Mentre si esaltano i combattenti di Salò, si torna a fare il tiro al bersaglio contro il '68. Addirittura presentandolo come ideologia del «nullismo», accanto alle altre ideologie scadute quali fascismo, comunismo, socialismo e «mercatismo» (Tremonti). Non penso che se ne debba fare l'apologia, ma l'immagine del Sessantotto che traspare da molti interventi e che viene trasmessa alle nuove generazioni comporta dei rischi per tutti: vecchie e nuove generazioni.
Perché mai, ci si dovrebbe chiedere, quarant'anni fa il mondo accademico non è stato in grado di prevedere né di contenere l'ondata della contestazione studentesca, nonostante che i segnali per aspettarsela ci fossero tutti: da Berkley a Pechino, da Amsterdam a Berlino, da Praga a Tokyo? E perché il mondo politico e governativo non era stato capace di affrontare in modo sensato l'esplosione dei movimenti di massa degli anni seguenti? E il mondo imprenditoriale l'insorgenza operaia nelle sue fabbriche? Per ottusità . Non per ottusità individuale (il quoziente intellettivo era nella media), ma per una forma di «ottusità sociale» che rimanda alla temperie culturale di quegli anni: alle cose che ciascuno riteneva importanti e a quelle che riteneva irrilevanti. Una gerarchia di priorità che il Sessantotto avrebbe sovvertito alle radici. A quarant'anni di distanza la comprensione del Sessantotto da parte degli uomini e delle donne al potere sembra non aver fatto passi avanti. Di qui l'interpretazione dei disastri in cui siamo immersi come se fossero il frutto del Sessantotto; e non, invece, dell'incapacità delle classi dirigenti, allora, di rapportarsi con esso e, in seguito, del suo soffocamento: in Italia particolarmente pesante perché costellato da stragi di Stato (non una, ma almeno dieci) e dal terrorismo: entrambi stupidamente assimilati ai movimenti di massa dell'epoca. Come se l'esercito sconfitto fosse responsabile dei saccheggi perpetrati dal conquistatore; o le guardie dei furti del ladro che non hanno saputo arrestare.
Mondi paralleli
Il Sessantotto ritorna così sul banco degli imputati ad opera, in realtà, di coloro che più se ne sono avvantaggiati: individui e gruppi che mai avrebbero raggiunto le posizioni che hanno oggi, né potuto attivare gli strumenti del potere che hanno fatto la loro fortuna, né sentenziare nel modo spregiudicato che hanno adottato, né ostentare comportamenti che non hanno più bisogno di nascondere, se allora un intero mondo non fosse crollato, sgombrando la strada al loro successo. Invece, disconoscendo questo incontrovertibile dato, la proposta politica che ci presentano è di fare come se il Sessantotto non ci fosse stato. Di ricominciare da «prima del Sessantotto». E ricominciare naturalmente (come allora), dalla scuola. Lo ha fatto sul Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia: con una descrizione dello stato delle cose (la «perdita di senso della scuola italiana») tanto corretta quanto scontata; per passare subito alla sua ricetta per «uscirne fuori»: ritrovare un collante culturale nella storia e nella letteratura italiane quali vettori di una ritrovata identità nazionale: quella che il Sessantotto ha cancellato.
Una proposta che equivale al rifiuto di confrontarsi con il presente; poco importa che Galli la integri chiedendo maggiore spazio alla matematica per affrontare il futuro: la matematica, senza una griglia di interpretazione del presente, non è di aiuto per nessuno.
Viviamo in un'epoca di globalizzazione, di «connettività» a tutto campo, di migrazioni che trasformano il nostro habitat - che lo vogliamo o no - in un ambiente multiculturale, di crisi ambientale planetaria, di guerre locali permanenti (altro che il Vietnam: un evento singolo che era bastato a cambiare la vita a un'intera generazione), di manipolazioni incontrollata delle basi biologiche delle nostre esistenze, di modifica permanente dello statuto degli affetti e dei sentimenti. Una scuola che non guidi a confrontarsi con questi problemi è condannata alla marginalità e all'irrilevanza. Cioè a quella perdita di senso che Galli della Loggia imputa al Sessantotto e che il Sessantotto aveva invece cercato - senza riuscirci, o riuscendoci malamente, e per troppo poco tempo - di superare. Non che tutto ciò elimini l'importanza degli snodi della storia e della letteratura italiane, come di quelle greche, romane o ebraiche (le nostre famose «radici»!), per comprendere e interpretare il mondo d'oggi. Ed è altrettanto vero che la letteratura zulù - se esiste - non ha prodotto un Tolstoj (e neanche un Dante), come aveva fatto notare a suo tempo Saul Bellow; per cui sarebbe certo sbagliato «mettere tutto sullo stesso piano». Ma rinchiudere il problema dell'educazione - che non è solo «scuola» in senso stretto, ma anche e soprattutto formazione permanente - nei confini di una identità nazionale da ritrovare è una nuova manifestazione di quell'ottusità sociale nei confronti del presente che aveva impedito all'establishment del tempo (e impedisce ancora a quello di oggi) di fare i conti con il Sessantotto.
In nome del Pil
Rispondendo a Galli il tre volte ministro dell'economia Giulio Tremonti ha proposto addirittura di abolire il numero 1968 (per scaramanzia; come sugli aerei dell'Alitalia e/o Cai è abolita la fila 17, perché nessuno vuole sedersi lì) e rivalutare invece i numeri 10, 9, 8, 7, 6, ecc. Cioè voti al posto di giudizi (ottimo, buono, discreto, insufficiente): il che, come ha fatto notare Tito Boeri su lavoce.info non cambia proprio niente. Ciò a cui Tremonti voleva forse alludere è l'eliminazione di tutte quelle scartoffie che gli insegnanti sono costretti a compilare invece di aggiornarsi e di preparare le lezioni. Ma questo, con il Sessantotto, che cosa c'entra? Sono stati forse i cortei, le assemblee e i gruppi di studio del Sessantotto a introdurre quelle scartoffie?
C'è qualcosa di ottuso in questo culto dei numeri di Tremonti, che non ha niente a che fare con il culto della matematica di Galli. È quella stessa ottusità sociale che spinge il ministro Renato Brunetta (un altro nemico del '68) a misurare la produttività della Pubblica amministrazione con le ore di presenza degli impiegati dietro le scrivanie. Ottusità tanto maggiore perché entrambi, come tutti gli economisti, sommano poi salari e stipendi erogati (risparmiandoci, bontà loro, bustarelle e tangenti) per calcolare il «valore aggiunto» della Pubblica Amministrazione: cioè il suo contributo al Pil, indicatore supremo di successo o di insuccesso di una politica («Crescita! Crescita! Crescita!»). Ben prima di Serge Latouche (il teorico della «decrescita»), era stato il '68, e prima ancora Robert Kennedy, a sostenere che le cose non stanno così: perché la «produttività» di una persona, cioè il suo contributo al bene comune , va misurata in modi - certo più complessi e aleatori, perché più «mirati» su contesti specifici e circoscritti - capaci di promuovere la responsabilità di tutti (a partire da chi ha ruoli dirigenti): non solo per quanto (quante pratiche, e per quante ore?) e per come (magari eliminando i passaggi inutili) si fa un determinato lavoro; ma anche per quello che si fa: entrando cioè nel merito degli obiettivi che si perseguono con quel lavoro. Il che non si può fare in ordine sparso, ciascuno per conto proprio, ma solo in modo collettivo : attraverso una consultazione reciproca di chi è coinvolto: se si vuole, quelli che oggi si chiamano stakeholder.
Educazione catodica
Infine, sempre sul Corriere della Sera , ecco in sette parole la ricetta del ministro Mariastella Gelmini: «Autorevolezza, autorità, gerarchia, insegnamento, studio, fatica, merito». Caduto ogni riferimento alle «Tre I» (inglese, informatica e impresa) della precedente «riforma della scuola», sponsorizzata dal suo principale, e mai realizzata e nemmeno tentata. Era solo una trovata, come lo è questa: per nascondere il vuoto di proposta e soprattutto di finanziamenti. Ma, prescindendo dall'autorevolezza (che ha poco a che fare con le strade che hanno portato il ministro Gelmini al governo del paese, o anche solo a diventare avvocato), se autorità e gerarchia si combinano bene in un manifesto anti-'68 (ma in epoca di «organigrammi piatti» persino nelle aziende, la cosa suona un po' retrò ), la fatica non sempre è merito (è più spesso una condanna senza contropartite) e, quanto al rapporto tra insegnamento e studio, rimane aperto il quesito di che cosa insegnare e che cosa studiare perché queste due attività non girino a vuoto. Problema non secondario.
Quello che il ministro Gelmini comunque non può spiegare è con quali strumenti - con quale «temperie culturale» intenda imporre nelle scuole il ritorno ai valori che propone. Forse con la cultura che da oltre trent'anni il suo principale diffonde in Italia con le televisioni (sia quelle sue che quelle non sue): pubblicità, reality show , calcio e fiction edificante (Tette, Totti e Padre Pio)? E da dove hanno imparato il bullismo gli studenti? Glielo ha insegnato il Sessantotto o il mondo attuale dagli adulti che ne è pervaso fin dentro le «istituzioni»? E chi lo ha insegnato e lo insegna a entrambi, grandi e piccini? Non è forse quel sistema di «educazione permanente televisiva» che ha messo da tempo al palo - niente di più facile, d'altronde: sono più le ore passate davanti al televisore che quelle sui banchi di scuola - quei «contenuti» incentrati su storia e letteratura nazionali che Galli della Loggia propone di reintrodurre a scuola per restituirle «senso»? Senza essersi accorto, peraltro, che sono proprio quelle le cose che si continua a cercare di insegnare nelle nostre scuole; con sempre minor successo. Perché sempre meno gli insegnati, e soprattutto l'istituzione, sono messi in grado di misurarsi con i problemi che la condizione esistenziale delle nuove generazioni pone loro di fronte.