Il manifesto, 19 luglio 2016
Il 17 luglio di ottanta anni fa, un «pronunciamiento» militare prese le mosse dal Marocco, estendendosi il giorno successivo in tutta la Spagna, secondo un piano da tempo preparato da alcuni generali spagnoli. L’intento dei cospiratori era quello di provocare la caduta del governo repubblicano e di imporre un regime autoritario.
Dopo tre giorni, il golpe poteva considerarsi parzialmente fallito: la spontanea reazione da parte delle masse popolari, che risposero all’appello per una difesa in armi della Repubblica lanciato dai partiti vincitori delle elezioni nel febbraio dello stesso anno e dai sindacati, diede vita una guerra che, seppur combattuta solamente sul suolo iberico, coinvolse tutto il mondo e, in modo particolare, l’Italia. Non solo perché i golpisti ottennero il sostegno di Mussolini, che inviò oltre a un ingente quantitativo di materiale bellico un corpo di spedizione di circa cinquantamila soldati, ma anche perché a fianco del legittimo governo accorsero circa quattromila volontari antifascisti. Combattere in Spagna fu un’esperienza coinvolgente e drammatica per molti giovani italiani, convinti fascisti seppure di sinistra che, in quell’estate del 1936, videro cambiare la propria vita.
Ripensamenti politici
Tra coloro che iniziarono un sofferto ripensamento sull’essere giovani intellettuali fascisti, alcuni svolgeranno in seguito un ruolo importante nello scenario politico e culturale del secondo dopoguerra italiano e citiamo, solo per indicare i più noti, Pietro Ingrao, Elio Vittorini, Vasco Pratolini, Mario Alicata, Antonio Amendola, Paolo Bufalini, Antonio Giolitti, Renato Guttuso, Lucio Lombardo Radice e Aldo Natoli.
La presenza di futuri dirigenti del Pci e di «intellettuali organici» a partire dal 1945 non significa, come ha fatto notare Claudio Pavone, che sia esistita una continuità tra l’esperienza politica dei giovani fascisti di «sinistra» e il loro diventare comunisti. Non vi era dunque un universo giovanile fascista, predestinato a muoversi, fatalmente, verso lidi antifascisti e prioritariamente comunisti, essendo essi, come ebbe a definirli Togliatti, «comunisti che si ignoravano».
Colui che testimoniò con forza e più volte questo percorso fu Vittorini, che nel 1945 sul primo numero de Il Politecnico non solo rendeva un omaggio al martoriato popolo spagnolo ma, ricordando quei giorni, tracciava un bilancio delle proprie scelte politiche e umane. «La guerra civile di Spagna – affermava lo scrittore siracusano – ha una grande importanza nella storia italiana. Tutta la gioventù italiana era senza contatto, prima del luglio 1936, con il mondo della democrazia progressiva. Dobbiamo dirlo: l’antifascismo italiano risultava morto per gli italiani; era tutto all’estero, emigrato, o era in prigione, era al confino, chiuso in se stesso e molti di noi non l’avevano mai conosciuto. Madrid, Barcellona… Ogni operaio che non fosse un ubriacone e ogni intellettuale che avesse le scarpe rotte, passarono curvi sulla radio a galena ogni loro sera, cercando nella pioggia che cadeva sull’Italia, ogni notte dopo ogni sera, le colline illuminate di quei due nomi. Ora sentivamo che nell’offeso mondo si poteva essere fuori della servitù e in armi contro di essa».
L’altro cammino
Non fu un percorso facile e neppure lineare. Come ha giustamente sottolineato Emilio Gentile, il paradigma mussoliniano appariva con un futuro entusiasmante per le nuove generazioni, soprattutto per quelle cresciute culturalmente nel contesto totalitario dove la percezione della realtà era condizionata dalla propaganda fascista che, come sottolineò Vittorini, era riuscita a instillare «nei giovani l’illusione di essere rivoluzionari ad esser fascisti».
Sia che fossero già delusi dal fascismo dopo una giovanile e convinta adesione, sia che lo fossero diventati dopo l’appoggio del regime ai nazionalisti spagnoli che si presentava davanti ai loro occhi come un atto antirivoluzionario, la tragedia spagnola rappresentò una svolta esistenziale, portandoli verso una dura e sofferta autocritica che li rese consapevoli di come avrebbero potuto riacquistare la dignità soltanto dotandosi di un nuovo codice comportamentale.
La reazione del proletariato spagnolo segnava un nuovo inizio, mentre, contemporaneamente, con l’aiuto ai generali golpisti, il fascismo, fino a quel momento difeso nonostante tutto, gettava la sua maschera mostrando il proprio fallimento. Ma le notizie giunte attraverso le radio a galena, non dimostravano solo questo.
Per alcuni la guerra civile spagnola non rappresentò soltanto un esempio concreto di lotta antifascista ma – grazie all’influenza dei movimenti letterari e artistici europei, idealmente partecipi a fianco della repubblica spagnola – si inserì in un più ampio paradigma di sprovincializzazione della cultura italiana. Se in un primo tempo i temi della discussione si ispiravano alla vecchia tradizione antifascista, la guerra civile di Spagna – con l’aggressione da parte dell’oligarchia terriera, di buona parte dell’esercito e dei vertici della Chiesa cattolica a quanti si battevano per una democratica modernizzazione del paese – poneva di fronte i più giovani a una nuova realtà.
Dopo l’estate del 1936 non si sentirono più isolati dal resto del mondo, perché attraverso le notizie che filtravano tra le maglie della censura avevano capito di essere in sintonia con le forze migliori della cultura europea e americana, da Hemingway a Orwell, passando per Malraux, ovvero intellettuali che si stavano battendo a fianco dei repubblicani spagnoli. Un elemento che non rappresentava solo un fatto d’armi e una solidarietà politica militante, ma una esaltante novità culturale. Attraverso la fucilazione di Garcia Lorca, l’Italia scoprì come il mondo culturale spagnolo non si fosse fermato a Miguel De Unamuno, ma esistessero anche Antonio Machado, Juan Ramón Jiménez e Rafael Alberti. Parimenti, comprese come le ragioni dell’antifascismo potessero trionfare non solo grazie alla lotta della classe operaia in armi, ma anche attraverso il linguaggio rivoluzionario del cubismo, adottando il rinnovamento narrativo espresso da Hemingway, oppure ascoltando le nuove espressioni musicali. In questo clima, maturarono consapevolezze che resero ineluttabile l’esigenza di fare i conti anche con una tradizione culturale italiana, fino a quel momento inadeguata non solo a resistere al fascismo, ma soprattutto a fornire, una volta resasi chiara la sua natura totalitaria, gli strumenti per combatterlo.
Nel suo libro, tuttora attuale, sugli intellettuali e la guerra di Spagna, Aldo Garosci affermava che il dramma della Spagna simboleggiò, per una parte della giovane generazione intellettuale italiana alla vigilia e durante la lotta della liberazione, il ritorno del problema etico nella politica.
Nuovi sentimenti
Non importa se si trattò di un’esperienza minoritaria debole e confusa, che agiva da una parte all’interno di un mondo dominato dalla «fabbrica del consenso totalitario» tutta protesa alla creazione di un «mondo» e un «uomo nuovo», e dall’altra dalla mancanza di contatti con l’antifascismo tradizionale, trovatosi, dopo la guerra d’Etiopia, in una condizione di crisi e disorganizzazione. Era la prima volta che nel soffocante controllo culturale imposto dal regime, si prendeva coscienza di come nella realtà della vita quotidiana, l’intellettuale italiano potesse e dovesse recitare il proprio ruolo, facendo confluire il suo impegno culturale, per utilizzare un termine coniato da Vittorini, nella «ragione antifascista». Una ragione che si formò «non per trasmissione di esperienza da padri a figli e da vecchi a giovani, ma per dure, brutali lezioni avute direttamente dalle cose e dentro le cose, per lente maturazioni individuali, per faticose scoperte di verità, tutta auto-educazione, e tutta tra il luglio del ’36 e il maggio del ’39».