.

Queste innovazioni richiedono politiche e impegni per le risorse, tutte cose ancora da fare.

Terzo, non possiamo ignorare l’importanza della riconciliazione politica, della pace e del buon governo per il successo della ricostruzione.

Ad Aceh, lo tsunami ha obbligato i leaders politici a riconoscere che i problemi che alimentavano il conflitto nel paese erano meno urgenti di quanto invece univa la popolazione.

L’accordo di pace ha molto migliorato le prospettive di ricostruzione in Indonesia. La riconciliazione in Sri Lanka avrà risultati simili. In tutta la regione, le riforme politiche saranno una componente critica di una ricostruzione sostenibile.

Naturalmente, quest’anno ci sono stati altri disastri naturali oltre allo tsunami, e i loro strascichi dolorosi dimostrano la necessità di un maggiore coordinamento internazionale e cooperazione.

Il recente terremoto in Pakistan è un duro promemoria del bisogno di sostenere la creazione di un Global Emergency Fund che offra aiuti umanitari alle popolazioni e governi colpiti con risorse sufficienti ad iniziare il lavoro di salvataggio delle vite entro 72 ore da qualunque crisi.

Lo tsunami e quanto è successo dopo dimostrano sia la fragilità della vita umana, sia la forza e generosità dello spirito umano quando si lavora insieme per ricominciare.

Un anno fa, milioni di persone comuni in tutto il globo concorsero negli aiuti immediati alle comunità devastate dallo tsunami.

Ora la sfida collettiva è quella di finire il lavoro, lasciando comunità più sicure, pacifiche, forti. Non saremo soddisfatti finché questo lavoro non sarà concluso.

here English version

Titolo originale: Livingstone promises green Olympics – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Il sindaco di Londra, Ken Livingstone, oggi ha promesso che le Olimpiadi del 2012 saranno i giochi più orientati all’ambiente che si siano mai tenuti.

Presentando una bozza di linee guida da seguirsi nella realizzazione delle strutture olimpiche, Livingstone ha fissato una serie di ambiziosi obiettivi riguardo alla rigenerazione che l’evento porterà nella zona orientale di Londra.

Ha affermato che tra gli impegni dei contractors ci sarà molto più che non assicurare il completamento in tempo utile ed entro i limiti di bilancio delle opere previste.

”I Giochi di Londra dovranno essere i più sostenibili di tutti i tempi: lasciare un’eredità in termini di posti di lavoro stabili, abitazioni, miglioramenti ambientali per l’est di Londra, il resto della città e tutta la Gran Bretagna” ha detto.

Le linee guida si soffermano sul fatto che le strutture abbiano le migliori caratteristiche progettuali possibili. Verranno utilizzati i concorsi di architettura per scegliere i progettisti degli stadi e degli altri edifici principali del complesso di Stratford.

L’intero documento di intenti mira ad assicurare che le strutture olimpiche possano essere utilizzate anche dopo i giochi. Si afferma che le Olimpiadi non devono creare “ elefanti bianchi”.

Si ammette che la rigenerazione della città sede dei giochi non è conseguenza automatica del fatto di ospitarli. Letteralmente: “La storia delle scorse edizioni mostra chiaramente che questo risultato non si verifica come naturale effetto dei Giochi”.

Si afferma che gli organizzatori sono intenzionati a unire risultati ambientali come quelli dell’edizione di Sydney, ad una rigenerazione urbana come quella realizzata a Barcellona.

Secondo le proposte nuove regole, i potenziali contractors devono dimostrare il proprio impegno a rapporti di lavoro etici, o all’uso di materiali riciclati. Si ricorda anche che l’intero processo sarà sottoposto alle nuove norme sulla libertà di informazione.

Si suggerisce anche, che nel quadro dei posti di lavoro generati dai Giochi, si dia la precedenza ai residenti locali. Sarà sviluppato un programma di formazione professionale, per dare maggior possibilità di inserirsi ai vari livelli dell’offerta.

Livingstone ha aggiunto: “Una delle priorità dei prossimi setta anni sarà quella di assicurare a popolazione e imprese locali i massimi benefici”.

Il sindaco ha anche annunciato l’avvio di un progetto da 70 milioni di sterline per interrare le linee elettriche nell’area del Villaggio Olimpico.

Nota: il testo originale al sito del Guardian; di un certo interesse anche il discorso programmatico del Sindaco sulle Olimpiadi, di oltre due anni fa ; su Eddyburg vari articoli sull’argomento, come questo sul problema della trasparenza negli appalti (f.b.)

Titolo originale: Urban design: the issue explained – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Della progettazione urbana [ urban design] quasi nessuno aveva sentito parlare, fino a dieci anni fa. Ora è considerata un aspetto centrale dell’iniziativa del governo per le città sostenibili: creazione di vitali quartieri popolari con buoni servizi pubblici e una specifica identità spaziale [ sense of place]. Ma restano parecchi dubbi su quanto la realtà possa corrispondere alla retorica.

La progettazione urbana, a cui talvolta ci si riferisce definendola “arte di costruire luoghi” coinvolge molte professioni, come architetti, urbanisti, paesaggisti, e anche ingegneri stradali. Si occupa dello spazio pubblico, degli interstizi fra gli edifici, e contemporaneamente anche dell’aspetto degli edifici stessi.

Uno dei suoi obiettivi principali è la pianificazione generale: una supervisione delle caratteristiche fisiche dei grandi spazi destinati per il futuro a urbanizzazione o trasformazione. I masterplans mostrano in che modo i nuovi interventi si adattino agli edifici esistenti e offrono una cornice alla progettazione di quelli nuovi nell’area.

La prestigiosa Urban Task Force, presieduta dall’architetto Lord Rogers, afferma nel suo rapporto del 1999 che le città britanniche sono “molto indietro” rispetto a quelle dell’Olanda, della Germania, della Scandinavia, in termini di qualità della vita urbana e dell’ambiente costruito.

Si afferma, nel rapporto, che un miglioramento delle forme di progetto è vitale per un “rinascimento urbano” che inverta la tendenza all’abbandono delle zone più interne e tuteli la campagna dall’insediamento diffuso.

Il governo ha risposto dando il proprio sostegno ufficiale allo urban design nel 2003, con la pubblicazione del piano Sustainable Communities del vice primo ministro John Prescott, e il suo impegno a costruire centinaia di migliaia di nuove abitazioni entro il 2016.

Si afferma: “Desideriamo vedere un cambiamento netto nella qualità della progettazione. Ad essa si deve affiancare e integrare un appropriato masterplanning per tutti i principali insediamenti”.

In molti dei suoi discorsi, Prescott ha anche auspicato ripetutamente una maggior quantità di edifici che possiedano quello che lui chiama “ fattore WOW”.

Questo auspicio ovviamente è molto sostenuto dall’ambiente degli architetti, ma molti di loro sottolineano come le politiche pubbliche stiano rendendo sempre più difficile realizzare una buona progettazione. La maggior parte degli edifici pubblici si realizzano tramite i progetti di iniziativa privata, che tendono ad emarginare architetti e architettura.

La qualità media di molte realizzazioni finanziate privatamente, in particolare gli ospedali, è stata criticata dall’osservatorio governativo della Commission for Architecture and the Built Environment.

C’è anche la preoccupazione che in Gran Bretagna non esistano le competenze per creare create nuovi quartieri ben progettati, soprattutto negli enti locali. Per affrontare il problema, è stata istituita una nuova “ academy for sustainable communities” a Leeds.

Si teme che la realizzazione di abitazioni di iniziativa pubblica sacrifichi la qualità per la quantità, come già accaduto nel boom edilizio degli anni ’60 e ‘70. Queste paure sono aumentate dalla volontà del governo di costruire case con sole 60.000 sterline.

Ma i ministri insistono sul fatto che si può ottenere qualità anche a basso costo. Nel tentativo di fissare standards migliori, hanno sostenuto i discussi criteri progettuali utilizzati a Poundbury, il villaggio finto del Principe Carlo, e a Seaside in Florida, lo sfondo del film satirico The Truman Show.

Questi criteri sono proposti dall’influente movimento del new urbanism, un gruppo anti- sprawl nato in America a difendere un tipo di vita urbana orientato alla pedonalità e alle zone centrali.

Ma molti, negli ambienti della progettazione, sostengono che questi criteri soffocano l’innovazione, e impongono uno stile.

Il gruppo coordinato da Lord Rogers afferma che entro il 2021 si spera l’Inghilterra possa “godere di una fama mondiale nel campo dell’innovazione nel progetto urbano sostenibile ad alta qualità”. Un obiettivo che pare piuttosto lontano, ma almeno è nato un dibattito, in Gran Bretagna, sulla progettazione urbana.

Nota: il testo originale al sito del Guardian (f.b.)

Titolo originale: Can Wi-Fi make it in Manhattan? – Traduzione di Fabrizio Bottini

Se Wi-Fi può farcela a New York, può farcela dappertutto.

Chi decide a New York City sta pensando parecchio all’uso della tecnologia Wi-Fi 802.11 o di altre, per dare accesso alla banda larga a circa 8 milioni di cittadini.

L’interesse di New York per la banda larga municipale arriva proprio quando le voci in città sullo Wi-Fi hanno raggiunto un punto di fibrillazione. Alte città come Filadelfia, New Orleans o San Francisco, si sono già incamminate sul percorso Wi-Fi, ma se New York costruirà una propria rete, sarà il più importante dispiegamento di Wi-Fi municipale del paese, forse del mondo.

”Non è un problema di se, ma di quando”, dice Craig Mathias, analista del Farpoint Group di Ashland, Massachusetts. “Tutte le grandi città avranno qualche tipo di accesso Wi-Fi sul proprio territorio. Diventerà una cosa che ci aspetta, come il servizio dell’acqua o del telefono. Ma il caso di New York è certamente una sfida dal punto di vista tecnologico. È possibile che non si riesca a portarlo in ogni angolo”.

Al momento New York è alle primissime fasi di definizione della propria strategia per la banda larga. Mentre città come Filadelfia, New Orleans o San Francisco stanno avanzando a pieno ritmo nei propri progetti, New York sta ancora cercando di istituire una commissione che studi il problema.

Lunedì la consigliera comunale Gale A. Brewer, presidente del comitato per le Tecnologie di Governo, ha tenuto un’audizione su una proposta di delibera per costituire una speciale commissione che informi il sindaco Michael Bloomberg e il consiglio su come la città possa realizzare un accesso a prezzi contenuti alla banda larga per i cittadini. Obiettivo della commissione sarà acquisire dati sulle varie opzioni tecnologiche disponibili e informare il pubblico. Il voto sulla proposta è fissato per il 21 dicembre.

”Più riunioni facciamo, meglio capiamo quanto sia complesso il problema” ha dichiarato la Brewer in un’intervista dopo l’incontro. “Il pubblico deve essere informato su quello che stiamo tentando di fare. E desidero proprio che ci chiedano di agire. Ma per farlo, devono conoscere il linguaggio della tecnologia, e l’unico modo per farlo è una discussione pubblica”.

Sino a questo momento, Bloomberg non ha sostenuto la nuova proposta, ma la Brewer afferma di contarci per il futuro.

Brewer e altri vedono nella Wi-Fi o in altre tecnologie per la banda larga – come WiMax lungo i cavi elettrici, o la concorrente DSL – un modo per stimolare lo sviluppo economico. Solo il 40% circa dei newyorkesi utilizza il servizio di banda larga, perché è troppo costoso, ha dichiarato nel corso dell’udienza.

Superare le divisioni digitali

Come successo a Filadelfia e a San Francisco, i consiglieri di New York vogliono che si realizzino sistemi in grado di superare le barriere digitali, in modo cha anche i residenti più poveri della città possano avere accesso ad una connessione internet ad alta velocità. Andrew Rasiej, imprenditore di nuove tecnologie e da lungo tempo consulente tecnologico per il comune e l’amministrazione statale, ha testimoniato di fronte al comitato, lunedì. Rasiej, già candidato a diventare avvocato cittadino di New York City nel 2005, sosteneva nella sua campagna come centrale l’idea di un accesso Wi-Fi su tutto il territorio. Anche se ha perso le elezioni, Raisiej pensa che la sua campagna abbia contribuito a portare alla ribalta politica di New York la questione Wi-Fi.

”Siamo nella medesima situazione in cui ci trovavamo nel 1934, quando il governo federale rese universale l’accesso al telefono” dice. “La banda larga è la cornetta dei nostri tempi. È da lungo tempo che la città deve istituire qualche tipo di comitato che si occupi della questione. E il tentativo di oggi è un primo positivo passo in avanti”.

I programmi urbani per la banda larga sono una questione all’ordine del giorno da un paio d’anni, e molti piccoli centri hanno cominciato a realizzare la propria rete di fibre ottiche per le abitazioni o di Wi-Fi. Ma i critici sostengono che le amministrazioni municipali non dovrebbero impegnarsi nella costruzione e gestione di una propria rete, specialmente se ciò significa usare il denaro dei contribuenti. Compagnie telefoniche e operatori del cavo in tutto il paese hanno efficacemente esercitato pressioni su alcuni stati perché si approvassero norme restrittive per questo tipo di reti.

Anche se lo stato di New York non h ain programma alcuno di questi provvedimenti, gli esperti a New York City dicono di essere consapevoli del problema.

”La cosa peggiore che può succedere alla città sarebbe tentare di costruire la rete e non riuscirci” sostiene Rasiej. “Farebbe arretrare l’intero movimento per lo Wi-Fi municipale”.

Molti consiglieri comunali affermano di essere contrari a spendere denaro per qualunque struttura di banda larga. Ma altri insistono che potrebbe giocare un ruolo importante nella creazione di un mercato più concorrenziale per i servizi connessi. Esperti di tecnologie e attivisti locali ritengono che la municipalità possa impegnarsi in una collaborazione pubblico-privato, così come pensata in altre città.

Ad esempio EarthLink, che ha vinto gli appalti a Philadelphia, Portland, Oregon, e Anaheim, California, sostiene il progetto per una rete municipale. Offrirebbe servizi ai residenti e banda larga alla città per usi municipali e di emergenza. La EarthLink prevede anche di offrire accesso a prezzi ridotti ad altri ISP [ Internet Service Provider], con più opportunità per gli utenti. Da parte loro, le città offrirebbero accesso ai propri spazi in modo tale che EarthLink possa installare i sistemi radio wireless.

San Francisco, che è ancora nella fase di esame delle varie offerte per la propria rete wireless, sta considerando un modello simile, dove ci sia una terza parte a costruire e gestire la rete.

Alcuni esperti di tecnologie temono che lasciando la questione della banda larga esclusivamente al settore privato si possa soffocare l’innovazione a New York City mettendo la città in una posizione di forte svantaggio per quanto riguarda l’attirare nuove attività.

”L’idea che il settore privato possa pensarci, semplicemente non funziona”, dice Bruce Bernstein, presidente della New York Software Industry Association, pure ascoltato dalla commissione. “Nessuno è sicuro che il progetto di Filadelfia funzionerà davvero. La EarthLink ha un programma di sviluppo sotto attacco. Ma i tentativi della città stanno già attirando imprese. Non prevedo un esodo di massa verso Filadelfia, ma New York potrebbe avere dei problemi se non facciamo niente”.

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Lo scandalo silenzio-assenso; ecco come si distrugge un Paese

Un nuovo intervento su l’Unità (del 10 marzo 2005) contro un provvedimento gravissimo. Che la sinistra comprenda gli erori che ha fatto e le direzioni di lavoro che ha incoraggiato quando è stata al governo?

Con la Super DIA, cioè con la Dichiarazione Inizio Attività molto estesa e col meccanismo del silenzio/assenso in caso di mancata o tardiva risposta degli organi tecnici di controllo e di tutela entro 30 giorni, il governo Berlusconi finirà per intaccare le fondamenta di parti essenziali dello Stato. «Possiamo prenderlo sul serio?», si era chiesto un grande esperto, un ex ministro, Sabino Cassese, sul Corriere della Sera. «Se dovessimo prenderlo sul serio, lo Stato avrebbe chiuso i battenti».

In effetti è in questione il valore stesso della legalità. Ora ne sembrano esclusi beni e paesaggi vincolati. Ma per tutti gli altri la svolta (nel buio) sarà davvero epocale. Non bastavano, e avanzavano, i vari condoni, le varie sanatorie?

«La primissima bozza del provvedimento» prevedeva - l'ha confermato ieri alla Camera il ministro Urbani - l'estensione della «semplificazione», col silenzio/assenso incorporato, al settore, delicatissimo, dei beni culturali e ambientali. Lo stesso ministro, riconoscendo che il vincolo è «perfettamente conforme alla migliore tradizione liberale di questo Paese», ha escluso, sulla base dei dati ricevuti dagli uffici, che la cura Berlusconi-Baccini possa estendersi al patrimonio culturale e al paesaggio. «Queste sono le considerazioni che ribadirò al prossimo consiglio dei ministri». Parole tranquillizzanti. Bisognerà vedere in quale conto verranno tenute al tavolo del governo. Anche ai vari condoni Urbani disse di no. Senza essere, malauguratamente, ascoltato.

Che cosa verrà approvato. Del provvedimento di "semplificazione" sono girate almeno tre versioni. Dovrebbe trattarsi di un decreto-legge, quindi subito esecutivo, senza tanti dibattiti preventivi, inserito nelle misure sull'incremento della competitività.

Quando verrà approvato. C'è chi dice al prossimo consiglio dei ministri, ma non è certo. Allora quando? Quando le forze di governo troveranno una non facile intesa politica. Se si tratterà di disegno di legge, i tempi, ovviamente, si allungheranno.

Carta di riserva. In ogni caso, il governo ha presentato una carta di riserva: alla Commissione Affari Costituzionali del Senato, da metà novembre, è in discussione un emendamento di «semplificazione» che prevede forme di autocertificazione in tutti i campi, escludendo difesa, pubblica sicurezza, salute, immigrazione, giustizia Fino a ieri vi erano inclusi pure i beni culturali e ambientali vincolati. Con 30 giorni per dire un sì o un no. Altrimenti il silenzio-assenso, cioè mano libera alle speculazioni e alle manomissioni più disastrose. Anche sui lavori del Senato bisogna quindi vigilare molto attentamente. Come chiede, allarmato, il senatore Sauro Turroni.

Beni culturali. Esclusa, stando ad Urbani, l'estensione della Super DIA ad immobili e ambienti vincolati, rimangono taluni dubbi. L'articolo 5 - secondo la lettura fatta da «Patrimonio SOS» che ha promosso con Italia Nostra, Wwf, FAI, ecc. un vibrante appello di protesta - conferisce al Commissario straordinario preposto a progetti strategici poteri altrettanto straordinari, senza alcun bisogno di convocare Conferenze di servizi con le Soprintendenze. Mano libera quindi, totalmente? In un altro articolo, il controllo doganale viene «semplificato» anche per i beni culturali. Misura gravissima: il traffico clandestino di opere d'arte e soprattutto di preziosi reperti archeologici in partenza dall'Italia è fiorentissimo, anche se sono ormai tanti i recuperi operati da Carabinieri e Finanza. Allentando però le maglie, «tombaroli» e mercanti ne trarranno vantaggi. Verrà cancellato o rimarrà?

Cosa succede al Ministero. La presa di distanza, piuttosto netta stavolta, di Giuliano Urbani dallo smantellamento dei vincoli su beni culturali e ambientali (la prima legge sul paesaggio reca la firma del massimo filosofo liberale del '900, Benedetto Croce) ha suscitato echi positivi. Si attende però il consiglio dei ministri.

Un j’accuse. Ieri è stato tuttavia reso pubblico un autentico j'accuse contenuto nella lettera inviata a Urbani da Libero Rossi, segretario della Cgil Funzione pubblica-Beni culturali. In essa si sottolineano autentici «buchi neri» come: a) la mutilazione del Nuovo Codice «dei suoi contenuti più interessanti e più rigorosi» attraverso la condonabilità degli abusi paesaggistici; b) il «salto nel buio» della riforma del Ministero, con Direzioni regionali istituite con personale rastrellato da Soprintendenze di settore già carenti di tecnici e quindi ulteriormente indebolite nel loro ruolo fin qui essenziale sul territorio; c) una politica molto sbilanciata a favore dell'imprenditoria privata, «finalizzata a togliere all'Istituzione Pubblica il proprio ruolo centrale nel sistema della tutela e conservazione»; d) la riduzione drastica degli investimenti programmati dal Ministero, vicina al 70 per cento nel settore dei beni architettonici e paesistici (il più minacciato); e) in quattro anni, nessun aumento né aggiornamento della (scarsa) dotazione di mezzi («un qualsiasi ufficio comunale di un piccolo paese è più dotato di mezzi di una grande Soprintendenza»)... Probabilmente il Bel Paese - quello già protetto da vincoli - scamperà allo smantellamento dei controlli pubblici preventivi. Ma, come si vede, la tutela si è già tanto indebolita dal 2001 ad oggi. Come non era mai successo. Una svolta negativa epocale.

Un mostro di 318 articoli e centinaia di pagine è ap­prodato nel Consiglio dei ministri. E potrebbe stravolgere larga parte della legislazione am­bientale italiana. In pochi minuti Berlusconi e sodali hanno messo la firma e il testo ha iniziato a far danni istituzionali. Ora devono avere il parere (non vincolante) della conferenza unificata con Regioni e Comuni; sì sono inven­tati un termine di venti giorni (immotivato e irricevibile). Poi devono avere il parere a maggio­ranza di centrodestra delle com­missioni parlamentari; deputati e senatori non emendano né vota­no le singole norme, sono vinco­lati ad un'opinione in soli 30 giorni. Poi un nuovo Consiglio dei ministri potrebbe emanare il decreto definitivo, diciamo a me­tà gennaio. Speriamo che non ac­cada, che non si arrivi. Ho cercato di seguire la vicenda passo passo, dedicandovi la ru­brica una decina di volte in questi quattro anni. Berlusconi e Mat­teoli avevano chiesto nel 2001 una delega a riscrivere tutto, ot­tenendola all'inizio del 2005, do­po aver scelto l'inattività, nell'at­tesa. Sono stati autorizzati a pre­disporre schemi di riordino di sette materie con l'ausilio di una commissione nominata discre­zionalmente dal ministro. La commissione è stata costretta a lavorare poco e male, amici del ministero lo hanno fatto al suo posto. Hanno preparato cinque schemi con decine di allegati, con discutibili abbinamenti e un clamoroso immotivato vuoto che riguarda le aree protette. Il Parla­mento, mentre attendeva senza notizie, ha chiesto di esaminarli uno per volta, una volta arrivati. Allora li hanno cuciti insieme, così, per ragioni di opportunismo politico. Potremmo trovarci con un'unica legge di centinaia di articoli che, però, non è un testo unico (ad esempio, restano fuori energia, rumore, parchi), non è un rior­dino (nelle materie affrontate restano in vigore altri testi), non è un coordinamento (mancano definizioni univoche e ordinate, si copiano norme già in vigore, vi sono innumerevoli disposizioni di dettaglio), non è un'integrazione coerente (qui si centralizza là si decentra, qui si liberalizza là si statalizza, ovunque si rinvia ad ulteriori attuazioni governative), non è un impegno di organi­che politiche concrete (ovvia­mente mancano disposizioni fi­nanziarie). In breve, sarebbe una controriforma in contrasto con l'Europa, capace solo di aggiungere confusione, lasciare nell'in­certezza per anni ogni privato e ogni amministrazione, incremen­tare conflitti amministrativi e giudiziari. Giunte e parlamentari non sono in grado di bloccarla; intanto possono denunciare il ri­schio e condizionare il percorso. Innanzitutto Regioni e Comuni: non ci sono le condizioni minime per un esame serio di un "mo­stro" che espropria competenze e travolge centinaia di leggi, enti, controlli regionali. È utile pre­sentare una piattaforma-appello di richieste al governo sul calen­dario e nel merito della delega, non limitandosi al parere negati­vo. Lo stesso Parlamento dovreb­be essere investito degli evidenti elementi di incostituzionalità: la delega è stata approvata non nel merito ma con la richiesta di fi­ducia; lo schema di decreto unico viene esaminato durante la ses­sione finanziaria, in pochi giorni utili, su un testo che non rispetta i principi della delega stessa. Le presidenze delle assemblee par­lamentari non hanno nulla da di­chiarare? Come può essere al più presto coinvolta la Corte costitu­zionale? I parlamentari della maggioranza (come tutti a fine mandato) possono anteporre un qualche senso dello Stato o, al­meno, suggerire un percorso le­gislativo che coinvolga formal­mente i parlamentari della mag­gioranza e dell'opposizione nella prossima legislatura? Possibile che si debba solo "salvarsi" con i due anni di verifica previsti dalla stessa legge delega, accettando un lungo periodo di indetermina­tezza di norme e politiche? E gli stessi vertici dell'Unione colgo­no la gravità della situazione? Verrà promossa una manifesta­zione a metà dicembre contro le nere cronache ambientali del go­verno Berlusconi, per lo sviluppo sostenibile?

All'attacco sistematico verso l'insieme delle conquiste sociali e dei diritti portato dalla maggioranza in nome di un liberismo selvaggio non poteva mancare l'aggressione al pilastro su cui si è retto finora il governo delle città. La legislazione consolidata era infatti basata sulla prevalenza degli interessi pubblici su quelli privati: un concetto scontato dal tempo degli Stati liberali che deve però apparire al governo in carica come un'intollerabile provocazione.

Nell'ultimo scorcio del 2003 la competente Commissione della Camera dei deputati ha iniziato a discutere la riforma del governo del territorio che nella precedente legislatura non era stata portata a conclusione dai governi ulivisti. C'è da rimpiangere l'equilibrata proposta allora redatta di fronte al testo di maggioranza steso dall'on. Lupi. Questi, negli anni Ottanta, aveva svolto l'importante ruolo di assessore all'urbanistica del Comune di Milano: proprio in quegli anni "da bere" prende corpo la nuova urbanistica milanese che si basa, come noto, sulla contrattazione tra proprietà fondiaria e l'organo esecutivo comunale. Il metodo dell'urbanistica, la partecipazione dei cittadini, la faticosa ricerca degli interessi collettivi è un inutile impaccio da cancellare senza scrupoli.

Da una tale esperienza non poteva nascere nulla di buono, ovviamente. Vediamo alcune "perle" della citata proposta di legge. All'articolo 3 viene introdotto il concetto di "soggetti interessati": nell'attribuire alle amministrazioni pubbliche la responsabilità della pianificazione, si dice però che questa funzione deve essere svolta "sentiti i soggetti interessati" e ai quali - si noti bene - " va riconosciuto comunque il diritto di partecipazione al procedimento di formazione degli atti". Non si tratta come potrebbe apparire dell'universalità dei cittadini, e cioè di coloro che vivono le contraddizioni e le disfunzioni urbane. Niente affatto, nella relazione di accompagnamento si specifica infatti che si sta parlando "dell'operatore privato" equiparato alla pubblica amministrazione nei doveri verso "il cittadino e la persona". E' dunque l'impresa privata insieme al potere democratico ad assumere il ruolo di attore delle trasformazioni urbane! Un'aberrazione che rappresenta una devastante innovazione nella prassi legislativa del paese.

Di fronte a questa involuzione del concetto stesso di democrazia una parte dello schieramento progressista sta cercando di costruire un argine e ha formulato varie proposte alternative nella stessa Commissione parlamentare. Del resto, di fronte all'apparire di questa nuova filosofia nel governo della città di Milano, la sinistra ebbe la forza di contrapporre un modello alternativo, basato sulla prevalenza dell'interesse pubblico e sul metodo dell'urbanistica. Si affermò in particolare che l'urbanistica contrattata era una regalo alla rendita speculativa fondiaria mentre penalizzava il mondo delle imprese edilizie. Una precisa scelta di campo a favore della proprietà parassitaria che non trova riscontro negli altri paesi europei.

Il grave rischio che si sta correndo in questo frangente è che una parte dello schieramento ulivista si è associato a tale devastante proposta: nel mese di dicembre, infatti, l'on. Lupi ha presentato un testo coordinato con quello presentato da un deputato della Margherita, l'on. Mantini. Ma l'apparentemente inarrestabile cupio dissolvi di una parte del pensiero progressista non finisce qui. Tutto l'Istituto nazionale di Urbanistica, come un sol uomo, ha affermato a più riprese che il testo proposto da Forza Italia è una buona base per poter approvare celermente la nuova legge. Il suo presidente onorario, Giuseppe Campos Venuti, peraltro, oltre a ribadire l'attenzione verso quel testo, ha paradossalmente speso molte argomentazioni nel denigrare e tentare di demolire la proposta dei Ds dell'on. Sandri. In verità sfugge come la sinistra possa accettare una discussione che parte sulla restrizione dei diritti di tutti i cittadini. Più in generale, peraltro, non si comprende come si possa discutere con una maggioranza di governo che ha approvato il terzo condono edilizio e sta svendendo il patrimonio storico e artistico del paese.

La vicenda della nuova legge sul governo del territorio, dunque, rientra nel più generale attacco verso le conquiste del mondo del lavoro, nella volontà sistematica di smantellare lo stato sociale - dalla scuola alla sanità - che garantivano quanto meno la possibilità di accesso ai servizi. E la ripresa della discussione a gennaio del 2004 rappresenta una questione centrale su cui si può ricostruire un profilo dello schieramento progressista.

Gli «energumeni del cemento armato»: Vezio De Lucia rispolvera l’espressione che Antonio Cederna usava nelle sue prime battaglie per il Bel Paese, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, per definire coloro i cui interessi, sostiene, stanno di nuovo trionfando in questo 2005. Classe 1938, «da sempre», sono le sue parole, impegnato con Italia Nostra, De Lucia - l’«urbanista militante», definiamolo così, direttore generale dell’Urbanistica del ministero dei Lavori pubblici fin quando, essendo troppo scomodo, non fu destituito dal ministro dc Giovanni Prandini, poi storico assessore a Napoli con la prima giunta Bassolino, autore di una messe di saggi che, si è soliti dire, hanno spiegato l’urbanistica a chi urbanista non era - dalla Sala dello Stenditoio del complesso del San Michele lancia un appello. L’associazione celebra con un convegno il primo mezzo secolo di vita e qui circola questo documento contro la legge di riforma del territorio che, in esame all’VIII Commissione della Camera, è prossima ad andare in aula. Un appello che Italia Nostra sottopone alle firme dei cittadini. Ma i cui interlocutori politici sono da un lato i sindaci (i primi, spiega De Lucia, a essere spossessati dei loro poteri in materia urbanistica, se la legge passa); dall’altro però i partiti e la stampa di opposizione, colpevoli - giudica - di un interesse tiepido o nullo nei confronti della materia. La domanda sottesa è: per ignoranza o sostanziale concordia, su questo tema, col centrodestra? In vista delle elezioni, perora l’appello, i partiti dovrebbero chiarire come la pensano e cosa fanno «su un argomento così rilevante per il futuro del paese, le condizioni di vita dei suoi abitanti, la sorte stessa della democrazia».

De Lucia, il cinquantenario di Italia Nostra cade in un anno particolarmente sciagurato, quanto alle tematiche che l’associazione ha a cuore: il 2004 ha visto il ciclone Urbani sui beni culturali, il condono edilizio e il decreto delegato per la tutela ambientale; il 2005 nasce con la rimozione di Adriano La Regina dalla soprintendenza archeologica di Roma. Per vederla più rosea, diciamo «lunga vita a Italia Nostra»: di associazioni, come la vostra, che si battono per la tutela, ce n’è più che mai bisogno. La riforma del governo del territorio in esame a Montecitorio aggrava o migliora la situazione?

«Si va di male in peggio. La “legge Lupi” così viene chiamata perché l’estensore ne è Maurizio Lupi, deputato di Forza Italia, già assessore all’urbanistica al Comune di Milano e inventore di quello che io chiamo “rito ambrosiano”, ovvero l’urbanistica contrattata. Un’urbanistica che non vede più l’esclusiva competenza, in materia di decisioni, del potere pubblico, ma dove il pubblico contratta con gli interessi immobiliari».

E nel capoluogo lombardo il «rito ambrosiano» ha già prodotto danni?

«Milano è una città dove il rapporto classico tra piano regolatore e attività edilizia privata si è capovolto: sono i progetti edilizi, una volta approvati, a dettare il piano regolatore».Esportato su scala nazionale il «modello Lupi» dunque, è la sua tesi, produrrà sconquassi: quali?

«Vado in ordine di gravità. Primo: la legge cancella gli standard urbanistici. Cioè quei vincoli che sono stati conquistati grazie alle grandi battaglie degli anni Sessanta per migliori condizioni di vita sul territorio. Il decreto del 1968 garantiva una sorta di “diritto alla città”, espresso sotto forma di superfici minime assicurate a ogni cittadino italiano per ciò che concerneva i servizi essenziali».

A quanti metri quadri di servizi abbiamo diritto in quanto cittadini? Quanti ne stiamo per perdere?

«Nove metri quadrati di verde pubblico di quartiere e quindici metri quadrati su scala territoriale, due metri quadrati e mezzo di parcheggio, poi l’istruzione e altre attrezzature».

E invece, lo scenario futuro che cosa prefigura?

«Siamo al secondo punto: le scelte in materia di uso del territorio non saranno più di esclusiva competenza del potere pubblico, ma deriveranno da “accordi negoziali con i soggetti interessati”. E gli “interessati” non sono la totalità dei cittadini, ma i portatori di interessi economici».I palazzinari?

«Sì, i palazzinari. Terzo punto: la tutela dei beni culturali e del paesaggio viene scorporata dalla disciplina urbanistica, non fa più parte della materia. E allora ricordiamo che alcuni dei grandi risultati ottenuti, anche da Italia Nostra, per esempio a Roma la tutela di duemila ettari dell’Appia Antica, già lottizzata ma restituita a esclusivo uso pubblico col piano regolatore del 1965; la salvezza delle colline di Firenze, Bologna, Bergamo, Napoli; il grande parco, milleduecento ettari, delle Mura di Ferrara: a Roma anche Tormarancia, lottizzata e salvata, invece, col suo valore archeologico e paesaggistico: sono realtà che, con questo nuovo regime, non ci sarebbero».

Ma la trattativa coi palazzinari, in sede di piano regolatore, non è un compromesso necessario? Questa legge non ha il merito di rendere trasparente quello che finora avveniva sottobanco?

«Io dico che le pagine più belle dell’urbanistica del dopoguerra sono state scritte con assoluta limpidezza. Gli esempi fatti prima senza quella limpidezza non ci sarebbero. Mentre da domani saremo “costretti” a contrattare con la proprietà fondiaria».

Un altro urbanista, Paolo Berdini, in un articolo su Aprile di gennaio sostiene che le radici di ciò che avviene oggi - il trionfo di una visione neoliberista che, scrive, rende «le città puro fattore di mercato lasciato al libero arbitrio della rendita fondiaria e immobiliare» - sono in epoche più lontane. A inizio anni Novanta. Ad allora va fatto risalire l’inizio di un processo che abbatte quello che possiamo chiamare il Welfare urbanistico. E che interessa i cittadini in modo primario: un processo che ha fatto lievitare in modo astronomico i costi delle case nelle aeree metropolitane; che, per questo motivo, ha portato tra il ‘91 e il 2001 un milione di italiani ad abbandonare le città; mentre l’imprenditoria immobiliare guadagnava da pazzi, se - questo è l’esempio che Berdini porta - a fine 2004 una cordata di immobiliaristi guidati da Francesco Paolo Caltagirone sono riusciti ad acquistare la Banca Nazionale del Lavoro, uno dei maggiori istituti di credito. E se, aggiungiamo noi, oggi tra gli investitori più dinamici nel mondo dei media, dei giornali, ci sono proprio loro, i «palazzinari».

De Lucia concorda con quest’analisi del suo collega Berdini?

«Certo. Se la proprietà immobiliare si sottrae al rischio dell’autonoma determinazione del potere pubblico cosa succede? Che si valorizza in modo vertiginoso».

Nei giorni immediatamente successivi agli attentati terroristici islamici a Londra in cui morirono 56 persone, le autorità britanniche stabilirono che tutti gli uomini bomba erano integralisti islamici nati cittadini britannici. Nell'immaginario collettivo i terroristi erano al contrario forestieri, stranieri, alieni. Ciò doveva spiegare perché ai fautori di attacchi suicidi non importava nulla delle vite che si accingevano a distruggere. Invece i terroristi londinesi erano connazionali, membri della stessa comunità cui appartenevano le loro vittime. Ma dove è andata a finire la coesione dovuta alla cittadinanza? Perché i legami che ci uniscono sono così deboli?

Questo autunno le stesse domande si sono riproposte anche in Francia, quando i quartieri abitati da immigrati nelle grandi città sono stati sconvolti da settimane di rivolta. Gli europei incominciarono a interrogarsi se il loro modello di integrazione, basato sulla garanzia della concessione della cittadinanza, fosse definitivamente andato in crisi oppure no.

Prima di tutto è bene chiarirsi le idee su ciò che non è andato male. Milioni di immigrati musulmani in Europa e in America del Nord hanno superato le resistenze e il risentimento trasformando la loro immigrazione in un'esperienza positiva. La stragrande maggioranza di queste persone evita i disordini e disprezza la violenza terrorista.

Secondo, è importante distinguere i tumulti dagli attentati di Londra. Gli attacchi con le bombe erano guidati dall'integralismo islamico, gli incidenti di Parigi erano causati da rabbia a oltranza. Mentre gli attentati suicidi mirano a distruggere la società libera democratica, la maggior parte dei poveri, disoccupati o sottopagati dei sobborghi urbani che hanno bruciato macchine nelle periferie di Parigi protestano perché vogliono l'integrazione. Ma proprio riuscire ad integrarsi è stato praticamente impossibile per molti. L'errore è stato di presumere che i diritti all'assistenza offrono sempre una via d'uscita dalla povertà, oppure che i sussidi per l'affitto possano conferire un senso di appartenenza.

Il welfare potrebbe essere in realtà parte del problema, non della soluzione: l'assistenza intrappola gli immigrati nel risentimento e nella dipendenza. In Gran Bretagna il 63 per cento dei figli di pachistani o bangladesi vivono nella miseria. Laddove la razza, la classe sociale, la religione e la povertà messe insieme producono emarginazione, la sola concessione della cittadinanza non può funzionare.

I teorici hanno definito le nazioni «comunità immaginarie». Gli attentatori che hanno attaccato i loro concittadini a Londra potrebbero aver scelto di arruolarsi nella jihad per battersi in favore di una comunità immaginaria in grado di offrire loro un maggiore senso di appartenenza. Per la gioia di essere accettati e il piacere di sentirsi coinvolti, piuttosto di accontentarsi della misera consolazione di acquisire la cittadinanza in una società democratica. Gli attentatori suicidi si uniscono a ciò che loro considerano la comunità internazionale degli Umma, i credenti musulmani. Essa offre al giovane cittadino una causa nobile per cui battersi — la difesa dei musulmani ovunque — e un ideale brillante, il martirio in difesa di una fede. Considerare gli uomini-bomba dei fanatici vuol dire non cogliere il più profondo fascino morale di questa forma alternativa di appartenere.

Grazie a Internet e ai prezzi bassi dei voli internazionali, gli immigrati e i loro figli non devono più legarsi una volta per tutte ai nuovi Paesi adottivi.

Possono avere doppi passaporti e passare mesi a respirare l'atmosfera politica di Peshawar, Qetta o Algeri piuttosto che quella di Bedford, Leeds o Clichy- sous-Bois.

Nessuno con un minimo di buon senso potrebbe pensare di eliminare i benefici della globalizzazione, tra cui Internet e i viaggi a basso costo, soltanto perché ciò potrebbe indebolire i legami che ci uniscono come cittadini. Ma è importante capire che per una piccola minoranza di giovani musulmani i rimedi attuali — più programmi di assistenza per gli immigrati poveri, l'espulsione per coloro che violano le leggi e le penalità più severe per i mullah e i predicatori dell'odio — non offrono più il modello di una città terrena che può competere con la promessa di una città divina proposta dai sostenitori della violenza.

L'unica causa che offre la democrazia è il motto storico «libertà, eguaglianza e fratellanza». Ma queste parole svaniscono se i sindacati forti escludono i lavoratori immigranti, se i professionisti si oppongono all'entrata di nuovi cittadini specializzati e se le istituzioni elitarie non reclutano nuovi talenti emergenti, provenienti da Paesi stranieri.

Il problema fondamentale non è il fatto che i governi europei non hanno speso cifre sufficienti per aiutare gli immigrati. Il problema è che non hanno aperto i battenti delle loro scuole elitarie, della burocrazia e dei partiti politici ai migliori e ai più brillanti tra i nuovi cittadini. L'ostacolo insormontabile è la mancata inclusione dei nuovi arrivati nei ceti più alti della società. Quando si vedono foto di gruppo dei leader europei nei loro conclavi dell'Ue non si notano volti di colore, donne con i capelli nascosti sotto i foulard o personalità della fede musulmana. Ci vorrà molto tempo prima che questo accada.

Fino a quando i cittadini immigrati non vedranno alcuni dei loro ai vertici, saranno scettici — e a ragione — nei confronti delle promesse della democrazia. La democrazia è in concorrenza con le ideologie fondamentaliste per la salvezza dell'anima, e in questo momento sta perdendo la sfida.

Nota: il sito del corriere: Città invisibili

Titolo originale: Ski in the desert? It could only happen in Dubai ... – Traduzione di Fabrizio Bottini

Ci sono 35 gradi, fuori, ed è appena cominciato a nevicare. Non contento delle spiagge a temperatura controllata, degli alberghi a sette stelle e di un arcipelago artificiale, l’emirato cotto dal sole di Dubai ha deciso di introdurre condizioni climatiche alpine in pieno deserto. Il luogo di questa stranezza meteorologica è Ski Dubai, la terza discesa al coperto del mondo, dove i visitatori presto potranno concedersi un rapido slalom fra le sessioni di abbronzatura.

Due settimane prima della prevista apertura del 2 dicembre, siamo stati invitati per una rapida visita preliminare. Mentre il feroce sole di mezzogiorno arrostisce i turisti sulle vicine spiagge di Jumeirah, noi indossiamo scarponi da sci, guanti e abiti termici. Equipaggiati in perfetto stile Scott-eroe-dell’Antartico ci avviciniamo alle colossali porte del complesso, con gran divertimento dei clienti del vicino centro commerciale, in calzoncini e sandali.

Mentre attraversiamo l’entrata una folata di vento glaciale si fa strada sino alla base dei nostri polmoni, e sentiamo lo scricchiolare alieno della neve fresca sotto le suole. Davanti a noi sta una scena strappata direttamente da una cartolina di Natale. Due giovani eccitati si tirano palle di neve, alberi di pino pesanti di brina e una manciata di visitatori vestiti di nero che si arrampicano su una ripida altura bianca di neve, come un branco di pinguini migratori. Al centro di questa istantanea di perfezione invernale ci sono due Emiri in tuniche bianche e fazzoletti a scacchi rossi inginocchiati in venti centimetri di polvere, che lasciano scivolare la neve tra le dita ridacchiando alla semplice gelida follia di tutto questo.

Anche in questa città dalle ambizioni sconfinate, portare temperature di 45° sino a sotto zero sembrava una pazzia. Ma questo è un posto che rifiuta di essere chiuso dentro a bazzecole come la logica, la fisica, la geografia. La momento la città è impegnata in una serie di superprogetti surreali: realizzare il primo albergo subacqueo, completo di sala per spettacoli pure subacquei; costruire un parco a tema (fantasiosamente chiamato Dubailand) più grande della stessa città; erigere la torre più alta del mondo (il Burj Dubai, la cui altezza è un segreto gelosamente custodito). Il prossimo anno vedrà l’inaugurazione del primo complesso dell’Isola delle Palme, un vasto arcipelago artificiale che si estende nel Golfo Persico. A Dubai, “moderazione” è una parolaccia sporca.

Ski Dubai sporge dal Mall degli Emirati – il più grosso centro commerciale fuori dagli USA – come un gigantesco gomito metallico. Di fianco alla via Sceicco Zayed, la strada principale di Dubai, le strutture a forma di tubo sono piuttosto lontane dall’essere carine, cosa insolita in questa città esteticamente consapevole. Ma l’interno è una meraviglia. Allungando il collo per vedere tutto il cavernoso spazio da 22.500 metri quadrati (che dichiara di contenere oltre 6.000 tonnellate di neve), arranchiamo attorno a finte montagne e veri igloo ai piedi della complessa arena a quattro discese. A differenza dello snow park – la zona dove non si scia ai piedi della collina – le discese non sono ancora aperte al pubblico e la vista di questo bianco manto vergine che si estende verso l’alto fino a sparire alla vista è magica e intimidante. Mentre ci spingiamo oltre snowmobiles abbandonate e una colossale seggiovia incrostata di ghiaccioli, la sensazione è più da apocalisse dell’era glaciale che da nuova attrazione turistica alla moda. Ma entro un paio di settimane questa neve vergine sarà incisa da 1.500 sciatori e snowboard.

Raggiungiamo la metà del percorso sorridenti ma senza fiato. È il punto dello Avalanche Cafe, in stile Zermatt, uno chalet con balconi che presto riscalderà gli sciatori con fonduta, cioccolata bollente, e il piacere piuttosto dubbio del vino speziato analcolico (“la nostra deliziosa ricetta della casa di Vimto caldo e sciroppo di zucchero in infusione di spezie”).

Per ora ci lasciano arrivare solo fin qui, ma dietro l’angolo, in cima agli 85 metri dell’edificio, sta la pista più lunga di Ski Dubai. Presentata come il primo percorso “nero” al coperto, è lunga 400 metri con un dislivello di 60: qualcosa in meno delle terribili pendenze di Portes du Soleil, e probabilmente più una rossa o blu, per uno sciatore esperto.

Lì vicino, la zona della rampa per snowboard – che purtroppo manca di qualunque ostacolo, ringhiera, piano di tavolo – e le due piste toboga non basteranno a soddisfare i tossicodipendenti da neve a caccia di adrenalina.

Ma la parte per bambini – caverna di ghiaccio da 3.000 metri quadrati, decantata come “il più grande snow park del mondo” – è una fantasia infantile degna dello squisito ingegno di un Roald Dahl. Collocata dietro le pendenze e già aperta al pubblico, questa sezione offre slitte-bob, collinette artificiali per toboga, un campetto per giocare a palle di neve e spazi dedicati alla costruzione di pupazzi di neve. Dentro la “caverna della neve” bambini infreddoliti si aprono barcollando la strada in un labirinto ghiacciato, tentando di restare in equilibrio su un ondeggiante “ghiaccio galleggiante”, e facendo amicizia con un enorme dragone fatto di enormi blocchi di ghiaccio scolpito.

Una patina di didattica è fornita dalla sala proiezioni della caverna di neve, che secondo le nostre guide “mostrerà alcuni film divertenti e al tempo stesso istruttivi ... sui pinguini, gli orsi polari, informando sul clima e cose di questo tipo”.

Completato il nostro giro tra le varie strutture, torniamo al calore di una poltroncina nel San Moritz Cafe, affacciato sul grande spazio. Guardando attraverso gli alberi di plastica – quelli veri sarebbero stati pericolosi per gli incendi – e le scritte giganti che proclamano le virtù delle Vacanze negli Emirati, è stupefacente osservare la semplice dimensione dell’opera di ingegneria che si presenta.

Utilizzando tecniche simili a quelle che si trovano nei sistemi di condizionamento d’aria che rendono abitabile la città, la temperatura è stata abbassata fino a – 8° per il periodo iniziale, di formazione della neve. A questa temperatura minima, l’acqua allo stato liquido viene spruzzata fino a creare una nube all’interno dell’edificio, a cui vengono aggiunti minuscole particelle di ghiaccio, a formare neve che cade in forma di fiocchi: neve artificiale allo stato puro. Fortunatamente, quando Ski Dubai sarà aperto al pubblico il ciclo di formazione della neve avverrà solo di notte, e nei normali periodi di sci ci sarà una meno feroce temperatura di soli due gradi sotto zero.

Gli abitanti di Dubai annoiati dal lusso senza alcun dubbio si abitueranno rapidamente a considerare lo sci a temperature estive di 45° come un’attività corrente. Nondimeno, Ski Dubai sta facendo ogni sforzo per trasformare gli abitanti del deserto in abili slalomisti. Ci sono almeno 25 maestri di sci a portata di mano per le lezioni, e un paio di immigrati dalla Scandinavia ha preventivamente organizzato uno Dubai Ski Club per organizzare gite sociali sulle piste. Ha già più di 300 soci. Una volta diventati appassionati di questo prestigioso nuovo passatempo, i dubaiani possono iniziare ad attrezzarsi adeguatamente, scegliendo fra tavole Rossignol, scarponi Sidas e giacconi Barts nel negozio Snow Pro interno.

Cosa ci riserva il futuro per Ski Dubai? Potrebbe iniziare a erodere il primato delle tradizionali mete sciistiche del Medio Oriente, in Libaro e Iran? Susan Mikloska, direttrice per il marketing, ne è convinta. “Certamente ne ha il potenziale” dice “perché Dubai ora offre un’ampia gamma di attrazioni ai visitatori, e la possibilità di sciare nel pomeriggio e stare all’esterno sulla sabbia o in acqua il resto della giornata è molto attraente”. E possiamo aspettarci che le nuove piste in città creino una rivoluzione stile Cool Runnings nella comunità sportiva? Mikloska ne è certa. “In Europa molti dei migliori sciatori e atleti olimpici hanno iniziato su alture più piccole delle nostre, quindi abbiamo un ottimo potenziale per formare ottimi atleti” afferma. “C’è speranza che entro qualche anno potremo far partecipare qualcuno a delle gare”.

Anche se le glorie olimpiche possono essere piuttosto lontane, gli abitanti si godono in pieno la novità di stare al freddo. “È piuttosto strano, ma meraviglioso” dice Raed Al Yousofi, meravigliato alla vista dei primi fiocchi di neve. “Ora Dubai ha tutto, e tutti vorranno visitarla. Io sono troppo vecchio per imparare, ma nostri figli saranno buoni sciatori”.

Nota: il testo originale (con schede tecniche informative dettagliate sul progetto e sull’operazione Dubai) al sito dell’Observer; qui su Eddyburg, sull’argomento si veda almeno il bell’articolo di Mike Davis proposto qualche tempo fa (f.b.)

L'ONU inserisce il diritto alla casa fra i diritti umani universali (art. 25). In Italia oltre l'11% delle famiglie vive in povertà relativa (Istat 2005), le famiglie sotto sfratto sono 600.000, gli allogi sfitti circa 2 milioni...C'è chi manda le ruspe contro le baracche degli immigrati e chi cerca soluzioni immediate per calmierare situazioni di disagio sociale ormai al limite in molte nostre città: legalità da un lato, giustizia dall'altro. La questione della casa, a Roma come a Bologna non è un problema di ordine pubblico, ma un'emergenza sociale che va allargandosi. (m.p.g.)

Briciole di welfare

GALAPAGOS

Soldi ce ne sono pochi: è l'alibi di Berlusconi e Tremonti per giustificare la pochezza della finanziaria e i tagli alla spesa sociale necessari per centrare gli impegni con Bruxelles. Soldi, invece, ce ne sono tanti. D'altra parte lo stesso Berlusconi ci ha ossessionato negli ultimi tempi con lo slogan «gli italiani sono ricchi». E' vero: i ricchi da quando c'è lui al governo sono aumentati di molto, ma sono aumentati ancora di più i poveri. Certo, l'Istat parla di «povertà relativa», però quanto c'è di relativo per una famiglia a dover vivere, anzi sopravvivere, con poche centinaia di euro al mese in città come Roma o Milano? L'Italia è ricca, ma milioni di italiani sono poveri. Non è una contraddizione: è il risultato di una politica economica che tende a esasperare le differenze. E la povertà è il risultato di un sistema fiscale iniquo - nel quale il lavoro paga più tasse della rendita - e inefficiente, visto che sfuggono ogni anno al fisco redditi per un ammontare superiori ai 150 miliardi di euro (300 mila miliardi di lire per semplificare). Ieri un quasi ignoto deputato di An - Giampaolo Landi di Chiavenna, come specificava l'Agi - ha sostenuto che «tassare i patrimoni e le rendite è un errore che la Casa delle libertà non può permettersi». Perché non può permetterselo? Non certo in base alla teoria economica; sicuramente non in base all'evidenza empirica che ci dice che sono i paesi del Nord Europa a guidare la classifica dell'efficienza economica, del benessere, della solidarietà e quindi della civiltà. Il problema è che anche An è diventata schiava di Berlusconi e della ideologia di classe che il cavaliere rappresenta.

Eppure spazi per fare e fare bene ce ne sono. Invece si litiga sulle briciole, con l'Udc che minaccia la rottura per circa 200 milioni di euro tagli alle famiglie. Ma perché poi «famiglie»? Perché non chiamarli tagli ai «cittadini», ai diritti di ognuno di noi, a cominciare di chi è diverso, da chi non vuole farsi o non può farsi una famiglia?

L'Italia è un paese di contraddizioni: ricchezza e povertà; cittadini di serie A e di serie B. Ma anche proprietari di case e cittadini che la casa non ce l'hanno, ne hanno bisogno, ma non riescono a averla. Le statistiche dicono che ci sono 600 mila cittadini sotto sfratto. Molti di loro sono «morosi», ma nessuno lo è per hobby: il mercato li strangola con affitti mostruosi. Le case non mancano: sono circa 2 milioni quelle sfitte. Ma in questo caso la legge della domanda e dell'offerta non funziona. Il livello degli affitti è determinato dal prezzo delle abitazioni; i prezzi delle case sono imposti dagli immobiliaristi che fanno rimpiangere i vecchi palazzinari. Il mercato delle abitazioni è un mercato asimmetrico dove il potere ce l'ha solo il proprietario e dove l'inqulino deve prendere o lasciare. E lasciare significa spesso finire in mezzo a una strada o in precarie coabitazioni con umiliazioni pesanti per quanto riguarda i giovani .

Il tutto favorito da una offerta pubblica quasi inesistente; da cartolarizzaioni dismissioni fatte solo per fare cassa e non per dare nuovo impulso al'attività edilizia come suggeriscono giustamente anche quelli dell'Ance, i costruttori. Sandro Medici ha fatto un gesto coraggioso anche se qualcuno dice che non ha fatto che «copiare» quello che alcuni decenni fa aveva deciso di fare Giorgio la Pira indifesa dei senza casa fiorentini. Per i benpensanti non è questo il sistema per risolvere il problema della casa. Forse, anche se in situazioni di emergenza si ricorre a misure di emergenza. In ogni caso Medici ci ha insegnato una cosa: la soluzione per risolvere i problemi degli emarginati non può essere la legalità invocata da Cofferati.

CASA

Giusta causa

SANDRO MEDICI

Fino a qualche tempo fa circolava una convinzione: che saremmo diventati tutti proprietari delle nostre case. Risolvendo così, alla radice, uno dei problemi sociali che ciclicamente emergono nelle nostre città, a Roma più che altrove. Quello dell'abitare, di avere un tetto sulla testa, di poter soddisfare quell'elementare bisogno di due camere e cucina. Nell'acme della stagione del furore liberista, si pensò infatti di avviare quello sciagurato processo di dismissioni delle proprietà immobiliari degli enti pubblici (para o semi che fossero): di quell'enorme patrimonio di edifici d'abitazione che per decenni erano riusciti (e non completamente) a calmierare il mercato. La chiamarono cartolarizzazione. Aveva il duplice obiettivo di accumulare risorse per la spesa pubblica e consentire al popolo dei locatari di realizzare il sogno della casa in proprietà.

Obiettivo raggiunto per una parte, e anche cospicua, ma fallito per un'altra, seppur minore. In molti aderirono all'offerta di vendita, indebitandosi allo stremo, mettendo a rischio il proprio stesso futuro. Ma in molti altri restarono fuori, impossibilitati ad acquistare a causa di redditi insufficienti e/o precari. E ora sono proprio questi ultimi, esclusi e impoveriti, a ritrovarsi sotto sfratto: cacciati dalle case in cui hanno vissuto per decenni, senza alcuna prospettiva di ricambio perché schiacciati da un mercato per loro irraggiungibile.

Sono tuttavia solo gli ultimi arrivati nell'ampia schiera dei senzacasa, quell'insieme di sfuggenti figure sociali che cronicamente vivono nell'insicurezza economica. Gente che campa sbattendosi tra un alloggio di fortuna e un'ospitata da amici e parenti, famiglie povere annidate in appartamenti che nel frattempo sono stati messi in vendita o già venduti, immigrati vecchi e nuovi alla continua ricerca di una sistemazione decorosa. Sono quelli che affollano le liste dei destinatari di alloggi popolari che i Comuni non sono in grado d'offrire perché semplicemente mancanti. C'è poi un ultimo flusso che va a completare questa preoccupante massa critica. Sono l'acido frutto dell'impoverimento progressivo delle nostre società.

Quelli che non riescono più a pagare il mutuo o l'affitto, le coppie che non mettono su casa perché non ce la fanno a star dietro al mercato, così come i giovani che restano dai genitori, i pensionati non più autosufficienti costretti a convivere con figli e nipoti, ecc. ecc. Se non fossero passati esattamente cinquant'anni, sembrerebbe di essere tornati ai tempi degli sfollati di via Donna Olimpia raccontati da Pier Paolo Pasolini in Ragazzi di vita. E il peggio è che di tutto ciò non si accorgono che in pochi: i sindacati, qualche sindaco e poco più. Siamo di fronte a una clamorosa smentita delle strategie privatizzatrici, ingannevoli quanto feroci, che sta producendo un accumulo di disagio sociale angosciante, che qua e là già si manifesta con occupazioni e conflitti. E non c'è traccia di una politica una per attenuare questa pressione. Anzi, anno dopo anno, il governo sforna leggi finanziarie che riducono i contributi sociali per l'affitto, lasciando sole e indebolite le amministrazioni locali, che s'arrangiano come possono.

Affrontare e risolvere questo acutissimo problema avrebbe bisogno di ripensare alla radice una politica per la casa, che riconsegni centralità al diritto sociale all'abitare, un diritto che l'Onu ha dichiarato universale. Ci vorranno anni e sicuramente un altro governo. Ma nel frattempo tutti i senzacasa che vagano penosamente nelle nostre città, dove li mettiamo?

L'ordinanza di requisizione di alcuni alloggi sfitti e inutilizzati recentemente emanata nel X Municipio di Roma, peraltro prontamente messa sotto inchiesta dalla magistratura, non sarà certo la soluzione. Ma non è più possibile tollerare gli indecenti interessi della rendita immobiliare proveniente dalle migliaia e migliaia di case vuote, che s'accumula parassitariamente solo grazie al tempo che passa, senza per questo venir minimamente tassata. L'egoismo sociale, la smania accumulatrice non può tener sequestrati beni necessari alla collettività, soprattutto di fronte a un'emergenza che sta per travolgerci tutti.

Diritto alla casa, la cura di Medici

Sabato a Roma manifestazione nazionale contro l'emergenza abitativa. I promotori: «Sfiliamo anche per il presidente del X Municipio». Che ha requisito alloggi per gli sfrattati come fece La Pira a Firenze ma è finito sotto inchiesta. Silenzio di Veltroni e dell'Unione

ANGELO MASTRANDREA



ROMA - E'attaccato dalla stampa di destra che lo accusa di «esproprio proletario» e violazione della proprietà privata, a qualcuno della sua maggioranza la mossa non è piaciuta particolarmente e anche il sindaco Veltroni per il momento tace su una vicenda che pone il centrosinistra di fronte a un bivio: se privilegiare il diritto di proprietà a quello alla casa, la speculazione immobiliare rispetto agli sfrattati. Ma Sandro Medici, presidente del X municipio, non demorde e conquista le organizzazioni di inquilini, cartolarizzati, sfrattati e senza casa che da tempo denunciano le speculazioni immobiliari e l'esistenza di un vasto patrimonio abitativo privato che rimane inutilizzato. Tanto che l'Unione inquilini invita a partecipare in massa alla manifestazione nazionale per il diritto alla casa che si svolgerà sabato a Roma. E così, nei giorni in cui il sindaco di Bologna Cofferati fa a pugni con studenti e occupanti di case e rompe con Rifondazione sul tema della legalità, da un municipio romano arriva un esempio che si pone all'estremo opposto. Il presidente del X Municipio ha infatti requisito con un'ordinanza 12 dei 50 appartamenti di un palazzo di proprietà di una società privata, la 3A, e abbandonato da 15 anni. Un provvedimento dettato dall'esigenza di dare un tetto a una quarantina di sfrattati, in maggioranza persone anziane e malate.

In questo Medici ha un precedente illustre nel sindaco di Firenze Giorgio La Pira, democristiano e beatificato, che negli anni `60 requisì temporaneamente alcuni palazzi del centro per dare un alloggio agli sfrattati dell'Isolotto. Attaccato in consiglio comunale, dichiarò che il diritto all'abitazione viene prima di quello alla proprietà. Ma questa volta il presidente del popolare municipio romano di Cinecittà è finito sotto inchiesta per abuso d'ufficio.

«Il reato contestatogli si risolverà in un boomerang nei confronti della rendita immobiliare speculativa e parassitaria», dice il segretario dell'Unione Inquilini Massimo Pasquini, che cita a favore di Medici, ex giornalista del manifesto ed eletto come indipendente nelle file del Prc, l'articolo 11 del Trattato internazionale sui diritti umani che garantisce il diritto alla casa. E forse non a caso, visto che proprio qualche mese fa una commissione dell'Onu ha visitato la capitale proprio per monitorare il problema casa. «Ci auguriamo che i giudici mettano mano anche ai quotidiani abusi d'ufficio perpetrati da proprietari che tutti i giorni affittano, senza averne apposita licenza, stanze e posti letto a canoni neri e perseguano anche quei proprietari, piccoli e grandi, che eseguono, previo sfratto anche di anziani e portatori di handicap, cambi di destinazione d'uso illegali, nel centro storico, per trasformare i propri immobili in redditizi bed and breakfast», dice ancora Pasquini. Anche Giovanni Russo Spena del Prc difende l'operato di Medici: «Mi sembra che dal punto di vista sia sociale che giuridico abbia indicato la strada per risolvere un problema, mentre l'accusa è semplicemente un atto repressivo che non risponde nemmeno all'applicazione corretta del sistema di garanzie dello stato di diritto».

La giunta capitolina appena pochi mesi fa ha approvato una delibera sull'emergenza abitativa elaborata dalle organizzazioni dei senza casa, e già quando militanti di Action erano finiti sotto inchiesta per associazione a delinquere per aver occupato edifici abbandonati di proprietà privata, ne aveva invece riconosciuto l'importante funzione sociale. Il ruolo di mediazione del sindaco era stato importante anche nella risoluzione di alcuni sgomberi che rischiavano di provocare tensioni sociali. Del resto, che il problema casa a Roma sia una questione di carattere sociale più che di ordine pubblico era stato lo stesso prefetto Achille Serra a dirlo.

Per questo Cento chiede all'Unione e a Veltroni «un atto esplicito di sostegno alla iniziativa del presidente del X Municipio». Anzi, per l'esponente dei Verdi «requisire le case abbandonate e destinate alla speculazione immobiliare è un atto di civiltà, soprattutto di fronte all'emergenza casa di Roma e delle altre grandi città».

E'normale che il tempo rompa verso la fine di agosto e quindi ci siano perturbazioni e temporali. E' molto meno normale che, ormai da anni, maltempo e piogge, che annunciano la fine dell'estate, abbiano sempre conseguenze così devastanti e drammatiche. Quest'anno è successo nell'Europa centrale e orientale, Austria, Svizzera e Romania purtroppo già contano morti, dispersi e migliaia di sfollati. Già sappiamo, però, che se i venti spingessero in Italia quella perturbazione le devastazioni e le conseguenze sarebbero altrettanto gravi. Di fronte al ripetersi di quelle che, una classe dirigente incolta e incapace, si ostina a chiamare calamità naturali, un interrogativo si pone: perché mai qualsiasi pioggia cada, normale o eccezionali che sia, le conseguenze per persone e cose sono sempre le più gravi? Intensità delle precipitazioni e loro concentrazione (in pochi giorni cade la pioggia di una stagione) ci dicono che è in corso un cambiamento climatico. Anche quest'estate abbiamo avuto segnali forti che evidenziano che il cambio di clima non è il futuro a cui dobbiamo prepararci, ma un drammatico presente da fronteggiare. Non ce ne parla solo la tragedia rumena, svizzera ed austriaca di questi giorni o il moltiplicarsi di tifoni ed uragani, che purtroppo colpiscono i paesi più poveri e meno responsabili delle alterazioni al clima, ma anche il drammatico scioglimento di un'area ghiacciata della Siberia grande come la Francia e la Germania, a cui la stampa nazionale non ha dedicato alcuno spazio. Insomma i fatti ci confermano che le previsioni del terzo rapporto Onu sul clima sono ormai una realtà con cui fare i conti. A nulla serve però attribuire al clima che cambia la responsabilità della tragedia che ha colpito l'Europa centro-orientale, soprattutto non è accettabile che il cambiamento climatico venga invocato come giustificazione da chi avrebbe dovuto agire e non l'ha fatto per fronteggiarlo.

Alle popolazioni rumene, svizzere ed austriache così duramente colpite la migliore solidarietà che si può esprimere è la denuncia delle inadempienze e del vuoto di strategie politiche con cui le classi dirigenti non solo politiche e non solo di governo hanno affrontato il cambiamento del clima. Kyoto, che rappresenterebbe solo un piccolo segnale di inversione di tendenza è sì entrato in vigore, ma per ora le emissioni che alterano il clima aumentano anziché diminuire. In realtà il mito dell'eterna crescita continua ad essere l'orizzonte culturale delle politiche economiche delle destre come delle sinistre, senza alcuna preoccupazione di quanti gas climalteranti si manderanno in atmosfera per realizzarla. Ed allora si dia un segnale alle popolazioni colpite convocando un vertice europeo in cui si prendano decisioni su una nuova politica energetica basata sul risparmio e sulle fonti rinnovabili. Ma non è solo il cambiamento climatico e l'incapacità evidente di governarne le manifestazioni la causa di tante devastazioni. Anzi più si guarda e si va a fondo della questione e più emergono le colpe: di territori incapaci di assorbire le piogge perché la speculazione li ha ricoperti di cemento, asfalto e costruzioni, o di fiumi le cui aree di pertinenza, quelle in cui dovrebbero espandersi le piene risultano invece costruite, coltivate, infrastrutturate pesantemente, o di colline rase al suolo da un'agricoltura industriale parassitaria ed eccedentaria, o di un'attività edificatoria senza soste e di un'abusivismo sempre tollerato e sanato.

Da più parti si invocheranno nuove opere idrauliche per governare fiumi e frane e piogge senza capire che se non si mettono in discussione gli usi sbagliati e speculativi del territorio non si potrà governare le conseguenze del maltempo e del cambio di clima. Anche qui servono segnali chiari e non solo parole. Il centro sinistra che si avvia alle primarie dichiari che il riassetto idrogeologico del territorio è la principale ed unica opera pubblica che intende realizzare se governerà, un'opera pubblica fatta non di cemento e asfalto, ma di conoscenza dei territori manutenzione e cura della terra e perché no di qualche demolizione.

Titolo originale: The regional revolution – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Prezzi delle case da far piangere, pendolarismo caotico e ritmi di vita surriscaldati: Londra ha parecchi degli svantaggi che vi aspettereste da una metropoli. Così molte imprese britanniche e i loro dipendenti stanno iniziando a capire che esiste vita anche fuori dalla capitale.

Mentre il governo cerca di rimediare ai problemi e riattirare posti di lavoro e investimenti verso Londra, le agenzie di sviluppo regionale del paese lavorano per convincere le imprese provviste di risorse che esiste la possibilità di avere di più in cambio di quel denaro – oltre ad una migliore qualità della vita per i dipendenti – in Scozia, Galles, o nell’Inghilterra del nord.

Gli uffici governativi hanno promesso di dare l’esempio, con decine di migliaia di posti di lavoro rilocalizzati da Whitehall ad altre parti del paese nei prossimi anni.

Molte delle capitali regionali del Regno Unito - Manchester, Birmingham, Leeds, Glasgow – stanno rinascendo, riprendendo dal punto in cui avevano lasciato quando iniziò il lungo e lento declino della loro tradizione industriale più di 50 anni fa.

Oggi spuntano imprese della comunicazione là dove un tempo c’erano fabbriche (spesso anche letteralmente, quando gli edifici industriali abbandonati del XIX secolo vengono riaggiustati e rioccupati). E l’eredità della tradizione imprenditoriale, dell’assunzione di rischi e dell’innovazione che aveva contribuito alla rivoluzione industriale sta trovando nuovi sbocchi nella scienza, nella ricerca e sviluppo, nella progettazione d’avanguardia.

Appartamenti di città all’ultima moda attirano di nuovo giovani professionisti nei quartieri centrali, dove un tempo stavano zone inaccessibili, e attorno sono spuntati bar, ristoranti, negozi. Compagnie di venerabile tradizione stanno spostando parte delle proprie attività verso zone del paese dove non avrebbero mai pensato di andare vent’anni fa; e nascono nuove imprese, qualche volta con un pizzico di denaro pubblico.

Costi inferiori degli immobili e della manodopera, spesso solo una frazione di quelli della Capitale, e lavoratori formati, contribuiscono ad offrire solide basi economiche a questo trasferimento di interesse da Londra. Aiutano anche i solidi collegamenti nei trasporti, e la congestione inferiore a quella della Capitale. E l’alta qualità della vita, la vicinanza alla costa, i magnifici parchi naturali del Lake District o del Peak District, ad esempio, possono essere un enorme incentivo.

Questo rinascimento urbano non è arrivato certo dappertutto, ovviamente: ci sono ancora sacche di alta disoccupazione e stenti sparse per il Regno Unito, non toccate dalla ripresa economica degli ultimi anni.

E nonostante la quantità di impressionanti vicende positive, sarebbe pericoloso dare per scontata la ripresa di queste regioni. Le RDA [ Regional Development Authorities n.d.T.] sono in concorrenza per gli investimenti non soltanto con Londra o Francoforte, ma anche con la Repubblica Ceca, la Polonia, che ora fanno parte della nuova Unione Europea allargata: oltre che con la Cina o l’India, i giganti low-cost in rapida crescita economica nell’estremo oriente.

Le capacità dei lavoratori britannici, l’inventività degli imprenditori, la qualità della vita, diventeranno sempre più importanti perché le attività arrivate in questi luoghi possano mettere radici profonde e prosperare.

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Nei giorni in cui la banlieue della sua Parigi bruciava, Renzo Piano lavorava alla nuova sede della Columbia University a Harlem, il simbolo dei ghetti che sta diventando uno dei motori del rilancio di New York. L’immagine basta a illustrare l’abisso di attenzione che separa gli Stati Uniti e la vecchia Europa sul problema delle periferie. Passata la rivolta, il rischio è di dimenticare, in attesa del prossimo incendio. Il ruolo di ambasciatore Unesco per le città e le decine di progetti sparsi in quattro continenti, hanno portato Piano a conoscere come forse nessun altro le periferie del mondo. O come dice lui, «un mondo di città spesso ridotte a una sconfinata periferia».

Cominciamo naturalmente dalla banlieue francese, una rivolta annunciata. Si è citato molto un bel film, L’Odio, ma si potrebbe parlare anche di decine di tesi di laurea. Lei stesso, l’anno scorso, aveva lanciato l’allarme.

«È spiacevole fare ora il grillo parlante ma non occorreva essere profeti. Il problema delle banlieues è che sono ghetti di cui quasi nessuno in Francia si vergogna. Non la destra ma nemmeno la sinistra. È raro trovare un paese dove l’intera classe dirigente rimane così indifferente ai problemi dell’integrazione. È un dramma che la Francia vive dai tempi della guerra d’Algeria. Ogni tanto esplode, se ne discute un po’ e si torna a rimuoverlo. La rivolta è già stata archiviata da Sarkozy come "opera della solita feccia". Ora non dico che non ci siano i teppisti. Ma la feccia esiste anche nella Parigi borghese o nella Milano bene. Se diventa la guida di una rivolta, è evidente che il problema non si risolve soltanto con una brillante operazione di polizia».

La banlieue parigina non è più povera di altre periferie europee, per non dire delle bidonville di mezzo pianeta. E allora perché tanta disperazione?

«Non è una questione di estrema povertà ma di esclusione, di negazione dell’identità che produce odio. Tutte le città sono egoiste, tendono a trattenere nel centro le attività d’interesse e a relegare le periferie nel ruolo di dormitori. Ma le città francesi sono particolarmente ingenerose nei confronti delle periferie, ridotte a deserti affettivi dove non c’è nulla da fare, nulla in cui sperare. Sarebbe facile dire che si tratta di un fallimento della politica della destra, ma ripeto che neppure ai tempi di Jospin s’era fatto molto. Magari le rivolte servissero a far nascere una sinistra nuova»

Romano Prodi ha detto che una rivolta potrebbe scatenarsi anche nelle periferie italiane. È d’accordo?

«No. Con tutta la stima che ho per Prodi, stavolta sbaglia. Anche se l’approssimazione della politica rischia di innescare la miccia. Bisognerebbe cercare di non ripetere gli errori dei francesi. Ma almeno i nostri politici si pongono il problema, sia pure in maniera maldestra».

Più che altro si fanno grandi annunci, splendidi convegni, pose di prime pietre. Sono vent’anni che si sente parlare del recupero dell’hinterland milanese o delle barriere torinesi ma il paesaggio delle periferie del Nord rimane un dopoguerra industriale, con gli stabilimenti ormai ruderi. E fra le rovine s’avanza una nuova umanità di mutanti, dimenticati da tutti.

«Il problema in Italia è che la politica fa molto spettacolo. Quando Umberto Veronesi era ministro avevamo studiato insieme un progetto per portare nelle periferie gli ospedali. Un lavoro magnifico, avevamo raccolto un consenso entusiastico e bipartisan, poi al cambio di ministero si sono dileguati. Con i sindaci va un po’ meglio. Per esempio i progetti di Ponte Lambro a Milano e soprattutto del recupero del waterfront di Genova - una specie di risarcimento storico del Ponente industriale - vanno avanti, magari lentamente. Soltanto che la politica italiana è scandita dai tempi elettorali e queste non sono faccende da taglio dei nastri alla vigilia del voto. Dove si lavora meglio è nei piccoli centri. A Sesto San Giovanni per esempio, l’ex Stalingrado d’Italia, ho trovato finalmente la libertà di progettare un nuovo modello di trasformazione, con grandi centri di ricerca, parchi, vivaio d’imprese ad alta tecnologia. Soprattutto la libertà di cominciare il lavoro rifiutando la soluzione convenzionale per il recupero delle aree industriali: il centro commerciale. Per carità, basta con gli shopping center»

Le periferie che in Europa sono un problema in America diventano un’occasione. La metamorfosi di Harlem è affascinante, da ghetto a nuova frontiera di Manhattan, con i politici che fanno la fila per aprire i loro uffici, a partire da Bill Clinton, la Columbia University che progetta una grande sede. Che cosa è successo?

«È vero, Harlem è in qualche modo la risposta alle banlieue. È successo che la politica ha imboccato decisamente la strada opposta, quella dell’apertura, dell’investimento nel futuro. Forse perché gli americani hanno avuto le rivolte prima di noi, hanno imparato la lezione. Oppure perché la cultura delle periferie ha avuto successo, pensiamo al rap, alla street dance di West Harlem. Conta anche il coraggio della classe dirigente. A chiamarmi per la nuova sede di Harlem è stato il presidente della Columbia, Lee Bollinger. È stata sua l’idea di portare l’università dove scorre la vita, nel cuore della realtà, piuttosto che in un bel campus con parchi e piscine. Ed è un’emozione straordinaria costruire una biblioteca nella piazza che negli anni Sessanta fu il quartier generale dei Black Panthers. Ma anche il sindaco di Atlanta, Sherley Franklyn, una donna di colore che conosce bene i ghetti, sta puntando tutte le risorse nella creazione di un campus culturale. Lo stesso accade a Los Angeles, che è una specie di metafora della periferia universale, una città gigantesca e senza centro. Qui per la prima volta togliamo un immenso parcheggio sul Wilshire Boulevard per fare una piazza e un parco intorno al museo»

E in Europa invece non si muove nulla. Ma c’è anche una responsabilità degli architetti?

«Il dibattito in architettura di questi ultimi anni è deprimente. Troppo ruota intorno all’equazione fra architettura e scultura. Una colossale perdita di tempo oltre che un’idiozia pericolosa. Sarebbe bene troncare questi tormenti da artistoidi e tornare a occuparsi di faccende serie come appunto le periferie. Il mestiere di architetto serve in definitiva a far vivere meglio la gente, non a mettere il proprio segno sul paesaggio. Un architetto deve parlare con la gente, esplorare la città, capire i cambiamenti, altrimenti a che diavolo dà forma?»

Lei parla di periferie del mondo, di periferia universale contrapposta all’idea stessa di città.

«Non è un’astrazione ma un richiamo ai valori che formano la città e dunque la nostra civiltà. Lo stesso termine periferia ormai è ambiguo, più aggettivo che sostantivo. Che cos’è, dov’è la periferia? È il luogo dove i valori della città muoiono. Può esserci periferia anche nel cuore di una metropoli. Nella mia esperienza, il plateau Beaubourg prima del centro Pompidou, oppure Postdamerplatz a Berlino o ancora la zona dell’Auditorium a Roma, pur non essendo ai margini, erano pezzi di periferia imprigionati nel tessuto urbano. Luoghi dove erano spariti i valori della città, l’incontro, il lavoro, lo scambio fisico. Quei valori della città che per estensione diventano urbanità, civitas. E quando mancano producono odio. A Beabourg, Postdamer, l’Auditorium c’è un tratto comune che si potrebbe definire di allegria urbana. Sono luoghi allegri, vitali, al di là delle diverse e legittime opinioni estetiche dei critici».

Esiste un sistema per ridare vita a luoghi spenti?

«La questione è considerare una piazza, una strada, un parco dal punto di vista di chi ci deve andare. Non da quello del committente o del critico o dell’architetto che progetta. Le città sono lo specchio della nostra società e dunque oggi stanno perdendo i luoghi d’appartenenza, di partecipazione. Diventano città virtuali, dove ci si limita a guardare e a essere guardati. Allora le differenze diventano una minaccia. La banlieue è il punto in cui questo processo di negazione dell’identità collettiva è massimo e disperato. Perché stupirsi se in questo deserto di confine avanzano i barbari?»

Postilla

Renzo Piano è certamente un bravo architetto e un uomo intelligente. Dovendo intervistare un architetto, la scelta del giornale è ragionevole. Ma possibile che sulle periferie ci si appelli esclusivamente a questi professionisti e non, per esempio, a sociologi o, addirittura, ad urbanisti? Poi è inevitabile che il problema delle periferie venga presentato come necessità di buone architetture (magari entrando in contraddizione con la critica al formalismo dell’architettura di oggi). O che si arrivi ad auspicare come modello una Harlem che ha assunto certamente maggiore vivibilità, ma solo perchè si è lasciata mano libera al mercato, il quale ha esportato un po’ più in là i ghetti. Il problema delle periferie, italiane o francesi che siano, è quello della capacità di governare il territorio con una pianificazione efficace e dotata di risorse, non di costruire qua e là qualche oggetto più o meno bello.

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