loader
menu
© 2024 Eddyburg
Antonio Cederna
1987, Un programma per il territorio
23 Ottobre 2007
Scritti di Cederna
Vent'anni fa è stato pubblicato questo articolo sulla rivista Oasis (III, 4, apr. 1987, p. 10). Valuti il lettore che cosa è cambiato da allora

La renitenza delle regioni (salvo rare eccezioni) ad applicare la legge Galasso invita a riflettere ancora una volta sui perché della radicata avversione tutta italiana verso ambiente paesaggio natura. Amministrazioni affette da un attivismo senza qualità e senza scopo sostengono che quella legge (ci sono voluti quarantatré governi della Repubblica) costituisce una remora, un impedimento, un “blocco” (è la parola più usata) allo sviluppo dell’edilizia, delle infrastrutture, delle opere pubbliche: quando invece altro non è che uno stimolo a una pianificazione finalmente appena un poco riguardosa di quei valori che una recente sentenza della Corte Costituzionale ha definito primari, prioritari, prevalenti.

Tra le spiegazioni che si sono date di quell’avversione ci sarebbe il fatto che in Italia la natura si è spesso identificata con un territorio avaro, fonte di povertà e fatica; oppure, d’altro lato, la mitezza del clima (da noi come negli altri paesi mediterranei) avrebbe favorito un’equivoca familiarità, e quindi una generale sottovalutazione, che ha annullato quel carattere sacro che gli antichi attribuivano alle selve, alle sorgenti, ai corsi d’acqua: cosa per cui solo i paesi che hanno avuto a che fare con una natura più ingrata (l’“orrore” delle foreste, il clima rigido eccetera) hanno imparato a rispettarla e ad usarla nel migliore dei modi. Un esempio fra tutti l’Olanda, che prosciuga il mare, realizzando insediamenti modello, ricreando agricoltura, vegetazione, biotopi.

Tutto vero, questo e altro: ciò che accomuna la maggioranza degli italiani, uomini di cultura e gente semplice, proletari e borghesi, chierici e laici è una profonda malformazione mentale che ci ha portato a una vera e propria rimozione del territorio: anziché una risorsa scarsa, preziosa e irriproducibile per definizione, esso viene degradato a terra di nessuno ovvero a semplice vuoto da riempire, a tutto vantaggio del parimenti radicato culto funesto per la crescita illimitata scambiata per progresso, per l’aumento, quale che sia, di costruzioni, strade, industrie: causa di un’urbanizzazione indiscriminata e selvaggia, per decenni condivisa dalle stesse forze della sinistra che, in cambio di pochi posti di lavoro, hanno sostenuto e incoraggiato la costruzione degli impianti industriali più inquinanti, più energivori e più costosi. La devastazione delle coste, nei varchi lasciati liberi dalla speculazione edilizia, ne è l’esempio peggiore.

La società industriale ha così fatto propria quell’altra malformazione propria della vecchia tradizione giudaico-cristiana che ha reso l’uomo despota di ambiente e natura: e San Francesco (fatto patrono dell’ecologia e d’Italia) che ha predicato la fratellanza con ogni altro essere vivente, uccellacci dei cimiteri compresi, appare un santo immeritato ed estraneo, passato come una meteora nella nostra cultura, tutta basata sull’uomo sfruttatore rapinoso della natura. Non a caso abbiamo il maggior esercito d’Europa di cacciatori e sfoghiamo a bastonate il nostro odio contro gli animali domestici: abbiamo avuto un papa, Pio XII, che benedisse i tiratori di piccione, e Bertrand Russell ricorda che Pio IX si rifiutò di ricevere quelli della protezione animali, considerando eretico credere che verso di essi l’uomo avesse qualche dovere.

C’è anche chi sostiene che la natura è femmina e come tale va trattata. Conservazione, tutela, salvaguardia sono tutti sostantivi femminili: le metafore con cui viene qualificata l’opera dell’uomo-padrone sono esplicite. La terra va “fecondata”, il viadotto (immancabilmente ardito) “cavalca” la valle, il tunnel “perfora” il monte, la strada “si insinua” tra le colline. Se il territorio è terra di nessuno, diventa proprietà di chi lo arraffa per primo, spazio aperto alle manovre di chi fonda le sue fortune sul suo saccheggio. Gli speculatori sono abili nel diffondere demagogici luoghi comuni che fanno presa sulla gente: “prima l’uomo e poi il camoscio”, “prima l’uomo e poi il muflone” sono gli slogan che negli anni passati hanno paralizzato i parchi nazionali esistenti e impedito la creazione di nuovi (ricordiamo l’ultrasinistra di Orgosolo che sparava a zero contro il parco del Gennargentu).

Di qui le alienazioni di terreni comunali, la privatizzazione del territorio naturale, le lottizzazioni per qualche posto di lavoro temporaneo nell’edilizia. Tutti i calcoli sono stati sbagliati: perché lavoro, occupazione diretta e indotta e benessere duraturo possono, al contrario, essere garantiti proprio dalla tutela dell’ambiente naturale, purché le aree protette siano messe in grado di funzionare; cosa che nel parco d’Abruzzo hanno cominciato a capire in molti, come mostra il caso esemplare del piccolo comune di Civitella Alfedena, la cui Cassa Rurale ha stampato sui propri assegni l’orsetto del parco. Sbagliare i calcoli economici e i conti ecologici è tipico di una società stravolta. La conservazione della natura sarebbe “antieconomica” dice un altro luogo comune: vorrà allora dire che è “economico” lo spreco edilizio e stradale (100 milioni di stanze per 56 milioni di abitanti; tre milioni di ettari, cioè un decimo dell’Italia, distrutti in un quarto di secolo sotto cemento e asfalto; e che è segno magnifico di benessere il costo spaventoso del dissesto idrogeologico causato dal disprezzo per il territorio e l’ambiente (circa tremila miliardi l’anno).

L’Italia si avvia così ad essere un paese a termine, che può essere consumato, finito entro poco più di un secolo. È una prospettiva che non allarma i nostri uomini di cultura, tutti lettere e arti belle, che tutt’al più si mobilitano per Capri o Portofino; né tanto meno preoccupa gli architetti, nella gran maggioranza smaniosi di lasciare la loro “impronta”. Come i fautori del nucleare (fautori dello spreco energetico) accusano gli ambientalisti di voler “tornare al lume di candela”, così gli architetti li accusano, senza vergognarsi, di voler tornare all’arcadia, di “imbalsamare” la natura ovvero di metterla sotto una “campana di vetro” e via spropositando. Ed esultano per i quattro milioni di metri cubi che l’operazione Fiat-Fondiaria vorrebbe scaricare sulla piana di Sesto presso Firenze e sono convinti che la natura proprio non esiste se non è corredata dalle loro opere.

A stento anni fa si riuscì a impedire che venissero lottizzati la campagna e i ruderi della Via Appia Antica, che qualche superstite macchia-pineta costiera (come S. Rossore-Migliarino) venisse cementificata; c’era un illustre professore romano che invitava gli studenti a progettare edifici al posto dei giardini pubblici, perché – diceva – il verde in città “fa giungla”. (A titolo di merito, va ricordato l’architetto Giancarlo De Carlo che rinunciò a lottizzare una fascia litoranea toscana, per la buona ragione, che la qualità dell’architettura non può mai riscattare l’errore ambientale e urbanistico). Assai diffusa è la protesta contro i vincoli di tutela: sarebbe ora che capissero che i vincoli di tutela (paesistici, naturalistici, forestali, idrogeologici eccetera) sono un servizio pubblico, a difesa del nostro spazio di vita, della nostra cultura e della nostra stessa incolumità.

La pianificazione dei vuoti, l’individuazione delle “aree irrinunciabili” alla cui rigorosa salvaguardia subordinare ogni ipotesi di trasformazione e sviluppo, la creazione di riserve, aree protette, parchi naturali, costieri, fluviali, urbani, territoriali, la gelosa salvaguardia del terreno agricolo: questo è il compito dell’urbanistica moderna.

È l’esempio dei paesi avanzati, anche nelle zone più densamente abitate, dalle new towns inglesi alla Grande Stoccolma alle villes nouvelles francesi: ad Amsterdam non esistono le Appie antiche, ma se le sono create nelle maglie dell’espansione edilizia.

Sono paesi che applicano da decenni una politica che abbatte la rendita fondiaria: altra conquista civile a noi sconosciuta. Ma anche da noi sono sempre più evidenti i segni di una presa di coscienza, sempre più numerose le iniziative, le denunce, le battaglie delle associazioni, dei verdi, dei sodalizi sparsi per l’Italia. Quanto agli irriducibili occorrerà rispondere come rispose il naturalista alla signora impellicciata che gli chiedeva a cosa servono i castori vivi: “a niente, signora, come Mozart”.

ARTICOLI CORRELATI
14 Febbraio 2011

© 2024 Eddyburg