Beni materiali come immobili e terreni; grandi infrastrutture come porti, aeroporti, strade, autostrade, acquedotti; e poi risorse naturali come i parchi, le montagne, il paesaggio, i beni d´interesse storico e culturale. E anche beni immateriali come la moneta, i crediti pubblici, marchi, brevetti, opere dell´ingegno, frequenze elettromagnetiche, diritti televisivi su manifestazioni sportive e quant´altro. Il patrimonio pubblico è una cornucopia di attività che vale, secondo le stime degli esperti, il 140% del Prodotto interno lordo. Ma solo il 25%, pari a 400 miliardi di euro, composto di crediti, partecipazioni, immobili e concessioni, è in grado di produrre reddito.
Oggi questo ingente patrimonio ha un rendimento netto negativo. Se si riuscisse a farlo fruttare almeno il 2%, si otterrebbero circa 10 miliardi all´anno da utilizzare nel conto economico della Pubblica amministrazione. Più o meno, la metà di una Finanziaria di medie dimensioni.
Sul fronte dei beni considerati in eccesso rispetto alle funzioni pubbliche, si calcola poi che il valore complessivo degli immobili ammonti a 100-150 miliardi di euro, a cui vanno aggiunti crediti e partecipazioni. Dalla privatizzazione di questi cespiti, sempre che costituiscano una "mano morta" per lo Stato e senza comprendere le aziende che svolgono effettivamente attività d´interesse pubblico, si potrebbero recuperare in futuro dai 10 ai 15 punti di Pil. Una riserva disponibile, dunque, che può contribuire a finanziare la costruzione di nuove opere o la riduzione del debito pubblico – un mostro che divora ogni anno 70 miliardi di interessi – nell´ordine di 0,5-1 punto di Prodotto interno all´anno.
È un assurdo tutto italiano che il patrimonio demaniale venga amministrato ancora in base a un "corpus" giuridico di dieci articoli (da 822 a 831), contenuti nel Codice civile del 1942 (Libro III, titolo I, capo II). Sono passati più di sessant´anni e questa disciplina risulta ormai obsoleta, incapace di regolare le trasformazioni intervenute nel frattempo. Ma adesso il nuovo ministro della Giustizia e soprattutto quello dell´Economia troveranno sul loro tavolo la bozza di un disegno di legge-delega, predisposto da una commissione nominata nel giugno scorso dall´ex ministro Clemente Mastella; presieduta da Stefano Rodotà, ordinario di Diritto civile all´Università La Sapienza di Roma; e composta da diversi giuristi ed economisti, tra cui il vice-presidente Ugo Mattei, ordinario di Diritto civile all´Università di Torino; Giacomo Vaciago, ordinario di Politica economica all´Università Cattolica di Milano ed Edoardo Reviglio, docente di Scienza delle Finanze all´Università di Reggio Calabria, al quale si devono le stime riportare all´inizio.
Il progetto elaborato dalla Commissione Rodotà introduce, innanzitutto, una nuova categoria fondamentale: quella dei "beni comuni" che non rientrano strettamente nella specie dei beni pubblici, poiché sono a titolarità diffusa e possono appartenere anche a soggetti privati. Oltre alle risorse naturali (fiumi, laghi, aria, parchi, boschi, foreste e coste dichiarate riserva naturale), ne fanno parte i beni archeologici, culturali e ambientali. «Sono beni che – come si legge nella relazione di accompagnamento – soffrono di una situazione altamente critica, per problemi di scarsità e di depauperamento e per assoluta insufficienza delle garanzie giuridiche». La Commissione li definisce come cose che hanno utilità funzionali all´esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo della persona, con riguardo anche alle generazioni future.
È stata prevista perciò una disciplina particolarmente garantistica, in grado di preservarne in ogni caso un godimento collettivo. La possibilità di concessione dei "beni comuni" ai privati viene rigidamente limitata. E mentre il diritto al risarcimento o alla restituzione in caso di danni o di appropriazione spetta allo Stato, la facoltà di ricorrere alla magistratura per inibirne l´uso improprio è riconosciuta a chiunque possa usufruirne, in quanto titolare di un corrispondente diritto soggettivo.
Per quanto riguarda i "beni pubblici", appartenenti a soggetti pubblici, il progetto della Commissione Rodotà abbandona la distinzione formalistica fra demanio e patrimonio, sostituendola con tre nuove categorie: beni ad appartenenza pubblica necessaria; beni pubblici sociali e beni fruttiferi. I primi sono quelli che soddisfano interessi generali fondamentali, come la sicurezza, l´ordine pubblico, la libera circolazione. E comprendono le opere destinate alla difesa; la rete ferroviaria, stradale e autostradale; i porti e gli aeroporti. Per tutti questi beni, viene introdotta una disciplina rafforzata rispetto a quella oggi in vigore per i beni demaniali: oltre a restare inalienabili e non soggetti a usucapione, ricevono garanzie esplicite in materia di tutela risarcitoria e inibitoria.
I "beni pubblici sociali" soddisfano esigenze della persona particolarmente rilevanti nella società dei servizi, cioè le esigenze corrispondenti ai diritti civili e sociali. Ne fanno parte, fra gli altri, le case dell´edilizia residenziale pubblica, gli ospedali, gli edifici scolastici e universitari, le reti locali di pubblico servizio. Per tutti questi beni, il vincolo di destinazione d´uso può cessare solo se venga assicurato il mantenimento o il miglioramento dei servizi sociali erogati. La tutela amministrativa è affidata allo Stato e a enti pubblici anche non territoriali.
L´individuazione della terza categoria, quella dei "beni pubblici fruttiferi", tende a favorire appunto l´utilizzazione più efficiente del patrimonio pubblico, con maggiori benefici per l´erario. Si tratta, in sostanza, di beni privati in appartenenza pubblica, alienabili e gestibili con strumenti di diritto privato. Ma sono stabiliti limiti precisi alla loro alienazione, proprio per impedire le "dismissioni facili" e comunque per privilegiare un´amministrazione efficiente da pare di soggetti pubblici.
Nella stessa prospettiva, il disegno di legge-delega fissa una serie di criteri per garantire al meglio la gestione e la valorizzazione dei beni pubblici. In particolare, si prevede per il loro uso il pagamento di un corrispettivo rigorosamente proporzionale ai vantaggi che può trarne chi li utilizza, con meccanismi di gara fra più offerenti. E inoltre, vengono introdotti nuovi strumenti di tutela in ordine all´impatto sociale e ambientale che deriva dal loro uso.
Al di là degli aspetti economici, «il progetto – come sottolinea lo stesso professor Rodotà – riconduce questa parte del Codice civile ai principi fondamentali della Costituzione, collegandone l´utilità alla soddisfazione dei diritti della persona e al perseguimento di interessi pubblici fondamentali». Non più "mano morta", insomma, ma neppure "dismissione facili" o peggio "svendite di Stato" che favoriscano pochi privilegiati a danno di tutti i cittadini. Se il patrimonio è comune, anche i benefici che se ne ricavano devono essere il più possibile comuni.