Per spiegare l’instaurazione del regime berlusconiano in Italia si possono addurre svariate cause. Ma per definire la sua natura, cioè per afferrare il suo elemento essenziale e caratterizzante, bisogna trovare quale sia la causa prima, cioè fondamentale e determinante. Per arrivarci, la strada c’è, abbastanza evidente. Basta partire dalla sproporzione tra la domanda di giustizia e di dignità nella vita pubblica, che si è manifestata nel corso del primo decennio di questo secolo in questo paese, e l’offerta di guida politica che tale domanda ha incontrato. Mancando il secondo elemento, il primo ha sempre difficoltà a restare attivo senza alterarsi in qualche modo nella necessaria ricerca di qualche equilibrio. La democrazia delegata non è infatti un’imposizione di alcuno, ma la semplice conseguenza del fatto che la politica non si presta ad essere l’attività principale delle persone (o, viceversa, la maggior parte delle persone non ha effettivamente modo di fare della politica la principale attività); ed è, d’altra parte (o anche perciò), un’attività molto delicata e molto esigente.
Torniamo per un momento a vedere la questione dal lato della domanda. Questa si è manifestata, in diversi modi e in diverse occasioni, come veramente forte e significativa. Tra i suoi segni, basta ricordare i milioni di persone che marciarono contro la guerra e le sue menzogne, anche in Italia, il 17 marzo 2003; quindi, le bandiere arcobaleno che per mesi e talvolta per anni quasi cambiarono il paesaggio anche delle nostre città prima di annerirsi e appassire in umiliante inefficacia. Tutto ciò è sembrato quasi annullato, quasi inghiottito da una voragine, quando si è trattato di costruire un equilibrio politico conforme, o non alieno, mediante meccanismi elettorali certamente molto artefatti, ma non per questo impraticabili: si tratta, naturalmente, del disastro del 2008, ma anche delle elezioni del 2006 (che l’ “Unione” non fu in grado di propriamente vincere, mentre non fu poi neanche in grado d’interpretare con rigore e chiarezza il loro comunque evidente e oggettivo mandato).
Bisogna allora spiegare la voragine, perché è qualcosa di simile che il regime è venuto a riempire (secondo quella che, per semplicità, potremmo anche chiamare una “legge di natura”). Bisogna capire quale assenza l’abbia provocata. Altrimenti è inutile affannarsi a cercare di rimuovere con strumenti inadeguati la massa di effettiva sostanza che ha occupato il suo spazio in modo solido e razionalmente legittimo nelle condizioni date (che sono, inutile dirlo, a loro volta irrazionali e inaccettabili).
Qual è stata l’assenza che ha lasciato senza risposte la domanda di giustizia e di dignità dell’Italia delle bandiere arcobaleno spontaneamente diffuse pochi anni fa? È una domanda da formulare con ancora più forte determinazione proprio adesso che quella stessa Italia ritorna a esprimere se stessa attraverso la generosa e generale rivolta per la difesa e la salvezza della scuola: proprio adesso, per evitare che tutto ciò si perda ancora.
Bisogna ringraziare Alberto Asor Rosa per essere stato forse il primo a dare la risposta in modo diretto e semplice sul manifesto il 1° ottobre 2008. Non c’è stato cioè un partito – un partito grande, rappresentativo e autorevole – che portasse quel complesso di domande e di sentimenti a operare con efficacia al livello del potere.
L’Italia, naturalmente, non è isolata entro il sistema di civiltà di cui costituisce parte del nucleo centrale e più evoluto. Non si può trattare né il berlusconismo né la crisi e l’eclissi della politica democratica, di cui il berlusconismo è la rivelazione, come se si trattasse di un’aberrante anomalia senza corrispondenze né radici nel sistema transnazionale del capitalismo odierno. Su ciò torneremo naturalmente ancora, in altre occasioni. Ma il caso italiano richiede di essere compreso per ciò che ha di proprio, e non soltanto perché queste parole vengono scritte qui.
La causa immediata e determinante della dissoluzione della politica democratica, in Italia, sembra da riferire alla caduta del potere temporale del comunismo. Naturalmente, non in modo diretto, dal momento quell’evento era necessario, giusto e maturo; piuttosto, si è trattato del modo in cui la caduta del potere temporale del comunismo è stata interpretata e tradotta in iniziativa.
Comunista era infatti (impropriamente come sempre e in linea di principio, ma in modo storicamente spiegabile e sensato) il nome del partito più grande e più autorevole tra quanti potessero esprimere quella moltitudine di convinzioni e di motivi, di sentimenti e di ragioni, di cui il fiorire delle bandiere arcobaleno era stata ancora una manifestazione (nuova e mutata, responsabile e laica, e tuttavia vitale e in qualche modo riconoscibile). Non casualmente – caso unico nel contesto dei paesi capitalistici più sviluppati dell’Occidente – era un partito di tale nome che rappresentava in Italia la larga maggioranza delle situazioni sociali e delle culture che vanno a loro volta sotto il nome di movimento operaio. Pur avendo quel nome preciso e determinato, il partito comunista italiano aveva la sua specifica ragion d’essere, e le radici della sua forza, in una costante tensione a coltivare e rendere operante ciò che univa le diverse storie e le diverse esperienze del rivoluzionario processo di emersione del lavoro umano dall’umiliazione servile alla sua inerente dignità. Gli altri partiti della cosiddetta “Prima repubblica” (per usare questo termine improprio, che le sue sempre più aperte implicazioni eversive rendono infausto) ne avevano riconosciuto in qualche modo il valore e l’esempio nei periodi migliori: prima, cioè, della loro trasformazione in torbidi comitati d’affari. Tale loro trasformazione, come è noto, ebbe luogo durante e soprattutto dopo gli equivoci, i tragici irrigidimenti e le oscure imposizioni che avevano avvelenato, reso sterile, e infine ovviamente chiuso, l’esperienza della “solidarietà nazionale”. A questa, pertanto, era stato impedito di svolgere la sua storica e necessaria funzione, cioè quella di completare la transizione della giovane e insidiata democrazia italiana a piena maturità.
Il crollo dell’Unione Sovietica privò improvvisamente di ogni copertura internazionale (e, di riflesso, interna) le vantaggiose illegalità di cui la DC, il PSI, e altri minori partiti, avevano potuto fare i loro normali strumenti di potere e di governo finché la loro funzione locale era richiesta nel quadro della ristrutturazione mondiale globale dell’economia e del potere che ebbe luogo durante l’ultimo quarto del Novecento. Quel processo globale determinò il modo in cui la guerra fredda finì (che fu un modo sostanzialmente disastroso per il genere umano, malgrado le apparenze, e malgrado anche il sostanziale e immediato sollievo di molte situazioni intollerabili).
Per quanto riguardava la guerra fredda, il partito comunista italiano aveva fatto dell’auspicio della sua fine una vera ragion d’essere. Il suo gruppo dirigente di allora trattò quindi quella fine come un suo successo e come l’esaurimento del suo compito. Questo atteggiamento, logicamente ineccepibile, era però del tutto inadeguato all’effettività dei processi in atto.
Il PCI avrebbe fatto meglio a cambiare nome molto prima, conservando tuttavia (e rinnovando adeguatamente) un ruolo come fattore di attiva e profonda trasformazione della struttura della società e del potere. Ma le intuizioni di Berlinguer che indicavano questa direzione di marcia furono lungamente isolate e neutralizzate ai suoi vertici fino alla sua morte e soprattutto dopo. Di conseguenza, al momento della “svolta della Bolognina”, ciò che accadeva nel PCI era ormai, sistematicamente, l’esatto contrario di questo.
Malgrado molte apprezzabili intenzioni, quindi, l’effetto reale di quella svolta fu la rimozione degli ultimi residui di una tradizione che aveva comunque un merito e una funzione da sviluppare. Cioè, niente più finì per ricordare (almeno) la necessità di una politica che sia sempre in grado di sfidare con piena indipendenza il dinamismo spontaneo del potere, cioè la forza intrinseca del denaro e della proprietà privata, e di tendere sempre in modo consapevole e libero (non meno che responsabile) a interpretare efficacemente ciò che il denaro e la proprietà privata da sé non sanno riconoscere: l’interesse generale, o il “bene comune”.
Da ciò si può meglio comprendere il senso della trasformazione di una parte consistente di ciò che era stato il PCI in “partito democratico della sinistra”, quindi (previa cooptazione di alcuni circoli elitari di personale politico) in “democratici di sinistra”, e infine in “Partito democratico” (previa analoga operazione su scala più larga e significativa, arricchita in parte dal coinvolgimento di radicate e illustri tradizioni di cultura politica diffusa). Tutte queste metamorfosi sono state profondamente contrassegnate da un fondamentale atteggiamento di passività nei confronti delle tendenze più forti anarchicamente manifestate dalla società civile (intendendo qui come “anarchica” non certo la chimerica immagine di una società senza potere, ma la presa d’atto del modo in cui il potere spontaneamente si distribuisce e, soprattutto, non si distribuisce e piuttosto si concentra).
La pseudocultura della globalizzazione, diventata frequentemente quasi un altro nome del fato o della legge divina, è quindi profondamente penetrata nel linguaggio e nella mentalità di questa formazione politica, attraverso le sue successive metamorfosi. La “vocazione maggioritaria” che la sua ultima reincarnazione, cioè il Partito democratico, ha più volte rivendicato a sé come tratto distintivo, consisteva essenzialmente in questa scelta di ineluttabile adattamento; e inoltre nella presunzione, assolutamente indimostrata, che la grande maggioranza delle persone fosse a sua volta adattata, e desiderosa di adattarsi, precisamente a quel genere di processi e di trasformazioni. In realtà, tutto ciò ha significato lasciare moltissime persone assolutamente sole nell’interpretare il proprio disagio quotidiano, e verosimilmente, abbastanza spesso, uno stato di totale disillusione. Soltanto a partire dalla disillusione e dalla conseguente rinuncia a inseguire un senso si può infatti spiegare la delega plebiscitaria a trovare comunque soluzioni affidata a un capo che non cessa di stupire il mondo per la sua capacità di essere preso comunque sul serio; e soltanto così si può spiegare la contemporanea e strettamente connessa formazione, intorno al suo potere personale e come suo filtro, di un coacervo eterogeneo di sottoculture particolari e spesso incompatibili tra loro, non raramente cresciute in aree del paese tradizionalmente “rosse”.
Ma questo solo insieme di fattori – cioè l’involuzione e l’auto-neutralizzazione, in quella forma, di gran parte di ciò che era stato il PCI – non basta per rendere ragione della catastrofe in cui siamo precipitati. Dal 1992 a oggi, quelle parti dell’ex PCI, o in qualche modo adiacenti, che si dissociarono da tale processo, portano responsabilità analoghe e speculari. Già la stessa scelta della scissione che portò alla nascita di “Rifondazione comunista” si prestava ad essere compresa, e fu effettivamente sviluppata, come rinuncia a continuare entro la nuova formazione politica (e in modo finalmente chiaro) lo stesso genere di lotta d’idee e di orientamenti che aveva lungamente tenuto in qualche modo a freno, all’interno del PCI, i fautori di un processo di assimilazione ad altro e di dissoluzione della sua feconda e “anomala” specificità. Soltanto dopo la Bolognina e la successiva scissione, appunto, i fautori di quel processo di assimilazione ebbero pieno e definitivo successo spazzando via un “centro” diventato improvvisamente, e minoritariamente, “sinistra”. Ma assimilazione, appunto, a che cosa precisamente? Precisamente, a qualcosa che era ideologicamente e inconsistentemente definito mediante termini come “modello occidentale” e altre simili astrazioni, ed era in realtà il particolare e molto discutibile insieme di situazioni determinate che orientavano la distribuzione del potere e delle risorse, e le sue regole fondamentali ed effettive, in quella fase specifica della storia multiforme della civiltà capitalistica.
I destini paralleli di quelle che da allora, con un po’ di esagerazione in diversi sensi, furono definite spesso le “due sinistre” (né serve adesso soffermarsi sui bizzarri e casuali aggettivi di volta in volta utilizzati per distinguere queste due cose, a loro volta così denominate), erano in fondo già scritti in questa origine. Appare possibile cioè riassumerli in uno sterile gioco di contrapposizione, a somma negativa, tra una lapalissiana e velleitaria “vocazione maggioritaria” e una raramente confessata ma chiarissima vocazione minoritaria.
Come chiarire questi confusi e inconsistenti concetti? Bisogna forse cominciare a osservare questo innanzitutto: ciò che Enrico Berlinguer aveva lasciato agli eredi come il più grande partito italiano (giacché, come raramente si ricorda, gli italiani lo avevano reso tale con il loro voto immediatamente dopo la sua morte) era sì veramente un partito cui un termine come “vocazione maggioritaria” poteva in qualche modo riferirsi. Naturalmente, il termine sarebbe stato appropriato nel suo caso soltanto se inteso nel solo senso (meglio espresso dalla parola “egemonia”) che abbia rilevanza per un partito politico piuttosto che (ad esempio) per un’emittente televisiva commerciale (anche se perfino questa, come purtroppo si è visto, può agire anche diversamente). Si trattava cioè, e si tratta per principio, della costante tensione a unire il massimo possibile di giuste attese e di giuste domande, e di farlo in modo attivo e creativo (cioè non come potrebbe fare un puro agente intermediario, quale un notaio): soprattutto, non soltanto le attese e le domande (o pressioni) già in grado di organizzarsi e di pesare, ma anche e in primo luogo quelle disperse, deboli, o perfino non del tutto consapevoli.
L’Italia aspetta da vent’anni un partito con queste caratteristiche, di cui è priva. Ne attende uno con un grado di urgenza che non può essere sottovalutato mentre pure si deve riconoscere l’estrema improbabilità che vi si risponda entro gli esistenti equilibri e le esistenti inerzie della situazione in cui, dovunque, ci troviamo.
La sola ragione che può indurre a non disperare è forse la disperazione stessa, che tutte le persone dotate di spirito e di coscienza (tra cui sono da includere anche forse non pochi di coloro che abbiano una tessera di partito, un incarico elettivo non sempre gratificante in qualche ente locale, o perfino un più o meno piccolo beneficio garantito dalla lealtà a un apparato, che consenta di vivere) molto verosimilmente provano più o meno spesso in Italia oggi. Tutte queste persone in carne e ossa possono unirsi, cioè aiutarsi reciprocamente a rendere operante l’essenziale di ciò che si esprime in ogni urgente rifiuto, in ogni spontaneo impulso ad adoperarsi a favore della decenza, dell’accoglienza, dello spirito di cittadinanza e del comune riconoscimento dell’umanità, anche già in una via o in un quartiere. Dovrebbero unirsi su questo e per questo, che è in gioco adesso, e può essere perduto e non più lungamente ritrovato, operando là, dove attualmente si trovano. Gli effetti, allora, verranno.
Anzi, qualcosa di simile già accade. L’autunno italiano del 2008, che ha sorpreso tutti i fatalisti, non sarebbe stato possibile in alcuna delle sue manifestazioni, in alcuna delle sue piazze gremite e consapevoli, se più di una volta le stesse persone, comunque avessero votato o non votato in maggio, e qualunque cosa pensassero dei promotori, non le avessero popolate.
Ogni discussione preventiva su ciò che partiti e sistemi elettorali, identità e aree di insediamento, dovrebbero essere in un futuro indeterminato (che forse non ci sarà), si presenta oggi, rispetto a tutto ciò, come una perdita di tempo non permessa dalla vita: simile, per chiarire, alle frettolose e imbarazzanti operazioni organizzative e pubblicitarie che diedero breve esistenza alla lista arcobaleno e al conseguente inevitabile disastro (dopo anni di discettazioni tristemente comparabili alle dispute tra teologi in Costantinopoli assediata).
Naturalmente, il regime berlusconiano non è un episodio. La sua forza e il suo radicamento opporrebbero comunque una formidabile resistenza, anche soltanto inerziale, alla migliore combinazione di scelte giuste che fossero fatte da oggi stesso. Tuttavia, la crisi ormai epocale di questa particolare forma di capitalismo, che scuote certezze e luoghi comuni consolidati, e mette in discussione corrispondenti equilibri, presenta non soltanto pericoli di ulteriore involuzione autoritaria (sotto l’insegna principale dell’identitarismo e del razzismo), ma anche occasioni per l’esercizio della giusta egemonia.
Questi non sono tempi ordinari. C’è una strana sproporzione tra l’eccezionalità dei tempi e l’inerzia dei costumi e dei riti della politica, che riguarda tutti, compresa la sinistra dichiaratamente radicale e perfino comunista. La persone in carne ed ossa sanno e sentono che i tempi non sono ordinari. Le persone in carne ed ossa che hanno reso possibile l’autunno italiano esprimono una domanda politica forte e maggioritaria, radicale nelle cose e non necessariamente nei linguaggi (o nelle bandiere). Radicale non per partito preso. Ma un partito che efficacemente e saggiamente la esprima e la rappresenti, che la serva e la orienti al tempo stesso, quello sì, certamente, ci vuole. Ci vuole adesso, e non c’è. Questa è la sfida.
Se ciascuno, stando al suo posto, cominciasse a fare come se un tale partito ci fosse? Non è una bizzarria. È proprio quello che la gente ha cominciato a fare nelle piazze dell’autunno italiano. Se uno sciopero generale indetto dai comitati di base richiama nelle strade di Roma centinaia di migliaia di persone, ciò non significa che i suoi organizzatori, per quanto generosi, le rappresentino tutte. E se Veltroni trova intorno a sé due milioni e mezzo di persone al Circo Massimo, ciò non dipende certo esclusivamente dalla capacità di persuasione dei dirigenti del PD e dalla loro attuale capacità o volontà di rappresentare un’alternativa. Le piazze dell’autunno italiano, nel loro insieme, nel loro reciproco alimentarsi e confondersi, non hanno risposto all’appello di questo o quel gruppo dirigente. Hanno rivolto un appello.
Un’ulteriore mancanza di risposte sarebbe grave, imperdonabile, e nefasta.