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Del fitto decalogo che Norma Rangeri ha proposto alla discussione pubblica privilegerei solo pochi temi, ma tutti curvati ai bisogni fondativi di quell' organismo politico cui la sinistra aspira da tempo.
E tuttavia partendo da una considerazione generale.Non pochi si stupiscono, che proprio in Italia, malgrado i ripetuti tentativi, non riesca a prender forma una forza politica di sinistra simile a Syriza o a Podemos. Si stupiscono che ciò accada proprio nel Paese che ha visto nascere e prosperare il maggiore partito comunista dell 'Occidente. E invece proprio in questa storia, in questo passato di successo, si trova almeno una ragione delle presenti e sinora sovrastanti difficoltà. Più grandi e sontuosi sono i monumenti, più ingombranti le macerie che il loro crollo dissemina. Da noi, a sinistra, non c'è uno spazio vuoto in cui edificare. Ci sono i resti del PCI, gruppi dirigenti che sopravvivono alla sua storia dentro il PD e che da riformatori moderati conservano legami di consenso con settori popolari e di ceto medio della società italiana. Gruppi che oggi stemperano il neoliberismo riverniciato e senza prospettive del governo Renzi. Poi ci sono i tronconi sopravvissuti alle scissioni multiple: SEl, Rifondazione comunista, quel che resta de L'altra Europa con Tsipras e altre formazioni più o meno pulviscolari. Infine la galassia dei movimenti e delle associazioni con i loro leader.
Se dovessi condensare la situazione presente in una immagine, ricorrerei alla metafora che gli illuministi meridionali del XVIII secolo utilizzarono per rappresentare Napoli nel territorio del Regno: una grande testa su un corpo fragile. La sinistra politica italiana è tutta testa e quasi priva di corpo. E' una costellazione di dirigenti e di gruppi intellettuali senza popolo. Si tratta di un grande patrimonio che nessun Paese d'Europa, forse neppure la Francia, oggi può vantare, ma che rischia di esaurire la propria azione in un'opera di impotente testimonianza. E' evidente, dunque, che se tutti sono dirigenti essi portano oggi una responsabilità enorme. Ad essi spetta fare le mosse, prendere le iniziative che possono aggregare le forze, trovare il cammino dell'unità, capace di rovesciare l'attuale dispersione in un aggregato largo e potente.
Ora sono almeno due i problemi fondamentali che questi gruppi dirigenti ormai consapevoli della situazione drammatica cui siamo giunti, in Italia e nel mondo, debbono affrontare. Uno riguarda la necessità di dare gambe robuste alla grande testa, in maniera di consentire non solo al corpo di camminare, ma alla testa stessa di pensare in maniera adeguata alle sfide presenti. C'è un unico modo di munire la testa di gambe, che è quello di andarsele a cercare. Esiste in Italia una questione più grave della condizione giovanile? Disoccupazione al 44%, precariato, lavoro in nero, gratuito, aumento delle tasse universitarie, sbarramento degli accessi, decurtazione delle borse di studio, ecc.Ma non basta gridare contro le precarietà.Occorre andare dove essa si genera, parlare con i lavoratori , farsi raccontare i loro problemi, ascoltare le loro idee. La proposta del reddito minimo o di cittadinanza, che io chiamerei il reddito di dignità, è arrivata nelle commissioni del Parlamento. Ma i dirigenti sono mai andati nelle scuole, nelle Università, nei luoghi pubblici a spiegare le ragioni della proposta? Eppure non solo è indispensabile mobilitare i soggetti sociali interessati per vincere questa battaglia, è anche necessario conquistare alla militanza forze giovani, in grado di dare nuove energie alla lotta politica. Almeno un paio di generazioni sono state annichilite dal modello capitalistico che domina da trent'anni. Le lasciamo nel loro limbo, oppure offriamo loro almeno una prospettiva politica?
Questo bagno sociale dei dirigenti si rende necessario per un'altra ragione. Essi debbono sapere che non basta dire “cose di sinistra” per ottenere consenso. Anche i dirigenti di sinistra oggi sono percepiti dalla grande maggioranza degli italiani come membri del numeroso esercito del ceto politico, con gli stessi privilegi, ma con l'aggravante di essere deboli e minoritari. Non importa la loro storia, il loro personale disinteresse.E' così.Occorre dunque che essi compiano tutte le operazioni necessarie per liberarsi di questa ingombrante divisa che li fa somigliare a tutti gli altri.
L'altro grande problema da affrontare riguarda la costruzione e il mantenimento dell'unità della dirigenza in presenza di una così marcata difformità, di posizioni,vedute, storie personali, ecc In questo nodo si concentra la nostra più grande sfida, decisiva per uscire dall'impotenza a cui sembriamo condannati. Occorre non soltanto organizzare un gruppo dirigente trasparente e controllabile dalla base, capace di ascoltare le voci che vengono dal basso, ma trovare soprattutto il modo di far coesistere il dissenso interno con le scelte della maggioranza. Discussione, decisione, ma anche condivisione del progetto unitario anche da parte di chi dissente. Un tempo tale risultato si otteneva – ad esempio nel vecchio PCI, che ereditava in parte il modello leninista – con la disciplina del cosiddetto centralismo democratico, grazie al collante semireligioso dell'ideologia, ma anche, diciamo la verità, in virtù di quell'amalgama di autoritarismo burocratico e passività conformistica dei militanti che caratterizzava in genere i partiti di massa.
Oggi questo non è più possibile. Ogni testa pensa da sé. E' la ricchezza culturale e la tragedia politica del pluralismo. E non c'è altra strada per domare tale disordinata potenza della modernità che la sapienza politica delle regole. Occorrono regole chiare e ben pensate fin da subito, per far coesistere le diversità e rendere fisiologici, puro dinamismo di crescita, i conflitti interni. Circolarità delle cariche, criteri elettorali interni e di accesso alla rappresentanza, regole di disciplinamento dei rapporti con le istituzioni o con le società private, uso delle risorse, ecc. E soprattuto stabilire le basi minime di un'etica del dissenso. I dirigenti, proprio perché spesso lontani dai comuni cittadini, neppure immaginano quali ferite provochino nell'animo di militanti ed elettori i loro gesti di disaccordo sbandierati ai quattro venti. Ciò che il popolo della sinistra non tollera è la divisione delle forze politiche che pretendono di difenderlo dai grandi poteri capitalistici.Se si è divisi si è deboli e si va incontro alla sconfitta. Certo, il pudore del silenzio, in caso di dissenso, non si può imporre per decreto. Ma occorrerebbe far di tutto per farlo diventare un valore, supremo e distintivo, dell'essere di sinistra.